Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Il progetto ViaMia aiuta le persone con più di 40 anni a ripensare e analizzare il proprio percorso professionale
Ambiente e Benessere Il dottor Diana confuta le fake news sul vaccino: funziona, l’eventuale mutazione non cambia l’efficacia, ce ne sarà per tutti, ma non togliete la mascherina per rispetto degli altri
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 11 gennaio 2021
Azione 02 Politica e Economia Fotoreportage dalla Bosnia fra i rifugiati in fuga verso l’Europa
Cultura e Spettacoli Uno straziante concerto in solitaria per il cantautore australiano Nick Cave
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di Rampini e Raineri pagine 15 e 17
Keystone
Assalto al Campidoglio
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Un lupo travestito da lupo di Peter Schiesser È questo, dunque, il crepuscolo del sogno di Donald Trump, di un potere assoluto? Epilogo naturale, vien da rispondere, di un narcisista diventato presidente degli Stati Uniti, disposto a sacrificare tutto e tutti alla sua sete di onnipotenza. Si è sempre mostrato per quello che è: un lupo travestito da lupo, come lo descrive una giornalista americana. E nel giorno in cui il Congresso certificava la sua sconfitta, il risultato è stato un brivido gelato lungo tutto l’Occidente. Ma era immaginabile, nel Ventunesimo secolo, che il presidente della prima potenza mondiale aizzasse i suoi sostenitori a prendersi con la forza una presidenza «rubata»? Poi chieder loro di tornare a casa in pace, dopo aver tergiversato sull’invio della guardia nazionale, blandendoli con affettuosi apprezzamenti, nonostante abbiano assaltato il Campidoglio, occupato uffici e aule del Senato e della Camera dei rappresentanti, violato il simbolo principe della democrazia statunitense? Questa non è più democrazia. D’altronde in questi quattro anni, in un crescendo mozzafiato, Trump ci ha abituati a ogni tipo di oltraggio, infrazione, menzogna,
prevaricazione. Solo la settimana scorsa è stata resa pubblica una telefonata di un’ora in cui il presidente e il suo entourage fanno pressione sul Segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger (che non cede di un centimetro alle pressioni) affinché sovverta il risultato delle presidenziali, in uno smaccato esercizio abusivo di potere presidenziale. Trump non è un democratico, possiamo annoverarlo fra i Putin, Xi Jinping, Orban, Erdogan, Kim Jong un, personaggi che lui dichiara pubblicamente di ammirare, che in comune hanno tratti fortemente autoritari, a cui la democrazia serve per arrivare al potere, e poi la smantellano. Questo è ciò che sta alla base dell’insurrezione che Trump ha provocato con le sue parole («le parole di un presidente, buone o cattive che siano, contano» ha detto Biden). Ma tutto questo lo sapevamo da tempo. E lo sapevano i deputati e senatori repubblicani che lo hanno sostenuto, per convinzione o per opportunismo, per non inimicarsi la sua base. Qualcuno ha mollato Trump all’ultimo minuto, come Mitch McConnell, l’ormai ex speaker della maggioranza repubblicana al Senato (poiché con i due seggi conquistati in Georgia i Democratici avranno la maggioranza anche al Senato), che poco prima dell’assalto dei sostenitori di Trump ha
dichiarato in aula che se i perdenti non accettano la sconfitta viene minato il sistema democratico; qualcuno lo ha fatto sull’onda dello shock, come la senatrice della Georgia Kelly Loeffler (sconfitta quel giorno stesso nelle elezioni per il Senato) che ha deciso di riconoscere la vittoria di Biden, negata fino a qualche ora prima; e c’è chi invece continua a cavalcare le menzogne di Trump sulle elezioni rubate, come il senatore Ted Cruz (che era stato accusato da Trump di avergli rubato una vittoria in un’elezione primaria nel 2016). Resta il fatto che con il silenzio e la condiscendenza della maggioranza dei repubblicani Trump ha potuto disseminare in tutta la popolazione le sue menzogne fino a renderle verità e realtà per i suoi tanti sostenitori. Questi semi hanno attecchito, il paese è profondamente diviso. Biden ha un compito difficile davanti a sé, ma non essendo una personalità polarizzante può contribuire a calmare le acque. Calmare le acque è un conto, sanare le ferite sociali e politiche, ricostruire la credibilità della democrazia americana in patria e nel mondo intero è tutt’altra impresa. Vedremo solo nei prossimi mesi e anni se e come sarà possibile e quali conseguenze avrà provocato l’assalto al Campidoglio, anche a livello geopolitico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Società e Territorio L’architettura piange Luigi Snozzi Ha progettato molto, ha realizzato poco e non ha lasciato scritti sistematici, soltanto brevi relazioni, interviste e i suoi aforismi. Il grande architetto ticinese si è spento lo scorso 29 dicembre
La scuola attraverso il teatro Un corso proposto dall’Istituto universitario federale per la formazione professionale invita a riflettere sul lavoro e sulla figura dell’insegnante attraverso l’improvvisazione pagina 6
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In Ticino ViaMia impiega due orientatori e una orientatrice adeguatamente formati. (www. viamia.ch)
Una via che sia mia
Over 40 Un progetto attivo in undici Cantoni offre alle persone con più di 40 anni le risorse e le competenze
per ripensare la carriera professionale e pianificare il futuro Nicola Mazzi «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». Il famoso incipit della Divina Commedia è perfetto per il tema di quest’articolo che tratta, infatti, di chi, superati i 40 anni, desidera analizzare il proprio percorso professionale. La Confederazione ha messo a punto un nuovo strumento, intitolato ViaMia (www.viamia.ch), che ha lo scopo di fare il punto della situazione sulle proprie competenze e scoprire le possibilità di crescita professionale. Un progetto partito con il nuovo anno e al quale partecipano 11 Cantoni. Tra di essi anche il Ticino dove la prestazione è garantita dall’Ufficio dell’orientamento scolastico e professionale. Con Matteo Crivelli (orientatore professionale e responsabile cantonale di ViaMia) cerchiamo di saperne di più. «Il progetto è stato lanciato nel 2019 dal Consiglio federale e fa parte di un pacchetto di misure mirate a rilanciare il mercato del lavoro. L’obiettivo è quello di permettere alle persone con più di 40 anni di eseguire una valutazione della propria situazione lavorati-
va per capire se e come continuare con la situazione che stanno vivendo o se invece indirizzarsi su altre strade professionali». Come aggiunge Crivelli, gli over 40 sovente si rivolgono agli orientatori per una consulenza e ora troveranno un’offerta di accompagnamento in più. «Alcuni desiderano capire che cosa offre il mondo del lavoro, altri vogliono riqualificarsi, altri ancora si chiedono se la professione scelta – magari 20 anni prima – sia quella che vogliono praticare per i prossimi 25. Insomma, sei a metà della tua vita professionale, con una formazione alle spalle e vuoi capire quali sono le tue potenzialità e come le vuoi sviluppare per il resto della tua vita lavorativa. Il tutto all’interno di un mercato del lavoro che è in continuo mutamento». Ma in pratica come funziona il progetto? «Ci sarà un primo colloquio con l’orientatore, nel quale viene eseguita una valutazione della situazione personale per capire quale può essere la sua impiegabilità. Questo passo è però preceduto da un lavoro del partecipante e da un altro che facciamo noi. Nel dettaglio chi inizia la consulenza deve anzitutto farci avere il suo CV e passa-
re un test online per rilevare quali sono le risorse a disposizione della persona. Così facendo noi possiamo iniziare la valutazione che poi completiamo insieme all’interessato. In teoria, già dopo un solo colloquio, si potrebbe capire se la persona sia pronta per ripartire oppure se ha bisogno di rafforzare le sue risorse o sviluppare dei progetti di carriera mediante ulteriori incontri. In questo senso non è previsto un numero preciso di colloqui da effettuare, ma ci adeguiamo ai bisogni di chi si vuole rimettere in gioco». Gli strumenti a disposizione sono molteplici. ViaMia si appoggia, per esempio, su alcune piattaforme che saranno affinate con il progetto pilota e che permetteranno di valutare le risorse di ognuno, grazie a un questionario sviluppato dal professor A. Hirschi dell’Università di Berna. Inoltre, sono a disposizione alcune linee guida e sono stati sviluppati moduli ad hoc per effettuare l’analisi del CV, delle risorse personali e di carriera, delle competenze e della motivazione. Altri moduli analizzeranno, invece, le tendenze in atto nel mercato del lavoro al fine di scoprire le opportunità a disposizione del lavoratore.
Il progetto inizia con l’impiego di due orientatori a metà tempo. Mentre un’altra orientatrice, tutti e tre adeguatamente formati, è a disposizione in caso ci fosse una richiesta superiore a quanto preventivato e quindi ai 150 colloqui l’anno. In altre parole se dovessero essercene molti di più gli uffici cantonali sono pronti a farvi fronte. «Oltre all’età non abbiamo altri limiti», sottolinea ancora Matteo Crivelli. Siamo aperti a tutti coloro che desiderano fare il punto della loro situazione lavorativa e a rispondere a queste domande: chi sono, dove sono e dove voglio andare? È un lavoro importante che ognuno dovrebbe fare a metà della propria attività professionale, per capire che direzione lavorativa prendere e per avere maggior controllo sulla propria traiettoria». ViaMia – come detto all’inizio – coinvolge nel 2021 per la prima fase pilota 11 Cantoni e nel 2022, sulla base dell’esperienza fatta, sarà allargato a tutta la Confederazione (che lo finanzia quasi interamente) e durerà almeno fino al 2024. Rispetto ad altri progetti dedicati ai lavoratori, ViaMia si rivolge a una fascia di persone – nella loro piena attivi-
tà lavorativa – che spesso sono date per scontate e che beneficiano raramente di misure atte a valorizzarle. In particolare, permette di aiutare adulti che si trovano davanti a domande diverse da quelle di un giovane alla prima esperienza professionale. «Perché il nostro intento non è solo quello di analizzare il lavoro in quanto tale, ma il fine ultimo è quello di approfondire l’intera traiettoria di vita: è un momento di autoanalisi, in quanto il suo sguardo particolare e nuovo permette alla persona di guardarsi dentro e analizzare i vari contesti in cui si trova. La nostra sfida è quella di offrire agli interessati le risorse e le competenze per prendere in mano la vita e gestire i prossimi passi nella carriera professionale e privata». Tutto ciò perché, per citare ancora Dante, dopo lo smarrimento iniziale lo scopo ultimo è quello di uscire «a riveder le stelle». Informazioni
www.viamia.ch Ufficio dell’orientamento scolastico e professionale a Bellinzona, Tel. 091 814 63 51, oppure inviare una mail a decs-uosp@ti.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Formazione a distanza, un bilancio
SUPSI Una doppia indagine svolta tra studenti e docenti della Scuola universitaria professionale ha permesso
di risolvere alcune criticità e approfondire il tema in prospettiva di un insegnamento misto Stefania Hubmann Carico di lavoro, autonomia, solidarietà, comunicazione, solitudine, schermo, connessione, guadagnare tempo, mancanza del contatto. Parole che sintetizzano alcuni aspetti positivi e critici di una conseguenza diretta dell’emergenza sanitaria sugli studenti: l’insegnamento a distanza. Questi concetti sono emersi da una doppia indagine svolta dalla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) la scorsa primavera, indagine che ha permesso sia di risolvere le criticità delle prime settimane, sia di approfondire le questioni principali in prospettiva di un insegnamento misto. L’andamento pandemico ha purtroppo confermato in autunno la necessità di percorrere questa via, in grado però di offrire anche nuove opportunità sul lungo termine. L’urgenza si è infatti rivelata un potente acceleratore nello sfruttamento delle risorse tecnologiche da parte degli studenti come del corpo insegnante. A quest’ultimo sono nel frattempo state offerte proposte formative ad hoc. Tutto ciò nella consapevolezza che non è possibile sostituire in toto le lezioni in presenza, in particolare in un contesto formativo come quello di una scuola universitaria professionale che si distingue proprio per l’attenzione rivolta alla dimensione sperimentale.
