Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Residenze di lusso al posto della Fabbrica Tabacchi di Brissago? Il progetto non decolla ancora
Ambiente e Benessere Viaggio tra i vulcani d’Italia: la vulcanologa Sabrina Mugnos, autrice di Draghi sepolti, ci porta sulla via del fuoco tra le più importanti d’Europa
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 4 gennaio 2021
Azione 01 Politica e Economia Il Covid anticipa al 2028 il sorpasso della Cina sugli USA, consacrando il secolo asiatico
Cultura e Spettacoli La quadreria della famiglia Riva di Lugano viene presentata alla Pinacoteca Züst di Rancate
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di Caracciolo, Marconi e Bonoli pagine 17, 18 e 21
AFP
«Deal is done»
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Brexit, le difficoltà cominciano ora di Peter Schiesser L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea diventa realtà. Da oggi valgono regole nuove, si apre un’altra èra, con conseguenze che nessuno può prevedere. Non lasciamoci fuorviare dal giubilo per l’accordo di libero scambio annunciato la vigilia di Natale: è certamente un bene che fra la Gran Bretagna e l’Ue le relazioni restino amichevoli, poiché faciliteranno future intese, ma la realtà che conta innanzitutto è che questa è una hard Brexit; di peggiore ci sarebbe stata solo una hard Brexit con un no deal. Da quando a Londra è al governo Boris Johnson sembra non esserci stata altra opzione, ma non è sempre stato così. In particolare, non lo era al momento del referendum del giugno 2016. Durante quella campagna persino i fautori del Leave non erano di principio contrari a restare in un’unione doganale e nel mercato comune. L’opzione di una soft Brexit non era condannata in partenza, ma dal caos politico del governo May è infine emersa vincente la corrente dei Tory che antepone il recupero della sovranità nazionale ai vantaggi di una partecipazione al mercato comune Ue. E qui non si scappa, l’equa-
zione è chiara: più mercato, più sovranità condivisa e quindi meno sovranità nazionale, meno mercato, più sovranità nazionale. Ma quale sovranità? E quale Gran Bretagna, e quanto a lungo? Scozzesi e nord-irlandesi avrebbero voluto restare nell’Unione europea e non resteranno soltanto alla finestra a guardare (Caracciolo, pag. 17). Dopo cinque anni passati a immaginare e poi a realizzare la Brexit, sembra esserci perlomeno il sollievo della fine di una lunga attesa. Ora però cominciano le difficoltà di adattamento che una simile rivoluzione porta con sé. Se la Brexit costerà 5 punti percentuali del Pil o di più, lo dirà il tempo, la frenata indotta dalla pandemia non aiuta di certo, ma sarebbe miope immaginare che basti stringere tutti un po’ la cinghia: ci saranno regioni maggiormente toccate, perlopiù proprio quelle che hanno votato per il Leave, pur godendo dei sussidi dell’Ue. Ma soprattutto, la Gran Bretagna, o forse è meglio dire l’Inghilterra deve trovare una sua nuova collocazione nel mondo; dopo aver perso l’impero al termine di due dissanguanti guerre mondiali, ora sceglie di abbandonare il progetto di una crescita comune con il resto del continente, con un atto di auto-mutilazione economica senza precedenti, per imboccare una via solitaria tutta da inventare.
Ma la Storia non si ferma, e gli inglesi sono convinti di sapere affrontare anche questo capitolo. Farà scuola, la Brexit, nel resto dell’Europa? In questi anni non ve n’è stato accenno, i problemi che l’Ue ha con Stati membri come Ungheria e Polonia, per il mancato rispetto di principi fondamentali della giustizia e della libertà di stampa, sono di altro ordine, non mettono (per ora) in discussione la tenuta dell’Unione. Per contro, potrebbe influenzare il dibattito politico in Svizzera sull’accordo quadro che il Consiglio federale vorrebbe parzialmente rinegoziare con la Commissione europea. L’idea di un accordo istituzionale che non contempli la sottomissione al giudizio della Corte europea di giustizia, come ottenuto dalla Gran Bretagna, piace a chi in Svizzera mette la sovranità nazionale al primo posto. Tuttavia, è utile ricordare che un accordo di libero scambio e accordi bilaterali come li ha la Svizzera con l’Ue non sono modelli paragonabili (vedi Bonoli a pagina 21): la Corte europea di giustizia resta fuori solo perché l’accordo di libero scambio britannico non tange il diritto dell’Ue; prendendo invece parte al mercato europeo la Svizzera deve adottare norme europee, ovviamente soggette alla Corte di giustizia europea.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Società e Territorio Gita fra torri e castelli In Mesolcina e Calanca ci sono numerosi siti storici risalenti al Medioevo, non tutti noti
La madre delle bambole moderne Käthe Kruse rivoluzionò il concetto di bambola e la prima che creò fu durante il suo soggiorno ad Ascona, nel 1905 pagina 6
Addio ad Antonio Riva L’ex direttore generale della SSR è deceduto a pochi giorni dal suo 85.esimo compleanno – un ricordo di Enrico Morresi pagina 6
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Fumata grigia per la Fabbrica Tabacchi Riconversione immobiliare A Brissago
non decolla il progetto di centro residenziale al posto della storica manifattura in riva al lago. Il Cantone ha dato via libera, ma il Comune non ha ancora rilasciato la licenza edilizia. Intanto la holding argoviese che controlla la proprietà assicura: «Manterremo la produzione nel Locarnese»
Mauro Giacometti Fumata grigia per la Fabbrica Tabacchi di Brissago. Il Cantone, raccogliendo le valutazioni del Dipartimento del territorio, ha infatti di recente preavvisato favorevolmente la «riconversione» dello stabilimento fronte-lago in un mega centro residenziale. Rimandato al mittente invece l’ampliamento del porto privato, con 44 posti barca previsti, per un nuovo elaborato che dovranno presentare i promotori, la Fabbrica Tabacchi Brissago Holdig SA. «La pandemia sta rallentando un po’ tutto, ma nel frattempo abbiamo ricevuto il via libera sul progetto immobiliare che abbiamo presentato nel 2018. Ora manca solo la licenza edilizia del Comune di Brissago. Sul porto, invece, il Cantone ci chiede dei supplementi e dei chiarimenti che andremo a definire con i nostri progettisti», ci dice l’avvocato asconese Gianfrancesco Beltrami, presidente del CdA e legale rappresentante della holding argoviese che controlla la manifattura di Brissago. Il quale ci conferma inoltre la chiusura del Centro Dannemann prevista per la fine di quest’anno: «Avevamo già deciso nel 2019 che l’anno in corso sarebbe stato l’ultimo per la nostra location. La struttura, inaugurata nel 2001 e destinata ai matrimoni e ai congressi aziendali, per varie problematiche, compresa la carenza ricettiva della zona, non è mai veramente decollata. Poi, l’emergenza COVID e le disposizioni sanitarie emanate la scorsa primavera ci hanno causato la totale perdita di giro d’affari con annullamento di congressi e di matrimoni prenotati. Diciamo che il Centro Dannemann era probabilmente in una crisi irreversibile, ma la pandemia gli ha dato il colpo di grazia», spiega l’avvocato Beltrami. Fu l’iniziativa ardita di alcuni italiani e brissaghesi che portò nel 1847 alla fondazione della società anonima
Fabbrica Tabacchi Brissago (FTB). Questa impresa, presto imitata da altri, fu il punto di partenza per l’evoluzione in Ticino dell’industria del sigaro che, all’inizio del secolo scorso, durante la sua epoca d’oro, contava una quarantina di manifatture occupanti all’incirca 2000 dipendenti. Sin dall’inizio la FTB si concentrò sulla produzione artigianale del sigaro Virginia, articolo per fumatori dal tipico profumo di vaniglia commercializzato in tutto l’impero austro-ungarico. La storia non scritta però narra che lo stabilimento brissaghese fu una vera e propria «clonazione» di quella che al tempo era la Regia Austriaca dei Tabacchi di Venezia, l’unica manifattura autorizzata dagli asburgici a produrre i sigari Virginia. Inoltre, certo è che alcuni esuli seguaci di Giuseppe Mazzini, sfuggiti al giogo dell’Impero austro-ungarico, trovarono rifugio ed ospitalità nella neutrale Brissago, ben presto trasformata in un crocevia per i traffici di merci di contrabbando e, soprattutto, in un luogo di lavoro sicuro per lo scambio delle nuove idee di stampo liberale. Che il sigaro Virginia sia divenuto successivamente il «Brissago», tuttora un marchio registrato, non può però che essere attribuito alla maestria della lavorazione dello stabilimento in riva al Verbano, distintosi certamente tra i suoi concorrenti per l’alta qualità dei manufatti. Ai Virginia si aggiunse più tardi la produzione dell’altra specialità della FTB, i sigari toscani con il marchio «Pedroni», fasciati con il miglior tabacco di tipo «Kentucky», affumicato e selezionato presso i coltivatori della regione di Springfield, nel Tennessee (USA). E ancora oggi questi sigari vengono prodotti a Brissago secondo la tradizione e seguendo le secolari ricette originali. Dopo un secolo e mezzo di fervente attività la Fabbrica Tabacchi Brissago nel 1988 divenne «FTB Holding SA»,
È rimasto l’unico centro di produzione della Dannemann in Svizzera e lo si vuole mantenere in Ticino. (Keystone)
costituendo una società satellite alla quale vennero trasferite le sue attività industriali. Nel 1999 la nuova FTB venne rilevata dal gruppo argoviese Burger Söhne Manufacturing SA che, dopo una completa ristrutturazione dell’azienda, le affida la produzione dei propri prestigiosi sigari Dannemann destinati principalmente al mercato svizzero. Oggi nello stabilimento di Brissago lavorano una settantina di dipendenti, vale a dire un decimo delle maestranze occupate nel periodo di massimo fulgore aziendale, all’inizio del 1900. Considerando la tendenza inesorabilmente sfavorevole per il consumo di tabacco, ecco però che entrando nel Terzo Millennio la holding argoviese preferisce orientarsi sul mercato immobiliare. D’altra parte il pregiato sedime di oltre 22’000 metri quadrati che si affaccia sul Verbano ben si addice ad una trasformazione in edilizia resi-
denziale di standing superiore. «Tutti possono capire che una produzione di tabacchi fronte lago, a lungo termine, non si giustifichi più», spiega Beltrami. Già nel 2014 il gruppo argoviese presentò un progetto immobiliare che però, a causa di una vertenza con i confinanti, si arenò tra le maglie del Tribunale amministrativo cantonale. Nell’agosto del 2018 ecco apparire all’Albo comunale il «piano B» – quello preavvisato favorevolmente dal Cantone – che prevede per una cifra attorno ai 70 milioni di investimenti la ristrutturazione dell’attuale stabile industriale e la realizzazione di 33 appartamenti più quattro atelier e/o uffici ottenuti mantenendo volumi e struttura esterna dello storico edificio. Ma soprattutto, l’ambizioso progetto residenziale prevede la costruzione ex novo di quattro palazzine plurifamiliari, sul pendio antistante la strada cantonale, con altri 65 appartamenti, un’autorimessa in-
terrata, un centro fitness e wellness con due piscine, coperta e scoperta, riservate ai residenti oltre a un ristorante. Come detto resta da aggiustare il tiro sull’ampliamento del porto privato e il completamento della passeggiata fino al Garni Rivabella, realizzazione che permetterebbe di raccordare il lungolago brissaghese. E il futuro della storica manifattura? Il destino dei sigari «Brissago», dei toscani «Pedroni» e dei prodotti Dannemann rischia veramente di andare in fumo? L’avvocato Beltrami in questo è perentorio: «La fabbrica per il gruppo Dannemann è molto importante. È rimasto l’unico centro di produzione in Svizzera e lo si vuole mantenere appunto in Ticino, anzi, direi proprio nel Locarnese. Stiamo valutando delle opzioni immobiliari per l’insediamento del nuovo stabilimento e le opportunità nella regione certo non mancano», conclude.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Il circolo sardo della Monteforno
Anniversari I sardi del Ticino hanno festeggiato i 40 anni del loro Circolo Culturale «Coghinas»
Sara Rossi Guidicelli È uno dei sei circoli sardi che sono rimasti in Svizzera e, disposizioni sanitarie a parte, sta benissimo. La sede è a Bodio, naturalmente, di fronte alla stazione. Naturalmente, perché l’associazione è stata fondata da ex operai della Monteforno, nell’autunno del 1980. «Ci siamo uniti perché siamo emigranti», mi racconta Nino Carboni, che da 51 anni vive a Bodio. «Abbiamo dato il nome “Coghinas” al nostro Circolo Culturale Sardo perché noi operai della Monteforno venivamo tutti da quella regione lì, cioè dai paesi di Tula e Oschiri, intorno al Lago Coghinas in provincia di Sassari». C’era bisogno di sentirsi uniti, di aiutarsi, di valorizzare il percorso degli emigranti, di vivere e trasmettere la cultura del paese d’origine. La figura del fondatore può essere incarnata in Nando Ceruso, che è stato segretario, presidente e cuore del Circolo per anni. Venivano organizzate riunioni per aggiornarsi e scambiarsi informazioni, feste aperte alla popolazione, attività socio-culturali, dibattiti sui vari temi che potevano interessare i sardi all’estero e c’era anche uno sportello aperto ai membri e a chi necessitava di un aiuto burocratico. «Devi immaginarti che all’inizio, quando ci trovavamo, era un’epoca in cui le informazioni si trasmettevano ancora soprattutto oralmente», spiega Carboni, detto anche Nonno Nino perché è spesso andato nelle scuole a raccontare dell’acciaieria e della sua storia e sia gli alunni sia i docenti lo chiamano così. «Io per esempio avevo i genitori in campagna, vicino a Tula. Per raggiungere il telefono mia madre doveva percorrere sei chilometri a piedi... si può capire che non ci sentivamo spesso. Allora quando a una riunione un compare raccontava cosa stava succedendo al paese, anche dettagli e piccoli cambiamenti, per gli altri era importante». E poi c’erano altre questioni legate al fatto di essere migranti: per esempio non tutti avevano dimestichezza con i biglietti del treno, quando si trattava di tornare in Sardegna per fare le ferie, o con i sindacati, o con l’amministrazione italiana per i contributi e le spese, o anche con le pratiche per i lavori edili di chi si costruiva la casa su territorio sardo... insomma, negli anni Ottanta e fino alla chiusura della Monteforno al Circolo Culturale Sardo «Coghinas» di Bodio c’era una segretaria che lavorava a tempo pieno. Soprattutto però, l’associazione ha sempre onorato il proprio scopo culturale: Nonno Nino mi mostra gli album fotografici, ben conservati in un armadio del Circolo. La palestra di Giornico straripante di tavoli e amici del Circolo che mangiano, assistono alle danze tipiche e ai canti in costume, gente che trascorre una giornata a impregnarsi di un ambiente simpatico e denso di identità viva, prorompente. Si sono
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Foto d’epoca della sede della Monteforno: un saldo connubio lega la comunità sarda alla storia dell’acciaieria.
svolti inoltre numerosi corsi di lingua e cultura sarda, di balletto folcloristico, concorsi di disegno e attività sportive, proiezioni di film e spettacoli teatrali, momenti conviviali con le scuole o con la popolazione locale. Man mano che gli anni passavano, le proporzioni tra sardi e amici dei sardi si invertivano: all’inizio i fondatori e i membri erano tutti isolani, poi si sono uniti altri emigrati italiani e anche ticinesi amici, e amici degli amici. Oggi i sardi sono solo una parte tra gli iscritti al Circolo. Meinrado Robbiani ha chiamato la vasta comunità sarda legata alla Monteforno «l’esempio più illuminante e rappresentativo di laboratorio sindacale e d’integrazione che il Ticino abbia vissuto sulla sua pelle», ricordando
anche come gli operai – tutti gli operai della Monteforno – hanno dimostrato un attaccamento all’impresa ben maggiore, ben più autentico e generoso di quello manifestato dai dirigenti e dagli istituti finanziari. Nel 2002 è stata eletta presidente del Circolo «Coghinas» Michela Carboni, figlia di Nino, allora 27enne, nata in Leventina: grazie alla sua generazione quell’associazione che era stato simbolo di emigrazione diventava simbolo di cultura che viaggia, che vive altrove, che si radica e si mantiene vivo in tanti posti, per esempio nel cuore dei figli e dei nipoti degli immigrati. Anche se negli ultimi anni i circoli sardi di tutto il mondo hanno vissuto pesanti tagli di fondi destinati a loro dalla Regione Autonoma della Sarde-
Il circolo come luogo di momenti ricreativi ma anche di scambi di informazioni. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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gna, fino al 2019 il Circolo «Coghinas» continuava la sua attività di promotore di cultura sarda, invitando gruppi di artisti, partecipando alla Fiera del Turismo di Lugano, creando occasioni per rimanere uniti. La biblioteca della sede conserva parte della storia del Circolo e della Monteforno, oltre a offrire una vasta scelta di romanzi, libri di poesia, storia, geografia, dizionari, enciclopedie, diari politici, insomma tutto ciò che si vuole per sentirsi in contatto e approfondire la conoscenza con la Sardegna. In un certo senso è doveroso verso la terra d’origine, scrivono gli autori di un piccolo libro sul primo decennio del Circolo Emigrati Sardi Coghinas nel 1990; perché l’isola sarda ha pagato un grande tributo per lo sviluppo dell’Europa, inviando le sue braccia e i suoi abitanti che dopo la guerra non trovavano lavoro in patria. Si è svuotata, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, faticando così a costruirsi un percorso proprio di sviluppo industriale. Questi figli partiti, questi emigranti, sentono dunque di dover ritornare qualcosa anche a lei, la terra che li ha generati e visti partire. Nel 2020 ogni progetto per festeggiare il bel traguardo dei 40 anni è stato bloccato e sappiamo tutti perché. Per fortuna, però, mi raccontano Nino Carboni e sua figlia, Michela (oggi sposata Solinas e vice presidente del Circolo), «nel 2019 c’è stata una bellissima iniziativa venuta dalla Scuola Elementare di Bodio». La maestra Manuela Della Santa Molena ha scoperto un giorno
che solo tre suoi allievi sapevano che in paese c’era stata la Monteforno. Ha dunque pensato di creare un progetto per la sua classe al fine di conoscere la storia del paese e della fabbrica, diffondendo poi le notizie raccolte a beneficio degli altri. E così, durante tutto l’anno scolastico i bambini hanno studiato l’acciaieria sotto vari aspetti, hanno intervistato ex operai e uno storico e all’inizio dell’estate 2019 hanno disseminato il paese di Bodio di cartelloni che ne raccontavano la storia. Si è così creato un percorso alla scoperta della Monteforno camminando tra viuzze, piazze e fontane soffermandosi a leggere i cartelloni realizzati dai ragazzi. Che cosa era quella fabbrica, perché si chiamava così, chi vi lavorava, dove alloggiavano gli operai, come si fonde l’acciaio e cosa significa «laminatoio» e cosa è successo quando la Monteforno è stata chiusa? Il Circolo Culturale Sardo «Coghinas» ha sostenuto il progetto della Maestra Manuela e ha in programma per l’anno prossimo una pubblicazione per non lasciare che quel lavoro cada nell’oblio. Alla fine, ecco cosa succede quando una comunità straniera si integra davvero nel territorio: aiuta a mantenere la memoria del posto stesso. Grazie ai sardi, le molte persone che hanno visitato Bodio nella scorsa estate hanno potuto ripercorrere gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta di una Leventina viva, piena di bar e barbieri, cinema e macellerie... dove dialetto ticinese e «limba (lingua) sarda» potevano guardarsi e ascoltarsi cantare.
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Idee e acquisti per la settimana
Per iniziare con gusto
Attualità L’ossobuco di maiale è un piatto al contempo saporito ed economico
Effetto benessere Il lievito di birra in polvere è un pregiato sottoprodotto della produzione della birra. Questo complemento alimentare naturale è ricco di vitamina B1, utile per il mantenimento del normale funzionamento del sistema nervoso, e di acido folico, che contribuisce alla normale emopoiesi e alla funzione del sistema immunitario. Inoltre il lievito di birra aiuta a rinforzare i capelli e le unghie e migliora l’aspetto della pelle. Il dosaggio consigliato è di 2 cucchiai al giorno, aggiungendolo ai cibi più svariati, quali per esempio salse, zuppe, müesli, insalate, succhi di frutta e yogurt. Si raccomanda di non eccedere dalla dose giornaliera consigliata. Gli integratori alimentari non sostituiscono una dieta variata ed equilibrata e uno stile di vita sano.
Azione 20% Ossibuchi di maiale Svizzera, per 100 g Fr. 1.– invece di 1.30 dal 5 all’11.1
L’ossobuco di maiale, oltre ad essere un piatto appagante da cucinare, bello da vedere e buono da gustare, risulta inoltre particolarmente economico. A maggior ragione dopo le festività natalizie, in cui a volte ci si concede – giustamente – qualche pregiata sfiziosità di prezzo più elevato. La presenza dell’osso centrale conferisce alla carne un sapore e una tenerezza inconfondibili, mentre il midollo, sciogliendosi durante la cottura, ammorbidisce il gusto della salsa oltre ogni più rosea aspettativa. Una ricetta semplice ma di sicuro effetto per 4 persone: salare, pepare e infarinare otto begli ossibuchi di maiale. Rosolarli in un po’ d’olio per ca. 3 minuti e toglierli dalla padella. Nella medesima padella rosolare qualche verdura tagliata a dadini come cipolla, carota e sedano, unire dell’aglio schiacciato e due cucchiai di concentrato di pomodoro e continuare la rosolatura. Aggiungere gli ossibuchi e sfumare con due decilitri di vino rosso facendolo evaporare quasi completamente. Unire un po’ di brodo e una foglia d’alloro, incoperchiare e stufare per ca. 1½ ora bagnando regolarmente la carne con il fondo.
