Segno n. 1 - 2011

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Poste Italiane S.p.A - Sped. in abb. post. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 2, CNS/AC Roma Segno nel mondo â‚Ź 1,70

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Un mondo dietro le sbarre


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Fatti

parole di Gianni Borsa e Nicolò Tempesta

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Annoeuropeo delvolontariato: nellostiledell’Ac

Magari l’enfasi può sembrare eccessiva, ma una frase pronunciata da Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, chiarisce in maniera efficace il significato dell’Anno del volontariato, che l’Unione europea ha proclamato per questo 2011: «Se non vogliamo che le nostre speranze di costruire un mondo migliore e più sicuro restino vane, ci servirà sempre più l’impegno dei volontari». Le parole di Annan ben si accompagnano a quelle pronunciate dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in occasione della Giornata internazionale del volontariato, celebratasi a dicembre, e in vista dell’anno speciale europeo, ha inteso rinnovare il suo «profondo apprezzamento, a nome della nazione e delle istituzioni repubblicane, per il ruolo insostituibile del volontariato e del terzo settore come punti di riferimento e protagonisti attivi della nostra società civile». Sulla stessa lunghezza d’onda la commissaria Ue per i diritti fondamentali e la cittadinanza, Viviane Reding: presentando programmi e obiettivi dell’anno ha sostenuto che nell’Unione europea si contano non meno di 100 milioni di cittadini impegnati in qualche forma di attività a favore di altre persone, nel campo assistenziale e caritativo, per la tutela dei minori, degli anziani o dei migranti, per la promozione della cultura e dell’educazione, dello sport, per difendere la natura... Il volontariato – di diversa ispirazione - deve quindi, secondo la commissaria Ue, essere sostenuto, promosso, esteso al maggior numero possibile di persone. È subito evidente che per l’Azione cattolica, associazione che da quasi 150 anni opera, con lo stile del volontariato, a servizio della Chiesa e del paese, il 2011 avrà un significato particolare. Sarà, come conferma la tradizione associativa, un tempo della gratuità, del dono, del “mettersi a disposizione di” e del “mettersi a disposizione per”, mostran-

do che la logica del tornaconto non deve per forza essere il motore della storia. Per l’Ac il 2011 sarà, ancora una volta, il tempo delle relazioni, dell’andare incontro, del costruire rapporti, del sostare per ascoltare chi ha qualcosa da dirci, chi ha qualcosa da chiederci… In tal senso sarà anche un tempo per gli altri, che richiede di uscire da se stessi, di mettersi nella logica dell’esodo, cercando di comprendere chi è realmente il nostro prossimo, cosa ha da insegnarci e a chi (a un Altro) ci rimanda la sua esistenza. L’Anno del volontariato sarà anche un tempo dell’educarsi: perché ogni atteggiamento e azione a carattere sociale richiede sensibilità, formazione, competenza: il volontariato, infatti, non è un “dilettantismo del buon cuore”, ma si deve configurare quale servizio gratuito, efficace, di qualità. L’anno del volontariato ci aiuterà ad impiantare una coscienza laicale profonda, che sa leggere in profondità i segni del passaggio di Dio nella storia e rendere la promessa di «cieli nuovi e terre nuove» credibile agli occhi di un mondo che spesso vive di corsa e con l’agenda in mano. Su questa linea, il 2011 sarà un tempo politico: nel senso che dovrà comprendere una prioritaria tensione verso il bene comune. Per far questo occorre valorizzare la vocazione sociale del volontariato; il quale non deve limitarsi a “tappare i buchi” lasciati dalle istituzioni o dai servizi pubblici, ma piuttosto con essi deve collaborare su un piano di pari dignità e da essi deve pretendere adeguati riconoscimenti (legislativi, economici) per poter svolgere il proprio ruolo. Si pensi solamente, in tal senso, al danno che può provocare una decisione come quella di tagliare i fondi del 5 per mille destinati (come hanno richiesto 15 milioni di contribuenti italiani) proprio alle associazioni di volontariato e al terzo settore, come sta accadendo nel nostro paese! L’Anno del volontariato non potrà quindi limitarsi a “celebrare” chi si spende per il bene comune; dovrà invece trasformarsi in una buona occasione per far crescere – in coincidenza con il 150° dell’Unità – la coscienza individuale, la coscienza civile e l’Italia g intera. Un’opportunità da cogliere al volo. ■

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la copertina

sommario

Un mondo dietro le sbarre: è il dossier che Segno dedica a chi vive dentro le mura di un carcere ma anche a chi svolge attività di volontariato. Storie che raccontano cosa c’è dietro la vita di un recluso. E quante possibilità abbia di reinserirsi nell’esistenza di ogni giorno

fatti e parole

1 Anno europeo del volontariato: nello “stile” dell’Ac di Gianni Borsa e Nicolò Tempesta

sotto i riflettori

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11 E noi diciamo messa a Poggioreale intervista con Antonio Spagnoli di Alessandra Gaetani

12 La cooperativa che trova il lavoro di Francesco Rossi

Dietro le sbarre. Il tempo del riscatto

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sotto i riflettori

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tempi moderni

di Barbara Garavaglia

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cittadini e palazzo

Sogno Wimbledon intervista con Erik Crepaldi

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di Alessandro Nizegorodcew

Non si scherza con la storia

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di Gianni Di Santo

di F. R.

In cammino con la tv di Ada Serra

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Quel vuoto da colmare intervista con

Il sorriso di chi ce l’ha fatta

Vittorio Trani

intervista con

Il valore aggiunto del doposcuola

di Stefano Leszczynski

Daniela De Robert

di Barbara Garavaglia

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di Alessandra Gaetani

Ridare dignità ai rinchiusi

le altre notizie

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Sacchetto di plastica vade retro

di Marta Zanella

Luisa Prodi

di Ale. Gae.

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Sul ring la vita di tutti i giorni

Teatro che racconta la vita

intervista con

economia e lavoro

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di Matteo Truffelli

famiglia oggi

34 Affetto e coccole, adulti più sereni intervista con Alessandra Bortolotti di Giorgia E. Cozza

Il sorriso di Paolino

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di Marco Iasevoli

Mamme sole, che fatica... di Giorgia E. Cozza

Dall’Italia e dal mondo

nel mondo

n.1gennaio2011

Mensile dell’Azione Cattolica Italiana Direttore Franco Miano Direttore Responsabile Giovanni Borsa g.borsa@azionecattolica.it In Redazione Gianni Di Santo g.disanto@azionecattolica.it e-mail Redazione segno@azionecattolica.it Tel. 06.661321 (centr.) Fax 06.66132360

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Hanno collaborato a questo numero: Alberto Bobbio, Giorgia E. Cozza, Simone Esposito, Alessandra Gaetani, Antonella Gaetani, Barbara Garavaglia, Marco Iasevoli, Stefano Leszczynski, Laura Mandolini, Armando Matteo, Paolo Mira, Alessandro Nizegorodcew, Giancarlo Olcuire, Francesco Rossi, Chiara Santomiero, Ada Serra, Paola Springhetti, Nicolò Tempesta, Marco Testi, Matteo Truffelli, Marta Zanella Editrice Fondazione Apostolicam Actuositatem Via della Conciliazione, 1 - 00193 Roma Direzione e Amministrazione Via Aurelia, 481 - 00165 Roma

Grafica e impaginazione: Giuliano D’Orsi, Veronica Fusco Stampa Mediagraf S.p.a. Viale della Navigazione Interna, 89 - 35027 Noventa Padovana - PD Reg. al Trib. di Roma n. 13146/1970 del 02/01/1970 Per le immagini si è fatto ricorso alle agenzie Olycom, SIR e Romano Siciliani Chiuso in redazione il 13 dicembre 2010 Pubblicazione associata all’USPI (Unione Stampa Periodica Italiana)

Abb.to annuale (12 num.) senza supplemento € 20 Abb.to annuale (12 num.) con supplemento € 25 Per versamenti: ccp n.78136116 intestato a: Fondazione Apostolicam Actuositatem Riviste - Via Aurelia, 481 – 00165 Roma Fax 06.6620207 (causale “Abbonamento a SegnoPer”) Banca: Credito Artigiano - sede di Roma IBAN: IT88R0351203200000000011967 cod. Bic Swift Arti itM2 intestato a: Fondazione Apostolicam Actuositatem Via Aurelia, 481 - 00165 Roma Tiratura 154.800 copie


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sommario

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quale Chiesa

38 In compagnia della Parola di Francesco Rossi

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i titoloni

Un’agenda da sfogliare

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di Alberto Bobbio

Recensioni

43 Un emporio della solidarietà contro il “grande freddo”

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di Marco Testi e Antonella Gaetani

orizzonti di Ac giorno per giorno

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Cartelli d’Italia

I giovani hanno sete di giustizia

In casa degli anglicani

di Paola Springhetti

di Gianni Di Santo

di Laura Mandolini

e Giancarlo Olcuire

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Laici nel mondo, strade di santità

Tricolore con la valigia

di Chiara Santomiero

sulle strade della fede

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47 Nuovi impegni per le donne cattoliche di C. S.

ieri e domani

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perché credere

62 Gesù, la pienezza dell’umano di Armando Matteo

la foto

Aversa, la Campania e un secolo di storia dell’Ac

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di Marco Testi

È sempre tempo di pace

56 Abbazia vanto dell’astigiano di Paolo Mira

faccia a faccia

48 Media e parole, strumenti del Messaggio intervista con Claudio Maria Celli di Simone Esposito

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Dietro le sbarre

Il tempo del riscatto

«Il carcere da auspicare sarebbe quello che riesce a trasformare in tempo utile anche quello passato a scontare la pena: un tempo in cui al detenuto vengano offerte delle opportunità per rivedere i rapporti familiari e sociali in funzione di obiettivi di vita diversi da quelli che lo hanno condotto a delinquere. Questo era l’obiettivo della legge penitenziaria italiana, che il sovraffollamento sta di fatto vanificando». Luisa Prodi, presidente del Seac (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario), racconta a Segno cosa c’è dietro la vita di un recluso. A cominciare dal lavoro dei volontari


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di Gianni Di Santo

La via Crucis nel carcere minorile di Casal del Marmo

ianeta carcere, anno 2011. Istituti di pena che scoppiano, troppi detenuti. E un reinserimento nella vita di ogni giorno che ancora rimane sulla carta. Un dato per tutti: da gennaio al 30 settembre 2010 sono stati registrati 911 tentati suicidi. Un po’ troppi per un sistema penitenziario che ha fatto del recupero dei reclusi uno dei suoi obiettivi. E da un’indagine conoscitiva commissionata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emergono numeri non edificanti: solo il 13% dei cittadini intervistati ha un’idea realistica e precisa di quello che avviene all’interno delle carceri, mentre il 62% ritiene che il carcere sia poco rispettoso dei diritti e il 75% non è in grado di garantire il reinserimento sociale. Insomma, sono pochi gli italiani che pensano che la funzione principale del sistema penitenziario sia quella di “educare” e “reinserire”. Come pochi sanno dell’enorme lavoro che il volontariato compie ogni giorno a fianco di chi sconta una pena. Lavoro spesso duro, nascosto alla pubblica opinione, ma che è la vera scommessa per un’umanizzazione del “pianeta carcere”. Di “rinnovamento” dell’uomo, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita, parlava del resto Giovanni Paolo II nelle parole indirizzate ai detenuti nel corso della sua storica visita a Regina Coeli del luglio 2000. «Il problema del sovraffollamento carcerario nel nostro paese – spiega Luisa Prodi, presidente del Seac, che ha da poco concluso il suo 43° Congresso nazionale – è diventato ormai cronico. Oggi ci sono quasi 70.000 detenuti in strutture penitenziarie progettate per contenerne 44.000. Questo stato di cose rende estremamente lontano quello che Giovanni Paolo II indicava come uno degli obiettivi primari della pena: il reinserimento nella società e il cambiamento di vita. Nessuno può pensare che un uomo che passa mesi o anni in celle piccole e malsane, in

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condizioni di forzosa inattività e spesso lontano dalla sua famiglia, alla fine della pena esca dal carcere migliorato e pronto per rientrare in modo positivo nella società. Probabilmente quell’uomo avvertirà un desiderio di rivalsa rispetto allo Stato che lo ha tenuto incarcerato in condizioni indegne, e le statistiche ci dicono che in molti casi tornerà a delinquere». La pena, in questo caso, «non solo sarà stata inutile, ma anzi avrà contribuito a perpetuare un disagio, aumentando l’insicurezza sociale. Il carcere da auspicare sarebbe quello che riesce a trasformare in tempo utile anche quello passato a scontare la pena: un tempo in cui al detenuto vengano offerte delle opportunità per istruirsi, imparare un lavoro, rivedere i rapporti familiari e sociali in funzione di obiettivi di vita diversi da quelli che lo hanno condotto a delinquere. Questo era l’obiettivo della legge penitenziaria italiana, che il sovraffollamento sta di fatto vanificando». Ci sembra di capire che ci sia del pessimismo in giro. Va detto che le cose potrebbero migliorare se si adottassero tipologie di pena diverse dal carcere, almeno per i reati minori, quelli per cui viene condannata la maggior parte dei detenuti: lavori di pubblica utilità e pene pecuniarie potrebbero sostituire in molti casi la reclusione, e il carcere verrebbe usato come extrema ratio per punire reati particolarmente importanti. Negli ultimi anni, invece, in Italia si sono moltiplicate le fattispecie di reato per le quali è prevista la carcerazione (l’esempio più significativo è quello della immigrazione clandestina), quindi è aumentato in modo impressionante il numero di detenuti e parimenti è diminuita la capacità dello Stato di intervenire per un vero reinserimento sociale. L’importanza del volontariato nel recupero umano

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Sopra: Luisa Prodi, presidente del Seac

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del detenuto è fondamentale. Si possono creare percorsi di umanizzazione anche all’interno del carcere? Nessun processo educativo si può svolgere senza la libera iniziativa di chi ne è il protagonista. Il volontario in carcere non recupera e non rieduca nessuno, ma si propone come persona a fianco della persona detenuta per sostenerla durante l’esperienza della reclusione e per accompagnarla in un percorso di riavvicinamento della società, ovviamente a condizione che il detenuto lo voglia. Si potrebbero raccontare testimonianze significative di uomini e donne che hanno potuto “rinascere” dopo aver fatto errori gravi nella loro vita anche grazie alla presenza di qualcuno disposto a farsi pros-

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simo per loro. È importante sottolineare che il volontariato in carcere non può prescindere da una dimensione di gruppo, e deve poter contare su un forte sostegno del territorio. Per un volontario che entra in carcere a fare colloqui con i detenuti o a gestire attività formative ce ne devono essere almeno cinque all’esterno che si fanno carico di intrattenere rapporti con le famiglie, cercare lavoro, procurare vestiti e presidi igienici, prendere contatti con comunità terapeutiche o strutture ospedaliere, svolgere adempimenti burocratici e altro. Dobbiamo liberarci da un’idea un po’ romantica del volontario che “salva” il grande delinquente e lo porta sulla retta via: la realtà è molto più prosaica, fatta da tante piccole azioni che, raccolte tutte insieme, possono mettere il detenuto nelle condizioni di ritrovare il suo posto nella società. La legislazione vigente e le consuetudini attuali che operano all’interno degli istituti di pena aiutano in questo?


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La legislazione penitenziaria italiana è molto avanzata sul piano delle possibilità. Lo spirito con cui fu varata nel 1975 era improntato all’attuazione del dettato costituzionale che vuole la pena finalizzata alla rieducazione del condannato. Va detto che tale legge prevedeva la presenza in carcere di assistenti volontari quando ancora la legge sul volontariato era lontana da venire. Il progressivo mutamento di una sensibilità sociale, oggi molto più attenta che in passato al problema della sicurezza, ha di fatto trasformato il carcere in un ambiente contenitivo piuttosto che in un’opportunità rieducativa. La legge del 1975 non è stata sostanzialmente cambiata, ma la si è svuotata dal di dentro. Basti pensare che gli educatori che operano dentro al carcere, e da cui dipende l’attività di osservazione e trattamento rieducativo,

Numeri e percentuali

SE L’EX DETENUTO TROVA UN IMPIEGO TUTTO CAMBIA umeri da capogiro, ma che pochi conoscono: 68.278 i detenuti nelle carceri italiane (presenze al 30 giugno 2010). Totale capienza massima: 44.327. Per le carceri minorili la situazione della capienza non cambia di molto: 486 presenze possibili, mentre “alloggiano” 527 detenuti di cui 318 italiani e 209 stranieri. Gli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia sono 6: le presenze sono 1.829 di cui 156 stranieri. Capienza tollerata: 955. Detenuti ricoverati per reati contro la persona: 65%. Mille invece i detenuti che hanno un lavoro qualificato su un totale che, appunto, sfiora i 70.000. Interessante la percentuale che incide sulla diminuzione del rischio di recidiva per un ex detenuto cha ha un impiego: -90%. I poli universitari penitenziari sono 16 per un totale di 304 detenuti iscritti all’università; 19 detenuti si sono laureati nel 2008. Tre miliardi il costo dell’amministrazione penitenziaria nel 2008 (massimo storico) mentre 2 miliardi la spesa prevista del 2010 (minimo storico); 198,4 euro la spesa media giornaliera per un detenuto nel 2007 e 113 euro la spesa media nel 2010. [Fonte: Avvenire]

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denunciano da anni di lavorare in condizioni di sotto organico. Anche il recente decreto legge cosiddetto “svuota carceri”, che prevede l’assunzione di duemila agenti di polizia penitenziaria, non prevede invece l’assunzione di educatori o magistrati di sorveglianza, necessari alla attuazione del provvedimento stesso: segno chiaro della prevalenza di una visione più improntata alla custodia che alla rieducazione. Dentro o fuori: sembra solo questo il binomio che spiega il carcere. Eppure c’è un universo-vita che racchiude, dentro le mura, sogni, progetti di vita futura di chi sconta una pena… In carcere ci sono persone con storie diversissime. Sono persone che attendono un giudizio (molte, troppe...) o che sono già state giudicate per azioni che hanno compiuto. Ma se è giusto che ci sia un giudizio e una pena, è doveroso operare affinché emergano anche le potenzialità e le possibilità di bene di coloro che sono stati giudicati. «Dio giudica il colpevole, ma non lo fissa nella colpa identificandolo in essa», scrive il cardinale Carlo Maria Martini. E se Dio è capace di non fissare l’uomo nella colpa, dovremmo fissarcelo noi? Ci sono percorsi di avvicinamento alla fede cristiana? E come avvengono? Nelle carceri italiane operano i cappellani, garantendo al detenuto un accompagnamento dal punto di vista spirituale. A volte le chiese diocesane istituiscono delle vere e proprie cappellanie, nelle quali diaconi, suore, frati e laici collaborano con il sacerdote. La carcerazione può essere un momento di ripensamento profondo della propria vita, durante la quale si riscoprono l’amore di Dio e dei fratelli. Le comunità ecclesiali devono curare con particolare attenzione che la proposta di fede sia vissuta liberamente, senza secondi fini e senza alcun proselitismo. Anche per questo è bene che ci sia una divisione di compiti fra chi entra in carcere per motivi religiosi e chi invece ha il compito dell’assistenza per i bisogni materiali, per la ricerca del lavoro e per g le attività di reinserimento sociale. ■

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Quel vuoto da colmare intervista con Vittorio Trani di Stefano Leszczynski

e ne sono recentemente lamentati anche i penalisti dell’Unione camere penali: le carceri italiane sono sovraffollate anche per l’eccessivo ricorso alla detenzione cautelare, che vede oggi l’Italia “vantare” il triste record negativo europeo con stime prossime al 50% della popolazione negli istituti di pena. Questo è solo un aspetto del problema, quello se vogliamo “amministrativo”; quello più grave, e spesso ignorato, è l’aspetto umano; quello che riguarda il presente e il futuro di chi ha avuto a che fare con la giustizia. Ne parliamo con padre Vittorio Trani, consigliere ecclesiastico del Seac a Regina Coeli, “storico” carcere di Roma.

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Padre, dal carcere si può “tornare indietro” oppure no? Innanzitutto, il carcere in sé e per sé non è una realtà che permette alla persona detenuta di recuperare quanto è stato perduto; il disagio e i drammi che ci sono alle spalle di molte persone detenute non posso venire affrontati nella giusta atmosfera. Il secondo motivo è che intorno al carcere c’è il vuoto, non ci sono il più delle volte possibilità opportunità di reinserimento sia per quanto riguarda il mondo del lavoro, che è fondamentale, sia per quanto riguarda l’aspetto abitativo. Molti detenuti non hanno una casa, non hanno una famiglia e, quindi,

Il volontariato ha un’enorme importanza per umanizzare gli istituti di pena e per restituire speranza a chi vi è rinchiuso; ma «non è sufficiente per fornire una risposta adeguata all’enorme mole di situazioni e necessità da affrontare». Un cappellano descrive a Segno una realtà “vista da vicino”. E sottolinea: «Molti in carcere incontrano la fede e rimettono così un punto fermo nella loro vita» 8

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quando si affronta il nodo del loro reinserimento c’è, il più delle volte, il buio completo. Là dove non riescono a intervenire le istituzioni, supplisce, per quel che può, il volontariato. Nel caso delle carceri qual è l’importanza che assume questa realtà? Se dovessimo fare una scaletta da uno a cento l’importanza del volontariato in questo settore si attesterebbe ad almeno il 90%, perché se oggi sul territorio troviamo qua e là delle risposte, quasi sempre esse sono legate alla buona volontà delle persone e al loro impegno. Però il ruolo del volontariato non è sufficiente per dare una risposta adeguata all’enorme mole di situazioni e necessità che ci sono da affrontare. In cosa consiste l’attività dei volontari per quanto riguarda le carceri? Proprio nelle scorse settimane si è svolto il convegno del Seac, che è il Segretariato che raccoglie tutti i gruppi d’ispirazione cristiana che lavorano


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d’accoglienza tra le più grandi che esistono a livello regionale per accogliere i detenuti che non hanno un posto dove andare e che hanno magari ottenuto dalle autorità di uscire in permesso premio. Spesso l’ostacolo più grande è rappresentato dalla cosiddetta società civile che non conosce e non riesce a comprendere la realtà carceraria. Cosa bisogna cambiare nella mentalità comune per comprendere l’importanza del recupero dei detenuti? Direi che c’è bisogno di una virata culturale a tutto campo, perché il carcere continua a rimanere una realtà distante, che riguarda “gli altri”; finché non ci tocca da vicino. Solo allora le persone si trovano a confrontarsi con la necessità di rivedere un po’ il proprio quadro mentale. L’approdo di questa mentalità è quello di capire che i detenuti sono delle persone, dei cittadini, alcuni dei quali hanno sbagliato, altri invece sono solo accusati di avere sbagliato e vivono in una situazione di parcheggio. Queste persone sono momentaneamente tirate fuori dalla società, ma devono rientrarvi e quindi il lavoro dovrebbe essere fatto in modo tale che un domani, terminato questo momento, possano tornare a essere cittadini migliori, non peggiori. Ma bisogna constatare con amarezza che l’ambito della giustizia, un po’ dappertutto, resta sempre l’angolo oscuro della società. Non so perché.