Con un questionario inviato in aprile a tutti gli studenti si sono indagate le difficoltà della didattica a distanza Due settimane di sospensione dei corsi a marzo e poi direzione e docenti della SUPSI sono riusciti ad assicurare continuità all’insegnamento in modalità a distanza mantenendo un orario settimanale che supera le 30 ore. Con quali risultati? Il principale consiste sicuramente nell’aver garantito la conclusione dell’anno accademico. Certo, le difficoltà non sono mancate, in ragione di un rivolgimento repentino e di uno
I sentimenti delle studentesse e degli studenti di fronte alla formazione a distanza. (SUPSI)
sfruttamento fino a quel momento assai limitato delle potenzialità offerte dalla tecnologia. Imboccata durante il lockdown l’unica via percorribile, il team incaricato di gestire l’emergenza dopo alcune settimane ha voluto coinvolgere gli studenti attraverso un questionario per capire quali fossero le difficoltà di una didattica a distanza e di conseguenza ovviare a quelle facilmente risolvibili. «L’elevato tasso di risposte – spiegano i professori Wilma Minoggio e Fulvio Poletti – ci ha subito confermato la portata di questo cambiamento per i nostri studenti. Inviato a 2517 iscritti nei quattro Dipartimenti, il primo questionario di aprile ha raccolto il 70% delle adesioni». Responsabile del Servizio sviluppo e coordinamento istituzionale della formazione di base la prima e alla guida del Servizio didattica e formazione docenti il secondo, i nostri interlocutori evidenziano un’altra reazione significativa degli studenti SUPSI: la comprensione nei confronti di direzione e docenti per gli sforzi intrapresi a loro favore in una situazione per nulla prevedibile. Situazione che ha quindi comportato una serie di difficoltà. «L’elemento principale è sicuramente l’aumento del carico di lavoro, in parte riconducibile all’iniziale scarso coordinamento fra gli insegnanti.
Segnalati anche il confronto con molteplici canali di comunicazione, problemi di connessione e la mancanza di interazione diretta con docenti e compagni, a testimonianza del ruolo fondamentale della dimensione relazionale in una comunità di apprendimento». Grazie alle linee guida elaborate dopo l’analisi dei questionari e indirizzate al corpo insegnante, si è potuto risolvere a breve gran parte dei problemi segnalati dagli studenti. Ridurre i canali di comunicazione, così come intensificare lo scambio fra i docenti per meglio distribuire le attività assegnate alle classi, accompagnare gli studenti con sessioni a distanza di chiarimento, sono alcuni dei suggerimenti che hanno permesso di fare la differenza. Quali invece i vantaggi di questa forma di insegnamento secondo i giovani destinatari? «Dal primo questionario – spiegano i due intervistati – insieme a un apprezzamento generale per aver garantito la continuità degli studi sono emersi diversi motivi di soddisfazione, come l’autonomia nell’organizzazione dello studio, le nuove competenze legate agli strumenti tecnologici, la sospensione delle trasferte (risparmio di tempo e denaro, maggiore sostenibilità ambientale) e la continuità del curricolo. Vantaggi che sono stati confermati nel secondo questionario». Da rilevare,
che fra aprile e giugno sono stati organizzati diversi focus group con oltre 40 studenti per approfondire gli aspetti salienti dell’insegnamento a distanza. Precisa Wilma Minoggio: «Gli studenti hanno dimostrato di desiderare questo approfondimento manifestando la loro disponibilità nell’ambito del primo sondaggio. È stata l’occasione per tornare anche su questioni meno tecniche come le interazioni fra compagni, la conseguente organizzazione dei lavori di gruppo, le difficoltà delle matricole e le relazioni fra studenti e docenti». Questi ultimi sono stati coinvolti nella seconda indagine, alla quale ha partecipato la metà dei circa 2400 studenti e 600 docenti interpellati. Tasso da valutare positivamente considerata la tempistica coincisa con la conclusione del semestre. Uno degli obiettivi di questa seconda tornata di domande era volto a sondare la disponibilità a implementare la formazione a distanza nell’ambito di un sistema misto, sia per fronteggiare le possibili emergenze autunnali (puntualmente verificatesi), sia per adeguare la Scuola universitaria professionale all’evoluzione tecnologica. Fulvio Poletti conferma che questo processo appare imprescindibile e in gran parte condiviso da studenti e docenti. «L’emergenza ci ha permesso di sviluppare una riflessione più
ampia sulla formazione. Dal secondo sondaggio emerge chiaramente la disponibilità a introdurre la didattica a distanza per le lezioni teoriche, ma non per gli ambiti legati alla sperimentazione come seminari, laboratori e atelier. Se all’inizio numerosi docenti si sono trovati in difficoltà, perché la maggior parte di loro non aveva dimestichezza con le risorse tecnologiche (76,1% di risposte in questo senso), le necessità del momento hanno generato forme di auto-mutuo aiuto all’interno del corpo insegnante, sostenuto anche da esperti nei vari ambiti. Gli studenti da parte loro hanno particolarmente apprezzato le videolezioni registrate che, restando a disposizione sulle piattaforme digitali, possono essere riascoltate secondo le necessità di ognuno. L’introduzione della tecnologia nella didattica potrebbe inoltre favorire una riduzione della presenza obbligatoria (pari all’80%), da tempo auspicata dagli studenti». Lezioni in presenza e da remoto non si differenziano però solo perché le seconde sono mediate da uno schermo. L’approccio, così come la conduzione, devono tenere in considerazione che un’attività didattica del secondo tipo richiede strategie proprie per organizzare gli spazi online, mantenere alta l’attenzione degli studenti, incoraggiarne la partecipazione e assicurare nel complesso il loro apprendimento. Per permettere agli insegnanti di adeguare le loro lezioni, il Servizio didattica e formazione docenti ha proposto da novembre un ciclo di otto webinar-guida intitolato Let’s blend! Esso vuole infatti offrire suggerimenti per la progettazione e la realizzazione di corsi in modalità blended (mista) o a distanza. Da strumento di soccorso la tecnologia si è quindi trasformata per la SUPSI, come per altre realtà, in opportunità di rinnovamento per rimanere al passo con l’evoluzione della società. In prospettiva potrebbe dunque prevalere un sistema misto che ottimizzi le rispettive forme di insegnamento in relazione alle specificità della Scuola universitaria professionale. In sintesi il potenziale delle risorse tecnologiche deve rimanere al servizio della visione pedagogica globale.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Alessandra Cattori-Simona Meisser, Miss Puzzett, Gribaudo. Da 4 anni Miss Puzzett è una signora un po’ particolare: enorme, ricoperta di peli viola, con un corno e due zanne. Miss Puzzett è una signora mostro, gentile e simpatica. Una di quelle creature iperboliche e diverse, di quei «monstra» che lo sguardo infantile, ben avvezzo a ciò che sta oltre la soglia del mondo reale, accoglie con imperturbabile festosità. Ma... eccolo il «ma» che fa scattare la storia: questa signora mostro non si lavava mai. Non che non volesse farlo, semplicemente non se ne ricordava, e quindi era una signora mostro molto puzzolente. Tutti in paese la evitavano e lei restava sempre più sola e più triste a chiedersi il perché. Sarà un bambino, naturalmente, a venirle in aiuto, così da poter far concludere questa storia nel migliore dei modi. Per la felicità di Miss Puzzett, del suo giovane amico e di tutti gli abitanti del paese. E per la felicità dei piccoli
lettori, i quali, dopo essersi divertiti molto nella parte più «puzzolente» e grottesca della storia, proveranno dapprima compassione per l’emarginazione di Miss Puzzett, e poi sollievo nel caloroso finale. E magari avranno anche l’occasione, en passant, di riflettere sull’importanza dell’igiene, ma beninteso: non con grevi messaggi moralistici, bensì nella leggerezza di una storia «da ridere». Il capostipite di questo genere di storie con protagonisti «puzzoni» è il punitivo Struwwel-
peter (Pierino Porcospino) che il medico tedesco Heinrich Hoffmann diede alle stampe nel 1845: una raccolta di racconti con finali terrificanti, allo scopo di edificare, dei quali quello che dà il titolo al volume è persino il più leggero: «Oh, che schifo quel bambino! È Pierino il Porcospino». Non così Miss Puzzett, che avrà invece la possibilità di lavarsi e di essere accolta amichevolmente da tutti. Alessandra Cattori conferisce brio a questo testo, rendendolo davvero a misura di bambino e adatto anche alla lettura ad alta voce. Il contributo dell’illustratrice Simona Meisser – ticinese come l’autrice – è fondamentale, perché sta a lei creare visivamente il personaggio della «mostruosa» protagonista, e lo fa con efficacia espressiva. Da segnalare anche il fatto che il volumetto appartiene alla collana di Gribaudo «facile! Leggere bene. Leggere tutti», che utilizza la font leggimi (©Sinnos) per rendere più agevole la lettura.
Paola Rovelli e Dario Tognocchi – Simona Meisser, Il rapimento del Bafalòn, © Monte San Salvatore, FontanaEdizioni. Da 5 anni I bambini del luganese hanno conosciuto il Bafalòn, vecchio gigante saggio che vive in una grotta sul Monte San Salvatore, già nel 2015, in occasione del 125mo anno di esercizio della Funicolare, quando era uscito Il tesoro del Monte San Salvatore e la misteriosa grotta del Bafalòn. Ora, per i 130 anni, ecco una nuova avventura, sempre illustrata da Simona Meisser: Il
rapimento del Bafalòn. Chi può averlo rapito, e perché? Tornano in questa storia i due piccoli co-protagonisti Dafne e Timo, stavolta determinati a far luce sul mistero e a ritrovare il loro amico. Usciranno nella notte, inerpicandosi coraggiosamente sul monte, incontreranno di nuovo un’altra leggendaria abitante di quelle pendici, la maga Tersilla, ma del Bafalòn sembra non esserci traccia. La sua grotta è deserta, la sua lanterna è spenta. Ci vorrà del coraggio per continuare le ricerche, anche perché un’inquietante voce cavernosa inizia a gridare strane parole nel bosco. L’avventura si fa interessante, ed è un piccolo pregio di questo libretto, quello di riuscire a costruire un intreccio coinvolgente in poche pagine, dando vita a una storia con più azione rispetto alla precedente. Una storia che appassionerà i bambini, rendendoli partecipi anche del paesaggio naturale e dell’avvicendarsi delle stagioni sul monte. Non manca un accenno alle deliziose castagne...