Actilife Lievito di birra vitaminizzato 200 g Fr. 4.50
In forma con il pompelmo
Un piacere regale
il nostro sistema immunitario
non può mancare il giorno dell’Epifania, il 6 gennaio
Attualità Il pompelmo ci aiuta a sostenere
Come gli altri agrumi, anche il pompelmo non solo è buono e rinfrescante – meglio ancora se al naturale – ma favorisce anche la salute. Contiene infatti molta vitamina C, sostanza necessaria per rafforzare il nostro sistema immunitario, a maggior ragione durante la stagione fredda. Un pompelmo copre il fabbisogno giornaliero di questa importante vitamina. Il pompelmo è ori-
ginario dell’India e si ritiene che sia un incrocio tra l’arancia e il pomelo. In Europa è arrivato attraverso l’America e si è facilmente ambientato nelle tipiche zone agrumicole del bacino mediterraneo. La sua polpa è molto succosa e possiede un armonioso e gradevole gusto dolce-asprigno. È un frutto voluminoso ed è disponibile nelle varietà a polpa gialla, rossa e rosa, quest’ultime due più
Attualità La tradizionale torta dei re magi
dolci rispetto alla prima. La colorazione è data dalla presenza di licopene, un pigmento vegetale responsabile anche del colore rosso dei pomodori. Tenuto in frigorifero, il pompelmo si conserva bene per alcune settimane e diventa più facile da pelare. Attualmente alla Migros sono ottenibili i pompelmi rossi di produzione convenzionale e di qualità biologica.
Una pasta morbida e burrosa ricoperta di croccanti mandorle e granella di zucchero: la torta dei re magi è un irrinunciabile piacere da gustare l’ultimo giorno delle festività natalizie, quando «L’Epifania tutte le feste si porta via». Il delizioso dolce viene prodotto dagli abili pasticceri della Jowa non solo nella variante classica con uva sultanina, ma anche in quelle con pezzettini di cioccolato, senza sultanina e in qualità biologica. In questo modo vengono
accontentati i gusti di tutta la famiglia. Ma oltre ad essere golosa, da sempre la torta si caratterizza per un’altra particolarità: chi, all’interno di una delle sue soffici pagnottelle, trova una statuina a forma di Re Magio, ha il diritto di indossare la corona acclusa alla confezione e di «regnare» per un giorno intero, evitando per esempio di dover aiutare nei lavori domestici. La torta dei re magi è in vendita fino al 5.1 in tutte le filiali Migros.
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Società e Territorio
Un Moesano fortificato Itinerari Gita tra torri, castelli e fortezze della Mesolcina e Calanca Elia Stampanoni Un opuscolo dell’Ente Turistico Regionale del Moesano è lo spunto per andare alla scoperta di siti storici, castelli, fortezze e torri ancora presenti nel Moesano. Costruzioni che in epoca medioevale svolgevano un importante ruolo di difesa, di comunicazione ma anche di residenza e che oggi offrono un buon pretesto per scoprire questo ricco territorio. L’itinerario suggerito, con le sue dieci tappe nelle valli di Mesolcina e Calanca, si può percorrere con i mezzi pubblici, con il proprio veicolo, in bicicletta (eventualmente elettrica) o in parte anche a piedi. È possibile cominciare da Mesocco, dove è collocato il principale complesso fortificato dei Grigioni. Secondo il portale SvizzeraMobile è addirittura la fortezza più grande della Svizzera (di certo è una tra le più imponenti) e le sue origini risalgono al primo Medioevo. Attorno al 1480 la roccaforte fu venduta al mercenario milanese Gian Giacomo Trivulzio, sotto il quale ebbero inizio i lavori d’ampliamento che portarono alla trasformazione in fortezza. Il castello fu smantellato e distrutto nel 1526, ma le rovine furono oggetto d’importanti lavori di restauro negli anni ’90 che ne garantirono una conservazione ottimale. Oggi il castello di Mesocco, che comprende pure le torri e un campanile che svettano dalla muraglia fortificata, è aperto al pubblico e lo si nota bene e anche da lontano transitando sull’autostrada A13, essendo la rocca eretta
su una piccola collinetta situata a lato dell’asse di collegamento stradale. L’«itinerario fortificato» prosegue invece verso sud e a Cama ci si deve inoltrare brevemente in un boschetto per scorgere e scovare le rovine di un castello, ben segnalato in avvicinamento alla località mesolcinese. Citato per la prima volta nel 1324, i resti del castello di Norantola spuntano all’apice di una dolce altura rocciosa, facilmente raggiungibile a piedi e situata nei pressi dell’omonima frazione. Pure più volte distrutto nel corso della sua storia, si tratta del complesso fortificato più importante della Mesolcina dopo quello di Mesocco. Negli anni 90 fu finalmente consolidato grazie a dei lavori e oggi offre degli scorci di storia immersi in un paesaggio suggestivo. Diverso è invece l’aspetto della torre di Santa Maria, una costruzione che svetta sulla roccia a quasi mille metri d’altitudine accanto alla chiesa del villaggio della Valle Calanca. La rocca, riporta il portale del comune grigionese, fu edificata e abitata in due fasi distinte ma è tuttora impossibile avere un’idea chiara dell’aspetto dell’antico castello, dato che all’interno dello stesso venne in seguito costruito, attorno al 1300, l’imponente torrione conservatosi in ottimo stato fino ad oggi. L’alta torre (18 metri), all’esterno ha la forma di un pentagono stretto e appuntito, mentre all’interno è quadrata. Oltre a una vista panoramica ampia sulla vallata e sulle cime circostanti, la fortificazione permette e permetteva anche un contatto visivo con la citata torre di Norantola
Torre di Pala, qualche centinaio di metri sopra San Vittore. (Elia Stampanoni)
e quella di Boggiano, a testimonianza dell’importanza strategica avuta in passato. I ruderi della torre di Boggiano, che si trovano sull’altro versante della vallata a 692 metri di altitudine, sono raggiungibili da Roveredo risalendo un sentiero fino all’entrata della Val Traversagna. Le rovine comprendono una torre di segnalazione a quattro piani a pianta quadrata e un muro di cinta, che si possono anche scorgere in lontananza scrutando la montagna. Decisamente più accessibili sono la torre Fiorenzana, in cui ci s’imbatte tra Leggia e Grono, o le vestigia del palazzo Trivulzio a Roveredo. La prima risale al 1286 (è uno degli edifici più
antichi del villaggio) e, dopo esser stata restaurata tra il 1994 e il 1996, è oggi ben conservata, tanto da essere adibita a spazio espositivo di proprietà del Museo Moesano. Del palazzo Trivulzio, invece, un edificio documentato dall’inizio del XIV secolo, rimane solo un moncone a lato del fiume Moesa, affiancato da edifici oggi adattati o in parte ricostruiti a scopi abitativi. L’itinerario continua idealmente verso sud in direzione del Ticino e propone ulteriori spunti culturali, come i resti di fondamenta di una torre quadrangolare a Roveredo (torre di Beffano), i ruderi di una probabile torre a Monticello o ancora i «Caslasc» a San
Vittore, ossia le tracce di muri perimetrali di una postazione fortificata. Sempre a San Vittore svetta imponente la torre di Pala, situata sopra l’omonimo quartiere. Collocata a 300 metri d’altitudine, potrebbe risalire alla fine del XIII secolo, con l’aggiunta di un piano verso il 1400. Per accedere alla costruzione, segnalata dal nucleo di San Vittore, si deve camminare per qualche centinaio di metri e, inoltrandosi nel bosco, raggiungere il basamento. Con i suoi 5 piani distribuiti su circa 22 metri, la torre osservata dal basso offre una vista affascinante, anche perché fu costruita su enormi sassi che ancora oggi le fanno da corollario. Massi giganteschi che, caduti dalla montagna in tempi preistorici, regalano fessure e giochi di luci. Nel Medioevo la torre era abitata e, su un masso adiacente separato dall’impressionante crepaccio, si distinguono i resti di un edificio, forse adibito a magazzino. Sulla piattaforma si trovava anche una cisterna per immagazzinare l’acqua, dato che era difficile rifornire la torre dal basso a causa della sua posizione sull’immenso macigno, ai cui piedi troviamo oggi un lavatoio. La costruzione si presenta attualmente in buono stato, è stata restaurata e munita di un tetto trasparente. Ulteriori informazioni sulla torre di Pala e sulle altre fortificazioni o siti culturali si possono scoprire o ascoltare anche durante la gita grazie all’ausilio di un sistema di audioguida, accessibile con i codici QR presenti sui singoli pannelli informativi. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Le bambole di Käthe
Personaggi L’arte del «giocattolo progressista»: ovvero, come, nel lontano 1905, il Ticino vide la nascita
delle bambole moderne e «a misura di bambino» per mano di Käthe Kruse Benedicta Froelich Nel dicembre del lontano 1904, la ventunenne Katharina «Käthe» Simon, nativa della Polonia, viveva ad Ascona con le figlie Maria, di due anni, e la neonata Sofie, interessandosi alla rivoluzione artistica del vicino Monte Verità. La giovane si era da poco stabilita in Ticino, dopo aver attraversato in solitaria parte dell’Europa mentre il proprio compagno (nonché padre delle sue bambine), il celebre scultore Max Kruse, rimaneva a Berlino a occuparsi della carriera. E certo all’epoca Käthe, che fino a quel momento aveva calcato i palchi europei come attrice teatrale, non poteva immaginare quanto il proprio futuro sarebbe stato condizionato dal periodo trascorso in Ticino.
Anche oggi, dopo più di un secolo, le bambole della «Käthe Kruse» sono realizzate a mano e restano ai vertici dell’arte europea del giocattolo Quel Natale, infatti, Maria chiese in regalo una bambola; una richiesta tutt’altro che semplice da soddisfare, poiché, quando Max si avventurò nei migliori negozi berlinesi alla ricerca di una «puppe» adatta a una bambina piccola – morbida e gradevole, da poter stringere e abbracciare facilmente – rimase molto deluso: realizzate esclusivamente in porcellana, le bambole in vendita gli parvero fredde e rigide, al punto da suggerire a Käthe di disegnarne lei stessa una per la figlia. La prima bambola così creata a inizio 1905 – realizzata con un asciugamano riempito di sabbia, sovrastato da una patata a mò di testa – entusiasmò profondamente Maria e Sofie; e sarebbe stato solo il primo di molti, sempre più elaborati esperimenti. Il momento di svolta giunse nel 1910, quando i grandi magazzini Tietz di Berlino (ove la famiglia si era appena riunita) offrirono alla Kruse la pos-
sibilità di esporre i suoi giocattoli artigianali: le bambole di Käthe, perfetto esempio del nuovo ideale di «educazione progressista» in voga in quegli anni, ottennero il plauso del pubblico, meravigliato dal fatto che le creazioni della giovane madre non riproducessero visi adulti (come accadeva con le abituali bambole in porcellana) ma, piuttosto, infantili – permettendo così ai bambini di identificarsi in esse e soddisfacendo i precetti pedagogici del tempo. Il nuovo sentiero professionale di Käthe era ormai tracciato: un percorso quasi obbligato, che, nel 1911, la portò a compiere il grande passo e fondare la Käthe Kruse GmbH, con sede nella propria abitazione berlinese. Una piccola ditta a conduzione famigliare dedita alla produzione di bambole – tutte rigorosamente cucite e dipinte a mano dalla stessa Käthe nel salotto di casa. Bambole che, nelle intenzioni della creatrice, avrebbero sempre dovuto mantenere lo spirito genuino e «a misura di bimbo» dei primi esperimenti artigianali; perché, come la Kruse affermò, «la mano segue il cuore, e solo la mano può dar vita a ciò che farà comunque capo al cuore». Tuttavia, la fama di Käthe ormai la precedeva: bastarono i primi, corposi ordini di bambole dagli Stati Uniti a dimostrare come fosse ormai necessaria una produzione su larga scala, e a spingere la Kruse a fondare un proprio stabilimento nella cittadina di Bad Kösen. Un’avventura che non sarebbe stata immune da lotte e ostacoli – come quando Käthe si trovò costretta a fare causa alla ditta Bing, colosso tedesco del settore, reo di aver imitato in modo dozzinale le sue bambole: la vittoria della Kruse avrebbe rappresentato il primo caso di copyright applicato a un giocattolo (1925). Nel frattempo, la famiglia si allargava: alla terza figlia Hanne avevano fatto seguito ben quattro maschi (Michael, Jochen, Friedebald e Max), mentre i Kruse ero infine convolati a giuste nozze. Anche la gestione dell’azienda era intanto divenuta un impegno a tempo pieno, tanto più che le bambole di Käthe già collezionavano riconoscimenti alle maggiori esposizioni internazionali, a partire da quella del 1913 a
Käthe Kruse con alcune sue creazioni in un’immagine del 1937. (Keystone)
Ghent (dove si aggiudicarono il Grand Prix), fino alle fiere di Barcellona e Parigi (rispettivamente nel ’29 e ’37). Fu così che, nel giro di pochi anni, nacque un vero e proprio impero: la compagnia inanellò un successo dietro l’altro, grazie a modelli di bambole sempre più innovativi, ispirati alla mimica e fisicità dei bambini reali (il maggior successo giunse nel 1928 con il primo bambolotto dotato di veri capelli, modellato sulle fattezze di Friedebald). Per alcuni anni, la Kruse si dedicò anche alla produzione di manichini espositivi, impressionanti per il loro aspetto realistico; eppure, anche una volta a capo di una grande azienda, continuò a realizzare artigianalmente ogni singolo pezzo: una bella differenza, rispetto alla produzione di massa dei grandi
nomi. Ma la Seconda Guerra Mondiale era ormai dietro l’angolo, e con essa la crisi dei consumi: con l’arrivo dei russi, la cittadina di Bad Kösen si ritrovò a far parte della neonata Germania Est, e l’azienda di Käthe sopravvisse solo grazie all’inaugurazione di due nuove succursali, fondate dai figli Max e Michael a Bad Pyrmont e Donauwörth, e al lancio della bambola «Glückskind» – più economica e, quindi, alla portata delle famiglie impoverite dal conflitto. Quando la guerra finì, Käthe aveva perso due dei suoi figli, mentre il marito era morto già nel 1942; e fu proprio a questo punto che i numerosi discendenti si dimostrarono cruciali per la salvezza dell’attività. Nel 1958, Hanne prese infatti le redini dell’azienda, traghettandola con successo attraverso il
periodo postbellico grazie ad intuizioni quali il lancio di una linea dedicata ai neonati. Da allora, la Käthe Kruse non hai mai ceduto la sua posizione ai vertici dell’arte europea del giocattolo: l’evidente raffinatezza e ricercatezza dei prodotti – ancora oggi realizzati interamente a mano – si è combinata a un evidente appeal popolare, rendendola a tutt’oggi un’azienda unica nel settore. E chissà se, in quel lontano giorno in cui creò la sua prima bambola con l’ausilio di appena un asciugamano e una patata, la giovane Käthe poteva immaginare il ruolo che il Ticino avrebbe giocato nel «colpo di genio» destinato a sconvolgere la sua intera esistenza – e che, attraverso molteplici generazioni, avrebbe reso il suo nome noto ai bambini di mezzo mondo.
Protagonista di un’epoca non conformista In ricordo Antonio Riva è stato una figura di spicco alla RTSI e poi alla SSR, fino a diventare direttore generale
Enrico Morresi Non sempre si riesce a trasformare un buon giornalista in un capace dirigente d’azienda. «Leo» Manfrini ne era l’esempio: tanto bravo sul campo quanto
in difficoltà come gestore. Se me ne ricordo scrivendo di Antonio Riva è perché l’amico scomparso in dicembre a 85 anni fu il protagonista di una mutazione riuscita. Nelle sue nuove funzioni (fino a direttore generale della
Antonio Riva, a destra, il giorno della nomina a direttore generale della SSR nel 1987, con il predecessore Leo Schürmann. (Keystone)
Radiotelevisione svizzera dal 1988 al 1996) Riva non dimenticò mai di essere stato tra i protagonisti «di un’epoca televisiva all’insegna del nonconformismo competente ed entusiasta» – come scrisse a Willy Baggi («laRegione», 19 dicembre). Direttore generale della Radiotelevisione svizzera, Antonio Riva si rifiutò nel 1981 di consegnare alla polizia gli spezzoni non trasmessi del filmato di una manifestazione davanti a Palazzo federale. Un esempio da proporre al Governo francese e al suo recente progetto di introdurre un divieto generale di fotografare o filmare la polizia in azione durante le manifestazioni di piazza. Con tutta la comprensione per il compito difficile dei tutori dell’ordine, vi sono elementi di uno stato di diritto che non possono essere compressi neppure in una situazione «delicata». Oggi si ha tendenza a svalutare il Sessantotto ticinese, con le sue ingenuità e i suoi errori (piena luce non è stata fatta ancora sugli appoggi che l’eversione armata lombarda trovò anche nel nostro territorio). Il moto
di fondo che lo caratterizzava, ossia la rivendicazione di rapporti nuovi tra i sessi, i partiti e le classi, interessò strati sociali non solo popolari ma anche «aristocratici»: i figli delle famiglie ricche del cantone, della cui fedeltà ai politici compartimenti stagni in cui si divideva il Paese nessuno avrebbe mai dubitato. Antonio Riva usciva da una di queste famiglie (oggi se ne espone la quadreria settecentesca alla Pinacoteca Züst di Rancate, vedi articolo a pg. 27). Era stato attivo nella ormai non più tanto «conservatrice» Lepontia Cantonale; frequentava il circolo di intellettuali cattolici che si esprimeva sul foglio (poi rivista) «Dialoghi»: un fondo di idee e di convinzioni che portò con sé quando, nel 1966, si impiegò alla giovane TSI e subito dovette difendere la posizione sostenuta nei documentari di Leandro Manfrini sulla guerra in Vietnam e l’intervento americano. Non si trattava di una posizione preconcetta o sentimentale, rifletteva – ispirato da Willy Baggi – un dato culturale: la conoscenza dei rapporti storici tra il piccolo Vietnam
e l’immensa Cina e l’inquietudine dei migliori cervelli del giornalismo d’allora: i famosi articoli di Harrison Salisbury da Hanoi, pubblicati dal «New York Times» nel 1967, che il Rapporto McNamara nel 1971 avrebbe confermato. A questi sentimenti di fondo, Antonio Riva associò sempre una prudente valutazione delle forze in presenza nel piccolo mondo della RTSI, rappresentate all’interno della CORSI. Posso immaginare (non ho le prove…) che i molti mesi trascorsi tra la mia offerta di ingresso alla TSI e l’atto della nomina, nel 1981, fossero l’indice di resistenze che Antonio, mio futuro superiore diretto, dovette superare in nome della professionalità. Non sarà perciò mai abbastanza lodata la scissione tra struttura istituzionale (la CORSI) e il programma (RSI, TSI), sancita per iniziativa della Direzione generale molti anni dopo. Posso aggiungere una cosa? È di questo livello di professionalità che continua ad avere bisogno la RSI: se ne tenga conto anche nella discussione sulla sorte del Parlato di Rete Due.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Ambiente e Benessere Un viaggio immaginario Dal 2020 in bianco e nero, ai colori del mondo in compagnia del pittore e viaggiatore Faravelli
La sempre più rara anguilla Un animale che suscita curiosità ma di cui ancora oggi conosciamo poco abitudini e comportamenti
I bianchi abruzzesi Si era quasi persa la memoria dei vitigni autoctoni come Pecorino, Passerina, Cocciola e Montonico, vinificati in purezza
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Carne regina Una delle nuove tendenze gastronomiche riporta in tavola tagli di base e cotture lunghe
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I naturali giochi pirotecnici d’Italia
Editoria Dall’Etna al Vesuvio, la vulcanologa
Sabrina Mugnos, nel suo volume a metà tra saggio scientifico e guida turistica percorre la via del fuoco tra le più importanti d’Europa
Stefania Prandi «I vulcani sono luoghi misteriosi e letali, montagne vive, dove si sente il calore e il movimento, linee dirette tra la terra e il cielo». Sabrina Mugnos, vulcanologa, divulgatrice scientifica e giornalista, racconta così ad «Azione» la sua passione per i vulcani, iniziata in Tanzania, nel mezzo della Rift Valley, con l’Ol Doinyo Lengai. Le sue lave «sgorgano tiepide, con la consistenza e il colore del fango, da camini affusolati e bitorzoluti». Ne ha visitati molti altri, nel corso degli anni, dalle Hawaii alle Ande, passando per Nuova Zelanda, Giappone e Azzorre. Esplorazioni che l’hanno portata alla stesura di cinque libri sul tema, l’ultimo dei quali è stato pubblicato quest’anno. Draghi sepolti. Viaggio scientifico e sentimentale tra i vulcani d’Italia (Il Saggiatore) è un volume a metà tra saggio e guida turistica, sulla via del fuoco tra le più importanti d’Europa e le più studiate al mondo. Il pellegrinaggio parte dall’Etna, chiamata dai siciliani «Idda» o «A Muntagna». «Il tetto infuocato d’Europa», si legge, «è un luogo estremamente mutevole» che centovent’anni or sono ospitava un solo cratere centrale mentre oggi ne ha cinque. «Camminarci intorno è emozionante, in bilico tra gli inferi, immersi in densi vapori mefitici, borbottii e crepitii». Sul fondo «possono innalzarsi piccoli coni che sputacchiano lava color vermiglio». Dalle vette dell’Etna si osservano colate di diverse epoche. In alcuni punti «grandi colonie di coccinelle rosse si annidano tra le rugosità del magma, disposte in piccoli grappoli». In altri, depositate sui manti di cenere sdrucciolevole, si trovano le «bombe vulcaniche», massi sputati fuori dalla bocca del vulcano. I paesaggi cambiano in base alla zona: «Idda» è variegata, con la sua area di
oltre mille e duecentocinquanta chilometri quadrati (per circoscriverla interamente bisogna percorrere circa centocinquanta chilometri). Il secondo vulcano italiano che spicca per spettacolarità è Stromboli, «Iddu» o «Il faro nella notte» come era chiamato nei secoli passati quando non esistevano illuminazioni artificiali e quella luce era provvidenziale per la navigazione. La sciara del fuoco, cioè il ripido pendio formato da lapilli e scorie incandescenti che dal cratere scende fino al mare, rappresenta il cuore pulsante della montagna. «Col calare delle tenebre, quando i brandelli lavici vengono sparati fuori dai crateri sommitali, centinaia di metri più su, ne nasce uno show pirotecnico di straordinaria bellezza». Il modo più semplice per osservare il fenomeno è dal mare. Durante la stagione turistica, ogni sera decine di imbarcazioni arrivano vicino all’isola, cariche di passeggeri. È fondamentale rimanere a debita distanza, perché eruzioni violente possono riversare, in pochi secondi, valanghe di materiale rovente in acqua. Catastrofi con proporzioni gigantesche sono accadute in passato, «generando enormi onde di maremoto», registrate da testimoni illustri come Francesco Petrarca nel 1343. Lo spettacolo di «Iddu» si può ammirare anche dalla terra ferma, raggiungendo il campo base di Punta Labronzo, una terrazza con un ristorante dove «si gode delle scintille color arancio che dalla sommità irrompono nel cielo zaffiro del tramonto, e poi in quello notturno». Fino a una ventina di anni fa era consentito salire più in alto, oltre i quattrocento metri, ma successivamente è stato vietato ogni accesso per ragioni di sicurezza. «Lo Stromboli e l’Etna sono i due vulcani che suggerirei di visitare per primi, per chi volesse
Sabrina Mugnos, vulcanologa autrice di Draghi sepolti, a Stromboli.
