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Editoriale Raffaele Crocco
Un Palazzo di vetro sempre più fragile.
Sono ambigue le guerre umanitarie
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UNHCR/R. Gangale
Èun termometro impazzito quello che ha misurato la temperatura del Mondo, negli ultimi dodici mesi. La colonna di mercurio è arrivata a temperature da febbre alta con le rivoluzioni – lo saranno state davvero? – del mondo arabo e islamico, finite in vittoria o finite nel sangue. Sono continuate le guerre in Africa, gli attentati. È iniziata la guerra in Libia, che doveva essere breve e umanitaria, ed è finita con la morte di Gheddafi. È terribile questa idea della “guerra umanitaria”, della “guerra giusta”. Si è fatta strada negli anni per giustificare interventi armati e partecipazione attiva a conflitti. È diventata, questa idea, la grande maschera che usiamo per spiegare e spiegarci che, a volte, fare la guerra è indispensabile per portare ”pace, giustizia e democrazia”. Così, abbiamo inculcato ai cittadini la convinzione che ci possono essere guerre tollerabili, a cui partecipare. Purché, ovvio, siano lontane, in altri luoghi, magari esotici. Il conflitto in Libia è un buon esempio di questo modo di pensare molto moderno. Tanto moderno da essere condiviso da destra e sinistra: a sdoganarlo, all’inizio degli anni ’90, furono il democratico Bill Clinton e il laburista Tony Blair. L’opinione pubblica si è divisa fra chi riteneva giusto intervenire per bloccare il massacro dei ribelli e dar loro una mano per conquistare la libertà e chi pensava fosse assurdo andare a bombardare Gheddafi, considerato un buon amico pochi giorni prima. Sembra siano pochi coloro che hanno pensato che, forse, non è una soluzione mettere fine ad una guerra con una guerra, uccidere per evitare che si uccida. Contraddizioni, quelle di sempre, le stesse che condizionano la politica internazionale. Le medesime che fanno delle Nazioni Unite uno strumento troppo spesso insufficiente. Lì, al Palazzo di Vetro, a settembre è però successo qualcosa di davvero importante. Abu Mazen, Presidente dell’Autorità Palestinese, è andato a chiedere agli Stati membri dell’Onu che venga riconosciuta l’esistenza dello Stato di Palestina, ammettendolo all’Assemblea Generale. L’idea ha contro Israele, avrà il veto di Stati Uniti e Unione Europea, ma ha nel mondo più appoggi di quanti si creda. E soprattutto ha nel fondo la possibilità di tracciare un cammino verso la pace fra israeliani e palestinesi, mettendo all’angolo le fazioni integraliste degli uni e degli altri, le stesse che da decenni sabotano ogni serio tentativo di dialogo. L’episodio ha in ogni caso rimesso l’Onu al centro delle cose del mondo. Ha ridato respiro ad una istituzione internazionale in permanente difficoltà politica ed economica, ma ancora centrale per chi spera in soluzioni rapide ed eque dei conflitti del Pianeta. Tutto, ancora, passa di lì e la cosa è talmente evidente che le grandi nazioni – o chiunque abbia a cuore solo i propri affari – fanno di tutto per svuotare le Nazioni Unite di ruolo e credibilità. Quella credibilità che, ad esempio, era stata persa nella strage di Srebrenica, il 9 luglio del 1995. Le truppe serbe di Mladic, quel giorno, massacrarono più di 8mila uomini musulmani davanti a 600 Caschi blu olandesi, comandati dal colonnello Thorn Karremans. Gli uomini dell’Onu erano lì per garantire una “zona protetta” alla popolazione bosniaca. Non fecero nulla, in nome delle “regole d’ingaggio” che – dissero – impedivano loro di intervenire. In luglio, quest’anno, un tribunale olandese ha riconosciuto la responsabilità di quei soldati olandesi nel massacro, condannando l’Olanda a risarcire le famiglie di alcune vittime. Sono passati sedici anni, ma un po’ di giustizia è fatta. E un po’ di aria buona – anche in questo caso di credibilità – al mondo è arrivata dai Premi Nobel del 2011. Si chiedeva fosse dato alle donne africane, in parte è stato così. Lo hanno assegnato a due donne africane, Ellen Johnson – Sirleaf e Leymah Gbowee e a una donna yemenita, Tawakkul Karman. Un premio condiviso fra chi condivide la lotta all’ingiustizia e alla corruzione, fra chi si batte da sempre per affermare diritti che sulla carta sono elementari, ma nei fatti non esistono. Le donne di tutto il mondo sanno bene cosa significa vivere con diritti monchi. La speranza è che assegnar loro il Nobel non sia stato solo un modo per farle star buone.