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Idee e acquisti per la settimana
Voglia di brasato di manzo
Attualità Un tradizionale piatto invernale da servire con una fumante polenta
Azione 30%
Non c’è niente di più succulento che un pezzo di carne cotto lentamente e a lungo nei propri succhi. Il brasato di manzo è uno di questi ed è un piatto che non lascia nessuno scontento. Questa preparazione, grazie alla delicata cottura per almeno tre ore, fa sì che le fibre della carne diventino straordinariamente tenere e saporite. Le parti del bovino più indicate per la brasatura sono quelle a fibra grossa, ottenute dalla spalla e dalla coscia. Quest’ultime presentano sottili venature di grasso che, sciogliendosi durante la preparazione, donano alla carne il suo caratteristico sapore intenso. Uno dei tagli più gettonati per preparare un delizioso brasato è per esempio l’aletta di manzo. Per verificarne la cottura, è sufficiente infilzare un forchettone nella carne. Se esso esce senza sforzi la carne è cotta a puntino. Il grado di cottura può essere controllato anche con l’ausilio di un termometro da carne: in questo caso la temperatura al cuore dovrebbe essere di 80-85 gradi. Per gli amanti delle salsine, il liquido di cottura rimasto può essere affinato con una spruzzata di succo di limone, la cui acidità intensifica gli aromi.
Aletta di manzo, Svizzera, per 100 g Fr. 2.50 invece di 3.60 dal 12 al 18.1
Brasato al vino rosso Ingredienti per 4 persone 1-1,2 kg di aletta di manzo 1 cipolla 2 carote 2 gambi di sedano 1 bottiglia di vino rosso (p. es. Merlot o Barolo) sale, pepe, noce moscata, alloro, chiodi di garofano burro Preparazione La sera prima mettere a bagno la carne con la cipolla steccata con due chiodi di garofano, le carote a dadini, il sedano e una bottiglia di vino rosso. Pepare, spruzzare di noce moscata e coprire. Il giorno dopo in una brasiera alta sciogliere del burro con due foglie di alloro, unire la carne e le verdure e far rosolare qualche minuto. Aggiungere il vino della marinata, salare, coprire e lasciar cuocere a fuoco moderato per ca. 3 ore. A fine cottura passare il sugo con le verdure, tagliare la carne e adagiare le fette nel sugo facendole inzuppare bene. Servire con una buona polenta.
L’aletta di manzo è ideale per preparare un ottimo brasato.
Piacere garantito
Un dolce storico
in ben 16 gusti diversi
culto dell’assortimento di Migros Ticino
Attualità Le veneziane sono un prodotto
Sono ben 40 anni che i pasticceri della Jowa di S. Antonino sfornano una delle specialità regionali più apprezzate dai bambini, ma che ingolosisce anche gli adulti: le veneziane. Questo mitico dolce, disponibile da sempre nel caratteristico e inconfondibile sacchetto da 4 pezzi recante i colori del nostro Cantone, è fatto utilizzando pochi genuini ingredienti quali farina, lievito madre, uova e zucchero. La lavorazione è si-
Iogurt Nostrani, diversi gusti Fr. 0.10 di riduzione Azione valida dal 12 al 18.1
Conformemente alla piramide alimentare svizzera, per stare bene si raccomanda di consumare anche tre porzioni quotidiane di latte e latticini. Una porzione equivale a 2 dl di latte o 150200 g di latticini o 30-60 g di formaggio. Gli iogurt dei Nostrani del Ticino possono dare un prezioso contributo al raggiungimento di questo obiettivo, dal momento che, oltre ad essere sani, sono
deliziosi e prodotti nella nostra bellissima regione. Sono a base di latte di montagna di mucche che, a dipendenza della stagione, brucano erba fresca o vengono foraggiate con fieno non insilato conservato come da antica tradizione contadina. La lavorazione avviene presso l’azienda Agroval di Airolo seguendo una ricetta originale e nel rispetto delle più scrupolose norme igieniche. Delica-
ti, cremosi e ricchi di frutta, gli iogurt di montagna sono disponibili in sedici gusti al fine di offrire alla clientela Migros una scelta tanto ricca quanto variata. Dai gusti classici quali fragola, lamponi, nature, frutti di bosco, albicocca, prugne e nocciole, a quelli più particolari come castagne, cachi, rabarbaro, uva americana, miele… ognuno troverà la sua varietà preferita.
mile a quella del classico panettone e prevede una lievitazione dell’impasto di almeno 24 ore. Il tocco finale che definisce la particolarità del prodotto: la granella di zucchero e la glassa di mandorle con cui è cosparsa la superficie. Morbide e golose, le veneziane sono confezionate in un imballaggio monoporzione che ne preserva la freschezza, ideale da portare con sé anche quando si è fuori casa. Flavia Leuenberger Ceppi
Attualità I cremosi iogurt nostrani sono disponibili
Veneziane 4 pezzi/220 g Fr. 2.20 invece di 2.80 Azione 20% dal 12 al 18.1
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Società e Territorio
Addio a Luigi Snozzi Lutti L’architetto ticinese che ci ha lasciati alcuni giorni fa
è stato un autorevole maestro riconosciuto a livello internazionale Alberto Caruso «Quello che impressiona subito delle case di Snozzi è la razionalità, la trasparente intelligenza, l’efficace sistema ordinatore; e nonostante ciò, la sopravvivenza della freschezza, fino alla naturalità e ad una nuova seconda spontaneità». Così scriveva Alvaro Siza nel 1993, dopo avere visitato casa Diener di Luigi Snozzi. Ha progettato molto, ha realizzato poco e non ha lasciato scritti sistematici, soltanto brevi relazioni, interviste e i suoi aforismi. Ciò nonostante Luigi Snozzi è stato un maestro tra i più autorevoli, riconosciuto come tale da architetti in tutto il mondo. Il più noto ed efficace dei suoi aforismi dice che «quando progetti un sentiero, una stalla, una casa, un quartiere, pensa sempre alla città». La tensione di ogni progetto verso l’urbanità, il concetto della città come il modo più evoluto di abitare, come il luogo per eccellenza delle relazioni sociali, è stato al centro del suo pensiero e del suo insegnamento, svolto in molte università e soprattutto a Losanna, dove è stato professore di ruolo dal 1885 al 1997, nominato in seguito alla forte richiesta degli studenti. L’attività che più l’ha fatto conoscere al grande pubblico in Ticino è stata la progettazione alternativa. Quando è stato, per 12 anni, membro della Commissione cantonale Bellezze naturali, deputata ad esaminare i progetti più ri-
levanti dal punto di vista del paesaggio, contestava quelli sbagliati elaborando controprogetti esemplari, che sono stati definiti da Kennet Frampton «progetti guerriglia». Il suo progetto forse più visionario è Delta Metropolis, concepito insieme a Paulo Mendes da Rocha. Nell’area centrale dell’Olanda, un viadotto ferroviario circolare alto 30 metri collegava le quattro città più importanti, situate appena all’esterno del suo perimetro. Il viadotto definiva i limiti di una immensa area verde da salvaguardare, collegava le città con una ferrovia veloce e orientava all’esterno le loro espansioni edilizie, con una costruzione che rammenta quella delle mura dei borghi medioevali, con un effetto ribaltato. A chi gli contestava il carattere utopico della proposta, Snozzi rispondeva affermando il realismo di un progetto di pianificazione territoriale semplicemente fondato sulla costruzione di un viadotto. Il suo progetto più importante è certamente il piano di Monte Carasso, dove ha realizzato diversi edifici. La città viene densificata intorno al grande vuoto dello spazio pubblico, dove vengono insediati gli edifici delle istituzioni e dei servizi collettivi. La pesante e rigida normativa tradizionale dei piani regolatori viene sostituita da poche norme elementari, annullando, tra le altre, le prescrizioni relative alle distanze, che impediscono di realizzare la continuità delle costruzioni, tipica delle parti più antiche delle città e dei vil-
laggi. Il piano è un work in progress: di volta in volta l’esame dei singoli progetti può comportare dialetticamente modifiche e adeguamenti della normativa e il processo di continua trasformazione delle previsioni viene condotto con la partecipazione degli abitanti. L’esperimento di Monte Carasso ha un valore culturalmente rivoluzionario e sovverte una pratica pianificatoria consolidata in quasi tutto il Continente. Meta di visite di architetti e di esperti da tutto il mondo, tuttavia, l’esperienza di Monte Carasso non ha avuto repliche in altri villaggi e città. La tensione verso l’urbanità – che è un tratto largamente condiviso e comune della cultura architettonica ticinese – è rimasta di fatto insoluta, per la mancanza di occasioni professionali e per la politica liberista che è stata egemone nei gruppi dirigenti. Le piccole città ticinesi non hanno vissuto i processi di industrializzazione e immigrazione che hanno formato le città europee del Novecento. Sono rimaste piccole e la nuova domanda di abitazioni del dopoguerra è stata soddisfatta, invece che nelle città, con la costruzione di case diffuse nel territorio. «Sarebbe una triste ironia che i celebrati architetti del Ticino dovessero ricercare in terra straniera… la possibilità di materializzare la propria proposta di trasformazione della città», osservava con lucida amarezza Alvaro Siza, nello stesso scritto che abbiamo citato all’inizio. L’intensa relazione che le opere de-
Alvaro Siza, Ritratto di Luigi Snozzi, 1993 (da Siza, Scritti di Architettura, Skira 2002).
gli architetti ticinesi dagli anni Settanta e Ottanta intessono con il contesto naturale e con le tracce topografiche deriva dall’elaborazione della tensione per realizzare la densità di relazioni propria della città, applicata al contesto del paesaggio naturale e delle aree scarsamente abitate. Di questa relazione Snozzi è stato il più importante pensatore e un raffinato poeta. Ha usato il cemento armato per riprodurre, aggiornandola al nostro tempo, la riduzione formale propria dei muri in pietra delle costruzioni più antiche. Ci ha insegnato che la modernità non è definita una volta per tutte, non è un canone: bisogna tradurre la modernità nella lingua del territorio, facendo sempre i conti con la sua storia e con la sua geografia. Il lega-
me profondo degli edifici con il sito – ci ha insegnato – non si può tradire, pena la fragilità dell’architettura rispetto al logorio del tempo e pena la sua irrilevanza sociale, l’incapacità di modificare lo stato delle cose. Il valore civile del mestiere dell’architetto sta proprio nella consapevolezza della necessità di modificare lo stato delle cose, di far progredire il modo di abitare. Il pensiero di Luigi Snozzi costituisce oggi il supporto culturale comune dei migliori architetti ticinesi, quelli cioè che partecipano ai concorsi e realizzano le opere pubbliche. Il loro lavoro, pur nella differenza dei linguaggi, ancora consente di distinguere l’architettura del Ticino per la chiarezza dei principi e per le forme rigorose. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Società e Territorio
Una scuola che vive il teatro
FORUM elle: visita alla Pinacoteca Züst
Formazione Un corso all’Istituto universitario federale per la formazione professionale
invita a riflettere sulla figura del docente e sul suo lavoro attraverso l’improvvisazione
28 gennaio
Guido Grilli Se il teatro entra a scuola. Anzi, se la scuola diventa l’attrice protagonista dell’espressione scenica. Metti dei docenti a un corso di teatro, poni che siano loro stessi a creare una pièce. Di più, che si cimentino nel realizzare una sorta di inchiesta filosofica sull’insegnamento e sul rapporto allievo-insegnante e al contempo riflettano sulle relazioni che il docente tesse all’interno della scuola. L’ambizioso progetto – che si prefigge di avvicinare due mondi, scuola e teatro, i quali a ben guardare tanto hanno in comune – è al centro di un corso organizzato dall’Istituto universitario federale per la formazione professionale di Breganzona che si svolgerà tra aprile e maggio al Centro professionale tecnico di Locarno e le cui iscrizioni sono già aperte. Ai partecipanti non viene richiesta alcuna esperienza scenica.