programmare un primo viaggio sulla via del fuoco italiana. Hanno l’attività pirotecnica più intensa. Stromboli, inoltre, è un luogo indubbiamente romantico» dice Mugnos. Il viaggio di Draghi sepolti continua sempre nelle Eolie, in Sicilia, con Vulcano, conosciuto anche come «Il fabbro degli dei». La sua attività sotterranea si manifesta con emissioni sulfuree che richiedono particolare cautela. Sulle pareti scoscese, sabbiose e in parte fumanti del cratere lasciato dall’ultima eruzione, bisogna fare attenzione a non rimanere intossicati dai gas, soprattutto nel caso di fuoriuscite di anidride carbonica, che tende ad accumularsi sul suolo e nelle depressioni. Sull’isola «sono vietati i campeggi ed è assolutamente sconsigliato infilarsi dentro cavità o avvallamenti di ogni genere». Qui, come altrove, è sempre raccomandabile affidarsi a una guida. I pericoli, infatti, sono in agguato: esplosioni;
fuoriuscite di lava; fughe di gas; cedimenti del suolo. In Campania c’è lo sterminator Vesuvio, «una bocca scura spalancata verso il cielo, larga quasi mezzo chilometro e profonda trecento metri: un’enorme voragine, buia come l’inferno». Il vulcano è stato celebrato nell’Ottocento da Giacomo Leopardi e Johann Wolfgang Goethe che in una delle tre ascensioni si ritrovò sotto una pioggia di lapilli. Poco distanti, nel Golfo di Pozzuoli, i Campi Flegrei, che da soli potrebbero generare un cataclisma capace di sconvolgere i cinque continenti. In Lazio, alle porte di Roma, si trova il grande vulcano dei Colli Albani, ancora attivo, «sta solo dormendo». Qualcosa bolle in pentola: studi recenti indicano che a diversi chilometri di profondità si sta accumulando magma fresco pronto a inaugurare un nuovo ciclo eruttivo. Non c’è da preoccuparsi, comunque, dato che i tempi, in termini
umani, sono lunghissimi, e si muovono sulla scala delle migliaia o forse decine di migliaia di anni. Nel testo di Mugnos le descrizioni dei luoghi e dei percorsi sono corredate da consigli gastronomici e riferimenti storici e letterari. Viene ricordato anche il ruolo fondamentale ricoperto negli studi di vulcanologia da Katia e Maurice Krafft, «la celebre coppia di vulcanologi alsaziani che rincorreva ogni eruzione in giro per il mondo». Chiamati «i diavoli dei vulcani», per le loro temerarie avventure – foto e video li ritraggono, vestiti con tute ignifughe argentate, vicinissimi ai fiumi di lava – morirono sul monte Unzen, in Giappone, per una colata piroclastica, una nube più densa dell’aria, formata da magma e gas. Sono stati celebrati nel documentario di Werner Herzog Into the Inferno, imperdibile per chiunque sia affascinato dai vulcani (disponibile online in streaming).
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Ambiente e Benessere
Il mondo a colori
Taccuini Suggestioni cromatiche per quando torneremo a viaggiare
Il 2020 è stato un anno difficile. I viaggiatori del passato conoscevano bene questa nostra situazione. Per esempio nel Settecento, l’età d’oro del viaggio in Italia, alle prime voci di contagio, nell’alternarsi di smentite e conferme, ogni spostamento veniva sospeso a tempo indeterminato. E andava ancora peggio a chi veniva colto per via, tra timori per la propria salute, passaporti sanitari o lunghe quarantene in un lazzaretto. Nell’ultimo secolo tutto questo fu dimenticato, man mano che il viaggio diventava sempre più facile e sicuro. Poi, pochi mesi fa, queste memorie di un tempo remoto sono tornate improvvisamente d’attualità, quando un’industria gigantesca si è arrestata, lasciando aerei bloccati a terra e navi da crociera pigramente stazionate al largo, vascelli fantasma vuoti e silenziosi. Anche la nostra immaginazione si è fermata. Senza la ventata d’aria fresca di altri climi, orizzonti e culture, siamo rimasti prigionieri del nostro quotidiano, del già visto e sentito. Il viaggio è un momento d’apertura, una linea tangenziale che ci proietta verso l’esterno, il nuovo e il diverso; ora invece i nostri giorni sono avvolti in una stanca ripetizione circolare. Ma forse proprio nel vuoto e nell’assenza abbiamo compreso la bellezza e l’importanza della vita nomade, il senso profondo dell’andare. Da Ulisse in poi, il viaggio ci regala una mente colorata, variegata, multiforme, aperta alla bellezza e alla varietà del creato. Chi non viaggia, chi non si allontana mai dalla propria casa, vede il mondo in bianco e nero, senza sfumature. Ecco perché al termine di questo 2020 desolatamente immobile abbiamo voluto ricordare, in compagnia del pittore e viaggiatore Stefano Faravelli, i colori del mondo, raccontando alcuni luoghi dove una tinta, una gradazione, improntano di sé tutto l’ambiente circostante, risvegliando la nostra meraviglia. È un viaggio tutto immaginario (per ora), ma anche una fonte d’ispirazione per il nuovo anno, quando torneremo a sollevare coi nostri passi la polvere della strada. / Claudio Visentin
Illustrazioni e testi di Stefano Faravelli
I colori dei sogni (Dancalia, Etiopia)
Si può dubitare che l’antico vulcano di Dallol, ai margini del Lago Assale in Dancalia, sia una contrada terrestre. Ma cos’è allora questo giardino lisergico di sale e di zolfo? Con fortezze e castelli di
Marrakech, la Città rossa. Anzi rosa. Migra una scheggia d’intonaco sulla mia pagina: frammento che è di tutti i muri, tutti gli archi, tutti i driba, i dedali di questa città labirinto. Ora è un’isola nel mare bianco della carta, una nota di rosa sporco come talvolta è il fango
La città rossa (Marrakech, Marocco)
seccato al sole. Nella mia palette di acquerelli la cerco tra l’ocra rossa francese e l’ossido di ferro detto rosso veneziano. Colori preistorici. Questo apporto oggettuale è già una piccola melodia: nell’economia imposta dal suo colore ritraggo la fuga di un derb e l’infilata di archi moreschi nella quale mi sono
Verde stupore (Foresta del Madagascar)
Giallo Gingko (Hida, Giappone)
L’occhio umano percepisce radiazioni di lunghezza d’onda fra 400 e 700 nanometri, che cromaticamente vanno dal rosso al verde al blu. Ma le sfumature che hanno lunghezze d’onda comprese fra i 490 e i 570 nanometri si distinguono meglio e sono quelle corrispondenti al verde. Questa maggiore capacità di percepire la gamma dei verdi, rispetto ad altre sfumature di colori, potrebbe essere una vestigia dell’adattamento umano ai rischi della vita nelle foreste primordiali. Vedere più sfumature di verde vorrebbe dire percepire con maggior precisione la presenza di una preda o di un predatore, riconoscere una pianta commestibile da una che non lo è. Per quanto queste spiegazioni «scientiste» mi sembrino sempre un po’ rozze, per un pittore la foresta pluviale è una straordinaria sfida cromatica. Avevo portato con me una scatolina apposita con una gamma di verdi ma naturalmente tutta la palette ha concorso alla resa della viriditas, vuoi per contrasto, vuoi per mescolanza. E su tutto fu determinante l’apporto del bianco. Perché il re dei colori della foresta è il biancastro dei miceti: ascomiceti, mixomiceti… muffe insomma. È presente quasi ovunque come maculatura, nei tronchi e sui rami, nei festoni di liane e sulle marcescenti foglie del substrato; pronto a colonizzare ogni corpo morto e a prevalere su ogni vivente. Un grigio verdastro: ecco il vero colore della foresta.
Per viaggiare in Giappone avevo preferito l’autunno, memore di quell’haiku di John Donne, poeta elisabettiano: «Né la primavera né la bellezza d’estate hanno la grazia / che ho visto sul viso dell’autunno». Più delle nevicate dei petali dei ciliegi, dunque, immagine di un’impermanenza passeggera perché preludio al rigoglio del frutto, mi seduceva il tempo del vero sfiorire, celebrato magistralmente da quest’altro haiku, tutto giapponese, del monaco shintoista Aratika Moritake (1452-1549): «Da ogni cosa che cade / nasce qualcosa / che assomiglia all’autunno». A quel cadere dovevano ispirarsi i miei Taccuini dal mondo fluttuante. Così praticai quella che gli antichi giapponesi chiamavano momijigari, la «caccia all’acero», che è una caccia sottile (avrebbe detto Jünger) al rosso più rutilante delle foglie stellate dell’Acer Japonicum. Ma il culmine della grazia sul viso dell’autunno non fu la chioma infuocata dell’acero, bensì quella giallo cadmio di un Gingko, il sacro Gingko del Tempio Kokubunji nella prefettura di Hida, non lontano da Kyoto, vecchio di milleduecento anni. In margine all’acquerello ho annotato un mio fuggevole pensiero: «In primavera e in estate l’albero si nutre di luce. Ma in autunno diventa luce. È un buon esempio di come si dovrebbe invecchiare».
vetro, laghi viola e verde mela? La meraviglia era tale che non ho dipinto sul posto che due paginette. Il suolo è vivo. Parla, borbotta, sussulta, sfiata aliti mefitici. Forbidden planet: «Attento a dove metti i piedi!» grida D., mia compagna
di viaggio in queste terre ballerine. Poi mi racconta che nel corso di una sua escursione la crosta vitrea ha ceduto e lei è finita con un piede in una polla di acqua bollente. Al campo mi mostra la cicatrice circolare lasciata dall’ustione.
perso cercando la Zawiya di Sidi Bel Abbès. Mentre lavoro e il profumo di un tajine mi avvolge, e le voci dei bambini si impigliano alle ragnatele di fili sospesi, e i passanti sbirciano il progredire del disegno, io so di essere già stato qui. Non so quando, ma Marrakech è la mia città. Poi mi viene in mente che Elias Canetti racconta di aver avuto questa stessa sensazione. E allora non so più se mi sono involontariamente appropriato di una suggestione letteraria e ne ho fatto un falso ricordo anamnestico o se è questa stessa città, Circe della memoria, a stregare i suoi visitatori innamorati con l’illusione di uno struggente déjà-vu. In un vecchio libro trovo questi versi di Ennsila, oscuro poeta locale del XIX secolo: «Oh mon amie, tant qu’il restera un souffle de vie, je supplierai le Seigneur de me réunir avec ma belle, qu’Il permette mon retour à la Ville Rouge…» («Oh amico mio, finché ci sarà un soffio di vita, pregherò il Signore di riunirmi alla mia bella, che mi permetta di tornare alla Città Rossa…»)
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Ambiente e Benessere
La misteriosa vita dell’anguilla
Mondoanimale Un pesce dalle forme inusuali, che suscita fascino
e repellenza
Il Giappone fa marcia indietro? Motori In Europa si abbandona sempre
di più la benzina, mentre Toyota sembra tirare il freno a mano, e intanto arrivano novità tecnologiche al Ces di Las Vegas
Maria Grazia Buletti Nel corso dei secoli ha generato curiosità e rifiuto, fascino e disgusto. È un pesce, ma è pure altro: sembra un serpente, un grosso verme, un’identità sinuosa e viscida che nuota nel suo habitat acquatico, ma si pensa che, se il terreno è bagnato, riesca a superare alcuni ostacoli pure via terra. «Ed è in grado di farlo per diverse ore, sebbene sia un pesce», racconta Thomas Ammann, capo della sezione biodiversità del WWF Svizzera. Si parla dell’anguilla, sempre e ancora avvolta nel mistero: «Non è chiaro per quale motivo deponga le uova nel Mar dei Sargassi; biologicamente parlando non si sa come avviene l’accoppiamento e nemmeno come e dove di preciso deponga le uova. Il Mar dei Sargassi è immenso. Non c’è niente lì». È un pesce i cui antenati vivevano già ai tempi dei dinosauri, più di cento milioni di anni or sono, dalla natura adattabile che le permette di vivere ovunque sulla Terra. Complessivamente si contano 15 famiglie costituite da circa 800 specie fra le quali troviamo l’anguilla europea (Anguilla anguilla) che colonizza le acque dolci di tutto il Vecchio Continente, anche se oramai è considerata rara, tanto che un paio d’anni fa la Federazione svizzera di pesca (FSP) l’aveva designata pesce dell’anno 2018: «Un tempo era uno dei principali animali che popolavano i corsi d’acqua svizzeri, ma oggi si è fatta rara a causa delle installazioni per la produzione idroelettrica nei fiumi Ticino, Reno e Rodano». A questo proposito Ammann osserva che la riduzione del numero di anguille è stata notata solo negli anni Ottanta: «Essendo un pesce che vive fino a 20 anni, nessuno aveva notato che le unità stavano collassando a causa delle dighe e delle chiuse». Egli avverte che questa specie potrà essere salvata soltanto se tutti insieme collaboriamo a livello internazionale. Tutto ciò nulla toglie alla vita straordinaria dell’anguilla che si sposta per diverse migliaia di chilometri dalle acque interne o da quelle costiere (nelle quali trascorre la maggior parte della vita) fino al Mar dei Sargassi dall’altra parte dell’Atlantico: «Per l’intera durata della sua migrazione l’anguilla non mangia e il suo apparato digerente regredisce. Diventa un’anguilla argentata». Ammann racconta che i genitori muoiono dopo la riproduzione e nel corso dei successivi tre anni, le larve di anguilla ritornano in Europa traspor-
Mario Alberto Cucchi
Anguilla europea (Anguilla anguilla) nell’acquario urbano di Southend-on-Sea in Inghilterra. (Emöke Déne)
tate dalla corrente del Golfo: «In prossimità delle coste europee esse mutano dapprima in anguille cieche e successivamente in anguille gialle che migrano nuovamente verso i fiumi». Non si conosce ancora il motivo per cui le nascite delle nuove anguille avvengono tutte nel Mar dei Sargassi. Si sa però che i piccoli impiegheranno circa tre anni per fare a ritroso il viaggio dei genitori: «All’inizio si pensa che si spostino passivamente seguendo la corrente, mentre dopo aver sviluppato la capacità di nuotare pare che riescano a seguire le orme dei genitori senza problemi, lasciando l’acqua salata per maturare e crescere in quella dolce». Devono passare una quindicina d’anni perché l’anguilla decida che è giunto il momento di riprodursi e allora riparte alla volta del famoso Mar dei Sargassi: «Il suo ciclo vitale è più che complesso e ancora poco studiato se pensiamo che si tratta di un pesce che percorre tra i 15 e i 40 chilometri al giorno per oltre seimila chilometri complessivi». Ma le sorprese non finiscono qui, perché si sa che giunta nel Mar dei Sargassi, l’anguilla europea si riunisce con quella africana e quella americana: «Non è dato neppure di sapere perché tutte le anguille del mondo nascano lì per poi ritornarvi». Alcuni scienziati sostengono però che a mettersi in viaggio siano solo le femmine: «Pare che i maschi restino in prossimità della riviera marittima». Altri studiosi sostengono invece che la femmina possa cambiare sesso durante
il suo lungo viaggio: «In realtà queste restano solo ipotesi perché nessuno è mai riuscito a seguire un’anguilla dalla nascita fino alla sua maturazione». Se, come abbiamo visto, si sa che muore una volta giunta a destinazione e dopo essersi riprodotta, il mistero avvolge ancora motivazioni e percorsi dell’anguilla che così diventa un pesce interessante e affascinante. Un vero enigma oggetto di teorie e leggende che lo scrittore svedese Patrik Svensson traduce nel libro Nel segno dell’anguilla (Guanda) pubblicato in oltre 32 paesi. Un vero caso editoriale che parla di un padre e un figlio pescatori di anguille che escogitano sempre nuovi metodi per «mettere le mani su questa creatura degli abissi, del buio e del fango, per catturare il suo corpo viscido e guizzante e guardare nei suoi occhi nerissimi». Una sfida con quello che nel libro viene definito come «l’animale più sfuggente di tutti», che insegna al figlio a imparare dalla natura che diviene vera e propria maestra. L’autore non fa altro che enfatizzare e puntualizzare questo pesce che per millenni ha affascinato pensatori, scienziati ed esploratori: da chi, come Aristotele, dell’anguilla ha studiato l’origine, l’essenza e le sorprendenti metamorfosi (anfibio, serpente di mare, pesce d’acqua salata o dolce), a un giovanissimo Freud che si è dedicato con ostinazione allo studio dei suoi meccanismi riproduttivi, fino ai biologi che hanno scandagliato oceani per seguire le sue migrazioni.
La strada per le quattroruote di questo 2021 si prospetta tortuosa. Se da una parte la mobilità individuale garantita dall’auto nutre sempre più estimatori, dall’altra va detto che gli automobilisti spesso si trovano quantomeno disorientati quando si tratta di cambiare auto. E se non bastasse il fatto di doversi cimentare nella valutazione di una nutrita giungla di modelli, versioni e allestimenti, lo scoglio più importante è rappresentato dalla scelta del tipo di motorizzazione. Un propulsore tradizionale oppure un elettrico? Ibrido ricaricabile alla spina oppure mild? Ecco che a creare ancor più confusione è arrivato a fine anno Akio Toyoda. Proprio lui, il Presidente di Toyota Motor. In un’intervista rilasciata al «Wall Street Journal», il nipote del fondatore della Casa automobilistica Kiichiro Toyoda, ha detto che «il Giappone andrebbe certamente incontro a un blackout durante il periodo estivo se tutte le auto fossero alimentate a batteria. (…) Più auto elettriche si costruiscono, peggiori saranno le emissioni di biossido di carbonio» ha dichiarato Toyoda. «I sostenitori dei veicoli elettrici non considerano le emissioni di anidride carbonica generate dalla produzione di elettricità e i costi della transizione verso questa forma di mobilità. Quando i politici dicono “liberiamoci di tutte le auto a benzina”, capiscono cosa significa?» ha sottolineato il manager ricordando come il Giappone dipenda fortemente dal carbone e dal gas naturale per la produzione di elettricità. Ma come? Toyota è stata una delle prime a credere nell’elettrificazione nel
1997 con la Prius. E adesso? Forse non è ancora pronta per proporre agli automobilisti una gamma di vetture elettriche e allora il Ceo della Casa giapponese cerca di usare il suo peso per tirare il freno a mano. Eppure, aveva annunciato un programma di investimenti miliardari per lanciare sei nuovi modelli a batterie entro il 2025. Qualcosa non torna. Negli stessi giorni in cui parlava Mr. Toyoda, qui in Europa il Ceo di Volkswagen, Herbert Diess, raccoglieva la fiducia di azionisti e sindacato per il passaggio totale verso la mobilità green. Il Gruppo tedesco ha investito circa 35 miliardi nella transizione tra i propulsori e per il 2030 conta di avere sul mercato 70 modelli elettrici. Persino la storica sede di Wolfsburg è destinata a diventare a medio termine una fabbrica pionieristica per la produzione altamente automatizzata di veicoli a batteria. Intanto, a gennaio, è anche tempo di CES. Dall’11 al 14 si terrà a Las Vegas, per la prima volta in formato esclusivamente digitale, il più importante evento annuale dell’innovazione tecnologica. «Ovviamente l’elettrificazione sarà al centro della scena, basti pensare ai pickup americani: cavalli e benzina soppiantati da motori a batteria, Hummer EV è solo l’ultimo di una lunga lista» ha spiegato Steve Koenig, vicepresidente della ricerca alla Consumer Technology Association statunitense. Alla rassegna debutteranno super batterie in grado di ricaricarsi al 90% in sei minuti. Insomma, il mondo punta ancora sull’elettrico. Ma forse Mr. Toyoda ha un asso nella manica: l’elettrico alimentato a idrogeno. Il fuel-cell. E allora si spiegherebbero tutte le sue dichiarazioni choc.
