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Nagorno Karabach
Situazione attuale e ultimi sviluppi
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L’operazione “anello”
A scatenare la guerra aperta fra azeri e armeni, furono, tra il 1988 e il 1991, decine di scontri armati e soprattutto pogrom, scatenati dagli uni e dagli altri: ad Askeran, Sumghait, Baku, con decine di morti e migliaia di persone costrette a lasciare negozi e proprietà. Di portata più ampia, sul piano militare, fu invece l’Operazione Anello, lanciata dai militari armeni con il sostegno delle unità speciali (Omon) della polizia sovietica, allo scopo di deportare in massa la popolazione armena residente nella regione di Chahumian e schiacciarne così in nuce qualsiasi velleità di unificazione con la madre-patria. Concepita male e gestita ancora peggio, l’Operazione fallì ed anzi si rivelò un boomerang per gli azeri. La coraggiosa resistenza dei locali attirò infatti centinaia di volontari armeni sia dall’Armenia che dall’estero, rafforzando da un lato il convincimento che bisognasse combattere per affermare i propri diritti e conquistando dall’altro, alla causa armeno, il sostegno di buona parte della comunità internazionale. Si è concluso senza accordi il vertice del 25 giugno a Kazan, in Russia, fra il Presidente dell’Armenia, Serzh Sargsyian, e quello dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, per tentare una soluzione pacifica del contenzioso armato che dal 1988 divide i due Paesi sul Nagorno-Karabakh. Svanisce perciò, almeno per il momento, la road map in 14 punti cui lavora da anni la comunità internazionale, attraverso la mediazione russa e il cosiddetto “gruppo di Minsk” creato già nel 1992 dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), per dare uno status condiviso a questa piccola enclave armena situata in territorio azero, che è stata teatro di un lungo e sanguinoso conflitto, al momento “congelato”, e si è auto-proclamatasi indipendente nel 1992, anche se nessuno Stato l’ha mai riconosciuta tranne l’Armenia. Il rischio è possa venir vanificato il lento ma promettente processo di pacificazione faticosamente avviato negli anni scorsi: in particolare con i primi impegni sottoscritti a Mosca nel 2008, con l’accordo sullo scambio dei prigionieri sottoscritto ad Astrakan il 27 ottobre 2010 e, infine, con la dichiarazione congiunta di Astana del 2 dicembre 2010, in cui sia Sargsyan che Aliyev si sono impegnati ad una soluzione del conflitto che si basi sul rispetto del diritto internazionale e della carta dell’Onu. Il timore vero però è che i venti di guerra possano riprendere a soffiare, causando un nuovo conflitto, magari su larga scala. A lanciare l’allarme l’8 febbraio è stato l’International Crisis Group (Icg), che ha puntato il dito sia contro il massiccio riarmo dell’Azerbaijan, sia contro l’aumento delle scaramucce lungo la “linea di contatto” che vede schierati i soldati azeri e quelli armeni. “Un ulteriore deterioramento delle condizioni di sicurezza – ha concluso il rapporto dell’ Icg – rischia di rendere molto più difficile un accordo di pace”. Certo, non può che suscitare inquietudini il fatto che le spese militari dell’Azerbaijan siano cresciute nell’ultimo anno del 45%, passando nel 2011 a 3,1 miliardi di dollari su un budget statale complessivo di 15,9. E preoccupano anche le violazioni ormai sistematiche della tregua in vigore dal 1994: secondo l’Icg i morti sarebbero almeno una trentina l’anno, mentre le violazioni accertate dall’Onu sono più di 700 solo negli ultimi sei mesi del 2010, con uno
NAGORNO KARABACH
Generalità
Nome completo: Repubblica del Nagorno-Karabakh Bandiera
Lingue principali: Capitale: Popolazione: Area: Religioni: Moneta: Principali esportazioni: PIL pro capite: Armeno Stepanakert 138.000 11.458 Kmq Musulmana, Cristiana Dram armeno Petrolio, Gas naturale
n.d.
strascico interminabile di accuse reciproche, che hanno fatto ovviamente salire la febbre bellica, alimentata dalla solita retorica nazionalista, di entrambe le parti. In realtà non è chiaro se le autorità di Baku e di Yerevan siano veramente coscienti delle conseguenze cui può portare questa escalation; ed è anche possibile – come fanno rilevare alcuni analisti – che “più si parla di guerra e meno la si fa”, nel senso che le minacce di ricorso alle armi servono soprattutto ad alzare il prezzo del negoziato, cui nessuno dei contendenti può sottrarsi, lo voglia o meno. Certo è che il 2011 si chiude fra i timori più che fra le speranze.