Sopra: padre Vittorio Trani, cappellano a Regina Coeli

nelle carceri a livello nazionale ed è rappresentativo – diciamo così – di quella parte di volontariato con la “V” maiuscola, cioè il volontariato senza compensi e senza remunerazioni. Quindi, il volontariato nella sua espressione più bella e più alta. Il nostro impegno è innanzitutto diretto a garantire una presenza che sia vicina al detenuto, che è fondamentale per un sostegno morale e materiale. Poi ci sono tutte le iniziative che vengono portate avanti a livello culturale e di accompagnamento verso il reinserimento all’esterno del carcere. Il mio gruppo, ad esempio, qui a Regina Coeli si appoggia a una casa

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Parliamo anche della speranza che caratterizza l’operato dei volontari nella realtà carceraria. Lei rammenta qualche episodio particolare conclusosi felicemente? Sono tanti gli episodi, è difficile citarne uno soltanto. Si tratta di un percorso di vita nel quale intervengono i fattori più vari: si prende coscienza di avere sbagliato, ma c’è anche il fattore religioso. Molti in carcere incontrano la fede e rimettono così un punto fermo nella loro vita. Ci sono poi le vicende personali che vanno spesso in direzione giusta. Proprio questa mattina ho incontrato un ragazzo che non avevo visto per tanti anni. In lui vi era stato un percorso di conversione, poi si è laureato e adesso lavora. Storie come questa ce ne sono tante e sono quelle che danno anche a questa realtà carg ceraria un peso in senso positivo. ■

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Esperienze/Lecce

Ridare dignità ai rinchiusi l problema del sovraffollamento nelle carceri, dei suicidi, il senso della vita dietro le sbarre. Temi che la cronaca spesso ci pone davanti in modo crudo e breve: pochi minuti in tv o alla radio, una colonna sul quotidiano. Ma il quotidiano, dietro le sbarre, non si esaurisce in poca cronaca. Ci sono persone e associazioni che lavorano in carcere per migliorare la vita dei detenuti. L’Ac di Lecce opera al supercarcere di Borgo san Nicola, alla periferia nord della città da circa tre anni insieme ad alcune associazioni di volontariato e alle parrocchie. La situazione è drammatica: i L’Azione cattolica reclusi sono più del doppio della capienza diocesana, con il della struttura: 1.400 a fronte di un’omologasupporto delle zione per 550 posti. parrocchie e Massimo Vergari, presidente diocesano deldell’associazione l’Ac di Lecce, ci spiega che «i detenuti devono “La Comunità Speranza”, cerca di restare sdraiati per buona parte del giorno con il freddo, il caldo, quando il razionamento delmigliorare la vita dei detenuti, come l’acqua esaspera la situazione». Senza contare che «molti, soprattutto immigrati, non spiega il dispongono di prodotti per l’igiene personale e presidente di vestiario». Massimo Vergari

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L’Ac diocesana è venuta incontro a queste necessità insieme all’associazione di volontariato carcerario “La Comunità Speranza” stabilendo i dovuti contatti con gli operatori del carcere. Le parrocchie raccolgono i prodotti per l’igiene personale e il vestiario. Inoltre «scriviamo, nelle varie ricorrenze, un pensiero d’augurio a chi è più solo, cercano di ristabilire un rapporto di affettività che troppo spesso il carcere recide», spiega Massimo Vergari. «Ma solo in via eccezionale si riescono a intercettare i bisogni di quanti vivono più drammaticamente la detenzione. Luigi è stato uno dei tanti reclusi suicidi di quest’anno. Si è impiccato con le stringhe delle scarpe all’inferriata della cella nel carcere di Lecce. Scontava una condanna a cinque anni e due mesi. Sarebbe tornato libero tra due anni e mezzo; invece ha interrotto la sua vita il giorno del suo cinquantesimo compleanno». L’Ac, insieme all’arcivescovo di Lecce, mons. D’Ambrosio, si è fatta promotrice di un dibattito pubblico con le istituzioni volendo sostenere l’amore per la vita. «Alla condanna della legge non si può sommare quella della politica che non trova i soldi per tutelare la dignità di chi ha sbagliato e paga», ribadisce il presidente Vergari. «Solo partendo dalla dignità della persona si possono attuare percorsi di riabilitazione e di reintegrazione». Lo scarso numero di operatori carcerari e di polizia penitenziaria non permette di realizzare opportunità di ascolto, di istruzione o di catechesi, nonostante le richieste. «Si può lavorare bene, invece, con le famiglie dei detenuti che vivono nel territorio offrendo disponibilità e relazioni amichevoli, con un’attenzione particolare all’educazione alla legalità dei più giovani». Il contributo più alto l’Ac cerca di darlo facendosi voce di chi non ha voce, invitando ogni socio e associazione a ricordare nella preghiera queste persone tenendo presente ciò che ha detto Gesù: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi». [ale.gae.]

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Esperienze/Napoli

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E noi diciamo messa a Poggioreale intervista con Antonio Spagnoli di Alessandra Gaetani

A lato: l’ingresso del carcere di Borgo San Nicola a Lecce. Sopra, la messa a Poggioreale

apoli, Poggioreale, altra struttura carceraria pesante. Una realtà che ha destato l’attenzione dell’Azione cattolica diocesana che dal 2008 ha avviato un progetto. Antonio Spagnoli, membro del consiglio diocesano di Ac e coordinatore del “Progetto carcere” spiega a Segno che «un gruppo di Ac ha accolto l’invito di don Franco Esposito, responsabile della pastorale carceraria di Napoli, di fare formazione cristiana all’interno del penitenziario. Dopo la preparazione sulla realtà degli istituti di pena, i volontari di Ac hanno iniziato il loro servizio tra i detenuti di Poggioreale. Ora se ne stanno preparando altri sei».

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Come si svolge la vostra attività? Ogni settimana incontriamo i gruppi dei detenuti nel padiglione Firenze, il reparto che ospita le persone recluse per la prima volta. Sono molto giovani, sconvolti dall’arresto e dalla reclusione. È tra di loro che si verifica la più alta percentuale di suicidi. Da settembre seguiamo anche un gruppo presso il padiglione Avellino. Il nostro progetto prevede inoltre la presenza periodica in carcere del consiglio diocesano e delle associazioni parrocchiali per l’animazione delle celebrazioni eucaristiche domenicali. Che significato riveste la presenza di Ac nel carcere? Vuole rappresentare il ponte tra i due mondi: quello

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libero, esterno al carcere, e quello interno, riattivando il necessario collegamento tra la realtà carceraria e la società civile. Tende a coinvolgere la comunità cristiana affinché sia attenta alla realtà carceraria e la senta parte della Chiesa diocesana. Fa sentire ogni detenuto inserito nella Chiesa locale, attraverso iniziative e cammini di fede che incarnano nella realtà del carcere il piano pastorale della diocesi. Che caratteristiche accomunano i detenuti? Sono persone povere, soprattutto culturalmente, quasi analfabete. Durante gli incontri spesso per spiegarci dobbiamo parlare in dialetto napoletano. Il pensiero dell’Arcivescovo di Napoli, il card. Crescenzio Sepe, è da tempo rivolto ai tanti poveri che vivono nella nostra meravigliosa e martoriata terra. Dinanzi a tanta povertà non è possibile restare indifferenti. E poi andiamo in carcere perché sappiamo che Cristo Gesù è il carcerato che attende di essere visitato. Cosa vi dona l’esperienza tra i carcerati? Incontriamo persone provate che esprimono rammarico, pentimento per ciò che hanno fatto e dolore per le sofferenze che la loro condizione provoca ai familiari. Andiamo in carcere per mettere il nostro cuore accanto al loro, per seminare speranza e fiducia nel Signore. Torniamo a casa con un carico di sofferenze che conserviamo nella memoria e nel cuore, che segna i nostri giorni, riempie la nostra g preghiera, consolida la nostra fede. ■

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Esperienze/Lucca

La cooperativa che trova il lavoro di Francesco Rossi

Detenuti giocano a pallone mentre vengono controllati a vista da una guardia penitenziaria

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na “casa” per accompagnare i detenuti verso la libertà e la costruzione di un futuro migliore. La “Casa di accoglienza San Francesco”, che si trova a Lucca, venne inaugurata nel 1990 per iniziativa del locale Gruppo volontari carcere, nato qualche anno prima dall’esperienza di alcune persone che, per volontariato o per lavoro, varcavano la porta della casa circondariale. La struttura fu dedicata al vescovo Giuliano Agresti, che assieme ai volontari ne fu uno dei principali sostenitori, e costituisce una delle opere diocesane sorte in quegli anni. «Diamo una prima accoglienza a detenuti agli arresti domiciliari, in permesso o in semilibertà, i quali restano da noi fino a quando, scontata la pena, trovano un lavoro e una casa», spiega Agnese Garibaldi, figura storica del volontariato carcerario lucchese (nonché dell’Azione cattolica diocesana) e ora responsabile della struttura. Una quindicina i posti letto disponibili per gli ospiti, che restano finché non sono in grado di «spiccare il volo». Ma non c’è solo l’accoglienza, con un pasto caldo e un letto: i volontari che operano a “Casa San Francesco”

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hanno un ruolo attivo nella ricerca di un’abitazione e un lavoro, al punto che diversi anni fa venne creata la cooperativa sociale “La Mongolfiera”, senza scopo di lucro. Oggi ha 16 dipendenti e lavora con le istituzioni e i privati: dalla pulizia dei cortili delle scuole alla manutenzione delle strade, all’imbiancatura. «Quando un ex detenuto va a un colloquio di lavoro – sottolinea Garibaldi – e dice di provenire dal carcere, più di una volta il colloquio termina lì. Così, invece, passando dalla cooperativa hanno una referenza con la quale cercare lavoro». Nella casa «accogliamo persone di ogni religione, lingua e patria», ricorda la responsabile, pur essendo chiara la matrice cattolica dell’opera. I limiti, semmai, riguardano alcolisti, tossicodipendenti, violenti, per i quali in città ci sono strutture adeguate che uniscono all’ospitalità un percorso di cura e recupero. Per questo, recita il regolamento della “San Francesco”, «gli ospiti non devono introdurre né far uso di sostanze stupefacenti, sé abuso di bevande alcoliche, né introdurre alcun tipo d’arma, ed è proibito ogni tipo di violenza verbale o fisica»; la trasgressione «comporta l’immediata espulsione dalla casa». Con il tam tam delle carceri la conoscenza di questa casa va ben al di là della Toscana: «Ci scrivono da tutti i penitenziari d’Italia per avere ospitalità», racconta Garibaldi, ricordando però che, per evitare permanenze eccessive, vengono accolti solo detenuti con una pena residua inferiore all’anno. «Quando accettiamo la richiesta di un detenuto – illustra la responsabile – gli mandiamo una lettera, così lui può fare istanza al giudice di sorveglianza, il quale alla fine decide». E, dopo tanti anni, la prova forse più convincente della validità di questo progetto viene proprio dagli ex ospiti, alcuni dei quali frequentano ancora la casa, ma da volontari. Perché? «Devo restituire g quel che ho ricevuto», rispondono. ■


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Esperienze/Bologna

Teatro che racconta la vita

are cultura dietro le sbarre. È la sfida di Paolo Billi, regista e direttore artistico del “Teatro del Pratello” a Bologna. Dove “Pratello” indica una storica strada del centro storico che ospita pub e trattorie, ma anche il carcere minorile. Ed è proprio insieme ai ragazzi del carcere che il regista, anno dopo anno, lancia questa sfida alla città. «Il progetto – spiega a Segno – nacque nel 1998 grazie alla legge 285 (Legge Turco) “per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”. Per sei anni abbiamo ricevuto i fondi previsti dalla legge, poi sono state stipulate convenzioni con il Comune, la Provincia e il Centro per la giustizia minorile». Al Teatro del Pratello non si fa volontariato, né si lavora per il carcere, ma con chi sta dietro le sbarre si costruisce una proposta culturale. «Ogni anno, per quattro mesi – racconta Billi – attiviamo laboratori di scenotecnica, costruzione degli oggetti di scena, sartoria, danza teatro e così via. Con il lavoro quotidiano – tre ore al mattino e tre al pomeriggio, dal lunedì al venerdì – si realizza uno spettacolo in

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Natale del 1958: la storica visita di Giovanni XXIII tra i detenuti di Regina Coeli

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tutte le sue parti». Quest’anno la Compagnia del Pratello ha portato in scena Don Chisciotte collapse, una rivisitazione del romanzo di Cervantes con al centro un don Chisciotte ormai vecchio e cieco che, accompagnato da un ragazzino, va a teatro a vedere la storia della sua vita. «Il mio lavoro – riprende Billi – non si esaurisce in un saggio finale, ma produce uno spettacolo vero e proprio, che quest’anno è stato replicato 15 volte». D’altra parte, che si tratti di un’occupazione a tutti gli effetti lo dimostra il contratto che la cooperativa sociale che gestisce il Teatro stipula con i ragazzi, assunti come allievi attori. Perché costoro «non sono mostri, ma persone che dalla vita non hanno avuto nulla»: solo una minima parte dei minori che hanno a che fare con la giustizia finisce in carcere, e non per la gravità del reato, quanto piuttosto per l’impossibilità di avere un’alternativa, ad esempio perché sono «stranieri non accompagnati» e quindi senza una famiglia che se ne possa prendere cura. «Loro stessi – ricorda il regista – si sorprendono di essere stati in grado di realizzare uno spettacolo: è la prima volta che si sentono gratificati». E i soldi, il più delle volte, vengono subito spediti a casa per aiutare i familiari, o per permettere ai genitori – se vivono in altre parti d’Italia – di venirli a trovare. Da ultimo, quindici repliche – tutte rigorosamente all’interno del penitenziario – significano che circa 1.500 persone sono entrate in carcere «per andare a vedere lo spettacolo, e non “i ragazzacci” che fanno teatro». Così si lavora sui pregiudizi, e difatti un altro degli obiettivi del Teatro del Pratello è «metterli in crisi, facendo vedere che sul palco ci sono semplicemente dei ragazzi che fanno gli attori». Il dato sociale e quello culturale non possono essere disgiunti in quest’esperienza, che serve certamente a chi sta tra le mura del “Pratello”, ma non meno a g [F. R.] quanti vivono la città dal di fuori. ■

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Il sorriso di chi ce l’ha fatta intervista con Daniela De Robert di Alessandra Gaetani

a vita dietro le sbarre, una realtà che stride come una brusca frenata, un mondo che però esiste e con cui molti lavorano. L’associazione volontari in carcere, Vic, opera ormai dal 1994. Partendo da un gruppo di volontari della Caritas diocesana di Roma, oggi conta circa cento elementi che operano nei centri di ascolto di tutti i reparti dei quattro carceri di Rebibbia (tre maschili e un femminile), e nel reparto protetto dell’ospedale Pertini. Lo scopo del Vic è favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Daniela De Robert, presidente dell’associazione, spiega a Segno che «la gratuità e la continuità sono i due elementi centrali della nostra azione di ascolto e di accompagno. Seguiamo i detenuti e le detenute durante l’espiazione della pena, nella delicata fase di transizione da modelli comportamentali delinquenziali all’adesione ai corretti modelli della civile convivenza».

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Cosa vi ha fatto capire questa esperienza? Il carcere è sempre più solo un luogo di espiazione e di sofferenza e sempre meno una pena tesa al reinserimento della perMarcello, fiero di sé. sona condannata, come vuole invece Maurizio, che affronta la nostra Costituzione. Mancano gli i suoi demoni e le sue spazi, il personale, l’attenzione, gli fragilità. Gianfranco, investimenti. che si sta laureando,

e lo stupore di Luciano che ha dovuto imparare di nuovo a muoversi fuori dopo oltre 30 anni di galera. Per loro, e per tanti altri, c’è stato un volontario che li ha affiancati nei momenti del dolore. Segno incontra la presidente del Vic-Caritas 14

Come è cambiato nel tempo il rapporto con i detenuti e le loro necessità? Oggi i detenuti sono quasi 70 mila, in uno spazio per 44 mila. Dietro le sbarre ci sono in maggioranza coloro che vivono ai margini: stranieri, tossicodipendenti, malati di mente, poveri in genere. Hanno bisogno di tutto. Ogni settimana portiamo circa ottanta pacchi vestiario per chi non ha nulla, e

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generi per l’igiene personale. Ma ciò di cui c’è più bisogno è l’ascolto. In carcere non c’è mai tempo per ascoltare. È anche per questo che esiste tanto autolesionismo: un modo per far gridare il proprio corpo e provare a farsi notare, a farsi ascoltare. Come lavorate per favorire il reinserimento? È un impegno lungo, complesso e delicato, fatto di cadute e di riprese. Per favorire i contatti con l’esterno abbiamo una casa alloggio per ospitare i detenuti durante i permessi premio insieme ai loro familiari. Abbiamo dato vita a una serie di attività di sensibilizzazione della città. Quando si riesce ad andare oltre la paura e la diffidenza tutto diventa più facile. Penso alla vicenda di quattro detenuti che lavoravano nella cucina del carcere, che hanno chiesto, e ottenuto, di andare per una settimana in permesso all’Aquila nei giorni del dopo terremoto. La Croce Rossa ha creduto in loro e quella fiducia è stata ripagata. Ne è nato un rapporto di lavoro, con un’assunzione regolare, ma anche di fiducia e di crescita reciproca. Questa testimonianza ha lasciato tracce anche tra i loro compagni in carcere. Quali sono i fattori che determinano un cambiamento di rotta nel detenuto secondo la sua esperienza? Ogni persona ha la sua storia. È importante cercare di favorire una riflessione su proprio passato, con una presa di coscienza su quel che si è fatto. Prendere sul serio sé stessi, senza nascondersi dietro ad alibi, senza sentirsi per questo giudicati e condannati. Ricordo la gioia di Marcello, quando ha detto: “per la prima volta mi guardo allo specchio e sono fiero di me”; la fatica di Maurizio, che ha trascorso la sua giovinezza in carcere, che sta affrontando i suoi demoni e le sue fragilità; la rinascita di Gianfranco


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Noi chiediamo un maggiore ricorso alle misure alternative, una revisione delle leggi sull’immigrazione e sulla tossicodipendenza che producono criminalità e contribuiscono a riempire le carceri; un minore ricorso alla custodia cautelare, e un aumento degli educatori e degli assistenti sociali

che si sta laureando, lo stupore di Luciano che ha dovuto imparare di nuovo a muoversi fuori dopo oltre 30 anni di galera. Per loro, e per tanti altri, c’è stato un volontario che li ha affiancati nei momenti di angoscia, di dolore, di gioia, nella fatica, nel confronto, nella riscoperta delle piccole cose. Senza arrendersi davanti alle difficoltà.

Nella foto: Benedetto XVI in visita al carcere minorile di Casal del Marmo il 18 marzo 2007

Che peso ha il senso di colpa e che significato ha il perdono? Prendere coscienza di ciò che si è fatto può essere molto difficile. Rita Borsellino, in una riflessione fatta insieme ai volontari del Vic, ci ha invitato a pensare alle parole di Cristo sulla croce: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. È proprio così. Quando ci si rende conto di quello che si è fatto, si può anche soccombere. Negare è la via più facile. Il perdono però passa per questa tappa. È solo dalla

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coscienza del male fatto che può nascere la voglia di rinascere. E la riconciliazione, quando arriva, è un vero momento di rinascita, tanto per gli autori del reato che per le vittime. Ma questa giustizia fatta solo di carcere non dà nulla alle vittime, e non aiuta a cambiare chi sta scontando una pena.

Che rapporto c’è tra giustizia e vendetta? Spesso si scambia la richiesta di vendetta per richiesta di giustizia. Ma la Costituzione dice un’altra cosa: “Le pene devono tendere al reinserimento del condannato”. In nome della giustizia e della sicurezza personale si chiede il carcere duro. Ma sono le stesse statistiche del Ministero della giustizia a indicarci la strada: tra le persone che scontano la pena fino all’ultimo giorno la percentuale della recidiva è del 69%; tra coloro che scontano la pena con misure alternative la recidiva scende al 19%. Quali sono i problemi maggiori del pianeta carcere, quali le emergenze? La prima emergenza è il sovraffollamento. Le condizioni di vita sono inaccettabili, come ha stabilito anche una sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia per comportamenti degradanti e inumani a causa dello spazio ristretto in cui sono costretti i detenuti. Noi chiediamo un maggiore ricorso alle misure alternative, una revisione delle leggi sull’immigrazione e sulla tossicodipendenza che producono criminalità e contribuiscono a riempire le carceri; un minore ricorso alla custodia cautelare, e un aumento degli educatori e degli assistenti sociali che sono rispettivamente 800 e g 1.140 contro i 42.268 poliziotti.g ■

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UN’INIZIATIVA REALIZZATA DAL MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO

Eliber, piattaforma cattolica per la ditribuzione di e-book i chiamerà “Eliber” la prima piattaforma web cattolica per la distribuzione e vendita di ebook, realizzata dal “Messaggero di sant’Antonio” in partnership con LibreriadelSanto.it e Messaggero distribuzione. Dal 15 dicembre su LibreriadelSanto.it è possibile acquistare i primi e-book di editori cattolici. Al lancio partecipano, con titoli scelti, Edizioni Messaggero Padova, Libreria editrice vaticana, Elledici, Città nuova, edizioni Paoline, Cantagalli, Queriniana e Marcianum press. «Ogni libro – viene spiegato in una nota diffusa dall’ufficio stampa del Messaggero di sant’Antonio – sarà disponibile per l’acquisto e l’immediato download in 2 formati: ePub e pdf. La scelta

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del doppio formato nasce dall’attenzione per teologi, filosofi, letterati, storici, ricercatori, docenti e uomini di studio in genere, che hanno l’esigenza di un testo di riferimento paginato, del tutto fedele alla pubblicazione cartacea, anche per poter citare correttamente l’originale». L’iniziativa, si legge ancora nel comunicato, «non è rivolta soltanto al libro. Eliber, infatti, fin dal suo avvio includerà nel proprio progetto anche la realtà editoriale delle riviste teologiche e di attualità religiosa». Per ora saranno acquistabili Credere Oggi, Rivista Liturgica e Parole di Vita, in formato pdf o ePub: l’intero fascicolo o uno o più articoli al suo g interno”. Info: www.libreriadelsanto.it. ■

UN RAPPORTO SULL’INTOLLERANZA PRESENTATO A VIENNA

In Europa sono sempre di più i cristiani discriminati atti e situazioni di discriminazione e intolleranza ai danni dei cristiani nei diversi Paesi europei. Li riporta il Rapporto stilato dall’“Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa”, presentato a Vienna lo scorso 10 dicembre. Dal tentativo di adottare nel Consiglio d’Europa un provvedimento che avrebbe limitato il diritto dei medici all’obiezione di coscienza in caso di aborto al caso del primate della Chiesa cattolica belga, mons. André Leonard, accusato in novembre di omofobia per aver espresso una posizione controversa sull’Aids, fino a episodi di mancato

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rispetto verso i luoghi pubblici religiosi. I cristiani sono discriminati anche nei luoghi di lavoro secondo il Rapporto, che cita la sospensione comminata a un giudice spagnolo nel 2008 per non aver accolto la richiesta di adozione di una bambina da parte del partner dichiaratamente lesbica. Sotto i riflettori dell’Osservatorio anche i mezzi di comunicazione, soprattutto quando favoriscono il diffondersi di stereotipi negativi nei riguardi dei cristiani, e le vicende legate alla rimozione dei simboli religiosi. Da ultimo, la violenza che colpisce direttamente i cristiani, come l’assassinio, in Turchia, del g vescovo Luigi Padovese. ■


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LA BLASFEMIA IN PAKISTAN È ANCORA UNO STRUMENTO DI VIOLENZA

Asia Bibi, per difendere la libertà religiosa incerta - al momento di andare in stampa con questo numero di Segno - la sorte di Asia Bibi, la donna cristiana pachistana di 37 anni, sposata e madre di 4 figli, arrestata e condannata a morte da un tribunale del Punjab per blasfemia. Ad accusarla, alcune colleghe di lavoro con le quali aveva avuto un violento diverbio, legato proprio alle loro forti insistenze per convertirsi all’islam. Venuta alla luce la vicenda, forte è stato il richiamo – soprattutto dei cattolici – per tener desta l’attenzione e chiedere la liberazione della donna. D’altra parte la legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986 dal dittatore pakistano Zia-ul Haq, è diventata uno strumento di discriminazioni e violenze: la norma punisce con l’ergastolo chi offende il Corano e con la condanna a morte chi insulta Maometto; secondo i dati della Commissione nazionale di giustizia e pace della Chiesa cattolica (Ncjp), dal 1986 all’agosto del 2009 almeno 964 persone sono state incriminate. Al termine dell’udienza generale del 17 novembre lo stesso Benedetto XVI ha espresso «vicinanza

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spirituale» ad Asia Bibi e ai suoi familiari, chiedendo che «le sia restituita la piena libertà» e richiamando «la difficile situazione dei cristiani in Pakistan, che spesso sono vittime di violenze e discriminazione». Pochi giorni dopo si è parlato di una “grazia” concessa dal presidente pachistano, notizia poi smentita: il caso andrà avanti con il ricorso in appello. «Siamo favorevoli al processo perché vogliamo che Asia sia dichiarata innocente una volta per tutte, senza alcuna macchia e senza ambiguità», ha dichiarato mons. Sebastian Shaw, vescovo ausiliare di Lahore. Ma la sua vita resta comunque in pericolo, sia qualora venisse confermata la condanna, sia in caso di assoluzione poiché, tornando in libertà, potrebbe finire vittima dei terroristi estremisti islamici che hanno minacciato di morte pure il ministro pachistano per le minoranze, il cristiano Shahbaz Bhatti, per la sua presa di posizione in favore di Asia Bibi. Una triste conferma di come, in Pakistan ma non solo, sia dura la vita g per chi si professa cristiano. ■ Francesco Rossi

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GLI ADOLESCENTI SUL WEB

Se internet sorpassa la televisione l web batte il piccolo schermo. È quanto emerge dall’indagine su Abitudini e stili di vita degli adolescenti che la Società italiana di pediatria (Sip) conduce da quattordici anni su un campione nazionale di 1.300 studenti delle scuole medie inferiori di età compresa tra gli 12 e i 14 anni. Per la prima volta, secondo l’indagine, si assiste tra gli adolescenti al sorpasso di internet sulla televisione e si conferma la tendenza a un uso sempre più “privato” dei media. Ma in crescita sono pure i comportamenti a rischio nella rete, come dare il numero di cellulare a uno sconosciuto.