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Idee e acquisti per la settimana
Raffreddore addio
Quando le mucose delle vie respiratorie sono secche, gli agenti patogeni possono penetrare facilmente nel corpo. Spray per la gola, sciroppo per la tosse e pomata per il naso aiutano a rigenerarsi
In caso di mal di gola Lo spray delicato e isotonico idrata, lenisce e protegge le mucose della gola e della faringe. Scioglie il muco e favorisce il trattamento del mal di gola e della raucedine. Indicato per adulti e bambini a partire dai 2 anni. Sanactiv Spray per la bocca e la gola 30 ml Fr. 7.45 In caso di tosse secca Lo sciroppo senz’alcol con muschio islandese, estratto di malva e miele calma la mucosa della gola e lenisce in caso di tosse secca e raucedine. Sanactiv Sciroppo per la tosse 200 ml Fr. 8.90
Libera il naso Lo spray per il naso con mentolo libera il naso e dà sollievo in caso di raffreddore e congestione nasale. Indicato per adulti e bambini da 3 anni. Sanactiv Spray nasale all’acqua di mare con mentolo 20 ml Fr. 5.60
In caso di tosse da raffreddamento Le pastiglie hanno un effetto espettorante e calmante in caso di tosse, raucedine e catarro. Dose consigliata per gli adulti: 1 pastiglia all’ora da sciogliere in bocca, massimo 8 pastiglie al giorno Sanactiv Pastiglie per i bronchi 40 Pastiglie Fr. 8.95
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Liberi durante l’inverno: aggiungete qualche goccia di oli eterici all’acqua e inalate. Ideale per bagni completi e a vapore, sauna, lampade profumate e umidificatori. Sanactiv Olio per inalazioni 10 ml Fr. 4.90
Per il naso La crema per il naso lenisce in caso di mucosa nasale dolorante, secca e irritata. La lanolina e l’olio di sesamo proteggono le mucose nasali, eliminano delicatamente le croste, ammorbidiscono le zone ruvide e sostengono la rigenerazione. La combinazione di glicerina e sale marino dell’Atlantico aiuta a mantenere le mucose umide.
Protezione per le mucose Le pastiglie aiutano in caso di tosse secca e raucedine. Proteggono le mucose della gola e della faringe. Per adulti e bambini dai 4 anni. Dose consigliata: al bisogno lasciar sciogliere in bocca 1-2 pastiglie più volte al giorno. Sanactiv Pastiglie contro la tosse al muschio islandese 40 pezzi Fr. 4.90
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Ambiente e Benessere
La tradizione dei vini d’Abruzzo
Scelto per voi
Bacco giramondo Dalla provincia di Teramo alle nuove denominazioni comunali
come Ortona, Villamagna e Tullum Davide Comoli L’Abruzzo, definita «Regione verde d’Europa» per la presenza di numerose riserve naturali e Parchi Nazionali, è altamente vocato alla viticoltura grazie alle sue condizioni climatiche. Dal punto di vista territoriale (l’Abruzzo consta di 10’795 km2) è occupato dal 65 per cento di montagne, mentre il restante 35 è composto da colline, quindi non ha una vera pianura. I massicci della Maiella e del Gran Sasso salgono sino a sfiorare 3000 metri slm e, per la loro collocazione poco distante dal mare, influiscono in maniera determinante sulla situazione meteorologica, determinando un clima ventilato con forti sbalzi termici tra giorno e notte, tra estate e inverno. In una situazione ambientale di questo genere, è comprensibile che la viticoltura sia divenuta, con l’andar del tempo, l’attività principale della popolazione agricola, che attraverso la coltura vinicola ha potuto tramandare e consolidare le proprie tradizioni. Che il binomio Abruzzo/vino sia consolidato da tempo, ci viene confermato dalla storia, e infatti recenti studi fanno risalire all’età del ferro le prime colture viticole e la produzione del vino in questa regione. Successivamente gli Etruschi introdussero la coltivazione nazionale
della vite tra il VII-VI sec. a.C., insegnando ai locali il sistema di maritare agli alberi la vite. Narra la storia che Annibale, prima della tremenda battaglia di Canne (216 a.C.) riuscì a far guarire i cavalli del suo esercito malati di scabbia lavandoli con il vino prodotto dai Marsi e dai Sanniti; rimessa in sesto la sua cavalleria, riuscì a imporsi in quella che per Roma fu una delle più cocenti sconfitte. In epoca augustea, l’abruzzese poeta Ovidio, nel suo capolavoro Le Metamorfosi, descrive i vigneti della Valle Peligna, esaltandone la bellezza, rievocando il vincolo che lega l’olmo alla vite per descrivere le sue pene amorose, e definendo questa sua terra «ricca del dono di Cerere e ancor più feconda di uve». Il vino «Preturia», considerato dai Romani come un «grand cru», viene più volte citato da Plinio il Vecchio. Da Marziale invece abbiamo conferma che i vini abruzzesi venivano serviti sulle mense di Roma, mentre dal medico Dioscoride sappiamo che di questi vini si faceva largo commercio lungo le coste Adriatiche. Dopo un periodo buio, con il sorgere e diffondersi del monachesimo, la vite ritornò a fiorire, ma poco e nulla sappiamo di quello che accadde sino al Rinascimento: saranno il domenicano Serafino Razzi e l’autorevole Andrea Bacci che tracceranno un quadro del-
la vitivinicoltura del tempo (XVI sec.). Sappiamo che alla fine del XIX sec. il patrimonio ampelografico era considerevole, ma all’inizio del Novecento arriva il flagello della filossera. Oggi l’Abruzzo conta circa 32mila ettari vitati, la maggior parte d’allevamento è quello della pergola abruzzese. Indiscusso protagonista del panorama ampelografico della regione è il Montepulciano (da non confondere con il toscano Vino Nobile), vitigno molto versatile che dà un vino dal colore rosso granato che può essere bevuto giovane o dopo lungo affinamento; può essere usato per produrre anche spumanti, ma vi consigliamo di provare il profumatissimo Cerasuolo rosato, prodotto dal Montepulciano d’Abruzzo. Il Trebbiano Toscano e il Trebbiano Abruzzese sono i due vitigni che per anni hanno rappresentato la base per la produzione di tutti i vini bianchi della Regione. Dalla fine degli anni Ottanta però c’è stata una riscoperta che ha riportato in auge i vitigni autoctoni bianchi di cui si era quasi persa la memoria: il Pecorino, la Passerina, la Cocciola e il Montonico, vinificati in purezza; seppure ricoprono solo il 5% della produzione, hanno conquistato (anche per il prezzo) una bella fetta del mercato non solo nazionale. Provenendo dalle Marche, incontriamo la provincia di Teramo, con le
Nei pressi di Corropoli. Provincia di Teramo. (Peter For)
sue dolci colline attraversate dai fiumi Salinello, Tordino e Vomano; qui il Montepulciano d’Abruzzo esprime al meglio le sue peculiarità, ottenendo l’unica D.O.C.G. della regione Colline Teramane. Vino ricco di sfumature ottenute dopo lunghi periodi passati nel legno, il Montepulciano d’Abruzzo D.O.C.G. è l’ottimo compagno per un piatto tipico come il Gnemeridde, frattaglie d’agnello e capretto ridotte a strisce e rinserrate in gomitoletti, donde il nome, infilzate nello spiedo o soffocate in padella con olio, cipolla, pomodoro e formaggio pecorino. In provincia di Teramo anche la Passerina e il Pecorino danno vini freschi e fruttati, di buona struttura e alcolicità, ottimi con i piatti di pesce del prospiciente Adriatico. In alcuni comuni della zona trovano spazio anche taluni vitigni internazionali che si esprimono in vini monovarietali con denominazione controversa. Scendendo verso sud, troviamo la provincia di Pescara, suddivisa in due zone vinicole, Terre dei Vestini e Terre di Casauria. Questi terreni vocati alla viticoltura, esposti a forti escursioni termiche dati dalle brezze marine, permettono al Trebbiano d’Abruzzo di produrre vini bianchi strutturati; da provare se passate da Castiglione di Casauria, e se siete fortunati, il particolare Moscato Passito da bersi intingendo i tipici taralli. Nell’interno, i vigneti hanno una produzione piuttosto limitata. La Valle Peligna, in provincia dell’Aquila, si trova ai piedi della Maiella e del SirenteVelino, in una conca denominata Terre dei Peligni. Qui si produce un elegante Montepulciano, come nella zona dell’Alto Tirino, dalle esposizioni più soleggiate, dove con lo stesso vitigno si producono ottimi rosati dai deliziosi profumi di frutti di bosco: non esitate quindi a provare il Cerasuolo con il famoso brodetto abruzzese di pesce. La provincia di Chieti (confinante con il Molise), è considerata il gigante dell’enologia abruzzese, legata soprattutto alle grandi cooperative che per anni hanno fornito Montepulciano e Trebbiano al mercato globale, sfuso o in bottiglie di grossa capienza. Ai giorni nostri pur concentrando l’80 per cento della produzione regolare, stanno cercando di diversificare l’offerta valorizzando sia i vitigni tradizionali sia quelli internazionali. Sono nate così le denominazioni comunali come Ortona, Villamagna e Tullum
R. Renaudin Réserve brut
Épernay è la città francese dello Champagne per antonomasia. Vanta dorsali favorevoli alla viticoltura. All’uscita sud della D9 inizia la prestigiosa Côte des Blancs, dove dopo pochi chilometri troviamo il piccolo villaggio di Moussy. In questo luogo, fondata nel lontano 1724, troviamo la Maison R. Renaudin, un R.M. (Récoltant manipulant), un produttore custode nel tempo delle tradizioni, che vinifica e spumantizza le uve dei suoi vigneti. Poco conosciuto alle nostre latitudini, è comunque ben presente nelle maggiori guide internazionali. Dopo vari passaggi sia in acciaio sia in legno, senza malolattica, e il prolungato invecchiamento di 84 mesi sui lieviti, fanno del Renaudin Réserve lo Champagne per brindare al Nuovo Anno. Frutto di un assemblaggio di Chardonnay 70%, Pinot nero 15% e Pinot Meunier 15%, rappresenta l’eccellenza di questa Maison; il suo perlage fine e persistente esalta i profumi di crosta di pane e pasticceria lievitata (panettone) ed è invidiabile al palato la sua freschezza. Lo abbiniamo a tutto pasto con menu a base di pesce o carni bianche, ma se volete stupire i vostri ospiti, servitelo con schegge di Parmigiano Reggiano «asperso» di gocce di aceto Balsamico Tradizionale. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 42.–. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Ambiente e Benessere
La rivincita dei tagli minori
Gastronomia La nuova tendenza culinaria in Europa, ma non solo, è data dalla crescita del consumo
Tempo di nuovi inizi, dopo essere passati attraverso il vecchio 2020 che è stato un anno anomalo e tremendo per tutti, ma in modo particolare per hotellerie e ristorazione. Un anno difficile anche per chi guarda da fuori, in cerca delle tendenze gastronomiche che, di questi tempi sembrano essere state solo accennate, in Italia ma anche altrove; personalmente qualche novità l’ho percepita, nonostante le complicazioni della vita godereccia. Di sicuro una tendenza è la forte crescita del consumo di carne «buona», qualunque cosa voglia dire. Parlo ovviamente della carne cosiddetta base, ovvero quella di bovini, non delle altre. Premessa. Fino a pochi anni fa nei ristoranti c’era prevalentemente carne «povera»: che sia chiaro, spesso, a parità di animale, è anche più buona di quella dei tagli ricchi, ma questo è un altro discorso. Quindi polpette, fettine, tante frattaglie, che allora costavano poco, trippa su tutte, e simili. Mentre i filetti e i controfiletti, da sempre l’epitome dei grandi piatti di carne, latitavano; ed erano peraltro sempre costosi, quindi con una domanda limitata. Poi, recentemente, ha avuto luogo un evento epocale: per tanti motivi, dall’emergere dei vegani e vegetariani, all’attenzione verso i criteri di allevamento in quelli intensivi e meno, e per tanti altri fattori, il consumo di carne si è stabilizzato e inevitabilmente – così accade di regola in ogni mercato statico, dove la crescita non c’è – i prezzi prima si bloccano e poi si contraggono. Per gli allevatori, e per i consorzi pubblici che tutelano e a volte certificano le carni, non c’è scelta: tocca vendere di meno ma più buono, a prezzi forse non ottimali ma accettabili. Quindi per la ristorazione, nascono distributori specializzati, mentre per la vendita al pubblico iniziano a prosperare pochi ma buoni punti di vendita. Da qui anche l’aumento della cura e delle attenzioni riservate agli animali, e al modo in cui vengono allevati e nutri-
ti, così da poter proporre prodotti sempre più sostenibili e di pregio – garantendo così l’esistenza della carne base, che non può, giustamente, smettere di essere materia gastronomica e sostentamento nutrizionale. Lentamente, ma in prevalenza per l’alta gamma, incomincia ad arrivare carne da tutto il mondo, dato che le vecchie barriere doganali sono, se non saltate, di certo incrinate – pur avendo ottima carne in Europa, sia chiaro. Soprattutto vince la carne Angus, di origine scozzese, ma oramai allevata in tutto il mondo anglofono e anche altrove. Ad affiancare questa materia prima, si trova la carne Wagyu, considerata giustamente la più buona al mondo, dalla perfetta marezzatura: ma questa appartiene davvero a una nicchia dai prezzi altissimi. Seguendo questa tendenza, i patron dei ristoranti si ritrovano a poter avere a che fare con carni anche ottime, sempre più abbordabili. Da qui la scelta di iniziare a puntare sulla carne risulta essere più che logica. Come logica è la successiva conseguenza: il mercato cresce, come crescono i ristoranti specializzati. Accanto a T-bone e alle Porterhouse (simili ma in linea di massima più spesse delle T-bone, perché dovrebbero essere alte almeno 32 mm) – tagli amati perché di cottura veloce, che costosi restano – iniziano a prosperare anche «altri» tagli, ma di ottime bestie. Tagli in genere dalle cotture lunghissime, anche grassi, e pure ricchi di collagene, che non generano però difficoltà ai ristoranti, data l’esistenza della cottura a bassa temperatura. In tutto questo, il ruolo del magistero dei latino americani, dove la cultura della carne ha sempre dominato, è stato importantissimo. Se per quanto riguarda il pesce, il ruolo chiave, nell’innovazione in Europa, è stato dei giapponesi, per la carne dobbiamo ringraziare i latino americani. Quanto andrà avanti questo successo? Dirlo senza una sfera di cristallo non è possibile. Ma credo a lungo. Peraltro, va detto, sono un grande fan dei tagli minori, e si vede.
CSF (come si fa)
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Allan Bay
Pixabay.com
di carne «buona»
Per i tagli «minori» dei bovini, la cottura principe è la brasatura. Vediamo come si fanno due gustosi brasati. Brasato ai funghi (ingredienti per 4 persone). Ponete in ammollo 1 pugno di funghi secchi molto abbondante, lasciate in acqua tiepida per 20 minuti, scolateli strizzateli e tritateli con 2 fette di prosciutto cotto, 1 rametto di rosmarino, 1 ciuffo di salvia e 1 spicchio
d’aglio. Scaldate in una casseruola 1 noce di burro e rosolate per 6 minuti 1 kg di polpa di bue – scamone o fesa o polpa di spalla – intera e fatela colorire. Sfumatela con 2 bicchieri di vino bianco, unite il trito, 2 cipolle mondate e spezzettate, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro sciolto in 1 bicchiere di brodo di carne e 1 mazzetto guarnito. Coprite a filo di brodo bollente e cuocete la carne, coperta e a fuoco basso, per circa 4 ore, unendo poca acqua bollente se necessario. Scolatela e tenetela al caldo. Eliminate il mazzetto, profumate con 2 chiodi di garofano pestati, 1 grattugiata di noce moscata e 1 pizzico di cannella, quindi frullate il fondo con il mixer a immersione. Regolate di sale e di pepe, spolverizzate con prezzemolo tritato e servite la carne tagliata a fette nappata con il fondo.
Brasato allo scalogno (per 4 persone). Prendete 1 kg di scamone – o codone di bue – fatelo rosolare per 10 minuti in 40 g di burro, poi unite 1 bicchiere di vino bianco secco e fatelo sfumare rigirando il pezzo di carne. Aggiungete 10 scalogni – ma dipende da quanto sono grossi – mondati e spezzettati, 1 mazzetto guarnito e 100 g di pancetta tagliata a dadini. Bagnate con brodo di carne e cuocete, coperto e a fuoco dolcissimo, per 4 ore unendo poca acqua bollente se asciugasse troppo. Alla fine, eliminate il mazzetto, scolate la carne tenendola in caldo, frullate il fondo con il mixer a immersione, addensatelo se è il caso, poi regolate di sale e di pepe. Affettate la carne e servitela nappata con il fondo emulsionato con 4 cucchiai di panna fresca e spolverizzato con prezzemolo tritato.
Ballando coi gusti Oggi due dolci, poiché le feste stanno finendo e quindi è giusto festeggiarle ancora…
Ciambella al cioccolato
Dolci di fichi secchi
Ingredienti per 6 o più persone: 550 g di farina · 200 g di mandorle spellate · 250 g di zucchero · 250 g di burro · 5 uova · 1 dl di latte · 1 kg di pere · 200 g di miele · crema di cioccolato.
Ingredienti per 6 persone: 100 g di fichi secchi · 50 g di gherigli di noce · 50 g di mandorle sgusciate · 250 g di farina di mais · 50 g di zucchero · olio di oliva · sale e pepe.
Setacciate la farina e unite 6 cucchiai di crema al cioccolato, le mandorle tritate, lo zucchero, il burro a pezzetti, le uova e il latte. Impastate, tenete in frigorifero per 30 minuti. Trasferite in uno stampo e cuocete per 45 minuti in forno a 190°. Sfornate e lasciate raffreddare. Per la farcia, mondate le pere, eliminate il torsolo e dividetele a quarti. Fatele cuocere per 10 minuti in un tegame con 2 dl di acqua e il miele. Scolatele e disponetele sulla base di pasta cotta. Arricchite con altra crema al cioccolato e servite.
Sbollentate i fichi secchi per 2 minuti, poi tagliateli a pezzetti; scottate in acqua bollente anche le noci e le mandorle, sbucciatele e tritatele. Mettete in una ciotola i fichi, le noci e le mandorle tritate, lo zucchero, 1 cucchiaio di olio, un pizzico di sale e uno di pepe e iniziate a impastare aggiungendo, poca per volta, tanta acqua calda quanta ne occorre per ottenere un composto morbido. Ricavate dall’impasto delle pagnottelle rotonde larghe circa 5 cm e leggermente schiacciate. Disponetele su una teglia unta di olio e cuocetele in forno a 180° per circa 30 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare prima di servire.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Politica e Economia Divorzio consensuale L’accordo Londra-Ue sulla Brexit regolamenterà i rapporti fra i due blocchi dal 1. gennaio 2021 pagina 18
Il Covid rilancia l’Asia Oltre alla Cina ormai quasi prima della classe in termini di Pil e in sorpasso sugli Stati Uniti prima del previsto, si aggiungono le prime tensioni fra Joe Biden e gli europei proprio su Pechino
Metamorfosi di un cantone Le trasformazioni che hanno accompagnato lo sviluppo socioeconomico del Ticino, nell’ultimo libro di Angelo Rossi
Un modello per la Svizzera? L’accordo di libero scambio concluso fra Gran Bretagna e UE ripropone interrogativi sulla posizione del nostro paese
pagina 19
pagina 20
pagina 21 La premier scozzese Nicola Sturgeon posa sul terrazzo della Scottish National Investment Bank. (AFP)
Effetti collaterali
Il Regno Unito dopo la Brexit Esiste il rischio piuttosto concreto di disintegrazione dello Uk
via referendum scozzese e riunificazione irlandese
Lucio Caracciolo Tutti parlano della Brexit, ora che è finalmente partita. Pochi si preoccupano di una delle sue possibili, non volute quanto strategiche conseguenze: la dissoluzione del Regno Unito. Le cui linee di faglia erano già inscritte nel referendum sulla Brexit del 2016. Quando infatti l’Inghilterra (salvo Londra, al 59,93% per il remain), insieme al Galles (52,53%) votò per lasciare l’Unione Europea, mentre Scozia (62%) e la britannica Irlanda del Nord (55,78%) si espressero contro. Oggi il governo scozzese, per bocca di Nicola Sturgeon, first minister e leader del Partito nazionale scozzese, seccamente indipendentista, lavora a un secondo referendum di autodeterminazione, dopo quello del 2014, perso per poco: 55% contro 45% per restare nel Regno Unito. In particolare, già nel 2017
Sturgeon aveva annunciato davanti al parlamento scozzese di voler negoziare con Londra un Section 30 Order, necessario a legalizzare un nuovo referendum per l’indipendenza. Il 29 gennaio 2020 il parlamento scozzese ha approvato una mozione del suo governo per l’organizzazione del secondo plebiscito. Il governo britannico ha formalmente respinto questa proposta il giorno successivo. Boris Johnson ha ricordato a Sturgeon che i leader indipendentisti scozzesi avevano promesso che il referendum del 2014 sarebbe stato «l’unico per una generazione». Edimburgo ha poi sospeso i preparativi causa Covid-19, salvo poi annunciare una nuova mozione per il secondo referendum. La partita fra scozzesi e altri britannici (soprattutto inglesi) resta aperta. I più recenti sondaggi indicano una netta prevalenza del sì all’indipendenza: 58%. Questo contribuisce a rendere estrema-
mente improbabile il sì di Londra alla ripetizione del voto del 2014. In teoria, Edimburgo potrebbe allestire uno scrutinio non vincolante, che avrebbe comunque forte impatto in caso di vittoria indipendentista (e anche, all’opposto, se vincessero gli unionisti). Ma questa opzione pare superata dal clima di competizione fra governo britannico e governo scozzese. Un referendum consultivo, alla catalana, rischierebbe di provocare un intervento di forza da parte del governo britannico, con conseguenze difficilmente immaginabili. Il distacco della Scozia aprirebbe ferite a ripetizione nel corpo britannico. Sotto il profilo geopolitico, ad esempio, la decisiva proiezione artica del Regno Unito (e della Nato) ne sarebbe gravemente colpita. Fra l’altro, seri problemi riguarderebbero la stessa composizione delle Forze armate e la dislocazione delle basi militari britan-
niche, di strategica importanza anche per gli Stati Uniti. È ovvio che la eventuale, tutt’altro che improbabile secessione della Scozia infliggerebbe un colpo micidiale al Regno Unito. Anzitutto, fomenterebbe i nazionalismi e gli autonomismi interni. Gli irlandesi del Nord cominciano a prendere in seria considerazione, anche sul versante protestante – pro britannico, la riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. L’avvento alla Casa Bianca di Joe Biden, di origine irlandese, alimenta questa prospettiva. La prima telefonata fra Biden e Johnson, per quel che se ne sa, non è filata benissimo proprio sulla questione irlandese. Ma anche la partita gallese potrebbe inaspettatamente riaprirsi. Negli ultimi anni, il locale nazionalismo, a lungo poco più che folkloristico, ha ripreso quota. È insomma tutta la «frangia celtica» a fibrillare, per la massima inquietudine di Londra.
