Poste Italiane S.p.A - Sped. in abb. post. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 2, CNS/AC Roma Segno nel mondo â‚Ź 1,70
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nel mondo
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Nord e Sud, i fratelli d’Italia
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Fatti
parole di Franco Miano
AssembleaAc: viverelafede, amarelavita
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L’impegno educativo ha sempre rappresentato e continua a rappresentare un elemento caratterizzante per l’Azione cattolica a tutti i livelli sia nel senso dell’attenzione al valore cardine dell’educazione nella famiglia, a scuola, nella stessa vita della Chiesa, nella vita della società pur nella complessità delle sue trasformazioni, sia nel senso dell’impegno per un adeguato accompagnamento dei soci attraverso cammini formativi che sappiano guidare a una piena presa di coscienza del senso stesso della propria vita, del proprio posto nella storia, del proprio contributo da dare alla società. Gli Orientamenti pastorali per il decennio 20102020 rafforzano per noi tutta questa prospettiva, definendo l’Azione cattolica «scuola di formazione cristiana» (n. 43). Per noi, dunque, l’impegno educativo è impegno di vita e non pura e semplice ricerca di tecniche nuove o di nuovi allettanti metodi, non disdegnando naturalmente ogni benefica innovazione anche in questo campo. L’Assemblea nazionale che si svolgerà a Roma dal 6 all’8 maggio 2011 sarà il momento per rilanciare, dopo il bellissimo incontro con il Santo Padre del 30 ottobre 2010, il contributo che l’Ac sente di poter dare in questa direzione. Il tema scelto per l’Assemblea è Vivere la fede, amare la vita, con sottotitolo esplicativo l’impegno educativo dell’Aziona cattolica. Perché questo tema?
In primo luogo perché avvertiamo sempre la necessità di vivere fino in fondo la nostra fede, quella fede che è capace di cambiare la vita coinvolgendosi pienamente in essa. O la fede cambia la vita, o la fede genera nuova vita, o la fede ci spinge ad amare pienamente la vita o è sterile. D’altra parte la fede cristiana è questione di vita, la nostra vita che si lascia permeare dalla vita di Gesù Cristo. In secondo luogo perché crediamo fermamente che oggi, come sempre ma ancor più, è tempo di coerenza profonda tra fede e vita. O la testimonianza della fede è coerente e significativa oppure non riesce a provocare gli altri, a mostrare in concreto le potenzialità di una vita vissuta secondo il Vangelo. In terzo luogo perché proprio il nesso indissolubile fede-vita ci spinge ad amare la vita sempre. Sempre: dalla vita nascente alla vita che muore, dalla vita vissuta nelle grandi città del ricco Nord del mondo alla vita di ogni angolo dei tanti Sud della terra. La vita buona, la vita degna di essere vissuta. È quella per cui operiamo, per cui ci impegniamo. In quarto luogo perché l’impegno educativo è l’impegno di dare il nostro piccolo contributo a che tanti continuino e sempre più si appassionino alla vita buona del Vangelo di Gesù Cristo. Non è un impegno educativo qualsiasi. Ma quell’esigenza del cuore che avvertiamo perché vogliamo comunicare a tutti una bella, grande notizia: Gesù salva le nostre vite. Ma questo cammino non è solo del singolo. Camminiamo con la Chiesa, camminiamo con l’Azione cattolica. In Ac impariamo a camminare e a crescere insieme sempre, in ogni tempo della vita. Non si può vivere la fede e amare la g vita da soli. ■
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la copertina
sommario
Fratelli d’Italia è il dossier che Segno dedica al 150° anniversario dell’unità, tra i “mal di pancia” del Nord e le eccellenze del Sud che sono, ancora oggi, fra i tratti tipici di un paese che cerca di uscire da un deficit di risorse civiche ed economiche. Un’Italia unita è un bene per tutti
fatti e parole
sotto i riflettori
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Assemblea Ac: vivere la fede, amare la vita
Lavoro e impresa, occasione per tutti
di Franco Miano
di Paola De Lena
sotto i riflettori
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16 Le icone di Caulonia di Diego Andreatta
Avanti insieme Si può fare di Paolo Acanfora
8 Qui le stelle non stanno a guardare
18 Benvenuti al Sud (e pure al Nord)
4 tempi moderni
cittadini e palazzo
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Il potere alle parole
Privacy e informazione: spiati o informati?
di Simone Esposito
28 Fidarsi dei bambini di Barbara Garavaglia
di Simone Esposito
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Un giorno la musica rinascerà
famiglia oggi
34 Se mamma e papà si dividono di Giorgia E. Cozza
intervista con
Michele Guerriero
La lezione dei grandi scrittori
Max Gazzè
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di Alessandra Gaetani
di Marco Testi
di Alessandra Gaetani
Età a più velocità
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Se le partite Iva hanno paura
Quale futuro per l’unità del paese?
di Diego Motta
di Gian Candido De Martin
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le altre notizie
intervista con
Meridione, l’altra verità intervista con
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Pino Aprile
Dall’Italia e dal mondo
di Mirko Campoli
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di Chiara Santomiero nel mondo
n.2febbraio2011
Mensile dell’Azione Cattolica Italiana Direttore Franco Miano Direttore Responsabile Giovanni Borsa g.borsa@azionecattolica.it In Redazione Gianni Di Santo g.disanto@azionecattolica.it e-mail Redazione segno@azionecattolica.it Tel. 06.661321 (centr.) Fax 06.66132360
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di Marta Vergottini
Hanno collaborato a questo numero: Paolo Acanfora, Diego Andreatta, Mirko Campoli, Paola De Lena, Giorgia E. Cozza, Gian Candido De Martin, Simone Esposito, Alessandra Gaetani, Antonella Gaetani, Barbara Garavaglia, Stefano Leszczynski, Fabiana Martini, Giuseppe Masiero, Paolo Mira, Diego Motta, Marco Ratti, Francesco Rossi, Chiara Santomiero, Paola Springhetti, Marco Testi, Marta Vergottini, Agostino Ziino Editrice Fondazione Apostolicam Actuositatem Via della Conciliazione, 1 - 00193 Roma Direzione e Amministrazione Via Aurelia, 481 - 00165 Roma
Grafica e impaginazione: Giuliano D’Orsi, Veronica Fusco Stampa Mediagraf S.p.a. Viale della Navigazione Interna, 89 - 35027 Noventa Padovana - PD Reg. al Trib. di Roma n. 13146/1970 del 02/01/1970 Per le immagini si è fatto ricorso alle agenzie Olycom, SIR e Romano Siciliani Chiuso in redazione il 14 gennaio 2011 Pubblicazione associata all’USPI (Unione Stampa Periodica Italiana)
Abb.to annuale (12 num.) senza supplemento € 20 Abb.to annuale (12 num.) con supplemento € 25 Per versamenti: ccp n.78136116 intestato a: Fondazione Apostolicam Actuositatem Riviste - Via Aurelia, 481 – 00165 Roma Fax 06.6620207 (causale “Abbonamento a Segno”) Banca: Credito Artigiano - sede di Roma IBAN: IT88R0351203200000000011967 cod. Bic Swift Arti itM2 intestato a: Fondazione Apostolicam Actuositatem Via Aurelia, 481 - 00165 Roma Tiratura 153.300 copie
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quale Chiesa
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i titoloni
50 Recensioni
Un mondo a colori
di Silvio Mengotto
di Francesco Rossi
e Antonella Gaetani
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giorno per giorno
Innamorato della Parola di Agostino Ziino
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senza confini
Il volontariato e il balletto delle cifre
42 La Romania che parla italiano di Marco Ratti
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sommario
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di Paola Springhetti
spazio aperto
53 Le lettere
Haiti ancora sotto le macerie
faccia a faccia
sulle strade della fede
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Guerra e fame bussano alle nostre porte
Il fascino di Sant’Egidio di Paolo Mira
intervista con Maurizio Simoncelli di Stefano Leszczynski
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orizzonti di Ac
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perché credere
SegnoPer, focus sull’educatore
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di Fabiana Martini
Maestro dove abiti
58 C’è di + nelle riviste dei più piccoli di Claudio di Perna
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di Giuseppe Masiero
la vignetta
64 di Valerio De Luca
Nella terra di Gesù
ieri e domani
60 Diario di un prigioniero cattolico
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di giadis
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Fratelli d’Italia. In un paese spesso confuso e deluso, eppure ricco di energie, intelligenza e capacità, talvolta diffidente, che attraversa una profonda crisi della politica e il cui ethos civile traballa, l’inno di origine risorgimentale sembra lontano, oscurato da una “italianità” un po’ in disuso. Scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, Fratelli d’Italia, oggi, può essere ancora più che un’invocazione messa sul pentagramma. Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità, che il nostro paese sta celebrando, Fratelli d’Italia è monito e speranza per le generazioni future e indica una passione etico-civile da recuperare per attraversare il guado di un presente e di una realtà socioeconomica a tinte fosche. Al di là di ogni retorica, le domande sono chiare: un’Italia divisa ce la farebbe a superare la crisi? Quale ruolo potrebbe giocare in Europa e nel mondo? E un federalismo ancora un po’ oscuro nelle sue enunciazioni e ricadute concrete potrà aiutare i territori, le regioni a crescere nel segno della solidarietà e dell’unità? Ecco perché, soprattutto oggi, i “mal di pancia” del Nord Italia e le eccellenze del Sud, che pure ci sono, vanno ascoltati, capiti, risolti o valorizzati a secondo dei casi. Sussidiarietà e solidarietà, autonomia e prosperità, senso civico e legalità sono termini che possono, anzi, devono andare d’accordo. Il dossier di Segno analizza quanto i “fratelli d’Italia” – schematicamente rappresentati da Sud e Nord, passando per il Centro – abbiano ancora da dirsi per una “storiografia dell’anima” che metta insieme cuore e cervello e racconti un paese diverso, rispetto a tante strumentalizzazioni e caricature che la storia nazionale ha trasmesso ai posteri. Due, tre o più Italie non servono a nessuno. Una, bella e dinamica Italia, invece sì. Sta alla buona politica, ma anche ai cittadini di questo straordinario paese fare passi avanti affinché fatti gli italiani, si faccia l’Italia. (giadis)
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Avanti insieme Si può fare di Paolo Acanfora
on nasce sotto i migliori auspici l’anno del terzo giubileo della patria. Instabilità politica, crisi economica, profondo malessere sociale e una marginalizzazione del ruolo della cultura nella vita della comunità che non ha precedenti nella nostra storia. Soprattutto, però, a preoccupare è la sempre più ampia divaricazione tra le «due Italie», per usare un’espressione coniata nell’Ottocento dallo storico tedesco Heinrich Leo e divenuta presto di uso comune. Il Nord e il Sud sembrano essere oggi due piccole patrie che faticano a ritrovare il significato morale e le esigenze concrete di una vita in comune. Non è sempre stato così. La «questione meridionale» ha certamente accompagnato la nascita e lo sviluppo dello Stato italiano ma era declinata diversamente, come un problema da risolvere in chiave nazionale e giudicato fondamentale per la crescita dell’intero sistema italiano. Intendiamoci: non sono mai mancate le critiche al nord sfruttatore delle risorse meridionali e al sud immobile e parassitario ma si trattava di richieste di perequazione, di sviluppo e di progresso che investivano la nazione italiana nella sua totalità. Le conquiste dell’unità, di ciò che Benedetto Croce ha indicato come il più grande capolavoro politico dell’Ottocento europeo, erano giudicate acquisite una volta per tutte e considerate non più in discussione. Seppure opera di una piccola minoranza in un contesto di sostanziale assenza delle masse popolari, il risorgimento creò le condizioni per l’avvio di un processo di nazionalizzazione di realtà locali profondamente diverse. L’esercito, la scuola,
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le grandi infrastrutture, la partecipazione alla vita politica attraverso i partiti e, ancora, il ruolo della radio e della televisione agirono profondamente, permettendo l’incontro, la conoscenza e la comprensione tra queste diverse realtà e con ciò la costruzione di un comune sentimento di appartenenza nazionale. Le molte facce dell’Italia si trovarono così a comunicare con una medesima lingua, a condividere le stesse istituzioni, ad assomigliarsi sempre più nei costumi. Un processo che ha portato a importanti risultati ma che ha, tuttavia, lasciato molte questioni irrisolte. L’Italia ha continuato a essere una nazione a più velocità, con diversi gradi di sviluppo, di efficienza, di ricchezza. Il permanere di queste differenze ha prodotto il continuo alimentarsi di un sentimento diffuso di ingiustizia che, nelle regioni settentrionali, ha radicato l’idea di una sostanziale autosufficienza di una parte del paese non più disposta a trascinare con sé l’altra, giudicata un inutile peso morto. A distanza di centocinquanta anni si sono così riproposte le tradizionali fratture nel corpo della comunità nazionale. Nuovamente ha preso vigore l’immagine retorica di un Sud totalmente incapace, indifferenziato, politicamente ed economicamente assistito di fronte a un Nord altrettanto totalmente produttivo, attivo, frenato solo dall’incapacità altrui. E l’«altro» è diventato, di conseguenza, un impaccio, un danno, un problema da risolvere. L’invocazione del territorio come idea-forza di riferimento ha svolto, come ricordano gli antropologi, una preziosa funzione identitaria (il «nostro territorio») legittimando le divisioni tra un «noi» e un «voi» sempre più inconciliabili. Allo stesso tempo nelle regioni
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Nelle foto: sopra il Palazzo della Borsa a piazza Affari (Milano) e uno scorcio di piazza Plebiscito a Napoli. L’autore dell’articolo, Paolo Acanfora, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia moderna e contemporanea e svolge ricerche con l’Istituto Luigi Sturzo e l’Accademia di Studi storici Aldo Moro
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meridionali si è riaffermato un atteggiamento tipicamente «rivendicazionista», legato all’idea di un Nord privilegiato divenuto ricco e consolidatosi nella sua ricchezza alle spalle di un Sud impoverito. Tutto ciò ha prodotto un inevitabile risultato: un sentimento di appartenenza nazionale non pienamente condiviso, una comunità attraversata da fratture che appaiono spesso insanabili, un ethos civile già tradizionalmente critico giunto a incomparabili livelli di sfaldamento. È questo il quadro all’interno del quale l’Italia si appresta a celebrare la propria unità politica. L’inattività imbarazzante del comitato appositamente nominato per il centocinquantesimo anniversario testimonia e certifica lo stato di crisi. L’assenza di un progetto politico-culturale che sappia comprendere il passato, analizzare il presente e prospettare un futuro trova conferma nella povertà del dibattito, nello smarrimento e nell’incertezza dei passi da compiere da parte della classe dirigente. Eppure vi sono le possibilità per muoversi in una direzione diversa. Gli appelli del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rappresentano un invito e una spinta a guardare, con intelligenza e partecipazione, alla realtà del paese. Cercare di capire le ragioni del Nord e le condizioni del Sud,
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provare a uscire dagli schemi di letture rigide e monolitiche cogliendo, da una parte, i fermenti di vitalità che nonostante tutto caratterizzano la società meridionale e individuando, dall’altra, le soluzioni per liberare la società settentrionale da lacci e pesi che ne frenano lo sviluppo: questa la via preliminare per ridare una nuova unità a una nazione lacerata da divisioni e conflitti. Ma il ruolo prioritario spetta alla società civile, a quei settori di essa che per propria vocazione tendono a costruire ponti, a sanare le divisioni, a conciliare le differenze, a superare l’ostinazione del muro contro muro eleggendo la mediazione culturale a fondamento della convivenza civile. Le associazioni di volontariato che uniscono le numerose realtà locali all’interno di un comune quadro nazionale e costruiscono fattivamente dei legami di solidarietà sono la migliore espressione di un’idea positiva e volitiva di nazione. Un grande scrittore francese dell’Ottocento, Ernest Renan, aveva definito la nazione un «plebiscito di tutti i giorni», volendo con ciò indicare che ogni comunità ha bisogno di confermarsi quotidianamente nella propria condizione unitaria. L’unità non è un dato irreversibile. Occorre difenderla, sostenerla e confermarla in uno sforzo continuo. Nel centocinquantesimo della nascita dello
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Stato italiano, è necessario ritrovare, come è stato più volte detto, le ragioni fondamentali di questa unità. Un federalismo costruito «contro» qualcuno non assolve a questo compito. Perché la solidarietà non sia una vacua espressione, perché il «federalismo solidale» non assuma i contorni di un semplice slogan, occorre individuare dei precisi meccanismi istituzionali che permettano di tutelare il bene prezioso dell’unità. Non due diverse condizioni di citta-
dinanza (cittadini di serie A e di serie B, come si suol dire) ma una realtà unica, articolata quanto si vuole ma pur sempre garantita nella sua integrità. Il nuovo anniversario della patria potrà e dovrà essere una feconda occasione per un rinnovamento del sentimento di appartenenza nazionale, per il miglioramento di un senso civico tradizionalmente scarso, per una più adeguata comprensione della nostra storia, che è stata difficile, problematica e complessa ma che è stata indubbiamente comune. A ciascuno il suo, in questo compito. Alle istituzioni, alla classe politica, ai singoli cittadini, alle articolazioni della società civile. E, in questa direzione, i cattolici, come pure nel passato, hanno molto da dire e da fare. Da essi è, anzi, lecito aspettarsi un fondamentale contributo per la riscoperta e l’elaborazione di vecchie e nuove ragioni che sappiano perpetuare la scelta storica compiug ta centocinquanta anni fa. ■
L’impegno dell’Ac per il paese
CERCARE LE SPERANZE NEI SEGNI BUONI DEL TERRITORIO «I dati statistici non smettono di fotografare giovani in ginocchio tra disoccupazione e precarietà selvaggia. Solo pochi giorni fa l’Istat confermava che oltre un giovane su quattro in Italia è disoccupato. Su questo l’Ac sente di dover interpellare la classe dirigente: cosa si può fare ora per aprire il mercato dell’occupazione? E quali strade di medio periodo perché un impiego non sia sempre sotto l’ombra inquietante della precarietà senza tutele? Appare necessaria una verifica oggettiva delle politiche del lavoro sinora adottate, rese tra l’altro incomplete dall’assenza di un moderno sistema di welfare. Allo stesso modo sembrano necessari investimenti per la formazione dei giovani non disgiunti da un organico progetto educativo». Con queste parole, peraltro attualissime, l’Ac ha presentato un Messaggio al paese durante il Convegno dei presidenti e degli assistenti unitari diocesani svoltosi significativamente ad Ancona, sede del prossimo Convegno eucaristico nazionale, il 10-12 settembre 2010, dal titolo Eucaristia e vita quotidiana. «In questo contesto – continua la nota dell’Ac – la speranza, le speranze vanno ostinatamente cercate nei segni buoni dei territori, nelle donne e negli uomini di buona volontà che, nella costanza e nell’ombra, continuano a servire le persone e le città “nonostante” il terreno poco fertile. È questa realtà che l’Ac vuole continuare a mostrare, in particolare la realtà di chi, nella crisi educativa, continua ad accompagnare gratuitamente le persone nella vita e nella fede. Sacerdoti, laici adulti e giovani, genitori, insegnanti, che vedono nella vita degna delle persone l’investimento più importante per il paese». L’Ac è tornata su alcuni di questi temi, compresa la valorizzazione dei territori, l’impegno sociopolitico e il 150° dell’Unità, nel messaggio di fine 2010-inizio 2011 intitolato I nostri auguri all’Italia, disponibile sul sito www.azionecattolica.it.
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Qui le stelle non stanno a guardare intervista con Michele Guerriero di Alessandra Gaetani
uori dai luoghi comuni c’è un Sud che punta in alto. Michele Guerriero, giornalista e scrittore, ci parla nel suo ultimo libro, Stelle del sud, del nostro mezzogiorno, ne spiega le ricchezze, le grandi potenzialità. E nel far questo va alla ricerca di cinque stelle, cinque realtà che riguardano altrettante eccellenze. Si tratta del petrolio in Basilicata, dell’interporto di Nola, del distretto dei divani tra Puglia e Basilicata, delle aziende vinicole in Puglia e Sicilia, e del porto di Gioia Tauro. Ognuna di esse brilla di luce propria, insieme illuminano il Sud. Un libro nato nelle sere d’estate, a tavola con Roberto Ciuni, ex direttore de Il Mattino, del Giornale di Sicilia. «Un grande amico, scomparso lo scorso aprile. Mi ha stimolato a fare una serie di riflessioni. Ho iniziato le ricerche, raccolto i dati. In ogni capitolo ci sono delle interviste. Ciò che rende prezioso questo libro è la prefazione di Pellegrino Capaldo, uno dei banchieri più autorevoli d’Europa».
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Nel libro lei affronta il tema dell’innovazione. Cosa occorre fare per non perdere questo treno? È necessario investire nell’innovazione per non perdere punti di Pil ogni anno. Non solo l’innovazione tecnologica ma anche quella nelle nuove forme nel mondo del lavoro. Le aziende che investono in que-
Il petrolio in Basilicata, l’interporto di Nola, il distretto dei divani tra Puglia e Basilicata, le aziende vinicole in Puglia e Sicilia, e il porto di Gioia Tauro: anche il Mezzogiorno ha le sue eccellenze. Un giornalista prova a spiegarne le ragioni: «oggi alcune regioni del Sud producono in percentuale meno rispetto al Nord, eppure abbiamo un livello di scolarizzazione molto alto, moltissime potenzialità nel territorio e nell’ambiente». Il tema chiave è “innovazione” 8
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sto settore dovrebbero avere degli sgravi fiscali diversi da quelle che non lo fanno. Quando un’azienda investe in innovazione ottiene migliori risultati nel mondo del lavoro. Ma occorre anche un sistema infrastrutturale, istituzionale, di sicurezza. Questo al Sud non è del tutto scontato. Il turismo viene denominato la Cenerentola del sistema Italia. Come riscattarlo da questa situazione? Si tratta di uno dei temi economici che interessa di più l’Italia. Il Sud ha più sole e mare, quindi è toccato molto da vicino. A novembre mi trovavo a Catania. Alle 12 la gente ha fatto il bagno, c’erano 25 gradi. Questo vuol dire che si possono implementare le attività turistiche fuori stagione con offerte. Ma la responsabilità del perché questo non si faccia non è solo di coloro che fanno parte del settore turistico. Al Sud il sistema dei trasporti è molto carente. Cosa tiene ancorato il Mezzogiorno impedendogli di fare quei passi che l’aiuterebbero a crescere con il resto del paese? Esistono tanti Sud, non si tratta di un’entità monolitica, ma di una realtà che rappresenta diverse entità regionali. Inoltre sono diverse le ragioni per cui è percepito, e in parte ancora è, una palla al piede. Il Regno delle due Sicilie, alla metà dell’800, era tra gli Stati che produceva di più in Europa. Oggi alcune regioni del Sud producono in percentuale meno rispetto al Nord, eppure abbiamo un livello di scolarizzazione molto alto, moltissime potenzialità nel territorio e nell’ambiente. Oggi il Mezzogiorno è ancora percepito come la palla al piede ma sta rientrando la percezione del “è così, non ci possiamo fare niente”, una sorta di sconfitta. I giovani hanno fiducia? Continua la fuga dei cervelli. Persone che quando partono non hanno la valigia di cartone ma una laurea in tasca, oppure lasciano la loro terra per lau-
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INNAMORATO “DEI” SUD ichele Guerriero, classe 1977, è nato a Massafra (Taranto). Giornalista e scrittore, ha pubblicato nel 2005 Bari al bivio. Una discussione politica (Laterza), è coproduttore del docufilm Matteo Ricci, un gesuita nel regno del drago. Ha fondato e diretto la rivista di approfondimento politico Formiche, è direttore generale dell’agenzia di stampa quotidiana nazionale il Velino. Con Stelle del sud (Rubbettino) ha vinto nel 2010 il Premio Capri san Michele nella sezione Italo de Feo.