Tra gli obiettivi del corso vi è la possibilità di sperimentare diverse forme di comunicazione e di espressione La suggestiva iniziativa giunge da due professionisti del teatro, Prisca Mornaghini e Antonello Cecchinato, compagni sia di scena – entrambi lavorano per l’Associazione Giullari di Gulliver come animatori teatrali, registi e attori, e sono attori della compagnia di Teatro forum UHT – sia nella vita. Come nasce questa innovativa proposta di convergenza tra scuola e teatro? «Da lungo tempo – esordisce Prisca Mornaghini – io e Antonello, con la compagnia di Teatro forum UTH, proponiamo spettacoli interattivi tra attori e spettatori che si caratterizzano per la promozione di una discussione, la sensibilizzazione riguardo a un tema o una problematica, la prevenzione di conflitti. Sono spettacoli che proponiamo in tutto il Ticino e in tutti gli ordini scolastici. Proprio a uno di questi spettacoli ha assistito la mia docente di scuola dell’infanzia che oggi insegna alle Scuole professionali di Locarno. È stata lei a suggerire la proposta di un corso per docenti. E così abbiamo dato seguito a questo progetto». Nella descrizione del corso di Mornaghini e Cecchinato si evidenzia,
L’insegnante proprio come l’attore deve essere pronto a improvvisare. (Marka)
tra gli obiettivi, quello di «sperimentare delle forme di espressione e di comunicazione che favoriscano lo sviluppo personale del docente e che possano essere anche proposte agli allievi». «Io e Antonello cercheremo di coinvolgere i docenti durante gli incontri, che saranno complessivamente 5, proponendo loro di inquadrare delle tematiche che stanno loro a cuore su cui lavorare. Non si arriva con un copione già scritto, ma si lavora insieme, attraverso improvvisazioni dalle quali potranno scaturire creazioni portate dai partecipanti stessi. La tematica sarà la scuola e tutto quanto ruota attorno al suo mondo, l’essere docente, l’essere allievo, genitore. Quello che si rivela interessante per i docenti in questa esperienza di teatro è la possibilità di prendere una certa distanza dalla realtà e osservarsi da fuori, per poter riflettere sul proprio ruolo di insegnante». Con le dovute distinzioni appaiono molti i punti d’incontro tra i due universi, scolastico e teatrale: a modo
suo anche l’insegnante nella sua pratica in classe assume le sembianze dell’attore. «Effettivamente sì», afferma Mornaghini. «Io stessa di formazione sono maestra di scuola elementare. In passato mi rendevo conto che forse mi interessava di più il lato di essere attore davanti alla classe rispetto a quello di insegnante, tant’è vero che poi ho scelto il teatro. L’importante – ma questo può valere tanto per il docente quanto per altri mestieri e nella vita in generale – è che ciò che il teatro può offrire è l’essere davvero coscienti di sé stessi, del proprio corpo, al di là del proprio aspetto intellettuale». Dal canto suo Antonello Cecchinato aggiunge: «Con questo corso interverremo soprattutto sue due punti: fare esperienza di cosa significano l’ascolto e la relazione attraverso un percorso iniziale di non giudizio. Sono elementi essenziali, prima ancora che gli aspetti tecnici, quali la voce o la recitazione». Proseguono i due attori profes-
sionisti: «Noi, come animatori dei Giullari di Gulliver e come attori della Compagnia di Teatro forum UHT, abbiamo sempre lavorato molto con le scuole sia in progetti di laboratori sia di dopo-scuola o proprio durante l’orario scolastico in spettacoli di vario genere, ponendo al centro ad esempio il tema delle dipendenze, dell’uso del telefonino. Abbiamo insomma incluso spesso l’aspetto educativo». Ora allarghiamo lo sguardo e cerchiamo di capire come sta oggi il teatro. «I teatranti hanno sempre delle possibilità», risponde Cecchinato. «Non siamo messi così male, al di là dell’aspetto finanziario, intendo. È un’attività che si mantiene interessante da proporre, in presenza, naturalmente. L’arte scenica non sta affatto male. Non so dire se le persone abbiano bisogno di teatro, ma credo comunque di poter dire che quest’attività, che mi piace definire artigianale, troverà sempre il modo per sopravvivere». E cosa può offrire il teatro alla scuola, oltre a una migliore conoscenza di sé, come è stato ben evidenziato? «Quello che ritengo importante per la scuola – osserva Mornaghini – è in generale di poter proporre sempre qualcosa di appassionante. E il teatro può certamente esserlo. Per qualcuno, naturalmente, non per tutti». Il corso si rivolge a un particolare ambito scolastico, ai docenti attivi nella formazione professionale, i quali – si potrebbe auspicare – potranno implicitamente veicolare agli studenti la passione per il teatro. Dice l’animatrice teatrale: «Direi piuttosto che il corso intende offrire la possibilità ai docenti partecipanti di mettersi nella condizione di porsi delle domande, di sollevare delle riflessioni in un modo diverso dal solito, sulla propria professione di insegnante, su quanto succede in aula, fuori dall’aula e provare così ad avere un punto di vista, uno sguardo diverso. Se ci si pensa, anche l’improvvisazione rappresenta un aspetto importante: un docente non può pensare di arrivare in classe e pretendere di svolgere la lezione che ha preparato punto per punto a casa a tavolino, ma deve essere pronto all’imprevisto e saper improvvisare. E questo è quanto noi sperimentiamo ogni giorno con il teatro».
Un’iniziativa per socie e simpatizzanti
La sezione ticinese di Forum elle, organizzazione femminile di Migros, comunica che la visita alla Pinacoteca Züst prevista giovedì 14 gennaio 2021 è stata rimandata a giovedì 28 gennaio 2021. La visita guidata si svolgerà in due gruppi, il primo alle 14.30 e il secondo alle 16.00, i posti sono limitati e la mascherina obbligatoria. Il ritrovo per gli iscritti è fissato direttamente presso la Pinacoteca Züst di Rancate, per le socie di Lugano potrà essere organizzata la trasferta con auto private annunciandosi alla segreteria. La mostra Dentro i palazzi è dedicata alle quadrerie della famiglia Riva e apre una finestra sulla storia del collezionismo privato della Lugano del Sette e Ottocento (si veda «Azione» del 4 gennaio). Le iscrizioni dovranno pervenire alla segreteria entro venerdì 22 gennaio all’indirizzo simona.guenzani@ forum-elle.ch, tel. 091 923 82 02. La nuova locandina con il programma in dettaglio, è pubblicata online nel sito www.forum-elle.ch, sezione Ticino.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Antisemitismo: quando la storia si ripete Con la diaspora seguita alla distruzione del Tempio e di Gerusalemme che concluse la Prima guerra giudaica nel 70 d. C., molti ebrei si trasferirono nella penisola iberica che divenne sede della più grande comunità di ebrei – nella maggior parte sefarditi – del Continente europeo. Toledo, in particolare, divenne la città con la più grande e ricca comunità ebraica fino all’espulsione decretata da Ferdinando ed Isabella nel 1492. La presenza ebraica nella penisola iberica è peraltro documentata da tempi assai remoti. In quanto cittadini romani godevano degli stessi diritti di ogni altro cittadino rispettoso della legge. Almeno fino alla caduta dell’Impero e fino alla sussunzione di molte prerogative dell’amministrazione civile da pare della Chiesa le cose rimasero più o meno tranquille. Cominciarono lentamente a cambiare con episodici decreti e locali regolamenti fino alla messa a punto delle nuove legislazioni volute dai conquistatori «barbari», spesso negoziate, se non addirittura
istigate, dalle autorità ecclesiastiche che egemonizzavano i ranghi dell’amministrazione. Una svolta decisiva in questo senso è rappresentata dal dodicesimo Concilio di Toledo che si svolse fra il 9 ed il 27 gennaio del 681 su richiesta di Re Erwig dei Visigoti. Forse meglio qualificato come sinodo, in quanto di rilevanza regionale piuttosto che ecumenica, è passato alla storia perché segnò un passo importante per la maturazione all’interno della cristianità ormai dominante di quell’antisemitismo che accompagnerà la storia del cosiddetto Occidente nei secoli a venire. I ventotto articoli di legge che Erwig riuscì a fare approvare in sole tre settimane sono un compendio esemplare delle restrizioni alla libertà a tutti i livelli che rappresenteranno l’arsenale per colpire la minoranza da quel fatidico gennaio in poi. L’occasione storica – ironia della sorte – fu fornita dal passaggio dell’intera casata reale dalla fede ariana a quella catto-
lica. L’Arianesimo assegnava a Cristo una natura divina inferiore a quella del Padre ed era in questo più vicino alla teologia giudaica che ammetteva un solo Dio di contro alla dottrina della consustanzialità trinitaria dei cattolici e dei cattolici occidentali romani in particolare. Questioni di lana caprina – pur se teologiche – si potrebbe dire. Ma questi erano i tempi nei quali le questioni di ordine teologico – che sfociavano in accuse di eresia ogni tre per quattro – scaldavano gli animi al punto che il dibattito sulla «vera» natura della Trinità faceva scoppiare risse e tafferugli in quello Speakers’ Corner ante litteram che era il mercato di Costantinopoli. E così, da un giorno all’altro, gli ebrei di Toledo si trovarono a non poter contrarre matrimoni misti coi cristiani, a non poter circoncidere i figli di matrimoni misti già in atto, a non potersi riconvertire alla religione dei padri una volta divenuti conversos e avanti di questo passo. Le pene per chi non ri-
spettava le regole? La confisca dei beni, e questo la dice lunga sulle ragioni reali che venivano a colpire una delle sezioni più ricche della società del tempo. Il resto è storia «storieggiata» di misure legislative che accompagnano i pregiudizi e i pregiudizi cresciuti in misura tale da obbligare le autorità (e quelle ecclesiastiche in primis occorre dire ad onor del vero rispetto ai più sbrigativi «laici») a mettersi una mano sulla coscienza piuttosto che sulla borsa e cercare di mitigare le conseguenze di legislazioni criminali. Ma intanto i buoi erano scappati e i secoli dopo di Toledo sono punteggiati a scadenza quasi calendariale, a ritmo sconcertante e quasi noioso, da esplosioni di furia antisemita che vede gli ebrei divenire il capro espiatorio delle disgrazie di tutti. L’esistenza di una comunità ebraica è documentata a Basilea fin dal tardo Duecento. Con l’avanzare da Oriente della pandemia di peste nera nel 1348, una dopo l’altra le città dell’Europa orientale avevano visto esplodere la fu-
ria antisemita che vedeva negli ebrei gli avvelenatori dei pozzi che diffondevano il morbo. A Basilea tutto cominciò con la distruzione del cimitero ebraico. Molti ebrei fuggirono dalla città mentre le autorità cittadine, convocate dal vescovo, cercavano di arginare la furia popolare. Fu tutto inutile. Il 9 gennaio 1349 una settantina di ebrei furono trascinati dai loro nascondigli e chiusi dentro una capanna sul fiume alla quale venne dato fuoco. Nessuno sopravvisse. I bambini furono risparmiati: affidati ad istituzioni caritatevoli crebbero cristiani. Pogrom con la stessa motivazione si estesero a Friburgo il 30 gennaio e a Strasburgo il 14 febbraio: misura preventiva, si direbbe oggi, poiché accadde ancor prima della diffusione della pandemia. Temendo un ripetersi dei tumulti, le autorità di Basilea decretarono allora l’espulsione degli ebrei dalla città per almeno 200 anni. Dopo timidi tentativi di rientro, la presenza ebraica a Basilea non sarà più documentata fino al 1805.