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«Internet – rileva Alberto Ugazio, presidente della Sip – è una straordinaria finestra sul mondo, con un enorme potenziale di arricchimento culturale e di crescita, soprattutto se rapportato a ciò che oggi propone la televisione. Ma tutto dipende da come si usa». Infatti «se il web viene usato prevalentemente per chattare, per sostituire ai rapporti reali una comunicazione virtuale, se aumentano sul web i comportamenti potenzialmente a rischio, allora sorge qualche dubbio su g questo sorpasso». ■ Sir

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Sul ring la vita di tutti i giorni di Marta Zanella

n un magazzino nascosto in un cortile sulla circonvallazione esterna, scaldato dal tiepido sole di mezza stagione, sta per cominciare un nuovo turno di allenamenti. Due ragazze, in un angolo, si piegano dei loro esercizi addominali. Giovanni, informatico trentacinquenne, prova un gancio sinistro al sacco. E Oliver si allena con Luca, lassù, sul ring, mentre sotto le corde il maestro Hector grida i suoi consigli. L’aria sa di sudore, polvere e canfora. È la boxe che oggi ancora sopravvive a Milano. La Boxe

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La storia della boxe a Milano è fatta da immigrati, da quei ragazzi che dal Sud sbarcavano nella nebbia milanese della stazione Centrale, e che avevano ben poche possibilità di emergere. Qualche volta palestre e guantoni facevano la differenza. Oggi il pugilato ha cambiato faccia, ma ha ancora tanto da raccontare… 18

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Ursus è una delle ultime palestre storiche rimaste in città, sul confine del Molise Calvairate, quartiere popolare: il ring, due strisce di parquet intorno per gli allenamenti, sacchi appesi un po’ ovunque, specchi e tante fotografie di pugili che hanno scritto la storia cinquantennale della Boxe Ursus. Se si vuole un assaggio di quello che è stato lo “sport dei poveri” per eccellenza, qui si ritrova ancora qualcosa di quel mondo crudo e affascinante che ha attratto generazioni di ragazzi dei caseggiati popolari durante tutto il ‘900. A salire sul ring oggi sono dilettanti ventenni, che danno l’anima per la loro disciplina ma il cui nome difficilmente finirà mai sui giornali sportivi.A vederli, tutte le volte, c’è un gruppetto di irriducibili vecchietti del quartiere, di quelli che non si perdono un match dai tempi di Duilio Loi. «Ma, a parte loro, che sono l’unico nostro pubblico vero, nessuno si interessa più alla boxe», spiega amareggiato Stefano


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Bandini, 30 anni, uno dei gestori della palestra. Qualcosa è rimasto: in provincia, per esempio, dove ci sono ancora le vecchie palestre che insegnano la boxe. I pugili che si affrontano sul ring vengono dalle società di San Donato, Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo, anche da Varese e da Pavia. Tra il pubblico si sente parlare rumeno; sul ring, insieme ai cognomi italiani, se ne sente chiamare anche qualcuno nordafricano e dell’Est Europa. È ancora sport di immigrati, ma molto meno rispetto a un paio di decenni fa. Eppure la storia della boxe a Milano è fatta da immigrati, da quei ragazzi che dal Sud sbarcavano nella nebbia milanese della stazione Centrale, con le loro valigie di cartone, e che avevano ben poche possibilità di emergere se non attraverso le palestre di pugilato. Ragazzi come quelli della famiglia Parondi, ritratti mezzo secolo fa nel capolavoro di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli.

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«Bel film quello, l’hanno girato in una palestra che ormai non c’è più, era la Lombarda di via Bellezza. Non è rimasto quasi nulla di quel mondo – a parlare è un mito della boxe italiana, il Maestro per eccellenza, che ha allenato otto titoli mondiali: Ottavio Tazzi, 82 anni e una malattia che lo sta rallentando –. La palestra che frequentavo quand’ero giovane era collocata dove c’era la Casa del fascio. Poi, alla fine della guerra, hanno sloggiato tutti e hanno sfruttato i locali come sede della polizia, della finanza, poi dei vigili urbani». Finché si sono usati spazi demaniali, le associazioni di pugilato non pagavano l’affitto, e i ragazzi potevano boxare senza pagare nulla. «Poi il mio vecchio maestro ha trovato un accordo con un’osteria in viale Corsica che ci lasciava il retro del locale per allenarci. Oggi, con gli affitti così cari in questa città, nessuno concede più gli ingressi gratuiti o almeno agevolati. E non ci sono nemmeno sovvenzioni pubbliche». Parla del passato con nostalgia, il “nonno” Tazzi, e si illumina quando racconta dei suoi “ragazzi”. Ma non i suoi otto campioni del mondo, preferisce ricordare i “brocchi”, come li chiama lui, quelli che salivano sul ring sapendo di perdere, ma con il cuore gonfio di coraggio, pronti a sfidare e battersi fino all’ultimo. «Avevano una passione immensa per il pugilato, avevano il coraggio di salire sul ring ad affrontare l’avversario e a prendere le botte, e in cuor loro desideravano ogni tanto ricevere gli applausi. Non era gente ricca, erano figli di operai...». Anche Giacobbe Fragomeni, campione del mondo nella categoria dei massimi leggeri nel 2008, allenato proprio dal Maestro Tazzi, la cui storia è sicuramente più recente, è «venuto su dalla strada». Lo Stadera è un quartiere di case popolari a sud di Porta Ticinese, luogo di raccolta di diverse immigrazioni, di delinquenti, di un’umanità precaria e disagiata. È qui che è nato, cresciuto e ha sempre vissuto “Giaco”, arrivato alla palestra Doria a 21 anni con il proposito di dimagrire e di provare a lasciarsi alle spalle una vita che si poteva definire un disastro. Con il padre alcolista e violento, la madre succube, una sorella scappata di casa e l’altra morta per overdose, lui era cresciuto a sua volta alcolizzato e tossicodipendente. I guantoni sono diventati, quasi per caso, la motivazione a voltare pagina, la sua autodi-

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Le foto delle palestre sono di Roberto Colombo

In tre milioni, da Torino a Napoli

UNA VALIDA ALTERNATIVA ALLA STRADA mozione, orgoglio, coraggio e rispetto. Soprattutto rispetto. Sono i valori chiave della “nobile arte”, i tanti che oggi fanno boxe dal Veneto alla Sicilia. Tre milioni di praticanti e quasi 10mila atleti tesserati, secondo i dati – aggiornati all’ottobre 2010 – della Federazione pugilistica italiana, che racconta di come questa disciplina sia in crescita, e coinvolga ormai tutte le fasce d’età e di tutte le estrazioni sociali. E non solo: tirare di boxe non è più solo una cosa da uomini, se è vero che solo nell’ultimo anno le ragazze tesserate sono aumentate del 15%. «Ovviamente il pugilato occupa ancora un posto di tutto rispetto per quanto riguarda le alternative alla strada – racconta Michela Pellegrini, che ha sott’occhio la situazione dall’Ufficio stampa della Fpi – e per molti giovani disagiati è ancora uno strumento privilegiato di riscatto». Duemila tesserati in Lazio, mille in Lombardia, 700 in Campania e in Piemonte: migliaia di storie diverse, che raccontano la stessa etica. «Il mondo del pugilato nasconde delle grandi lezioni di vita, dietro all’apparenza di uno sport violento – racconta Pavel, russo, ma che vive da tempo a Torino, dove pratica boxe alla storica palestra Ilio Baroni – Ho iniziato per caso tre anni fa, partecipando a un “incontro di strada” organizzato da amici. In quell’occasione mi hanno gonfiato di botte, ma ho capito che non si trattava solo di picchiare, quanto piuttosto di imparare una disciplina». A Napoli, invece, è Lino Silvestri, figlio d’arte e lui stesso allenatore e fondatore della Napoli Boxe, a spiegare come tra i vicoli del quartiere Avvocata «il pugilato sia ancora un’alternativa alla strada e un’occasione di rivalsa sociale. Un’energia che si incanala nel rispetto per l’avversario, il pubblico, la disciplina che ha le sue regole, i compagni di team, se stessi». [m.z.]

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sciplina, la sua determinazione a migliorarsi sempre, che l’hanno portato a superare anche un brutto infortunio, a diventare campione del mondo e simbolo del riscatto dello Stadera. Ma queste favole a lieto fine sono ormai casi unici. «Le palestre oggi sono altro, piene di macchinari, hanno la sauna. Il ring è relegato in fondo, e lo capisci che al gestore non gliene frega del pugilato – si sfoga Tazzi –, l’importante è che si paghi l’abbonamento». Oltre alla Boxe Ursus di viale Umbria, in città resiste la Forza e Coraggio, un capannone in zona sud. La provincia stringe i denti – e i pugni – e difende i suoi spazi: a volte può contare ancora su un piccolo palazzetto, ma bisogna guardare a Bergamo, a Vigevano. «Il pugilato non è più sport del popolo. Del resto, dove vado io adesso – spiega el maester –, tra iscrizioni e tariffe varie si spendono 900 euro l’anno. Bisogna abbassare i costi, incentivare i ragazzi». Il nonno Tazzi rivela di essersi offerto, tempo fa, di allenare gratis in una palestra comunale vicino a casa,


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nella zona multietnica di via Padova. Il nome di Ottavio Tazzi avrebbe potuto essere una bella occasione di aggregazione sportiva per i giovani e una risorsa sociale preziosa in questo spicchio di città. Gli hanno detto di no. Stefano Bandini spiega che alla Ursus cercano di ridurre, per quel che possono, le tariffe: il risultato è

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una clientela molto varia: «C’è il dentista del centro che scherza negli spogliatoi col ragazzo delle case popolari. C’è il ricco imprenditore che arriva con la Porsche e lo studente che attraversa tutta la città con il filobus. C’è lo zingaro che combatte con “l’avvocatone”». Oggi a Milano l’agonista medio non è più il ragazzo di periferia, ma lo studente universitario. Anche perché non è più un’attività che riesce a tirare fuori la gente dalle grane. Non paga più. «Prima era relativamente facile prendere 50mila lire per un incontro e, per un ragazzo che arrivava dalla periferia, era un modo di dare una mano alla famiglia – è ancora Stefano a parlare –. Adesso un dilettante prende 30 euro a incontro, se va bene. Se avesse necessità di combattere per soldi, andrebbe a fare altro». Chi va avanti lo fa unicamente per passione. Come Riccardo, ventisei anni, per cui la boxe «non è solo picchiare, usare le mani: la boxe è una filosofia di vita. Il ring rispecchia la vita di tutti i giorni, in cui non si deve mai abbassare la guardia, in cui devi riuscire a dare tutto quello che hai sudato e sofferto negli allenamenti, devi mettere tutto te stesso, tutto quelli che hai imparato. E se non lo fai, perdi». O come Joseph, che lavora tutte le notti a scaricare camion all’ortomercato, e ha messo da parte un po’ di soldi per volta pur di riuscire a comprarsi casco e guanti. «Io non vorrei che la gente venisse da me perché costo meno, sono sicuro che vengano da noi per il clima che si respira nella nostra palestra – spiega Stefano –. L’ambiente è familiare, nessuno guarda come sei vestito, se sei alta o bassa, magro o grasso. La persona vale per quello che è: se sei uno “stronzo” lo sei anche se hai l’auto bella, e quando prendi le botte le prendi chiunque tu sia. Non è uno sport dove avere i soldi cambia i risultati». E se è vero che la lotta sul ring rispecchia le lotte della vita, almeno sul quadrato chiamarsi Ambrogio, Salvatore o g Mohammed non ha mai fatto differenza. ■

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Sogno Wimbledon intervista con Erik Crepaldi di Alessandro Nizegorodcew

l tennis non è per tutti. Non è solamente uno sport individuale, ma è quello che ti mette più di tutti a contatto con te stesso. I tempi morti tra un punto e l’altro, i lunghi cambi di campo, i dubbi, le certezze; una moltitudine di pensieri che si rincorrono e che influiscono, inevitabilmente, sulle tue prestazioni. Il livello medio, inoltre, è cresciuto tantissimo; emergere nel tennis è quanto mai complesso e anche raggiungere i primi 100 della classifica mondiale appare, per i nostri giovani, un’irraggiungibile chimera. Erik Crepaldi ha vent’anni, 600 Atp (ovvero numero seicento nelle classifiche mondiali), 1 metro e 75 di altezza e un talento (mancino) invidiabile. Il suo sogno è entrare nel gotha del tennis...

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Quando si è avvicinato per la prima volta al tennis? Tutto è cominciato quando ero molto piccolo, circa 4 anni, nel cortile di mio nonno, che è ancora adesso nei miei ricordi più profondi. Sono nato a Vercelli il 4 maggio del 1990, figlio d’arte. Siamo una famiglia che ha sempre vissuto in questo mondo e anche mio fratello fa il maestro, così come sua moglie. Diciamo che il tennis ci piace parecchio. Torniamo per un momento in quel cortile… In quel cortile enorme, ricordo nitidamente una parete bianca, dalla quale sono stato attratto fin da subito. Appena trovata una racchetta e anche una pallina completamente sporca, che usavamo per far giocare il cane, mi sono messo a palleggiare contro il muro; tutti i giorni, per ore L’amore per il tennis da parte e ore. Da subito il mio cuore di una delle maggiori promesse è stato catturato dai colpi di questo sport, che mi faceitaliane. Un giovane che racconta a Segno i suoi desideri vano sentire al settimo cielo. e tutto ciò che ruota intorno al Un giorno, non distante dalla mia “prima volta”, mio mondo della racchetta. Compreso quel famoso e tanto nonno si avvicinò a papà Luigi dicendogli: «Sono stufo ambito prato inglese...

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di ripitturare questa parete bianca, tuo figlio la sporca sempre con la pallina del cane!» Mio padre, ignaro di questa mia passione, fu sorpreso e rispose: «Lo porterò in campo». La stessa sera mio padre, pieno di commozione, prima di addormentarsi sussurrò a mia madre: «Erik ha iniziato a giocare...». Un sogno si era realizzato. Così ha inizio la mia storia. E da allora è cominciata la sua grande avventura nel mondo del tennis... Ho iniziato a giocare con mio padre e mio fratello Maurizio e si stava in campo per ore, fino al tramonto. I primi campi che ho calcato sono stati quelli del circolo “Le Acacie” di proprietà di mio nonno. È qui che il mio amore per il tennis si è consacrato e con-


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Nelle foto: il tennista Erik Crepaldi in azione

solidato. Sin da subito il mio sogno è stato quello di diventare forte ed entrare nei primi 100 giocatori del mondo, quello cioè che è considerato il gotha di questo sport. Crescendo, questa passione è diventata parte fondamentale, direi anzi primaria, della mia vita. Ho cominciato con i tornei provinciali, regionali, quindi nazionali e internazionali, scoprendo nuove emozioni e vivendo splendide esperienze. Il tennis è uno sport che dà la possibilità di viaggiare molto. Quanto è stato importante per la sua crescita, come tennista e come uomo? Ho 20 anni e ho già visitato tantissimi paesi nei vari continenti. Sono stato in Thailandia, Kuwait, Grecia, Repubblica Dominicana, Spagna, Stati Uniti, Slovacchia e in ogni altro angolo dell’Europa. Ho visitato città come Madrid, Parigi, Bratislava, Miami, oltre a Roma, Napoli, Milano, Trento, Palermo e tantissime altre. Sono stato a contatto con culture e religioni di ogni genere e vissuto le tradizioni di tutti questi popoli. C’è solo un aggettivo per descrivere tutto ciò: meraviglioso. Non c’è cosa più bella di poter vivere e sperimentare ogni cosa: dal mangiare con le bacchette in Thailandia (minimo tre ore a pasto perché è difficilissimo!) al congiungere le mani di fronte al proprio viso a fine partita per salutare l’arbitro a fine partita, invece della classica stretta di mano. In ogni angolo delle terra si possono trovare persone straordinarie con cui trascorrere settimane indimenticabili e portare via con sé ricordi unici. Viaggiare praticamente per 52 settimane all’anno, non è però faticoso? Molte persone pensano che sia una vita dura o fati-

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cosa, mentre io preferisco dire che è impegnativo sì, ma non posso dimenticare che il tennis è ciò che amo di più e quindi ogni sofferenza svanisce. Riconosco di essere un privilegiato. La gioia di entrare in campo e sentirsi al proprio posto è la sensazione più bella del mondo. Quest’anno ho viaggiato moltissimo da solo, ma fortunatamente ho sempre trovato grandi compagni come Claudio Grassi, ragazzo intorno al numero 350 Atp, che mi ha dato una grande mano per gestire le situazioni extra-tennis, insegnandomi qualche trucchetto del mestiere. Trenta giorni di trasferta consecutivi non sono semplici. Viaggiare da solo forma la persona e rende le idee più chiare su tutto. Noi tennisti siamo fortunati, perché facciamo ciò che amiamo e abbiamo sempre una connessione aperta con il nostro cuore. Il suo lato spirituale è rilevante. L’aiuta molto? Sì, sono religioso. Tanti pensano che credere in Gesù sia sciocco oppure che renda la persona debole, incapace di camminare da sola. A mio avviso si sbagliano di grosso, perché ciò che ti dà la fede è coraggio, umiltà, gentilezza e benessere generale. Credere vuol dire amare. Credere vuol dire essere umili, riconoscendo le nostre capacità al 100%. Il suo sogno nel tennis? Il mio sogno nel cassetto è quello di vincere Wimbledon. Il cammino è appena iniziato e il supporto tecnico e morale non mi manca. Ho un grande staff, che mi segue e che mi vuole bene. Mio padre Luigi è il mio allenatore, “nonno” Peppino è il preparatore atletico, Emanuele Marcato il mio osteopata nonché allenatore in palestra, Andrea Curà è l’omeopata e infine, ultima ma non meno importante, mia mamma Piermaria che... fa la mamma. Grazie Erik e in bocca al lupo per tutto. Grazie. Crepi! L’augurio che faccio a me stesso è quello di poter godere ogni singolo momento delle mie avventure e conoscere più gente possibile e ovviamente vincere. Ho capito che i sogni a occhi aperti, quelli fatti da bambini, sono i più veri e quindi g continuo a sognare. ■

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In cammino con la tv di Ada Serra

l deserto, una stella, le ombre di sei viaggiatori con lo zaino in spalla: è il logo di 6 in cammino, il nuovo programma per le famiglie di Boing, la prima tv tematica gratuita per ragazzi in Italia. Fino al 13 febbraio, ogni domenica alle 14.30 verrà raccontata una tappa del viaggio di cinque adolescenti bolognesi in Terra santa. I viaggiatori hanno letto il Vangelo sui luoghi del Vangelo: «Leggere il brano della chiamata di Pietro e degli altri pescatori con i piedi ammollo nel lago di Tiberiade è un’esperienza unica, poco comune anche per i pellegrini», raccontano entusiasti i protagonisti. L’hanno meditato: «Gli interventi dei ragazzi non erano preparati, non avevano un copione», precisa a Segno il conduttore televisivo Manolo Martini, il “sesto” in cammino, che ha fatto loro da Grazie a un’idea dei guida (volto noto per l’Ac dal momento francescani che ha presentato C’è di più il 30 ottodell’Antoniano di Bologna alcuni ragazzi, bre a Roma). «Il risultato è frutto delle videocamera amatoriale riflessioni e delle emozioni che hanno provato» aggiunge. Poi, la Parola è alla mano, viaggiano attraverso la Terra santa. stata attualizzata grazie a una serie di incontri speciali: «Mi ha colpito quello Raccontando in tv i con il gestore del kibbutz dove abbiamomenti pù intensi mo dormito una notte: un ebreo italiano che tanti anni fa si è trasferito in Israele per seguire la propria fede», dice Riccardo, l’unico maggiorenne dei cinque. «Per me, invece, è stata molto forte la visita all’orfanotrofio La Creche di Betlemme», si inserisce Carlotta, 15 anni, la più piccola del gruppo. «Conoscere quei bambini è stato toccante ma anche un po’ frustrante, al pensiero di non poter far nulla per aiutarli». Ideatori del programma sono i francescani dell’An-

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toniano di Bologna che, dopo tanti anni di Zecchino d’Oro, hanno voluto provarsi in una forma comunicativa nuova. La loro idea ha incontrato la volontà dell’editore Turner Italia, proprietaria, insieme a Mediaset, del canale Boing. Due esperienze diverse che mettono in comune obiettivi importanti: «Il nostro scopo non è fare catechesi ma suscitare curiosità», dice padre Alessandro Caspoli, direttore dell’Antoniano di Bologna. «La tv crea un interesse su quelle che per noi non sono pietre, ma luoghi vivi», aggiunge. Jaime Ondarza è amministratore delegato della Turner Italia e responsabile editoriale di Boing: «Il nostro è un programma laico. Ci crediamo molto perché siamo convinti che il Vangelo abbia un messaggio interessante per la vita e le domande fondamentali di chiunque». Un grande contributo è venuto dai frati della Custodia di Terra Santa, che hanno reso possibile la realizzazione del progetto in un territorio difficile come Israele e Palestina. «La cosa che mi è rimasta più impressa – ricorda a questo proposito Ricky – è stata la visita al Muro del pianto: prima di entrare ci hanno perquisiti e fatti passare attraverso un metal detector. È come se tutti avessero paura che da un momento all’altro succedesse qualcosa». Grazie a una videocamera amatoriale, anche i ragazzi si sono divertiti a filmare la “loro” Terra santa, per mostrare con i loro occhi le immagini e i momenti più intensi. «Israele e Palestina sono tanti mondi», inizia a descrivere Pietro, il “filosofo” della compagnia. «Penso alla tensione ai checkpoint e alla pace surreale del Getsemani. A Jericho, dove i luoghi raccontano una delle storie più antiche della terra e, allo stesso tempo, ospitano persone che a stento riesco-


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Nella foto: i ragazzi della trasmissione tv

no a sopravvivere. Però, non mi sono sentito straniero in questa complessità». Gli fa eco Sara, l’“artista”, che ha prestato la voce per la sigla del programma. «La realtà politica, sociale e religiosa di questi luoghi in un certo senso ti affonda, sembra quasi ti prenda da dentro. Ho imparato che ogni tanto bisogna sapersi fermare, per guarire dalla malattia del tempo che passa e gli anni porta via, come canto nella sigla». 6 in cammino è dunque il racconto di un percorso personale, in cui però le telecamere sono più discrete di quelle dei reality show e capiscono quando è il momento di spegnersi. Un valore aggiunto è dato dalla condivisione in gruppo: «Ho subito avuto la sensazione di stare bene con gli altri, anche se non