Sulla carta geografica il Nagorno-Karabakh è solo un piccolo puntino a forma di fagiolo incastonato fra le vecchie montagne del Caucaso meridionale. Eppure, questo fazzoletto di terra aspra e inospitale è l’oggetto di una storica contesa fra la maggioranza armena e la minoranza azera che lo abitano. È così da secoli, ma è soprattutto dopo la I Guerra Mondiale e poi durante l’era sovietica che gli odi sono diventati steccati, sempre più insormontabili, creati ad arte e sfruttati dalle grandi potenze per questioni di interesse. Nel 1919, ad esempio, le potenze alleate riconobbero la sovranità azera sul Karabakh, abbagliate dal miraggio dei giacimenti di petrolio scoperti nella regione di Baku. Già nel 1920, però, quando la Transacaucasia venne conquistata dall’Armata Rossa, Stalin pensò bene di assegnare la Regione all’Armenia, nella speranza di allargare il consenso del nuovo regime comunista. Cambiò però idea dopo qualche anno, per ingraziarsi il favore dei turchi, tradizionali alleati degli azeri, col risultato che nel 1923 viene ufficialmente creata la Regione autonoma del Nagorno-Karabakh, all’interno della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan. La progressiva decomposizione del blocco socialista, alla fine degli anni ’80, fa riemergere le rivalità fra azeri e armeni, con scontri di piazza, incidenti e veri e propri pogrom scatenati contro le minoranze nelle rispettive zone di influenza. Il 26 febbraio 1988 un milione di persone scende in piazza a Yerevan, capitale dell’Armenia, per chiedere l’annessione del Nagorno-Karabakh, dopo che il parlamento dell’enclave si era espresso a favore, il 20 febbraio 1988. Un referendum popolare conferma qualche mese dopo questa scelta, per certi versi inevitabile, alla luce della politica di “azerizzazione” forzata che era stata portata avanti per anni nella regione dall’allora presidente del Soviet Centrale dell’Azerbaijan, Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente. La situazione precipita poi nel 1991, quando sia l’Armenia che l’Azerbaijan si rendono indipendenti da Mosca e sono perciò liberi di darsi battaglia a tutto campo per il controllo dell’enclave, grazie anche alle armi che affluiscono da Mosca, verso entrambi i belligeranti. Quella per il Nagorno-Karabakh è stata da questo punto di vista la prima e la più sanguinosa fra le guerre prodottesi nello spazio territoriale dell’exUnione Sovietica: in quasi sei anni di conflitto i morti sono stati infatti almeno 30mila e più di un milione i profughi costretti a lasciare la loro terra: 400mila gli armeni costretti a lasciare l’Azerbaijan e 800mila gli azeri costretti a lasciare l’Armenia e il Nagorno-Karabakh. Un cessate-il-fuoco viene raggiunto solo il 16 maggio del 1994, congelando la situazione creatasi sul terreno: il Nagorno-Karabakh si ritrova perciò sotto il totale controllo delle truppe armene e delle milizie loro alleate, che occupano inoltre il 9% del territorio circostante, appartenente in realtà all’Azerbaijan, compreso il famoso corridoio di Lachin, che mette in comunicazione l’Armenia con questa sua enclave. Da allora, il conflitto è “congelato”, anche se in realtà la terminologia cara agli analisti e ai diplomatici finisce per sorvolare sullo stillicidio di vite causato negli ultimi quindici anni dalle sistematiche violazioni alla tregua, né tiene conto del fatto che ci sono tutti i giorni 70mila soldati dell’una e dell’altra parte che si fronteggiano armi in pugno in trincee d’altri tempi, che distano spesso non più di un centinaio di metri, lungo quella che resta l’unica “linea di contatto” ed è lunga 200 chilometri. Né sono “congelati “ gli stati d’animo con cui in Nagorno-Karabakh, così come in Armenia e Azerbaijan, si continua ad alimentare la catena di odio e risentimento reciproco, su cui sembra ormai forgiata l’identità nazionale dei due popoli, e che spiega le difficoltà nel trovare una soluzione negoziata e duratura. Ha più senso perciò parlare di conflitto “protratto”, come ha suggerito di recente l’Osce perché la situazione resta in continua evoluzione, e con esiti ancora incerti.
