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Nel mondo islamico è tempo di cambiamento Amedeo Ricucci

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Speciale svolta Islam

Amedeo Ricucci

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UNHCR/H. Caux

Nel mondo islamico è tempo di cambiamento

Si narra che nel bel mezzo della presa della Bastiglia, il 14 luglio del 1789, Luigi XVI abbia chiesto ad uno dei sui maggiordomi: “Che succede? Una rivolta?”. “No, sire – fu la risposta. Questa non è una rivolta. È una rivoluzione”. È probabile che un dialogo del genere abbia avuto come protagonisti nei mesi scorsi anche Zine El Abidine Ben Ali, Hosni Mubarak, Muammar Gheddafi, Bashar el Assad, Ali Abdallah Saleh e molti altri raìs del mondo arabo, che hanno visto il loro potere pluridecennale messo in discussione da una contestazione di piazza senza precedenti, che ne ha già fatti cadere alcuni e ne sta facendo vacillare altri. Forse è ancora presto per capire se i sommovimenti in corso vadano annoverati fra le rivolte oppure fra le rivoluzioni. Si vedrà. Certo è che il mondo arabo, dall’Oceano Atlantico al Golfo Persico, dal Marocco all’Oman, è attraversato oggi da un vento nuovo, di libertà e di democrazia, che per la prima volta minaccia i regimi al potere. Ne hanno già fatto le spese il dittatore tunisino Zine El Abidine Ben Ali, costretto precipitosamente alla fuga in Arabia Saudita il 14 gennaio; il faraone egiziano Hosni Mubarak, dimissionato a furor di popolo l’11 febbraio e piazzato in custodia cautelare nella sua residenza di Sharm El Sheick; il padre-padrone dello Yemen Ali Abdallah Saleh, ferito durante un attacco armato al palazzo presidenziale e costretto a riparare in Arabia Saudita, da dove governa goffamente per procura; e infine il qaìd libico Muammar Gheddafi, il cui regime è colato a picco sotto i bombardamenti della Nato, intervenuta a sostegno di una rivolta armata interna. In bilico resta, per ora, il Presidente siriano Bashar El Assad, alle prese con una protesta di piazza che va avanti dal mese di marzo e che ha già visto più di 2mila morti. Sotto controllo appare la situazione in altri Paesi, dove il vento della rivolta è stato represso sul nascere oppure assorbito, con l’avvio di riforme. È stato così in Marocco, dove re Mohammed VI – spaventato dall’ampiezza delle rivolte nei Paesi fratelli - ha deciso di rinunciare ad una parte dei suoi poteri, a partire dalla “sacralità” che gli deriva per via della discendenza diretta dal profeta. A scegliere questa “terza via” – né fuga, cioè, né repressione brutale – è stato anche il re di Giordania, Abdallah; il quale, sia pur timidamente, ha avviato un calendario di riforme politiche ed economiche, che non ha placato gli umori della piazza ma ha evitato finora l’escalation della violenza. Difficile da decifrare resta infine la situazione in Algeria, dove in gennaio e febbraio le proteste di piazza hanno fatto decine di morti, salvo poi rientrare, soffocate dalle divisioni in seno ai partiti dell’opposizione e dalle manovre in stile bastone&carota del regime di Bouteflika. Non bisogna infine dimenticare, a dimostrazione della portata epocale degli avvenimenti in corso, che il vento della rivolta ha toccato anche diversi Paesi del Golfo, che da decenni vivevano nell’immobilismo politico