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Nelle foto: la pizzica taranta, tipica danza pugliese, ballata in pieno centro a Milano
rearsi nel Nord Italia o all’estero. Oggi la spaccatura non è più tra Nord e Sud, ma tra l’Italia e il resto del mondo, riguardo ad alcune tematiche. Il Mezzogiorno però sta peggio. Cosa ha fatto del Sud, negli anni, l’ultima carrozza del treno Italia? Il disimpegno delle classi dirigenti. Ha avuto degli esponenti molto responsabili nel dopo guerra. Poi però ha preso piede la politica intesa come voto di scambio e clientelismo. Questo fenomeno esiste ovunque, però nel Mezzogiorno ha avuto degli eccessi patologici. E continua ad averli. Perché il Sud ha questa caratteristica? Manca ancora una percezione matura dello Stato al servizio dei cittadini. Le scuole non si fanno per gli alunni ma per i docenti in sovrannumero che devo-
no insegnare, gli ospedali non servono per i malati ma per i medici e i portantini. Persiste l’idea che tutto quello che è struttura pubblica non è a servizio della comunità, ma è la comunità a servizio di quelle strutture. Poi ci sono ragioni di natura storica ed economica. Dopo l’unità d’Italia c’è stata disattenzione riguardo al Sud. Questo non serve a sgravarlo dalle sue responsabilità, ma serve a far capire che alcune classi dirigenti del Nord non hanno percepito il Mezzogiorno come un territorio di sviluppo e potenzialità. E lei come vede il Sud? Come un bicchiere mezzo pieno. So che è anche mezzo vuoto. La criminalità è una delle ragioni per cui ha una palla al piede. Si sta facendo molto nell’ambito della criminalità in questi ultimi anni. Il problema vero è che esiste tanta emigrazione di non ritorno: un terrig torio si impoverisce anche per questo. ■
Il documento della Cei sul Mezzogiorno
IL PAESE NON CRESCERÀ, SE NON INSIEME vent’anni dalla pubblicazione del documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, vogliamo riprendere la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro paese, con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti, riproponendoli all’attenzione della comunità ecclesiale nazionale, nella convinzione degli ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale […] alla luce dell’insegnamento del Vangelo e con spirito costruttivo di speranza. Torniamo sull’argomento non solo per celebrare l’anniversario del documento […] ma per ribadire la consapevolezza del dovere e della volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il paese. Nel 1989 sostenemmo: “il Paese non crescerà, se non insieme”. Anche oggi riteniamo indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo. Il bene comune, infatti, è molto più della somma del bene delle singole parti». È un invito al coraggio e alla speranza il documento dell’Episcopato italiano Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, pubblicato lo scorso aprile. Nonostante il cancro delle mafie, la disoccupazione, il lavoro nero, l’emigrazione dei giovani, l’ambiente bistrattato: problemi drammatici – denunciano i vescovi italiani – aggravati dalla crisi economica e dall’egoismo individuale e corporativo cresciuto in tutto il paese. Ma problemi che hanno in sé la speranza del riscatto: un riscatto che prenda forza dall’«umanesimo cristiano», riconosca la «sfida educativa» e abbia nel federalismo solidale uno strumento efficace per una nuova consapevolezza di bene comune.
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Se le partite Iva hanno paura di Diego Motta
tranieri in patria o protagonisti di una nuova unità? È difficile dire, nel Nord Italia di questo inizio del 2011, quale sia il sentimento prevalente. Dieci anni fa la risposta sarebbe stata scontata: da Torino a Venezia, passando per Milano, le ragioni dell’appartenenza alla comunità nazionale erano nonostante tutto largamente prevalenti. In effetti lo sono tutt’ora, se un recente sondaggio Demos ha confermato che nel Nord Est 7 italiani su 10 considerano l’Unità d’Italia un fatto positivo. Eppure è innegabile uno stato di crescente malessere, che va di pari passo con la necessità di tempi lunghi per l’attuazione Il Nord Italia sta cambiando del piano di governo sul fedrapidamente. Dall’economia finanziaria e industriale della eralismo fiscale. L’attuale impasse politica non basta Brianza alla laboriosità però per spiegare l’inquietudel distretto padano, dine di queste terre, che fino ad arrivare alla voglia affonda le radici in anni di di autonomia del bellunese. mancato sviluppo, di incomÈ a un bivio decisivo: da una prensioni e di rancori. parte c’è la modernizzazione
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e la crescita del tessuto sociale e civile, dall’altra la tentazione Il paradosso irrisolto Mai come nell’ultimo di asserragliarsi a difesa decennio il Nord Italia è di vecchie identità entrato nei discorsi, negli editoriali e negli scenari del mondo che conta, dalle élite che affollano i salotti buoni delle grandi città alla classe dirigente imprenditoriale e politica che ne attraversa (o dovrebbe attraversarne) le piazze. A tanto interesse non ha corrisposto però analogo sforzo (proclami a parte) nella soluzione dei problemi, a partire dallo storico deficit infrastrutturale. La ricchezza prodotta nel solo “triangolo” industriale Milano-Genova-Torino è pari al 19% delle esportazioni e coinvolge circa il 13% della forza
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occupazionale, mostrando di resistere ai cambiamenti intervenuti nella seconda parte del secolo scorso, quando la discesa dell’economia manifatturiera si è accompagnata all’ascesa del settore dei servizi. «Nello stesso periodo, il “triangolo” si è disciolto nella “megalopoli padana” – spiega nel saggio Nord (Mondadori) lo storico dell’industria Giuseppe Berta –. Le tre grandi città si stagliano ancora nel continuum urbano che costituisce il tessuto connettivo della valle del Po, e Milano ne rappresenta il fulcro per le dotazioni, ma all’interno di una costellazione di centri nodali che imprimono ormai all’intero territorio un carattere cittadino». Il profilo del Nord è dunque cambiato e alla metamorfosi industriale, con l’avvento di decine di migliaia di piccole e medie imprese che hanno preso il posto della vecchia fabbrica, si è accompagnato anche un cambiamento di tipo sociale e culturale. Qui si incardina la prima delle “questioni settentrionali” che da un ventennio caratterizza il dibattito pubblico italiano: la destinazione dei soldi da e verso Roma. Non solo tasse giuste in cambio di servizi all’altezza, ma anche risorse da spendere sul territorio, possibilmente senza inutili sprechi. Si innesca in questo preciso punto il patto elettorale e sociale che, con la fine della “balena bianca” democristiana, ha visto l’avvento sulla scena pubblica della Lega nord e, qualche anno più tardi, di Forza Italia. Ora, a distanza di vent’anni, è lecito porsi un interrogativo: cosa è cambiato da quando quel patto è stato stretto? Quali riforme sono andate in porto? E come hanno inciso sull’ideale di solidarietà nazionale caro ai nostri padri costituenti? O riforme o caos La sensazione è che il Nord si trovi davvero a un
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bivio decisivo: da una parte c’è la modernizzazione e la crescita del tessuto sociale e civile, dall’altra la tentazione di asserragliarsi a difesa di vecchie identità. «O federalismo o secessione», recitava uno striscione del Carroccio comparso durante uno dei comizi natalizi dei leader della Lega. Evocata da molte parti come un fantasma, la secessione rischia davvero di ritornare d’attualità, con forme molto più soft di quelle indicate sguaiatamente a metà degli anni Novanta: va in questa direzione il modello della “macro-regione” europea che seduce molti spiriti liberi del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia sul modello della vecchia Carinzia di Haider, oppure la voglia di Statuto speciale di molti comuni del Bellunese. La Lega oppone a questi disegni l’impianto federalista della propria riforma, che stenta però a decollare e più ancora a diventare un progetto condiviso anche dall’opposizione, mentre meritano verifiche puntuali le supposte “prove d’intesa” tra i tre governatori di Lombardia, Piemonte e Veneto. Dall’altra parte, nel centrosinistra sono poche le personalità che dimostrano di saper parlare a questa parte d’Italia, personalità che vanno ricercate soprattutto tra i sindaci, mentre latita un progetto ad hoc in grado di interpretare i nuovi bisogni e spostare consensi da una parte all’altra.
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Il mercato della paura Il disagio strisciante, nel frattempo, è tornato a colpire proprio il popolo delle partite Iva, che oltre alla richiesta di un fisco meno invasivo, complice la crisi, oggi chiede soprattutto più protezione sociale: per chi ha investito (gli imprenditori) e per chi lavora (gli operai). L’impresa familiare dove tutti, titolare e manodopera, sono coinvolti a diverso titolo nella scommessa della sopravvivenza, si tratti del tessile di Biella o della concia di Arzignano, dei mobili della Brianza o del distretto della Marca Trevigiana, è la metafora più recente del nuovo Nord. Che avverte la globalizzazione arrivare in casa, si sente in pericolo e chiede certezze a chi non può darle. Eccola la cifra stilistica con cui l’Italia settentrionale si appresta a vivere i 150 anni dell’Unità: la paura. Se si abbandona il campo della concorrenza e si attraversa il terreno della convivenza, si scoprirà che la paura resta quella del “diverso”. Necessaria (per forza di cose) l’integrazione con gli immigrati, ora spaventano i quartieri etnici delle grandi città e i campi rom. «Da queste parti, la paura è stata quotata con successo anche sul mercato della politica», ha sintetizzato con efficacia il sociologo Aldo Bonomi. Ora però l’arma del consenso rischia di essere un boomerang, soprattutto se non arriverang no risultati concreti. ■
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intervista con Pino Aprile di Chiara Santomiero
Meridione, l’altra verità entre ci si appresta a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, c’è qualcuno che sottolinea come questa unità sia basata su una guerra di occupazione e conquista di parte del paese, il Sud Italia, che ha provocato morti e distruzioni ed è alla base di una condizione di mancanza di sviluppo che perdura ancora oggi. Uscito quasi in sordina nel 2010, Terroni (Piemme), è diventato un fenomeno editoriale da 20 ristampe e 150 mila copie. Segno ne parla con l’autore, il giornalista Pino Aprile.
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Un testo, si legge nell’introduzione, sul Sud e per il Sud: come nasce questo libro? Un libro che spiega qualcosa Il libro è nato cercando in più sull’unità d’Italia, risposte a specie se riferito al Mezzogiorno, diventa un caso domande che mi ponevo già editoriale. L’autore racconta da qualche tempo. Anch’io avevo accettato la “favola” a Segno: «Quanti sanno che del Risorgimento italiano racMatera, che è un capoluogo contata come l’impresa di di provincia, non è raggiunta mille giovani e un biondo dalla ferrovia? Oppure che generale spinti da nobili ideali il Regno delle Due Sicilie che solo con qualche arma e fosse, fino al momento molto coraggio riescono a dell’aggressione, uno dei buttare giù un regno di paesi più industrializzati despoti e a fare l’unità d’Itaal mondo? Che la rivista lia. Ma perché se il Regno di Civiltà cattolica sostenne Sicilia era così opprimente cadaveri che il numero dei lasciati dai liberatori superò per i propri sudditi i liberatori sono stati prese a fucilate? E quello dei voti al plebiscito, che furono più di un milione, perché si è continuato a comsu nove milioni di abitanti?» battere per dieci anni? Per-
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ché al termine di questa lotta, quelli che erano rimasti vivi invece di godersi il “paradiso” dello Stato unitario per la prima volta nella loro storia hanno cominciato ad emigrare, un fenomeno da 20 milioni di persone in 90 anni? Qualcosa non tornava con la storiografia ufficiale. L’unità d’Italia andava fatta ma è stata realizzata nel peggiore dei modi, compiendo crimini atroci contro la popolazione meridionale. La questione meridionale, cioè il disequilibrio tra le due parti del paese, è iniziata da qui e perdura mentre un paese come la Germania è riuscito a riunificarsi nel giro di vent’anni. Perché da noi non è avvenuto? Terroni è un libro per i meridionali, perché acquisiscano consapevolezza della propria storia ma anche per i settentrionali perché imparino a conoscere chi sono i meridionali contro i quali è diretta una denigrazione dai toni violenti addirittura da parte di ministri della Repubblica. Il libro sta avendo un grande successo, soprattutto attraverso il passaparola: come lo spiega? Si tratta di un libro in qualche modo atteso, che è andato a incrociare sentimenti diffusi che avevano bisogno solo di un catalizzatore. Esiste una fioritura di libri e giornali a livello locale e nazionale, di siti web e blog su questi temi, e si costituiscono in continuazione nuove associazioni e partiti. È il segnale di un Sud che non ne può più di essere costretto in un’immagine di insufficienza, di incapacità, di ritardo sociale e culturale. C’è però chi sostiene si tratti di un “passaparola del risentimento”...
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Questo è proprio un esempio di come tutto ciò che riguarda il Sud debba assumere una connotazione negativa. Il giornalista Aldo Cazzullo ha scritto a proposito del mio libro, «dovresti smettere di fomentare i mugugni dei meridionali». Le parole sono rivelatrici di un pensiero: perché non “la rabbia” dei meridionali? Il mugugno è quello dei servi che non si ribellano apertamente ma borbottano in cucina e questa è l’idea dei meridionali che c’è in molti settentrionali.
Nella foto a sinistra il best seller della Piemme, Terroni. Sopra, un lavoratore
Il libro è stato anche definito un “esplosivo antiunitario”, che alimenta un orgoglio “neo-terrone” contro il pensiero leghista, accomunandosi però nell’essere contro l’unità del paese. Ancora una volta si rischia di scambiare il dito con la luna. Occorre prendere consapevolezza dei fatti. Perché non ci sono autostrade sotto Napoli? Perché al Nord c’è un aeroporto ogni 50 km e al Sud no? Perché esistono ferrovie decenti solo al CentroNord? Il paese è diviso perché esistono due Italie diverse: in una ci sono strade, autostrade e ferrovie e nell’altra no. Terroni è il dito, mentre la luna è la situazione in cui siamo. Basti pensare ai dati sulla disoccupazione giovanile: uno Stato dovrebbe preoccuparsi di creare il lavoro lì dove serve e non alimentare nuova emigrazione.
immigrato occupato nella raccolta dei pomodori
Quale obiettivo si propone il libro? Agire è figlio del sapere. La maggior parte delle per-
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sone di questo paese sono oneste e perbene ma quanti sanno che Matera, che è un capoluogo di provincia, non è raggiunta dalla ferrovia? Occorre investire sull’alta velocità o anche per dare a Matera la linea ferroviaria che aspetta da 150 anni? È la verità che unisce e occorre diffondere una maggiore consapevolezza di fatti storici che sono poco conosciuti ai più. Per esempio che dopo l’unificazione, ai meridionali fu imposta una tassa speciale per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla. Oppure che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati al mondo. Che se le ferrovie erano poche, però la flotta era estesa. Che lo specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie per rimettere ordine riferì di un «mirabile organismo finanziario» e non della burocrazia borbonica, caotica e inefficiente di cui sempre si parla. Che la rivista Civiltà cattolica sostenne che il numero dei cadaveri lasciati dai liberatori superò quello dei voti al plebiscito, che furono più di un milione. Su nove milioni di abitanti. Ogni giorno ricevo 400-500 messaggi di persone che mi scrivono «non sapevo, non avrei mai immaginato». E non sono tutte del Sud perché un’indagine di mercato ha rilevato che per ogni copia di Terroni venduta al Sud, una viene venduta al Nord. L’unità d’Italia, dopo 150 anni, possiamo costruirla davvero oggi con la consapevolezza e un procedere g insieme, Nord e Sud, da eguali. ■
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Lavoro e impresa, occasione per tutti
di Paola De Lena
è chi viene e c’è chi va. Al Sud c’è soprattutto chi va, chi di fronte alla mancanza di lavoro e di prospettive decide di mollare gli ormeggi e di tentare la fortuna da un’altra parte. Ma, per fortuna, c’è anche chi resta. Ed è in particolar modo a chi resta che si rivolge il Progetto Policoro, un progetto organico della Chiesa italiana nato ormai quindici anni fa dal sogno di don Mario Operti e dalla collaborazione tra l’ufficio per la Pastorale sociale e il lavoro, l’ufficio di Pastorale giovanile Il Progetto Policoro nacque quindici anni fa e la Caritas con l’obiettivo di stimolare e far riflettere i giovani sul tema del per opera della Chiesa lavoro accompagnando quanti desiitaliana con l’obiettivo derano realizzare una propria idea di aiutare i giovani del imprenditoriale. Nato nelle regioni del Sud a creare impresa. Sud Italia per dimostrare la sollecituOggi l’idea si è estesa anche al Nord. E parole dine della Chiesa al problema della disoccupazione giovanile, oggi il Procome solidarietà e getto Policoro è presente in ben reciprocità non sono novantuno diocesi e si sta espandenpiù un miraggio
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do anche nel Nord Italia. A fare da apripista la diocesi di Imola, a seguire quelle di Forlì-Bertinoro, Rimini e Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino. A servizio dei tanti giovani disoccupati o scontenti del proprio lavoro, c’è un altro giovane, l’animatore di comunità, che si mette a servizio della comunità diocesana per pensare e progettare, insieme al vescovo e ai direttori degli uffici coinvolti, percorsi di formazione e di riflessione che, partendo dalla dottrina sociale della Chiesa, svelino ai giovani il significato del lavoro come contributo all’opera creatrice di Dio. Molteplici le esperienze vissute dal Sud al Nord dell’Italia. Salvatore, già animatore di comunità della diocesi di Napoli, racconta a Segno quali sono le problematiche più diffuse tra i giovani al Sud: «Prima di tutto – afferma – la mancanza di strumenti per orientarsi bene rispetto alla propria vocazione professionale e alle opportunità offerte dal territorio. C’è chi sceglie di restare – continua Salvatore – ed è un coraggioso, qualcuno che ama a
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Nella foto: animatori di comunità del III anno bis alla formazione nazionale
tal punto il proprio territorio da voler spendere le proprie competenze per farlo nascere o rinascere. E in questo è importante la famiglia che, insieme alle altre agenzie educative, stimola i giovani a non abbattersi». A Salvatore fa eco Caterina, animatrice di comunità della diocesi di Imola, dove il Progetto Policoro è approdato ufficialmente circa due anni fa: «Qualche difficoltà iniziale – afferma Caterina – c’è stata. Il Progetto non è molto conosciuto al Nord e inoltre è stato pensato e voluto per le diocesi del Sud. Nonostante questo non ci siamo scoraggiati, ma abbiamo calato la metodologia del Progetto, l’attenzione ai giovani, il fornire strumenti utili per orientarsi, nel nostro territorio il cui spesso il lavoro non manca, ma è svuotato di senso».
Un’esperienza particolare e cara al Progetto Policoro è quella dei rapporti di reciprocità e di solidarietà tra Chiese del Nord e Chiese del Sud. «I rapporti di reciprocità – si legge nella relazione di mons. Angelo Casile, direttore nazionale dell’ufficio per i Problemi sociali e il lavoro – sono vissuti in un’ottica di scambio di doni nella solidarietà che culmina nella comunione della carità, per superare i complessi tra una Chiesa che si sente povera e chiede aiuto e un’altra che si sente autosufficiente ma che dona e rimane sempre staccata dai problemi». Salvo Pennisi, segretario regionale del Progetto Policoro della Sicilia, racconta la bella esperienza di scambio tra la Sicilia e il Piemonte: un’esperienza ormai pluriennale di incontri, convegni, “vacanze intelligenti” dei giovani piemontesi in Sicilia alla scoperte delle bellezze turistiche, ma anche della realtà sociale del territorio, stage formativi per i giovani siciliani presso cooperative piemontesi, visite alle realtà degli oratori salesiani e contatti frequenti tra i vescovi delle due regioni. «Il valore aggiunto di questa esperienza – afferma Salvo – è l’incontro tra Chiese sorelle che sui temi del lavoro e della cooperazione provano a fare insieme qualcosa nell’ottica del dono e dell’arricchimento reciproco». Il Progetto Policoro, allora, può diventare profezia di una Chiesa che impara attenta al territorio e alle domande dei giovani nella certezza che «il paese non crescerà g se non insieme». ■
La sfida sul tabellone di Opportunity
LE SCELTE E I TALENTI PER UN GIOCO DA FARE INSIEME AI NOSTRI GIOVANI gor, Udine. Concetta, Catania. Distanti geograficamente, ma vicini, anzi “sfidanti”, sul tabellone di Opportunity, il gioco da tavolo nato dalla passione di alcuni Animatori di comunità del Progetto Policoro, promosso dall’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile della Cei e dalla Caritas Italiana in collaborazione con la Cooperativa “Il Segno” di Fuscaldo, in provincia di Cosenza. Ma cosa succede sul tabellone di Opportunity? Tre ragazzi del Nord e tre ragazzi del Sud Italia percorrono insieme le tappe della vita affrontando i quesiti e le situazioni che le carte “Pensa” o “Decidi” riservano loro di volta in volta quando lanciano i dadi. Fin qui tutto nella norma. Ma c’è qualcosa che differenzia le possibilità dei giocatori: i personaggi del Nord, infatti, usano il dado verde, mentre a quelli del Sud tocca quello rosso. La differenza non è solo cromatica, ma è nel numero di segni “più” o “meno” presenti nelle facce del dado. Ed è quasi superfluo dire che i ragazzi del Nord usano il dado verde e hanno maggiori carte “salute”, “istruzione” e “denaro”. Uguali per tutti, invece, le carte “relazione”. Chi vincerà? Chi riuscirà ad arrivare per primo alla fine del tabellone, facendo fruttare le carte, alias i talenti, che ha indipendentemente dal territorio di provenienza. Il bello di Opportunity, e il motivo per cui vale la pena giocarci e inserirlo nei nostri percorsi formativi, è la sua capacità di accompagnare i giovani in un percorso di riflessione sulle scelte. Questo ne fa uno strumento utile per affrontare un tema così importante nei gruppi giovanissimi o nelle scuole, facendo attenzione a raccogliere le riflessioni che spontaneamente vengono fuori durante la partita e che possono poi essere la base per percorsi formativi più strutturati. Per maggiori informazioni: www.opportunitygame.it. [p.de l.]