dell’ecosistema. Dopo l’epoca dell’individualismo narcisista ed egoista, stiamo comprendendo che dobbiamo porre al centro della società il bene comune. «Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune», afferma papa Francesco. Evidentemente questo messaggio non è giunto a tutti oppure non è stato compreso e molti, troppi, hanno continuato a ignorarlo. Ma è un’indifferenza che costa cara perché mette a rischio tutti e costringe i più deboli a restare indietro, ad affrontare la solitudine e l’indigenza senza speranza di risollevarsi. In questo clima di emergenza, le condotte trasgressive che lei denuncia vengono giustificate come un’affermazione di libertà, d’indipendenza, come la prova che non si ha paura. Sfidare le norme, non preoccuparsi delle sanzioni, irridere i pericoli rende euforici, come sanno gli adolescenti. Ma qui è in gioco, non solo la salvaguardia personale, ma quella della comunità e, al limite, dell’umanità. Come rivela il possibile esaurimento di posti nelle terapie intensive, le nostre ri-
sorse sanitarie non sono infinite per cui occorre assumere un impegno collettivo e individuale per prevenire il contagio. La tentazione di affidare la fine dell’emergenza agli addetti ai lavori considerandosi spettatori di un evento che non ci coinvolge in prima persona è ingannevole e pericolosa perché il traguardo è lontano e non prevede scorciatoie. Credo che la realtà che stiamo affrontando sia di per sé stessa una buona scuola, però solamente un’opera di educazione rivolta a tutti, non esclusivamente a bambini e adolescenti, potrà rendere più giusti i rapporti sociali e più rispettosi quelli con la natura. Lo dobbiamo a noi stessi e alle generazioni future, ricordando che il mondo non l’abbiamo ereditato dai nostri padri ma preso in prestito dai nostri figli.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La responsabilità di fronte al virus Cara Silvia, la leggo da tanti anni ma non le ho mai scritto perché i miei tre nipoti – Adele di 9 anni, Francesca di 16 e Massimo di 18 – crescevano bene e non ci hanno mai dato problemi. Ma anche per loro, con l’arrivo pandemia, molte cose sono cambiate e credo che alla fine niente sarà come prima. Il numero di morti è impressionante eppure pare che molte persone, soprattutto tra i più giovani, non se ne siano accorte. Non sanno rinunciare ad alcune abitudini come quelle di festeggiare Capodanno in gruppo, andare a trovare parenti e amici in altri Cantoni oppure andare a sciare nonostante molti esperti ci abbiano avvertiti del rischio di contagio. Siamo una società di egoisti viziati, incapaci di fare rinunce anche piccolissime. Molte persone tendono a rimuovere e pensare che le rinunce riguardano solo gli altri, dimostrando una certa superficialità. Siamo egoisti o superficiali? Intanto i medici ci dicono che devono aumentare ancora i letti in terapia intensiva, che tra poco non ci saranno più posti e i pazienti dovranno essere ricoverati in altri Cantoni… Ci siamo assuefatti ai
numeri di contagiati e di morti? Vorrei riflettere insieme a lei. Grazie. Barbara Cara Barbara, grazie di questa lettera che ci aiuta a riconoscere le nostre responsabilità piuttosto che inveire contro il virus o a far finta di niente. È indubbio che dagli anni Sessanta del secolo scorso fino alla crisi finanziaria mondiale del 2008 e al progressivo allarme per il crollo globale dell’ecosistema abbiamo vissuto in un delirio di onnipotenza. Eravamo convinti che le risorse energetiche fossero illimitate, la produzione di beni di consumo infinita e che il progresso tecnico-scientifico avrebbe risolto tutti i nostri problemi. In questo clima di euforia collettiva non sentivamo il bisogno di educare i giovani al senso di responsabilità: non ce n’era bisogno e non avrebbero capito il perché. Improvvisamente, senza nessuna consapevolezza, siamo precipitati, nel marzo scorso, nell’incubo di una pandemia che ha travolto le nostre certezze. Nella prima fase l’abbiamo presa
bene, convinti che la ricerca scientifica avrebbe ben presto debellato il nemico e saremmo tornati alla situazione precedente. Si ricorda lo slogan «Andrà tutto bene»? Ma così non è stato e la seconda ondata ci ha precipitati nello sconforto. Dopo l’estate, con la morte di molti, soprattutto anziani, abbiamo cominciato a comprendere che la situazione era più grave del previsto e che stavamo percorrendo un tunnel di cui solo ora, grazie ai vaccini, s’incomincia a intravvedere l’uscita. Sono stati mesi molto duri ma non completamente negativi: la consapevolezza della nostra fragilità ci ha reso più sensibili ai bisogni degli altri, più disposti ad ascoltarli e aiutarli. Il bisogno di dare e ricevere attenzione e accudimento accomuna ogni essere umano sin dalla nascita. Nessuno basta a se stesso, abbiamo tutti bisogno degli altri. Il fatto nuovo è che ci stiamo rendendo conto che anche la natura, rivelatasi fragile e vulnerabile, ha bisogno di essere curata, conservata e protetta. Le cause dell’insorgere e del diffondersi della pandemia hanno evidenziato che non siamo spettatori neutrali ma parte
informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Piove, Governo ladro! al tempo della Covid Ha ritrovato piena attualità un detto popolare che vanta una lunga storia. Nel linguaggio corrente italiano si fa risalire a un episodio risorgimentale: comparve in una vignetta, pubblicata nel 1861 a Torino, quando una manifestazione di protesta dei mazziniani venne annullata per via di un acquazzone. Ma le ricerche dei linguisti hanno scoperto origini ancora più lontane: ai tempi dell’antico Egitto, quando il Nilo ingrossato dalle piogge straripava, devastando le coltivazioni, se ne attribuiva la colpa ai faraoni. Tutto ciò per dire che le imprecazioni nei confronti dei governanti esprimono comportamenti e malumori di sempre. Non deve quindi sorprendere che il malaugurato 2020 abbia messo più che mai sotto tiro le nostre autorità federali, cantonali e comunali, alle prese con un guaio del tutto anomalo e ingestibile. Per forza di cose
da Berna, da Bellinzona, dai Municipi sono arrivate decisioni contraddittorie e ingarbugliate, destinate a provocare sconcerto, irritazione e non soltanto. I cittadini di un Paese modello di antica e consolidata democrazia si sono sentiti privati di diritti e libertà inalienabili. Lo Stato insomma, sopraffattore, abusa dei suoi poteri e interviene alla carlona, secondo criteri indecifrabili. Perché un tardivo lockdown per ristoranti, bar e palestre proprio a dicembre? Perché i mercatini a Lugano prima pubblicizzati e poi aboliti? Non si piomba persino nel ridicolo proponendo un pubblico di 5 persone per i concerti in una sala da mille posti al LAC? Come giustificare le edicole chiuse di domenica? E via enumerando incongruenze che, a quanto pare, ci accompagneranno anche nel nuovo anno, quello all’insegna liberatoria dei vaccini, sommini-
strati in ritardo in una Svizzera non più esemplare. Ora, a ben guardare, quest’ondata di critiche sollevata dalla burrasca della pandemia rappresenta, in forma più acuta, un fenomeno già diffuso negli ultimi decenni proprio nelle nostre democrazie. Lo definisce bene Hans Ulrich Gumbrecht, docente emerito all’università di Stanford, in un articolo sulla «NZZ» con il titolo: «Sempre più Stato, sempre meno fiducia». In altre parole i cittadini non si sentono più rappresentati, anzi, si sentono traditi da chi siede nei Parlamenti e nelle istituzioni. Prevale una diffidenza in grado di mobilitare le piazze, dove si manifesta per tutto e anche per niente. Sia a sostegno di grandi cause: antirazzismo, femminismo, ambientalismo, socialità. Sia, però, per il semplice piacere della protesta e un vago spirito anarchico
contro i detentori del potere: le poltrone o «cadreghe», per dirla alla ticinese. E sin qui si potrebbe considerarlo il legittimo esercizio di un diritto civico, un segnale di per sé positivo, se non fosse esposto al rischio di derive banalizzanti e confusionarie. Non da ultimo ispirate al complottismo e al negazionismo, del tipo: il virus è un’invezione delle multinazionali che adesso speculano sul vaccino con la complicità del solito Governo ladro, al quale comunque si chiedono interventi protettivi a iosa. In definitiva più Stato, ma in una nuova funzione: non per incassare ma per elargire. Si tratta di un dovere che spetta innanzitutto alle autorità, costrette però a fare i conti con le loro finanze cioè con quanto i singoli cittadini e le imprese hanno versato. Perché, toccando il punto cruciale del discorso, qui ci si scontra con un radicato malinteso: lo Stato non
è un’entità astratta o peggio una casta a sé stante, come si usa dire. Lo Stato non soltanto l’abbiamo eletto con i nostri voti, e quindi è il frutto delle nostre opinioni, ma siamo ancora noi a renderlo operante, finanziando le sue attività come contribuenti. In parole povere pagando le tasse, boccone amaro da ingoiare, con la speranza che siano affidate a un’amministrazione pubblica corretta, che funzioni: assicurando innanzitutto alle casse federali le entrate necessarie per coprire le uscite. Tanto da riuscire a sopportare l’urto Covid: una valanga di sussidi per tappare i buchi provocati dai ripetuti lockdown. Con ciò non s’intende tessere l’elogio di una virtuosa madre Elvezia. Ci si limita a registrare la capacità dei suoi politici di guidare la barca nella tempesta. Smentendo, questa volta, un vecchio proverbio.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Ambiente e Benessere Il tempo del treno Se le compagnie aree piangono, la crisi turistica e ambientale toglie la ruggine dalle rotaie
Sulla vetta del Ghiridone Una lunga camminata da Brissago fino a raggiungere, oltrepassato il bosco di maggiociondolo, la croce tinta con i colori del Golden Gate di San Francisco
Gustosa e nutriente Una zuppa invernale a base di fagioli, pancetta, erbe e tipici ortaggi da minestra pagina 12
Sport in condizioni critiche Se si tornerà alla normalità entro primavera, non ci saranno gravi conseguenze, altrimenti...