più totale. In Bahrein si è rivoltata la comunità sciita, che è maggioranza nel Paese ma è da sempre discriminata dalla minoranza sunnita al potere; e solo l’intervento armato dei vicini sauditi ha impedito che venisse rovesciato il regime degli Al Khalifa. Fuochi di rivolta anche in Oman, dove il sultano Qabus Bin Said ha dovuto procedere a ben tre rimpasti di Governo per placare la contestazione popolare. E non sono mancate le tensioni nemmeno in Arabia Saudita, dove la minoranza sciita è scesa più volte in piazza per reclamare riforme politiche, e dove in giugno le donne hanno stupito tutti, lanciando una campagna di disobbedienza civile contro il divieto che impedisce loro di guidare l’auto e per ottenere maggiori diritti. Insomma, un po’ dappertutto è caduto il muro del silenzio che per tanti anni aveva protetto i regimi al potere, consentendo il dilagare della corruzione, del nepotismo e del malaffare. “Gli arabi sono entrati in uno stato di rabbia e di frustrazione senza precedenti”, ha dovuto riconoscere in gennaio il segretario generale della Lega araba, Amr Mussa. E non a caso, nelle piazze di Tunisi come del Cairo, di Sanaa come di Manama, i manifestanti hanno spesso esposto cartelli in cui si chiedeva senza mezzi termini “Dégage” – ovverosia “smamma” – rivolti ovviamente ai loro presidenti-dittatori. Anche per questo è difficile che il vento di rivolta si plachi, sia dove non ha ancora raggiunto i suoi obiettivi, sia dove la restaurazione potrebbe prendere il sopravvento, come in Egitto e, forse, in Tunisia. Questa sollevazione generale ha comunque colto di sorpresa le cancellerie occidentali, che con quasi tutti i dittatori arabi facevano affari da decenni, negli ultimi tempi in cambio del loro (presunto) contributo nella lotta al terrorismo islamico. C’è addirittura chi ha provato, all’inizio, in Francia come in Italia, a difenderne qualcuno, soprattutto Ben Ali e Mubarak, proprio in nome di questo credito, dimenticandosi dei loro metodi di governo, autocratici e assai poco democratici. Né i Paesi europei sono riusciti ad elaborare un piano comune per affrontare ora la difficile transizione, che durerà anni e rischia di creare una preoccupante fascia di instabilità nell’area del Mediterraneo, che è pur sempre Mare Nostrum. Sbaglia però chi pensa che queste “primavere” arabe affondino le radici nella povertà e nel sottosviluppo. È semmai una questione di dignità, troppo a lungo calpestata da autocrati senza scrupolo che hanno anteposto gli interessi personali e della loro cricca a quello collettivo. Per dignità si è dato infatti fuoco il 17 dicembre 2010 il giovane Mohammed Bouazizi, il venditore ambulante di Sidi Bouzid, in Tunisia, il cui gesto disperato è stato all’origine di tutto. E in nome della dignità sono scesi in piazza i giovani tunisini, egiziani o siriani, stufi di non poter aspirare ad un futuro migliore e stanchi di dover solo sopportare, come i loro padri. In Paesi che hanno in media quasi il 50% della loro popolazione al di sotto dei 25 anni, il fattore demografico è stato la vera molla delle rivolte arabe. E ad esso si è saldato uno degli effetti più interessanti della globalizzazione: l’aspirazione alla libertà e alla democrazia. Si pensava, qui in occidente, che questi valori non fossero condivisibili dalle masse arabe. Che addirittura non fossero nel loro Dna. E invece, merito anche della rivoluzione tecnologica, della Rete partecipativa e dei social network, il vento del cambiamento che ha preso a soffiare da Rabat a Muscate ha portato proprio queste parole d’ordine, subito condivise. E poco importa se dietro la rivolta, in diversi Paesi, ci sia stato anche lo zampino dell’amministrazione Usa, che da qualche anno finanzia i net-attivisti del Maghreb e del Medio Oriente, per promuovere scenari pacifici di regime-change. In fondo, non c’è rivolta né rivoluzione che sia del tutto spontanea. Ma questo non ne sminuisce l’importanza, né l’autenticità. Più interessante è il fatto che al-Qaeda e gli islamisti siano stati spiazzati e tagliati fuori, un pò dappertutto. Fino a qualche anno fa, erano loro a convogliare le speranze di riscatto per il mondo arabo. Ora non più.

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