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Le icone di Caulonia di Diego Andreatta
e dodici icone, dipinte a mano nella Locride secondo l’antica tecnica orientale, impreziosiscono i mesi del calendario salesiano del Sacro Cuore di Bologna, diffuso a gennaio nelle case di tutt’Italia. Provengono dal Laboratorio di spiritualità e tecnica dell’Icona “La Glikophilousa” di Santa Maria di Crochi di Caulonia e «fanno memoria luminosa della bellezza bizantina della Calabria», come spiegano le Sorelle di Gesù che da otto anni nella loro comunità monastica vivono quest’antica vocazione ecumenica e quest’attualissima attenzione allo scambio ecclesiale. «Desideriamo comunicare nella fedeltà e nella continuità, il gusto per le cose stupende che lo Spirito ha disseminato nella nostra storia – scrivono nel loro moderno sito le quattro religiose, tutte meridionali doc – affinché superando fatalismo e marginalità, una più viva e fondata speranza incoraggi e sostenga il cammino del nostro popolo». Non è dunque solo un progetto culturale, ma una radicale scelta di vita per Renata, Rossana, Carmelita e Sandra che Segno va a trovare nel Piccolo C’è chi suona la cetra. Eremo delle Querce, restauChi lavora con pennelli rato con paziente tenacia, e colori e chi ancora con carriole e seghe circolari. Poi sentinella di preghiera ben la preghiera, a disposizione piantata sulle pendici dell’Adell’Altro. Le Sorelle di Gesù spromonte. Dalla marina di Caulonia, in una mezz’ora di di Caulonia sono da anni macchina fra tornanti e agruavamposto di ecumenismo si raggiungono le fraziometi, e di vita evangelica, ni disperse di Crochi, dove ci eccellenza spirituale accoglie la sobria foresteria lungo le strade del Sud
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dell’eremo divenuto quel “faro di spiritualità” sognato una decina d’anni fa dal vescovo mons. Giancarlo Maria Bregantini, a servizio della diocesi di Locri-Gerace, come sottolinea l’attuale pastore, mons. Giuseppe Morosini. Accompagniamo le quattro religiose nelle loro giornate scandite dalla preghiera e dal lavoro umile (si destreggiano con carriole e seghe circolari con la stessa disinvoltura con cui si piegano dolcemente su pennelli e colori), ma anche dalla condivisione con le famiglie delle contrade più isolate per cui rappresentano un richiamo di aggregazione e anche di riscatto, attraverso l’artigianato del ricamo. Di anno in anno sono sempre più numerosi singoli e gruppi organizzati, scolaresche a realtà parrocchiali, che scendono anche dal Nord per condividere qualche settimana all’Eremo con loro. «Vedete, questo baule di legno ci è stato regalato da una famiglia di Trento – esemplifica suor Renata – puntiamo molto sui legami intrecciati tramite le famiglie, qualche gruppo viene a passare da noi anche il capodanno». Rispondono volentieri a mail e telefonate d’amicizia, ma quando rintocca la campanella si raccolgono nella cappella affrescata con le loro stesse mani: nel silenzio contemplativo vibra il suono delle corde pizzicate sulla cetra dalla più giovane, la calabrese suor Sandra. «L’eremo – riflette la responsabile suor Rossana, siciliana, quando le chiediamo un provvisorio bilancio dei rapporti di reciprocità – è stato in questi anni uno spazio aperto in cui le diversità si sono incontrate gustando reciprocamente il sapore autentico di relazioni gratuite. Con un desiderio: scavalcare i muri della differenza, talora anche della diffidenza, per incontrare l’altro, che diventa così, al di là d’ogni forma di pregiudizio, tuo interlocutore, a te prossimo e vicino, fino a rivelarsi via via per quello che veramente è: tuo fratello. In ciò è stata determinante la spiritualità basiliana, che qui in Calabria è di casa. La comunità dell’eremo, profondamente radi-
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Nelle foto di Gianni Ziotta, alcuni momenti della giornata al Piccolo eremo delle Quercie
cata in essa, ha potuto estrarre da questo tesoro di cose antiche la ricchezza di uno stile alternativo attraverso cui far passare il Vangelo. Uno stile caratterizzato dall’ospitalità, che è icona di amore fattivo, concreto, e dalla bellezza, che è apertura al fascino del Trascendente attraverso le forme e i colori dell’icona». Testimoniano il Vangelo nel suo valore più alto, il perdono – lo rileva anche Maria Pia Bonanate nel nuovo capitolo del suo libro Suore vent’anni dopo – dentro una realtà sociale difficile ma anche promettente. Ci aiutano a rileggere la nota Cei sul Mezzogiorno d’Italia che solo all’apparenza coglie solo a temi socio-politici: «I vescovi – tengono invece a preci-
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sare le suore – vanno oltre, indicano prospettive ben precise con un elenco di priorità indilazionabili, nella logica squisitamente evangelica della condivisione. La schiettezza dell’analisi e la lucidità della denuncia rimandano esplicitamente all’urgenza d’investire sulla sussidiarietà e sulla solidarietà nazionale con coraggio e nel massimo rispetto delle nuove e antiche marginalità. Maturando, al contempo, una consapevolezza: male e bene, sia che attecchisca al Nord o al Sud, riguardano tutto il paese». Vale per gli amministratori, i politici, gli amministratori. E la comunità ecclesiale? «Le è richiesta una maggiore incisività – rispondono le religiose – nella formazione delle coscienze, valorizzando le risorse spirituali, morali e culturali di tutti gli italiani, cui si aggiungono le tipicità multietniche e religiose degli immigrati e dei profughi che, non dimentichiamolo, fanno parte integrante del tessuto connettivo del nostro paese. Tutto ciò può essere realmente possibile – ed ecco la vera novità! – con un approccio che, superando assistenzialismo e particolarismi sociali, faccia fiorire la reciprocità». Il vostro primo vescovo, mons. Bregantini, ama dire che «il Nord può dare al Sud un aiuto particolare in termini di organizzazione, ma il Sud può dare molto con il suo cuore». Come lo spieghereste in altre parole. «Se vai al Nord – risponde suor Rossana – trovi competenza e concretezza nell’affrontare i problemi e impostare i progetti. Due elementi di forza. Che tuttavia rischiano di trasformarsi in calcolo e pianificazione senz’anima, cui spesso fa seguito un’astratta spiritualità ornamentale (quando c’è!), se al centro non poni valori come accoglienza, gratitudine, solidarietà. Se cioè non custodisci un cuore caldo. «Accolto, ho imparato ad accogliere», diceva spesso mons. Bregantini ritornando con emozione ai primi anni di ministero al Sud. Il “terrone”, infatti, dice con gioia: Favorite. favorite!, mentre ti offre ciò che ha. Sui cavalcavia delle autostrade del Nord-Est, al contrario, ti capita di leggere: Via i terroni». «Ecco: questo supplemento d’anima, che certamente va sempre rimotivato e riferito alla logica Vangelo, è la risorsa più importante della nostra gente. Un bene irrinunciabile che è fondamento stesso della dignità integ grale dell’uomo. Ad ogni latitudine e tempo». ■
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Benvenuti al Sud (e pure al Nord) di Simone Esposito
iretto’, quando un forestiero viene al Sud piange due volte: quando arriva, e quando parte». Il “diretto’” in realtà è un “diretùr”: Alberto Colombo, responsabile di ufficio postale, trasferito per punizione dalla brianzola Usmate Velate alla meridionalissima Castellabate, nel Cilento. Al Sud ci arriverà imbottito di giubbotto antiproiettile (non si sa mai) e di tutto il bagaglio completo degli stereotipi dei settentrionali sui meridionali: sfaticati, indolenti, inabili a esprimersi se non in dialetto strettissimo, tutti ostaggio della malavita e della “monnezza”. Ad accoglierlo ci sarà il postino Mattia Volpe, al quale spetta il compito di spazzare via i pregiudizi del suo capo ma che dovrà anche rivedere la propria idea sui “polentoni” ossessionati dal lavoro e incapaci di godersi appieno la vita. Quando ad Alberto toccherà ritornare al Nord, a piangere una seconda volta, come sentenziato da Mattia, non sarà soltanto il settentrionale ma anche il meridionale. È la trama di Benvenuti al Sud, il film di Luca Miniero con Claudio Bisio e Alessandro Siani che è diventato un autentico fenomeno di questa stagione cinematografica: partito senza grandissime aspettative, ha realizzato il secondo maggior incasso di tutti i tempi tra le pellicole italiane (superato soltanto dal capolavoro di Benigni La vita è bella) con 30 milioni di euro (ne è costato soltanto 4 milioni e mezzo). Una storia semplice, ben costruita, capace di dare Un direttore di poste uno sguardo leggero e intellitrasferito al Sud. E un gente ai cliché che reciprocaimpiegato che raggiunge il mente meridionali e settenNord. Ritratti di una trionali appiccicano addosso disparità dialettica tra le “due” Italie che il cinema ha ai propri connazionali, accorciando le pur evidenti distanze immortalato da sempre nei
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geografiche e culturali (e culinarie: è esilarante, nel film, il derby nazional-caseario tra una forma di gorgonzola portata dal lombardo Colombo e una monumentale mozzarella di bufala – la “Zizzona di Battipaglia” – patrocinata dal campano Volpe). È interessante come un caso cinematografico di questo tipo sia arrivato proprio alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, trovando nel pubblico un’accoglienza tanto calorosa. D’altra parte, il filone nel quale Benvenuti al Sud si inserisce è antico e prestigioso. Era il 1956 quando i mitici fratelli Caponi sbarcavano in Piazza Duomo a Milano in pelliccia e colbacco e per orientarsi chiedevano indicazioni a un vigile con il proverbiale «Schiusmi, noio volevam savuar l’indiriss... ja?». Totò, Peppino... e la malafemmina è un classico della comicità nazionale: un filmetto senza pretese, dal punto di vista di soggetto e sceneggiatura, ma reso monumentale dall’interpretazione dei suoi due protagonisti, che in poche battute (totalmente improvvisate, raccontò Teddy Reno, anche lui nel cast) pennellarono quell’esilarante e surreale ritratto dell’Italia degli emigranti con la valigia di cartone. Una realtà ben più amaramente raccontata da Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1960), vicenda di una famiglia di lucani (i Parondi) squassata dall’arrivo a Milano e da un doloroso triangolo sentimentale. Qui la dinamica Nord-Sud resta più sullo sfondo, ma attraversa e segna l’intero film, così come attraversa il paese il “Freccia del Sud”, il treno che strappa i Parondi da casa e li consegna al loro destino dolente. Ma non bisogna arrivare alle storie del secondo dopoguerra per vedere descritta quell’Italia fatta con gli italiani ancora da fare, per dirla con il motto di D’Azeglio. Anche il primo conflitto mondiale fu una tragica ma efficace occasione di incontro tra
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Nelle foto: la locandina di Benvenuti al Sud e, sotto, gli attori Alessandro Siani e Claudio Bisio
settentrionali e meridionali, mandati a conoscersi nei reggimenti e nelle trincee. Come Giovanni e Oreste, i due commilitoni de La grande guerra di Mario Monicelli: lombardo il primo, con la faccia di
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Vittorio Gassman, romano il secondo, come il suo interprete Alberto Sordi. Due personaggi lontani per indole ed estrazione sociale e geografica che finiscono uniti contro ogni aspettativa da un eroico (e ignorato) sacrificio finale. Il milanese e il romano in perenne contrasto, il “cumenda” con la fabbrichetta e i soldi e il “borgataro” strafottente in canottiera, ma anche il napoletano che s’arrangia, il genovese tirchio e il siciliano geloso sono ingredienti trasversali di tanti generi del nostro cinema. E si può arrivare fino all’emisfero opposto della commedia all’italiana di stampo monicelliano: il fenomeno dei cinepanettoni, assassinati (con ottime ragioni) dalla critica per volgarità e cattivo gusto, ma costantemente premiati al botteghino, se è vero che fra i primi 50 film più visti di sempre nel nostro paese ben 8 hanno un titolo che comincia con Natale a... Luoghi comuni e semplificazioni grevi la fanno da padrone nell’Italia di Christian De Sica e Massimo Boldi: può far storcere il naso a molti, ma contemporaneamente la cosa risulta familiare a moltissimi. Che corrono al cinema (o davanti alla tv, che propina spesso lo stesso menu). Insomma: tra Settentrione e Meridione fratturati e distanti c’è da sempre un robusto ponte di celluloide. E non solo da noi: non dimentichiamo che il fenomeno Benvenuti al Sud è il remake di un film francese del 2008, Giù al Nord. Un successo ancora più fenomenale: Oltralpe (dove è un direttore dell’assolata Provenza a essere condannato al trasferimento coatto nel freddo Nord-Passo di Calais) gli incassi hanno sfondato il muro dei 120 milioni di euro, stracciando persino il record di Titanic. Intanto, sul cavalcavia cinematografico di cui sopra si prepara a mettersi in viaggio un nuovo successo: è già in cantiere Benvenuti al Nord, il sequel nel quale sarà Mattia a finire g trasferito tra le nebbie tanto care ad Alberto. ■
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La lezione dei grandi scrittori di Marco Testi
n fondo Dante aveva prefigurato la “territorialità” della nostra letteratura, vale a dire il suo legame profondo con la terra d’origine, ai tempi del De Vulgari eloquentia (forse iniziato nel 1303), quando parlò della mancanza di una lingua unitaria nel nostro paese. Già in quest’opera era evidente una divisione nord-sud, anche se poi l’Alighieri notava come ci fosse un fronte “padano” (le cose non sono molto cambiate, come si vede) e un fronte trasversale, appenninico, che separava l’Italia tirrenica da quella adriatica. Ma il Fiorentino aveva già chiara una cosa: ai suoi tempi in Italia vi erano tradizioni letterarie di una certa antichità e nobiltà, il toscano, il bolognese e il siciliano. Dall’Ottocento in poi le cose sono certamente cambiate, ma non tanto da poter dire che è stata rimossa in letteratura la distanza tra nord e sud: ma questo lo si nota in qualsiasi nazioLe profonde differenze, ne, perché non così come le è possibile pas“convergenze” tra Nord sare sopra la matrice territoriale e Sud emergono anche in letteratura, attraverso dalla quale nasce la letteratura. Certamente in Italia la letteratura risenla narrazione del dolore, tirà del ritardo del Sud dovuto sia alla della disillusione e delle dominazione borbonica sia alla polisperanze di quanti hanno tica piemontese che punterà sull’increduto in una nazione dustrializzazione del Nord. unita e solidale
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Del Nord, ad esempio, parla Cento anni, il capolavoro di Giuseppe Rovani (1818-1874): una saga secolare che si nutre delle cronache meneghine e della fantasia di uno scrittore che è stato parte della Scapigliatura. Il destino di questo gruppo di giovani rampolli di buone famiglie la dice lunga sul divario Nord-Sud: gli scapigliati, soprattutto lombardi e piemontesi, arrivavano fino all’autodistruzione, dovuta al rifiuto del perbenismo borghese, mentre nel nostro meridione il tenore di vita borghese era ancora un miraggio. Rovani fu paragonato a Manzoni, il che forse è un tantino esagerato, ma se andiamo a vedere bene i punti di contatto tra Cento anni, apparso a puntate in rivista tra il 1857 e il ’58 e i Promessi sposi, ci accorgiamo che una certa “milanesità” emerge: si guardi bene, milanesità non esibita e rivendicata, come taluni farebbero oggi, ma genetica, succhiata con il latte materno. Non possiamo dimenticare Ippolito Nievo, scomparso prematuramente nel naufragio della nave che lo portava da Palermo a Napoli dopo la spedizione dei Mille, di cui lo scrittore aveva fatto parte. Il padovano Nievo rappresenta, e lo racconta nelle Confessioni di un italiano (uscito postumo nel 1867) quella schiera di giovani “nordisti” che si sentirono impegnati nella missione di portare le idee illuminate e impregnate di ideali mazziniani nel
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Nelle foto: da sinistra gli scrittori Giovanni Verga, Grazia Deledda, Alessandro Manzoni e Ignazio Silone
Sud, e non a caso una parte del romanzo si svolge a Napoli, durante l’infelice tentativo della Repubblica partenopea. E il Sud? Intanto sembrerà strano, ma i primi tentativi di rivendicazione di primato “territoriale” vengono proprio dal Sud e da un illuminista come Vincenzo Cuoco, che nel romanzo Platone in Italia (1804-1806) sostenne la tesi che nell’Italia del Sud si era sviluppata una civiltà molto più antica di quella dei colonizzatori greci. Le speranze di rivitalizzare un Sud che anticamente era stato modello di civiltà si infransero con le delusioni risorgimentali, e i romanzi che seguirono sono stati tutti contrassegnati da un pessimismo radicale: basti pensare ai poveri pescatori senza tempo dei Malavoglia di Verga (uscito nel 1881, vale a dire nello stesso periodo in cui in Francia i naturalisti illustravano le condizioni degli operai nelle moderne fabbriche), alla beffa dei nobili che si travestivano da democratici per restare in sella nei Vicerè (1894) di Federico De Roberto o alla sconsolata ammissione che tutto rimarrà sempre uguale, sia con i Borboni che con i Piemontesi, nel Gattopardo (1958, postumo) di Tomasi di Lampedusa. Non che Pirandello sia andato tanto per il sottile: nel romanzo I vecchi e i giovani (1913) egli decreta – muovendo i suoi personaggi tra Roma e la Sicilia –
la fine di tutti i sogni risorgimentali e l’inevitabilità della corruzione. Anche la Sardegna ha avuto la sua musa, quella Grazia Deledda che fu premio Nobel per la letteratura nel 1926 e che espresse mirabilmente il senso tragico del destino in un’isola divenuta una terra fuori dalla storia. Non abbiamo, però, solo Nord e Sud: c’è anche una letteratura “centrale”, quella fiorentina e quella romana, oltre che la saga dei “cafoni” abruzzesi raccontata da Ignazio Silone in Fontamara. La letteratura su Roma paradossalmente sarà scritta da “non romani”, come il Pasolini del ciclo dei romanzi dei ragazzi del sottoproletariato romano e il Gadda del Pasticciaccio brutto de via Merulana. Ma linguisticamente parlando è stata consacrata dai Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli (e da Trilussa sul versante meno popolare e “borghese”), che come è accaduto per Carlo Porta rispetto al vernacolo milanese, hanno rappresentato la realizzazione del “tipo” caratteristico del romano purosangue. Per Firenze basterebbe l’esempio di Dante, se non fosse che la poesia del sommo è universale: ma da questa universalità è nata la lingua nuova del nostro paese. La toscanità è emersa poi in scrittori come Fucini o Pratolini, che non ne hanno mai fatto un elemento di separazione, ma di identità, anche se a volte compiaciuta. La regionalità della letteratura è inevitabile, a livello linguistico e talvolta contenutistico, ma non diviene mai, se è vera letteratura, strumento di divig sione. ■
Mons. Bregantini
IL CORAGGIO DELLA RECIPROCITÀ IN UNA NAZIONE RICCA DI PROBLEMI E DI RISORSE n nome, quello di mons. Giancarlo Bregantini, associato spesso alla lotta contro le mafie quando era vescovo a Locri. Nel libro-intervista, Il nostro Sud in un paese reciprocamente solidale, curato dal giornalista Paolo Lòriga, mons. Bregantini, ora arcivescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro, la giustizia e la pace, argomenta con la consueta franchezza le sue posizioni sui temi più scottanti: federalismo fiscale e unità d’Italia, vescovi e Sud, profezia e 8 per mille, Lega Nord e Mezzogiorno, donne e ‘ndrangheta, Fiat e sindacati, “grande centro” e politici cattolici, Chiesa e mondo del lavoro. Con un filo che attraversa le risposte: reciprocità. Una voce diversa per la Chiesa di oggi che non ha paura di dialogare con il mondo.
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Quale futuro per l’unità del paese? di Gian Candido De Martin
e celebrazioni, ormai avviate, dei 150 anni di unità inducono a qualche riflessione, anzitutto per sottolineare come il processo unitario sia stato certo frutto in origine di forze risorgimentali in grado di creare le condizioni per l’unificazione istituzionale del paese, superando la frammentazione dei vari staterelli o domini locali, talora collegati a potenze straniere; ma osservando anche come questo processo sia stato facilitato dall’esistenza di un substrato nazionale (compresa l’anima cristiana degli italiani) che – pur con differenze, anche forti, di culture e assetti economici e sociali tra le varie parti della penisola – aveva radici risalenti nei secoli. Comunque, una volta costituito nel 1861 lo Stato italiano, la sua evoluzione ha visto progressivamente rinsaldato il volto unitario del paese, con il concorso anche del mondo cattolico, pur con passaggi talora complessi e controversi (Porta Pia, non expedit, Concordato del 1929...), e tuttora non sempre condivisi nelle ricostruzioni storiografiche. Il momento forte di questo percorso unitario è certamente costituito dalle scelte costituzionali del 1948, scaturite dopo una stagione di grandi difficoltà nel passaggio dal fascismo alla Costituente, che ha saputo far emergere in modo lungimirante valori unifiLa sfida che sollecita tutti canti ancora oggi punto di rifenoi è quella di realizzare rimento del sistema. un federalismo capace Da queste scelte si percepisce di una sintesi effettiva tra con chiarezza che unità non è sussidiarietà e solidarietà, uniformità, né centralismo, ma nel quadro dei valori piuttosto unità plurale, poliunificanti sanciti dalla centrismo, che riconosce (non Costituzione. I cattolici concede) spazio e ruolo alle possono dare molto in questa fase, potendo contare varie formazioni sociali, ossia soggettività alla società nelle sull’ispirazione della dottrina sociale della Chiesa sue diverse articolazioni,
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mirando a coinvolgere i cittadini nella gestione e nel controllo dei pubblici poteri. È, questa, una concezione istituzionale, poi rafforzata con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, che concepisce la Repubblica come sistema di autonomie (armonia discors, secondo l’espressione del costituente Costantino Mortati, che ha ispirato il principio dell’art. 5, in cui al tempo stesso si sancisce l’unità e indivisibilità dell’Italia, ma anche la necessità di riconoscere e valorizzare il più possibile le autonomie): senza enfasi, quindi, su un’idea di nazione statica e centripeta, ma superando radicalmente, con il contributo determinante della componente cattolica della Costituente, l’idea statocentrica, connessa a un sistema piramidale e gerarchico delle istituzioni pubbliche. Il nodo pendente – nonostante la riforma costituzionale di un decennio fa – è quello di attuare finalmente un disegno così impegnativo (e rivoluzionario) di decentramento effettivo del sistema, non solo sul piano amministrativo, valorizzando autonomie responsabili sociali e territoriali di diverso livello (comuni, province e regioni), coniugando sussidiarietà e solidarietà nazionale, in un contesto peraltro per molti versi ora sovrannazionale o globale. Ciò significa concretare una nuova unità, basata comunque su garanzie di sistema, assicurando a tutti i cittadini della Repubblica livelli essenziali di prestazioni pubbliche legate ai diritti civili e sociali, senza privilegi per talune componenti o parti del paese, ma commisurando la gestione dei compiti pubblici a fabbisogni e costi standard. Un obiettivo certo complesso ma essenziale, anche per realizzare realmente una democrazia sostanziale. Tuttavia un obiettivo che appare oggi troppo spesso contro-corrente, con un federalismo più proclamato (o strumentalizzato) che realmente perseguito, marginalizzato da una disattenzione diffu-
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sa per autonomie responsabili, svuotate a vario titolo di compiti e risorse da un centralismo di ritorno, sempre più aggressivo, che ricorre spesso anche a commissari straordinari per gestire non vere emergenze ma funzioni che dovrebbero spettare ai soggetti territoriali ordinari. Tutto ciò è segno anche di una debole cultura dell’autonomia responsabile,
che talora finisce per condizionare gli stessi amministratori locali, i quali trovano spesso più comodo aspettare le circolari ministeriali che assumersi autonome responsabilità. Vi è poi da tener conto anche dei gravi rischi connessi a un federalismo malinteso, disattento alla solidarietà e alla perequazione e piuttosto orientato a mantenere ingiustificati privilegi, che minano fortemente la coesione nazionale. Dunque, la grande sfida per questa nuova unità plurale e aperta è quella di realizzare coerentemente un federalismo capace di una sintesi effettiva tra sussidiarietà e solidarietà, nel quadro dei valori unificanti sanciti dalla Costituzione (in armonia ora con il quadro europeo). C’è molta strada da fare in questa direzione: c’è bisogno di un forte e convergente impegno, anzitutto culturale, per animare autonomie responsabili che ricreino anche condizioni di una effettiva partecipazione sociale e politica alla vita pubblica. In questo orizzonte si può collocare anche uno spazio nuovo di impegno coerente dei laici cristiani, non tanto in una prospettiva di neo guelfismo (che guarda al passato), ma di un discernimento che può avere molto da dire e da fare potendo contare anche sull’ispirazione della dottrina sociale della Chiesa. Tutto ciò concorre a confermare che – a voler traguardare e sostenere un futuro unitario della Repubblica, tenendo conto ovviamente delle crescenti dimensioni sovranazionali, anzitutto a livello europeo – è indispensabile, anzi prioritario, investire oggi in modo sistematico (anche nei mondi cattolici e nelle Chiese locali) sulla formazione alla politica, per preparare cittadini competenti, in grado di interpretare ed essere protagonisti di una nuova stagione di impegno al servizio delle istituzioni g democratiche locali e centrali della Repubblica. ■
Le iniziative
CONVEGNI E PUBBLICAZIONI: L’IMPEGNO DELL’AZIONE CATTOLICA PER IL 150° unità della Repubblica oggi: tra solidarietà nazionale, autonomie e dinamiche internazionali: è il tema scelto per il XXXI convegno organizzato dall’Istituto Bachelet, promosso dall’Azione cattolica, che si svolge l’11 e 12 febbraio alla Domus Mariae di Roma. Anche l’Istituto Paolo VI per la storia dell’Ac e del movimento cattolico riflette, con il suo convegno del 4 marzo, sul 150° dell’Unità della Penisola. Su questo argomento è possibile trovare un dossier di approfondimento nella rivista culturale Dialoghi (n. 4/2010). Sono inoltre previste nel corso del 2011 altre manifestazioni e pubblicazioni promosse dall’Azione cattolica o da realtà ad essa legate, dedicate alla storia nazionale e al futuro del Belpaese. Per tutte le informazioni: www.azionecattolica.it.
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GIOVANNI PAOLO II E GIUSEPPE TONIOLO
Benedetto XVI indica due figure di autenticità evangelica a notizia ha già fatto il giro del mondo e la città di Roma si sta preparando ad ospitare la marea di fedeli che certamente raggiungerà la capitale, il prossimo 1° maggio, quando Giovanni Paolo II sarà proclamato beato da papa Benedetto XVI. Come ha ricordato padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, «dal momento della morte, sono passati 6 anni e 1 mese e Giovanni Paolo II ha sopravanzato l’altrettanto rapidissima causa di beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, che è durata un mese in più». Benedetto XVI ha inoltre firmato, a metà gennaio, il Decreto sul miracolo attribuito all’intercessione del Servo di Dio Giuseppe Toniolo, fondatore delle Settimane sociali, alla guida dell’Azione cattolica nei primissimi anni del ‘900, tra i fondatori della Fuci e tra gli artefici dell’ingresso dei cattolici nella vita politica e sociale italiana. Il miracolo attribuito all’intercessione di Toniolo
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riguarda un ragazzo di Pieve di Soligo (Treviso), paese nel quale è sepolto il futuro beato. «Il professor Toniolo – ha commentato il presidente dell’Ac, Franco Miano – è una figura molto cara all’associazione per la sua testimonianza di laico impegnato nell’ordinarietà degli ambienti di vita: la famiglia, l’Università, la Chiesa». La sua biografia dimostra come «vivere semplicemente la propria condizione di vita non è disgiunta dalla capacità di profezia, essendo il Toniolo in molte delle sue intuizioni – la fondazione dell’Opera dei Congressi, il propugnare un’azione incisiva dei cattolici in campo sociale – un anticipatore del ruolo dei laici nella Chiesa riconosciuto dal Vaticano II». La futura beatificazione di Toniolo, ha concluso Miano, «ci fa partecipare con ancora maggiore intensità alla gioia di tutta la Chiesa per l’annuncio della prossima beatificazione di Giovanni Paolo II». Il prossimo numero di Segno tornerà a tratg tare diffusamente di queste due figure. ■
MOMENTO DELLA VERITÀ PER I SOCIAL NETWORK
Attenti a Facebook... lo dice la legge n carcere perché si ha una falsa identità… virtuale. Non è fantasia, ma la legge SB1411 della California, entrata in vigore il 1° gennaio, che punisce con una pena fino a un anno di carcere o un’ammenda di mille dollari chiunque usi internet sotto falso nome, traendone profitto. L’ambito più comune dove il provvedimento può trovare applicazione è quello dei social network, Facebook in testa. Nello Stato americano è dunque reato fingersi un’altra persona on line. È vero, la “dichiarazione dei diritti e delle responsabilità” che si sottoscrive quando ci s’iscrive su Facebook vieta di fornire informazioni personali false e di creare più di un profilo. Ma, sebbene siano
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stati presi dai gestori del social network provvedimenti “clamorosi” come la cacciata della scrittrice spagnola Lucía Etxebarría, rea di aver violato l’obbligo a dire la verità, non mancano certamente i profili fasulli, soprattutto di persone famose. Ma anche di chi s’iscrive mettendo dati di fantasia per entrare nelle reti di “amici” senza farsi riconoscere, o magari per spiare (ex) coniugi e colleghi di lavoro. O anche solo per scherzo. Certo, si sottoscrive un impegno alla verità, ma la posta in gioco va al di là di un clic, è l’importanza e l’ufficialità che si attribuisce ai social network. E Facebook è diventato una cosa g seria… lo dice la legge. ■ F.R.