Né si può escludere la crescita del nazionalismo inglese. Le bandiere bianco-rosse, marchio anglo, sono sempre più frequenti in Inghilterra. In questo interminabile gioco di scatole cinesi, la questione delle questioni è Londra. Megalopoli globale, di robusta impronta multiculturale, molto più connessa al resto del pianeta che all’Inghilterra profonda. Piattaforma finanziaria britannica nel mondo, massimo fattore di potenza in questa fase storica non eccessivamente brillante per l’ex impero. Mentre Johnson parla di Global Britain e immagina per il Regno Unito un rinnovato ruolo di brillante secondo degli Stati Uniti, con un’Anglosfera formata dalle principali ex colonie di Sua Maestà britannica, Great Britain si sta sfarinando. Se il processo dovesse compiersi, le conseguenze geopolitiche per il pianeta sarebbero infinitamente superiori alla Brexit.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Politica e Economia
Una «vittoria» per due
Notizie dal mondo
Brexit Con l’intesa raggiunta a Natale Bruxelles ha concesso un accordo di libero scambio
ma con clausole pesantissime mentre Londra ha soltanto evitato il peggio
Boris Johnson viene ricevuto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen il 9 dicembre a Bruxelles. (Keystone)
Cristina Marconi Il Regno Unito non è più membro dell’Unione europea. Un lungo capitolo di storia si è chiuso con l’accordo della vigilia di Natale tra una Ue mai così compatta e un premier britannico alla disperata ricerca di una via d’uscita da uno stallo infinito. Hanno vinto entrambi, almeno per ora. Bruxelles ha fatto uscire uno dei suoi membri più scomodi senza farsi troppo male: ha concesso un accordo di libero scambio, certo, ma con clausole pesantissime, molti punti ancora da negoziare e un vigoroso ridimensionamento dei fasti a cui Londra aveva accesso con il mercato interno.
A colpire è il numero di questioni lasciate in sospeso, a partire da quelle fondamentali come lo statuto di Gibilterra Ma la battaglia aveva una componente culturale e simbolica forte e da questo punto di vista anche Boris Johnson è potuto tornare a casa vittorioso, con una soluzione che allontana (almeno in parte) il fantasma delle code alla frontiera con la Francia ma a cui non manca la necessaria patina nazionalista. L’Europa non voleva la concorrenza sleale visto che stava aprendo il suo mercato, il Regno Unito voleva l’indipendenza totale e nessuna stellina europea in giro per le sue istituzioni o per il suo Paese. Hanno vinto entrambi, ma il futuro del Regno Unito è tutt’altro che scontato. Nella scena politica britannica tutti hanno fretta di chiudere questa partita sanguinosa, compresi i laburisti. In tanti si sono domandati se fosse il caso di votare un accordo che, al di là delle ideologie, rappresenta un danno netto per il Paese, mentre alcuni, a partire dal leader Keir Starmer, hanno scelto di vedere la questione come una soluzione
positiva in quanto alternativa al disastroso no deal. Un giorno qualche storico dovrà analizzare come sia stato possibile da parte di un intero Paese e per un periodo tanto lungo contemplare seriamente il pozzo senza fondo di un esito distruttivo da ogni punto di vista. Gli scozzesi hanno ribadito la loro contrarietà, allargando ulteriormente un divario che sta crescendo pericolosamente, mentre gli euroscettici oltranzisti, che in questi anni non hanno saputo mettere a punto una visione coerente della Brexit, hanno dato il loro assenso ai contenuti del testo, 1254 pagine diventate 80 pagine di disegno di legge, con tanto di 79 pagine di note. La regina ha firmato la legge intorno alla mezzanotte, ventitré ore prima che il periodo di transizione iniziato il 31 gennaio 2020 finisse. Il deal di Natale riguarda il commercio, mentre diritti dei cittadini, questione irlandese e contributo finanziario per saldare il conto con la Ue erano stati già risolti nell’Accordo di recesso. Sulla pesca è stato deciso che nei prossimi cinque anni e mezzo le quote britanniche aumenteranno del 25% del valore del pescato europeo nelle acque Brit, dopodiché si negozierà anno per anno. I britannici potranno vendere nel mercato interno Ue senza quote e ogni violazione verrà sanzionata con tariffe, ma i pescatori hanno comunque protestato, definendola una resa. Sulla questione del «level playing field» che permette di scambiare beni senza dazi e investire tra i due paesi, la soluzione è «non di armonizzare» ma di fare in modo che su concorrenza, aiuti di stato, tassazione, lavoro e ambiente venga mantenuto un equilibrio, basato più o meno su quello del momento dell’accordo. In caso di dispute su i sussidi, la questione verrà gestita con un sistema di arbitraggio indipendente, che però non è stato ancora messo a punto e la cui complessità lascia intravedere un futuro di contenziosi. Ma Londra ha ottenuto quello che voleva: togliersi di torno la Corte Ue. L’accordo commerciale da 660 miliardi
di sterline salva la facciata. «Zero dazi, zero quote» è la bella etichetta che gli è stata apposta sopra, «in stile Canada» è il modo in cui è stato caratterizzato. La mente vola alle foglie d’acero e alla rassicurante visione del Paese nordamericano, ma la verità è un po’ diversa: innanzitutto il Regno Unito esporta il 46% dei suoi beni nell’Unione europea e poi quello che può andare bene per due paesi distanti non va bene per due vicini di casa. Il libero scambio è molto meno libero, per le aziende ci saranno 7 miliardi di sterline di nuova burocrazia e controlli: il fatto che i pacchi che vengono inviati all’estero dai privati avranno bisogno di una dichiarazione per la dogana dà la misura di quello che aspetta le imprese, che si sono dovute preparare ad ogni scenario prima dell’accordo del 24 dicembre. A cadere c’è naturalmente la libera circolazione delle persone. Gli europei che vorranno trasferirsi avranno bisogno di un permesso di lavoro, ottenuto come tutti secondo un sistema a punti «flessibile», con un «percorso privilegiato» per chi lavora nella sanità, pensato per attrarre lavoratori qualificati e dissuadere gli altri. Sarà favorito chi parla bene l’inglese, chi ha un’offerta da un datore di lavoro riconosciuto, chi guadagna almeno 25.600 sterline, ossia 28.350 euro all’anno e chi lavora in settori chiave come l’ingegneria, mentre le porte saranno sbarrate a chi ha più di un precedente penale, anche piccolo, e a chiunque abbia avuto condanne superiori a un anno o sia stato classificato come socialmente pericoloso. Non ci sarà più riconoscimento automatico delle qualifiche professionali e bisognerà fare domanda per vedersele riconosciute: per medici, ingegneri, architetti e commercialisti sarà un bel problema, anche se il tema è uno dei molti dossier su cui le due parti torneranno a negoziare nei prossimi mesi. Il Regno Unito ha poi deciso di uscire dal programma Erasmus e di fondarne uno suo, Turing, valido in tutto il mondo. Per il suo prestigioso settore universitario il colpo rischia di
essere comunque enorme: fino a ora i 150mila studenti europei nel Paese – ma nell’anno del Covid il numero è già calato – hanno sempre pagato come i britannici, ossia 10mila euro circa in Inghilterra. Chi arriverà nel 2021 dovrà invece avere un visto da studenti da 380 euro se vuole studiare nel Paese più di sei mesi e tra i 10mila e i 13mila euro nel conto per dimostrare di avere fondi sufficienti per potersi mantenere. Dovrà inoltre pagare anche 500 euro all’anno per usare il servizio sanitario e, dopo agosto 2021 si vedrà applicare tariffe tra i 13mila e i 33mila euro all’anno. Inoltre i viaggiatori che vogliono restare nel Regno Unito più di 90 giorni avranno bisogno di un visto, mentre per i turisti non sarà necessario. La carta d’identità non varrà più come documento per l’espatrio a partire dall’ottobre 2021 per ragioni di sicurezza – sono troppo facili da falsificare – ma la perdita dell’accesso al database di Schengen SIS II sulle persone scomparse o quelle coinvolte in attività terroristiche e i furti di auto e di armi getta un’ombra sulla dichiarazione della ministra dell’Interno Priti Patel secondo cui il Paese sarà più sicuro adesso. A colpire è il numero di questioni lasciate in sospeso, a partire da quelle fondamentali come lo statuto di Gibilterra e, soprattutto, il problema dei servizi finanziari. Si punta al marzo 2021 per raggiungere un memorandum perché le due parti possano riconoscere l’equivalenza delle rispettive regole per permettere alle imprese finanziarie di operare attraverso il confine. Ma la Ue vuole far crescere il suo settore, sfruttare l’uscita di scena di Londra e Boris Johnson è stato accusato di non aver saputo tutelare una parte così importante per l’economia britannica. Ma per ora prevale il sollievo per la fine dello stallo. «Abbiamo ripreso il controllo delle nostre leggi e del nostro destino», ha detto Boris, festeggiando il fatto di aver messo il Paese in condizione di accogliere «il salubre stimolo della concorrenza».
Giornalisti uccisi nel mondo Cinquanta giornalisti sono stati uccisi in tutto il mondo nel 2020, secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Reporters Sans Frontières (Rsf). Gli omicidi che riguardano i cronisti conteggiati nel drammatico resoconto sono avvenuti tra il 1. gennaio e il 15 dicembre del 2020, un numero simile al 2019 (quando furono uccisi 53 cronisti), sebbene quest’anno siano stati meno quelli sul campo a causa della pandemia di Covid-19. Più giornalisti vengono uccisi in Paesi considerati «in pace». Nel 2016, il 58% delle vittime nei media si è verificato in zone di guerra. Ora solo il 32% dei decessi è accaduto in Paesi dilaniati dalla guerra come la Siria o lo Yemen o da conflitti a bassa o media intensità come l’Afghanistan e l’Iraq. In altre parole, il 68% (più di due terzi) dei decessi avviene in Paesi considerati «in pace», soprattutto in Messico (in cui si contano otto giornalisti assassinati), India (quattro), Filippine (tre) e Honduras (tre). Si all’aborto: svolta storica in Argentina Il Senato ha approvato la legge sull’interruzione della gravidanza. Il provvedimento, già approvato dalla Camera dei deputati, è passato, con 38 voti a favore e 29 contrari. Finora l’aborto era consentito solo se la donna ha subito uno stupro o la sua vita è in pericolo. L’Argentina diventa così uno dei pochissimi Paesi dell’America Latina dove è permessa l’interruzione di gravidanza. La legge promossa dal governo di Alberto Fernandez consente il libero accesso all’aborto fino alla 14esima settimana di gestazione. È stata approvata dopo una seduta di 12 ore e durante la quale migliaia di persone, favorevoli e contrarie, si sono radunate davanti al Congresso in attesa del risultato. I minori di 13 anni potranno abortire con l’assistenza di almeno uno dei loro genitori o un rappresentante legale, mentre quelli di età compresa tra 13 e 16 anni avranno bisogno di autorizzazione solo se la procedura compromette la loro salute e chi ha più di 16 anni può decidere da solo. È la seconda volta nella storia che un progetto per legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza è discusso al Congresso argentino, dopo che nel 2018 un testo simile, ma elaborato da una piattaforma civile, era stato approvato solo dalla Camera dei deputati. Un anno dopo, il presidente Alberto Fernandez ha promesso nella sua campagna elettorale di promuovere una nuova legge, con l’obiettivo principale di ridurre gli aborti clandestini, che mettono a rischio la vita delle donne, specialmente quelle che non possono permettersi cliniche private dove, nonostante sia illegale, l’aborto è praticato in sicurezza. Mezzo sì tedesco a Huawei Il governo tedesco ha approvato un disegno di legge sulla sicurezza delle telecomunicazioni che non mette al bando Huawei. Nonostante le pressioni degli Stati Uniti per escludere l’azienda cinese in Germania, la bozza legislativa si limita a condizionare l’uso di sue componenti nelle reti telefoniche e di Internet. La Germania, insomma, conferma di non voler seguire la strada scelta da Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Svezia e Australia, che hanno messo al bando Huawei, ma alza il livello di vigilanza. Nemmeno la Francia ha adottato il bando totale, limitandosi a raccomandare agli operatori di fare a meno di Huawei. La cancelliera Angela Merkel resiste alle pressioni di Donald Trump, che accusa il colosso cinese di rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale ed economica USA.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Politica e Economia
Il Covid consacra il secolo asiatico
Nel futuro Prima della fine di questo decennio avremo tre big asiatici contro due occidentali
nei primi cinque posti mondiali per la dimensione del Pil: Cina, Stati Uniti, Giappone, India e Germania. E la Cina lo è anche fin d’ora in quanto potenza inquinante
Federico Rampini Le Borse cinesi chiuderanno il 2020 all’insegna del trionfo, con rialzi medi attorno al 40%. È la consacrazione di un successo generale, la forte ripresa dell’economia cinese: sarà l’unica tra le grandi a finire l’anno con un segno più davanti al Pil. E alcuni scenari anticipano ormai il sorpasso Cina-Usa al 2028, cinque anni prima del previsto. L’effetto-Covid è ben visibile anche nel resto dell’Asia, o meglio nelle due regioni più collegate all’economia cinese: Estremo Oriente e Sud-est asiatico, anch’esse in netta ripresa. La pandemia non ha fatto che accelerare un trend pre-esistente che ci porta al «secolo asiatico». La prova: perfino il sorpasso dell’India sulla Germania è inevitabile, malgrado tutti i problemi che rallentano lo sviluppo indiano. Prima della fine di questo decennio avremo tre big asiatici contro due occidentali nei primi cinque posti mondiali per la dimensione del Pil. Al primo posto la Cina, seguita da Stati Uniti, poi Giappone e India, seguite dalla Germania. Corollario non irrilevante, la Cina consolida anche la sua posizione come prima potenza generatrice di emissioni carboniche. Non aiuta a capire il ruolo della Cina la superficialità con cui i media occidentali avallano la retorica «ambientalista» di Xi Jinping. La Cina proclama che le ridurrà in un futuro distante ma intanto continua ad aumentare le proprie emissioni carboniche; il suo impatto sul cambiamento climatico è quasi il doppio rispetto agli Stati Uniti; inoltre il suo impatto carbonico continua a crescere mentre quello americano diminuisce. Oggi la Cina genera il 28% delle emissioni mondiali di CO2 contro il 15% per gli Stati Uniti.
La Cina funziona in base a regole diverse, il suo mercato ha tante attrattive ma non la certezza del diritto L’impronta ambientale cinese inoltre non tiene conto del fatto che la Cina continua a costruire centrali elettriche a carbone lungo le Vie della Seta, cioè nell’ambito della sua Belt and Road Initiative. L’impatto carbonico della Cina dovrebbe quindi includere le centrali a carbone che ha costruito, sta costruendo e costruirà nel resto dell’Asia e in Africa. Un’ulteriore divaricazione tra la Cina e l’Occidente deriva dai lockdown: la Cina ha ripreso a crescere e ad aumentare l’inquinamento mentre l’Occidente attraversa una recessione che abbatte le emissioni di CO2. Ma c’è un colosso dell’economia cinese che in questo momento fa notizia in negativo. Un titolo importante che si è sganciato dall’euforìa delle Borse cinesi, è quello di Alibaba. La regina del commercio online cinese (e di tanti altri business digitali) ha cancellato in poche settimane quasi tutti i rialzi dell’anno. La ragione è l’assalto del governo di Pechino contro l’impero fondato da Jack Ma. È un’offensiva condotta su più fronti. C’è la procedura antitrust, che accusa Alibaba di abuso monopolistico anche ai danni dei tanti piccoli venditori costretti a usare la sua piattaforma. C’è stata la battuta
Cinesi in ricerca di decorazioni per il nuovo anno. (AFP)
d’arresto per la quotazione in Borsa di Ant, la filiale che gestisce i sistemi di pagamento digitale attraverso Alipay ed ora deve vedersela con le autorità monetarie che l’accusano di essere una banca senza però assoggettarsi alla vigilanza bancaria. Da ultimo la banca centrale cinese sperimenta la sua moneta digitale, mettendosi in concorrenza diretta con Alipay. Questi ed altri attacchi contro Alibaba hanno delle basi legittime, però sono stati scatenati dal fatto che Jack Ma ha osato criticare il suo governo. Xi Jinping non perdona al miliardario più ricco del suo Paese di essersi montato la testa. Questo ricorda uno dei caratteri distintivi del capitalismo cinese: il primato della politica. Anche Donald Trump ebbe molte ragioni per voler danneggiare Jeff Bezos, il numero uno di Amazon. Tentò di piegare le poste federali – un’azienda sotto il controllo del governo – perché smettessero di lavorare per Amazon. Non riuscì né in questa né in altre offensive, Amazon chiude un 2020 eccezionale. Questa storia divergente, fra Alibaba e Amazon, è un monito per tutti gli imprenditori: la Cina funziona in base a regole diverse, il suo immenso mercato ha tante attrattive ma tra queste non figura la certezza del diritto. Di che far riflettere quegli imprenditori europei che nel 2021 prevedono un mercato cinese più aperto e meno discriminatorio nei loro confronti? Infatti ha superato una tappa decisiva la nuova intesa bilaterale sugli investimenti Ue-Cina. Si tratta di quel Comprehensive Agreement on Investment i cui negoziati si trascinano dal 2014, ma hanno conosciuto un’accelerazione improvvisa sotto la presidenza tedesca dell’Unione europea e in vista dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Il discorso ufficiale da Bruxelles esalta le ricadute benefiche per le imprese del Vecchio Continente, in par-
ticolare l’accesso più libero che otterranno per investire in diversi settori manifatturieri, più il trasporto aereo, l’edilizia, le telecom, la pubblicità. Le imprese cinesi dal canto loro ottengono maggiore accesso nel settore dell’energia in Europa. Dagli Stati Uniti, pur nella transizione dei poteri, traspare malumore. A lanciare un avvertimento forte agli europei per conto di Biden era stato Jake Sullivan: colui che nella «nuova» Casa Bianca occuperà l’incarico strategico di National Security Adviser. Da Sullivan dipenderà la cabina di regìa dove si elaborano politica estera e militare degli Stati Uniti, con una supervisione su quei terreni del commercio e degli investimenti internazionali che sono rilevanti per la sicurezza. Sullivan prima di Natale aveva twittato agli europei questo altolà: «L’Amministrazione Biden-Harris accoglierebbe volentieri delle consultazioni preliminari con gli europei sulle nostre comuni preoccupazioni riguardo ai comportamenti economici della Cina». Cortese ma fermo avvertimento, quel messaggio di Sullivan conferma una continuità da Trump a Biden: l’imminente cambio della guardia a Washington non significa che cesserà l’allarme nei confronti dell’ascesa cinese. Ma in Europa ha prevalso la linea della Germania, che è la più filo-cinese: l’industria tedesca, pur preoccupata dal «piano 2025» con cui Xi Jinping punta a insidiarla in tutte le tecnologie avanzate, continua comunque ad essere la massima beneficiaria dell’accesso al mercato cinese. Angela Merkel ha la presidenza di turno dell’Ue, Ursula von der Leyen è presidente della Commissione. Secondo loro il Comprehensive Agreement on Investment sarebbe segnato da concessioni sostanziali di Xi Jinping. Gli europei considerano come vittorie l’aver ottenuto che le loro imprese non saranno più costrette a trasferi-
re know how tecnologico a soci cinesi per investire su quel mercato, una delle regole-capestro con cui il furto di proprietà intellettuale è stato sistematico per decenni (in diversi settori definiti strategici l’investitore straniero era costretto ad agire in joint venture con un socio cinese, consentendo a quest’ultimo ampio accesso alle proprie tecnologie). Pechino avrebbe promesso anche trasparenza sugli aiuti di Stato alle proprie aziende.
L’imminente cambio della guardia a Washington non significa che cesserà l’allarme nei confronti dell’ascesa cinese. Anzi Ultimo punto dirimente, una condizione sulla quale ha insistito soprattutto la Francia: l’accordo non verrà ratificato fino a quando la Cina non sottoscrive le regole dell’International Labor Office contro lo sfruttamento di manodopera nei lavori forzati e sulla libertà di organizzazione sindacale (che poi quelle regole le rispetti, è un’altra questione). Le concessioni agli europei, a Bruxelles vengono interpretate come un tentativo di Xi di accelerare i tempi pur di prevenire la saldatura di un fronte tra la nuova Amministrazione Biden e l’Europa. All’accordo di principio mancano però centinaia di pagine di testi legali, la vera sostanza del nuovo regime. Poi c’è il passaggio al Consiglio europeo e all’Europarlamento. La ratifica finale da parte dell’Unione europea dunque non avverrà prima del secondo semestre 2021. E l’approvazione da parte dell’Europarlamento non si può dare per scontata. Biden e Sullivan torneranno alla carica dal 20 gennaio. Sullivan ha redatto un documento che
aggiorna e adatta con toni di sinistra il nazionalismo economico di Trump. S’intitola Making U.S. Foreign Policy Work Better for the Middle Class, e il futuro National Security Adviser lo ha pubblicato insieme con altri esperti democratici, presso il Carnegie Endowment for International Peace. Anticipa la strategia di Biden: la priorità rimane ricostruire l’economia americana, rivedendo in modo drastico il liberismo commerciale dell’era di Clinton, Bush, Obama. Un altro terreno su cui Biden promette di essere perfino più duro nei confronti di Pechino è quello dei diritti umani. Tibet, Xinjiang, Hong Kong, da ultimo l’arresto della giornalista Zhang Zhan rea di aver raccontato verità scomode sulla pandemia dal focolaio originario di Wuhan: le occasioni per criticare la Cina non mancano. Ma Xi Jinping ha già reagito a muso duro con gli europei quando hanno osato sollevare questi temi: il presidente cinese ha ricordato i profughi morti nelle traversate del Mediterraneo, il rigurgito di antisemitismo e di neonazismo in Europa, il razzismo denunciato da Black Lives Matter, concludendo che ognuno deve guardare in casa propria. Circola voce a Washington che Joe Biden potrebbe nominare come ambasciatore in Cina il chief executive della Disney, Robert Iger. Sarebbe un gesto molto distensivo verso Xi Jinping. Anche troppo. Iger è nelle grazie di Xi Jinping perché si è piegato all’ortodossia del regime pur di conquistare il pubblico cinese con il film Mulan. Alcune scene di quel film sono state girate nello Xinjiang, dove un milione di uiguri musulmani sono detenuti in campi di rieducazione. La Disney ha sconfessato pubblicamente un film sul Dalai Lama che produsse anni fa. La nomina di Iger sarebbe un segnale contraddittorio; oppure il gesto machiavellico di mandare un amico dei cinesi a trasmettergli messaggi sgraditi?