Non è una questione di poco conto, perché l’irrilevanza sulla carta geografica del NagornoKarabakh è solo apparente. Il conflitto che per-
Un terremoto etnico
Alle ore 11.41 del 7 dicembre 1988 un terremoto di magnitudo 6,9 secondo la scala Richter colpisce le città di Gyumri e Spitak, in Armenia, causando più di 25mila morti e 15mila feriti. La catastrofe è tale che per la prima volta le autorità sovietiche accettano l’aiuto della comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti. Sul posto, invece, il peggioramento delle relazioni fra armeni e azeri è arrivato a un punto di non ritorno, che non favorisce la solidarietà né facilita i soccorsi. A Gyumri, ad esempio, sono molti gli armeni che pensano ad un attentato terroristico ordito dalla minoranza azera invece che a un terremoto. E in Azerbaijan si registrano non pochi festeggiamenti, con la gente scesa in strada per ringraziare Allah dei morti e delle perdite inflitte agli armeni. Ventitré anni dopo, la situazione non è cambiata granché. Né è cambiata la vita di 5mila terremotati, che vivono ancora in container e alloggi di fortuna.
Quadro generale
Ilham Aliyev (Baku, 24 dicembre 1961)
Che il petrolio possa costituire una sorta di “maledizione” lo dimostra la storia di molti Paesi – l’Iran, ad esempio, ma anche l’Iraq o la Libia – che hanno pagato a caro prezzo, in termini di libertà, la straordinaria ricchezza che l’oro nero può dare. In Azerbaijan, invece, la maledizione funziona al contrario. Nel senso che il mare di petrolio su cui galleggia la città di Baku è il motivo per cui le grandi potenze chiudono un occhio sulla strana concezione di democrazia del Presidente azero Ilham Aliyev. Quella di Aliyev è una democrazia “per via ereditaria”. A sponsorizzarne la prima nomina a Presidente, nelle elezioni del 2003, fu infatti il padre, Heydar Aliyev, che dell’Azerbaijan era stato il padre-padrone per 25 anni. E a nulla valsero le critiche dell’Osce, secondo cui quello scrutino non rispondeva alle “condizioni minime di imparzialità”, perchè caratterizzato da troppi brogli. Il rampollo della famiglia Aliyev si insediò lo stesso, costruendo in pochi anni un efficacissimo sistema di potere, che fa affluire i proventi del petrolio in poche selezionatissime tasche. Sia sulla corruzione che sulle continue violazioni dei diritti dell’uomo non c’è però grande potenza che osi aprire bocca. Al punto che il Presidente francese Jacques Chirac pensò bene, nel 2007, di insignire Aliyev della Legione d’Onore.
Le ali spezzate Il solo corridoio di Lachin non basta. Il controllo della sottile striscia di terra che a Sud-Ovest collega il territorio del Nagorno-Karabakh con quello dell’Armenia non è considerato sufficiente dalle autorità di Stefanakert, le quali temono di potersi ritrovare in futuro – qualora il processo di pace concordata vada avanti – completamente circondati dagli azeri. Da qui la pretesa di mantenere il controllo, per motivi di sicurezza, di tutti i territori ad Ovest dell’enclave, facendoli coincidere con la frontiera armena, in modo da avere le spalle coperte. Allo scopo sempre di spezzare l’isolamento geografico della Regione, da anni si lavora alla riapertura del piccolo aeroporto di Stefanakert, in modo da poter collegare con regolari voli di linea la capitale del Nagorno-Karabakh con quella dell’Armenia, Yerevan. Se ne avvantaggerebbe l’economia, ma anche il turismo. La cosa però è più facile a dirsi che a farsi. I vicini nemici dell’Azerbaijan sostengono infatti, da sempre, che lo spazio aereo sopra l’enclave è giuridicamente riconosciuto come territorio azero. E molti armeni ricordano con angoscia quel 1° agosto del 1990 che vide un aereo passeggeri sulla tratta Yerevan-Stefanakert schiantarsi al suolo nel corridoio di Lachin, con la morte di tutti i suoi 43 passeggeri. Forse fu un incidente. Ma in molti sostennero che l’aereo venne abbattuto.
dura in questa Regione va infatti inserito in un contesto geo-politico dalle mutazioni profonde, che vede da un lato un Caucaso (meridionale e settentrionale) sempre più turbolento e dall’altro il sovrapporsi di nuove problematiche strategiche: dal disgelo un tempo impensabile fra Armenia e Turchia al rinnovato protagonismo russo, passando per le ambizioni da potenza regionale che animano ormai apertamente il governo turco di Erdogan e chiudendo con la complessa questione dei vecchi e nuovi corridoi energetici che vede impegnate le principali potenze europee. Sono tutte partite aperte, che passano da queste parti. Una maggiore stabilità, ergo una soluzione concordata del conflitto sul Nagorno-Karabakh, potrebbe perciò giovare a molti protagonisti indiretti che si proiettano nella Regione. Ma è vero anche che nessuno di loro è in grado di influenzare entrambe le parti in conflitto. Le quali, dal canto loro, fanno una gran fatica nel trovare un compromesso che possa risultare accettabile agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, accecate da più di vent’anni di propaganda di stampo nazionalistico.