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Tutte le bugie sui vaccini Covid Pronta la campagna
Maria Grazia Buletti «Otto medici su dieci sono pronti a vaccinarsi, ma se si considera tutto il personale operante all’interno delle strutture sanitarie la quota scende al 50 per cento», rivela un sondaggio (interno all’Ente ospedaliero cantonale) su circa tremila persone. «Quella del personale sanitario rispecchia la percentuale che si stima nella popolazione», conferma il vaccinologo Alessandro Diana. Sta di fatto che domenica 27 dicembre in tutta Europa hanno preso il via le prime vaccinazioni. La Svizzera è allineata, dopo l’omologazione del vaccino di Pfizer/BioNTech del 19 dicembre da parte di Swissmedic. In Ticino la immunizzazione contro il coronavirus è iniziata il 4 gennaio, dopo che l’Ufficio federale della salute pubblica ha aggiornato la strategia del caso e pubblicato le raccomandazioni che indicano i gruppi con accesso prioritario al vaccino. Da noi la precedenza va a quei residenti e al personale delle case per anziani il cui consenso è stato raccolto. Il vaccino è stato prodotto e autorizzato in tempi strettissimi proprio per rispondere all’emergenza sanitaria in atto in tutto il mondo. Questo ha scatenato numerose reazioni di persone dubbiose, negazionisti e no-vax che hanno diffuso parecchie affermazioni del tutto infondate, al punto che il mondo scientifico si sta dando la pena di chiarire le zone grigie che potrebbero confondere la popolazione, portandola a credere nelle bufale. È di esempio l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) della vicina Penisola che confuta quotidianamente le fake news più diffuse online e fuori dal web. Un esercizio che abbiamo fatto con il dottor Alessandro Diana, nostro vaccinologo di riferimento, il quale per cominciare smentisce categoricamente la credenza secondo cui i vaccini anti SARS-CoV-2 sarebbero stati preparati troppo in fretta e per questo non sarebbero sicuri come si vuol far credere: «I vaccini sono approvati dalle autorità competenti solo dopo averne verificato i requisiti di qualità e sicurezza. In Svizzera, Swissmedic è stato il primo al mondo a omologare il vaccino Corminaty (ndr: della Pfizer/BioNTech) secondo una procedura ordinaria (e non urgente!)». Anche le notizie di mutazioni del virus, con la variante inglese che si dice sia più contagiosa, inducono i detrattori del vaccino ad affermare che sarebbe inutile vaccinarsi perché il virus è già
mutato e il vaccino sarebbe dunque inefficace. Falso, spiegano i virologi dell’Iss: «Al momento non vi è alcuna evidenza che la mutazione del virus rilevata nel Regno Unito possa avere effetti sull’efficacia della vaccinazione. I vaccini determinano la formazione di una risposta immunitaria contro molti frammenti della proteina cosiddetta Spike (quella prodotta dal virus per attaccarsi alle cellule e infettarle). Quindi, anche se ci fosse stata una mutazione in alcuni frammenti della proteina Spike è improbabile che possa essere sufficiente a rendere inefficace il vaccino». Il nostro interlocutore aggiunge: «Dovesse verificarsi una mutazione della proteina Spike al punto che i vaccini mRNA non siano più efficaci, ci vorrebbero appena sei settimane per produrre un vaccino mRNA con il “nuovo codice”». Un’altra credenza da smentire riguarda la presunta pericolosità del vaccino a mRNA perché modificherebbe il nostro codice genetico. Anche qui univoca la risposta degli specialisti riassunta dal dottor Diana: «Il compito dell’mRNA è solo quello di trasportare le istruzioni per la produzione delle proteine nella cellula (ndr: senza entrare nel suo nucleo dove sta il DNA: codice genetico che rimane intatto). Perciò si chiama “messaggero”, e in questo caso l’mRNA trasporta le istruzioni per produrre della proteina Spike usata dal virus per attaccarsi alle cellule. L’mRNA rimane dunque nel citoplasma della cellula senza intaccare il nucleo e viene degradato in 48 ore. Grazie alla vaccinazione l’organismo produce anticorpi specifici prima di venire in contatto con il virus e si immunizza contro di esso». Altra obiezione degli scettici è che il vaccino sia inutile perché l’immunità durerebbe solo poche settimane. «Sulla base dei dati emersi durante le sperimentazioni, la protezione indotta dai vaccini durerà alcuni mesi. Solo quando il vaccino sarà somministrato a larghe fasce di popolazione sarà possibile verificare se l’immunità durerà un anno (come accade con l’influenza), più anni (come succede con la vaccinazione antipneumococcica, contro infezione da pneumococchi causanti meningiti, polmoniti, infezioni del sangue) o se sarà necessario sottoporsi a richiami», afferma l’Iss. Mentre il vaccinologo aggiunge quanto si sa per certo: «A tre mesi di distanza, nei pazienti che hanno ricevuto il vaccino si è osservato il 95 per cento di efficacia.
Keystone
d’immunizzazione, servite le fake news
Tutti speriamo che questo alto livello di efficacia non si eroda col tempo, e solo il tempo ce lo dirà! Comunque sia, e come ben ribadito, se verificheremo un calo dell’efficacia a un certo numero di mesi o anni, allora si potrà definire il giusto lasso di tempo per un richiamo vaccinale». Falso pure credere nell’inutilità del vaccino (perché non ucciderebbe il virus e non fermerebbe l’epidemia) ostentata dai detrattori ai quali la risposta scientifica giunge puntuale: «Lo scopo del vaccino è quello di attivare il sistema di difesa dell’organismo contro il virus in modo che, qualora dovesse venirne in contatto, esso sia già pronto ad aggredirlo e a renderlo inefficace». A chi non crede che il vaccino sarà per tutti, pensando che solo i ricchi potranno accedervi a causa degli alti costi, così risponde Diana: «In Svizzera i vaccini
saranno resi disponibili gratuitamente per tutti i cittadini, a partire dalle categorie individuate come prioritarie. La vaccinazione, seppur in tempi diversi, sarà offerta a tutti»: Stiano tranquilli anche i fomentatori di teorie complottistiche che circolano per lo più sui social: «Alcune di esse dichiarano che i governi introducono microchips nei vaccini anti SARS-CoV-2 per “controllare/pedinare” i cittadini. Queste teorie sono false: nel vaccino Corminaty vi sono dieci ingredienti: la molecola principale è l’mRNA che contiene il codice che istruisce le nostre cellule a produrre la proteina Spike. Nel vaccino ci sono gocce di lipidi che permettono la stabilizzazione dell’mRNA, saccarosio, cloruro di potassio e cloruro di sodio». Altolà pure a chi vuole farsi vaccinare pensando che dopo la vaccinazio-
ne potrà finalmente evitare di indossare la mascherina e incontrare parenti e amici in libertà. Iss e il dottor Diana sono perentori: «Anche dopo essersi sottoposti alla vaccinazione bisognerà continuare a osservare misure di protezione nei confronti degli altri, come la mascherina, il distanziamento sociale e il lavaggio accurato delle mani. Sarà necessario finché i dati sull’immunizzazione non mostreranno con certezza che, oltre a proteggere sé stessi, il vaccino impedisce anche la trasmissione del virus ad altri». Forse, date le circostanze e malgrado noi stessi, quest’anno siamo diventati tutti un po’ virologi. La differenza è che, volendo, ora abbiamo qualche strumento scientifico in più per poter valutare le cosiddette fake news che circolano e vagliare con serenità la nostra decisione circa il farsi vaccinare o no.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Ambiente e Benessere
Crociere ferroviarie e aerei su rotaia Viaggiatori d’Occidente Le compagnie di volo restano in crisi, mentre riparte la stagione d’oro dei treni
Claudio Visentin Il Regno Unito combina la passione per i treni (dopo tutto furono inventati qui) con una certa inclinazione alla stravaganza. Per esempio la minuscola stazione in legno di Berney Arms (Norfolk) ha intorno a sé solo una palude e un vecchio mulino. Perché allora il treno si ferma regolarmente? La spiegazione è semplice. Negli anni Quaranta dell’Ottocento il proprietario dei terreni, un tale Thomas Trench Berney, acconsentì al passaggio dei binari a condizione che fosse creata e mantenuta una stazione in perpetuity. Corrour è invece la più elevata e remota stazione ferroviaria del Regno Unito, sulla linea West Highland. Non è collegata alla rete stradale, si può arrivare solo in bicicletta o camminando per una ventina di miglia (o in treno naturalmente). In compenso c’è un ristorante e si può restare a dormire in una stanza ricavata nella cabina di manovra. Del resto la conoscete già, perché l’avete vista in una scena famosa del film Trainspotting (1996). Quest’anno Corrour è proposta negli itinerari di diversi Tour Operator inglesi. Più ampiamente in tutto il mondo il treno sta recuperando spazi a scapito del suo eterno rivale, l’aereo. Le compagnie aeree del resto hanno sofferto parecchio nel 2020 e sono ancora lontane dal rivedere la luce. I costi fissi elevati hanno zavorrato i loro bilanci, e certo non ha aiutato la vicenda del Boeing 737 Max. Gli ordini fioccarono a migliaia quando fu lanciato sul mercato perché il nuovo aereo prometteva di
ridurre i consumi (del 14%) e il rumore (fino al 40%). Ma due drammatici incidenti hanno raffreddato gli entusiasmi. In ottobre 2018 un 737 Max di Lion Air è precipitato nel Mar di Giava poco dopo il decollo; e nel marzo seguente un volo di Ethiopian Airlines è rimasto in volo per sei minuti soltanto prima di schiantarsi al suolo. Il 737 Max fu subito ritirato dal servizio e successive indagini hanno rivelato una progettazione affrettata. Dopo venti mesi, e parecchi interventi, l’aereo è tornato in servizio, ma restano diversi punti oscuri. Per cominciare si è rinunciato a cambiargli nome, come pure s’era ipotizzato, puntando piuttosto a ricostruire la fiducia nei 737, un pilastro dell’aviazione mondiale. Per esempio sul sito di Alaska Airlines dedicato al 737 Max la parola «sicuro» è ripetuta venticinque volte. Si confida che le paure svaniranno col tempo, in assenza (si spera) di altri incidenti, e che presto nessuno farà più caso al modello dell’aereo. Ma come comportarsi se un passeggero, riconoscendo il 737 Max, manifestasse timori? Salvo qualche eccezione (la più importante è Ryanair) i clienti sapranno se il loro aereo è un 737 Max e potranno cancellare il volo o cambiare la prenotazione senza costi aggiuntivi. Nel frattempo il treno sembra voler trarre profitto da tutte queste incertezze. Il vento soffia dalla sua parte. Tra le pochissime conseguenze positive dell’epidemia registriamo il minor inquinamento e il ritorno degli animali selvatici in molte popolari mete turistiche. E recenti studi mostrano un’accresciuta preoccupazione per l’ambiente: il 77% degli