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Politica e Economia
Lo sviluppo difficile
Economia cantonale Metamorfosi, ossia le trasformazioni che hanno accompagnato lo sviluppo socioeconomico
secolare del Ticino, è l’ultimo libro di Angelo Rossi. Incontro con l’autore
Fabio Dozio «Buongiorno. Vi dico subito che questo non sarà un corso di economia marxista»: con queste parole il professor Angelo Rossi aprì la prima lezione del corso facoltativo di economia, una novità introdotta al Liceo di Lugano di viale Cattaneo. Correva l’anno 1970. Il nugolo di studenti in aula non aveva la barba come il filosofo di Treviri, ma si vede che dalle sembianze si poteva capire come la pensassero. Il professore, che lavorava a Zurigo, scendeva in Ticino una volta alla settimana per tenere il corso di economia classica.
«L’analisi di Rossi ci aiuta a prendere coscienza delle ragioni che sono alla base delle trasformazioni che hanno caratterizzato la realtà cantonale» Sono passati cinquant’anni e Angelo Rossi, fresco ottantenne, è sempre sulla breccia. Commenta, su questo giornale, ogni settimana dell’anno, senza perdere un colpo, i fatti dell’economia, con uno sguardo alla politica svizzera e ticinese. Ha insegnato, fra l’altro, al Politecnico di Zurigo, all’IDHEAP di Losanna ed è stato il primo direttore della SUPSI in Ticino. E nel 2020, per commemorare le ottanta primavere, ha dato alle stampe Metamorfosi, tre saggi sulle trasformazioni che hanno accompagnato lo sviluppo socioeconomico secolare del Ticino. L’opera analizza tre aspetti: le transizioni demografiche, le modifiche della struttura dell’apparato produttivo e l’accumulazione del sapere e delle competenze. «Ho fatto 80 anni e da 60 seguo l’economia ticinese. Volevo quindi lavorare a una sintesi dell’evoluzione quantitativa della nostra economia», dice. Un lavoro «immane» lo definisce nell’introduzione Elio Venturelli, ex direttore dell’Ufficio cantonale di statistica. «L’approccio storico è fondamentale per individuare le opportunità che può offrirci il futuro. L’analisi di Angelo Rossi, – scrive Venturelli – rigorosa e sistematica, ci aiuta a prendere coscienza delle ragioni che sono alla base delle trasformazioni che hanno caratterizzato la realtà cantonale e a meglio valutare le strategie per affrontare le sfide che ci aspettano». Metamorfosi, uscito lo scorso mese di giugno, è edito dalla Fondazione Pellegrini Canevascini, che dagli anni Settanta si occupa di storia sociale e del movimento operaio della Svizzera italiana. (https://fpct.ch/) Rossi conclude questa sua opera recente con tre osservazioni. La responsabilità di tanti ritardi dello sviluppo ticinese è da addebitare ai balivi, che hanno governato le nostre terre per quasi tre secoli. La concessione dell’indipendenza e la capacità di autogovernarsi ha permesso al Cantone di entrare nella modernità: «Per mettere in piedi un Cantone dal niente – scrive – l’aumento del debito pubblico deve essere sembrato un sacrificio accettabile». Infine l’abolizione dei dazi interni e la creazione del mercato nazionale hanno in definitiva avvantaggiato il Cantone durante tutto il Novecento. «Se dovessi dare un giudizio sul ruolo e le responsabilità della politica e delle sue istituzioni, – ci dice il professore – rispetto al problema dello sviluppo dell’economia e del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, nel lungo intervallo di tem-
Il cantiere del campus che ospiterà l’Istituto oncologico di ricerca, l’Istituto di ricerche in biomedicina e i laboratori del Neurocentro della Svizzera Italiana, a Bellinzona: «L’evoluzione futura della nostra economia sarà influenzata largamente dall’innovazione tecnologica», afferma Rossi. (Ti-Press)
po intercorso tra il 1803 e oggi, direi che la nota più elevata spetta ai politici dell’Ottocento, nonostante la ferocia delle lotte politiche di quel secolo. Ai politici che hanno guidato il Cantone nel periodo delle “rivendicazioni” darei una nota media, mentre a quelli che gli sono succeduti dopo la seconda guerra mondiale accorderei la sufficienza, ma senza nessuna lode speciale. Non è perché i politici contemporanei abbiano fatto meno di quelli di 100 e 200 anni fa. Ma è perché quelli del passato hanno fatto tantissimo disponendo, a differenza di quelli di oggi, di pochissime risorse». Angelo Rossi mette in luce anche le reticenze passate del Ticino nei confronti delle novità. In merito cita Stefano Franscini, che descriveva con toni sarcastici il fatto che i ticinesi, invece di dotarsi del parafulmine scoperto ormai da tempo, preferivano rifugiarsi in chiesa per proteggersi dalle intemperie. «Lo sviluppo di un’economia, – ci spiega – posto che esista la domanda necessaria per i prodotti e i servizi che la stessa produce, dipende in misura molto elevata dalla crescita del fattore lavoro e dall’aumento della produttività. L’evoluzione del fattore lavoro e della produttività può essere a sua volta influenzata da diversi altri fenomeni. Di qui l’importanza della demografia nello studio delle possibilità di sviluppo di una determinata economia. Bisogna poi citare l’azione dello Stato. Si pensi, per fare un solo esempio, alla legislazione in materia di durata e protezione del lavoro, ma anche a quella in materia di immigrazione della manodopera. Tuttavia tra i determinanti più importanti dello sviluppo della produttività e del miglioramento qualitativo e quantitativo delle prestazioni di lavoro figura, in modo preminente, anche l’innovazione tecnologica. Dall’avvento della rivoluzione industriale a oggi l’innovazione tecnologica è sempre stata importante anche per lo sviluppo di un’eco-
nomia dalle dimensioni limitate come può essere quella del nostro Cantone. Non v’è poi alcun dubbio che anche l’evoluzione futura della nostra economia sarà influenzata largamente dall’innovazione tecnologica e quindi dal cambiamento. Poiché innovazione significa cambiamento è normale che contro la stessa si levino le critiche di coloro che si vedono minacciati, in molte maniere diverse, dalle novità. Chiaramente di fronte a queste minacce non vi sono che due modi di reagire: quello dei ticinesi dell’Ottocento che, stando al Franscini, per combattere i fulmini si rifugiavano in chiesa, invece di affidarsi al parafulmine, perché dubitavano dei benefici del progresso scientifico, o quello dei ticinesi di oggi che, mi sembra, siano orientati da almeno tre decenni a colmare il divario che li separava da altri Cantoni in materia di istruzione a livello terziario, riconoscendo dunque che la scienza ha un posto importante nella società». Rossi ha pubblicato in passato innumerevoli articoli e studi, ma in particolare tre libri con taglio divulgativo e anche più politico, rispetto a Metamorfosi. Si tratta di Un’economia a rimorchio del 1975, Dal Purgatorio al Paradiso del 2005 e di Tessere, una raccolta di saggi sull’economia ticinese, del 2010. In Un’economia a rimorchio, un titolo paradigmatico per il Ticino e un libro che figurò, all’epoca, fra i più venduti nel Cantone, il giovane professore scriveva: «Osserviamo che, per volontà di questa classe, (che domina i ticinesi n.d.r.) l’economia ticinese è un’economia a rimorchio. La si potrebbe definire un’economia del contrabbando, del segreto bancario, dell’evasione fiscale e degli scandali edilizi». E ancora: «In sostanza, i proprietari dei nostri mezzi di produzione non sono i ticinesi, ma persone che abitano e provengono da fuori Cantone. L’economia ticinese è dunque un’economia a rimorchio. Per questo aspetto la nostra situazione è simile a
quella di una colonia». Non mancava, in quell’opera, la critica della speculazione fondiaria degli anni Sessanta: «speculazione diventata, in un certo modo, un fatto di costume». In Dal Purgatorio al Paradiso Angelo Rossi concludeva affermando che l’economia ticinese sarebbe rimasta in Purgatorio. Conferma questo assunto? «In una classifica, grossolana, degli stadi di sviluppo dell’economia possiamo definire il paradiso i periodi nei quali l’economia cresce a un tasso reale del 4% e più; il purgatorio corrisponde alle condizioni di crescita attuali, con tassi annuali reali tra lo 0.5 e il 2%; l’inferno corrisponde chiaramente a una crescita nulla o negativa. Se dovesse continuare ad esistere la domanda, la crescita della nostra economia nei prossimi trent’anni sarà influenzata , da un lato, dal progredire della produttività e, quindi, in ultima analisi dall’innovazione tecnologica. Dall’altro lato, la crescita economica dipenderà dall’aumento delle ore di lavoro realizzate dall’effettivo delle persone occupate e quindi dall’evoluzione della popolazione attiva e della legislazione che ne regola l’impiego. Già oggi sappiamo che la quota di popolazione attiva nella popolazione totale è in diminuzione. Lo continuerà a essere anche nel futuro per effetto dell’invecchiamento della popolazione e della politica restrittiva in materia di immigrazione della manodopera. L’innovazione tecnologica potrebbe compiere il miracolo di rilanciare la produttività. Per il forte ridimensionamento delle attività del settore finanziario, in Ticino, purtroppo, non sarà così, almeno nei prossimi dieci anni. La nostra economia dovrà quindi rassegnarsi a passare ancora qualche anno nel purgatorio». Per garantire il welfare e finanziare la socialità, Angelo Rossi ha sempre ritenuto indispensabile un tasso di crescita del 2,5% / 3%. Senza crescita, nessuna riforma?
«Se l’incidenza fiscale resta quella che è oggi, – spiega il professore – per finanziare la politica sociale dei prossimi decenni occorrerà un tasso di crescita del Pil reale di questa portata. Se non dovesse esserci questa crescita, le vie d’uscita possibili sono tre: indebitarsi di più, ridurre le prestazioni sociali o aumentare la quota del finanziamento a carico del beneficiario di queste prestazioni. Siccome né la crescita economica continua, né l’aumento dell’indebitamento pubblico, né la riduzione delle prestazioni dello Stato sociale, né l’aumento dei premi a carico dei beneficiari sono soluzioni che potranno raccogliere una maggioranza di voti, in occasione di possibili votazioni popolari, su iniziative o referendum concernenti la socialità o la protezione dell’ambiente, è certo che in futuro avremo molte consultazioni popolari e molti insuccessi prima che un possibile compromesso possa emergere in favore di una politica sociale finanziabile in una società che invecchia. Il dilemma è che tutti sappiamo che lo Stato sociale va riformato, ma quando si va a votare la somma di coloro che si oppongono alle riforme è, per il momento, sempre superiore al 50%». Angelo Rossi sottolinea che non ama guardare al passato, il suo sguardo è sempre rivolto al futuro, con un’energia vitale invidiabile. Fra i progetti che ha in mente non c’è solo l’economia, ma anche lo studio del greco moderno. «A ottant’anni è un buon momento per cominciare a studiare le lingue», dice, e mi racconta che intende andare a Corfù, l’isola greca con contaminazioni veneziane, a studiare la lingua. Ma non solo, anche lo spagnolo lo seduce. Ha già seguito un corso a Malaga due anni fa. Un settantottenne a suo agio fra un gruppo di giovanissimi, ai quali il professore avrà sicuramente trasmesso una ventata di energia positiva.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Politica e Economia
L’accordo fra Gran Bretagna e UE, un modello per la Svizzera?
Brexit L’accordo di libero scambio britannico è molto diverso da quello bilaterale con la Svizzera, che è già molto
integrata nel mercato europeo. Resta però aperta la questione della sovranità del diritto svizzero
di Berna, quanto di Londra, è quello di avere un accesso facilitato al mercato interno europeo. Bruxelles conferma comunque che un accesso completo al mercato europeo non è possibile tramite unicamente un accordo di libero scambio. Sotto questo aspetto l’accordo concluso dalla Gran Bretagna è peggiore di quello della Svizzera, ma Londra evita così di doversi sottoporre al giudizio della Corte europea di giustizia e di integrare progressivamente il diritto europeo nelle sue leggi. Questa via resta ovviamente aperta anche per la Svizzera, ma a costo di
rinunciare ad alcuni vantaggi già ottenuti negli scambi bilaterali. Questi ultimi trattati consentono in pratica alla Svizzera un accesso, anche se non ancora completo, al mercato interno europeo. La Gran Bretagna, pur avendo ottenuto lo scambio di prodotti senza dazi, si troverà invece confrontata con una serie infinita di discussioni sugli ostacoli non tariffari, che creeranno un’immensa burocrazia e rallenteranno eventuali progressi. Cadrà, infatti, l’importante accordo sul riconoscimento reciproco dell’origine dei prodotti. Infine, vi saranno problemi anche sugli aiuti pubblici alle aziende per l’esportazione, nonostante la Gran Bretagna abbia accettato di adeguarsi in parte al diritto europeo. In conclusione: gli accordi bilaterali come quelli svizzeri limitano la sovranità in alcuni settori determinati, ma offrono la possibilità di partecipare al mercato interno europeo. Sul piano economico offrono sostanzialmente molto di più di un accordo di libero scambio (come quello britannico). Per contro concede molta più libertà e sovranità rispetto a un’adesione all’UE. La Svizzera deve decidere a partire da questi valori. Se riesce a concludere un accordo-quadro che garantisca un accesso al mercato bilaterale e perfettibile, avrà ottenuto molto di più della Gran Bretagna. Parecchie questioni restano comunque aperte. Anche se per i più ottimisti in Svizzera la Gran Bretagna dimostra che l’UE è interessata a trovare soluzioni, non è detto che sia disposta a fare nuove concessioni. Soprattutto a un paese già molto integrato nel suo mercato, del quale – anche per questioni non solo economiche (studi e ricerche, per esempio) – non può praticamente fare a meno.
paura cederà gradualmente il passo alla fiducia. Anche in futuro continueremo a rispettare di più il distanziamento sociale e a sfruttare le offerte digitali, ad esempio per gli acquisti o i servizi bancari. Tuttavia, la vita sociale non dovrà essere trascurata. La campagna di vaccinazione renderà probabil-
mente possibili anche eventi sportivi e culturali di più ampia portata a partire dall’autunno. Manifestazioni di questo tipo ci aiuteranno a lasciarci alle spalle i ricordi cupi e ad avvicinarci di nuovo per tornare a crescere insieme come società. Dobbiamo ancora perseverare, ma ci sono buone probabilità che la nostra vita di tutti i giorni migliori presto.
Ignazio Bonoli L’avvicinarsi dell’accordo fra la Gran Bretagna e l’Unione europea sul tema della Brexit ha attirato molte attenzioni anche negli ambienti politici ed economici in Svizzera. Infatti, l’esito di negoziati, conclusisi alla vigilia di Natale, avrebbe potuto avere qualche influsso anche sulle trattative in corso con la Svizzera per un accordo quadro con l’UE. Lo scopo di questo nuovo accordo per la Svizzera è quello di salvaguardare quanto raggiunto con i singoli accordi bilaterali, senza andare oltre sul tema del rispetto formale degli stessi sul piano giuridico, mentre per l’Europa è chiara la tendenza ad imbrigliare sempre più la Svizzera nel diritto europeo. Ora, a prima vista, l’accordo con la Gran Bretagna permetterebbe di superare alcuni aspetti scabrosi che restano tuttora in discussione tra Berna e Bruxelles. Molti si sono quindi chiesti se il modello di accordo ottenuto da Londra non possa essere applicato tout court anche per la Svizzera.
Gli accordi bilaterali concedono maggiore accesso al mercato europeo e più sovranità rispetto a un’adesione Esso risolverebbe in gran parte i problemi che mantengono le singole posizioni ancora distanti. Si tratta in particolare di due temi principali: la Corte europea di giustizia potrà decidere inappellabilmente su eventuali disaccordi fra Svizzera ed UE. Dal canto suo la Svizzera adatterà le sue leggi
Guy Parmelin e il segretario di Stato britannico al commercio Liam Fox firmano l’11 febbraio 2019 l’accordo per regolare le relazioni dopo la Brexit: anche la Svizzera non vuole perdere l’accesso al mercato britannico. (Keystone)
progressivamente al diritto europeo (adeguamento dinamico). Ora i negoziatori inglesi sono riusciti ad escludere entrambi i principi nell’accordo di libero scambio con l’UE. E questo ha fatto esultare gli scettici svizzeri sull’accordo proposto da Bruxelles. In realtà, però, ci sono parecchie differenze tra il modello britannico e la via bilaterale scelta dalla Svizzera. Già nel principio l’approccio è diverso, poiché la Gran Bretagna si allontana completamente dall’UE e dal suo mercato interno, mentre Berna sta percorrendo la strada opposta. Infatti, l’accordo di
libero scambio con l’UE è in vigore fin dal 1972 e ha creato lo scambio senza dazi e limitazioni quantitative dei prodotti industriali con la Svizzera. Dopo il voto popolare negativo sull’accordo sullo Spazio economico europeo nel 1992, la Svizzera si è in realtà sempre più avvicinata all’UE e al suo mercato interno. Avvicinamento che ha poi codificato con i vari accordi bilaterali, giungendo perfino a integrare parte del diritto europeo nelle sue leggi nazionali in materia. Gli approcci sono quindi molto diversi anche se lo scopo finale tanto
Guardiamo avanti! La consulenza della Banca Migros Christoph Sax
Christoph Sax è capo economista della Banca Migros
È trascorso quasi un anno dall’ultimo concerto dal vivo al quale ho assistito. I Patent Ochsner si sono esibiti alla Volkshaus di Zurigo. È stata una grande serata, l’atmosfera in sala era serena. Poi è arrivata la pandemia. Dallo scorso marzo, quasi tutti gli eventi culturali sono stati annullati. La musica, almeno, la si può ancora ascoltare in scatola. Ma nulla fa scoccare la scintilla come una performance dal vivo davanti a un pubblico che ha fatto registrare il tutto esaurito. Dopo più di nove mesi, si intravede un barlume di speranza all’orizzonte. L’Istituto svizzero per gli agenti terapeutici Swissmedic ha autorizzato un primo vaccino contro il Covid-19. Presto, probabilmente, ne seguiranno altri. I vaccini permettono di proteggere meglio i gruppi a rischio e di alleggerire il carico degli ospedali. A partire dalla metà dell’anno anche fasce più ampie della popolazione potranno sottoporsi alla vaccinazione. Anche se il virus non scomparirà, non continuerà a segnare così gravemente le nostre vite. Se la campagna di vaccinazione mondiale dovesse iniziare senza battute d’arresto, anche nel nostro Paese aumenterà la fiducia nei confronti del vaccino. Le patologie continueranno a esistere, ma il numero di quelle gravi diminu-
Dapprima gli ospiti delle case anziani, il personale medico e infermieristico e le categorie a rischio, poi tutti coloro che lo richiederanno. (Keystone)
irà notevolmente. Non dovremo più preoccuparci di mettere in pericolo la salute di chi ci circonda al minimo sintomo influenzale. L’eliminazione di questo peso faciliterà in modo significativo la nostra vita: non saremo più a disagio quando brinderemo all’amicizia con i vicini o organizzeremo una festa di compleanno per i nostri figli. La
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Idee e acquisti per la settimana
Pronti per un mese senza carne?
Rinunciare per un mese a una dieta con prodotti di origine animale? Per chi vuole affrontare la sfida di veganuary, proponiamo ricette vegane e consigli per sostituire la carne, i latticini & co Testo Claudia Schmidt
Zucca farcita con verdure e cereali La zucca butternut farcita con cereali, verdure, funghi, cranberry e arance è un ottimo piatto principale. Ricetta su migusto.ch
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Ecco come funziona l’alimentazione vegana
Quanto è salutare la dieta vegana e a cosa bisogna prestare attenzione? Le risposte a queste domande sono disponibili su impuls.ch.
Spaghetti di lenticchie con aglio croccante
migros-impuls.ch/it/veganuary
Abbinati a cavolo riccio e aglio croccante, gli spaghetti di lenticchie sono un piacere vegano facile da preparare. Ricetta su migusto.ch
V-Love Delicious Pieces 180 g Fr. 4.75 invece di 5.95
Zuppa di noodles con cipollotti Piatto principale per 4 persone Ingredienti 2 cucchiai di grasso di cocco 360 g di Plant-Based delicious pieces, ad es. V-Love 1,5 l di brodo di verdura vegano 1 peperoncino 250 g di Mie noodles 2 cipollotti ½ mazzetto di coriandolo 1 limetta Preparazione Scalda il grasso di cocco in una padella e rosola i delicious pieces finché diventano croccanti. Sfuma con il brodo. Taglia il peperoncino ad anelli e aggiungilo al brodo assieme alla pasta. Lascia sobbollire per ca. 5 minuti. Sminuzza i cipollotti e servili con la zuppa. Guarnisci con il coriandolo e con gli spicchi di limetta. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Facile/ Vegan Per persona ca. 30 g di proteine, 9 g di grassi, 59 g di carboidrati, 1850 kj/440 kcal
Foto Migusto
Cos’è veganuary
L’idea di mangiare vegan – senza prodotti animali – per un mese è stata promossa per la prima volta nel 2014. Il numero di partecipanti raddoppia ogni anno. Migros sostiene la Società svizzera vegan nell’organizzazione dell’iniziativa. Maggiori informazioni su vegan.ch (in tedesco)
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Idee e acquisti per la settimana
Empanadas vegane Per ca. 14 pezzi Ingredienti 2 scalogni 2 spicchi d’aglio 1 peperoncino 300 g di macinato vegano, ad es. macinato V-Love Pant-Based 3 cucchiai di olio di oliva 1 cucchiaino di paprica dolce sale 200 g di spinaci 1 pasta per crostate vegana, rettangolare, già spianata da 520 g Preparazione Trita gli scalogni, l’aglio e il peperoncino e rosola tutto con il macinato vegano nell’olio per ca. 5 minuti. Condisci con paprica e sale. Unisci gli spinaci e lascia cuocere finché si afflosciano, poi fai raffreddare. Scalda il forno a 180 °C. Dalla pasta ritaglia dei dischi di 12 cm Ø. Impasta i ritagli di pasta, spianali e ritaglia altri dischi. Farcisci ogni disco con 2 cucchiai circa di ripieno. Spennella i bordi con l’acqua poi chiudi a metà premendo bene per sigillare la pasta prima sui bordi poi ripiegando il bordo su se stesso. Trasferisci le empanadas su una teglia foderata con carta da forno e cuocile al centro del forno per ca. 25 minuti.