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DOPO LA STRAGE DI ALESSANDRIA D’EGITTO
Un martirio, quello dei cristiani d’oriente, che non conosce tregua na strage di cristiani proprio nella Giornata mondiale della pace, dedicata oltretutto quest’anno al tema della libertà religiosa. L’autobomba fatta esplodere davanti alla chiesa copto-ortodossa dei Santi, ad Alessandria d’Egitto, alla fine della messa di mezzanotte del 31 dicembre, ha provocato 21 morti (destinati a crescere nei giorni successivi) e 79 feriti. Una strage rivendicata dagli integralisti islamici, che nei giorni precedenti avevano pubblicato una lista di chiese copte da colpire e, alla vigilia del Natale ortodosso (7 gennaio), hanno preannunciato nuovi attentati. «Questo vile gesto di morte, come quello di mettere bombe ora anche vicino alle case dei cristiani in Iraq per costringerli ad andarsene, offende Dio e l’umanità intera, che proprio ieri ha pregato per la pace e ha iniziato con speranza un nuovo anno», ha detto Benedetto XVI dopo
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l’Angelus di domenica 2 gennaio. «Davanti a questa strategia di violenze che ha di mira i cristiani, e ha conseguenze su tutta la popolazione – ha continuato il Papa –, prego per le vittime e i familiari, e incoraggio le comunità ecclesiali a perseverare nella fede e nella testimonianza di non violenza che ci viene dal Vangelo». Una strage, questa di Alessandria, che si aggiunge alla già troppo lunga lista di violenze verso i cristiani e non fa che confermare la difficile situazione in cui vivono i copti in Egitto, vittime, in 30 anni, di 160 attentati, di cui quest’ultimo giunto a un anno da quello di Nag Hammadi, dove nella notte del 6 gennaio 2010 persero la vita sette fedeli e un poliziotto, mentre 10 anni fa, sempre a Capodanno, nel piccolo villaggio di Alqosh, morirono 21 g persone. ■ Francesco Rossi
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IL MESSAGGIO PER LA 33 GIORNATA NAZIONALE A
Educare alla pienezza della vita, anche le nuove generazioni na svolta culturale» a favore della vita, per contrastare la deriva di «un’umanità sorda al grido di chi non può difendersi». Educare alla pienezza della vita è il tema della 33ª Giornata nazionale per la vita che la Chiesa italiana celebra il 6 febbraio e in vista della quale i vescovi hanno reso noto un Messaggio il cui punto centrale è proprio l’appello alla «svolta culturale», ricordando che «tanti uomini e donne di buona volontà, giovani, laici, sacerdoti e persone consacrate, sono fortemente impegnati a difendere e promuovere la vita». Ed è «grazie a loro» che «anche quest’anno – ricordano i vescovi italiani – molte donne, seppur in condizioni disagiate, saranno messe in condizione di accogliere la vita che
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nasce, sconfiggendo la tentazione dell’aborto». Ci sono famiglie, parrocchie, istituti religiosi, consultori d’ispirazione cristiana e associazioni che «giorno dopo giorno si adoperano per sostenere la vita nascente, tendendo la mano a chi è in difficoltà e da solo non riuscirebbe a fare fronte agli impegni che essa comporta». Ma quest’azione, «per essere davvero feconda, esige un contesto ecclesiale propizio, come pure interventi sociali e legislativi mirati. Occorre diffondere – sottolinea il Messaggio – un nuovo umanesimo, educando ogni persona di buona volontà, e in particolare le giovani generazioni, a guardare alla vita come al dono più alto che Dio ha fatto g all’umanità». ■
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intervista con Marco Lodoli
rriva all’appuntamento un po’ trafelato, quasi spiegazzato: «Stamattina mi sono svegliato alle sei – mi spiega –, sa, ho tre di Simone Esposito bambini, ho fatto cinque ore a scuola, dopo ho provato a lavorare a una piccola sceneggiatura (una di quelle cose che poi non va mai in porto), poi ho scritto un articolo...». Sono quasi le nove di sera, insomma, la strapazzatura ci sta tutta. Della biografia di Marco Lodoli questa è la prima cosa che colpisce: perché uno scrittore affermato, che ha pubblicato decine tra saggi, romanzi e raccolte di poesia, che ha vinto premi (su tutti il Grinzane, e per due volte), che tiene una rubrica fissa sulla cronaca romana di Repubblica e ogni tanto scrive fondi sull’edizione nazionale, continua a insegnare italiano a in un istituto professionale dell’estrema periferia romana? Glielo chiediamo subito. «In fondo forse è perché sono un po’ nevrotico, ho l’impressione che se non mi muovo, se non mi agito, affondo. Alla fine c’è una sorta di unità, credo, fra i tre mestieri. Anzi: faccio questi tre mestieri come se fosse un mestiere solo. La verità è che per me è una fortuna poter stare nel mondo degli adolescenti, dove c’è quella sorgente primaria da cui scaturiscono le grandi domande della vita. È dalla mia esperienza di docente di periferia (insegno nell’ultima delle scuole del Regno, come si dice) che «Io non sono né viene fuori quello che racconto sui depresso, né avvilito, né moralista. La nuvola giornali, e anche la letteratura nasce da lì. Insomma, le tre cose finiscono grigia sopra di noi però per rotolare l’una dentro l’altra. Io la vedo: il pericolo guardo e scrivo. dell’ammutolimento,
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dell’inebetimento. Ma queste cose si contrastano con quello che facciamo nella nostra vita, ogni giorno. Io domani mattina torno a scuola». Uno scrittore che insegna anche in una periferia romana, racconta a Segno come la letteratura vada d’accordo sempre con la vita quotidiana 26
Mi pare che il denominatore comune di questi tre mestieri siano le parole. Santa Teresa d’Avila dice che «le parole conducono ai fatti, preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza»: è così? È così senz’altro. Io scrivo ogni tanto le recensioni ai libri. Mi basta poco, anche solo una pagina, per capire se uno è uno scrittore o no: il metro di giudizio è se si percepisce che l’autore sente, comprende davvero le cose
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Il potere alle parole che scrive. Qualche mese prima di scrivere il mio primo romanzo avevo buttato giù dei racconti. Onestamente li trovavo brutti. Poi mi sono successe un po’ di cose: è morta mia madre, mi sono lasciato con una fidanzata, ho avuto qualche problema fisico. E dopo ho iniziato il romanzo, e le mie pagine erano davvero migliori. Non è che in quei mesi avessi imparato a scrivere meglio: è che avevo capito qualcosa di più della vita. E le parole dei suoi studenti quali sono? Lei ha raccontato l’estate scorsa in un articolo di una ragazza che si è fatta tatuare sulla schiena la scritta “Chanel”... Non semplicemente la scritta, proprio il marchio della ditta. Non ce l’ho fatta a trattenermi: «Ma perché devi ridurti a cosa, a oggetto, a merce? È triste, tristissimo». Mi ha risposto: «’A professo’, a me me piace, i gusti so’ gusti». La bidella, più spiccia, ha commentato: «Potevi fatte tatua’ pure er codice a barre». È il brand che batte la parola gratuita? È che la base della società occidentale è il desiderio. Non l’ideale, non l’essere, nemmeno il dovere. Quel tatuaggio l’ho visto come un altare tirato su davanti al desiderio e alla sua eccitazione quotidiana. Purtroppo tanti ragazzi sono così, costretti, forzati a desiderare e consumare, iperstimolati dalla pubblicità. Desideri indotti e non autentici Indotti, sì, e per questo falsi e ricattanti. Ma il mondo funziona secondo questo sistema, che viene rilanciato in continuazione. E anche se ai sobri è riconosciuta una certa dignità culturale, in realtà vengono
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anche se non si capiva tutto, anche se ci si annoiava, prevaleva la voglia di migliorarsi. Oggi si scansa tutto quello che è minimamente complesso, si cerca sempre la scorciatoia della facilità. E di rimando chi offre i contenuti tende direttamente a semplificarli. Questo sistematico abbassamento del tiro ci ha portato a una vera e propria ritirata dal senso. E ora si sbanda. I miei alunni parlano male, scrivono malissimo, capiscono poco di quello che leggono. Le statistiche dicono che il 5% degli italiani scolarizzati è praticamente analfabeta. Negli Stati Uniti la maggioranza dei ragazzi ha un vocabolario non più vasto di 150 parole. È ancora come diceva don Milani: 150 parole possono bastare per capire e descrivere il mondo? Può sembrare, forse, ma non è così veramente.
sottilmente ammoniti: guai a chi si tira fuori dalla catena del consumo, perché mette in crisi il meccanismo che manda avanti l’intera società.
Nelle foto: lo scrittore Marco Lodoli
Quarant’anni fa don Milani diceva che le parole erano l’unità di misura del potere di un uomo. Chi conosce mille parole comanda, chi ne conosce trecento obbedisce. Oggi come funziona? Una volta c’era attrazione per la complessità,
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UNO SCRITTORE TRA SCUOLA, PERIFERIA E LETTERATURA arco Lodoli, romano, classe 1956, è giornalista, scrittore e insegnante di lettere in un istituto professionale della capitale. Ha esordito nel 1978 come poeta con Un uomo innocuo (Trevi Editore). Nel 1990 ha vinto il Premio Piero Chiara per Grande raccordo, nel 1992 il Grinzane Cavour. Nel 1997 si è aggiudicato di nuovo il Grinzane con Il vento. Collabora con il quotidiano La Repubblica, dove, nella pagine della cronaca di Roma, firma una rubrica che si chiama Isole e, nell’edizione nazionale, è editorialista su temi che riguardano i giovani e la scuola. Il suo ultimo romanzo è Italia (Einaudi, 2010).
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Vuol dire che c’è un pezzo di mondo che resta fuori dalla nostra comprensione? È una rinuncia alla realtà. Nei temi dei miei ragazzi la cosa che noto più spesso è una forte astrattezza. Sbagliano quasi tutti nell’approccio, restano sul generico. D’altra parte, con 150 parole non si può fare molto di più. E chi non sa andare al fatto, chi non sa riconoscere la potenza che c’è nella realtà, è debole. Ma questo vale per tutti, anche per me: io riconosco che una volta facevo cose più complicate, e ora magari non ci riesco. Sono immerso come tutti nello spirito del tempo. E che spirito è? Noi siamo ciò che ingurgitiamo. Se a uno gli fai bere due litri di vino, non è più lui: è lui più due litri di vino che gli annebbiano il cervello. Noi da anni beviamo roba tossica. Una mia studentessa, una ragazza kosovara, una volta mi ha detto: ormai pensare non serve più, c’è la tecnologia che pensa a tutto. Che si fa? Io non sono né depresso, né avvilito, né moralista. La nuvola grigia sopra di noi però la vedo: il pericolo dell’ammutolimento, dell’inebetimento. Ma queste cose si contrastano con quello che facciamo nella nostra vita, ogni giorno. Io domani mattina torno a g scuola. ■
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Fidarsi dei bambini di Barbara Garavaglia
ettiamo un sabato pomeriggio piovoso; lasciamo spenta la televisione e non accendiamo il computer. Prendiamo uno scatolone e costruiamoci un’astronave. Senza paura di sporcare il pavimento e i vestiti, magari con tempere e colla, senza timore di mangiare in un ipotetico fast-food interstellare, senza “vergogna” perché ci si è lasciati condurre per mano dai figli, nel mondo sempre nuovo e sempre ricco di sorprese e di tesori che, solamente i loro occhi, sanno scoprire nelle quotidiane pieghe delle giornate. Giocare non è un’attività di secondaria importanza per i bambini e, per compierla, non è assolutamente necessario l’ausilio di giocattoli, videogiochi oppure di televisione e affini. È possibile giocare con ogni cosa, con tutto, oppure, cambiando punto di vista, con nulla. E per i genitori, mettersi “in gioco”, è un ingrediente importante nella miscela dell’educare. Perché, non ci si trovi a dire, con amarezza: «Ma guarda, come sono diventati grandi i nostri bambini. Non ce ne siamo neppure accorti!». «I bambini offrono spunti ai genitori, che avallano queste ipotesi e le “contemplano”. Ciò può succedere nei boschi, oppure in una giornata piovosa tra le mura di casa, non sapendo dove si andrà a finire,
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“Mettersi in gioco” con i propri figli è importante. Per Maurizio Fusina, direttore creativo di Remida, un centro di riuso creativo di materiali industriali, «occorre sempre cercare di capire che cosa chiedono i bambini agli adulti. È importante inoltre andare alla ricerca di che cosa, in città, piace ai figli. Alcuni luoghi “per grandi”, non è detto che non siano anche “per piccoli”, penso ai musei di arte moderna, o ai giri in tram, in stagioni e orari differenti, che ci mostrano i luoghi da altri punti di vista» 28
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lasciandosi guidare dai bambini. Educare significa accompagnare nelle esperienze. Io, adulto, ci sono; io, con il taglierino, realizzo l’oblò dell’astronave, ma l’avventura la facciamo insieme». Maurizio Fusina, direttore creativo di Remida (un centro di riuso creativo di materiali industriali) di Borgo San Lorenzo, in Toscana, anima di diverse ludoteche e di progetti inerenti al mondo della creatività e dell’infanzia, padre di due bambini rispettivamente di 6 e di 3 anni, invita i genitori a entrare in gioco, a relazionarsi con i bambini pensando anche a superare la logica che induce a inseguire il giocattolo del momento, o a delegare a esperti, oppure alla tv, la gestione di questo momento importante della vita dei più piccoli. Molti sono gli spunti che Fusina offre, dalla realizzazione del proprio libro di famiglia, che raccolga ad esempio attraverso foto e disegni, le esperienze compiute in un anno, per pensare, persino, alla riprogettazione degli spazi della camera da letto dei bambini. Il tutto, però, deve essere seguito dall’adeguamento a una logica diversa, all’altro punto di vista. «Come adulti – commenta Fusina – non sempre ci fidiamo nel lasciarci trasportare in nuove dimensioni. Sei dinanzi all’ignoto, un ignoto da indagare insieme. È un processo, certo. Si è, in questo
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Nelle foto: a lato Maurizio Fusina, direttore creativo di “Remida”. Sopra alcuni giochi realizzati con materiali di scarto
modo, al di fuori delle logiche della pubblicità, ma dentro la propria fantasia». Maurizio Fusina – laurea in Architettura in tasca – la fantasia la mette a frutto. Da anni propone percorsi ed esperienze legate al riuso creativo di materiali, anche derivati da lavorazioni industriali. «Oggi – spiega – tutte le cose hanno una sola funzione. Ma ogni cosa, in natura, ha almeno due funzioni: le nubi,
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per esempio, portano ombra e danno acqua, i sassi trattengono calore e depurano la pioggia, le foglie fanno ombra e purificano l’aria, e altro ancora. I bambini conoscono bene la plurifunzionalità degli oggetti. Noi, invece, siamo ancorati alla convinzione che ogni cosa abbia una propria, unica, funzione. Penso alla vaschetta per l’insalata, che può essere un tetto, al bastone raccolto nel bosco che è spada, vanga… Per questo affermo che noi dobbiamo fidarci dei bambini». Un esempio è dato dalla “Città infinita”, un’idea nata qualche anno fa, presentata nell’ambito del Festival della creatività, svoltosi in autunno a Firenze. «Alcuni bambini, con pezzi di legno, scarto industriale, hanno iniziato a costruire una città. È una “storia”, nella quale ciascuno rispetta l’altro... Ognuno costruisce la propria casa, senza cintarla, poi si collega agli altri; nascono quartieri, chiese, campi sportivi… Da un pezzo insignificante di legno, nasce una esperienza bella». Sul tappeto ci sono quindi molte cose: l’utilizzo degli oggetti che scardina i preconcetti, lo sviluppo della manualità che trasforma la materia («Tagliare, trasformare, ad esempio utilizzando il traforo, che offre la possibilità di progettare, di saper pazientare, di gestire il proprio corpo e il proprio tempo»), e soprattutto la ricerca di una criticità nei confronti dei messaggi che si assorbono quotidianamente. «I genitori spesso delegano la tv, la scuola. E sulla sfera del gioco, i cartoni animati di ultima generazione, che coinvolgono direttamente i piccoli, offrono una ulteriore giustificazione alle mamme e ai papà. Quel sabato piovoso, quindi, ci si dovrà imporre di lasciare da parte molte cose, la tv, il pc. Relazionarsi così ai figli, è più difficile che delegare. Occorre sempre, non solamente a Natale, cercare di capire che cosa chiedono i bambini agli adulti. È importante inoltre andare alla ricerca di che cosa, in città, piace ai figli. Alcuni luoghi “per grandi”, non è detto che non siano anche “per piccoli”, penso ai musei di arte moderna, o ai giri in tram, in stagioni e orari differenti, che ci mostrano i luoghi da altri punti di vista”. Per g incominciare un viaggio, che dura tutta la vita. ■
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Un giorno la musica rinascerà intervista con Max Gazzè di Alessandra Gaetani
ax Gazzè: eclettico come il suo orecchino. Dalle esibizioni nei locali di Bruxelles, passando per il palco di Sanremo, è sbarcato di recente sul set del film Basilicata coast to coast, per poi approdare al musical Jesus Chist Superstar. Ora è in giro per l’Italia con il suo ultimo album Quindi?, comprendente una decina di singoli, alcuni inediti, in cui è inserito Mentre dormi, dal film Basilicata coast to coast.
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Una carriera lunga, ricca di diversi generi musicali e stili. Come sceglie quale utilizzare quando si mette al lavoro? Il genere non è una scelta premeditata. Una strada che invece pratica chi non segue un proprio percorso, e cerca a tutti i costi di seguire ciò che è “radiofonico”. Io vengo da percorsi musicali vari: jazz, classica, rock; ho suonato con «Il decadimento della musica gruppi punk, new wave. Compongo quello che al è iniziato alla fine degli anni momento mi viene, il genere ’90. Poi c’è stato l’avvento resta indefinito finché qualdel digitale, del download, cuno ascoltandolo dice: dell’eccessiva produzione, «questo è un brano pop». e infine i talent show. Ma ci sarà pure un suo stile Un giovane adesso deve preferito. partecipare a questi programmi per farsi conoscere. In realtà no. Riesco ad apprezzarli tutti, purché ci Dopo un periodo così socialmente decadente ci sarà sia qualcosa di intrigante, interessante, ben realizzato. per forza una rinascita con Parliamo dell’esperienza del qualcosa di dirompente». musical Jesus Christ SuperParola di Max Gazzè, artista star in cui interpreta Erode. tra i più interessanti dell’attuale panorama italiano Lei in passato ha condiviso il
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palco con altri cantanti. Ma lavorare con degli attori che tipo di esperienza è stata? Anomala e nuova, stimolante. Occorre saper abbinare un personaggio nel personaggio: l’interpretazione fornita dall’attore insieme a quella del cantante. Si associano cantato e recitazione in un’espressione del tutto diversa rispetto a quella che si fa come cantante. Occorre entrare nel personaggio, cercare di dargli un tono, sia caratteriale che vocale. Ci sono state tante collaborazioni nella sua carriera: Marina Rei, Paola Turci, Franco Battiato. In genere c’è una certa concorrenza tra colleghi. Come funziona una collaborazione? Io la vedo, e la vivo, come stimolo per contaminazione necessaria. Mi piace cioè collaborare con altri artisti perché così riesco a carpire un modo diverso di interpretare quanto accade. Se compongo un brano, se suono insieme ad altri, c’è sempre il piacere di realizzare una cosa diversa rispetto a come la farei se fossi da solo. Cosa vorrebbe fare Max Gazzè in futuro, dopo il cinema e il musical? La musica è quello che faccio, e che farò sempre. Sono anche un appassionato di cinema, come di altre espressioni artistiche, per cui cerco di imparar-
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I percorsi di un artista
ROMA, BRUXELLES, SANREMO E... LA BASILICATA assimilano Gazzè, detto Max, nasce a Roma nel 1967, trascorre l’infanzia in Belgio. Inizia a studiare pianoforte a 6 anni, a 14 anni il basso elettrico, età in cui si esibisce con diversi gruppi a Bruxelles. Nel 1991 torna in Italia e compone colonne sonore. Nel 1996 esce il primo album Contro un’onda del mare presentato nel tour di Franco Battiato. Nel 1998 la canzone Vento d’estate, con Niccolò Fabi, con cui vince Un disco per l’estate. Max scrive i testi con il fratello Francesco, poeta e paroliere. Nel 1998 partecipa al Premio Tenco e nel 1999 al Festival di Sanremo categoria Giovani con Una musica può fare. Torna a Sanremo nel 2000 con Il timido ubriaco, con cui partecipa anche al Festivalbar. Nel 2008 esce l’album Tra l’aratro e la radio. I testi sono scritti insieme a Gimmi Santucci. Nel 2010 Max è nel musical Jesus Christ Superstar e nel film di Rocco Papaleo Basilicata cost to coast. Esce l’album Quindi? tra i più venduti in Italia.
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Nella foto: il musicista Max Gazzè
le facendole, se ne ho la possibilità, come in questi casi, perché sono curioso. Per mia indole, per l’impulso creativo, ho bisogno di nuove esperienze. Al di là del risultato, cerco sempre di realizzarle con il massimo impegno. Dove le piacerebbe spaziare in futuro? Sempre nella musica. Continuerò a fare altri lavori come attore, ma per hobby. Oppure un giorno farò l’attore di professione e il musicista per hobby. Chissà? Cerco di mantenere sempre un entusiasmo ludico nei confronti di ciò che amo fare, altrimenti diventerebbe una routine senza gratificazioni. Per questo cerco di realizzare tutte le molteplici attività nella musica: un concerto, un disco, una partecipazione, un musical.