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ci conoscevamo prima», spiega “l’impulsiva” Maria Clara. Anche i telespettatori vengono chiamati in causa: «Tu sei esattamente come noi», ci dice Pietro, a cui chiediamo di “vendere” il programma ai lettori di Segno. «È come se guardassi un tuo amico in tv. Non a caso anche tu 6 in cammino!». E i protagonisti del viaggio verso dove “sono in cammino”? Carlotta: «Faccio fatica a risponderti: punto a un futuro che costruirò passo passo, sperando un giorno di dire: “Questo è il mio posto”, anche se la vita è imprevedibile». Sara: «Io penso non sia importante la meta ma come ci arrivi e con chi». Riccardo: «Spero di diventare un uomo ma mi sa che ho ancora molto da camminare». E ride. Pietro: «Spero tanto che per i 6 il cammino non finisca il 13 febbraio, con l’ultima puntata: c’è ancora tanta strada da fare». Lo sperano anche i produttori del programma, che già pensano di ripetere l’esperienza, magari in Africa o negli g Stati Uniti. ■

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Il valore aggiunto del doposcuola di Barbara Garavaglia

uccesso scolastico o esclusione? Tempo di lezioni, di compiti da fare, ma non sempre gli scolari e gli studenti hanno alle spalle conoscenze e persone che li possano aiutare a svolgere il proprio “dovere”. È una domanda urgente, perciò, quella di un supporto da fornire a bambini e ragazzi che frequentano le scuole, anche di secondo grado. Una domanda alla quale le parrocchie, le Caritas e il mondo del volontariato da Da Nord a Sud sono centinaia anni danno una risposta. le parrocchie e le Non senza dover superare organizzazioni di volontariato difficoltà: infatti, per orgache aiutano i ragazzi a “fare un servizio di doponizzare i compiti”. Si pongono al fianco dei giovani, stabilendo un patto scuola, occorrono spazi con gli studenti e le famiglie e, adeguati, volontari, e fondi per gestire un’azione eduin alcuni casi, diventando un interlocutore qualificato anche cativa che travalica il confinei confronti della scuola stessa ne del sostegno allo studio,

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diventando un supporto alla crescita globale delle persone. Da Nord a Sud, sono centinaia le parrocchie impegnate in questo servizio. I doposcuola costituiscono un’area di particolare impegno, ad esempio, per la Caritas ambrosiana che da molti anni oramai svolge, attraverso il lavoro dell’Area minori, una attività di ricerca e di studio in quest’ambito, oltre che un servizio di promozione, formazione e di accompagnamento delle realtà che in diocesi operano con ragazzi cha manifestano forme di disagio nel rapporto con la scuola e nei percorsi di apprendimento. Superano i 160 i doposcuola attivi nella diocesi di san Carlo, dei quali una cinquantina nella sola Milano. I doposcuola sono accomunati da un legame, più o meno stretto, con gli oratori condividono alcune linee progettuali fondamentali. Nei doposcuola della diocesi ambrosiana, così come in quelli di altre diocesi italiane, la percentuale dei

L’impegno della Caritas ambrosiana

«OLTRE I COMPITI, CI OCCUPIAMO DELLE PERSONE» i sono parrocchie che offrono un servizio di doposcuola da un quarto di secolo, ma ogni anno nuove comunità si buttano in quest’opera educativa, dalla forte valenza preventiva. La Caritas della diocesi di Milano fotografa la realtà di questa azione di volontariato sociale e la supporta: all’interno dell’Area minori, è attiva infatti una specifica segreteria che offre servizi di consulenza e di formazione dei volontari stessi. «La maggior parte dei doposcuola – spiega Matteo Zappa, responsabile dell’Area minori della Caritas – mantiene la caratteristica di seguire gli studenti in un rapporto uno a uno, in un percorso che, oltre all’accompagnamento allo studio, presenta caratteristiche di socializzazione. I volontari coinvolti sono numerosi: si contano adulti, e una buona percentuale di giovani e di adolescenti che aiutano i più piccoli. Prevalentemente i doposcuola sono rivolti agli alunni delle medie, poi delle elementari ed esistono esperienze di sostegno allo studio per ragazzi delle superiori». Le parrocchie e le realtà di volontariato, nel corso degli anni, hanno percepito l’esigenza di strutturare meglio la propria offerta: «Abbiamo verificato – racconta Zappa – come tutti i doposcuola abbiano un coordinatore. In alcuni casi si tratta di un volontario, oppure di un professionista, cioè di un educatore stipendiato. Sono richiesti alla Caritas percorsi di accompagnamento e di formazione dei volontari. Per quest’opera – specifica il responsabile dell’Area minori della Caritas – occorrono competenze e la capacità di comprendere quale sia il tipo di bisogno al quale rispondere». I “fruitori” di questo servizio sono sia studenti italiani che stranieri. Giungono o direttamente dalla scuola, oppure perché conosciuti in parrocchia. Alcuni hanno oltre a difficoltà in campo scolastico, situazioni difficili in famiglia o a livello sociale. «È importante portare avanti una progettualità condivisa fra scuola, doposcuola e famiglie», aggiunge Zappa. [b.g.]

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In campo, per aiutare scolari e studenti a superare difficoltà di apprendimento o più semplicemente a studiare con la presenza di un adulto, scendono anche le istituzioni locali, le associazioni di volontariato e le Fondazioni

bambini e dei ragazzi stranieri che richiedono il servizio è alta. Alcune parrocchie milanesi, ad esempio, hanno valutato che gli studenti stranieri rappresentino quasi il 50% dei fruitori del doposcuola. Nel prossimo mese di febbraio, la Caritas ambrosiana presenterà una accurata indagine che fotografa il mondo del doposcuola nella vasta diocesi. In campo, per aiutare scolari e studenti a superare difficoltà di apprendimento o più semplicemente a “fare i compiti” con la presenza di un adulto, scendono anche le istituzioni locali, le associazioni di volontariato e le Fondazioni. Negli anni trascorsi, la Regione Liguria e la Conferenza episcopale ligure avevano siglato un accordo per la valorizzazione delle attività in favore di bambini e di ragazzi. La Fondazione Cassa di risparmio di Parma, nell’ambito del Programma provinciale oratori, con la partecipazione di enti locali, ha sostenuto progetti a Parma, Fidenza e Piacenza, che contemplano anche lo svolgimento di doposcuola.

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Esempi di sostegno allo studio si contano in Piemonte, Veneto, Toscana, Abruzzo, Umbria, a Roma, e anche in realtà di forte marginalità. La parrocchia di Sant’Anna a Palazzo, nei Quartieri Spagnoli di Napoli, ha ospitato il progetto per esempio Educainfanzia, affidato al mondo del volontariato, che ha fornito gratuitamente un servizio di doposcuola. In località Librino di Catania, con “Talità Kum”, la diocesi rivolge la propria attenzione ai giovani, anche con l’aiuto nei compiti e nello studio. I cooperatori salesiani di Piedimonte Matese, in Campania, propongono attività di doposcuola. I volontari, infatti, appartengono sia ad associazioni, come in alcuni casi alla conferenza di San Vincenzo, oppure al tessuto delle comunità stesse. Studenti, mamme con disponibilità di tempo, docenti in pensione, educatori professionali stipendiati per dare una continuità ai progetti, si pongono al fianco di bambini e di ragazzi delle scuole, stabilendo un “patto” con gli studenti e le famiglie e, in alcuni casi, diventando un interlocutore qualificato anche nei g confronti della scuola stessa. ■

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Il sorriso di Paolino

o scorso 28 ottobre, Giosy, una delle amiche più care di Paolino, si presenta davanti al cortile di casa sua. Sono le otto meno cinque della sera. Bussa al portone. Paolino raggiunge la cucina con la carrozzina elettrica, e con le dita della mano destra schiaccia il pulsante messo in casa giusto per lui. «Si è aperto?». «Sì». «Sali». Giosy percorre il cortile, va su per due rampe di scale e arriva davanti alla porta di casa. Per aprirla, Paolino deve fare un ulteriore piccolo sforzo: raggiungere un altro tasto, che si trova un po’ più in alto. A volte rinuncia, preferisce arrivare alla maniglia e girarla facendo forza con la testa. Giosy Il dolore di una sa che deve attendere qualche minuto. malattia dura, come la distrofia muscolare. Però ne passano troppi. Si preoccupa, E l’incontro atteso con raggiunge la mamma di Paolino, che rientra di corsa. Lo trovano proprio lì, in sorella morte. Ma la speranza cristiana nel cucina. È morto. Un attacco cardiaco fulminante, sospettano i medici. Qualche Dio della vita e della giorno dopo, nella commozione generale, bellezza non ha mai una vacanza in Sardegna. Distrofia muscolare prola famiglia e gli amici si accorgono che lasciato Paolino Iorio, gressiva, anche lui. «Quando vidi la sua bara bianca, Paolino questa scena l’aveva già “vissuamico di tutti piansi tantissimo, gli dissi: “Ci vediamo in paradita” due anni prima, mettendola in versi, so”», scrive Paolino. Poi c’è Nina, la sorella «che bracome amava fare per ogni piccolo avvenimento della vissima a scuola/per me ha rinunciato all’universua vita: «Bussa il citofono/chi sarà mai?/una mia amica mi viene a trovare/ma attraverso di lei è un sità». Il nipotino Antonio, 12 anni. E infine loro, papà Altro/che mi viene a trovare/e l’Incontro si rinnova». Giovanni («uno dei “piccoli”/di cui Gesù parla nel Vangelo») e mamma Maria («stai sotto la croce/con Parole leggere, figlie mature di una mente agile e di dolore ma senza paura»). Di figli un corpo imprigionato dalla distroimmobilizzati dal male ne hanno fia muscolare progressiva. Parole accuditi due, non uno. E li hanno battute sul pc lentamente, di più, ALCUNI VERSI persi entrambi. con una lentezza spasmodica, «Guardando il Crocifisso La distrofia ha cominciato a presquasi a marcarle d’eternità, sillabe ho trovato il significato sare presto il corpo di Paolino (con messe insieme per narrare a sé della mia sofferenza accolta e vissuta Felice era stata giusto un po’ più stesso e al mondo trentatré anni di alla Sua luce lotta, di rabbia, di pace, di fede. strumento di salvezza» clemente). A 8-9 anni i passi Paolino ha davvero messo nero su cominciano a essere incerti. In «Mi sveglio bianco ogni evento della sua vita. e i miei occhi terza media le gambe crollano, ci vuole la sedia a rotelle. Paolino Nomi e volti inondano qualsiasi vedono il sole che brilla insorge. Non la vuole, la detesta. È giorno del calendario. Il primo e il cielo azzurro provo gratitudine il segno della resa. Ci si deve nome è quello del fratellone, Feli- perché tutto sedere per forza, non per scelta. ce, morto per arresto cardiaco il mi fa desiderare Nelle foto: Paolino Con quella elettrica cerca di vin14 agosto di 6 anni fa, durante di vivere» insieme ai suoi amici

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cere la sfida della normalità. Scende in strada, affronta la malattia, le paure, i pregiudizi. La sua adolescenza è serena, ma vorrebbe avere una fidanzata. Quando sarà più grande metterà in versi anche questo piccolo dolore. Un giorno, scarrozzando qua e là per Nola, si imbatte in Ciccio, presidente dell’Azione cattolica della parrocchia “Stella”. Stanno preparando una recita, gli offre un ruolo. Paolino ripete la parte per ore e ore. È un successo. Anche Shyla, la cagnetta amica della sua infanzia, applaude entusiasta. A impresa conclusa, Paolino dalle quinte lancia un urlo memorabiCanto alla vita

UN LIBRO PER CHI NON SI È MAI ARRESO aolino Iorio è nato il 3 marzo 1977 ed è morto lo scorso 28 ottobre. È il terzo e ultimo figlio di Giovanni e Maria. Anche il fratello maggiore, Felice, è morto nel 2004 a causa della distrofia muscolare progressiva. Paolino ha scritto un libro di poesie intitolato Il cantico della creazione. A scrivere la prefazione il vescovo di Assisi-Nocera UmbraGualdo Tadino, mons. Domenico Sorrentino, che l’ha a lungo accompagnato spiritualmente. Nella prefazione mons. Sorrentino scrive che «la poesia di Paolino trasuda umanità. Questi versi sono uno choc liberante e rigenerante. Lì dove ci si aspetterebbe il lamento sgorga invece un canto di gioia, un invito alla speranza, un inno alla vita. Incoscienza? O, piuttosto, magia di un incontro: quello che Paolino ha avuto con Cristo». I testi sono semplici, raccolgono le sue riflessioni sull’amicizia, sulla famiglia, sulla fede, sulla vita e sulla morte. Insieme al libretto ha lasciato una dettagliata autobiografia in cui racconta gli episodi essenziali della sua vita.

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le. È a questo punto che l’elenco diventa sempre più lungo. Don Sebastiano, don Antonio, don Alessandro, don Domenico (don Domenico Sorrentino, ora vescovo di Assisi, ha seguito la sua crescita spirituale), don Erasmo, don Luca. E don Mariano, l’attuale parroco della “Stella”. E poi gli amici, amici veri, non per compassione o ipocrita pietismo: Monica e Antonio, Ottavio, Paola, Giosy, Rosa, Mariangela,Francesco, Andrea, Concetta, Pina, Paoletta, Mina, Francesco e Giovanna, Rosa, Ciro, Rosalbina e Luigi, Adele, Marco, Angela, Giovanna, Nicola, Emanuele... Ragazzi che vanno e vengono da casa sua, per rivelare un segreto, per ricevere un consiglio, per leggere l’ultima poesia. O per decidere qualcosa di importante per la parrocchia. Già, perché Paolino, pur essendo alle prese per dodici ore al giorno con un ventilatore polmonare, si rende conto che tutto quell’affetto lo rende fortunato, e che dunque deve restituire quello che ha avuto. E allora ecco un altro elenco. Partecipa a tutti gli incontri di formazione. Impara e insegna a stimare tutte le realtà presenti in Chiesa: Azione cattolica, Comunione e liberazione, Scout, Caritas. Prega da solo, in famiglia, con gli amici. Diventa responsabile dell’Acr. Segue gruppi di bambini. Forma gli educatori. Partecipa al consiglio pastorale. Cura il giornalino parrocchiale. Organizza raccolte alimentari. È attento alla vita della città. Si spende per la storica festa dei Gigli, distintivo di Nola nel mondo. È sensibile verso i poveri. Apre la casa per tutte le feste di compleanno degli altri. Raccoglie in giro per la città i disabili che se ne stanno chiusi in casa. Progetta grandi viaggi per i suoi amici. «Paolino, ma tu come fai con la carrozzina?». «Non ti preoccupare, noi lo facciamo per gli altri, mica per me…». E se avesse potuto, il 30 ottobre avrebbe raggiunto Roma con i piccoli della parrocchia per l’incontro dell’Ac con papa Benedetto XVI. «Per i giovani di questa diocesi è già un modello di santità», ha detto il vescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma, nella celebrazione a due settimane dalla sua morte. Su facebook c’è un gruppo dove ciascuno riporta il messaggio, la lettera, la poesia, la mail che Paolino gli ha dedicato. Così continua a vincere il suo g amore per la vita. ■

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Sacchetto di plastica vade retro

è chi è entrato – come la città di Fossano – nel Guiness dei primati, utilizzandolo per realizzare una scultura che riprende il profilo del Monviso, ma il sacchetto di plastica, tra le svariate caratteristiche che ha, non vanta certo quella dell’artisticità. Anzi, ormai, lo shopper in plastica è un “fuorilegge”, la cui

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via segnata, dopo quella del riciclo, è quella dell’estinzione. Anche se la vita di un sacchetto è lunga – almeno un centinaio d’anni –, e nei più remoti angoli del pianeta se ne trovano frammenti o intere colonie. Le borse in plastica volano, e a volte alzando lo sguardo, le si vedono ondeggiare come bandiere sugli alberi, e poi galleggiano nei mari, li inquinano e


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sono fonte di morte per molti pesci e per uccelli, che li ingeriscono credendoli cibo, oppure accidentalmente, rimanendone soffocati. La loro dispersione nell’ambiente è uno dei dati più negativi che li caratterizza. In Italia è stato calcolato che ciascun abitante consumi 300 sacchetti di Adeguandosi al resto plastica all’anno. dell’Europa, anche La normativa tecnica comunitaria En l’Italia dimenticherà 13432 ne vieta l’utilizzo e anche l’Italia, presto (si spera) lo dal primo gennaio 2011, ha detto stop shopper in materiale (chi non lo ha fatto si dovrà adeguare) non riciclabile. allo shopper di plastica. Da molto tempo Un segnale verso la difesa ambientale e del nei supermercati i sacchetti della spesa Creato, per consegnarlo in plastica sono a pagamento, e non alle future generazioni mancano gli esempi di catene della grande distribuzione che hanno proposto come uno scrigno alternative ai propri clienti. Conad, prezioso e non come Despar, Esselunga, Il Gigante, Pam, una insana discarica. Sma, Unes, Iper, Selex, Auchan, Coop, E c’è chi rispolvera la Crai, Carrefour, Tigros, Leroy Merlin, ma borsa di tela anche Decathlon e Ikea: con modalità diverse, negli esercizi di queste catene i consumatori hanno trovato, già dagli ultimi mesi del 2010, invece delle borse in plastica, contenitori riutilizzabili, sacchetti in carta o in materBi, shopper biodegradabili. Insomma, la vecchia sporta riutilizzabile, al posto delle decine di sacchetti in plastica che ogni massaia accumula nel corso di un anno. Spazio alla fantasia: c’è chi rispolvera borse in tela, cucite in casa da qualche solerte zia o nonna, chi acquista sporte in juta, in cotone, personalizzate, colorate, divertenti o “impegnate”, oppure reti in cotone, resistenti, lavabili e ovviamente riutilizzabili. La shopping bag potrebbe diventare un elemento di tendenza… Per ora, sono state avviate campagne per sensibilizzare la popolazione sul tema dell’abolizione delle sporte in plastica, da Vota il sacco di Legambiente, che ha proposto un referendum per dire no al sacco in plastica e per decretarne il degno successore, alla campagna lanciata dall’associazione Comuni virtuosi sul sito www.portalasporta.it. Anche regioni e province si sono mosse per pro-

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muovere alternative al sacchetto della spesa in plastica. Il Conai (Consorzio nazionale imballaggi) da anni premia e mette in vetrina le aziende che con sensibilità adottano imballaggi tesi a risparmiare materiali e a favorirne lo smaltimento e il riciclo. Ovviamente alle spalle di un sacchetto di plastica, c’è un settore industriale che ha evidenziato alcune perplessità riguardo all’abbandono definitivo del tradizionale sacchetto. Unionplast, nel mese di novembre del 2010, ha ricordato in un memorandum, alcune conseguenze riguardanti l’adozione della normativa europea. Per il consorzio di Confindustria, infatti, occorre sottolineare come per fabbricare i sacchetti in plastica si utilizzino come materie prime i rifiuti, che diventano da “problema” una risorsa, mentre per la confezione di shopper in biopolimeri si debbano utilizzare risorse alimentari. Inoltre, gli industriali rimarcano come i sacchetti di plastica siano più volte utilizzati per mettere la spesa e anche per i rifiuti (data la loro resistenza) e sia possibile il loro smaltimento da parte del Conai, per non tacere poi le conseguenze economiche che la riconversione degli impianti potrebbe portare nel settore. Puntuale è stata la risposta di Legambiente, che ha ribattuto agli industriali della plastica, mettendo in evidenza possibili contraddizioni, lacune del loro dossier e ribadendo i vantaggi della sporta riutilizzabile. Tra l’altro, il sacchetto in biopolimero – nonostante sia meno resistente rispetto alla plastica – può essere usato per lo smaltimento della frazione umida dei rifiuti. Inoltre, questo tipo di sacco se disperso nell’ambiente, si degradano naturalmente, mentre lo shopper di plastica ha una lunga vita. La strada, comunque, è tracciata. Adeguandosi al resto dell’Europa, anche l’Italia dimenticherà lo shopper in plastica. Forse sarà un’occasione ulteriore per diffondere la cultura del riciclo, del riutilizzo e della difesa dell’ambiente che si rivela una carta vincente per conservare il Creato e per consegnarlo alle future generazioni come uno scrigno prezioso e g sempre meno come una insana discarica. ■

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Non si scherza con la storia di Matteo Truffelli

l 2011 è l’anno del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Gli italiani, almeno secondo le speranze di alcuni, saranno invitati a partecipare alle celebrazioni in programma per trarne una rinnovata consapevolezza delle ragioni della convivenza democratica nel paese unito. Il percorso preparatorio alle iniziative dell’anno che inizia è stato scandito, nel corso del 2010, da una serie di importanti discorsi del Presidente della Repubblica, ma anche da diversi eloquenti interventi dei Vescovi italiani e della Santa Sede, Quest’anno si celebrano oltre che da tanti segnali di attenzione alla ricorrenza da parte dell’associazionii 150 anni dell’Unità d’Italia. Si tratta di una smo. Proprio alla fine del 2010, significativamente, il centocinquantesimo è stato buona occasione per il tema del decimo Forum del Progetto aiutare il paese a culturale della Chiesa italiana, con guardare al proprio importanti relazioni e un ricco dibattito passato come a un box). (vedi terreno comune, sul Ora ci siamo. Le varie iniziative programquale costruire il mate ai diversi livelli dalle istituzioni futuro. Ma occorre sapranno aiutare il paese a guardare alla evitare ricostruzioni propria storia come a un terreno comufaziose e ne, su cui costruire il proprio futuro? interpretazioni “di Proprio questo, infatti, sembra essere il parte”. I richiami del presidente Napolitano modo di celebrare l’anniversario senza farne uno sterile esercizio retorico. Lo ha e del card. Bagnasco

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ricordato chiaramente il presidente Giorgio Napolitano, spiegando a tutti che le celebrazioni del centocinquantesimo non possono essere considerate «tempo perso e denaro sprecato, ma fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi». «Ieri – ha proseguito Napolitano – volemmo farla una e indivisibile, come recita la nostra Costituzione, oggi vogliamo far rivivere nella memoria e nella coscienza del paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità come fonte di coesione sociale, come base essenziale di ogni avanzamento tanto del Nord quanto del Sud in un sempre più arduo contesto mondiale». Affermazioni che hanno trovato significativa corrispondenza nelle parole del cardinale Angelo Bagnasco, il quale, alcuni giorni prima, aveva invitato il paese a fare della ricorrenza dell’Unità «una felice occasione per un nuovo innamoramento del nostro essere italiani, dentro l’Europa unita e in un mondo più equilibratamente globale». La convinzione di molti che un modo corretto di celebrare i centocinquant’anni di cammino unitario potrebbe rappresentare una significativa opportunità per il nostro paese, tuttavia, ha dovuto e dovrà fare i conti con la sensazione di una diffusa tendenza a svalutare il senso della ricorrenza e delle iniziative pensate per ricordarla. Non a caso, lungo il cammino di preparazione degli appuntamenti previsti per il

Forum del progetto culturale

CATTOLICI AL SERVIZIO DELLA “COSA PUBBLICA” cattolici sono «soci fondatori» del nostro paese, e l’Unità d’Italia «resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile». Sono questi i due binari principali attorno a cui si è articolato il saluto con cui il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha aperto il 2 dicembre il decimo Forum del Progetto culturale sul tema Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tradizione e progetto. «Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro paese – ha affermato il presidente della Cei – richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi». Nel 1861, «veniva generato un popolo», e soprattutto veniva dimostrato che «lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in forza dello Stato, lo precede in quanto non è una somma di individui ma una comunità di persone, e una comunità vera e affidabile è sempre di ordine spirituale ed etica, ha un’anima. Ed è questa la sua spina dorsale». Ma «se l’anima si corrompe, allora diventa fragile l’unità del popolo, e lo Stato si indebolisce e si sfigura», ha denunciato il presidente dei Vescovi, secondo il quale ciò accade «quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale». Di qui la tesi centrale del cardinale: «Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere attento a preservarla e a non danneggiarla». La riflessione di Bagnasco ha poi percorso altri temi. «Quanto più l’uomo – ha osservato – si ripiega su se stesso, egocentrico o pauroso, tanto più il tessuto sociale si sfarina, e ognuno tende a estraniarsi dalla cosa pubblica, sente lo Stato lontano. […] Ma è anche vero che quanto più lo Stato diventa autoreferenziale, chiuso nel palazzo, tanto più rischia di ritrovarsi vuoto e solo, estraneo al suo popolo». Bagnasco ha quindi auspicato che «possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, e credono fermamente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il destino di tutti». [Sir]

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Dossier, convegni, libri

D’ITALIA FRATELLI? LE INIZIATIVE DELL’AC Azione cattolica sta investendo molte energie attorno al 150° dell’Unità. Il tema è stato sollevato in più occasioni ufficiali (discorsi, convegni, articoli, prese di posizione pubbliche) nel 2010. Per quest’anno sono in calendario varie iniziative. La rivista culturale Dialoghi (4/2010) dedica il dossier all’argomento: vi si trovano una riflessione di Alberto Monticone sul senso del “celebrare” un così importante fatto storico e un confronto su questo tema tra Paolo Pombeni e Bartolomeo Sorge. Maurilio Guasco si sofferma sulle “strumentalizzazioni” della storia a fini politici; Giorgio Campanini sul contributo delle diverse culture politiche all’unità. Luciano Caimi si concentra sull’associazionismo giovanile cattolico quale luogo di elaborazione attorno al tema della costruzione del paese. La rivista riporta quindi un testo dello scomparso Pietro Scoppola sul rapporto tra unità d’Italia e Resistenza. L’11 e 12 febbraio l’Istituto Bachelet proporrà invece, alla Domus Mariae di Roma, un convegno su L’Unità della Repubblica oggi. Tra solidarietà nazionale, autonomie e dinamiche internazionali. La casa editrice Ave ha in cantiere dal canto suo un volume sempre dedicato alla costruzione dell’unità e ai suoi risvolti attuali, con una specifica sottolineatura sul contributo dei cattolici alla storia nazionale, che si intitolerà Fare l’Italia, fare gli italiani (curatore Matteo Truffelli). Interessante e molto ricca (per l’approfondimento personale e per un lavoro di gruppo) anche la scheda intitolata “d’Italia, fratelli?” approntata dal settore Adulti di Ac e disponibile sul sito all’indirizzo http://www.azionecattolica.it/settori/Adulti.