Corrour Station, Scotland: una delle stazioni ferroviarie più remote del mondo. (www. raileurope.com)
abitanti del Regno Unito (secondo una ricerca iCarhireinsurance.com) vuole fare qualcosa per l’ambiente nei suoi viaggi futuri. Tra i buoni propositi: viaggiare meno restando nel proprio Paese (25%), usare il trasporto pubblico (21%), trovare alternative all’aereo (21%). Anche l’elezione di Biden sembra andare in questa direzione. Dopo le glorie ottocentesche (due anni fa si è celebrato il 150° anniversario della First Transcontinental Railroad tra i due oceani, 1869), gli Stati Uniti hanno trascurato la ferrovia in favore degli aerei, anche per collegare città vicine. Tra il 1989 e il 1992 Trump è stato il primo presidente nella storia proprietario di una linea aerea (Trump Shuttle), attiva tra Boston, New York e Washington DC. Biden, al contrario, è stato per decenni un pendolare sui treni: quand’era senatore ogni giorno andava e tornava dal Delaware a Washington sui treni Amtrak. Nei dibattiti televisivi non si è parlato molto della questione ma Biden nel suo programma ha promesso di rendere il sistema ferroviario americano «il più ecologico, il più sicuro e il più veloce
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al mondo». Non è un impegno da poco se si considera che è rimasto agli anni Settanta, mentre i Paesi più avanzati dell’Europa e dell’Asia scommettevano con successo sull’alta velocità. Spostiamoci dall’altra parte del mondo. Emirates è per voi sinonimo di una compagnia aerea? In effetti i Paesi del Golfo hanno sempre privilegiato l’aviazione (e le auto) ma ora gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato la creazione della prima rete ferroviaria nazionale: con i suoi milleduecento chilometri di binari collegherà il Golfo di Oman con il Golfo Persico proseguendo poi lungo la costa occidentale sino al confine con l’Arabia Saudita. Unendosi alla rete saudita, anch’essa in costruzione, la nuova linea metterebbe in collegamento l’Oceano indiano con il Mar Rosso attraverso la penisola. Oltre a questi giganteschi progetti, si moltiplicano anche proposte originali di turismo ferroviario. Per esempio in Sudafrica un treno di ventiquattro carrozze, trasformato in albergo di lusso, stazionerà in permanenza sul vecchio ponte Selati sul fiume Sabie, nel celebre Kruger
National Park, esteso su due milioni di ettari. Cent’anni fa i primi visitatori del parco erano soliti sostare su questo ponte per la notte, per ammirare al risveglio i Big five (leoni, leopardi, rinoceronti, elefanti e bufali). Ora che i binari sono in disuso, il treno potrà restare qui per sempre. Preparatevi a pagare almeno cinquecento dollari per notte, assolutamente niente bambini sotto i dodici anni. Infine, sono in grande crescita le crociere ferroviarie. Di nuovo nel Regno Unito, nonostante il costo (a partire da £250), occorre prenotare con grande anticipo il Belmond British Pullman, miglior treno di lusso del mondo 2020 secondo i lettori di Condé Nast Traveler. Il treno è composto da undici carrozze storiche in stile art déco perfettamente restaurate, ciascuna con la sua storia: una, per esempio, era utilizzata abitualmente dalla regina Elisabetta. Tra i viaggi più richiesti quello da Victoria Station, Londra, al castello di Highclere (Hampshire), il set di Downton Abbey; la prima proposta è andata esaurita con un anno d’anticipo, ma voi potete prenotarvi per la prossima partenza, in settembre 2021.
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agguati notturni nei boschi dalla polizia croata (risolti con carta d’identità). Ma a questi aspetti non è mai dato troppo rilievo. Non c’è neppure una tesi precostituita da dimostrare, al di là dell’attaccamento sentimentale a un’idea d’Europa unita e solidale, oggi messa in ombra da paure e meschine rivalità. Il bel libro fotografico è percorso invece da una sana voglia di andare, vedere e raccontare; il progetto di massima di un grande percorso circolare resta sempre aperto a soste e deviazioni, ogni volta che un luogo o un volto sembrano avere una storia da raccontare. E la scelta di girare al largo dalle capitali e dai luoghi del turismo di massa restituisce un’Europa diversa da quella raccontata nelle riviste turistiche: periferie piene di rifiuti e case in rovine dal tempo delle guerre balcaniche, certo, ma anche tanta bellezza nascosta tra campagne e paesi di Spagna e Francia. / CV Bibliografia
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Ambiente e Benessere
Il colore del Golden Gate Passeggiate Un’escursione autunnale alla cima del Ghiridone
Romano Venziani «Ah, al Gridòn! Par nüm l’era quaicoss da straordinari». S’illuminava tutta, la maestra Mariuccia, quando parlava del Ghiridone o meglio, del Gridone, come i Brissaghesi (e l’ufficialità di Swisstopo, che l’ha scritto nero su bianco sulle cartine) chiamano la montagna che li guarda dall’alto specchiandosi nel lago. «Sentivamo parlare del Gridone, ma non c’eravamo mai stati». Così ricordava una quindicina d’anni fa, Mariuccia Zanini, la salita in vetta in occasione dell’inaugurazione della croce. Era il primo di agosto del 1934, un mercoledì di festa. Il giorno prima, violenti temporali avevano messo in forse l’avvenimento, poi però, nella notte, il cielo si era rischiarato improvvisamente, promettendo un’aurora e una giornata indimenticabili. «Verso le tre del mattino annunciano “partenza”, era ancora scuro e la mia mamma ha preso la lanterna a petrolio. Si vedeva il serpentone illuminato della gente che saliva. Quando siamo arrivati in Gridone, don Galli ha celebrato la messa, ma c’era poco da muoversi, perché eravamo così in tanti sulla cima». Pensando a Mariuccia, mi torna in mente una frase dell’alpinista inglese Robert Macfarlane, «le montagne sono mere contingenze della geologia, tutte le qualità emotive che possiedono vengono loro assegnate dalla nostra immaginazione…» (v. bibliografia n. 1). Come dire, le montagne se ne stanno lì nella loro parvenza di immobilità, esistono e basta, siamo noi che le popoliamo con la nostra fantasia, la nostra storia, le nostre emozioni, i nostri ricordi. Per Mariuccia il concetto di montagna si riassumeva in un nome, il Gridone, quella cima lassù, lontana ma famigliare, a cui, quel giorno d’agosto del Trentaquattro, avevano conferito un valore simbolico e religioso, piantando sulla cima rocciosa la grande croce, che svetta dall’alto dei suoi otto metri stendendo un’aura di sacralità su tutta la montagna. Quell’aerea rupe, su cui il naturalista Luigi Lavizzari era salito nel 1860, volgendo l’occhio «con ansia, quasi impaurito dall’aspetto degli abissi» che la circondano, ha suscitato molteplici sentimenti in chi è passato di lì. Un giorno di gennaio del 1944, Angela Maria, figlia dell’ex ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri (ormai inviso dai suoi stessi camerati fascisti, che lo avevano condannato a morte costringendolo a fuggire in Svizzera), cerca anch’essa la salvezza nel nostro paese. Partita dalla val Cannobina con la madre e alcuni passatori, raggiunge sfinita il confine che corre sulla linea di cresta del Ghiridone. «Impossibile dire cosa passa per la mente e per l’anima in quei momenti – scriverà più tardi – solo una grande leggerezza e chiarezza davanti a sé e la sensazione sempre più limpida, che davanti a qualche cosa di estremo, si saprà avere subito l’estrema decisione,
La croce color Golden Gate che si trova sulla vetta del Ghiridone. Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Romano Venziani)
qualunque essa sia: piuttosto che essere presa mi sbatto giù dalla montagna» (bibliografia n. 2). Per la giovane Angela Maria, così come per gli altri esuli che hanno scelto quella non facile via di fuga durante gli ultimi anni della guerra, la montagna è libertà e salvezza, un sentimento profondo di leggerezza e sollievo oscurato solo dalla tristezza dell’aver dovuto abbandonare la propria patria e dall’incertezza del futuro. E che dire degli sfrosìtt, i contrabbandieri, i quali, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, hanno calpestato l’intrico di sentieri che ricama i contrafforti del Ghiridone. Povera gente mossa dal bisogno, che sfidava i pericoli della montagna per quei quattro soldi che gli rendeva ogni viaggio. Per questi «frontalieri della bricolla», il Limidario, come lo chiamano al di là del confine, era il «luogo di lavoro», il terreno su cui mettere in atto la loro sfida, spesso impari, con la Finanza e con le guardie di confine elvetiche a volte più inclini a chiudere un occhio. Alla montagna erano legati da una sorta di strano rapporto economico, che gli permetteva di integrare i magri guadagni ricavati dalla coltivazione dei campi, dall’allevamento di qualche bestia o dal lavoro di manovale a tagliar legna o a tirar su muri. Saranno passate anche di qui, quel giorno d’agosto del Trentaquattro, le liete comitive di fedeli, illuminate dal tremulo «chiarore di lanterne a mano; fantastico aspetto di lucciole vaganti per la montagna nel silenzio profondo della notte». (bibliografia n. 3) Me la immagino, la scena, mentre m’incammino sul sentiero che, da Mergugno, sale verso Pislone, il vecchio
Il sentiero arriva a Pislone nel bel mezzo del bosco di maggiociondolo. (R. Venziani)