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A proposito di stimoli: che tipo di futuro vede, viste anche le difficoltà del periodo, per i giovani artisti? Si tratta di un periodo difficile, di transizione. Il decadimento è iniziato alla fine degli anni ’90. Poi c’è stato l’avvento del digitale, del download, dell’eccessiva produzione, e infine i talent show. Un giovane adesso deve partecipare a questi programmi per farsi conoscere. Dopo un periodo così socialmente decadente ci sarà per forza una rinascita con qualcosa di dirompente. Siamo scesi in basso, secondo lei: dunque non possiamo che risalire? Sì, esatto. Non ci saranno mai problemi di idee. La crisi non è della musica, ma della discografia, dell’eccessiva produzione, della comunicazione sbagliata: si propone un lavoro orrendo nello stesso modo in cui se ne propone uno straordinario. E nessuno sa la differenza: non esiste la cultura per poter identificare due lavori con percorsi diversi. Ciò che potrà salvare la musica è l’onestà di chi la propone. Quanta gente vuole far musica solo per diventare famosa? L’eretico che vuole fare musica sul serio si troverà mischiato con tutti quelli che vogliono solo diventare famosi. È questo il problema. Quanto tempo impiega per realizzare un album? Non ho mai avuto fretta. Ho avuto periodi di grande creatività, altre volte invece ho lavorato su un brano per due mesi. Comunque mi impegno moltissimo. Non faccio mai una canzone bella e le altre scarse per riempire il cd. Ultimamente sono demoralizzato dal fatto che quando si deve promuovere un album si punta su un brano e gli altri vengono dimenticati. Mi chiedo se siano davvero utili gli album, o se sarebbe meglio fare delle canzoni, pubblicarle, e alla fine realizzare una raccolta. Quando ha detto: farò il cantante? Ho cominciato a musicare delle poesie di mio fratello Francesco e poi le ho cantate a chi le stavo proponendo. Non ho mai pensato di fare il cantante fino al momento in cui non lo sono diventato. Volevo diventare un bravo bassista e un compositore. Ora sto collaborando con l’amico e poeta Gimmi Santucci. Come dicevo occorrono stimoli continui, voglia di g interagire. ■
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Privacy e informazione: spiati o informati? di Marta Vergottini
l tema delle intercettazioni ha suscitato fin da subito un grande dibattito nel paese, dividendo esperti e opinione pubblica e arrivando perfino a essere uno dei motivi di rottura della maggioranza parlamentare. Tutto questo però non deve sorprendere, se solo si considerano i valori e i diritti costituzionali coinvolti in una proposta di legge che interviene sulla tutela della privacy, la libertà di informazione e l’efficienza delle indagini giudiziarie. Come ha spiegato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando i giornalisti durante la tradizionale cerimonia di consegna del Ventaglio, che ogni anno segna Al disegno di legge in materia di intercettazioni l’interruzione per la pausa estiva dei lavori parlamentari, per legifepresentato dal Governo, rare in questa materia bisogna fare al centro dell’attenzione politica per mesi e ancora i conti con il valore della sicurezza all’esame del Parlamento, dei cittadini e dello Stato, che necessita il contrasto delle violaè dedicato un dossier zioni della legge penale attraverso dell’Istituto “Vittorio Bachelet”. Dati e cifre per la ricerca degli indizi di reato e l’esercizio della funzione giurisdizioriflettere su un problema nale secondo i principi del giusto che interessa tutta la processo, il valore della libertà di comunità civile stampa e più in generale di informazione (ovvero il diritto dei cittadini di essere informati e il dovere dei giornalisti di informare) e il valore della libertà di comunicazione tra le persone, che implica il diritto al rispetto della riservatezza e della dignità di ciascuno. Tuttavia, è evidente che comporre questi valori non è cosa agevole e che si possono
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avere opinioni molto diverse su quello che potrebbe essere il loro migliore bilanciamento. Così, i sostenitori della proposta di legge, e in particolare il Governo e i partiti della maggioranza, ritengono giusto far prevalere l’esigenza di tutela della privacy, esigenza a loro dire molto sentita dai cittadini, stufi di essere spiati e intercettati e di correre il rischio di veder pubblicate sui giornali proprie private conversazioni. Secondo il ministro della Giustizia Angelino Alfano le intercettazioni, uscite dai binari di un corretto impiego, sono divenute nel tempo oggetto di forme di utilizzo assolutamente illegittime e lesive della privacy e della riservatezza dei cittadini, in violazione dei principi costituzionali. Di diverso avviso sono tutti coloro che all’approvazione della proposta di legge, ribattezzata “legge bavaglio”, si sono opposti e continuano a farlo con varie modalità. Tra essi, oltre alle forze politiche all’opposizione dall’inizio della legislatura, vi sono i sindacati dei giornalisti e degli editori di giornali, che in più occasioni hanno denunciato gli effetti intimi-
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Bisogna augurarsi che dopo giornate politiche di grande tensione come quelle trascorse, in cui leader ed esponenti dei partiti hanno addebitato agli avversari la colpa o rivendicato il merito del momentaneo stallo del disegno di legge (fermo dal mese di luglio all’esame della Camera), riparta il dialogo, elemento davvero imprescindibile per chi ha a cuore il bene comune e intende lavorare insieme con altri nell’interesse del paese
datori che la legge avrebbe nei loro confronti e paventato il rischio di una significativa compressione della libertà di stampa: per questo, il 9 luglio scorso i giornalisti si sono astenuti dal lavoro, dando vita a una giornata di “silenzio rumoroso”, in grado di portare l’attenzione sui tanti silenzi quotidiani che a loro parere la legge bavaglio imporrebbe agli italiani, a cui verrebbe negata la conoscenza di molte notizie e informazioni di interesse pubblico. Ma anche il sindacato dei lavoratori della polizia ha voluto far registrare il suo dissenso, avviando una raccolta di firme in tutte le città per informare l’opinione pubblica delle possibili conseguenze dell’approvazione del disegno di legge: in pericolo sarebbe-
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ro l’azione e l’attività della polizia giudiziaria e la capacità di contrasto al crimine, con inevitabili ricadute negative sui livelli di sicurezza nel paese e di tutela di ogni cittadino. Non è semplice orientarsi in questa babele di voci che esprimono pensieri e argomentazioni differenti, spesso condivisibili o comunque di buon senso. Ecco perché l’Istituto Vittorio Bachelet ha voluto dedicare alle “intercettazioni” il suo terzo dossier annuale. Di certo, i valori coinvolti non possono essere usati l’uno contro l’altro e non esiste tra essi alcuna gerarchia. Per questo, bisogna augurarsi che dopo giornate politiche di grande tensione come quelle trascorse, in cui leader ed esponenti dei partiti hanno addebitato agli avversari la colpa o rivendicato il merito del momentaneo stallo del disegno di legge (fermo dal mese di luglio all’esame della Camera), riparta il dialogo, elemento davvero imprescindibile per chi ha a cuore il bene comune e intende lavorare insieme con altri nell’integ resse del paese. ■ (Per info: http://www2.azionecattolica.it/node/637)
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Se mamma e papà si dividono di Giorgia E. Cozza
osa prova un bambino quando i suoi genitori si separano? Quali domande, emozioni, paure si affollano nella sua mente e nel suo cuore? Quando una coppia si divide, gli adulti, in genere, hanno diverse possibilità di parlare dell’esperienza che stanno vivendo, ci si confida con i parenti, con gli amici, a volte con i mediatori familiari. Ma i bambini? Chi ascolta i figli di genitori separati e divorziati? Quali opportunità hanno di dar voce al dolore, di chiedere cosa succederà, di tirare fuori la rabbia e la frustrazione per un evento che sono costretti a subire e che, a secondo dell’età, probabilmente faticano a capire? Per offrire ascolto e sostegno a questi bambini, l’Università Cattolica di Milano organizza corsi di formazione ad hoc per gli operatori che, in tutta Italia, condurranno i “Gruppi di Parola” dedicati ai più piccini. Di questo progetto, che è oggetto di una ricerca scientifica attualmente in corso presso l’ateneo milanese, parliamo con Grazia Molesti, Dieci bambini, dai 6 a 12 anni di età. Un piccolo gruppo che esprime counselor professionista e mediatrice ansie e domande rispetto alla familiare, dal 1990 al situazione dei genitori, separati. 1993 responsabile Per Grazia Molesti, mediatrice nazionale, insieme al familiare, «i bambini, grazie al gruppo, possono dare un nome alle marito Mauro Garuglieri, dell’ufficio emozioni che si trovano a vivere Famiglia dell’Azione senza rimanere intrappolati nel cattolica. silenzio; hanno la possibilità di parlare della separazione di papà e «Nel corso del 2010, l’iniziativa è approdamamma da protagonisti pur ta anche in Toscana e che, in quanto dovendo constatare figli, non possono cambiare le cose» si è concretizzata grazie a un progetto del Forum Toscano delle famiglie, finanziato dalla Regione», spiega Grazia Molesti che ha condotto i primi gruppi a Firenze. «La proposta si rivolge ai bambini da 6 a 12 anni di età e ogni gruppo può essere composto da un massimo di dieci partecipanti perché tutti i bambini devono avere il loro “spazio”. Spesso si cerca di tenere i figli in disparte durante il percorso della separazione, nell’intento di
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proteggerli dal conflitto, ma così non si consente loro di dare un senso a ciò che sta accadendo. Tutto questo provoca nel bambino confusione, ansia, tristezza, solitudine e talvolta senso di colpa. Dalle ricerche emerge che i figli di genitori separati hanno soprattutto bisogno di essere ascoltati, informati e rassicurati». Proprio quello che viene fatto durante il Gruppo di Parola. Il percorso, che non ha finalità teraupetiche, ma si basa sul principio dell’aiuto e del sostegno tra chi sta vivendo un’esperienza simile, prevede in totale quattro incontri di due ore, con cadenza settimanale. Ogni appuntamento è scandito da momenti e rituali che si ripetono (la ripetizione risponde a un bisogno dei bambini, è rassicurante), si comincia con l’accoglienza e il saluto, si procede con una serie di attività – momenti di confronto, giochi di ruolo, disegni, costruzioni di storie, preparazione di cartelloni – finalizzate all’espressione di emozioni e problematiche comuni, si fa merenda insieme. Ma qual è l’utilità di questo percorso? «I bambini, grazie al gruppo, possono dare un nome alle emozioni e alle situazioni che si trovano a vivere senza rimanere intrappolati nel silenzio» spiega Grazia Molesti. «Hanno la possibilità di parlare della separazione di papà e mamma da protagonisti pur dovendo constatare che, in quanto figli, non possono cambiare le cose. E ognuno di loro usufruisce delle risorse del gruppo. Sì, perché il gruppo dà forza, fa sentire meno soli, garantisce la comprensione vera che può offrirti solo chi sta vivendo o ha vissuto le stesse esperienze e, allo stesso tempo, apre prospettive nuove grazie al confronto di punti di vista differenti. Tra l’altro, in ogni gruppo, ci sono bambini che stanno vivendo fasi diverse della separazione dei propri genitori. C’è il ragazzino che è nel pieno del “marasma” emotivo perché la separazione è appena avvenuta e altri che hanno superato questo momento e possono rassicurare gli altri, spiegando, ad esempio che con il tempo, i conflitti possono appianarsi e i litigi possono attenuarsi». Già, i litigi tra i genitori. Una realtà di cui si parla sempre nei gruppi, perché affligge i piccoli partecipanti e li fa
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In una parola, attenzione ai bambini. Eliminare il dolore di una separazione non si può, ma rendere questa esperienza meno traumatica e difficile, sì. Un dovere che i genitori non possono e non devono trascurare
tratta di un momento molto importante e significativo sia per i bambini, sia per i genitori che hanno così la possibilità di guardare con occhi più attenti e consapevoli i loro figli» sottolinea Grazia Molesti. «La presenza di entrambi i genitori in questa occasione è fonte di grande gioia per i bambini. E per l’iscrizione al gruppo è indispensabile la firma di tutti e due: un modo per ricordare ai genitori che eventuali conflittualità devono essere messe da parte quando è il momento di fare scelte condivise per il bene dei figli. Terminato il percorso, ogni coppia ha la possibilità di incontrarsi con le conduttrici del gruppo per un momento di confronto. Alcuni genitori chiedono soffrire. I bambini amano entrambi i genitori, ma anche di proseguire il percorso, usufruendo del sermolto spesso si ergono a paladini del genitore più vizio di mediazione familiare». debole, lo proteggono, imparano a mentire per il E se nella propria città non ci sono Gruppi di Parola? bene dell’uno o dell’altro genitore, e questo può proCosa possono fare i genitori per aiutare i figli in quevocare loro forti disagi. «Un altro elemento comune è il desiderio che i genitori tornino insieme», riprende sto momento delicato? «Ricordare che i bambini la mediatrice familiare. vengono inevitabilmente coinvolti da questa espeDesideri, dubbi e interrogativi dei bambini vengono rienza e hanno bisogno di poter esprimere con le raccolti in una lettera comunitaria che in occasione parole il dolore e la fatica» conclude Grazia Molesti. «Ma hanno bisogno anche di risposte perché i dubbi dell’incontro conclusivo viene letta ai genitori. Il e, a volte, addirittura i sensi di colpa (quando si sengruppo dei bambini – nell’ultima ora di questo pertono erroneamente responsabili di quanto sta accacorso – ospita infatti il gruppo dei genitori. Mamme e dendo) sono sempre tanti: tocca ai genitori creare papà sono invitati a rispondere agli spunti contenuti nella lettera, con dei biglietti anonimi che vengono occasioni di dialogo offrendo ai figli l’opportunità di A sinistra: la mediatrice raccolti in una scatolina e poi letti ad alta voce. «Si dar voce ai loro interrogativi». In una parola, attenfamiliare Grazia Molesti zione ai bambini. ElimiPer saperne di più nare il dolore di una UN LIBRO E I CORSI ORGANIZZATI DALL’UNIVERSITÀ CATTOLICA separazione non si può, l bisogno di ascolto e confronto dei figli di genitori separati o divorziati è dedicato il libro, fre- ma rendere questa sco di stampa, I gruppi di parola per i figli di separati, a cura di Costanza Marzotto, pubblicato lo esperienza meno trauscorso novembre da Vita e Pensiero (collana Quaderni del Centro famiglia). Per conoscere meglio matica e difficile, sì. Un l’iniziativa “Gruppi di Parola” è inoltre possibile consultare il sito dell’Università Cattolica di Miladovere che i genitori non no (http://milano.unicatt.it/) che organizza periodicamente corsi di formazione per operatori. Le famiglie che abitano in Toscana e desiderano informarsi a proposito dei gruppi che verranno possono e non devono organizzati nel corso del 2011 nelle città toscane, possono rivolgersi direttamente a Grazia Molesti trascurare. g ■
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Età a più velocità di Mirko Campoli
a sempre la preadolescenza appare certamente come la più nuova e più incerta stagione della vita, non solo per gli studiosi che se ne occupano a livello accademico (sociologi, psicologi, pedagogisti...), ma anche per tutti coloro che, a diverso titolo, sono chiamati ad accompagnare la crescita dei ragazzi e delle ragazze che si trovano a vivere questa particolare fase della loro esistenza (genitori, insegnanti, educatori...). Inoltre il contesto sociale in cui oggi siamo immersi sta favorendo un rinnovato interesse nei confronti di questa età. Strani, irrequieti, Ciò, probabilmente, può essere ricondotincomprensibili. to a due dati fondamentali. Per prima Ma anche generosi, cosa al prolungarsi dell’età giovanile che, entusiasti, capaci rispetto al passato, dilata i tempi relativi di sognare. I nostri all’assunzione delle responsabilità propreadolescenti ci pongono interrogativi prie dell’età adulta (si pensi per esempio all’estensione della scuola dell’obbligo e sul piano educativo all’allontanamento dell’ingresso nel e relazionale mondo del lavoro). Il secondo fattore, e sollecitano nuove strettamente collegato al primo, è la risposte da famiglia, maggior attenzione e la maggior conoscuola e comunità scenza dei diversi processi che carattecristiana. Il rizzano la crescita della persona nella responsabile nazionale convinzione che lo sviluppo non è fatto di Acr trae alcune scatti improvvisi ma di un lungo processo riflessioni da un distribuito nel tempo. È questa attenzione recente seminario al processo che ha portato a una più parsu questa bella ticolareggiata definizione delle diverse e complicata fasi della crescita, e perciò, in certo qual fase della vita modo, alla “scoperta” della cosiddetta preadolescenza. Il riferimento alla preadolescenza comporta l’emergere di due importanti fattori. Il primo, di ordine sociale, è l’appartenenza di questi ragazzi alla realtà della scuola media inferiore che contribuisce a denominare il preadolescente come il ragazzo che “va alle medie”. Il secondo fattore, più strettamente legato ai processi di sviluppo, è invece
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definibile come la “vita a più velocità”. Si è soliti dire che nella preadolescenza “sbocciano” diversi processi i quali avranno un loro pieno svolgimento, in misura differenziata, all’interno dell’adolescenza. Ciò che però appare proprio della preadolescenza non è semplicemente l’essere “il tempo dell’inizio del cambiamento”, ma l’essere piuttosto “un tempo di cambiamenti diversificati” che hanno inizi e ritmi diversi. Sappiamo bene infatti, guardando i nostri preadolescenti, che mentre il loro corpo si sta sviluppando e crescendo, il loro sviluppo mentale può apparire invece ancora infantile; oppure che mentre si sviluppa in loro una forte esigenza di socializzazione, può apparire ancora “bambino” il loro modo di relazionarsi. Questo processo a più velocità è quello che fa apparire spesso i nostri preadolescenti, agli occhi degli adulti, come strani, ancora bambini, diffi-
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Questi ragazzi ci chiedono di essere accolti e aiutati a vivere in pienezza la loro età nel rispetto dei tempi di ciascuno. Inconsapevolmente essi ci chiedono di far leva sui loro aspetti positivi, per accompagnarli alla ricerca della loro identità, unica e originale, e della loro “strada”, anch’essa del tutto personale
cili e irrequieti o in qualche modo incomprensibili. Spesso, però, ci si è fermati qui; non si è, cioè, valorizzato debitamente tutto quell’universo di qualità e di possibilità che i preadolescenti portano con sé. Guardando i nostri 12/14enni, infatti, dovremmo riuscire a scorgere più in profondità la ricchezza che la loro presenza porta nelle nostre comunità. Con occhio diverso, allora, si scoprirebbero, probabilmente, anche i lati positivi, quali: la generosità, la capacità di appassionarsi, la voglia di “buttarsi” in un grande progetto, il loro entusiasmo, lo spirito d’avventura, la disponibilità al dialogo e alla discussione, l’inventiva
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e la loro capacità di sognare. E tale elenco e del tutto “a braccio”, pensando velocemente alle ragazzine e ai ragazzini di quell’età che conosco. L’Acr, da sempre attenta a questo particolare arco d’età, ha recentemente promosso un seminario di studio per approfondire e arricchire le motivazioni che spingono un educatore ad accompagnare questa bella e complicata fase della crescita. L’appuntamento, fissato nello scorso mese di dicembre, ha visto la partecipazione di tantissimi educatori e responsabili associativi e ha permesso di raccogliere numerosi spunti e stimoli. Si capisce bene come non esista la preadolescenza: in realtà tale definizione la si ritrova solamente sui libri, ma non la si incontra nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. Nella vita si incontrano soltanto “i preadolescenti”, ognuno con un suo modo proprio e irripetibile di vivere questa fase a più velocità; ciascuno di loro accomunato da un progressivo mutamento del proprio corpo e della propria immagine. Un mutamento che rende la loro vita oscillante tra la festa, la spensieratezza e il turbamento e il disagio; tra la voglia di crescita e l’incertezza del nuovo. Questi preadolescenti, prima di ogni classificazione dei loro processi, chiedono di essere accolti e aiutati a vivere in pienezza la loro età nel rispetto dei tempi di ciascuno. Inconsapevolmente essi ci chiedono di far leva sui loro aspetti positivi, per accompagnarli alla ricerca della loro identità, unica e originale, e della loro “strada”, anch’essa del tutto personale. Altrettanto inconsapevolmente, forse chiedono ci chiedono di respirare aria nuova, di ascoltare parole nuove, di osservare nuove prospettive, di esplorare nuovi spazi, di costruire cose davvero nuove. Gli adulti, che sono chiamati ad accompagnare più o meno direttamente la loro crescita, sappiano di conseguenza avere il tempo per ascoltare, per discutere, per costruire, con loro e non a prescindeg re da loro. ■
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Un mondo a colori
di Francesco Rossi
nteresse verso le religioni, i loro riti e costumi. E la possibilità d’incontrarle facendo appena pochi chilometri, praticamente senza spostarsi dalla propria città. Ciò che vent’anni fa era possibile solo girando il mondo, oggi è veramente “a portata di mano”. Così Mario RebeCon la macchina fotografica schini, giornalista e fotoreporter bolognese, ha dato vita al volume il giornalista Mario Io credo (Script edizioni), una galleRebeschini ha raccolto scatti d’autore delle diverse ria d’immagini attraverso le diverse religioni che convivono a religioni, tutte raccolte partendo Bologna. Ne è nato un libro: proprio da Bologna. «Nei miei giri Io credo. Ritratto meticcio attorno al mondo – racconta, predi come diverse esperienze sentando l’opera – ho incontrato tante piccole e grandi religioni, di fede possano oggi partecipato a tanti riti, sentito tante rinforzare la spiritualità preghiere, tanti canti». Poi, aggiundi ciascuno di noi ge, «ho ripreso a girare il mondo a Bologna, senza muovermi da Bologna, frequentando le nuove chiese arrivate con gli stranieri: chiede ortodosse, russe, romene, ucraine, copte, evangeliche, dei sinti, dei rom, degli indiani sikh, degli indù, le piccole e grandi moschee improvvisate sotto tendoni e altre». Il desiderio di rappresentare la fede attraverso le fotografie «nasce con la mia religione, il cattolicesimo», spiega Rebeschini a Segno. A cominciare dalla sua comunità parrocchiale, per la quale ha realizzato un dvd che ripercorre 40 anni di vita proprio attraverso le foto da lui scattate. Ma la “curiosità”del giornalista, l’interesse e il desiderio di conoscere lo portano a entrare in contatto, nei suoi viaggi, con altre Chiese. «Come nel mio mestiere – racconta – mi occupo degli stranieri, dell’emarginazione, dei poveri, di coloro che vediamo solo se li andiamo a cercare con un occhio attento, così anche la dimensione religiosa m’interessa per capire il prossimo». Nelle foto: sopra il giornalista Finché, negli anni novanta, il mondo con le sue mille Mario Rebeschini. A destra sfumature è giunto a noi. «Sono cominciati ad arrialcuni suoi scatti d’autore
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vare gli stranieri: i musulmani, i russi ortodossi, le badanti ucraine e moldave, i copti eritrei... Avevano bisogno di punti di ritrovo per pregare e io sono diventato loro amico, li conoscevo perché seguivo le loro vicende e così ho cominciato a partecipare, con la macchina fotografica, ai loro riti religiosi». Da queste manifestazioni di fede, che il fotografo ritrova a Bologna, ma analogamente si possono scoprire in ogni città d’Italia, Rebeschini trae un insegnamento per tanti cattolici “timorosi” nel professare pubblicamente la propria fede. «Lì vedi una fede che non ha remore nel mostrarsi in pubblico e questo arriva a mettere in crisi noi cattolici che molte volte ci “vergogniamo” di affermare il nostro credo, e magari risvegliamo la nostra appartenenza religiosa solo perché ci sentiamo attaccati». E tra le diverse confessioni, pur senza cadere in un sincretismo, trova dei tratti comuni. «Tutte le religioni – rileva – hanno una caratteristica: pregano con le mani giunte, segno di pace». Poi «i riti del fuoco, dell’acqua, del cibo durante o dopo le cerimonie». Dai bambini che baciano la croce il venerdì santo