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2011 si sono registrate difficoltà, polemiche e malumori, silenzi imbarazzanti e smarcamenti strumentali da parte di certi settori della cultura e di alcune forze politiche. I motivi di ciò, le responsabilità, le ragioni e le colpe, come sempre, non sono univoche e non appartengono a una sola parte. In ogni caso, sembra evidente che il punto di partenza imprescindibile per ogni richiamo al passato che voglia rivelarsi fruttuoso per affrontare i problemi del presente e pensare la costruzione del futuro sia costituito da un esercizio corretto della memoria storica. «L’unica cosa che dobbiamo temere», ha ricordato in questo senso il card. Bagnasco a Genova, «è una cattiva ricerca storica, una propaganda ideologica – di qualsiasi segno – spacciata per verità storica». Questo non significa, ovviamente, tacere le ombre, i limiti, i nodi lasciati irrisolti da un percorso storico difficile e complesso. Quel che preoccupa non sono le analisi, anche impietose, che possono emergere dal sempre necessario lavoro di riesame critico del passato. «È giusto», ha sottolineato anche Napolitano, «ricordare i vizi d’origine e gli alti e bassi di quella costruzione, mettere a fuoco le incompiutezze dell’unificazione italiana e innanzitutto la più grave tra esse che resta quella del mancato superamento del divario tra Nord e Sud». Quel che preoccupa, invece, è che sempre più diffusamente, nel circuito massmediatico, nei discorsi politici, nelle boutade di uomini di cultura e di spettacolo, si faccia ricorso a

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modi di raccontare il passato tutt’altro che rigorosamente scientifici e, soprattutto, funzionali a piegare la vicenda storica alle esigenze ideologiche o agli interessi politici ed economici dell’oggi. E non è certo un caso che ad essere presi di mira da questo tipo di discorsi siano i momenti fondativi della nostra storia unitaria: il Risorgimento e la Resistenza. Passaggi cruciali della nostra storia, la cui eredità è rifluita nei principi portanti della Carta costituzionale, base comune indispensabile per rinsaldare ogni giorno la coesione della nazione. Anche l’esercizio corretto della memoria storica, insomma, richiede di essere educato. E perché questo avvenga, occorre che ci si abitui a considerarlo un elemento essenziale della formazione culturale, g civile e spirituale delle generazioni. ■

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Affetto e coccole, adulti più sereni

intervista con Alessandra Bortolotti

ffetto, tenerezza ed empatia. Ecco il segreto per aiutare i nostri bimbi a crescere sereni e per favorire la loro fiducia di Giorgia E. Cozza in se stessi e nella realtà che li circonda. Studi e ricerche scientifiche confermano quello che il cuore sapeva già: coccolare i propri piccoli, accorrere al loro pianto e accogliere i loro bisogni è fondamentale per il loro benessere psico-emotivo nell’immediato, ma anche a lungo termine. Le cure affettuose ricevute nella prima infanzia restano infatti quale prezioso tesoro nei recessi più segreti della nostra mente e contribuiscono in modo determinante alla formazione della nostra personalità. Un dato di fatto che fatica un po’ a farsi strada nella nostra cultura, ostacolato da vecchi luoghi comuni ormai superati che esortano i genitori a non coccolare troppo il bebè per timore di dargli dei vizi. Di pregiudizi culturali e veri bisogni del bambino si parla nel libro fresco di stampa E se poi prende il vizio? Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini, edito lo scorso dicembre da Il leone verde, che è il frutto degli studi e dell’esperienza personale di Alessandra Bortolotti, fiorentina doc, psicologa perinatale e In una società “a basso mamma di due bimbe, Bianca contatto” le mamme vengono che ha 6 anni e Irene, 2 anni e esortate a non tenere in mezzo. braccio i bimbi, a insegnare

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loro a dormire da soli... Si pensa, infatti, che in questo modo il cammino verso l’autonomia sia favorito. In realtà è vero il contrario 34

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Dottoressa Bortolotti, nel suo libro lei si rifà alle ultime scoperte delle neuroscienze e alle conoscenze scientifiche relative allo sviluppo psico-emotivo dei

piccolissimi, per chiarire il fatto che rispondere ai bisogni affettivi di base dei bambini non ha nulla a che vedere con i vizi. Un accudimento ad alto contatto, in cui il piccolo viene tenuto in braccio, può dormire vicino ai genitori, viene allattato al seno, risponde alle esigenze di contenimento, rassicurazione e calore che accomuna tutti i bambini. Eppure sull’argomento ci sono pareri contrastanti: non è raro (anzi!) che i genitori vengano rimproverati se coccolano troppo i loro bimbi. La nostra è una società a basso contatto, dove le mamme vengono esortate a non tenere in braccio i bimbi, a insegnare loro a dormire da soli, a interrompere l’allattamento quando il bebè non è più piccolissimo. Si pensa, infatti, che in questo modo il cammino verso l’autonomia sia favorito, quando in realtà è vero proprio il contrario. I bimbi che possono contare sulla vicinanza e sulla sollecitudine di genitori amorevoli e che vedono i loro bisogni soddisfatti crescono più sicuri di sé e più fiduciosi nei confronti di quanti li circondano. Nelle società dove il modello genitoriale prevede più contatto (pensiamo ai paesi in via di sviluppo, ma anche alla vicina Svezia) i bimbi piangono il 40% in meno, si registrano tassi di


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A lato: la psicologa Alessandra Bortolotti con marito e figlie.

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Sotto, il suo ultimo libro

aggressività più bassi ed è minore l’incidenza di suicidi e omicidi. A dimostrazione dell’importanza delle cure ricevute nella primissima infanzia per l’equilibrio emotivo dell’individuo. Le cure amorevoli che il genitore rivolge al suo bambino sono quindi condizione indispensabile per il suo benessere psico-fisico e garanzia di stabilità emotiva per il futuro. I vizi sono altri... Ovvero? Il discorso dei vizi è legato agli oggetti non agli affetti. Bambini cresciuti come piccoli consumatori, abituati a ricevere in dono gadget e gio-

cattoli sempre nuovi, che trascorrono buona parte del loro tempo libero assorbiti dalla televisione e dai giochi elettronici. A volte si ha paura a dire di no, non si vuole far mancare nulla (intenso in senso di bene materiale) ai propri figli. La paura di dire no si può riflettersi anche sul fronte educativo, sfociando in un permissivismo privo di regole. Il bambino, però, ha bisogno di una guida e questo ruolo compete al genitore. Sulla base delle più recenti conoscenze scientifiche, qual è il suo consiglio per i neogenitori che vogliono rispondere al meglio ai bisogni del loro bambino? Di seguire il proprio istinto. E di fidarsi del proprio bambino e di se stessi. Spesso pensiamo ai bimbi come a soggetti da “impostare” e dimentichiamo che si tratta di persone che hanno già una loro competenza e sono in grado di manifestare i propri bisogni. Se i genitori si mettono in ascolto pian piano imparano a sintonizzarsi con il proprio piccino, riescono a interpretarne il pianto e i segnali e a comprenderne le esigenze. Ricordiamo che quando si parla di un bimbo, non c’è miglior esperto dei suoi genitori. Oggi invece, c’è la tendenza a cercare tutte le risposte nei manuali o affidandosi agli esperti. In pratica si delega ad altri e si cerca all’esterno, qualcosa che possiamo trovare dentro di noi. Non esistono metodi o regole universali, non sarebbe possibile, perché ogni bambino è diverso e ogni famiglia è diversa. Ogni genitore deve trovare il “suo” modo di stare con il proprio bambino, di entrare in relazione con lui. Una relazione favorita dal rispetto e dalla fiducia g reciproci. ■

E se poi prendo il vizio?

UN LIBRO DALLA PARTE DEI PIÙ PICCOLI iviamo in una società che impone tempi e spazi basati sulla logica della produttività e del consumismo e non si cura a sufficienza di proteggere lo sviluppo affettivo dei più piccoli. E se poi prende il vizio? Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini (Il leone verde, 2010) è un libro dalla parte dei bambini, in cui si chiarisce quali sono i loro bisogni irrinunciabili e quali i pregiudizi culturali della nostra società. “I nostri figli – si legge nel testo – crescono in un mondo adultocentrico che spesso si è dimenticato di loro e pretende che diventino subito autonomi, grandi e indipendenti, che non disturbino, che ignorino fin dai primi istanti di vita i propri istinti e necessità». Attraverso l’analisi dei bisogni primari e universali di ogni bambino, la psicologa Alessandra Bortolotti, approfondisce varie tematiche, dall’allattamento al sonno dei neonati e dei bambini più grandi, dall’esigenza di contatto alle più efficaci forme comunicative fra genitori e figli. Con un unico monito per i genitori… quello di seguire il cuore e fidarsi di se stessi e dei propri bambini.

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Mamme sole, che fatica... di Gorgia E. Cozza

iventare mamma, aspettare un figlio, accoglierlo, da sola. Non è un’esperienza facile quella che si trova a vivere la donna che non può contare sulla vicinanza di un partner e non può condividere con lui le emozioni, le ansie, le gioie e le paure della gravidanza. E le ansie, quando il futuro padre di fronte all’annuncio inatteso di un bimbo in arrivo, preferisce tirarsi indietro, sono davvero tante. Le scelte, le responsabilità, le decisioni diventano tutte della donna. E la prima scelta è quella di accettare la vita, di accogliere un figlio che giunge inaspettato, nonostante la situazione non sia quella ideale. Di questa scelta Segno ha parlato con Daniela Maglio, 28 anni, oggi mamma felice del piccolo Andrea che con la sua nascita le ha regalato quella forza e quel coraggio che di giorno in giorno l’aiutano ad affrontare le tante difficoltà – emotive, organizzative, economiche – che sono comuni alla maggior parte delle donne che devono crescere un figlio da sole. Storia di Daniela e di un figlio Daniela non è single per scelta e ha sofferto molto, appena nato. Senza poter nei mesi della gravidanza, contare su un marito che ti sta accanto e ti sostiene. per l’assenza del papà del Ma con la gioia di essere dalla suo bambino. «Quando parte della vita e con l’orgoglio dovevo sottopormi a visite e controlli – ricorda – nella e la dignità di farcela, sala d’attesa del medico pur tra mille difficoltà c’erano sempre coppie felici. Io ero sola. E anche nei momenti più belli, come quello dell’ecografia in cui potevo vedere il mio bambino, la gioia era solo a metà perchè non potevo condividerla. Non riuscivo ad accarezzare il pancione, non riuscivo a parlare con il mio bimbo. Nella foto: mamma Daniela Mi trascinavo faticosamente avanti, cercando di e suo figlio Andrea

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non farmi schiacciare dal peso della solitudine». Ma nella testimonianza di Daniela, a pesare non è solo l’assenza del partner. Purtroppo, a mancare, è stato anche il sostegno della comunità. «Fortunatamente io ho un lavoro – racconta – ma proprio perchè avevo un impiego non ho avuto diritto ad alcun aiuto economico da parte di enti o associazioni. Il problema è che far quadrare il bilancio, quando al mutuo e alle bollette si aggiungono le spese legate alla gravidanza e alla nascita di un bambino e lo stipendio è un solo non è per niente facile! Durante la gravidanza mi sono rivolta al Comune e ho contatto delle associazioni di volontariato, senza però ricevere alcun supporto pratico. Ma la cosa che mi è pesata di più è stata la mancanza di solidarietà e di interessamento». Non solo. Mamma Daniela, che abita in un piccolo centro del modenese, non ha dimenticato gli sguardi e, purtroppo, anche i commenti giudicanti ricevuti da parte di una comunità che non ha saputo valorizzare e incoraggiare la sua scelta di portare avanti la gravidanza. Un contesto sfavorevole che ha accresciuto incertezze e timori. «Una settimana prima che il mio bimbo nascesse ripetevo a mia madre che l’avrei dato in affido. Pensavo che non sarei riuscita a essere una brava mamma, non mi sentivo abbastanza forte», ricorda Daniela. «Poi, con tre settimane di anticipo, all’improvviso, Andrea è nato. Per una complicazione fortunatamente non grave, ha avuto bisogno dell’incubatrice e ricordo di aver chiesto al Signore di lasciarmelo e di aver giurato che mi sarei impegnata a essere una brava mamma per lui. E così è stato». Sono trascorsi dieci mesi da allora. Andrea è uno splendido bambino ed è il grande amore della sua mamma. Recentemente il suo papà ha espresso il


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L’esperienza del Centro aiuto alla vita

UN ASCOLTO CHE SI FA ACCOGLIENZA E ABBRACCIO a realtà delle mamme sole che si trovano ad affrontare una gravidanza senza il sostegno di un partner è purtroppo in aumento. «Nel 90% dei casi le future mamme che si rivolgono a noi sono sole, non c’è il futuro padre al loro fianco» conferma Giorgio Gibertini, presidente del Centro aiuto alla vita (Cav) di Roma. «E negli ultimi due anni, sono aumentate in misura significativa le richieste di aiuto da parte di madri italiane. Una conseguenza della crisi economica in corso, che ha portato un aumento consistente anche nel numero delle interruzioni di gravidanza: nella sola città di Roma, ogni anno gli aborti sono circa 13mila». In molti, troppi casi a determinare questa scelta sono la solitudine e la povertà. «La gravidanza è di per sé un periodo particolare, delicato, nella vita di una donna – riprende il presidente del Cav romano – se poi la futura mamma è sola, con uno stipendio che non le permette di arrivare a fine mese o un lavoro a tempo determinato e non è sostenuta da quanti la circondano, tutto sembra spingerla a rinunciare al suo bambino». In questa situazione difficile, il Centro di aiuto alla vita può rappresentare un importante punto di riferimento. «La futura mamma che si rivolge al Centro può ricevere, a secondo della situazione e delle sue necessità, un supporto di tipo psicologico, abitativo e/o economico» conclude Gibertini. «Ma prima di tutto, quello che le viene offerto è l’ascolto. Un ascolto che si fa accoglienza, empatia, abbraccio. Perchè in molti casi è di questo che la donna ha bisogno, di essere rassicurata e incoraggiata. Può essere un “ce la farai, stai tranquilla, e vedrai che sarà bello...” ad aiutare una donna a scegliere la vita». Per saperne di più sull’operato del Cav è possibile visitare il sito www.cavroma.org; è inoltre possibile contattare il Centro telefonicamente chiamando il numero 06/50514441.

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desiderio di vederlo e, Daniela, per amor del suo bambino, ha messo da parte i propri sentimenti e sta cercando di favorire la nascita di una relazione tra padre e figlio. Il peggio è sicuramente passato anche se la situazione non è comunque delle più facili. «Da quando Andrea è nato è cambiato tutto – conclude Daniela – se avessi immaginato quanta forza e quale gioia mi avrebbe regalato forse sarei riuscita a vivere con più serenità anche la gravidanza. Quello a cui ho dovuto rinunciare, gli sguardi della gente, l’amarezza, tutto è passato in secondo piano quando ho potuto stringere tra le braccia il mio bambino. Ecco perchè alle future madri che stanno vivendo una situazione come la mia e magari si chiedono se accogliere il loro bambino io dico solo due parole: “Andate avanti”!». Certo, sarebbe bello che non dovessero andare avanti da sole. Sarebbe auspicabile che la comunità, soprattutto quella cristiana, fosse capace di farsi prossimo per queste mamme e offrire loro il calore e la vicinanza che possono aiutarle a vivere la materg nità con più serenità. ■

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In compagnia della Parola

di Francesco Rossi

na proposta d’incontro, preghiera e condivisione nel segno di fratel Carlo Carretto. «Dopo la consegna all’Ac dell’ex convento di San Girolamo, che per anni fu il luogo dove Carretto condusse un’esistenza scandita dalla preghiera, dall’ascolto della Parola e dall’accoglienza, ora l’associazione vuol proprio riprendere quei cardini della vita e della spiritualità di fratel Carlo, e farne la base di una proposta che, da Spello, si ponga al serRiconsegnata all’Azione vizio della Chiesa italiana», spiega cattolica, la casa San Girolamo di Spello decolla – il presidente nazionale dell’Azione cattolica, Franco Miano. «Questo – sulle orme di fratel Carlo Carretto – come “polmone prosegue – era uno degli obiettivi più impegnativi che ci eravamo spirituale”, per posti nella scorsa assemblea l’associazione ma non solo. A febbraio quattro weekend nazionale, e siamo lieti di averlo portato a termine prima della conbiblici. E un seminario clusione del triennio. Ora, però, la a marzo su “vita buona e fragilità”. Segno ne parla scommessa sta nel far “fruttificare” questa risorsa, che chiamiamo con Franco Miano, Gigi Borgiani e Luigi Alici “casa” San Girolamo per sottolinearne l’aspetto laicale, di un luogo nel quale si vuol costruire uno stile di vita quotidiana». Presa “in mano” la struttura a inizio ottobre, le prime iniziative si sono concretizzate nel periodo natalizio: due momenti rivolti ai giovani di Ac in preparazione al nuovo anno, con riflessioni sul Benedictus e sul Magnificat, nonché sul messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace. A febbraio, invece, la casa aprirà le porte dal venerdì alla domenica per quattro appuntamenti di riflessione e approfondimento biblico, mentre dalla primavera dovrebbe

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essere tutto pronto per passare alla fase dell’accoglienza quotidiana, con un sacerdote e un laico (o una famiglia) stabilmente presenti. Dal 4 al 6 marzo si svolge uno degli incontri de “I Seminari di Spello”, questa volta dedicato a Vita buona e fragilità, attraverso la riflessione guidata da Donatella Pagliacci, dell’Università di Macerata. Quando la proposta sarà a regime «la giornata – racconta il segretario nazionale di Ac, Gigi Borgiani – verrà scandita dalla liturgia delle ore, con la Messa a mezzogiorno per indicarne la centralità nella vita e nella quotidianità del cristiano. Poi si alterneranno momenti di lavoro, ascolto, silenzio e condivisione per mettere in comune riflessioni e suggestioni nate dalla meditazione». «Casa San Girolamo accoglie e propone»: questi i due verbi con cui Luigi Alici, chiamato dall’associazione a collaborare alla costruzione delle proposte che fanno capo all’iniziativa di Spello, sintetizza lo scopo della nuova realtà. Accoglienza, sottolinea Alici, di «singoli e gruppi che vogliono trascorrere qualche tempo secondo lo stile della casa»; proposta di «percorsi strutturati di elaborazione spirituale»


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Il clima di casa San Girolamo è di semplicità, essenzialità, fraternità e condivisione: ognuno è chiamato a viverne la gestione ordinaria come fosse casa propria, dal fare la spesa al lavare i piatti

Nella foto: una veduta di Spello

che vanno dalla «ricerca spirituale» (lectio divina o riscoperta della Parola di Dio, riscoperta dei maestri dello spirito e della tradizione cristiana, riscoperta della fede) a «tematiche legate a particolari situazioni di vita» (come la malattia o la morte, oppure difficoltà nella vita di coppia). Ancora, vi saranno «proposte di discernimento spirituale, vocazionale, ecclesiale», e altre «rivolte a quanti sono impegnati nel civile, nel sociale o nella sfera politica, per trovare le radici spirituali del loro impegno e rimotivarli». A febbraio, in particolare, i quattro fine settimana avranno per tema La vita del laico in compagnia della Parola e verranno guidati da altrettanti biblisti: Rosanna Virgili, don Maurizio Marcheselli, don Mau-

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rizio Girolami e don Salvatore Santoro. Il clima di casa San Girolamo è di semplicità, essenzialità, fraternità e condivisione: ognuno è chiamato a viverne la gestione ordinaria come fosse casa propria, dal fare la spesa al lavare i piatti. «Non ci sono camerieri o altri servizi, ma ciascuno – ricorda Borgiani – è corresponsabile». E, sebbene a ogni iniziativa l’Ac sia presente, la proposta supera i confini associativi. «Casa San Girolamo – precisa il segretario di Ac – è aperta a tutti, da qualunque parte d’Italia provengano, e non solo agli aderenti». A favorire il clima di raccoglimento e fraternità contribuisce la capienza della struttura, che ha una ventina di posti letto. Non grandi numeri, dunque, ma una scelta che permetterà a quanti s’incontreranno a Spello di essere «amici in grado di costruire relazioni nuove». Oltre che ritemprare lo spirito con una ventata di aria fresca, dal momento che la dimora di fratel Carretto si propone di essere un “polmone spirituale”. E proprio in questo clima di quiete «l’ospite – conclude Borgiani – potrà per un po’ estraniarsi dal caos quotidiano e respirare tranquillità silenzio e g preghiera». ■

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Un’agenda da sfogliare anno riprese, eccome. E vanno trattate con delicatezza e grande attenzione. Le inquietudini dei cattolici non paralizzano lo scenario e non frenano alcuna dinamica. Anzi dovrebbero stimolare la ricerca di nuove rotte per il paese e correggere quelle che già sono navigate. Vale la pena insomma ripensare alla parole di Reggio Calabria, quarantaseiesima Settimana sociale dei catFisco e lavoro: dopo la tolici italiani, per evitare che Settimana sociale di Reggio finiscano soltanto nel volume Calabria, sono i due temi che degli Atti o in un documento di i cattolici mettono in primo sintesi e là rimangano. Invece piano nell’attuazione di quelle parole sono un segna“un’agenda di speranza”. le, che può trasformarsi in L’Ac ha cominciato subito, riunendo gli amministratori avviso circa il fatto che i cattolici non intendono perdere l’Ilocali vicini all’associazione talia e far perdere all’Italia per un confronto dignità per il futuro. C’è una franco e diretto di Alberto Bobbio