SUGGERIMENTO
Prima di infornarle, spennella le empanadas con un po’ d’acqua e cospargile con semi di cumino. Accompagna le empanadas con un’insalata.
Tempo di preparazione ca. 20 minuti + ca. 25 minuti per la cottura nel forno Principiante/vegano Per persona Al pezzo ca. 6 g proteine, 13 g grassi, 18 g carboidrati, 900 kJ/210 kcal
V-Love Plant-Based Gehacktes 300 g Fr. 4.75 invece di 5.95
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SUGGERIMENTO Carne macinata con puré di patate? A molte persone riesce difficile abbandonare le abitudini che maggiormente apprezzano. Un primo passo per mangiare meno carne: passare alle alternative a base vegetale («plant-based») che sono altrettanto semplici da preparare, per esempio un burger.
«Dal» ai pomodori e al cocco Il dal è un tipico piatto indiano, spesso vegano, a base di lenticchie. Arricchito di pomodori, latte di cocco, coriandolo e noce di cocco grattugiata, le lenticchie rosse sono una delizia.
V-Love Plant-Based Burger 220 g Fr. 4.75 invece di 5.95
Ricetta su migusto.ch
Puré di patate con mandorle tostate L’olio di oliva, le mandorle e l’aglio fanno del puré di patate una pietanza dagli aromi e dai profumi mediterranei. Chi ancora lo desidera con latte e burro? Ricetta su migusto.ch
SUGGERIMENTO
Zucca e barbabietola in insalata Un piatto leggero e originale: gli ingredienti di questa insalata sono pezzi di zucca marinati con peperoncino e olio di oliva che si cuociono al forno assieme a barbabietola e arance. Ricetta su migros.ch
Sono numerose le cucine regionali che da sempre propongono ricette tradizionali vegane. Si pensi solo alle numerose zuppe di verdura, ai piatti vietnamiti con il tofu o al dessert thailandese a base di riso glutinoso con mango.
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Idee e acquisti per la settimana
Raw Cake nocciola cioccolato 130 g Fr. 4.90
SUGGERIMENTO
Chi non vuole preparare da sé i dessert vegani, sugli scaffali Migros trova prelibatezze pronte da consumare.
Praline Coco Ice-Land 12 x 15 ml Fr. 5.50
Bevanda vegana al cioccolato
Con cosa sostituire?
Per 4 persone Ingredienti 10 g di zenzero 8 dl di bevanda all’avena Barista 4 bustine di cacao in polvere da 15 g 20 g di cioccolato vegano 2 rametti di menta Preparazione Sbuccia lo zenzero e sminuzzalo finemente. Fai sobbollire la bevanda all’avena con lo zenzero in una pentola per ca. 5 minuti. Aggiungi il cacao e con un frullatore a immersione frulla tutto a spuma. Versa la cioccolata nei bicchieri. Guarnisci con le scaglie di cioccolato grattugiato e le foglie di menta.
Tutti hanno ricette che portano in tavola con regolarità. Se si desidera mangiare vegano, latticini uova e miele sono facili da sostituire. La panna si sostituisce con numerose alternative vegetali, adatte anche per essere montate. Per i dessert alla crema un ottimo sostituto è costituito dagli anacardi messi a mollo per una notte e poi fatti passare fino ad avere una purea cremosa.
Yogurt e dessert alla crema si sostituiscono non solo con alternative alla soia. Prodotti analoghi sono disponibili anche con base di cocco, mandorle o, novità, ceci.
Il formaggio è stato per lungo tempo considerato difficile da sostituire. Ora sono disponibili alternative vegane per tutte le occasioni, da spalmare, a fette e da gratinare.
Tempo di preparazione ca. 15 minuti Facile/Vegano Per persona ca. 3 g di proteine, 7 g di grassi, 30 g di carboidrati, 850 kj/200 kcal
Perpreparare unacioccolatacalda veganasipuò inalternativa utilizzarelapanna di soia.
V-Love Soja Cuisine aha! 500 ml Fr. 2.20 invece di 2.80
Il latte è uno dei prodotti per il quale già esistono numerosi sostituti: bevande a base di avena, mandorle, riso, cocco, anacardi o la più classica soia rendono facile la scelta. Alcune di queste sono anche particolarmente indicate per realizzare spumosi mix da bere.
V-Love Barista-Drink 1 l Fr. 2.35 invece di 2.95
V-Love Vegurt mandorla moca 150 g Fr. 1.30 invece di 1.65
Le uova possono essere sostituite negli impasti con semi di chia imbevuti. Un uovo corrisponde a 1 cucchiaio di semi di chia e 1 cucchiaio di acqua. L’acqua di cottura dei ceci, chiamata aquafaba, serve come sostituto dell’albume.
New Roots Spread pomodoro e basilico 140 g Fr. 5.95
Il miele è apprezzato sia come dolcificante che spalmato sul pane. A seconda dell’uso è possibile sostituirlo con sciroppo di tarassaco fatto in casa, oppure con sciroppo d’acero o d’agave. Ora è disponibile anche un’alternativa a base di calendula.
Il burro si sostituisce con margarina o olio di cocco.
V-Love Vegan Bloc 250 g Fr. 3.15 invece di 3.95
Wild Meadow vegan ai fiori di calendula 225 g Fr. 6.–
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Cultura e Spettacoli La lotta per il successo Esce l’autobiografia di Oliver Stone, regista che racconta la sua scalata all’Olimpo del cinema
Una ricerca attorno all’uomo Lo scultore Hans Josephsohn al MASI di Lugano in una retrospettiva che celebra il centenario della sua nascita pagina 29
La fidanzata del vero Alla Biblioteca cantonale di Lugano una mostra dedicata al fotografo locarnese Roberto Pellegrini pagina 31
pagina 28
Nella Lugano dei Riva
Mostre Alla Pinacoteca Züst una selezione
delle quadrerie dell’antico casato, finestra aperta sul collezionismo privato del Sette e Ottocento nel borgo
Elena Robert Il collezionismo privato nel Ticino dei baliaggi proposto dalla Pinacoteca Züst a Rancate non poteva trovare terreno migliore che la storia di uno dei più importanti e influenti casati di Lugano, quello dei Riva durante l’Antico Regime, e delle sue ricche quadrerie nel Settecento e nell’Ottocento. Un mondo quest’ultimo poco conosciuto perché difficilmente accessibile e parzialmente disperso, che oggi abbiamo l’opportunità di esplorare grazie a una pluriennale ricerca confluita in una mostra. Al visitatore che entra virtualmente in alcune delle più belle residenze nobiliari dei Riva vengono così offerti in accoglienti spazi espositivi gli strumenti per comprendere i risvolti culturali, artistici, di mecenatismo e collezionismo, ma anche storici, economici e sociali legati alla veloce ascesa della famiglia: evidenza resa possibile dallo strategico operato di molti suoi esponenti di successo. Praticamente nell’arco di due generazioni i Riva diventano non solo i principali possidenti luganesi, ma anche i massimi costruttori di palazzi che segnano lo sviluppo urbano dell’antica Lugano. In città la continuità del casato è testimoniata ancora oggi da tre edifici importanti e di grande bellezza: i palazzi Riva di Cioccaro (in via Soave), di Santa Margherita (in via Pretorio, tra le residenze storiche è la sola tuttora abitata dalla famiglia) e di Canova (che fu sede della Bsi). E pensare che nel Settecento si contano tra le dimore di proprietà ancora presenti Villa Favorita, l’edificio Riva a Castagnola ora sede dell’Archivio storico della Città, Villa al Ronco di Giroggio (Sorengo), le case di Bioggio, Besazio e Origlio, Villa
Nonaro a Masnago (Varese), la suggestiva dimora di Mauensee (Sursee, Lucerna), mentre tra quelle andate perse si annoverano la Villa di Montarina e le molte dimore nel Mendrisiotto. Il patrimonio acquisito, gigantesco, si consolida anche attraverso mirate alleanze matrimoniali, acquisizioni di titoli e strategie di conservazione dei beni tramandati nei secoli secondo la logica patrilineare che segue la linea della discendenza paterna, precise disposizioni testamentarie e l’applicazione del fedecommesso che obbliga l’erede a non alienare le proprietà, anzi a conservarle e a trasmettere quanto ricevuto o parte di esso al successivo discendente. Fa forse eccezione il patrimonio librario di circa mezzo migliaio di titoli appartenuti a Giovanni Battista Riva (1646-1729), capostipite e primo conte del casato, dal momento che in mano alla famiglia non ne è rimasta che una minima parte. In parallelo all’approccio conservativo dei beni va riconosciuto al casato uno spiccato senso di coesione, il culto delle radici, la valorizzazione di beni e documenti, il patrocinio, anche recente, di studi e pubblicazioni sulla famiglia. Fino alla notevole ricerca compiuta dai curatori della mostra, Edoardo Agustoni e Lucia Pedrini-Stanga, cui si affiancano nella pubblicazione le indagini su tematiche sociali, urbanistiche e culturali di Riccardo Bergossi, Pietro Montorfani e Stefania Bianchi. Il significativo apporto edilizio dei Riva per la crescita del borgo luganese impressiona tanto quanto la ricchezza dell’archivio di famiglia ora conservato nell’Archivio storico della Città, comprendente anche preziosi inventari e stime, dai quali si desumono le proprietà immobiliari, un patrimonio
Giovanni Battista Innocenzo Colomba, Ritratto del marchese Giacomo Filippo Riva con la figlia Marianna Cecilia. 1784 ca. (Collezione Fondazione Palazzo Riva, Lugano)
in quadri che supera il mezzo migliaio di opere distribuito nelle residenze storiche, di arredi, oggetti e quello già menzionato dei libri. Il solo albero genealogico con i tre rami dei nobili, conti e marchesi, dal Quattrocento a oggi, si sviluppa su un foglio lungo tre metri. Lo stemma, su campo rosso, presenta il braccio armato che impugna la spada e le onde del lago: non figura più il pesce, che fece la sua comparsa a inizio Settecento, dopo l’acquisizione della proprietà lucernese. Patrizi di Lugano, in seguito i Riva lo diventano anche di Bioggio e di Lucerna. Como è la probabile origine della famiglia, venuta a Lugano prima della metà del Quattrocento: è attiva nella mercatura, poi compra fondi, infine accede ai titoli nobiliari. Il suo ruolo di potere è nella magistratura, nella terra e nel credito. I Riva si distinguono come uomini d’arme, di legge e di chiesa: in questa sfera seguono carriere ecclesiastiche di successo, sono in prima linea nel sostenere la crescita del sistema dei conventi a Lugano al tempo dei balivi, insegnano teologia e dirigono il Collegio dei Padri Somaschi
a Lugano. L’istruzione avviene Oltralpe e in Italia, due orizzonti formativi d’obbligo sempre coltivati dalla famiglia per intensificare nei decenni la fitta rete di contatti con altre storiche famiglie (Beroldingen, Turconi, Morosini, Bellasi, Somazzi, Moroni Stampa, Rusca, Raimondi, Neuroni, Maderni), con i casati dominanti dei landfogti e con quelli al potere in Europa. Parte di un ramo a metà Ottocento si stabilisce in Italia imparentandosi con il casato piemontese dei Francischelli e quindi con i Bisi di Milano. Nel ricoprire le più alte cariche della magistratura, di governo ed ecclesiastiche, i Riva rivestono in ambito diplomatico a livello locale e internazionale un ruolo decisivo di mediazione, rivelatosi tra l’altro della massima importanza anche per la sopravvivenza stessa del casato. Le quadrerie Riva alla Pinacoteca Züst sono rappresentate soprattutto da ritratti, accostati a paesaggi, scene religiose, storiche e di genere. Tra la settantina di opere esposte per il Settecento spiccano i numerosi dipinti di Giuseppe Antonio Petrini e di suo figlio
Marco, dei quali la famiglia è il maggior committente, Carlo Francesco e Pietro Rusca, Giovanni Battista Innocenzo Colomba, Carlo Innocenzo Carloni, Giuseppe Antonio Orelli, Giovanni Battista Ronchelli, Giovanni Battista Bagutti, Francesco Capobianco, Gian Francesco Cipper, Antonio Maria Marini. L’Ottocento è rappresentato da opere di Giovanni Migliara, Giuseppe Reina, Francesco Hayez, Pietro Bagatti Valsecchi e dei Bisi. Dove e quando
Dentro i palazzi. Uno sguardo sul collezionismo privato nella Lugano del Sette e Ottocento: le quadrerie Riva, mostra e catalogo a cura di Edoardo Agustoni e Lucia Pedrini-Stanga, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate, Edizioni Casagrande, Bellinzona, fino al 28 febbraio 2021. A causa delle misure di contenimento legate alla pandemia Covid19, la Pinacoteca Züst rimarrà chiusa fino a nuovo avviso. Per informazioni: www.ti.ch/zuest
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Cultura e Spettacoli
La luce del Vietnam e di Hollywood
Editoria 1 L’autobiografia del regista Oliver Stone, avvincente
come un romanzo
Linguistica musicale
Editoria 2 Una notevole raccolta di saggi
dedicata al rapporto tra musica e lingua e tra musica e insegnamento linguistico; tra canzonette e neuroimmagini
Fabrizio Coli Indipendente e polemico, come i suoi film. Possente. Oliver Stone nell’immaginario, e spesso anche nella realtà, è un regista con una causa. Ma dietro c’è sempre un individuo alla ricerca di qualcosa. Cercando la luce è, non a caso, il titolo della sua autobiografia (La Nave di Teseo). Avvincente come un romanzo, imponente come i suoi film migliori, è il racconto del viaggio di un giovane Ulisse, partito per trovare se stesso. Chi ama i film di Stone esulta e al tempo stesso prova un po’ di delusione. Il libro è trascinante, scorre come un fiume in piena, già dall’introduzione che si apre in medias res durante la lavorazione di Salvador (1986). Pare di essere lì con lui su quel set messicano, mentre gira una carica di cavalleria ancora più eroica nel contesto travagliato di quella produzione. Stone ci sa fare con le parole, eccome. Nasce come sceneggiatore dopo tutto: conquista il suo primo Oscar scrivendo per Alan Parker Fuga di mezzanotte e poi firma lo Scarface di Brian De Palma. Ma queste 600 pagine e rotti che volano d’un soffio raccontano solo una parte della sua storia. Si fermano allo sdoganamento definitivo grazie all’Oscar conquistato nel 1987 con Platoon. Non si dice nulla o quasi di quello che è venuto dopo, di capolavori acclamati come JFK o di pugni nello stomaco pulp che hanno fatto discutere come Assassini nati. È un racconto di formazione in fondo, con i tormenti del giovane Oliver che cerca la sua strada nelle giungle della famiglia, del Vietnam e poi di Hollywood. L’animo del futuro regista, nato nel 1946 a New York, è sempre a fuoco. Un figlio della classe media che vivrà costantemente la pressione di essere all’altezza delle aspettative e l’incubo del fallimento. La ricerca del successo è spasmodica, ed è il leitmotiv di Cercando la luce. Si percepisce il sollievo con cui Stone ripete spesso che a quarant’anni aveva vinto l’Oscar, aveva una moglie (la seconda) e un figlio. C’è qualcosa di scaramantico nel sottolinearlo a se stesso e ai lettori, come per renderlo davvero reale. Il racconto è schietto e onesto. Non sorvola sulle droghe, con cui inizia a flirtare ai tempi del Vietnam e sul periodo di dipendenza da cocaina nel caleidoscopico mondo del cinema degli anni Ottanta. Non sorvola su un rapporto con i genitori che ha qualcosa di edipico, il padre impiegato nella finanza della vecchia Wall Street (quella «nuova», Stone la inchioderà come un insetto con uno spillone in uno dei suoi film più celebri) e la madre francese, spirito più libero, conosciuta dal padre durante la guerra: una coppia sposatasi troppo presto che divorzierà lasciando traumi profondi nell’unico figlio. Poi c’è il cinema. Ci entra per caso in quel mondo. Ha sempre cercato di
Stefano Vassere «A partire dal funzionamento delle aree e dei processi neurali coinvolti, si cerca di capire in che modo la pratica musicale possa diventare una risorsa da sfruttare anche nell’apprendimento delle lingue seconde, fornendo indicazioni operative in merito».
Oltre al materiale lessicale fornito dalle canzoni, il loro ascolto tocca la regione cerebrale dell’apprendimento
È nato nel 1946 a New York. (Gage Skidmore, Wikipedia)
esprimersi con la scrittura: non saranno romanzi ma sceneggiature. Finisce alla New York University, dove fra gli insegnanti c’è anche un giovane brillante astro nascente che risponde al nome di Martin Scorsese. È l’inizio di un percorso picaresco, in compagnia di produttori, attori, filibustieri, trafficoni, gente che lo frega, guai con le produzioni, copioni che passano di mano, sogni che si arenano o si realizzano. Scorrono in queste pagine personaggi come Dino De Laurentiis, James Woods, Al Pacino, Parker o De Palma… È un dietro le quinte della macchina del cinema, coi piedi ben calati per terra e privo dell’aura mitologica con cui gli spettatori spesso lo ammantano. Per arrivare fin lì però Oliver Stone è dovuto passare attraverso la guerra. C’è qualcosa che gli si agita dentro, mai del tutto definita. Ha mollato la prestigiosa università di Yale, è già andato in Vietnam, come insegnante in una scuola cattolica e poi si è imbarcato nella marina mercantile. Ha scritto un romanzo ma non è riuscito a pubblicarlo. Si sente mediocre, fallito. Ha vent’anni ed è affranto. Parla di hybris citando gli amati greci. Sta di fatto
che si arruola volontario, punizione autoinflitta per la propria tracotanza. Vede come è davvero, quanto è sporca quella guerra, viene pure decorato. Quando torna, ha addosso una rabbia profonda. Il seme di Platoon, è piantato. Ci metterà più di quindici anni a svilupparsi e a diventare ciò che oggi conosciamo, uno dei più emblematici film sul Vietnam. Lì dentro c’è anche l’anima degli altri film di Stone: brutale quando parla di una verità di cui è affamato, profondamente critico verso il potere e i suoi maneggi, diffidente verso le versioni ufficiali. Violento se deve, machista e muscolare in una palude di celluloide dove il compromesso è la regola. Guardandola da questa angolazione, l’autobiografia che termina nel 1987 con Platoon, forse stupisce meno. È come se per Oliver Stone le battaglie davvero importanti siano state combattute allora e il resto sia stato solo la conseguenza della vittoria inseguita, sfuggita più volte e alla fine conquistata a prezzo di sacrifici. Non l’Oscar, ma il sapere di avercela fatta e di aver trovato finalmente una luce rincorsa tutta la vita.
Questo molto curioso e stimolante L’italiano lungo le vie della musica: la canzone, miscellanea di studi dedicati al rapporto tra musica leggera e lingua, è diviso in due parti: una rende conto di aspetti genericamente legati alla lingua della canzone italiana, l’altra risponde a un interrogativo che da qualche decennio interessa la scuola: quanto questa stessa canzone possa in un qualche modo entrare a far parte della strumentistica didattica delle lingue, quanto si possa sfruttare la musica leggera nell’insegnamento delle letterature e delle lingue seconde. Molti ricorderanno L’inglese. Lezioni semiserie, dove si racconta la storia di M.M., che decide di imparare quella lingua mettendo insieme tutta la sapienza che gli deriva dalla conoscenza di titoli e testi delle canzoni di Bob Dylan e dei Beatles («ordinando le canzoni che conoscevo mi sono accorto di avere composto un piccolo manuale di conversazione»). «Funziona!», dice Severgnini. Funziona? Forse: certo è che esplorare risorse di questo tipo pare essere operazione potenzialmente fruttuosa. La prima sezione della raccolta ha titoli che rinviano a Francesco Guccini
e al progressive italiano, a De André e al rap. Nei testi dell’età più estetizzante e sinfonica del rock anglosassone, quella dei Genesis, dei King Crimson, degli Emerson, Lake & Palmer, brilla una certa attenzione del pubblico italiano e della sua stampa di riferimento (su tutti il mitico «Ciao 2001») per i testi. Fa effetto per esempio sentire che nelle interviste italiane le varie star di quel periodo manifestassero un certo puntuale disinteresse per la componente testuale. Attenzione ai testi che torna, ovviamente e di converso, quando si parla dell’attuale rap italiano; questo, segnato dalla «passione per ogni sorta di oltranza» ma anche da un onnipresente autobiografismo («io ho fatto questo e ho fatto quello», «vengo da questo posto», «ho conosciuto il tale e il talaltro» ecc.), ha elementi di innovazione assoluta lungo tutte le direttrici strutturali e sociolinguistiche della nostra lingua. Evangelisti eletti di queste ultime sono ormai i rapper di seconda generazione, figli di immigrati di varia provenienza. La seconda parte di questo libro anche un po’ malinconico (per chi ebbe quella forma di educazione culturale, qualche decennio fa, qualche passo suscita più di uno struggimento) è volta a sondare i modi con i quali canzoni e canzonette posso essere proficuamente messe a frutto nell’insegnamento linguistico. Ben al di là delle analisi in classe delle canzoni di De André e delle citazioni di testi, immagini e autori classici nei cantautori, e ancora dell’apporto diretto di poeti famosi, appaga con decisione il lettore una parte più tecnica e di avanguardia che riguarda l’analisi dei rapporti tra musica, lingua e cervello. Ormai con le neuroimmagini si fa un po’ di tutto; ma sentire (come nel contributo di Valentina Bianchi, che insegna Linguistica e studi cognitivi nell’Università di Siena) che potrebbe esistere «una regione cerebrale in cui si riscontra una sovrapposizione di aree neurali e processi sintattici implicati nell’elaborazione linguistica e musicale» riconcilia un po’ con il buon Beppe Severgnini e con le sue tesi apparentemente scanzonate, e dà un’opportunità in più all’insegnamento delle lingue. Ai genitori ormai assuefatti all’iconografia che vede gli adolescenti di casa stesi tra il disordine di impenetrabili camerette, con suoni tanto smorzati quanto disordinati provenienti dalle cuffiette, resta, chiuso questo libro, una timida seppur piena di sospetti speranza che tutto quel rumore possa – chissà? – servire a qualcosa. Bibliografia
La copertina dello studio edito da Cesati Editore.