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Il libro di Rebeschini esalta i colori, perché solo così, secondo il reporter, si possono percepire le mille sfaccettature del mondo e non lasciarsi attanagliare da uno sguardo troppo pessimista
alla via Crucis dei militari, dalle processioni dei cattolici nel centro cittadino con la Madonna di San Luca all’ingresso della comunità ucraina greco-cattolica nella nuova chiesa affidata loro a novembre 2009, fino alla tradizionale processione pasquale dei fedeli ortodossi della chiesa di San Basilio il Grande del patriarcato di Mosca. E ancora: un matrimonio copto eritreo, le celebrazioni dei cristiani evangelici, la preghiera degli ebrei e quella dei musulmani, gli indiani di religione sikh nel tempio di Novellara (Reggio Emilia), i buddisti e gli indù. È veramente multiforme il panorama religioso fissato nelle immagini da Rebeschini, ed è solo uno degli indicatori di come oggi la comunità che ci circonda abbia mille aspetti differenti, frutto di un cammino ormai inarrestabile. Il libro di Rebeschini – come tutta la sua produzione fotografica – esalta i colori, perché solo così, secondo il reporter, si possono percepire le mille sfaccettature del mondo e non lasciarsi attanagliare da uno sguardo troppo pessimista. Un insegnamento che egli applica tanto alla fotografia quanto alla vita. «Amo la fotografia a colori perché il mondo è a colori», spiega. Eppure, prosegue, «la fotografia ha un limite: quando attorno è completamente buio non si può scattare, gli odori non li fa sentire, né racconta i sentimenti, ma li può solo far intuire». Tornando alla sua esperienza a fianco dei fedeli di diverse religioni racconta, ad esempio, del pellegrinaggio degli ucraini alla chiesa di San Nicola, a Bari. «Le badanti ucraine e moldave hanno un solo giorno libero: perciò si parte la sera, dopo cena, appena finita la giornata lavorativa. Si viaggia in treno, la notte, da Bologna a Bari e, una volta arrivati, ci si dirige cantando verso la basilica. Una volta giunti là, la chiesa viene aperta, si entra e si resta quattro ore a pregare. Poi si torna a
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Bologna». Le foto raccontano il viaggio e lasciano trapelare la fede e le forti emozioni. Un ultimo pensiero Rebeschini lo dedica al cardinale Carlo Maria Martini, che ebbe occasione d’incontrare all’incontro di preghiera con i rappresentanti di diverse confessioni religiose, a Milano nel 1993, e al quale ha voluto dedicare questo libro. Dopo aver frequentato, e fotografato, le varie religioni riflette su coloro che non credono. Sembra paradossale, ma anch’essi possono aiutare la fede. E qui cita Martini perché, come ha scritto il cardinale in Conversazioni notturne a Gerusalemme, ricordando la “Cattedra dei non credenti” da lui voluta nella diocesi ambrosiana, proprio i non credenti in quegli incontri «hanno donato ai giovani la tolleranza [...], condividevano con noi obiettivi fondamentali e talvolta escogitavano idee e percorsi migliori dei nostri. Attraverso questa cattedra molti cattolici, e soprattutto giovani dotati di spirito critico nelle nostre file, hanno imparato a essere aperti al dialogo g e a parlare della fede». ■
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Innamorato della Parola di Agostino Ziino
In alto: don Divo Barsotti
l 15 febbraio 2006 si spegneva a Firenze don Divo Barsotti. Nel quinto anniversario della sua morte si svolgerà a Roma, nei giorni 19-20 febbraio, un convegno di studio organizzato dalla “Comunità dei figli di Dio” e patrocinato dal Progetto culturale della Cei. Nato a Palaia (Pisa) il 25 aprile 1914, nel vasto e travagliato panorama della Chiesa del secolo XX, Barsotti è stato riconosciuto voce dai toni inconfondibili, autentico mistico, scrittore estremamente fecondo in quasi tutti gli ambiti della letteratura religiosa. La sua produzione letteraria comprende diari (La fuga immobile, Parola e silenzio, Ebbi a cuore l’eterno…), meditazioni teologiche (Il Signore è uno, La fede nell’Amore, La via del ritorno), studi sulla spiritualità e sulla santità cristiana occidentale e orientale, opere di teologia e spiritualità liturgica, poesie. Particolarmente ricca l’eredità che Barsotti lascia nell’ambito dell’esegesi spirituale della Scrittura (Il Mistero cristiano e la Parola di Dio, La parola e lo spirito, La rivelazione dell’Amore…) e nell’ambito della lettura cristiana della grande letteratura mondiale (Dal mito alla verità. Euripide “profeta” del Cristo, La religione di Giacomo Leopardi...). Sono tante le sue opere oggi tradotte in altre lingue. La volontà di vivere in assoluta docilità all’azione dello Spirito ha orientato la sua ardente ricerca di Dio su sentieri particolarmente impervi ed esigenti; e una profonda esperienza di fede e un’intensa e continua vita di preghiera hanno generato in lui sin dagli anni giovanili un amore appassionato alla Chiesa. Di sua natura schivo e solitario ricercatore della verità, si è invece trovato coinvolto in una rete di elevate amicizie con altri grandi e coraggiosi ricercatori di Dio (De Lubac, von Balthasar, Bouyer, Danielou, La Pira, Dossetti) ed è divenuto ben presto un autorevole maestro di fede, riferimento sicuro per tantis-
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Cinque anni fa si spegneva don Divo Barsotti. Un convegno fa memoria del suo attaccamento al Vangelo, attraverso le opere della sua vita, i numerosi libri e un misticismo che non cedeva alle lusinghe delle mediazioni temporali
simi discepoli e figli spirituali. Alla scuola della sapienza dei grandi maestri e padri della fede, Barsotti ha sviluppato il suo cammino di uomo di fede e di violento assertore del primato di Dio su tutto – intendiamo la violenza dell’amore – secondo uno stile di vita sempre più monastico. Pur impegnato in un continuo servizio alla Parola che lo ha portato a varcare anche i confini dell’Italia, fino al Brasile, al Giappone, all’Australia – nel 1971 predicò anche gli esercizi spirituali al papa Paolo VI e alla Curia romana –, Barsotti ha sempre custodito fedelmente e gelosamente la dimensione del suo intimo dialogo con Dio, vera e propria lotta con l’angelo, come è il titolo del suo primo diario giovanile. La parola di Divo Barsotti, forte e dolce nello stesso tempo, resta anche dopo la sua morte audace provocazione per un cristianesimo quotidianamente e a tutti i livelli esposto alla mediocrità e al compromesso. Le ineludibili esigenze dell’amore di Dio, da lui proclamate a gran voce col suo inconfondibile stile fatto di profondità e insieme di semplicità, costituiscono il leit-motiv dell’eredità di fede e di cultura che egli ha lasciato all’uomo di oggi. Dalla sua esperienza religiosa, comunicata attraverso un’impegnativa proposta di incontro umano e di coinvolgente testimonianza, già alla fine degli anni ‘40 è nata intorno a Barsotti la Comunità dei figli di Dio, che dall’eremo di San Sergio a Settignano, residenza del padre per cinquant’anni e culla della Comunità, si è estesa in quasi tutte le regioni d’Italia e, negli ultimi anni, anche all’estero: Gran Bretagna, g Australia, Africa (Benin), Sri-Lanka, Colombia. ■
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La Romania che parla italiano eggere un articolo o vedere un servizio tv sui romeni è raro in Italia. Se ne sente parlare per settimane in occasione di fatti di cronaca nera, ma poi torna il silenzio. Altre volte, distratti, li confondiamo con i rom che vivono nelle roulotte o nelle periferie delle grandi città. Eppure i punti d’incontro sono tanti, troppi per far finta di niente. In Italia si trova un pezzo di Romania dato che più di uno straniero residente su cinque arriva da questo paese, tanto da farne la comunità più numerosa. E provando a invertire la prospettiva, si scopre che è vero anche il contrario: in Romania (che, dopo la caduta della “cortina di ferro”, è entrata a far parte dell’Unione europea nel 2007) si può trovare un pezzo d’Italia incastonato nell’Europa orientale. Da più di dieci anni, infatti, l’economia tricolore continua a essere il principale investitore per numero di aziende registrate. E quanto a importazioni ed esportazioni, siamo secondi solo alla GermaReportage dalla grande nia (fonte: Istituto nazionale per il nazione dell’est, dove commercio estero di Bucarest). le nostre aziende hanno fatto affari per alcuni anni. Le imprese e il lavoro. «I primi italiani sono arrivati a Timisoara Ma ora la situazione subito dopo la rivoluzione del è cambiata... E poi ci sono il problema dell’emigrazione, 1989», spiega Alessandra Scroccaro, dottoranda che studia gli “orfani bianchi” e la tratta delle donne. Parlano gli investimenti italiani in Romania per l’università di Padova e di studiosi, funzionari Montpellier. «Erano veneti che pubblici e imprenditori. lavoravano nel tessile, nell’abbiIl presidente della Caritas gliamento, nel calzaturiero – dice di Bucarest: «I due paesi Scroccaro – e portavano con loro lavorino insieme» tecnici, macchinari, materie prime e capitale». Da allora le cose sono cambiate parecchio. Nella seconda metà degli anni Novanta gli imprenditori arrivarono in massa, attratti soprattutto dal costo della manodopera, dieci volte inferiore rispetto a quello italiano, e dalla vicinanza geografica. di Marco Ratti
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Ma alla fine del 2005 iniziò la crisi nera. Un anno prima in Italia erano state liberalizzate le importazioni dalla Cina e la concorrenza costrinse diverse aziende a chiudere. L’entrata della Romania nell’Unione europea, inoltre, fece lievitare il costo della vita e i salari, che per gli operai arrivarono a 350-400 euro netti al mese. «Prima del 2008 nella sola provincia di Timis c’erano circa 250 imprese italiane del tessile e del calzaturiero, mentre adesso credo che non siano neppure 50», conclude Scroccaro. «Le aziende che hanno resistito alla crisi», sostiene Mario Iaccarino, direttore dell’ufficio di Bucarest dell’Istituto nazionale per il commercio estero, «sono le migliori perché hanno investito in tecnologie e ciò permette loro di continuare a essere competitive». E oltre ad aver cambiato pelle, molte società italiane in Romania si sono spostate più a est, nella parte più povera del paese dove i salari sono più bassi. Tra quelle sopravvissute, nella zona orientale c’è la Exena di Civitanova Marche, che a Bacau produce calzature antinfortunistica dal 1995 con il nome Sir Impex. «All’inizio siamo venuti solo per il basso costo della manodopera», racconta Ermanno Baseggio, responsabile di produzione, «ma adesso serve la tecnologia migliore per essere competitivi». Oggi la fabbrica ha 270 dipendenti, meno della metà di un
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A sinistra: la ricercatrice Alessandra Scroccaro. Inoltre la città di Timisoara dove arrivarono i primi italiani che
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lavoravano nel tessile e nel calzaturiero (vedi sotto)
paio d’anni fa, e produce circa 5mila paia di scarpe al giorno. L’orario di lavoro va dalle 7.30 alle 15.30 per il taglio, il montaggio e l’orlatura, mentre l’iniezione va a ciclo continuo con tre turni da 8 ore ciascuno. «Tutto il personale è romeno – spiega Baseggio –, anche perché in Italia non c’è la manodopera qualificata di cui abbiamo bisogno». Il costo mensile lordo per operaio è di circa 400 euro, contro i 260 di qualche anno fa. E la Sir Impex paga anche il trasporto a chi arriva da fuori città. Gli orfani bianchi. Negli ultimi anni in Romania è cresciuta una schiera di bambini con il mito del nostro paese. Li chiamano “orfani bianchi” e sono ragazzini lasciati a parenti o vicini di casa dai genitori, che partono per il nostro paese per qualche mese o, in alcuni casi, per qualche anno, alla ricerca di fortuna. I traumi sono indelebili. Come racconta fratel Marco De Magistris, presidente della fondazione Leonardo Murialdo di Popesti Leordeni, una cittadina alle porte di Bucarest. «Ricordo un bambino – dice De Magistris – che aveva addirittura sfasciato la classe quando i genitori erano all’estero». Il religioso spiega che, anche a distanza di anni, questi bambini fanno fatica a socializzare con i coetanei e ad avere fiducia negli altri. Una psicologa di Save the Children Romania, Andrea Bisi, fa un lungo elenco delle ferite che si portano dentro spesso questi ragazzini: «Hanno problemi di isolamento, mancano di autostima, vivendo con i nonni fanno fatica a relazionarsi con gli adulti e riscontriamo la paura dell’abbandono». Questi casi, purtroppo, sono sempre più frequenti. Stando a stime Unicef-Alternativa sociale, in Romania gli orfani bianchi sono 350mila, contro gli 82mila casi circa riconosciuti dalle autorità. La onlus “L’albero della vita” ha preparato un dossier su questo argomento, dal quale emerge che «il numero di questi minori sarebbe pari al 7 per cento della popolazione romena tra zero e 18 anni». Nel dettaglio: «157mila bambini avrebbero solo il padre all’estero, 67mila solo la mamma. Più di un terzo, pari a 126mila, sarebbero stati privati di entrambi i genitori. 400mila avrebbero sperimentato, per un periodo della loro vita, quella particolare forma di solitudine». Su 5 milioni di bambini romeni, quindi, sarebbero in tutto
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In alto: Ermanno Baseggio, responsabile di produzione di un’azienda di calzature; sotto Mario Iaccarino, direttore dell’ufficio di Bucarest dell’Istituto nazionale per il commercio estero
750mila quelli segnati dalla partenza dei genitori. Le vittime della tratta. L’Italia rappresenta la destinazione più gettonata dai trafficanti di donne romene costrette a prostituirsi, seguito dalla Spagna e, ultimamente, da qualche nazione nord-europea (Svezia, Danimarca, Norvegia), dalla Germania e dalla Francia. «Di solito le ragazze vengono avvicinate da
persone che conoscono da tempo, e che quindi hanno la loro completa fiducia, con promesse di lavoro o di altro genere», spiegano due psicologhe di Adpare, un’associazione di Bucarest che si prende cura delle vittime della tratta. «E una volta giunte a destinazione», continuano le operatrici, «vengono obbligate a prostituirsi». In alcuni casi le donne riescono a uscire da questa situazione, ma di solito ci vogliono molti mesi prima che trovino la forza di accettare l’aiuto di qualche associazione e di raccontare tutto alle autorità. Chi arriva in Italia, nella stragrande maggioranza dei casi finisce in grandi città, soprattutto a Milano, Bologna o Roma. Le ragazze hanno in media tra i 18 e i 25 anni, ma capita che siano reclutate anche delle minorenni. Stando ai dati ufficiali, il numero delle vittime della tratta identificate è in calo: nel 2009 erano 780, 1.240 nel 2008, 1.780 nel 2007 e 2.285 nel 2006. Ma secondo le operatrici di Adpare non c’è da crederci. «Nell’ultimo anno abbiamo assistito 72 donne, contro le 123 dell’anno prima», dicono, «ma queste cifre possono essere spiegate semplicemente con il blocco dei finanziamenti pubblici». Fino a marzo 2010, per esempio, l’associazione poteva utilizzare una casa protetta per le vittime che ne avevano bisogno, mentre ora non ci sono più i soldi necessari a farlo. Numeri a parte, secondo Alexandru Cobzaru, direttore di Caritas Bucarest e vicepresidente di Caritas Romania, l’unico modo per far diminuire questo fenomeno è che i due Stati lavorino insieme: «In Italia dovete far sì che la richiesta diminuisca, mentre in Romania dobbiamo convincere le ragazze g a non dare retta a facili promesse». ■
Pil in caduta libera e tagli ai salari
NUOVE SPERANZE DOPO UN ANNO NERO l 2010 per i romeni è un anno da dimenticare. In dodici mesi è successo di tutto e i vertici dello Stato hanno complicato le cose. Come se non bastasse la crisi con le sue conseguenze: tra il 2008 e il 2009 il prodotto interno lordo è passato da +7,1% a -7,1% e ha chiuso il 2010 intorno al -2%. Poi ci si sono messi il presidente Traian Basescu e il primo ministro Emil Boc, che pur di ottenere prestiti dalla comunità internazionale hanno sottoposto il paese a una terapia d’urto: taglio del 25% dei salari del pubblico impiego, del 15% per le pensioni e licenziamento di 350mila persone nel settore amministrativo entro 5 anni. A questo punto, però, è intervenuta la Corte costituzionale, bloccando sul nascere la pesante sforbiciata alle pensioni. Ma l’esecutivo è tornato subito alla carica e in poche ore ha alzato l’Iva dal 19 al 24%. Risultato di questa girandola di provvedimenti: il prezzo del riscaldamento è già salito del 10% rispetto allo scorso inverno, i consumi interni continuano a stagnare, mentre il tasso di disoccupazione sfiora l’8% (era il 6,3% a fine 2009). Ora tutti stanno puntando sul 2011. Dalla comunità internazionale sono arrivati 20 miliardi di euro e il nuovo anno mira a una crescita del Pil di almeno l’1,5%. Il Governo ha stabilito anche un aumento degli stipendi pubblici del 15% calcolato sulle retribuzioni dello scorso ottobre: poca cosa rispetto a quanto è stato tolto, ma potrebbe trattarsi di un segnale. Per il momento, infine, non è stata toccata l’aliquota unica di tassazione dei redditi al 16%, che resta tra le più competitive d’Europa. [m.r.]
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Haiti ancora sotto le macerie ono tante le tragedie, le povertà i conflitti del mondo che passano inosservati agli occhi dell’Occidente, tanti quelli di cui ci si dimentica presto. Asia, Africa, America latina soprattutto presentano decine di casi di questo tipo. Basti pensare ad Haiti, distrutta, il 12 gennaio 2010, da un terremoto che ha causato 222mila morti, centinaia di migliaia di feriti, un milione di senzatetto. Dopo l’immediata A un anno dal terremoto che mobilitazione internazionale, gli aiuti e la ricostruzione causò oltre 200mila morti, hanno tirato il freno a mano servono aiuti umanitari, cibo, e tanti sono ancora gli alloggi. Ma la ricostruzione stenta a decollare. L’instabilità aspetti critici: tra questi, «la lentezza nella costruzione politica non aiuta la ripresa. di alloggi, anche provvisoNe parla mons. Auza, nunzio ri», per un milione di persoapostolico nel paese caraibico
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ne che vivono nei 1.200 campi e «la mancata rimozione delle macerie». Ne parla mons. Bernardito Auza, nunzio apostolico ad Haiti. Nella foto: Haiti, 12 gennaio 2011. Momento di preghiera a un anno dal sisma
Mons. Auza, quali i passi in avanti più visibili e quali i punti ancora carenti? I passi più visibili sono anche quelli che fanno appa-
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rire la situazione come se nulla fosse cambiato, ossia il fatto che più di un milione di persone vivono sotto le tende o all’aperto e sono ancora vive. Per me è una testimonianza della vastità del lavoro umanitario compiuto dalla comunità internazionale, dalle organizzazioni non governative e da tante organizzazioni religiose. Sembra paradossale, ma vedo la situazione così. Secondo me, i due punti più carenti sono la mancata rimozione delle macerie e la lentezza nel provvedere alloggi provvisori agli sfollati. Ma qui il problema dell’alloggio è molto complesso. Ad esempio, più del 70% di chi vive nei campi non possedeva né case né terreni, prima del terremoto. Vivere sotto le tende nella speranza che la comunità internazionale o lo Stato dia loro una casa è per loro una opzione migliore rispetto a quella di vivere altrove. Non è utopico pensare di poter dare alloggi a un milione di persone? Quanto tempo ci vuole per alloggiare così tanta gente? Forse non avremo quel tempo sine die. Per cui sono d’accordo che sarebbe utopico. Ci vorrebbero circa 300mila case per togliere tutta quella gente dai campi. Ma anche senza dare alloggio a tutti, molti possono essere aiutati in altri modi: opportunità lavorative, microcredito... È molto più realistico e renderebbe protagoniste le persone. La ricostruzione è ancora ferma. Quali ostacoli e quali suggerimenti? Gli ostacoli più grandi sono la carenza di quadri, ossia esperti e professionisti haitiani (l’85% dei professionisti haitiani è all’estero), la mancanza di fiducia della comunità internazionale nelle capacità del governo di poter gestire grandi progetti, le capacità limitate d’Haiti di assorbire enormi aiuti, la complessità del quadro legale, l’instabilità politica, la storica assenza dello Stato nella vita quotidiana della gente... Suggerimenti? Snellire la burocrazia, onestà nella gestione dei beni pubblici. Comunque, per risolvere questi g problemi ci vogliono tempi lunghi. [Sir] ■
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Guerra e fame bussano alle nostre porte foto guerra in Congo
intervista con Maurizio Simoncelli di Stefano Leszczynski
orso polare non è più a rischio di estinzione, mentre per salvare la tigre siberiana i vertici della politica russa e cinese hanno stretto con determinazione un’alleanza epica. Chi si mobiliterà invece per i
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diritti umani? Dopo soli 62 anni di vita – compiuti da poco – la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo rischia di trasformarsi in una vecchia e sbiadita fotografia di quello che fu la civiltà contemporanea. I luoghi della terra dove i diritti umani
«Nei conflitti ormai l’80% delle vittime è composto da civili inermi e solo il 20% riguarda i combattenti armati. A essere cambiata è infatti la natura stessa delle guerre, che raramente sono interstatali e raramente sono combattute da eserciti regolari. Sempre più vengono prese di mira le donne e i bambini, oggetto di terribili violenze e di stupri sistematici. Basti pensare a quanto accaduto nel corso delle recenti guerre balcaniche o a quello che soltanto lo scorso anno è avvenuto in Congo, dove neppure le forze delle Nazioni Unite hanno potuto impedire lo stupro di 242 civili, tra i quali 28 bambini, nella regione del Nord Kivu». Il vicepresidente di Archivio Disarmo parla con Segno dei diritti umani negati nel mondo. Ancora troppi. E ancora poco conosciuti. E che riguardano anche gli Stati democratici, i quali spesso applicano una politica di migrazione e dei respingimenti che non tiene conto di quanto i popoli camminino in cerca di acqua e pane, di pace e di giustizia 46
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Le Nazioni Unite cercano di fare il possibile per bloccare questi fenomeni, ma la diffusione incontrollata delle armi, in particolare di quelle leggere, in Africa soprattutto, incoraggia enormemente questo tipo di violenze
Nella foto a sinistra: Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo
sono stati ormai estinti quasi non si contano più e questo triste processo di annientamento non accenna ad arrestarsi, minacciando anche le ultime traballanti “riserve”. Tutti gli sforzi normativi dei cultori del diritto internazionale sembrano andati sprecati a causa di conflitti sempre meno convenzionali, di politiche miopi e di interessi economici dissennati, che hanno portato gli Stati a produrre 22.640 milioni di dollari di armi nel solo 2009. Il fenomeno è stato preso in considerazione da un gruppo di ricercatori dell’Archivio Disarmo che ha da poco pubblicato un libro edito da Ediesse intitolato Dove i diritti umani non esistono più. Al curatore del volume, Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo, abbiamo chiesto
Paradossalmente tutti questi scenari sono proprio quelli sui quali si è concentrato lo sforzo della comunità internazionale per tentare di vietare questo tipo di comportamenti. Siamo di fronte al fallimento dell’ordine internazionale che le Nazioni Unite hanno tentato faticosamente di costruire per oltre mezzo secolo? Le Nazioni Unite cercano di fare il possibile per bloccare questi fenomeni, ma la diffusione incontrollata delle armi, in particolare di quelle leggere, in Africa soprattutto, incoraggia enormemente questo tipo di violenze.
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quali siano gli aspetti più eclatanti della negazione dei diritti umani in gran parte del mondo. «Il primo dato importante – racconta a Segno Simoncelli – è quello che ci dice che nei conflitti ormai l’80% delle vittime è composto da civili inermi e solo il 20% riguarda i combattenti armati. I civili, insomma, sono diventati ormai da parecchio tempo un obiettivo primario nel corso dei conflitti. A essere cambiata è infatti la natura stessa delle guerre, che raramente sono interstatali e raramente sono combattute da eserciti regolari. Ormai è consuetudine soprattutto nei combattimenti intrastatali cercare di terrorizzare il gruppo avversario, distruggerne l’identità e annientarne la coesione sociale. È per questo che sempre più vengono prese di mira le donne e i bambini, oggetto di terribili violenze e di stupri sistematici. Basti pensare a quanto accaduto nel corso delle recenti guerre balcaniche o a quello che soltanto lo scorso anno è avvenuto in Congo, dove neppure le forze delle Nazioni Unite hanno potuto impedire lo stupro di 242 civili, tra i quali 28 bambini, nella regione del Nord Kivu».