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frase di Edo Patriarca, segretario generale delle Settimana sociale, che va meditata e inchiodata sulla coscienza dei singoli e su quella delle associazioni e dei movimenti dei laici della Chiesa: «A Reggio Calabria abbiamo costruito la dorsale strategica dell’Italia». Ma l’agenda ora va sfogliata e gli appunti di Reggio colmati di nuove idee e azioni. Le parole chiave sono due: famiglia e lavoro. Esse aprono ogni porta e permettono di ragionare attorno a una nuova cultura politica dove sia la passione per la vita il punto centrale. È la vita in Italia che fatica, perché la politica non riesce a uscire dalla retorica e guardare in faccia i problemi reali delle persone. Mancano tutele ai redditi, soldi per servizi e welfare. Dei proclami la gente è stufa e osserva con terrore una situazione drammatica. Bisogna raddrizzare la spina dorsale del paese e darle conformazione strategica. Poco prima della Settimana sociale era stata la Caritas, nel suo Rap-


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porto annuale sulla povertà, in collaborazione con la Fondazione Zancan, ad avvertire che il paese rischiava di avvitarsi nella spirale della caduta libera. Oggi non sembra più reggere l’argine fragilissimo degli ammortizzatori sociali, che costano all’anno oltre 19 miliardi di euro, con in testa la cassa integrazione. Se non si aiutano le famiglie a trovare lavoro dalla spirale non si esce. Poi a Reggio Calabria l’analisi è stata approfondita e ed è uscita l’immagine di un paese affaticato da situazioni che è ora di affrontare, perché lacerano la società: da un lato c’è la preoccupazione del degrado che da anni percorre la politica, dall’altro la preoccupazione altrettanto drammatica di una sorta di “sindrome intimistica” che, sempre da anni, sta lambendo gran parte del cattolicesimo italiano. A Reggio Calabria è andata in scena un’altra storia e i cattolici hanno detto che vogliono un’altra politica e anche un’altra generazione di politici. Chi si aspetta-

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va un ritiro dei cattolici sull’Aventino della società e una dichiaraC’è una “pars costruens” che zione di disistima per la politica ha dovuto ricrela Settimana dersi. Dunque occorre sociale ha ripensare alla parole di rilanciato con proposte precise Lorenzo Ornaghi, Rettore dell’Università cattosul lavoro, lica, sulla qualità della la legge di democrazia, quando ha cittadinanza agli denunciato il fatto che immigrati, un fisco “family oggi si rischia una “controdemocrazia” in friendly”, un federalismo mano a oligarchie che che non si risolva «inquinano il normale e in una miriade di corretto funzionamenmicrostatalismi, to» della democrazia per cui anche «il voto la legalità viene considerato una e le mafie, scelta di terz’ordine». la finanza Sono le distorsioni che e i capitali, devono stimolare l’atl’evasione fiscale tenzione e la loro correzione a guidare le scelte. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha parlato di «giungla di libertà autodistruttive e arbitrarie», l’esatto contrario dell’impegno per il «vero benessere» dei cittadini. Occorre un’agenda di riforme sull’economia, sul lavoro e anche sul potere. I cattolici hanno avvertito che i vecchi trucchi sono ormai impraticabili. Insomma il potere non stupisce più e non prende più in giro nessuno con annunci di investimenti e di opere che riempiono libri dei sogni, i quali non finiscono neppure sugli scaffali, ma direttamente nel cestino. A Reggio Calabria i cattolici hanno avvertito il potere che non si può più sottrarre alla propria responsabilità di dar conto e, nel caso, di essere soggetto a un «efficace regime di imputabilità» (parole del sociologo Luca Diotallevi, vice-presidente del Comitato che organizza le Settimane sociali) se su qualcosa scivola e sbaglia. Eppure i cattolici non si sono limitati all’analisi. C’è

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una “pars costruens” che la Settimana sociale ha rilanciato con proposte precise sul lavoro, la legge di cittadinanza agli immigrati, un fisco “family friendly”, un federalismo che non si risolva in una miriade di microstatalismi, sulla legalità e le mafie, sulla finanza e i capitali, sull’evasione fiscale. Ma hanno anche detto che solo la politica può affrontare i problemi. La società civile è uno stimolo, ma tale resta. È stato escluso un nuovo partito dei cattolici e ogni nostalgia per una stagione passata. Ma è anche stato detto che una nuova generazione di politici cattolici non si improvvisa e che ci vuole tempo. Eppure nessun tempo sarà sufficiente se non si riprende l’impegno dell’educazione alla politica dal basso, cioè dalle parrocchie e dalle associazioni. E la prima educazione possibile è convincersi che i cattolici che fanno politica non vanno tenuti lontano dalle chiese e dagli oratori perché creano divisioni nella comunità cristiana ora che l’unità politica dei cattolici non c’è più. L’Azione cattolica ha dimostrato di non aver paura dei politici, né delle polemiche, né dei pareri diversi e, poche settimane dopo l’appuntamento di Reggio Calabria, ha riunito amministratori locali vicini all’associazione per un confronto franco È l’unica via: se si ama la politica si come pochi se ne amano anche i politici, quindi li si corregge, se è il caso, quindi si dà loro sono visti in questi una mano, quindi li si ascolta, anche anni. È l’unica via: se si ama la politica si se a volte può essere drammatico amano anche i politie sconveniente per alcuni ci, quindi li si corregge, se è il caso, quindi si dà loro una mano, quindi li si ascolta, anche se a volte può essere drammatico e sconveniente per alcuni. Una nuova classe politica nasce così, con la vicinanza, la confidenza, la fiducia, la franchezza e la correzione a chi in politica ci

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sta. Altrimenti si riempiono pagine e titoli di proclami, affascinanti certo, ma alla fine sterili. Non sarà facilissimo convincersi che questa è una via e che non si tratta di inventare niente di nuovo. Negli anni passati non c’è stata grande fiducia per i laici cristiani, per il loro impegno, secondo i criteri del Concilio, anche in politica. Tuttavia per molti tra i laici è andato bene così e si sono ritirati nella riserva, che sembrava più protetta, della società civile, lasciando che la politica alla fine si sfasciasse con il grave rischio di sfasciare il paese. Ora l’inquietudine alla vista della sorte tragica che sta toccando al paese ha scosso menti e coscienze. La Settimana sociale di Reggio Calabria ha dimostrato che i cattolici non ci stanno alla distruzione sistematica e programmata della tradizione politica dell’Italia e della sua Costituzione. Il rigore morale, il giudizio culturale, la competenza, la passione civile non sono uno scudo dietro cui proteggersi, come qualche volta in passato è accaduto. Ma sono una sfida da lanciare e da praticare. E forse questa è oggi la g vera alternativa. ■


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Un emporio della solidarietà contro il “grande freddo” nche una delle regioni con il più alto indice di qualità della vita sta facendo i conti con la recessione economica e un aumento della povertà preoccupante. Ecco perché la Caritas diocesana di Bolzano-Bressanone ha presentato la nuova campagna di sensibilizzazione sulle “povertà invisibili” in provincia, organizzata con il patrocinio del Comune di Bolzano e intitolata Nel mezzo del Al via la nuova campagna cammin di nostra vita. Obiettivo sulle “povertà invisibili” dell’iniziativa, l’ultima del 2010, a Bolzano. Mentre a Roma Anno europeo di lotta alla c’è un centro di povertà e all’esclusione sociale, distribuzione di generi suscitare nei passanti, spiegano alimentari. La Caritas in prima fila nell’assistenza i promotori, “un momento di riflessione” attraverso «un utiliza chi ha più bisogno

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zo urtante delle immagini: sulla pavimentazione del marciapiede sono state incollate sei fotografie di sei persone, diverse ma accomunate dall’invisibile peso delle diverse forme di povertà». Una sinergia che vede insieme Caritas di Bolzano-Bressanone e comune. In Alto Adige la povertà è in aumento. Secondo lo studio Astat, Persone e famiglie a rischio povertà, il 16% della popolazione ha un reddito familiare al di sotto della soglia di povertà (pari a 10.257), contro il 14% dell’ultima rilevazione di cinque anni fa. Nel 2008 le famiglie a rischio erano 36.000 pari al 17,9%; percentuale che oggi arriverebbe al 25,3%, se si prendessero in considerazione i redditi depurati delle prestazioni sociali. Da Bolzano alla capitale. Aperto a Roma un nuovo “Emporio della solidarietà”, gestito dalle parrocchie del settore sud della diocesi di Roma in collaborazione con il coordinamento della Caritas diocesana di Roma. È stato inaugurato il 17 dicembre, nei locali messi a disposizione dal 12/mo municipio in via Avolio 60. L’Emporio è un centro di distribuzione di generi alimentari e prodotti di prima necessità per famiglie in difficoltà. Un’iniziativa fortemente voluta da mons. Feroci, direttore della Caritas, e il vescovo ausiliare per il Settore sud, mons. Paolino Schiavon, con le amministrazioni locali. Intanto già sono iniziate le iniziative straordinarie a favore dei senza dimora promosse dalla Caritas di Roma per l’emergenza freddo. Nell’ambito del piano freddo del Comune di Roma, sono stati attivati 100 posti letto nel centro di accoglienza Ferrhotel in via del Mandrione. Ad Ostia, in collaborazione con il XIII Municipio, sono disponibili 30 posti letto aggiuntivi nella strutture di Lungomare Toscanelli e presso lo Stabilimento balneare “L’Arca”. Le iniziative, che saranno aperte fino al 31 marzo 2011, si svolgeranno in orario serale e notturno. Chi è interessato a partecipare come volontario: g 06.88815150 o sett.volont@caritasroma.it. ■ [Sir]

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In casa degli anglicani di Laura Mandolini

n buon sandwich bacon può stuzzicare l’appetito e magari, chissà, la curiosità di conoscere un po’ più da vicino i preti e quanto ruota attorno a essi. Il coffee church, una sorta di baretto ecclesiale dove non suona male domandarsi “cos’è la Chiesa”, è soltanto la prima delle tante sorprese in un viaggio alla scoperta della Chiesa d’Inghilterra. Tanto più se le guide sono due tipi come la reverenda Jules Cave, fino a qualche settimana fa a Tra bar e coffee church, la vita capo della segreteria attorno agli impegni ecumenici nazionale anglicana delle della Chiesa d’Inghilterra. Sulle vocazioni, ora tra i responsabili del seminario di orme del recente viaggio di Benedetto XVI: un’altra strada Oxford e suo marito, il reverendo Anders Bergquist, per introdurre la Settimana archeologo svedese da di preghiera per l’unità quarant’anni in Inghilterra, dei cristiani che quest’anno parroco a Saint John’s si svolge dal 18 al 25 gennaio

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Wood, un bel quartiere nel centro di Londra. Jules è ormai di casa nelle Marche e ogni anno è molto attesa per la sua profondità di pensiero e la sua intensa spiritualità. Da quattro anni è un po’ l’anima della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che, almeno a gennaio, mette al centro della riflessione e dei buoni propositi quell’ecumenismo ancora troppo marginale nella sensibilità delle nostre comunità. Gli anglicani, per gran parte di noi, sono quelli che fanno parte della Chiesa creata su misura dal re Enrico VIII, stanco di aspettare il permesso di papa Clemente VII di sposare Anna Bolena. Padre Neil Batckock vive a Blekeney, la prima tappa del nostro percorso. È una parrocchia rurale composta da alcuni villaggi, immersa nella meravigliosa campagna del Norfolk. Il coffee church che ci ha accolto vorrebbe essere un tentativo per accorciare le distanze tra Chiesa e popolo. Sono i non praticanti, gli unchurched, si potrebbe dire gli “schiesati”, i destinatari dell’invito e in tanti casi al caffé segue un riavvicinamento alla parrocchia. Ed è sempre il fantasioso Neil a sperimentare la sua Missy church, termine quasi intraducibile che vuole dire, più o meno, “messa disordinata, informale, alla mano”. Una liturgia fresca, animata, fuori dalle rigide tradizioni anglicane, a volte più conservatrici di quelle romane, nella quale fare spazio al calore che la fede condivisa sa creare. Lasciamo il verde abbagliante del Norfolk non senza fatica. Pochi, intensi giorni in una immersione totale nella tranquilla e allo stesso tempo vivace quotidianità di questi villaggi, nei quali l’ecumenismo è pragmaticamente ispirato al motto “fare insieme ciò che si può fare insieme”. Ed è per questo che ogni settimana anglicani, metodisti e cattolici trovano del tempo per incontrarsi e studiare la Bibbia. La scuola del villaggio è appena al di là del recinto dell’abbazia. Sono proprio le scuole il bacino più immediato di incontro tra la Chiesa e i ragazzi, i giovani. Ogni domenica c’è la catechesi e la pastorale giovanile è pensata e organizzata a livello di decanato. «Forse


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Nella foto a sinistra un battesimo anglicano e sopra padre Neil Batckock

dovrei cresimarli, almeno poi se ne vanno via». Neil sta parlando dei tanti pipistrelli che hanno preso casa in una delle abbazie. Fulminante e molto british, la battuta rimanda alla fatica di rendere la fede qualcosa di bello e interessante per gli adolescenti e giovani. È il punto debole della Chiesa inglese, la sfida più impegnativa di ogni Chiesa, specie nel vecchio continente. La scuola di Saint Nicholas è pubblica, ma nessuno si straccia le vesti se padre Neil, in quanto parroco, ha il diritto/dovere di far parte del comitato di gestione e dà inizio alle lezioni, ogni mattina, con una preghiera. Anche da qui si comprende il particolare rapporto tra la Chiesa anglicana e la società civile. E se l’intrecciarsi di questioni storiche, diplomatiche e dottrinali tra Roma e Londra ha reso tutto più complicato, la stessa intrigata storia ha lasciato in eredità alla Chiesa anglicana qualcosa di prezioso e assai necessario anche oggi: l’essere un ponte tra i

due mondi cristiani ancora lontani, il cattolicesimo e il protestantesimo. I giorni londinesi sono intensi e si concludono la domenica pomeriggio, con i vespri nella Westminster Abbey. Nel luogo più significativo della religiosità e della nazione inglese, che abbiamo conosciuto grazie all’accoglienza della canonica Jane (la stessa che qualche giorno dopo avrebbe accolto nell’Abbey il Papa) viene spontaneo sentirsi parte dell’unica famiglia di Gesù Cristo. Il motto del card. Newman, richiamato dal Papa durante la sua visita inglese Cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”, «ci permette di penetrare nella sua comprensione della vita cristiana come chiamata alla santità, sperimentata come l’intenso desiderio del cuore umano di entrare in intima comunione con il Cuore di Dio. Egli ci rammenta che la fedeltà alla preghiera ci trasforma gradualmente nell’immagine divina». Questo è forse il g desiderio che unisce di più. ■

Dopo la visita del Papa

DIALOGO DIFFICILE CHE PROSEGUE CON SPERANZA amicizia tra cattolici e anglicani è stata al centro della visita, nel settembre 2010, di Benedetto XVI all’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, a Lambeth Palace, Londra. «Non è mia intenzione parlare oggi delle difficoltà che il cammino ecumenico ha incontrato e continua a incontrare. Tali difficoltà sono ben note – ha ammesso il Pontefice –; vorrei piuttosto rendere grazie per la profonda amicizia che è cresciuta fra noi e per il ragguardevole progresso fatto in moltissime aree del dialogo in questi 40 anni trascorsi da quando la Commissione internazionale anglo-cattolica ha cominciato i propri lavori». Il Papa ha, poi, parlato del mutato contesto nel quale ha luogo il dialogo fra anglicani e cattolici, evolutosi «in maniera impressionante» dall’incontro privato fra Giovanni XXIII e l’arcivescovo Geoffrey Fisher nel dicembre 1960. Sullo sfondo la recente decisione di cinque vescovi anglicani di unirsi alla Chiesa cattolica, secondo la Costituzione apostolica Anglicanorum Coetibus di Benedetto XVI.

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Laici nel mondo, strade di santità di Chiara Santomiero

vevate pensato alla politica, all’economia, all’intervento nel sociale? Tutte sottolineature giuste, tuttavia «il servizio al mondo coincide in primo luogo con la santità, che non è mai una questione privata ma ha una rilevanza pubblica». È quanto sostiene Stella Morra, tutor del corso Ordinare le cose del mondo secondo Dio: strade di santità laicale che avrà inizio a febbraio presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma promosso dal Centro interdisciplinare Laikos, dal Forum internazionale di Azione cattolica e dall’Azione cattolica italiana in collaborazione con Comunità di vita cristiana (Cvx). Il corso, che ha il patrocinio del Pontificio Consiglio Nella foto: una sessione del per i laici, è giunto alla terza edizione seguendo la Concilio Vaticano II progressione logica «di una sottolineatura dei contenuti generali Prosegue l’esperienza dei del Concilio vaticano II sul laicato corsi, alla Gregoriana di per il primo anno, mentre per il Roma, sui temi conciliari secondo anno si è insistito sulle promossi da Laikos, Fiac, diverse forme di servizio dei laici Azione cattolica e Cvx. all’interno della comunità ecclePrima lezione il 24 febbraio

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siale». Per il nuovo appuntamento «si è scelto di affrontare la chiamata alla santità – spiega Morra – con una riflessione tematica accompagnata dalla presentazione di alcune figure di santi laici». Uomini e donne, giovani e anziani, coniugati, consacrati e celibi, docenti universitari e studenti, di varie nazionalità, «proprio perché le vie della santità laicale sono molte e molto differenti tra loro come dimostrano le esperienze di Gianna Beretta Molla e Stanislaw Starowieyski, di Lolo Lozano Garrido e Maria Sagheddu». Il corso è strutturato come un ciclo di conferenze aperte al pubblico con una lezione iniziale riservata ai soli studenti iscritti. Nove gli appuntamenti dal 24 febbraio al 12 maggio: «ad ogni incontro – afferma Morra – interverranno due relatori che abbineranno la riflessione teologica all’esperienza pastorale per offrire un raccordo con le applicazioni concrete richieste dall’esperienza ordinaria nelle parrocchie e nelle aggregazioni laicali». «Iniziative di formazione sui temi del laicato – aggiunge Morra – fortunatamente non mancano, ma la scommessa, in questo caso, è offrire un itinerario su questo argomento in una Università pontificia con l’obiettivo di coinvolgere anche i presbiteri che, terminati i loro studi a Roma, saranno chiamati a collaborare con i laici nelle proprie chiese locali, oltre che ad aver cura della crescita e formazione permanente di tutti i battezzati». Tra i relatori interverranno i teologi Salvador PiéNinot, Donna Orsuto, Cristina Simonelli, Cataldo Zuccaro, docenti di economia, sociologia, filosofia come Leonardo Becchetti, Mauro Magatti e Luigi Alici, responsabili di associazioni e istituzioni come Paolo Beccegato e Augusto Reggiani. Quale il tema di apertura del corso? Facile: i laici e la vocazione universale alla santità. Parla la Lumen g Gentium. ■


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ove in action, carità nell’azione, è lo slogan che sintetizza il programma di lavoro per il prossimo quadriennio che si è dato l’Umofc – Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche, nell’ultima assemblea generale svoltasi a Gerusalemme nello scorso ottobre. Un nuovo programma e una nuova presidente, l’italiana Maria Giovanna Ruggieri, che è stata vice presidente per il settore Adulti di Ac nel periodo 1999-2002. A Gerusalemme sono stati anche festeggiati i 100 anni di vita dell’organizzazione nata nel 1910 per incoraggiare il protagonismo delle donne nella Chiesa e nella società. «Oggi – spiega la neo presidente – l’Umofc conta oltre 5 milioni di aderenti in associazioni, tra le quali l’Azione cattolica italiana, di 60 paesi dei 5 continenti». Assumerne la guida implica una grande responsabilità verso Maria Giovanna Ruggieri, «una continuità storica che deve trovare nell’oggi rinnovate forme di già vice presidente espressione e verso una estensionazionale Ac, è stata eletta ne geografica che annovealla guida dell’Umofc, ra realtà molto diverse». Un l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili panorama di Stati davvero variegato che va dal Canacattoliche. Iniziative nei da al Sud Africa, dagli Stati cinque continenti Uniti alle Isole Tonga, dal Ghana alla Danimarca, dal Pakistan all’Uruguay, con una grande pluralità di situazioni politiche, economiche, sociali e anche di credo religiosi. Sono diversi, di conseguenza, i modelli delle organizzazioni femminili cattoliche che aderiscono all’Umofc. Alcune, sul modello dell’Ac, curano maggiormente la formazione dei laici e la corresponsabilità nella vita delle chiese locali; altre, richieste dal contesto in cui vivono, si occupano anche di promozione umana. «In Africa – spiega Ruggeri – le associazioni aderenti all’Umofc sono attive nella formazione professionale e provano a progettare strategie occupazionali attraverso forme cooperativistiche,

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Nuovi impegni per le donne cattoliche come in Senegal, dove hanno promosso una cooperativa per la pesca”. In Argentina sono state capofila della campagna Lucha contra el hambre – la lotta contro la fame – mentre in Europa, aggiunge Maria Giovanna Ruggeri, «l’impegno verso il bene comune della collettività si traduce non raramente in impegno attivo nella politica come è accaduto in Olanda e Lituania, anche se non si tratta di un’esclusiva del nostro continente e lo stesso avviene, per esempio, in Nigeria». L’agenda delle priorità fissate dall’assemblea di Gerusalemme prevede, oltre alla cura della formazione delle donne e all’impegno per la elaborazione culturale nelle realtà di riferimento, «una attenzione privilegiata al mondo delle giovani, anche in relazione al grande tema delle migrazioni nel mondo di oggi». Va inoltre intensificato in senso propositivo «il ruolo dell’Umofc nelle Agenzie internazionali nelle quali siamo presenti, come la Fao e l’Unesco, e all’interno del Consiglio d’Europa». Quello dei prossimi quattro anni, infine, sarà per l’Umofc un cammino di riscoperta e puntualizzazione dei contenuti del Concilio vaticano II: «Occorre farlo conoscere soprattutto alle nuove generazioni – conclude la presidente – perché in esso le donne possano trovare le coordinate per il proprio impegno nella Chiesa e g nella società”. ■ [c.s.]