Lorenzo Coveri e Pierangela Diadori, L’italiano lungo le vie della musica: la canzone, Firenze, Franco Cesati Editore, 2020. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Cultura e Spettacoli
L’uomo al centro
Mostre Il MASI di Lugano dedica una personale allo scultore Hans Josephsohn
Alessia Brughera «Il punto d’inizio siamo semplicemente noi», dichiarava Hans Josephsohn parlando di ciò da cui la sua arte traeva linfa vitale. Utilizzando un’espressione assolutamente calzante, i critici hanno definito i suoi lavori «scultura esistenziale», a sottolineare come il fulcro delle riflessioni dell’artista svizzero sia sempre stato l’uomo. Josephsohn, infatti, ha fatto delle proprie opere lo strumento di conoscenza della condizione umana, elaborando un linguaggio capace di raccontare la vulnerabile relazione tra l’individuo e la realtà che lo circonda. A partire dagli anni del secondo conflitto mondiale, un momento storico particolarmente inquieto in cui lo scultore sente forte la desolazione morale che investe il mondo intero, la sua arte, procedendo per minimi scarti, si fa portavoce, fino alla fine, della fragile dimensione dell’umanità.
L’allestimento non propone un percorso cronologico ma accosta opere che vengono da vari momenti della sua carriera Nato un secolo fa a Königsberg, a quei tempi città della Prussia Orientale (diventata poi Kaliningrad, in Russia), Josephsohn non ha vita facile nell’intraprendere gli studi artistici. Per via delle sue origini ebraiche, dapprima è la Germania nazista a negargli questo diritto, poi, arrivato in Italia nel 1938, dopo soltanto qualche mese di frequenza all’Accademia di Belle Arti di Firenze si trova obbligato a fuggire in Svizzera a causa dell’introduzione delle leggi razziali fasciste. Qui, a Zurigo, riesce finalmente a portare avanti la formazione di scultore e a dedicarsi con assiduità all’arte, tracciando senza sosta (anche quando, nel 2007, cinque anni prima di morire, un ictus
lo costringe su una sedia a rotelle) un percorso di tenace ricerca sull’essere umano che proprio dall’ossessiva resa formale della sua figura cerca di raggiungerne l’essenza. Nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Josephsohn, che ha sempre intrattenuto uno stretto rapporto con il nostro cantone dal momento che molti suoi pezzi hanno visto la luce presso la Fonderia Perseo di Mendrisio, il Museo d’arte della Svizzera italiana a Lugano omaggia l’artista con una mostra in cui viene presentata un’accurata selezione di opere in ottone realizzate tra il 1950 e il 2006. Del maestro elvetico sono stati scelti dai curatori della rassegna alcuni lavori non con l’intento di ripercorrere in retrospettiva la sua lunga carriera, bensì con quello di mettere in evidenza le analogie e le divergenze tra sculture appartenenti a periodi diversi. È questo il motivo per cui l’esposizione non segue un criterio cronologico ma si pone come uno sguardo sulla produzione di Josephsohn che invita a coglierne i tratti stilistici salienti. Ed è questo il motivo per cui lo spazio che accoglie le opere in mostra, una ventina circa, è stato appositamente lasciato in uno stato grezzo, non finito, a richiamare la condizione di incompiutezza e di transitorietà delle sculture dell’artista, contraddistinte sempre da una lavorazione piuttosto rude della materia. Protagonista assoluta, sia negli esiti a tutto tondo sia nei rilievi, è la figura umana, plasmata da Josephsohn proprio con un trattamento della superficie che pare velocemente abbozzato ma che in realtà nasconde un intervento meticoloso volto a sviscerare la forma nella sua pienezza. Contraddistinte da una travagliata espressività che richiama, seppur con le dovute differenze, quella di Alberto Giacometti, le opere di Josephsohn, da lui stesso classificate con scrupolo in cinque diverse tipologie (teste, mezze figure, figure in piedi, figure distese e rilievi), nascono da un contatto diretto con il reale che l’artista sa poi subli-
mare astraendolo in immagini sospese tra verosimiglianza e illusione. A fargli da modelli sono parenti e amici nonché le sue tre compagne di vita, Mirjam (figlia del filosofo tedesco Ernst Bloch da cui l’artista ha nel 1962 il suo primo e unico figlio), Ruth e Verena, tutte persone che Josephsohn non costringe a lunghe ore di posa ma che ritrae in rapidi momenti di intensa creatività tra un caffè e una chiacchierata. Nascono così le sue opere dalle robuste volumetrie in cui la mimesi del soggetto lascia spazio a una rappresentazione della figura umana intrisa di valori simbolici. Come ben testimonia la mostra luganese, le sculture dell’artista colpiscono per la loro vigorosa corporeità e per la loro ieraticità, caratteristiche, queste, iniettate nel lavoro di Josephsohn grazie alla sua grande passione per l’arte antica, quella degli Assiri, degli Egizi, dei Greci e soprattutto della civiltà etrusca, scoperta durante i suoi numerosi soggiorni in Italia. Ed è ancora dagli antichi che l’artista apprende la lezione di plasmare la materia in modo tale da sottrarla a un punto di osservazione privilegiato, annullando così la frontalità dell’opera e suggerendo allo spettatore una sua visione multilaterale. Nei lavori di Josephsohn i volti e i corpi sono ricondotti a tratti essenziali, gli elementi anatomici enfatizzati, le proporzioni stravolte. L’artista attua così un profonda riflessione sulla figurazione plastica, creando sculture dalla potenza ancestrale capaci di dialogare con i turbamenti dell’uomo contemporaneo. Dove e quando
Hans Josephsohn. Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Fino al 21 febbraio 2021. A cura di Ulrich Meinherz e Lukas Furrer. Orari: a seguito delle disposizioni ufficiali legate alla pandemia il MASI è chiuso fino a nuovo avviso. Tour virtuale della mostra: www.masilugano.ch/it/1006/hans-josephsohn
Hans Josephsohn, Senza titolo (Verena), 1982. (MASI)
Un museo su misura
La Congiunta A Giornico le opere di Josephsohn hanno trovato una collocazione originale
e specificamente creata per evidenziare il loro carattere
Ada Cattaneo Oltre alla mostra di Lugano, in Ticino c’è un altra occasione per avvicinarsi alla produzione artistica di Hans Josephsohn. Per lungo tempo nota solo agli appassionati di architettura, La Congiunta non è certamente molto pubblicizzata: è un luogo da scoprire e si consiglia a chi desideri visitarla di seguire un lento percorso di avvicinamento. Arrivati a Giornico, ci si reca all’osteria del paese. Qui si chiedono al barista le chiavi (non dimenticate di riportarle al termine della visita!) e ci si avvia verso l’altra sponda del Ticino. Si può arrivare in macchina. Ma compiere il percorso a piedi permette di passare dalla splendida isola fluviale e dai suoi ponti in pietra, oltre che di cominciare ad entrare nello spirito del luogo. Si oltrepassa la zona del castello e, risalendo qualche centinaio di metri verso nord, fra i filari di vite si incontra un edificio in cemento tanto inatteso quanto suggestivo. Secondo un concetto del tutto a sé, più che di un museo, si tratta della dimora che l’architetto Peter Märkli
(Quarten SG, 1953) ha realizzato nel 1992 per ospitare le sculture di Hans Josephsohn. Un profondo sodalizio ha legato i due autori: spesso Märkli ha collocato figure create dall’artista presso
le abitazioni che progettava. Questo diventa quindi il luogo dove «congiungere» l’operato dei due autori e «riflettere sui modi in cui architettura e scultura si definiscono a vicenda», come spiega Märkli. Giornico, poi,
è di per sé un condensato di affascinanti retaggi storici, che Josephsohn studia e che Märkli raccoglie in una serie di sottili accorgimenti che ancorano l’edificio al contesto circostante. Cominciamo dall’orientamento, de-
Lo stabile è stato costruito nel 1992 da Peter Märkli. (Adrian Michael, Wikipedia)
terminato da quello dei vicini filari di vigne. Le proporzioni che vigono fra i tre ambienti della costruzione e le 33 sculture in essi ospitate sono studiate per ricalcare quella della vicina chiesa romanica di San Nicolao, dove il dialogo fra architettura e sculture è elemento decisivo che conferisce armonia. Märkli non sceglie la pietra, ma un materiale contemporaneo come il cemento. Questo viene però volutamente gettato secondo una tecnica ormai antiquata, che lascia fuoriuscire dai casseri i tondelli usati per la posa. Così facendo, con il tempo sui muri si delineano le tracce dell’ossidazione dei ferri, oltre a quelli dovuti alla forte umidità della zona. Tutti segni cercati per richiamare le superfici delle opere di Josephsohn, che quei muri custodiscono. La Congiunta è un esempio di spazio espositivo agli antipodi rispetto all’impersonale «white cube», che ipoteticamente dovrebbe ospitare opere d’arte senza influenzarne la lettura. Märkli sceglie invece di raccontare nel progetto tutta la propria riflessione sull’opera di Josephsohn.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 gennaio 2021 • N. 01
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Cultura e Spettacoli
La fidanzata del vero
Fotografia Il viaggio è il tema al centro di una mostra fotografica di Roberto Pellegrini,
ospitata dalla Biblioteca cantonale di Lugano
Libri Ripubblicata
la bella monografia di G.P. Dossena
Sebastiano Caroni In un periodo di restrizioni che condiziona, in maniera importante, anche il settore della cultura, per fortuna rimane ancora qualche oasi protetta per gli appassionati di arte. È il caso de La fidanzata del vero, un’esposizione fotografica di Roberto Pellegrini sul tema del viaggio, allestita presso gli spazi della Biblioteca cantonale di Lugano. Mostra che, precisiamo, rimane aperta nonostante la momentanea chiusura della biblioteca. Asconese di origine, Pellegrini è un fotografo indipendente specializzato in fotografia di quadri, sculture e installazioni, oltre che di architettura, interni, ambienti e persone. Ha partecipato a mostre collettive e vanta diverse esposizioni personali, monografie e cataloghi d’arte. Negli ultimi anni, si è distinto per Doppio istante, un’esposizione del 2019 che, con un sottile gioco fra imitazione e attualizzazione, omaggia lo storico fotografo Roberto Donetta. Da una riflessione sul significato della pratica artistica nasce invece Ateliers, mostra del 2018 che propone fotografie dei luoghi di creazione di alcuni artisti. Sua è anche un’interessante installazione-video dal titolo Con la testa tra le nuvole, creata in occasione di un recente festival sul sogno tenutosi a Bellinzona e Locarno. Questa volta, invece, l’occasione che ha propiziato la mostra – sostenuta dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport e dal Dipartimento delle finanze e dell’economia –, arriva dalla congiuntura, al tempo stesso geografica, culturale e storica dell’apertura della galleria di base del Monte Ceneri. Un evento simbolico che, sullo sfondo del grigiore pandemico, riavvicina le distanze e rilancia la mobilità. Dal punto di vista artistico, la sfida si riassume in questo interrogativo: come può la fotografia, che è l’arte che fissa i momenti, che immortala gli istanti del tempo che fugge, rinviare a fluidità e movimento? Come può l’immagine fissa catturare l’essenza del viaggio, che è spostamento? Abbiamo
Un Dante confidenziale e avvincente
Alessandro Zanoli
Ledwina Costantini in uno dei ritratti esposti . (Roberto Pellegrini)
rivolto queste domande proprio a Roberto Pellegrini. «Contattato da Luca Saltini, responsabile delle attività culturali presso la Biblioteca cantonale di Lugano» ci racconta il fotografo, «mi è subito venuta l’idea di proporre tre fotografie di un soggetto che ne cogliessero l’individualità, invitando lo spettatore a viaggiare all’interno del mondo privato di questo soggetto. Le mie fotografie rappresentano il viaggio attraverso il divenire e l’essere di una persona ritratta in tre momenti significativi. A volte, sono stati proprio i soggetti che ho fotografato a suggerirmi i tre momenti». A un osservatore attento, prosegue poi Pellegrini, «non sfuggirà neppure come nei trittici spesso figura un elemento legato direttamente all’esperienza del viaggio, come una bicicletta, un’automobile, o un’imbarcazione». Al centro del lavoro artistico di Pellegrini c’è, tanto in questo ultimo lavoro così come in altre occasioni recenti, l’incontro umano e personale con i soggetti fotografati. L’intento è quello di «raccontare con precisione la biografia di ogni singolo dal punto di vista della mia sensibilità e gusto estetico». In occasione di quest’ultima mostra, precisa poi il
fotografo, «ho preferito il bianco e nero, che ho riscoperto in occasione del progetto Doppio istante. È stato bello riscoprire il fascino del bianco e nero, un elemento che aggiunge anche un alone di mistero e di sospensione temporale alle fotografie». La spontaneità, prosegue Pellegrini, ha un ruolo centrale nel suo lavoro: «non mi metto mai a tavolino a decidere chi sceglierò, mi lascio condurre molto dal caso man mano che il lavoro procede. Mi piace riproporre soggetti già fotografati in altri progetti, ma non solo. In questo caso, anche i social media mi hanno dato una mano: ho infatti coinvolto una ragazza che, durante il Lockdown, su Istagram ha pubblicato alcune foto veramente interessanti. Altre due persone invece sono entrate nel progetto grazie a dei servizi di Cult+ della RSI. Insomma, trovare le persone giuste è stato un bel viaggio, fatto anche di sorprese, di nuove conoscenze, di incontri e collaborazioni». E il titolo dell’esposizione, gli chiediamo, come è nato? Non si può certo dire che non sia suggestivo. «Tra le persone fotografate», ci confida Pellegrini, «figura lo scrittore Tommaso Soldini. Ho chiesto a lui di suggerirmi un titolo,
visto che un paio di anni fa aveva commentato in modo intelligente alcune mie fotografie inserite nel contesto di Strange Days, un festival dedicato agli anni 90: per questo mi intrigava raccogliere un suo spunto. Ammetto che la sua proposta di titolo in un primo momento mi è sembrata un po’ strana, ma poi ho capito: la fotografia è la “fidanzata” della realtà, un’idea che si sposa molto bene con il mio modo di fotografare». Come dicevamo, nell’esposizione di Roberto Pellegrini il viaggio si manifesta in tutte le sue forme: geografico, interiore, esistenziale, e artistico. Può essere, a seconda dei casi, evocato dalla presenza di un mezzo di trasporto ma anche, più fugacemente, accompagnare l’espressione di un viso, o dare risalto a uno sguardo. Oppure, perché no, sottolineare la ricerca estetica del fotografo, marcando una tappa importante del suo itinerario artistico. Informazioni
Conoscete l’effetto vortice? Nella vita di un lettore medio si verifica non molto di frequente. È quella sensazione di risucchio mentale che alcuni (pochi) libri riescono a produrre in chi li legge, tanto da dar luogo a una sospensione del tempo reale e una totale immersione nell’esperienza di lettura. L’effetto vortice può farci trascorrere addirittura notti insonni, può cancellare dalla nostra vita interi pomeriggi e serate. È una bella esperienza. Questo preambolo per dire che se avete voglia di fare un tuffo in un libro (come Bastian nella Storia infinita) forse questo libro di Giampaolo Dossena può darvene l’occasione. L’autore è noto, e lo sono ancora di più le sue capacità di affabulatore. Chi legge questo settimanale da tempo potrebbe aver avuto la fortuna di incontrarlo in uno dei numeri di qualche anno fa (nota a margine: questa è una tipica frase dosseniana. L’effetto vortice nei libri di Dossena deriva anche, soprattutto, dal modo magistrale con cui lui riesce a catturare il lettore e a farlo diventare partner di un dialogo intimo e confidenziale. Come se il libro che stiamo leggendo fosse scritto proprio per noi che stiamo leggendo, solo per noi. La sensazione è di un discorso ravvicinato e pieno di intelligenza, non privo di un certo paternalismo, ma di quello buono, utile per capire. Leggendo Dossena, a volte, si ha la tentazione di voler diventare intelligenti). Non abbiamo abbastanza spazio per enumerare i libri di Dossena che varrebbe la pena di leggere se invece non lo si conosce: basti dire che è stato un divulgatore eccezionale (unica la
Orari di apertura: lu-ve 10.00-18.30, sa 10.00-16.00, fino al 23 gennaio 2021. bclu-segr.sbt@ti.ch (si consiglia di annunciarsi per la visita).
A colloquio con Ludwig Biografie Il pianista Daniel Levy dà alle stampe un’affascinante «intervista impossibile»
con il grande Beethoven, attingendo dai suoi carteggi Enrico Parola
L’intervista immaginaria al personaggio del passato è un classico della letteratura, anche perché risponde all’umana curiosità di poter scoprire verità nascoste, aneddoti e lati sconosciuti di uomini la cui immagine pubblica ci è stata consegnata ed è stata costruita dalla storia e dalla cronaca. Chi, dopo aver letto tutto su Giulio Cesare, Leonardo o Picasso, non si ritroverebbe con decine di domande da rivolgergli? Daniel Levy, pianista, saggista nonché anima dell’accademia Eufonia, ha scelto la forma dell’intervista per il libro dedicato a Beethoven nel 250° anniversario dalla nascita. Dialogo con Beethoven è infatti il titolo del volume, titolo che nella sua sobrietà suona quasi oggettivo invece che immaginario; ed effettivamente Levy cerca di non scadere nella fantasia e nell’arbitrarietà optando per una scelta ben precisa: le risposte che Ludwig dà alle sue domande sono tutte autentiche, perché per redigerle l’autore attinge dai carteggi e dagli scritti autografi del musicista, senza aggiungervi una sola parola.
Nel 2020 ricorrevano i 250 anni dalla sua nascita. (Wikimedia)
Un lavoro capillare che porta all’attenzione del lettore pagine, righe, singole affermazioni che non rientrano tra quelle normalmente citate (queste ovviamente non mancano, ad iniziare dal Testamento di Heiligestadt giustamente considerato il lascito spirituale
più esplicito di Beethoven, dove denuncia la sua sordità incipiente e afferma la sua volontà di continuare a creare musica per rispondere al genio dell’arte che sente urgere in sé e per comunicarne il messaggio all’intera umanità). In questo intarsio di citazioni autografe le domande di Levy diventano una sorta di introduzione che offre al lettore una prospettiva di indubbio interesse per verificare quanto le parole del compositore tedesco siano ancor oggi attuali e sappiano giudicare la situazione odierna non solo della musica e dell’arte in generale. All’inizio Levy chiede a Beethoven di raccontare la genesi delle sue opere: «Ho sempre un quadro nella mia mente quando compongo, e seguo le sue linee. Il mio dominio si trova nell’aria. I toni girano come il vento e spesso c’è una sorta di vortice nella mia anima. Allora i temi più incantati scorrono verso il cuore. Temi che delizieranno il mondo quando non ci sarò più»; parole poetiche e profetiche, cui seguono dettagli più tecnici: «Porto con me i miei pensieri per un lungo tempo prima di scriverli… Cambio molte cose, ne scarto
altre e torno a trattarle nuovamente finché sono soddisfatto. Allora inizia nella mia testa le sviluppo in ogni direzione, dato che conosco esattamente quello che voglio». A proposito di tecnica, ecco il buffo consiglio agli studenti: «Assolutamente no al metronomo! Chi ha il senso del suono non ne ha bisogno e chi non lo ha non otterrà nessun aiuto da questo». Per chi è legato all’immagine prometeica di Beethoven, del titano che lotta contro il destino, può risultare sorprendente la definizione dell’artista: «Il vero artista non è orgoglioso. Egli capisce che l’arte non ha limiti e sente quanto è lontano dalla meta. E se anche, forse, sarà ammirato dagli altri, egli lamenta il non aver ancora raggiunto quel punto in cui il grande genio brilli davanti a lui come un sole distante». I suoi artisti prediletti? «Goethe: per lui sarei morto dieci volte. Händel: il più grande compositore mai esistito. Mi scopro la testa e mi inginocchio davanti alla sua tomba. Schubert: in lui dimora veramente una scintilla divina». L’altro grande amore? «La natura: è una scuola gloriosa per il cuore».
Nato a Cremona nel 1930, è stato nostro collaboratore fino al 2006.
sua Storia confidenziale della letteratura italiana), ma, al di là della sua inimitabile, sterminata produzione dedicata al gioco, per noi rimane di grande fascino la redazione delle sue storie letterarie su base geografica: se vi capita non fatevi sfuggire i suoi Luoghi letterari, o l’ancora più intrigante La Brianza dei poeti (è abbastanza raro, purtroppo). Restano poche righe, alla fine, per parlare di questa nuova edizione del suo saggio sul grande padre della lingua italiana. Basti dire che Dante è costruito in modo originalissimo, cronologicamente e per temi insieme, tanto che per parlare di Alighieri e della sua opera si parte dai Benedettini (p. 14) per arrivare ai Fantasmi (p. 297) in un percorso avanti e indietro nella storia delle vicende umane e della letteratura realmente avvincente, che vale più di molti corsi universitari. E i professori mi scusino. Bibliografia
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