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Nel mondo – secondo i dati forniti dal Small arms survey 2010 - circolano oltre 875 milioni di armi da fuoco, di questi soltanto 226 milioni sono nelle mani di forze armate e di sicurezza. Le armi leggere concorrono alla violazione dei diritti umani nel momento in cui la loro presenza e i loro trasferimenti diventano incontrollati e incontrollabili e il loro utilizzo diviene abuso. Basti pensare al caso del Sudan – per rimanere alla cronaca più attuale – dove si è appena concluso il referendum per la secessione del Sud Sudan dal resto del paese. Per decenni i combattimenti in questa regione hanno provocato milioni di morti e di profughi. In alcuni casi, come per il Darfur, la tragedia è stata così immensa da spingere la comunità internazionale a parlare di genocidio. Una situazione che ha provocato esodi di portata biblica e contro la quale il sistema Onu si è inceppato per gli interessi di alcuni membri, la Cina nella fattispecie, del Consiglio di sicurezza. Ma pensiamo a quanto sono diffuse nel mondo situazioni del genere. Noi, in Italia, restiamo molto colpiti quando uno dei nostri soldati resta ucciso in Afghanistan, ma quante sono le persone che vengono quotidianamente coinvolte nei bombardamenti, nei massacri, negli stupri? E di questo, purtroppo, la gran parte dei mass media tiene poco conto. Molti conflitti vengono ricondotti a situazioni di
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discriminazione religiosa. Quanto è rilevante il tema della libertà d religione nel prevenire le violazioni di massa dei diritti umani? Purtroppo quello della motivazione religiosa è spesso un pretesto che viene adottato per nascondere altri interessi e per inasprire gli scontri tra popoli che magari hanno convissuto pacificamente per secoli nella stessa terra. Oltre alle vicende che sono state evidenziate in questi giorni dai notiziari, pensiamo alla terribile vicenda del Medio Oriente dove per secoli popoli di fedi differenti hanno convissuto pacificamente, mentre ormai da 60 anni è un territorio che non conosce pace. Altrettanto vale per la Nigeria, dove gli scontri si stanno intensificando e le cui ragioni sono legate agli interessi per le ricchezze naturali di questi territori. Le conseguenze di tutto ciò si riversano sulle popolazioni che si trovano espulse, cacciate, violentate nei loro diritti umani. Quanto conta la responsabilità dei singoli governi in tutto ciò? Pensiamo alla tragedia che ultimamente stanno vivendo paesi come l’Algeria e la Tunisia, gli scontri che sono in atto sono legati a una situazione economica difficile, non a caso si parla di “rivolta del pane”. La fame, la disperazione e la mancanza di prospettiva delle classi più umili stanno facendo sì che paesi che fino a ora avevano garantito una certa
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stabilità interna vedono progressivamente erodersi le basi della convivenza. L’Algeria in particolare è da anni in una situazione di progressivo logoramento della stabilità sociale, con tensioni molto forti. Queste condizioni si trovano terreno fertile quando i governi che non riescono a rispondere alle esigenze della popolazione vedono come unica soluzione quella di ricorrere alle armi. Situazioni simili non si ricordavano più da molti anni nel Maghreb. Tuttavia il tema dei diritti negati riguarda anche gli Stati più “democratici”. Non a caso nel libro c’è un intero capitolo dedicato alle migrazioni e alla pratica dei respingimenti. Assolutamente sì, perché come conseguenza di tutte queste guerre dimenticate e di queste violenze sistematiche c’è inevitabilmente una spinta a muoversi, a fuggire, a cercare altrove delle condizioni di vita migliori. Milioni di persone si spostano da una parte all’altra del proprio paese, o valicano frontiere, attraversano mari e continenti per non rischiare di morire. E qui entra in gioco la responsabilità degli Stati più ricchi. Con la politica dei respingimenti indiscriminati i paesi che avrebbero la possibilità di ospitare, almeno in modo mirato, le persone che sono oggetto di persecuzione, di pericolo di vita, i profughi che fuggono da situazioni di pericolo, si trovano invece a perseguire una politica di chiusura. Quello che emerge dal libro è un fortissimo egoismo a livello internazionale. Come si è arrivati a questa degenerazione del sistema internazionale? Nel momento in cui si è pensato che uno squilibrio tra Nord e Sud del mondo potesse essere gestito e mantenuto si è fatto il più grosso errore della nostra storia contemporanea. Si credeva che le differenze e le disuguaglianze non avrebbero prodotto conseguenze sui nostri stili di vita. È così che ci siamo trasformati in una “fortezza”, senza renderci conto che le contraddizioni di questo mondo non possono g essere affrontate erigendo dei muri.. ■
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Religioni, curiosità e un po’ di storia di Silvio Mengotto
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uanto era alto Golia? Dove ci si può confessare on line? Dove è sepolto Adamo? «Chi cerca trova» l’ha detto Gesù... e centinaia di altre notizie che ognuno vorrebbe conoscere su Dio e la Chiesa e non si osa mai chiedere. Dagli strani costumi dei monaci che pregano sugli alberi al frate heavymetal, dai papi dei record a quelli deposti, assassinati, eletti tre volte... E poi ancora, il bancomat del Vaticano che parla latino, le curiosità della Bibbia, dei santi e delle loro molte reliquie, i misteri dei luoghi sacri. Il volto curioso del cristianesimo presentato con ironia e stile. Giorgio Nadali è autore di I monaci sugli alberi (San Paolo), testo che attira l’attenzione con garbo e ironia, aiutando ad apprendere argomenti non scontati né per forza banali. Ai ragazzi è invece dedicata una storia d’Italia molto particolare. C’era una volta... il Risorgimento (Effatà editrice) spiega ai bambini, con testi e molte fotografie, disegni, carte geografiche e mappe concettuali, l’Italia di Cavour e di Mazzini, quella del beato Cottolengo e di Garibaldi. Sempre di storia si occupa I padri dell’Europa. Alle radici dell’Ue (Libreria editrice vaticana), a cura di Cosimo Semeraro e promosso dal Pontificio comitato di scienze storiche, che racconta le vicende e l’europeismo di
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Monnet, Schuman, De Gasperi e Adenauer. Dopo Cent’anni da interisti, il giornalista Mauro Colombo pubblica L’ultimo dribbling del Balilla (editore Morellini). Due libri dai quali emerge la passione per la squadra neroazzurra che, dal collettivo, si focalizza poi sulla figura di Giuseppe Meazza. Il nuovo volume è il romanzo umano e sportivo del giocatore simbolo dell’Inter nel centenario della nascita. «Un profilo documentato e preciso dell’uomo e del calciatore Meazza, ma non si tratta della classica biografia, di stampo quasi enciclopedico – scrive nella prefazione Bruno Pizzul –. È qualcosa di diverso, di più diretto e coinvolgente». Colombo mostra soprattutto di amare il football, lo sport in sé; e dunque la lettura si può tranquillamente consigliare anche ai tifosi romanisti, juventini, milanisti o napoletani. Ancora tre titoli che si soffermano su fede, religione/religioni, e spiritualità. Il cardinale Carlo Maria Martini pubblica, con In Dialogo (Ac di Milano) Le virtù. Per dare il meglio di sé. Lo studioso Paolo Branca, islamista di fama, firma invece Guerra e pace nel corano (Edizioni Messaggero Padova). Infine Paola Dal Toso e Lucio Sembrano sono gli autori di Mio Signore e mio Dio. Meditazioni sul g< Risorto (Città nuova) ■
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L’arte aborigena a Nuoro
a Sardegna è la protagonista di un evento eccezionale. Dall’11 febbraio al 26 giugno è presentata la più completa esposizione sull’arte aborigena australiana al Museo d’arte di Nuoro: Dreamtime. Lo stupore dell’arte aborigena. L’esposizione si avvale delle massime collaborazioni istituzionali da parte italiana e australiana ed ha come “garante di qualità” il Koorie Heritage Trust, unico organismo riconosciuto a livello internazionale per la valorizzazione e lo studio delle culture aborigene. Secondo i curatori, quella che giunge in Sardegna è la più numerosa collezione di lavori aborigeni che abbia mai lasciato l’Australia, opere non rappresentative della solita tradizionale area del Western Desert, ma di un territorio vastissimo, da Victoria fino al Qeensland, provenienza che consente di mostrare le profonde differenze fra tribù che si riflettono sui loro manufatti. La mostra include artisti noti come Clifford Possum, Jhon e Luke Cummins, Trevor Turbo Brown, Craig Charles e artisti emergenti, che si stanno affermando nel panorama internazionale. «È una sorta di infanzia della storia – sottolinea Cristiana Collu – che avvicina il contemporaneo, il tempo presente alle nostre radici, con una forte spinta alla scoperta, alla creazione, alla invenzione, al rispetto, al riconoscimento e infine al senso di appartenenza ai luoghi che hanno plasmato e plasmano la nostra visione del mondo». La forza iconografica delle opere in mostra, la simbologia primitiva e arcaica, determinano una serie di analogie con la cultura sarda primigenia, archeologica, tradizionale e identitaria, creando un grande gioco g di rimandi e risonanze che ci riporta alle evidenze e ricchezze del territorio che abitiamo. L’ingresso è libero. ■
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paesaggio
Bologna: pittura e animali
Musei di zoologia e anatomia comparata dell’Università di Bologna si aprono a una mostra – visibile fino al 27 marzo – di arte contemporanea che indaga le relazioni tra la pittura e il mondo animale dal titolo Fisiologia del paesaggio. Juan Carlos Ceci, Fulvio Di Piazza. A partire dagli innumerevoli reperti qui conservati, che spaziano dagli uccelli impagliati a impalcature scheletriche di grande dimensione, le opere di Juan Carlos Ceci (Saragozza, 1967) e Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) si confrontano infatti con uno degli aspetti più interessanti della pittura: la sua organicità, il suo essere nel contempo produzione alta e disciplina che raccoglie i flussi ematici e umorali di chi instancabilmente la pratica. In maniera particolare il paesaggio, parola che accende la fantasia evocando l’intreccio di bellezze naturali e antropiche che caratterizzano quello che vediamo. Eppure il paesaggio non è solo l’ambiente che ci circonda, ma è soprattutto il risultato di storie e di idee, di funzioni e proiezioni che si stratificano: l’esito di un processo anatomico in cui numerosi elementi – come il colore dell’erba, l’umidità del terreno, il rumore del vento o l’odore della nebbia – hanno subìto modificazioni e processi che sono riconducibili alle esperienze fisiologiche. Le opere, allestite nelle teche e nelle vetrine, raccontano così le pieghe più intime di quel rapporto atavico che lega viscere, uomo e contesto naturale, in un addensarsi di suggestioni in cui il paesaggio oscilla tra malinconia, natura morta ed g effervescente invenzione cromatica. L’ingresso è libero. ■
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mostra
Viareggio ospita Garibaldi
na mostra intorno a un capolavoro. La propone fino al 13 marzo il Centro Matteucci per l’arte moderna di Viareggio. Il capolavoro è il celebrato Garibaldi a Palermo dipinto intono al 1860 da Giovanni Fattori. Il grande olio è una delle raffigurazioni più famose sul tema dell’epopea dei Mille e tra le più cinematografiche. Infatti registi come Blasetti e Visconti si sono rifatti alle inquadrature di Fattori e a questa specifica opera per grandi film, da 1860 a Senso a Il Gattopardo. La scelta dei curatori – Giuliano Matteucci, Francesca Panconi e Roberto Viale – non si è risolta in una semplice e scontata mostra sul Risorgimento, bensì in quello che, data l’unicità dell’opera, potrebbe esse definito un vero e proprio dossier storico-pittorico. Il Garibaldi è affiancato, nella mostra viareggina, da una serie di opere di Borrani, Buonamici, Bechi e dello stesso Fattori. Riscoperto alla metà del secolo scorso dopo anni di oblio, lo si può considerare punto cruciale della maturazione dell’artista. Incentrato su uno degli episodi cruenti della campagna di Garibaldi in Sicilia, al di là di ogni retorica, documenta il momento in cui le truppe con le camicie rosse sono impegnate il 27 maggio negli scontri g all’ingresso di Palermo. Per info: 0584 430614. ■
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Il volontariato e il balletto delle cifre iochiamo a scarica barile? Non so se questo gioco sia divertente, ma so che ha tenuto impegnate la maggior parte delle nostre amministrazioni, dei governi europei e non, delle istituzioni e delle aziende nell’Anno Europeo della lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Speriamo che il gioco cambi in questo 2011, Anno europeo del volontariato, o, più correttamente, Anno europeo delle attività di volontariato che promuovono la cittadinanza attiva: dizione lunga e complicata, ma che forse si giustifica con la difficoltà a definire il volontariato, che nei diversi paesi del conUn fatto su cui i dati tinente assume forme e ha concordano è che regolamentazioni legislative volontariato e terzo diverse. settore riscuotono La difficoltà, peraltro, è prefiducia: si fidano di sente anche in Italia, basta esso (più che delle istituzioni, delle forze guardare il balletto delle cifre sparate tra 2009 e 2010. dell’ordine e della Secondo l’Istat, la partecipapolitica) il 73% degli zione sociale è calata nel italiani secondo 2008, con una ripresa solo Eurobarometro, l’82% parziale nel 2009. Secondo il secondo Eurispes Coordinamento dei centri di servizio per il volontariato, le organizzazioni sono raddoppiate, passando dalle 21mila del 2.005 alle 42mila attuali. Il Rapporto Eurispes 2010 sostiene che i volontari nelle organizzazioni sono circa 1.100.000, cui si aggiungono i 4 milioni di volontari che operano individualmente o in altri enti e in modo non continuativo. Astra Ricerche dice che negli ultimi tre anni ci sarebbe stato un calo dei volontari del 10% (del 19% negli ultimi otto): in cifre assolute sono passati da 7,2 milioni nel 2002 a 5,8 milioni nel 2010. I casi sono due: o gli istituti di ricerca sono come me (cioè non ci capiscono niente di numeri), oppure ognuno ha una propria idea di volontariato. Chi inve-
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ce sembra averne un’idea omogenea sono i politici e gli amministratori, la maggior parte dei quali hanno capito che: ● il volontariato è utile perché, mentre le povertà crescono ma si taglia sul welfare e sulla sanità, esso tappa qualche buco e contribuisce a tenere bassa la tensione sociale; ● è meglio che il volontariato rimanga un utile idiota, senza riconoscimento culturale né “politico”, perché, se gli dai la parola, comincia a criticare e si mette in testa di cambiare il mondo; ● siccome i volontari sono buoni (nel senso popolare di “un po’ fessi”), si può fare a meno di dare loro sostegni degni di questo nome, tanto finisce che le cose le fanno lo stesso, perché mica possono lasciare i poveracci per strada, no? ● i pochi spiccioli che sono rimasti a disposizione, è meglio darli a quelle organizzazioni che fanno parte della propria filiera politica (non va più di moda dire “clientelismo”). Infatti nel 2010 sono stati dimezzati i fondi per il servizio civile, sono state abolite le agevolazioni postali per il no profit, è stato frantumato il 5 per mille (prima sceso al 25%, e ora, forse, risalito al 75%), sono diminuiti i fondi a disposizione dei Centri di servizio. In compenso, sono aumentati gli adempimenti burocratici e amministrativi, che a volte portano via alle piccole associazioni più tempo ed energie di quelle impegnate nell’aiuto agli altri. Un fatto su cui i dati concordano è che volontariato e terzo settore riscuotono fiducia: si fida di esso (più che delle istituzioni, delle forze dell’ordine e della politica) il 73% degli italiani secondo Eurobarometro, l’82% secondo Eurispes. Alla fiducia corrispondono alte aspettative: da una ricerca svolta dal Censis nel Lazio, risulta che i cittadini si aspettano persino che il volontariato riesca a rendere un po’ più trasparenti le amministrazioni e le istituzioni. Un po’ g troppo, forse. ■
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spazio aperto
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■ Sì al risparmio energetico Egregio direttore, a nome mio e dell’Amministrazione che rappresento sono a ringraziarla per l’articolo apparso sul mensile Segno in merito al concorso “Comuni virtuosi 2010”, firmato da Alessandra Gaetani. La partecipazione al concorso e il riconoscimento della menzione speciale al nostro progetto “Specchi lineari” ci inorgoglisce e ci spinge a continuare sulla strada del risparmio energetico e la tutela g dell’ambiente e del territorio. ■
Isabella De Monte, sindaco di Pontebba (Udine)
■ Giustizia e misericordia
■ Far festa suonando
Carissimo Segno, ho avuto modo di leggere il numero del mese di gennaio con il servizio sulle carceri e sui volontari che vi operano. L’ho trovato ben fatto ed equilibrato, nonostante trattasse un tema molto, molto delicato. Io ho alle spalle una sofferenza grande a questo riguardo e mi permetto solo di ricordare che bisognerebbe guardare ai carcerati oltre che con gli occhi della giustizia, affidata ai Tribunali, anche con gli g occhi della misericordia. ■
Ridendo e scherzando ci siamo accorti che oramai sono trent’anni che tra altri e bassi suoniamo insieme! Prima di tutto il nome, “Happy Band” - “Felice Gruppo”, nato in parrocchia molti anni fa da un piccolo gruppo di giovani “all’ombra del campanile”, ha segnato sempre il nostro cammino. Questo è stato negli anni il denominatore comune del nostro stare insieme. La cosa importante è stato quello di suonare e far felici chi ci ascoltava, con la nostra musica e con il nostro stare sul palco. Ognuno di noi porta nel cuore i tanti bei momenti vissuti: dalle prove fatte nei sotterranei della parrocchia alle performance qua e là nei paesi fra una festa e l’altra. [...] Penso che esprimere la propria gioia con la musica sia una delle cose più belle che il Signore potesse dare agli uomini ed è per questo che ringraziamo il Signore di averci accompagnato e sostenuto in questo tempo. [...] Anche noi nel nostro piccolo siamo una piccola luce e una testimonianza. Il risultato di questo nostro stare insieme deve essere un’armonia: di suoni, balli, caratteri, emozioni, originalità, voglia di stare insieme, delicag tezze,che è contagiosa! [...]. ■ Matteo Buratti, Cesena
Emma, madre e insegnante
Questa volta ringrazio Giovanni Pirrera, lettore di Agrigento, che segnala l’opportunità di canonizzare la figura di Alcide De Gasperi, che definisce «politico e statista onesto e cristallino al 100%». Ugualmente ringrazio l’Azione cattolica della diocesi di Saluzzo per aver condiviso con la redazione di Segno la pubblicazione intitolata Protagonisti. Aurelio F., di Casamassima, segnala che «il problema del lavoro dei giovani è il primo da mettere nell’agenda della politica italiana». Aurora Croci (se leggo bene il cognome), indica invece nella figura di madre Teresa di Calcutta un esempio di fede e di amore per l’umanità «che ogni donna e uomo del nostro tempo dovrebbe tener presente nella vita di ogni giorno». Sulla vicenda degli accordi stipulati e poi disattesi dal Comune di Milano per sistemare le famiglie presenti nel campo Triboniano in alcuni alloggi pubblici, i presidenti di quattro realtà ambrosiane hanno scritto una nota congiunta, di grande interesse, che si conclude così: «Sollecitiamo soluzioni rispettose della legalità e non condizionate da esigenze elettorali che spingono purtroppo verso prese di distanza da un gruppo marginale come quello dei rom. Invitiamo le istituzioni a svolger fino in fondo la loro parte come rappresentanti degli interessi comuni ed esprimiamo stima e condivisione a chi, a nome anche di una città distratta, sta lavorando a favore di accordi rispettosi della legge e delle persone coinvolte». I firmatari sono: Valentina Soncini, presidente Azione cattolica ambrosiana; Gianni Bottalico, presidente Acli Milano, Monza e Brianza; Marco Garzonio, presidente Fondazione Ambrosianeum; Elisabetta Cambieri, presidente Gruppo promozione donna. [g.b.]
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■ C’è di più: fantastico!
Carissimi amici dell’Ac, il 30 ottobre a Roma è stato fantastico. Il viaggio da Padova è stato un po’ lungo, la giornata intensa, la fatica anche. Ma è stato tutto bello: i colori, gli amici, le parole del Papa, gli insegnamenti del presidente e del nostro vescovo. g [...] Grazie a tutti. ■ Marta, seconda liceo
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Il fascino di Sant’Egidio mmersa nel verde del monte Canto, in un’atmosfera che sembra rimandare all’epoca delle origini, se non fosse per le rare automobili che si incontrano, sorge da quasi mille anni il priorato di Sant’Egidio di Fontanella, uno degli esempi più importanti del romanico bergamasco. Sant’Egidio è uno dei pochi casi di cui si conoscono la data di fondazione e il nome del suo fondatore. Tutto ha inizio il 13 gennaio 1080, quando Alberto da Prezzate, all’epoca non ancora monaco, per provvedere al bene dell’anima sua e dei familiari Teiperga, Isengarde e Giovanni, decise di lasciare una parte dei propri averi, per la fondazione di un nuovo monastero, inserendolo nella rete delle abbazie cluniacensi, il movimento di riforma benedettina, nato in Borgogna nel 909, che in meno di una ventina dalla nascita aveva scavalcato le Alpi ed era giunto anche in Italia. Alberto, appartenente a una ricca famiglia di origine longobarda, aveva già dato vita l’8 novembre 1076 alla vicina abbazia di San Giacomo di Pontida e ora, dopo questa nuova fondazione, aveva maturato anche la decisione di seguire personalmente la regola di San Benedetto, entrando a far parte dell’ordine cluniacense, sotto la guida di Ugo di Cluny. Alberto, ormai abate, manterrà fino alla morte, avvenuta nel 1095, un occhio di riguardo nei confronti del priorato di Sant’Egidio. Grazie alla felice situazione economica, favorita Nella sua severità e semplicità, il priorato dalla costante donazione di beni e di terreni, la comunità monastica già nel di Sant’Egidio di 1130 poteva avviare importanti lavori di Fontanella appare al visitatore per quello ampliamento della struttura primitiva. Con la seconda metà del XIII secolo iniche è: un luogo ziava però un declino inesorabile per il “dell’anima” dove possibile cenobio, favorito anche dalla cattiva ancora oggi è respirare il soffio dello condotta morale del priore Gerardo da Mapello, il quale – protagonista dei pegspirito di Giovanni giori intrighi medievali – aveva fatto XXIII e di padre uccidere il priore di Pontida, Bonifacio David Maria Turoldo di Paolo Mira
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della Torre, per essere a sua volta assassinato per vendetta nel 1289. Iniziavano così decenni di alterne fortune per Sant’Egidio, caratterizzati dall’abbattimento di parte delle strutture monastiche, alla loro ricostruzione, dal trasferimento dei monaci in luoghi più sicuri, alla nomina di un abate commendatario, dal passaggio del territorio sotto il dominio veneziano, fino ad arrivare, il 12 aprile 1473, alla decisione di papa Sisto IV di annettere il beneficio di Sant’Egidio alla basilica di San Marco di Venezia, decretandone così la fine dell’autonomia. Bisognerà attendere la metà del Seicento perché Sant’Egidio potesse in qualche modo “risollevare la testa”, diventando parrocchia, ruolo che mantenne fino al 1930, con la costruzione più a valle, in località Piana, di una nuova chiesa. Solo a partire dagli anni Cinquanta, grazie all’interessamento del futuro papa Giovanni XXIII, che a Sant’Egidio fu sempre profondamente legato, furono avviati importanti interventi di restauro, seguiti nel 1964 dall’arrivo di una comunità religiosa – l’Ordine dei Servi di Maria – guidata da padre David Maria Turoldo, celebre poeta e protagonista della Chiesa del Novecento, che subito diede vita al “Centro di studi ecumenici Giovanni XXIII” e,
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Nelle foto: immagini del Priorato di Sant’Egidio di Fontanella. Sopra, la tomba di padre David Maria Turoldo
due anni più tardi, a una sede per incontri e ospitalità, denominata “Casa di Emmaus”. Anni di intensa attività, che prosegue anche oggi nel solco tracciato dal fondatore, scomparso nel 1992, che ha voluto essere sepolto in un’umilissima tomba del piccolo
cimitero locale. A partire dal 1998 il complesso di Sant’Egidio è stato sottoposto a un nuovo e un generale intervento conservativo, che ha portato alla riapertura della chiesa abbaziale nel 2001. Oggi la struttura appare, nella sua severità e semplicità, che certamente discorda da quella che doveva essere la ricca ornamentazione di un tempo, quando il priorato fungeva da baluardo cluniacense in terra lombarda; tuttavia ciò che colpisce il visitatore è la capacità di questo luogo di comunicare l’antico fascino delle origini. La struttura a tre navate, che si conclude con altrettante absidi, è sovrastata dalla massiccia torre nolare a base quadrata, tipica delle architetture cluniacensi. All’interno della chiesa, nelle navate laterali, separate dalla maggiore per mezzo di colonne con capitelli scolpiti, è ancora leggibile una teoria di santi dipinta in epoche differenti, ma riconducibile al XV e XVI secolo, che sembra voglia accompagnare lo sguardo verso il catino absidale, dove domina un grande Cristo Pantocratore circondato dai simboli degli Evangelisti. Due ultime note di colore riguardano la grande arca in pietra, posta sul sagrato, che la tradizione identifica con la sepoltura dell’antipapa Vittore IV e, sul fianco destro della chiesa, il bel sarcofago di Teiperga, sorella o comunque esponente della famiglia di Alberto da Prezzate che, oltre a essere considerata “fondatrice” dell’abbazia, per lungo tempo si è voluta erroneamente identificare con la regina Theotberga, g la moglie ripudiata di Lotario II re di Lotaringia. ■
Come arrivare a Sant’Egidio di Fontanella l priorato di Sant’Egidio di Fontanella sorge nel Comune di Sotto il Monte – Giovanni XXIII (Bergamo) ed è facilmente raggiungibile utilizzando l’autostrada A4 TorinoVenezia, uscendo al casello di Capriate San Gervasio. Alla rotonda imboccare la seconda strada a destra in direzione Calusco d’Adda; percorsi circa 12 km, alla rotonda di Calusco prendere la seconda strada a destra seguendo le indicazioni per Sotto il Monte, che dista solo 4 km. All’ingresso del paese natale di papa Roncalli, seguire sulla destra le indicazioni - la strada non è molto ampia - per la salita a Fontanella. L’abbazia è aperta tutti i giorni dalle 9 alle 18 (in estate fino alle 19). Per maggiori informazioni: www.priorato-santegidio.it. Tornando a Sotto il Monte vale la pena una visita ai luoghi giovannei: in particolare la casa natale di papa Roncalli e il museo di Ca’ Maitino.