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Media e parole, strumenti del Messaggio

intervista con Claudio Maria Celli

seminario mi ci ha messo don Oreste Benzi»), sacerdote dal 1965 e vescovo dal 1996 («l’humus, il substrato esperienziale che mi ha aiutato a capire la mia vocazione è stata l’Ac, e gliene sarò sempre grato»), monsignor Celli arriva dalla carriera diplomatica e da un lungo servizio vaticano, prima alla Segreteria di Stato e poi all’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede. Dal 2007 è stato chiamato da Benedetto XVI alla guida del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali: in pratica è il Giornali, tv, internet possono essere – senza sottovalutarne limiti e problemi – “punti di incontro” fra le persone, creando “ministro” delle comunicazioni del conoscenza e relazioni. Una presenza cristianamente ispirata Papa. Nell’era della cultura digitale, un ruolo decisivo per la missione nella realtà mediatica è oggi essenziale anche per della Chiesa. l’evangelizzazione. Segno ne parla con il presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, che afferma: Lei si occupa della diffusissima realtà dei media cattolici di tutto il «La ricerca della verità dell’uomo e sull’uomo non può che mondo: qual è il loro compito oggi? portare a riscoprire la verità di Dio»

di Simone Esposito

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na delle grandi prospettive del nostro camminare è questa: la passione per l’uomo, per l’essere umano. E la Chiesa deve esprimere fortemente questa passione. Quando gli uomini guardano alla Chiesa oggi, mi domando se la maggioranza vede questa ricerca appassionata per l’uomo...». Domanda cruciale, quella che si fa ad alta voce Claudio Maria Celli. Riminese («in

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La prima, grande linea-guida da offrire è la ricerca della verità. Solo questa è la strada, come suggerisce il tema di quest’anno della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, per l’autenticità e per una testimonianza credibile

Nella foto a sinistra: mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali

È innanzitutto quello di essere strumenti del Messaggio, con la emme maiuscola, perché una cosa è certa: il cristianesimo non è un’ideologia, ma è l’incontro esistenziale con un fatto. E quindi coloro che operano nei media e hanno un cuore cattolico non possono dimenticare che nella loro vita hanno avuto un incontro con questo fatto. Però c’è una seconda dimensione: i media cattolici devono essere un momento di incontro, ovvero devono dialogare rispettosamente con gli altri uomini che fanno parte della società, perché il cammino di ogni uomo è quello di far sì che la società assuma sempre più caratteristiche umane e nello stesso tempo gli uomini devono trovare punti di intesa per fare in modo che questo loro convivere sia sempre più ricco umanamente, sia sempre più favorevole a uno sviluppo umano. E quindi i media devono avere questa dimensione: essere punti di incontro, dove colui che

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ha un cuore cattolico non si camuffa, esprime veramente ciò che è, ma nello stesso tempo è capace di dialogare anche con gli altri uomini. Come diceva il Papa, parlando agli uomini di cultura del Portogallo in un suo discorso pronunciato il 12 maggio 2010, la Chiesa deve fare un apprendistato per saper dialogare nel rispetto delle verità altrui, ma senza dimenticare ciò che è. In sintesi, quello che il Papa, nel suo ultimo discorso alla Federazione italiana della stampa cattolica, ha ribadito nell’espressione «palestre di confronto fra le opinioni». Oggi non è così? Non sempre. Dipende di che orientamento sono i media. A mio avviso molti media laici non sono rispettosi della posizione di coloro che hanno un cuore cattolico. Avviene forse più il contrario: direi che in casa nostra c’è più attenzione alle posizioni altrui. Purtroppo questa è una realtà. Su questo punto la Chiesa, e in particolare i media cattolici, possono essere d’aiuto e di stimolo al mondo della comunicazione? Sicuramente: la prima, grande linea-guida da offrire è la ricerca della verità. Solo questa è la strada, come suggerisce il tema di quest’anno della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, per l’autenticità e per una testimonianza credibile. Io credo che questo vada a toccare non solamente l’atteggiamento e la posizione dei media cattolici o degli operatori nei media cattolici, ma piuttosto direi che è discorso di vasta apertura. Perché se l’uomo, qualunque uomo che opera nei media non porta in sé questa ricerca di verità, che alla fin fine è la dimensione della sua dignità di essere uomo, e se poi questa ricerca di verità non è vissuta con un atteggiamento di autenticità, e quindi di testimonianza di certi valori, si corre il rischio di suonare a vuoto. Ci faccia caso: tutti i grandi servizi giornalistici passati

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Sopra: uno dei momenti del convegno Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale (Roma, 22-24 aprile 2010)

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alla storia, quelli che certamente hanno colpito profondamente l’opinione pubblica, ci sono riusciti perché cercavano e toccavano l’uomo. E la ricerca della verità dell’uomo e sull’uomo non può che portarmi a riscoprire la verità di Dio. Io dico sempre: dobbiamo andare al cuore delle questioni e riscoprirne le profonde dimensioni umane. Credo che questo sia un grande cammino da percorrere: la Chiesa deve essere annunciatrice di verità, della Verità, ma deve farlo camminando accanto all’uomo perché deve sentire profondamente e vivere questa passione per l’uomo stesso. È anche la missione dei media. E soprattutto è una sfida pastorale. Ci sarebbe bisogno di formazione specifica per gli operatori pastorali: ci sono le occasioni? Non sono molte. Il Pontificio consiglio sta facendo un grosso investimento proprio in formazione. Dobbiamo aiutare le persone a comunicare e a farlo bene. Questo non è facile. Penso per esempio ai giovani sacerdoti, che corrono il rischio di non sapere che cosa sia la comunicazione. Magari sanno usare il computer, sanno usare certe nuove tecnologie, ma il problema è vedere se sono capaci di parlare al mondo di oggi. È proprio questa la “diaconia della cultura” di cui parla spesso il Papa. E poi c’è un altro tema che a me piace molto e che mi affascina, che è il “cortile dei gentili”. Il Papa auspica nel suo ultimo

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messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola), che si è celebrato il 24 gennaio 2010, che quest’incrocio delle grandi autopiste della Rete possano essere il luogo, il “cortile dei gentili”, dove gli uomini si ritrovano nella ricerca della verità, nella comunicazione, nell’incontro, nell’amicizia, per creare una cultura di dialogo, di rispetto e di amicizia. È un incrocio sterminato, quello di internet e delle nuove tecnologie... Le nuove tecnologie hanno aperto delle possibilità prima inimmaginabili e presentano uno stile di essere, di fare notizia, di percepire fatti e parole che fino a poco tempo fa sarebbe stato inimmaginabile: oggi telefonino, e-mail, tutta la multimedialità cambiano il nostro orizzonte, anche psicologico. Possiamo parlare tranquillamente di “cultura digitale”: dobbiamo prendere consapevolezza di questa realtà. Ecco, direi che in “casa nostra”, ma anche in una prospettiva mondiale, perché è questa la competenza del Pontificio consiglio, la Chiesa si muove con diverse velocità, anche perché è marcata dalla diversità di approccio e di possibilità: penso alle differenze tra mondo occidentale, dove queste tecnologie permeano completamente il nostro vivere, e certi paesi dell’Africa, ad esempio, o dell’America Latina.


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Il tema dei linguaggi è una grande sfida. È innegabile che molte volte il nostro linguaggio intraecclesiale non è di facile comprensione per la nostra gente, oggi. Qualcuno alle volte parla di “vaticanese”, e questo è un tema delicatissimo Nemmeno la realtà cattolica italiana è così avanti, nel campo dei new media. O no? Non c’è dubbio. Le do un esempio: la grande maggioranza dei nostri siti diocesani sono siti statici. Siamo ancora al cosiddetto “web 1.0”, mentre il resto del mondo è già al web 2.0 e già si sta lavorando al web 3.0. Fuori c’è un’interattività impressionante, noi non siamo nemmeno multimediali: mettiamo dei testi e basta. Ed è già molto, c’è già uno sforzo e un impegno ammirevoli, però siamo indietro. Oggi, come Chiesa, dobbiamo prendere consapevolezza che una grande sfida pastorale è proprio quella di saper dialogare con la realtà tecnologica, o meglio, con la cultura contemporanea che è originata dalle nuove tecnologie. Che poi è la sfida che la Chiesa deve affrontare nell’annuncio della Parola: Benedetto XVI, nel suo penultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, fa riferimento all’impresa dei primi discepoli che affrontavano il mondo greco-romano. Cosa hanno fatto? Con il Vangelo nel cuore, hanno abitato le realtà culturali proprie di quel momento. Oggi viviamo nella cultura digitale. E le confesso che alle volte le nuove tecnologie ci aiutano a capire meglio certe cose. Pensi cosa significhi oggi “essere in rete”: quando parliamo di “corpo mistico”, questo nostro essere in Gesù, non siamo forse “in rete”, una “rete”

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molto più ricca, molto più profonda che tocca il destino della nostra vita? Un piccolo esempio di “parabola mediatica”. La multimedialità è anche uno stimolo per rinnovare i linguaggi dell’annuncio evangelico? Il tema dei linguaggi è una grande sfida. È innegabile che molte volte il nostro linguaggio intraecclesiale non è di facile comprensione per la nostra gente, oggi. Qualcuno alle volte parla di “vaticanese”, e questo è un tema delicatissimo. La nostra presenza in Rete può essere una palestra molto utile. Questa presenza della Santa Sede sta crescendo sempre di più: è stata annunciata di recente la partenza di un nuovo portale informativo, avete acquistato per il Centro televisivo vaticano una efficientissima regia in Hd, l’alta definizione digitale, e poi già da qualche anno ci sono degli esperimenti interessanti come il canale video su Youtube. La regia in Hd risponde a un’esigenza concreta che non è certamente un lusso. Se non fossimo passati all’alta definizione, avremmo corso il rischio, con il passare del tempo, di vedere scomparire l’immagine del Papa dalle televisioni del mondo occidentale, che si sta muovendo, oramai, sostanzialmente in Hd. Infatti tutti i network ci chiedevano già da tempo immagini in questo formato. Per quanto riguarda il portale, ci stiamo già lavorando: sarà un sito che unifica le attuali fonti di informazione della Santa Sede, ovvero l’Osservatore romano, Radio vaticana, la Sala stampa e il Centro televisivo. Sarà un portale multimediale nel quale la Santa Sede potrà mettere a disposizione di tutti i propri servizi informativi in maniera unificata e sinergica, anche se comunque ogni media manterrà il proprio spazio indipendente. Quando sarà online? Non so ancora dirlo. Oltre alla progettazione della struttura, che è in corso d’opera, abbiamo anche bisogno di aumentare le nostre collaborazioni in vista di questa novità, e abbiamo chiesto a un’università cattolica americana, che già ci aiuta regolarmente, di mandarci due studenti di giornalismo per la cura delle notizie in lingua inglese. Già ci sono dei loro stagisti che ci aiutano. Comunque io mi auguro che lo si possa pubblicare presto, nei primi g mesi del 2011. ■

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di Marco Testi

psicologia

Quando il vero terapeuta è il bambino lison Gopnik è una psicologa di successo: Tuo figlio è un genio, uscito in Italia nel 2000, è stato un libro-culto. Anche con il suo nuovo lavoro, Il bambino filosofo (Bollati Boringhieri) la studiosa segue la strada della rivalutazione dell’universo infantile: i piccoli sono molto più intelligenti, svegli e soprattutto sensibili di quanto noi possiamo immaginare e di quanto la psicologia ufficiale abbia in realtà capito. Perché, in fondo, Il bambino filosofo, anche se la Gopnik non lo afferma nero su bianco, è anche un coraggioso tentativo di svecchiamento della psicologia dell’età evolutiva e di affrancamento dai legami freudiani che facevano dell’infanzia una triste palestra di una libido assolutistica. Svincolando l’universo del bambino dalla sessualità a tutti i costi, l’autrice restituisce la giusta importanza all’affetto, alla tenerezza, alla bontà dei bambini. Non solo: l’autrice dimostra che l’attenzione dei piccoli è molto più viva che negli adulti, tanto da giungere alla conclusione che «i bambini sono più consci di noi». Un libro utile non solo per gli addetti ai lavori, ma soprattutto per i genitori, che avranno modo di scoprire come il bambino g rappresenti anche una cura per la nevrosi dell’uomo contemporaneo.. ■

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Amedeo Modigliani a Catania

arte

n centinaio di opere d’arte fra disegni, oli, sculture e poi fotografie, taccuini, lettere, cartoline e persino le pagelle scolastiche di Amedeo Modigliani (Livorno 1884 – Parigi 1920) ricostruiranno a Catania, fino all’11 febbraio 2011, per la mostra Modigliani, ritratti dell’anima, il percorso artistico e umano del grande genio toscano. Un itinerario, quello della sfera affettiva e delle sue ripercussioni sull’opera, mai indagato sinora. A fare da guida il Diario della madre, una sorta di giornale di famiglia che Eugénie Garsin-Modigliani cominciò a scrivere nel 1886. La mostra, ospitata nel Museo civico Castello Ursino – una fortezza d’epoca medievale realizzata da Federico II di Svevia – è organizzata dal Modigliani Institut Archives Légales, Paris-Rome, in collaborazione con il ministero dei Beni culturali, il Comune di Catania e il coordinatore delle collezioni dell’artista livornese, Giovanni Gibiino, su iniziativa del sindaco, Raffaele Stancanelli, e dell’assessore alla cultura di Catania, la stilista Marella Ferrera. In mostra – secondo un ordine cronologico che prende il via dalla nascita di Amedeo, definito dalla madre “un raggio di sole fatto bambino” – saranno 25 disegni, 4 oli su tela, 5 sculture oltre a 7 disegni selezionati da Gibiino fra quelli in possesso dei collezionisti siciliani e realizzati a Parigi tra il 1909 e il 1919 dove, nel quartiere di Montmartre, visse a contatto con artisti e intellettuali del tempo come g Picasso, Cocteau, Max Jacob, Apollinaire e molti altri ancora. ■

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diritti umani Donne schiave, nel terzo millennio

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econdo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), sarebbero circa 12,3 milioni gli adulti, donne e uomini, e i bambini costretti al lavoro forzato e alla prostituzione coatta. L’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) parla di circa 500mila donne che ogni anno sono vittime di traffico prevalentemente per lo sfruttamento sessuale, immesse nel “mercato” dell’Europa occidentale. Ma sarebbero almeno 2,7 milioni, secondo le Nazioni Unite, le vittime di tratta, di cui l’80 per cento è costituito da donne e minori, che vengono venduti annualmente nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio. Circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni. Buona parte arrivano in Europa occidentale, Italia compresa, provenienti dai paesi dell’Est. Secondo le Nazioni Unite si tratta di business di circa 32 miliardi di dollari l’anno. Ma al di là dei dati, ci sono le persone. Ridotte a corpi-merce “usa e getta”, con storie dolorose di povertà e miseria, di violenza e maltrattamenti, già nei luoghi e nelle famiglie d’origine. Anna Pozzi e suor Eugenia ci raccontano queste storie in Schiave. Trafficate, vendute, prostituite, usate. g Donne (San Paolo). Storie tragicamente vere e attuali. ■

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di Antonella Gaetani

musica

Un cd dalla parte dei poveri

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resco di stampa Capo Verde, Terra d’Amore, volume 2, prodotto dalla Non-Profit Numar in collaborazione con Sony France e Lusafrica, su etichetta Microcosmo Dischi. Un progetto musicale, culturale e umanitario interamente ideato e realizzato dal produttore discografico Alberto Zeppieri, che raccoglie canzoni del repertorio della regina della world music Cesaria Evora, del suo autore preferito Teofilo Chantre e di Lura (nuova stella di Capo Verde). Il disco contiene 12 brani creoli capoverdiani adattati in lingua italiana e reinterpretati da Cesaria Evora, Teofilo Chantre, Lura e da artisti in linea con i valori e lo stile dell’opera discografica e sensibili agli aspetti umanitari, tra i quali: Ron, Massimo Ranieri, Frankie Hi-Nrg Mc, Kayah, Carlo Marrale con Paola Iezzi, il compianto Bruno Lauzi e il duo Musica Nuda (Petra Magoni & Ferruccio Spinetti) con Omar Sosa. Come per il volume 1, anche il netto ricavato della vendita di Capo Verde, Terra d’Amore vol. 2 sarà interamente devoluto a favore del Programma alimentare g mondiale delle Nazioni Unite (Wfp), del quale la stessa Cesaria Evora è ambasciatrice contro la fame dal 2003.. ■

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La nobile forma dell’arte

estetica

a nobile forma (edizioni San Paolo) è un libro che prova come le accuse contro la Chiesa di ostacolare l’arte in genere siano completamente destituite di senso. Anche perché è lo stesso Pontefice, qui presente con due interventi (il primo scritto quando era ancora cardinale) a testimoniarlo: la bellezza è un dono di Dio che aiuta chi cerca la verità. Nella prima parte del volume Gianfranco Ravasi, Elio Guerrieri e Pasquale Iacobone si interrogano sulla differenza tra senso estetico classico e quello cristiano, attraverso soprattutto il pensiero di Platone. Emerge l’importanza del contributo di Von Balthasar che riporta l’estetica al centro del pensiero cattolico, di contro l’iconoclastia di alcune esperienze protestanti e la stessa concezione negativa dell’arte in Kirkegaard. Il libro presenta una sorta di sintetica storia del pensiero estetico occidentale alla luce di una fede che non nega l’opera d’arte, ma anzi, la rivaluta anche quando altre convinzioni la mettevano al bando. Come scrisse nella Lettera agli artisti (qui riportata) Giovanni Paolo II, «la bellezza, come verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutg to prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione». ■

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mostra

L’avventura del vetro a Venezia

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opo quasi trent’anni il Museo Correr a Venezia dedica gli spazi espositivi alla mostra L’avventura del vetro, visibile fino al 25 aprile 2011 per iniziativa della Fondazione musei civici di Venezia, a cura di Aldo Bova e Chiara Squarcina. L’esposizione propone opere dal XV al XVIII secolo; XIX secolo, XX secolo. In tutto oltre trecento opere, che ripercorrono tutte le tappe della straordinaria “avventura del vetro” a Venezia, dall’arrivo in laguna, in età classica, di vetri provenienti da aree anche lontane, fino al connubio sempre più stretto tra vetro e design che rappresenta il presente e il futuro della produzione vetraria muranese. Quanto il vetro sia connaturato a Venezia lo conferma la sezione d’apertura della mostra che presenta un’inedita sequenza di vetri antichi recuperati dai fondali della laguna e tra la sabbia dei canali della città. Questi capolavori fragilissimi, di fattura spesso raffinatissima, saranno esposti per la prima volta al pubblico dopo essere emersi dalla coltre d’acqua che li ha preservati per secoli. In concomitanza con il Carnevale di Venezia 2011, dedicato all’Ottocento, verrà ad aggiungersi un’ulteriore selezione di più di un centinaio di opere provenienti dalla collezione Maschietto, per la prima volta presentata g in città. Si tratta di figurine di vetro, con maschere veneziane e della commedia dell’arte. ■

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Cartelli d’Italia ttobre 2010, Eurostar “Frecciabianca” Roma-Genova. Cerchiamo la carrozza n. 9, dove ci è stato assegnato il posto su obbligatoria e costosa prenotazione. Ma facciomo fatica a leggere i numeri sui cartellini apposti ai finestrini e così ci avviciniamo col naso. Scopriamo che sono composti di due fogli di carta igienica sovrapposti, e il “9” è scritto con la penna biro. Ci sforziamo di non pensare male. Due giorni dopo, Eurostar “Frecciabianca” GenovaRoma. Cerchiamo la carrozza n. 8. Ma facciamo fatica a leggere i numeri sui cartellini, scritti a biro (ormai un po’ scolorita) su carta igienica bianca. Evitiamo – perché scontata – la battuta «le Ferrovie vanno a rotoli», ma vorremmo indignarmi con qualcuno. “Avvisi” di questo genere ne troviamo spesso: negli uffici pubblici, nelle metropolitane, nei bar. In tempi di e-book e iPad, non ci sarà la possibilità Comunicazione più di fare la scritta col computer, con un efficace, clienti carattere leggibile e nero (suggerisco un soddisfatti, “brand” messo in salvo: con una Helvetica Bold o un Futura Extra Bold Conmossa, tre obiettivi. densed), cliccando poi perché la stampanInvece ci tocca subire le te ne riproduca un certo numero di copie? scritte sulla carta Comunicazione più efficace, clienti soddiigienica, da cui non sfatti, “brand” messo in salvo: con una arriva il messaggio mossa, tre obiettivi. Invece ci tocca subire diretto, ma altri due le scritte sulla carta igienica, da cui non sottintesi: la nonconsiderazione in cui arriva il messaggio diretto, ma altri due sono tenuti i clienti, in sottintesi: la non-considerazione in cui questo caso, i cittadini sono tenuti i clienti, in questo caso, i cittain altri; la demotivazione al lavoro dini in altri; la demotivazione al lavoro dei dipendenti degli enti in questione e dei dei dipendenti degli enti in questione e dei loro responsabili. loro responsabili Già, la comunicazione. Se scrivessimo questa notizia su qualche altro giornale più attento a lisciare chi in ogni epoca sta al timone del paese, questa lettera darebbe la stura a uno dei seguenti articoli: Titolo: La ricomparsa delle penne biro Occhiello: Le si credeva estinte, s’erano solo nascoste

di Paola Springhetti e Giancarlo Olcuire

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Sommario: L’importanza della scrittura manuale, più vicina alla gente. A ricordo delle recenti feste natalizie le Ferrovie dello Stato omaggeranno a ogni viaggiatrice con una simpatica penna a sfera. Titolo: I ferrovieri? Battono la fiacca, come sempre Occhiello: L’annoso problema degli statali inefficienti e ladri di stipendi Sommario: Clamorosa provocazione: avviata un’indagine per individuare i responsabili. Il ministro Brunetta mette una taglia di 100.000 euro. Il presidente del Consiglio scrive di proprio pugno una lettera di scuse alla vittima. Bossi: «Il problema nasce a Roma». Su un giornale anti-governativo, il titolo dell’articolo potrebbe essere uno di questi due: Titolo: Rischio epidemie sui treni del paese Occhiello: Sottoposta ad accurati controlli la carta acquistata dalle Ff.Ss. Sommario: Dopo alcuni ricoveri sospetti, sembrano di carta già utilizzata le indicazioni apposte sui finestrini. Controlli a tappeto dei Nas. Di Pietro chiede l’estradizione immediata del Direttore generale e propone l’abrogazione dei mezzi su rotaia. Titolo: Gelmini, dacci più computer! Occhiello: Accorata protesta degli universitari di tutta Italia Sommario: Contro i cartellini ferroviari scritti a biro, studenti in piazza, uniti ai lavoratori come nel Sessantotto. Gli iscritti alle Accademie, invece, chiedono cartellini dipinti a mano e firmati: «Rendiamo ogni vagone un’opera d’arte!». Potremmo chiamare sciatteria quella dell’informazione via carta igienica. Ma come potremmo definire la maggior parte dell’informazione via carta stampata, televisione, radio o internet, altrettanto incomprensibile, piena di messaggi sottintesi e spesso molto offensiva? E quale pena potremmo infliggere ai (molti) responsabili? Forse la costrizione a scrivere i loro messaggi sulla carta igienica, per un tot di g mesi, o di anni, o di secoli. ■


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Tricolore con la valigia orsi su Manzoni e Foscolo, lezioni per imparare a cucinare la pasta al pomodoro, cineforum sulle pellicole di Fellini e Sergio Leone. Nei quattro angoli del mondo il “made in Italy” ha ancora il suo fascino. Che si accompagna, però, a tanti stereotipi sugli italiani (inutile ricordare quali). Ma quanti sono i connazionali all’estero? Dove vivono e cosa fanno? Come mai un gran numero di giovani cervelli tricolore lascia ogni anno Piemonte, Umbria o Puglia per raggiungere altre nazioni? Ad alcune di queste domande risponde la quinta edizione Il Rapporto della Fondazione Migrantes del Rapporto italiani nel mondo, curato fotografa la presenza dalla Fondazione Migrantes e presentato a Roma nel mese di dicembre. italiana all’estero. Sono oltre 4 milioni i La Chiesa segue da oltre un secolo e mezzo i lavoratori che emigrano: gli Scaconnazionali che vivono oltre confine, labriniani e le Missioni italiane all’estero sono ancora oggi un servizio prezioso a un numero pari agli immigrati che hanno chi vive lontano da casa, sia sotto il profilo religioso, sia sotto l’aspetto umano, raggiunto la nostra sociale e relazionale. «La Chiesa italiana penisola ha maturato una lunghissima esperienza tra gli italiani nel mondo e la Fondazione Migrantes rappresenta attualmente la continuità di questo impegno», ha affermato mons. Giancarlo Perego, direttore generale della Migrantes. Un impegno – ha aggiunto – che oggi «vuole continuare, coniugando ancora evangelizzazione e promozione umana, educando all’incontro, nella consapevolezza del valore di una cittadinanza globale da costruire insieme». Secondo i dati del Rapporto gli italiani residenti all’estero sono 4.028.370 e rappresentano il 6,7% della popolazione italiana. Un numero quasi pari

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agli immigrati residenti in Italia. Contrariamente a quanto si pensa – spiegano i ricercatori – quella degli italiani nel mondo è «una presenza in aumento». Al termine di più di un secolo e mezzo di flussi migratori la presenza italiana nel mondo può definirsi in prevalenza euro-americana, come attestano le quote di pertinenza di ciascun continente: Europa (55,3%), America (39,3%) e, molto più distanziate, Oceania (3,2%), Africa (1,3%) e Asia (0,9%). Tra i Paesi di insediamento, l’Argentina supera di poco la Germania (entrambe oltre le 600mila unità), la Svizzera accoglie mezzo milione di italiani, la Francia si ferma a 370mila, il Brasile raggiunge i 273mila e Australia, Venezuela e Spagna superano le 100mila unità. La maggioranza degli italiani residenti all’estero, il 54,3%, è di origine meridionale (oltre 1 milione e 400mila sono del Sud e quasi 800mila delle isole); il 30,6% proviene dalle regioni settentrionali (oltre 600mila dal Nord Est e altrettanti dal Nord Ovest); il 15,2% (611.929) è, infine, originario delle regioni centrali. La prima regione per numero di emigrati è la Sicilia (oltre 600mila), seguita da Campania (421mila), Lazio e Calabria. Secondo il Rapporto, oltre agli italiani che hanno mantenuto o acquisito la cittadinanza, quindi con passaporto e diritto di voto, vi sono gli oriundi, dai 60 agli 80 milioni. Non mancano le curiosità. Dal Rapporto emerge che nel mondo vi sono 24mila corsi di lingua italiana per un totale di 394mila allievi. In particolare, quasi tutti i 92 istituti italiani di cultura sparsi nel mondo organizzano corsi di lingua italiana. Inoltre vi sono almeno 186 scuole italiane e 114 sezioni italiane presso g scuole straniere con 30mila alunni. [Sir] ■

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Abbazia vanto dell’astigiano arra la leggenda che in un giorno imprecisato del 773 il re dei Franchi Carlo Magno, trovandosi a caccia nei boschi di Albugnano, ebbe una terribile visione di tre scheletri che, usciti dai loro sepolcri, si erano messi a danzare; ciò gli causò un grave attacco epilettico. Soccorso da un eremita della zona, il santo uomo gli avrebbe consigliato di invocare la Madonna di una vicina chiesetta. La Vergine prontamente esaudì il sovrano che subito, come ringraziamento, ordinò la fondazione dell’abbazia di Vezzolano, ancora oggi monumento simbolo del romanico astigiano. La leggenda di Carlo Magno non ha alcun fondamento o pretesa storica, ma sta comunque a indicare un luogo di culto antichissimo, di cui rimangono tracce risalenti all’epoca paleocristiana. La prima data certa che attesta la presenza di un’abbazia, o meglio di una canonica – visto che a condurla furono per diversi secoli proprio i Canonici Agostiniani – è contenuta in un documento del 25 febbraio 1095. Una Un luogo di culto seconda attestazione è quella del 19 antichissimo giugno 1148, quando il cistercense e un patrimonio papa Eugenio III ricevette la chiesa sotto architettonico di rilievo. Il complesso la sua protezione, “operazione” poi ripetuta il 12 gennaio 1159 anche di Vezzolano incanta dall’imperatore Federico Barbarossa. il visitatore per la Sono questi i decenni di massimo bellezza e le leggende splendore di Vezzolano, durante i quali di re e imperatori furono costruite le principali strutture al cui nome è legato, secondo una tradizione, architettoniche, rendendo l’abbazia una delle realtà più importanti e potenti della anche una variante zona. Una fortuna che si sarebbe in locale del tipico parte ridimensionata, però, già nel corso piatto piemontese del XIV secolo e, ancora di più, con della “bagna càuda” di Paolo Mira

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l’arrivo nel 1405 degli abati commendatari. Abbandonata dagli agostiniani, i commendatari riuscirono comunque a traghettare il cenobio fino alle soglie del XIX secolo, quando i beni di Vezzolano furono incamerati dal governo napoleonico. Poco più tardi, su ricorso del Comune di Albugnano, il governo stesso costituì con una parte dei possedimenti il beneficio parrocchiale, mentre i rimanenti beni – compreso il chiostro – furono messi all’asta. Tale patrimonio fu donato nel 1927 dalla proprietaria del tempo, Camilla Serafino, all’Accademia di Agricoltura di Torino, per essere ceduto nel 1935 allo Stato italiano. La storia di Vezzolano, infine, registrerà, seppur per breve tempo, la presenza di un gruppo di monaci benedettini dell’abbazia savonese di Finalpia, che vissero in questi antichi ambienti dal luglio 1969 al giugno 1971. Oggi la chiesa di Vezzolano accoglie il visitatore, il turista e il fedele con la propria facciata solenne e


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Nelle foto: immagini dell’Abbazia di Vezzolano

austera, scandita dai corsi regolari dei mattoni, che contrastano con le fasce in pietra arenaria, il tutto impreziosito, quasi fossero cammei, da veri e propri capolavori della scultura romanica: la Madonna in trono nella lunetta del portale maggiore, Sant’Ambrogio in quello laterale, i simboli degli Evangelisti, Gesù Cristo benedicente tra gli arcangeli Michele e Raffaele e ancora gli angeli ceroferari e il busto solenne di Dio padre nella parte sommitale. Ma se l’esterno attira l’attenzione e la curiosità, l’interno lascia senza parole; la navata maggiore, all’altezza della seconda campata, è attraversata da un elemento architettonico rarissimo in Italia: il pontile – o, per meglio dirla alla francese, lo jubé – una struttura a cinque arcate gotiche sopra le quali si trova un prezioso bassorilievo: nel registro inferiore le immagini ieratiche dei 35 patriarchi antenati della

Vergine, in quello superiore i simboli degli Evangelisti e le scene mariane della deposizione nel sepolcro, degli angeli che la solevano verso il cielo e dell’incoronazione. Ancora più interessate è il fatto che questo prezioso manufatto sia stato realizzato – come recita la lunga iscrizione che lo percorre – nel 1189, regnando Federico Barbarossa e sotto il prevosto Vidone. L’interno dell’abbazia conserva numerose altre testimonianze artistiche: capitelli figurati, l’Annunciazione scolpita e incastonata nell’apertura centrale dell’abside, l’altare maggiore in cotto policromo realizzato alla fine del Quattrocento, che raffigura la Madonna col Bambino tra Sant’Agostino e un santo dalla lunga barba, che presenta un personaggio inginocchiato in vesti regali. La critica ha identificato quest’ultimo in re Carlo VIII, di passaggio in queste terre nel 1494, il cui nome è legato, secondo una tradizione, anche a una variante locale del tipico piatto piemontese della “bagna cauda”. Prima però di una sosta enogastronomica, non si può dimenticare di visitare la sala capitolare e il chiostro con importanti affreschi, che vanno dalla fine del XIII alla fine del XIV secolo. Tra essi il più curioso è quello della cappella dei Rivalba, diviso in quattro registri, che presenta il Cristo redentore tra i simboli degli Evangelisti, l’adorazione dei magi, l’episodio dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti – che la tradizione identifica con il leggendario episodio di Carlo Magno – e l’immagine g di un defunto in toga rossa. ■

Come arrivare a Vezzolano abbazia di Vezzolano sorge in Comune di Albugnano (Asti). È raggiungibile da Asti percorrendo la Statale per Chivasso (circa 30 km) fino al bivio per Albugnano. Utilizzando, invece, l’autostrada A21 Torino-Piacenza uscire a Villanova d’Asti, proseguire (circa 16 km) per Buttigliera, Castelnuovo Don Bosco e, quindi, Albugnano. È possibile visitare il complesso monastico tutti i giorni, escluso il lunedì. Orario invernale: 9.30-12.30, 14-17; estivo: 9-13, 14-un’ora prima del tramonto. Ingresso gratuito. Servizio di visite guidate per gruppi su prenotazione. Per informazioni chiamare il numero 011.9920607. Confinante con Albugnano è il Comune di Castelnuovo Don Bosco, dove in frazione Becchi (oggi Colle Don Bosco), nel 1815 nacque San Giovanni Bosco; meritano una visita il santuario, i musei e la casa natale del santo

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I giovani hanno sete di giustizia di Gianni Di Santo

n’occasione per incontrarsi. Ma anche una possibilità di tessere quelle reti di amicizia e fraternità che fanno sì che il vangelo sia continuamente vissuto e tramandato nelle vite di ogni giorno. Loro, gli assistenti dell’Azione cattolica italiana, hanno deciso di vedersi dal 14 al 17 febbraio, presso la Domus Mariae a Roma, per il Convegno nazionale degli assistenti regionali, diocesani e parrocchiali di Ac (sono invitati anche tutti gli altri sacerdoti interessati). Rifletteranno sul mondo giovanile e la sua “sete di giustizia”, e sul conseguente impegno per la solidarietà intergenerazionale anche, e soprattutto, in Ac. Il convegno costituirà un’occasione preziosa per effettuare, secondo lo specifico ministero sacerdotale, una riflessione condivisa su questo tema tanto rilevante per tutta la Chiesa in Italia. Per don Armando Matteo, assistente della Fuci e coordinatore del Collegio assistenti di Ac, «il prossimo Convegno, realizzato in collaborazione con la Fuci, intende da una parte sviluppare l’ambito della tradizione, secondo il metodo attuato al Convegno ecclesiale di Verona, e interrogarsi dunque sul tema della sempre più difficile Il prossimo Convegno trasmissione della fede alle nuove generazioni; dall’altra si propone di dare un nazionale degli efficace riscontro all’indicazione del assistenti di Ac, in calendario dal 14 al 17 Santo Padre di una ricerca più intensa della “solidarietà e della giustizia intergefebbraio, cercherà di porsi sulla lunghezza nerazionale”, premessa indispensabile per un paese davvero capace di propiziad’onda delle nuove generazioni. La parola re vita buona per tutti». «I giovani oggi sono pochi – continua a mons. Domenico don Armando Matteo –, appena un settiSigalini e don mo della popolazione nazionale, e questo Armando Matteo

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fa sì che la loro voce non sempre riesca ad attirare la giusta attenzione della comunità civile ed ecclesiale: gli assistenti sono perciò chiamati a farsi compagni di viaggio e promotori di un vero protagonismo delle nuove generazioni. Oggi, non domani». Tra i relatori del Convegno si segnalano R. Grassi e M. Livi Bacci, ai quali si chiederà se si può essere esprimere una presenza attiva da parte dei giovani nella Chiesa e nel paese e G.C. Pagazzi, il quale ci aiuterà a discernere il profilo di un educatore all’altezza dei tempi. «Avremo ancora la gioia di incontrare – conclude Matteo – e ascoltare don Luigi Ciotti e padre Francesco Rossi De Gasperis, due colonne della nostra Chiesa». Per mons. Sigalini, assistente generale dell’Ac, «l’importante è focalizzare l’attenzione sulla realtà giovanile, vedendola come soggetto attivo che ha


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In alto la copertina del libro edito dall’Ave che racconta la vita di un prete

coscienza della propria situazione e chiede giustizia per questo mondo. Una delle prospettive che ci proponiamo è quella di creare dei circuiti positivi di risposta con l’intergenerazionalità. È naturale come l’Ac si presti a ciò. Lo abbiamo visto il 30 ottobre a piazza San Pietro: la creatività, l’impegno e la pas-

sione dei giovani si è fatta carico di tutta la manifestazione. Una festa, ricordo, dove c’erano anche gli adulti. E se quello che abbiamo visto è vero per il 30 ottobre, può essere vero anche per tutta la vita». Un impegno, quello degli assistenti, che viene seguito dall’associazione con grande attenzione. La scorsa estate è stato pubblicato un libro edito dall’Ave, Un prete che educa. L’assistente di azione cattolica: uomo di relazioni, esperto in umanità, a cura di don Antonio Mastantuono, riflessione tuttora seguita da un vasto pubblico di lettori. Ed è in uscita nelle librerie Un parroco si confessa. Domande e risposte sulla vita di un prete, sempre edito da Ave e a cura di Alberto Campoleoni: il libro presenta la vita ordinaria di un prete, parroco in città (si tratta di don Mario Carminati – intervistato appunto da Campoleoni –, sacerdote della diocesi di Bergamo, con una lunga esperienza pastorale), tra mille impegni diversi da svolgere e l’esigenza di mantenere uno spazio per coltivare la propria “identità”. Ne emerge uno spaccato genuino di vita, ordinaria e realista, senza trionfalismi ma con una tesi di fondo: g si farà anche fatica, ma il ministero vale la pena. ■ Per ogni informazione sul Convegno: www.azionecattolica.it

Associazione

L’AGENDA DEI MESI DI GENNAIO E FEBBRAIO i intitola Lavoro subìto la quinta Giornata della progettazione sociale, promossa da un pool di realtà giovanili attorno ai temi dell’economia, del lavoro, delle realtà imprenditoriali e del passaggio dalla formazione alla vita professionale. L’appuntamento si svolge a Roma (Domus Mariae) dal 14 al 16 gennaio ed è promosso da Movimento lavoratori di Ac, settore Giovani Ac, Movimento studenti Ac, Gioventù operaia cristiana e Giovani delle Acli. Nella giornata conclusiva è inserita la presentazione e premiazione dei progetti vincitori del bando 2011 di progettazione sociale. Il 21 gennaio si terrà a Roma il seminario dell’Istituto Toniolo sul messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace 2011. L’11-12 febbraio, sempre a Roma, è previsto il convegno nazionale dell’Istituto Bachelet, mentre dall’11 al 13 l’Area famiglia e vita dell’Azione cattolica italiana promuove a Terni l’incontro per fidanzati su Disegni di affettività. Il 14-17 febbraio (vedi articolo), ancora a Roma, è in calendario il Convegno nazionale degli assistenti di Ac. Per tutte le informazioni su questi appuntamenti si può fare riferimento al sito associativo www.azionecattolica.it.

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Aversa, la Campania e un secolo di storia dell’Ac di Marco Testi

vevano ragione gli storici francesi degli Annales: le Storie, con la maiuscola, si possono costruire solo partendo dalle piccole storie, dal farsi quotidiano della vita di tutti i giorni. Il metodo degli Annales vale anche per il volume Laici e Vangelo in terre del Mezzogiorno. L’Azione Cattolica di Aversa e della Campania tra cronaca e storia (Editrice Ave, 2009, 344 pagine), di Luciano Orabona, storico del cristianesimo e presidente diocesano dell’Azione cattolica per molti anni. Il Luciano Orabona racconta libro ha il duplice merito di in Laici e Vangelo in terre del rappresentare la prima comMezzogiorno le vicende piuta storia non solo dell’Adiocesane e regionali zione cattolica ma del comdell’Azione cattolica, inserite nel più ampio quadro plessivo movimento cattolico in quella terra e di far capire associativo nazionale e nella come non solo dal centro si cronaca civile ed ecclesiale siano irradiati stimoli e diretdel Novecento tive ma come sia stato vero anche l’inverso, nel senso che dalle esigenze reali del territorio siano venuti elementi di riflessione e di dibattito. Orabona giustamente la prende dall’inizio, dalla nascita «delle prime associazioni dell’Azione cattolica» che risalgono ai tempi di Settimio Caracciolo, vescovo di Aversa dal 1911 al 1930, e analizza poi i rapporti tra parrocchie, associazioni e consulta diocesana: ma le pagine che fanno capire meglio i rap-

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porti profondi tra periferia e centro del mondo cattolico sono quelle a partire dall’avvento al potere del fascismo e poi dalla seconda guerra mondiale. È proprio scorrendo quelle pagine che si comprende meglio la storia delle violenze che le associazioni cattoliche dovettero subire da una forma di potere che non ammetteva alternative. È da queste “microstorie” che si può cogliere la verità di un cattolicesimo che non solo non fu servile verso il fascismo, come molti hanno sostenuto, ma non ebbe paura di sostenere i propri princìpi di fraternità e solidarietà quando era pericoloso farlo. Anche le pagine dedicate alla guerra rappresentano reali elementi di prova di come nonostante privazioni e lutti, i cattolici si siano adoperati, fino al sacrificio, per alleviare le sofferenze di tutti, nessuno escluso. La “grande storia” non è mai assente nelle pagine di questa ricostruzione fedele di quasi un secolo di vita non solo cattolica: qui si parla anche del dopoguerra, della ricostruzione, delle possibilità di affermazione delle nuove idee sociali cristiane da parte dei vari Dossetti, La Pira, Lazzati e dello scalpore che destò «il messaggio inviato dal Patriarca di Venezia cardinale Angelo Giuseppe Roncalli al congresso nazionale del Partito socialista italiano svoltosi nella città».


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Di molto altro si parla in questo ampio lavoro: di crisi e di ripresa dell’associazione, di dibattito e di tempi nuovi, ma soprattutto di quel fecondo processo di interazione tra base e vertice che ha attraversato il «secolo breve» e che ha permesso al cristianesimo di attrezzarsi per affrontare le incognite del nuovo Millennio

Nelle foto: due vedute della città di Aversa

Il ricordo di Orabona si fa talvolta commosso, quando ad esempio parla delle scelte operate tra la militanza nell’associazionismo cristiano e l’attività politica, degli incontri alla Camilluccia nell’ambito di corsi di studi politici con esponenti del mondo politico e culturale cattolico che si chiamavano De Gasperi, Guido Gonella, Enrico Medi. Le due storie, quella dei grandi eventi e quella di tutti i giorni, si intrecciano anche attraverso l’elaborazio-

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ne culturale della periferia, come nel caso del periodico La Settimana, fondato nel 1964 per volontà del vescovo Cece, che tra l’altro si rivelò molto attento ai cambiamenti epocali e alle ideologie del Novecento, tanto da misurarsi nei suoi interventi con esse a livello filosofico e sociale, con la difesa della spiritualità della persona contro le ideologie materialistiche. Anche le pagine dedicate al Concilio vaticano II sono di grande interesse, perché lungi da tirare conclusioni facili e ripetute, ci fanno sentire il sapore reale del dibattito di allora e rivelano una analisi raffinata dei fatti, come quando l’autore nota che «il Concilio veniva considerato pericoloso da atei e anticlericali per gli effetti che rischiava di produrre nella vita della Chiesa»: in realtà una parte della stampa affrontò i dibattiti all’interno del Concilio come la prova delle spaccature interne alla Chiesa e non della vitalità e della varietà della comunità ecclesiale. Storia del pianeta, del paese, dell’Azione cattolica e storia personale si fondono in una piacevole ricostruzione, come quando il professor Orabona ricorda la sua partecipazione alle celebrazioni del centenario dell’associazione con un suo studio sulla spiritualità di Giuseppe Toniolo, o quando sottolinea alcune figure entrate, per motivi talvolta tragici, nella storia dei conflitti del paese, in primis Vittorio Bachelet e la sua testimonianza convincente allorché si parlò di scelta religiosa dell’Azione cattolica: Bachelet sottolineò, proprio ad Aversa, la necessità di non rinunciare ad annunziare il vangelo per testimoniare soprattutto l’amore verso gli altri. Di molto altro si parla in questo ampio lavoro: di crisi e di ripresa dell’associazione, di dibattito e di tempi nuovi, ma soprattutto di quel fecondo processo di interazione tra base e vertice che ha attraversato il «secolo breve» e che ha permesso al cristianesimo di attrezzarsi per affrontare le incognite del nuovo g Millennio. ■

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Gesù, la pienezza dell’umano

uomo, infatti, avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, della sua attività e della sua morte. E la Chiesa, con la sua sola presenza nel mondo, gli richiama alla mente questi problemi. Ma soltanto Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, può offrire a tali problemi una risposta pienamente adeguata; cose che egli fa per mezzo della rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio suo, che si è fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (GS, 41). È questa la convinzione che guida la comunità dei credenti nel suo cammino nel tempo: il dovere di accompagnare ogni uomo e donna della terra a un incontro personale con Gesù, proprio perché in lui è dato accesso a quella vita buona, la cui ricerca pulsa nel cuore di ciascuno. Nella sua piena, perfetta, umanità vi è, infatti, la possibilità, per ciascuno, di scorgere i lineamenti originali e È questo il miracolo originanti della verità dell’umano, spesso dell’incontro con divenuti opachi nella cultura contemporail Signore: la nea. possibilità di un Questo è poi il punto di attrazione del Vanrapporto nuovo con se stessi, che implica gelo: l’annuncio di un Dio che visita la un’inedita relazione nostra storia non attraverso i segni di una gloria potente e irresistibile, ma nella forza con la creazione disarmante di un bambino, di un giovane e e la dimensione finale di un adulto, che, inserendosi nelle vicende dell’esistere e che travagliate di un piccolo popolo soggiogato apre a una maniera dall’impero romano, in-segna la verità delnuova di abitare l’umano. Proprio in questa umanità di Gesù il mondo di Armando Matteo

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i cristiani – più in verità ogni uomo e ogni donna – sono invitati a scoprire un modello felice per la loro esistenza. Quell’umanità è un modello felice, perché, diciamolo apertamente, non è mai stata una cosa da poco vivere bene, cioè in modo da non sentirsi insoddisfatti, tristi e (più recentemente) depressi. Ogni volta, del resto, che siamo attraversati da domande del tipo «E ora che faccio?», «Ora cosa dico?», «Ora come mi comporto?», proprio tali interrogativi confermano la necessità di avere un modello, un riferimento, un metro di misura su cui poter giudicare le nostre decisioni e azioni. E il cristianesimo scommette esattamente nell’assumere Gesù quale modello di esistenza, quale guida per la vita quotidiana e insuperabile interprete della sempre affascinante e faticosa avventura della libertà. Perciò invita a diventare umani come Gesù. Nessuno ha vissuto più interamente, intensamente e consapevolmente di lui l’avventura dell’umano che siamo e nessuno più di lui può svelarcene la grammatica. Ma come dire più precisamente questa pienezza di umanità in e di Gesù? Particolarmente affascinante risulta quanto da alcuni anni propone il teologo gesuita Christoph Theobald. Egli ravvisa in Gesù una speciale forma di santità: una “santità ospitale”. Con questa espressione, intende segnalare una singolare concordanza in Gesù tra i suoi gesti e le sue parole, tra ciò che vive nella sua anima e il suo stile di presenza agli altri, un’unità elementare e semplice del suo essere, una concordanza piena di e con sé che si apre di volta in volta a coloro che gli si fanno incontro, nella sua missione di profeta itinerante. Egli appare perciò maestro buono, maestro che ha


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“PERCHÈ CREDERE”: IL PERCORSO DI QUEST’ANNO

EDUCATORI, SULLO STILE DI GESÙ n sintonia con gli Orientamenti Pastorali del prossimo decennio, Educare alla vita buona del Vangelo, la rubrica “perché credere”, affidata agli Assistenti centrali dell’Azione cattolica, si propone di riflettere sullo stile educativo di Gesù. Mettendo in risalto la felice prassi pedagogica di Gesù, come emerge dai suoi numerosi incontri con gli uomini e le donne del suo tempo, gli assistenti ci aiuteranno a stilare una piccola grammatica della relazione educativa. Il percorso si avvia con un articolo di apertura dell’assistente della Fuci sulla pienezza di umanità che si manifesta in Gesù.

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parole di vita eterna, proprio perché in lui si manifesta una presenza al mondo riconciliata, sanata e sanante. Questo splendore di vita perciò non diventa qualcosa che lo isoli dagli altri (è appunto santità ospitale): al contrario diventa un elemento di irradiazione, in quanto avalla la possibilità che altri possano conquistare un simile posizionamento nei confronti dell’esistenza stessa: possano appunto diventare “più uomini”. Incontrare Gesù significa, allora, risvegliare in noi quel desiderio di pienezza e quella pienezza del desiderio, quel desiderio di riconciliazione e quella riconciliazione del desiderio, quell’anelito a una vita buona che ci portiamo inscritto nelle fibre più intime della nostra carne. E chi incontra veramente Gesù incontra più precisamente la verità della propria esistenza: cioè l’annuncio di una presenza benedetta e benedicente di Dio su di sé – il Dio che Gesù invita a nominare come Padre – la quale autorizza a un pieno dispiegamento di sé nel mondo, a un “traffico generoso” dei talenti che abbiamo ricevuto, in quanto Egli ci riconcilia con quel sentimento di paura e di terrore legati all’esperienza della finitezza e della morte. Theobald insiste molto su questo punto, perché ciò che Gesù suscita e desta in coloro che incontra è in definitiva «un nuovo rapporto con la morte», reso possibile dall’annuncio della rivelazione di Dio come Abba, che riesce a disarmare la morte – egli scrive – «come ultimo nemico della vita e la trasforma in messaggero (o messaggera) capace di convincere ciascun individuo del valore inestimabile della sua esistenza: se non ha che una sola vita, questo “una volta per tutte” è la garanzia della sua unicità. Soltanto un’origine “paterna” – Dio padre – può portare il peso di questa buona novella. Colui che la intende percepisce immediatamente la singolare novità che è il suo semplice esistere tra la nascita e la morte». È questo il miracolo dell’incontro con il Signore Gesù: la possibilità di un rapporto nuovo con se stessi, che implica un’inedita relazione con la creazione e la dimensione finale dell’esistere e che apre a una maniera nuova di abitare il mondo, nella corrispong denza libera all’unicità di ciascuno. ■

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