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SegnoPer, focus sull’educatore di Fabiana Martini
arà l’educare il tema centrale, il fil rouge, il leitmotiv che anche in questo 2011 appena cominciato caratterizzerà le pagine di SegnoPer. E potrebbe forse essere diversamente, considerando i ripetuti inviti di Benedetto XVI, che ritiene quella da lui definita una vera e propria «emergenza educativa» una grande e ineludibile sfida per tutti gli uomini del nostro tempo e per i credenti in particolare? E potrebbe forse essere diversamente all’inizio di un decennio che la Chiesa italiana ha voluto dedicare all’«arte delicata e sublime dell’educazione»? E potrebbe forse essere diversamente in un’associazione, quale l’Azione cattolica, che questo tema ce l’ha nel dna e la cui lunga tradizione è tutta contraddistinta dall’attenzione alla persona e alla sua crescita cristiana? E potrebbe forse essere diversamente in un tempo in cui è venuta meno la fiducia nell’educare, la convinzione profonda che è possibile e necessario indicare ai più giovani la strada, trasmettere senso e valori da una generazione all’altra, condividere quella Buona Notizia che ha cambiato la nostra vita? E potrebbe forse essere diversamente Il bimestrale all’interno di una rivista rivolta in primo per i responsabili luogo e principalmente ai formatori? dell’Azione cattolica Una rivista che quest’anno, in ragione dei dal 2011 passa dalla non superati problemi connessi all’aucarta stampata a mento delle tariffe per la spedizione internet. Sarà così a postale, sarà pubblicata solo on line, ma disposizione di tutta l’associazione e potrà proprio per questo sarà ancora più accessibile anche ai non “addetti ai lavodiventare strumento ri” (ammesso che ci sia qualcuno che può di crescita, di studio, dirsi tale in un campo come quello dell’edi confronto. ducazione che – sono parole del nostro Segno ne rilancerà presidente, Franco Miano – è una vera e i contenuti, spiegati propria «impresa comunitaria che passa in questo numero per uno scambio affettuoso tra generadalla coordinatrice zioni») e potrà diventare un luogo di condi redazione
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fronto e di dibattito. E c’è un grandissimo bisogno di parlare di queste cose: basti pensare a come fioccano dal Nord al Sud e dall’Est all’Ovest del nostro paese le scuole per genitori, chiaro segnale della percezione di un’inadeguatezza a svolgere un compito che una volta era considerato naturale, quasi istintivo. Saranno pertanto benvenuti, come del resto lo sono sempre stati, ma con un’attenzione maggiore a favorirli e a stimolarli in un’apposita rubrica, tutti i contributi, le richieste di approfondimento, le sottolineature, le osservazioni che i lettori vorranno muovere su questo tema e più in generale su tutti gli argomenti affrontati da SegnoPer. Intervenite, dunque, non esitate a prendere la penna in mano, meglio ad accendere il computer e a mettere nero su bianco pensieri, dubbi, fatiche, problemi che ogni giorno affollano il vostro servizio di educatori o semplicemente la vostra vita di uomini e di donne consapevoli che la propria opera non è volta unicamente al versante intraecclesiale, ma si pone al servizio dell’integralità della persona. Queste le attenzioni che la redazione si è proposta di coltivare nel continuare a parlare di educazione: - rimettere al centro la persona e la relazione educativa, precisando che persona abbiamo in mente e che cosa vuol dire educare rispetto a questa concezione della persona, coscienti che – come scrive Franco Miano in Chi ama educa (edizioni Ave) – «l’educazione non può limitarsi alla trasmissione di “nozioni” attraverso tecniche che mettano in campo delle, sia pur necessarie, competenze psico-pedagogiche. L’educazione è, prima di tutto e fondamentalmente, una scelta di speranza che investe sulla libertà della persona, una scelta operata da testimoni e maestri capaci di scorgere in ogni essere umano la scintilla di Dio. In tal senso è una risposta del cuore animata da una profonda passione per l’uomo»;
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In alto: le ultime copertine di SegnoPer
- alimentare la speranza, in un tempo che non sembra capace di offrire orizzonti di futuro, ma si limita a gestire le paure: come afferma il Papa e come ci ricordano i nostri vescovi, «“anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile”. La sua sorgente è Cristo risuscitato da morte. Dalla fede in lui nasce una grande speranza per l’uomo, per la sua vita, per la sua capacità di amare»; - raccontare ciò che non cambia (ovvero ciò che resta) in un mondo che cambia: prendendo in prestito uno slogan del settore Giovani di qualche anno fa, esplorare le proprie radici per riuscire a spiegare le ali dell’evangelizzazione del terzo millennio cristiano; - superare il lessico dell’emergenza per provare a ridire il nostro vocabolario educativo abbeverandoci alle fonti associative; - lasciarsi interpellare dalle trasformazioni avvenute nella società, in particolare da quelle avvenute nel mondo della comunicazione, dimensione dotata di un valore essenziale per l’educazione: il ruolo dei processi mediatici nei processi educativi – scrivono i nostri vescovi in Educare alla vita buona del Vangelo – è sempre più rilevante. Un obiettivo da raggiungere sarà dunque quello di educare alla conoscenza di questi mezzi e dei loro linguaggi e a una più diffusa competenza quanto al loro uso. In un tempo in cui Twitter e Facebook hanno sostituito caffelatte e biscotti, tanto per sottolineare come tutta la giornata
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sin dal suo inizio sia caratterizzata da questa simbiosi con la tecnologia digitale, questo è un aspetto che non si può trascurare o approcciare con superficialità; - offrire agli educatori spazi e strumenti per la loro formazione spirituale, perché con il nostro presidente «ci sembra di poter dire che agli educatori va chiesta prima di tutto una intensa cura della propria vita spirituale, la disponibilità a percorrere essi stessi un cammino di formazione permanente, l’impegno per la propria crescita umana, per poter diventare cristiani e cittadini appassionati di Dio, del mondo e dell’uomo». Ma su SegnoPer (il primo numero del 2011 sarà in rete da febbraio, nel sito associativo www.azionecattolica.it) ci sarà spazio anche per approfondire la dimensione internazionale dell’Ac, che significa in primo luogo educare alla dimensione cattolica della Chiesa; per conoscere la storia e la mission dei nostri Istituti e del Centro studi; per prepararci a vivere con consapevolezza la prossima Assemblea nazionale di maggio. E continuerà naturalmente il Filodiretto del presidente e dell’assistente con tutti i lettori. Gli argomenti dunque non mancano, le parole per dirli nemmeno, gli strumenti per diffonderli ancor meno: non ci resta che augurarci buon cammino, sperando che quanto sapremo condividere non ci g lasci uguali e ci aiuti veramente a crescere. ■
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C’è di + nelle riviste dei più piccoli di Claudio Di Perna
n occasione dell’incontro nazionale del 30 ottobre scorso C’è di +. Diventiamo grandi insieme, l’Azione cattolica ha presentato i nuovi progetti grafici delle riviste dei piccoli soci: bambini, ragazzi e giovanissimi. Tutti avremo avuto certamente l’occasione di sfogliare La Giostra, Foglie, Ragazzi e Graffiti. Sicuramente avrete notato che due di queste riviste si sono completamente “rifatte il trucco” e hanno indossato un abito “nuovo”: si tratta di Foglie e Ragazzi! Un percorso durato diversi mesi ha accompagnato le redazioni che, supportate dalla presidenza nazionale e dalla Fondazione Apostolicam actuositatem, si sono confrontate con pedagogisti ed esperti della letteratura per l’infanzia dando vita a nuove idee di comunicazione per i bambini e per i ragazzi a partire dalla nuova suddivisione dei target di riferimento delle riviste stesse. Questo rinnovamento è pienamente inserito nei lineamenti che i nostri vescovi ci hanno affidato per il prossimo decennio, interamente dedicato al tema dell’educazione, attraverso gli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona Un cambiamento del Vangelo. L’associazione, infatti, da grafico per Foglie e Ragazzi. Per essere al sempre ha investito sull’educazione mediante la promozione della stampa passo con i tempi e associativa e quest’anno in particolar “colorare” ancora la vita dei giovani lettori modo vogliamo cogliere la sfida dei
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vescovi ristrutturando le nostre riviste: riorganizzando colori, linguaggi e grafica, così da arrivare a più bambini e ragazzi possibile e, se pure essi non fossero ancora iscritti all’Ac, non sarà un problema! Accompagneremo anche i numerosissimi simpatizzanti in un cammino di crescita umana e spirituale, diventando grandi insieme e... chissà che non diventeranno anche soci. Le riviste sono curate da giovani e adulti innamorati dell’Ac e appassionati di comunicazione che, insieme a un gruppo di esperti nel settore della comunicazione per l’infanzia (illustratori, sceneggiatori, pedagogisti, insegnanti, educatori), elaboreranno le riviste che quasi ogni mese (da quest’anno i numeri saranno 8 e non più 10 a causa dei tagli ministeriali al contributo di spedizione, come già accennato su Segno) arrivano nelle case dei numerosi soci ma non solo. Sono infatti tantissime le scuole che hanno deciso di abbonarsi, così come tante parrocchie acquistano numerose copie per promuovere l’educazione e la formazione dei più piccoli nelle proprie comunità. Quest’anno le riviste Ragazzi e Graffiti si sono aggiudicate il premio nazionale di miglior giornalino per ragazzi dai 12 ai 17 anni “Città di Chiavari”. Non è la prima volta che le riviste dell’Ac si aggiudicano questo premio, già lo scorso anno Foglie e La Giostra si erano classificate ai primi posti come migliori giorg nalini per bambini dai 3 ai 10 anni. ■
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Nella terra di Gesù ono da poco tornati dalla Terra Santa. Stanchi, ma felici. Dal 28 dicembre scorso al 5 gennaio del nuovo anno, infatti, 50 rappresentanti di Ac di quasi tutte le regioni italiane insieme ad alcuni membri della Presidenza nazionale e ad alcuni consiglieri nazionali e collaboratori degli uffici centrali dell’associazione sono di nuovo approdati nella terra di Gesù. Non è una novità, questa del pellegrinaggio di fine anno. Sta diventando ormai una consuetudine. C’è da sempre un rapporto di prossimità che unisce l’Azione cattolica alla Terra Santa, secondo lo stile di un incontro che riguarda non solo i luoghi santi e le tracce della presenza storica di Gesù in questa terra, ma le “pietre vive” di una comunità cristiana che in modo particolare – negli ultimi tempi – chiede la vicinanza spirituale e fisica dei fratelli di fede. Un pellegrinaggio che ha avuto l’eco del martirio della Chiesa copta in Egitto. «Abbiamo sentito molto questo grave fatto e pregato per le vittime e per i feriti insieme a Sua Beatitudine mons. Fouad Twal, Patriarca della Chiesa latina, con il quale abbiamo celebrato la Giornata mondiale della Pace – così mons. Domenico Sigalini, Assistente ecclesiastico generale dell’Ac, che sottolinea –: Questo nostro pellegrinaggio, il nostro aver incontrato i rappresentati delle molte realtà di Chiesa cristiana Nella foto: l’incantevole presenti in Terra Santa, e con loro ebrei e musulmani, scenario del Deserto di Giuda vuole dire che la strada del dialogo in nome in Terra Santa dell’unico padre è da intraprendere con nuovo slancio. Pur nel rispetto delle Si è appena concluso proprie identità di Chiesa e di fede, il pellegrinaggio dobbiamo tutti impegnarci a cercare la via dell’Ac in Terra Santa. dell’incontro e della convivenza pacifica. Un’occasione per far Nella convinzione che la libertà religiosa è sentire la vicinanza di tutta l’associazione la prima delle libertà di ogni uomo; la sua ai fratelli di fede che assenza, il suo mancato rispetto, come ci vivono, in quelle terre, ricorda papa Benedetto XVI, “offende Dio e l’umanità intera”». momenti non facili
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Nel corso dei 9 giorni di pellegrinaggio, alla visita dei luoghi santi di Betlemme, Gerusalemme, Nazareth si sono alternati gli incontri con i responsabili della Chiesa locale – il Patriarca della Chiesa latina, Sua Beatitudine Fouad Twal; i suoi vicari mons. William Shomali e padre David Neuhaus, vicario patriarcale per le comunità cattoliche di espressione ebraica; il Custode di Terra Santa, fra Giambattista Pizzaballa; mons Giacinto-Boulos Marcuzzo, vescovo ausiliare e vicario Patriarcale per Israele – e quelli con le esperienze in prima linea nel sostegno alle necessità
della popolazione (il Caritas Baby Hospital di Betlemme, l’asilo delle suore comboniane di Betania, le scuole francescane di Gerico). Inoltre è stata consegnata all’Ac di Betlemme la somma raccolta dai ragazzi dell’Acr lo scorso mese della Pace per il restauro della sala cinematografica del Catholic action centre di Betlemme, né è mancata una sosta “contemplativa” all’eremo dei Piccoli fratelli di Jesus Caritas a Nazareth. Un viaggio di fede e di condivisione, allietato dalla simpatia e competenza di frate Oscar Mario Marzo, la g guida francescana che ha fatto “parlare le pietre”. ■
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Ieri e domani
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Diario di un prigioniero cattolico tto settembre 1943: l’Italia firma l’armistizio. Su questo giorno, e su quello che successe dopo, negli ultimi tempi gran parte della storiografia e della pubblicistica del nostro paese, insieme a un interesse specifico proveniente dal campo della musica e della filmografia, hanno dedicato riflessioni e attenzioni, tesi al recupero di una memoria Un libro, una storia e una data: storica che è patrimonio l’8 settembre 1943. E un nome: comune di tutto il popolo italiano. In questo senso appaGiovanni Ostinelli, comasco, re pregevole la pubblicazione cresciuto nella Fuci e nell’Ac. del Diario della mia prigionia Uno dei tanti soldati italiani deportati nei lager nazisti che (1943-1945) di Giovanni Ostinelli, a cura di Giorgio ha lasciato una traccia Vecchio ed edito da Studium. personale nella storia
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RICORDANDO MARCELLO TORRE
«SIATE DEGNI DEL MIO SACRIFICO E DEL MIO IMPEGNO CIVILE» arissimi, ho intrapreso una battaglia politica assai difficile. Temo per la mia vita… Conoscete i valori della mia precedente esperienza politica. Torno nella lotta soltanto per un nuovo progetto di vita a Pagani. Non ho alcun interesse personale. Sogno una Pagani civile e libera. Ponete a disposizione degli inquirenti tutto il mio studio. Non ho niente da nascondere. Siate sempre degni del mio sacrificio e del mio impegno civile. Rispettatevi e amatevi. Non debbo dirvi altro». Le parole di Marcello Torre parlano da sole. In questa lettera-testamento che il sindaco di Pagani, cittadina in provincia di Salerno, destinò alla famiglia c’è tutto il valore di un’esistenza spesa per difendere il bene comune e una concezione “alta” della democrazia. Marcello Torre fu ucciso dalla camorra l’11 dicembre 1980 perché aveva contribuito, con la sua amministrazione comunale, a gestire l’emergenza dopo-terremoto in Campania con lealtà e correttezza. La camorra di Raffaele Cutolo non gli perdonò questo atteggiamento. Ma lui sapeva di stare su una poltrona che scottava. Formatosi nelle file dell’Azione cattolica, della quale fu anche dirigente, poi della Fuci, e infine entrato nella Dc, fu penalista rigoroso e grande amico di Aldo Moro, altro martire della buona politica e anche lui interprete di una fase politica nuova. Nel 1982 nacque in sua memoria la prima associazione anti-crimine in Campania. L’associazione “Marcello Torre”, insieme a Libera, a don Ciotti e a tutte le altre vittime di mafia, sono oggi una delle realtà presenti nel territorio che svolgono un’attività di informazione e di vigilanza su una coscienza collettiva, specie nel Meridione, messa a tacere da criminalità e mafia. Una speranza e una lezione di vita, quella del sindaco di Pagani, che a distanza di trent’anni porge ancora a tutti noi la sua attuale carica profetica.
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Nelle pagine del diario, inedite, di uno dei circa 615mila militari italiani deportati dai tedeschi dopo l’8 settembre che hanno preferito restare nei lager piuttosto che mettersi al servizio del nazismo, c’è la storia di un’intera generazione di giovani che dovette “crescere in fretta” e che maturarono, proprio in quelle condizioni di estremo disagio fisico e spirituale, una coscienza civile e un’etica cristiana per far rinascere l’Italia post-bellica. Giovanni Ostinelli viene internato in un lager destinato alla truppa, e già questo rende particolare il valore storico del suo diario. Infatti, gran parte dei diari fin qui pubblicati riflette l’esperienza degli ufficiali che avevano in dote un curriculum di studi migliore rispetto ai soldati semplici. È cattolico, formatosi alla Fuci, di cui fu presidente a Como, e nell’Azione cattolica. Nelle pagine del suo diario si ritrovano tutti gli elementi di quei giorni: la sorpresa e l’incertezza dell’armistizio, la deportazione, il soggiorno nel lager di Markt-Pongau, il disprezzo delle guardie ma anche l’aiuto che venne da alcune di loro, il lavoro obbligatorio, e poi ancora la riduzione a lavoratore civile al termine della guerra. Emergono però dal suo racconto la forza nel resistere, l’affidamento alla fede e alla preghiera, l’idea che il futuro sarà migliore. Una storia densa e sobria, che descrive dolore e speranza. E che andrebbe riscoperta come quelle di tante altre storie nascoste agli occhi dei media, che spesso preferiscono la polemica del momento al recupero della memoria. Un anonimo soldato italiano, amante della pace e della patria, un cattolico, come numerosi altri, che ha dato tanto durante la guerra e dopo. Infine, un libro da leggere e meditare. g E da raccontare ai più giovani ■ (giadis)
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perché credere
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2/Il desiderio
Maestro
dove abiti?
lle quattro del pomeriggio, l’ora decima, l’ora x, due discepoli di Giovanni lasciano la sponda del fiume Giordano per seguire, anzi rincorrere alle spalle Gesù, appena riconosciuto dal Battista come l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Uno di questi è Andrea, mentre l’altro resta rigorosamente anonino, senza volto, per questo ciascuno di noi può rispecchiarsi e ritrovarsi in lui. Secondo la finissima arte narrativa del quarto evangelista il racconto scorre su due piani: quello dei fatti concreti e l’altro, non sovrapposto, ma trasparente dei significati. Le prime battute del Vangelo di Gesù all’inizio del suo ministero pubblico, (Gv 1,35-51) sono sulla lunghezza d’onda di quanti gli Il Risorto rivolto alla Maddalena vanno dietro sulla strada e si sentono interpellati per dirà: «chi cerchi?». Cercare la prima volta dal volto esprime un desiderio ardente umano di Dio che si gira che non si spegne durante sentendosi inseguito e il cammino di sequela; è una passione, uno slancio che Gesù chiede: «Che cosa cercate?». Queste prime parole riconosce, talvolta risveglia inaugurano il cammino di e suscita, ma sottopone discepolato di donne e a interrogativi esigenti: perché mi vieni dietro?, che cosa uomini attratti, afferrati attendi da me oltre la curiosità? dalla persona del Figlio unico del Padre, venuto in Ponendo domande Gesù dà inizio a un colloquio, attraverso mezzo a noi nella povertà disarmante e commovente cui intende favorire la di Gesù di Nazareth. consapevolezza e l’esercizio L’incontro personale e gioioso della libertà. progressivo con Gesù ha La seconda tappa del percorso nel Vangelo di Giovanni spirituale di quest’anno una marcata impronta è affidata all’assistente antropologica fin nelle sfunazionale per il settore Adulti
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mature più profonde che si manifestano a livello relazionale, accompagnata da una forte dimensione ecclesiale. Nel passo frettoloso, ancora carico di emozione dopo essere stati con il Battista, primo testimone di Gesù come Messia, per Andrea e l’altro discepolo diventa spontanea la risposta alla domanda “che cosa cercate?”: «Maestro dove dimori?», possiamo venire a casa tua? Di qui l’invito ad andare e vedere per dimorare presso di lui tutto quel giorno. Più tardi in un’altra dimora, il cenacolo, il Maestro userà l’espressione calda, colma di intimità: «Dimorate in me» (14,20) delineando così il tratto e il tracciato del discepolo nel passaggio pasquale dal “dimorare presso” al “dimorare in”. Gesù non è un maestro che resta esterno al discepolo, non è riducibile a un modello perfetto difficile da imitare, ma è una persona che vive in ciascuno: «Per me vivere è Cristo e io vivo in lui» (Galati 2,20; Filippesi 1,21), ci direbbe l’apostolo Paolo. Ripreso il fiato dal lampo di quegli occhi di Gesù che suscitano la domanda, Andrea corre dal fratello Pietro con la velocità anticipata del mattino di Pasqua per dirgli d’aver trovato il Messia. In questo caso Andrea passa la parola e scatta una reazione a catena, il vissuto, la testimonianza diventa buona notizia, vangelo, chiamata. Ognuno con la sua faccia, con la sua storia, identificati e riconosciuti, tutti insieme siamo così chiamati a raccontare con una vita cambiata che abbiamo incontrato il Signore. Tutta la trama del Vangelo si snoda attorno a questo dinamismo, cercare mossi da un desiderio, vedere e abitare conquistati da una presenza e infine raccontare spinti da una testimonianza vissuta. La conclusione sarà come l’inizio: il Risorto rivolto alla Maddalena dirà: «chi cerchi?». Cercare esprime
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Nella foto: il lago di Tiberiade in Terra Santa
un desiderio ardente che non si spegne durante il cammino di sequela; è una passione, uno slancio che Gesù riconosce, talvolta risveglia e suscita, ma sottopone a interrogativi esigenti: perché mi vieni dietro?, che cosa attendi da me oltre la curiosità? Dicendo che cosa cercate e provocando la prima di una serie di risposte: Maestro dove abiti?, Gesù dà inizio non a un insegnamento, ma a un colloquio, attraverso cui intende favorire la consapevolezza e l’esercizio gioioso della libertà. La difficoltà di farlo a volte sta nella pretesa di sapere già tutto. Potrebbe essere il caso di Natanaele che resiste all’invito – testimonianza di Filippo, prigioniero della sua cultura religiosa autosufficiente, non aperta al mistero e alla ricerca. Ecco perché anche oggi come affermava S. Gregorio Magno, le Scritture vanno approfondite ogni giorno: «La Parola cresce e matura con colui che la legge». La narrazione del primo incontro tra Gesù e i discepoli conduce ad alcune coordinate essenziali dell’esperienza di fede, in un susseguirsi di verbi tipici del Vangelo giovanneo: ascoltare, seguire, cercare, vedere, trovare, abitare, rimanere, raccontare. Per uscire dalle strettoie in cui si dibatte oggi l’esistenza cristiana sembra opportuno favorire il passaggio da una fede di consuetudine e di inerzia spirituale, spesso distratta evangelicamente sugli eventi che ci accompagnano e agitano la società, verso un’adesione personale rinnovata e gioiosa a Cristo Signore, una «fede illuminata, convinta, testimoniante» (Benedetto XVI) vivendo il passaggio pasquale da una fede semplicemente saputa, a una sequela profondamente vissuta. La lapidaria affermazione di Giobbe al termine del suo difficile cammino rivolto a Dio, dice: «Io ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono».
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Il cammino del discepolo è un continuo passaggio dal sentito dire, al vedere con i propri occhi. Il guaio è quando non ci si rende conto che si può essere estranei a Cristo anche se si è preti, vescovi o laici impegnati. Si può addirittura profetare nel suo nome e fare pure molti miracoli e sentirsi dire da lui un giorno: «Non vi ho conosciuti» (Mt 7,22s). Basta una strisciante e progressiva non aderenza del cuore al cuore del Maestro per far nascere il tradimento «soft, l’adulterio del cuore, il compromesso di un cristianesimo borghese illanguidito» (Lambiasi). Quante volte la cosiddetta religione civile rischia di seppellire la fede. Il grande Manzoni, nei Promessi Sposi in uno spaccato di umanità umile e marginale, abitata dalla Provvidenza, affronta il profilo basso di una fede paurosa e ricattabile di don Abbondio e il profilo esemplare del card. Federigo che incontra l’Innominato, cambiandogli il cuore dilaniato dal rimorso, con il sollievo rigenerante della Misericordia. Ogni incontro del cristiano, ma anche di un prete o di un vescovo, dovrebbe sempre lasciare le tracce del passaggio del Signore che cambia la vita. In più di una circostanza sullo scenario socio-politico attuale ci verrebbe da chiedere: «cardinale Federigo torna tra noi!». Gesù per incontrarci si pone sempre sulla soglia delle domande e sul confine proiettato sull’oltre dei nostri desideri, al contrario di noi che per evangelizzare incominciamo con le risposte e le categoriche e gelide affermazioni di principio. Le domande di Gesù guardano dentro, dove vivono le attese più profonde del cuore. Anche i nostri incontri di gruppo, gli articolati ed elaborati itinerari formativi, le molteplici iniziative dovrebbero sottoporsi alla terapia preventiva degli sguardi prima delle parole e delle prediche. Potessimo e volessimo ritrovare quest’aria della casa e della strada, in cui si racconta e si passa la parola. Un comunicare il Vangelo che non può passare solo sul filo, talvolta noioso e scontato delle omelie, ma su quello dei legami, dell’amicizia, del prendersi cura della vita altrui, anche quando ci sorg prende spiazzandoci. ■
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LA VIGNETTA DI...
VALERIO DE LUCA
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IL MAESTRO È QUI, TI CHIAMA Azione Cattolica dei Ragazzi
Sussidio di preghiera per i ragazzi dai 6 ai 10 anni Tempo di Quaresima e Pasqua
IL MAESTRO È QUI, TI CHIAMA Azione Cattolica dei Ragazzi
Sussidio di preghiera per i ragazzi dagli 11 ai 14 anni Tempo di Quaresima e Pasqua
UNA VITA COSÌ NON HA PREZZO!
Azione Cattolica Italiana
Sussidio di preghiera per i Giovanissimi nel Tempo di Quaresima e Pasqua
HA VINTO!
Azione Cattolica Italiana
Sussidio di preghiera per i Giovani nel Tempo di Quaresima e Pasqua
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