alpe Arolgia, la capanna Al Legn e, più su, la cima del Ghiridone. Accanto all’imbocco della via, un cartello informativo spiega al viandante a digiuno di cognizioni botaniche le particolarità del Bosco sacro di Mergugno, «un prezioso e unico monumento vegetale che arricchisce e nobilita la natura del Ticino». Se ci passate tra giugno e luglio, capirete il perché di quest’affermazione di Alessandro Focarile (bibliografia n. 4), entomologo ed ecologo, che i lettori di «Azione» ben conoscono. In quei mesi, il bosco si accende di una sorprendente luce gialla, innumerevoli grappoli di infiorescenze color oro pendono dagli alberi in una vibrante cascata. Sono i fiori del maggiociondolo alpino, che inglesi e tedeschi chiamano, con un’azzeccata immagine, Pioggia d’oro (Golden Rain, Goldregen). È un relitto botanico, il maggiociondolo, arrivato fino a noi dalla profondità del tempo, quando le condizioni climatiche erano più calde e umide. Ed è uscito indenne dal fluire dei millenni, senza subire modificazioni genetiche, forse per la sua natura di pianta velenosa, tossica dalle foglie ai fiori, dalla corteccia al legno, fin giù nel suo segreto reticolo di radici. In passato ricopriva aree estese delle Alpi, mentre oggi si trovano qua e là solo gruppuscoli di esemplari. Per questo, il bosco di Mergugno, che copre una superficie di trentacinque ettari, è una rarità, un gioiello forestale unico su tutto l’arco alpino, già riconosciuto come tale da generazioni di brissaghesi, che l’hanno definito sacro, pur non ricoprendo esso una funzione protettiva. Oggi dovrò fare a meno di una doccia corroborante sotto la pioggia d’oro. Gli alberi di maggiociondolo non sono ancora spogli, ma trattengono le ultime foglie ormai brunite e accartocciate, che al primo sbuffo di vento se ne voleranno via, come hanno fatto mesi fa i grappoli di fiori dorati. E quando leggerete queste righe saranno sotto la neve. Il bosco, che il sentiero risale con ampi tornanti, offre altre e intense sensazioni visive. Faggi monumentali, un tempo «meriggio estivo», rifugi d’ombra per il bestiame, allungano verso il cielo i loro robusti rami grigi, avvolti da nuvole di foglie sorprendentemente verdi per la stagione. L’intrico della vegetazione è macchiettato del rosso arancio del sorbo degli uccellatori e graffiato dal bianco sporco dei tronchi di betulla, poi, più su, bassi arbusti di ontano liberano lo sguardo, che si di-
lata sulle montagne tutt’attorno e sul lago. La vegetazione si fa sempre più rada e un tappeto d’erba smunta ricopre il vecchio alpe Arolgia. In mezzo, come relitti grigi, i resti diroccati delle baite. Una sola è stata rimessa in sesto, con il tetto rifatto. In un primo tempo si pensava di costruire qui una capanna alpina, poi però, il gruppo promotore, gli Amici della montagna affiancati dal Patriziato di Brissago, ha preferito un posto più soleggiato e panoramico, così negli anni Novanta il rifugio è sorto un po’ più su, sul terrazzo chiamato al Legn. Alzando lo sguardo, lo si intravvede, con la bandiera svizzera che svolazza appena in cima al pennone. Domani è l’ultimo giorno d’apertura e il simpatico confederato, uno dei tanti guardiani volontari, è ormai pronto a sbaraccare e scendere al piano. Tutto allegro, mi scodella il minestrone con un largo sorriso e mi stuzzica le papille gustative con il miraggio di un ottimo formaggio e pane e salame, che assaporo ammirando il paesaggio. Manca poco più di un’ora di cammino per la vetta del Ghiridone. Dopo la Bocchetta di Valle, il sentiero si arrampica sul crinale che scorre come un’onda increspata verso la cima. Sul lungo costone vistalago passo accanto alla Caldera, una sorta di antico tempio azteco, che si alza contro il cielo. Se ne sta lì dal 1901, quando i ricercatori del Politecnico di Milano, grazie a una convenzione italo-svizzera, l’hanno edificata installandovi una stazione di misurazioni pluviometriche. «È la zona più piovosa di tutta la Svizzera, questa». Mi aveva raccontato, la prima volta che sono salito quassù una quindicina di anni fa, Maurizio Pozzorini, l’allora presidente degli Amici della Montagna. «Trovarsi qui con un temporale è la cosa meno augurabile» aveva aggiunto. Mi era venuto in mente, l’avvertimento di Maurizio, qualche anno dopo, durante una notte di luglio al rifugio Al Legn, quando fuori infuriava uno stratempo da far paura con un cielo nero squarciato da raffiche di fulmini, che buttava giù cascate di grandine. E noi, lì, incollati ai vetri delle finestre a guardare i chicchi grossi come prugne, che si ammonticchiavano ricoprendo il paesaggio con una coltre bianca spessa una spanna. In un secolo di vita, ne ha visti di stratempi, la Caldera, e chissà quanti fulmini l’avranno presa di mira a giudicare dallo stato pietoso in cui era ri-
dotta prima del restauro del Duemila ad opera degli Amici della Montagna. Ora ha ritrovato la sua funzione originaria, con l’inserimento di un nuovo pluviometro, che viene vuotato in autunno fornendo preziosi dati statistici ai servizi di Meteosvizzera. All’improvviso, il crinale ha un sussulto e si alza in una cuspide ricoperta d’erba secca e roccette, la vetta del Ghiridone, con la grande croce proiettata nel cielo. L’idea di innalzarla proprio quassù era venuta a don Augusto Giugni, prevosto di Intragna, nel 1933, in occasione della celebrazione dell’Anno Santo Giubilare straordinario voluto da papa Pio XI. Trasportata pezzo dopo pezzo su cadole e gerle da uomini, donne e giovani dei villaggi della regione, la croce sarà inaugurata solo l’anno seguente, perché «i due parroci vigezzini che seguivano il progetto – mi aveva raccontato Maurizio – sono portati via uno dopo l’altro dalla difterite». Restaurata e vestita d’argento brillante nel 1966, la croce viene poi ridipinta negli anni Novanta con questo strano color arancione. E Maurizio ne sa qualcosa. «Di ritorno dall’America – mi aveva spiegato – mi son preso a San Francisco il colore del Golden Gate e l’ho utilizzato per ridipingere la croce. Questo rosso-arancio, con il bruno e verde delle cime e con l’azzurro del cielo, le conferisce un tono particolare». E non si può dargli torto. Il ponte californiano l’hanno dipinto proprio così per vederlo meglio nella nebbia. Erano altri tempi. Vi vedo male, oggigiorno, fare il check in presentandovi con un bidone pieno di vernice. E, di fronte alla perplessità dell’impiegata, spiegarle che vi serve per dipingere una croce piantata in cima ad una montagna. Bibliografia
Robert Macfarlane, Come le montagne conquistarono gli uomini. Storia di una passione, edizioni Saggi Mondadori, 2005, p. 21. Cfr. «Eco di Locarno», 3 settembre 1983. Cfr. «Giornale del Popolo», 5 agosto 1934. Alessandro Focarile, Il Bosco Sacro di maggiociondolo alpino a Mergugno sopra Brissago, pubbl. dall’Associazione Amici della Montagna, Brissago, 2005.
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Ambiente e Benessere
Uno spezzatino Zuppa di fagioli bianchi d’agnello speciale
Migusto La ricetta della settimana
Piatto principale
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per per 44 persone: persone:800 8 fette g di di spezzatino pancettad’agnello, · 2 spicchiadd’aglio esempio · 1 spalla mazzetto · saledi· pepe erbe ·aromatiche 2 cucchiai d’olio miste,diad colza esempio HOLLrosmarino, · 4 spicchi d’aglio timo, salvia · 2 cipolle · 400 grosse g di· verdure 8 pomodori per secchi sott’olio minestra, ad esempio · ½ cucchiaio sedano di rapa, farina porro, · 4 carote, dl di brodo verza,dicipolle manzo· 2· c50 di gburro di olive · 1,2nere l di snocciolate brodo · 2 scatole · 4 fette di fagioli di prosciutto bianchicrudo di Spagna · 2 cipollotti · 30 g di· 1parmigiano limone. grattugiato · sale · pepe · 100 g di cavolo piuma. 1. Condite la carne con sale e pepe e rosolatela bene nell’olio in una padella. Dimezzate 1. Taglia la l’aglio, pancetta tritate a listarelle. grossolanamente Trita finemente le cipolle. l’aglio. Aggiungete Stacca dai aglio, gambi cipolle le fo-e glioline pomodori delle allaerbe carne, aromatiche spolverizzate e tritale. conTaglia la farina a dadini e bagnate le verdure con ilper brodo. la minestra, Mettete tranne il coperchio il porro. e stufate a fuoco medio-basso per circa 50 minuti. Lasciate il coper2. chio Soffriggi leggermente nel burro aperto le verdure per permettere assieme alla al vapore pancetta, di fuoriuscire all’aglio e alle dallaerbe. padella, Unisci in il modo brodo. che il liquido si riduca. 3. 2. Sgocciola Tagliate lei olive fagiolie ei cipollotti aggiungili. a rondelle sottili, il prosciutto a dadini. Ricavate 4. delle Lascia listarelle sobbollire dalla con scorza il coperchio del limone. perMescolate circa 20 minuti. tutto. Aggiungi il parmigiano. Sala 3. Spremete e pepa. la metà del limone. Condite lo spezzatino con il succo di limone, sale 5. e pepe Taglia e distribuite a listarellelail gramolata porro e il cavolo sulla carne. piuma. Uniscili alla zuppa e continua la cottura per 5 minuti. UnServi piatto checalda. può essere accompagnato con pasta o semplicemente con 6. la gustoso zuppa ben fette di pane. Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura: circa 25 minuti. Preparazione: circa20 20gminuti; brasatura: 50 minuti. Per porzione: circa di proteine, 18 g dicirca grassi, 31 g di carboidrati, Per circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati, 400 porzione: kcal/1650 kJ. 520 kcal/2150 kJ.
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Ambiente e Benessere
Nuovi orizzonti, nuovi confini?
Sport Si spera in una ritrovata normalità. Purtroppo, per ora, non vi è nulla di facile e di scontato
Giancarlo Dionisio Ci mancavano solo le mutazioni del virus, a rendere ancora più tesa e angosciante una situazione tutt’altro che serena. Lo si sa, lo si è più volte ribadito, quello sportivo, con le cancellazioni e con le porte chiuse, è il settore che, unitamente a quello della cultura, ha sofferto maggiormente le conseguenze del Covid-19. Se scorriamo gli albi d’oro delle maggiori manifestazioni sportive, scopriamo dei vuoti, negli anni fra il 1915 e il 1918, e quelli fra il 1940 e il 1946. Nel 1912 a Stoccolma andarono in scena i Giochi Olimpici estivi, tuttavia si dovette attendere il 1920 per assistere, ad Anversa, all’edizione successiva. Lo stesso accadde una ventina di anni più tardi. Nel 1936, Berlino recuperò l’edizione annullata nel 1916. Poi, per 12 anni, il silenzio planò sui giochi. Ci si ritrovò solo nel 1948 in una Londra desiderosa di rinascere, e di diventare presto una Swinging London. Lo stesso accadde per l’altra mega manifestazione totalizzante: la Coppa del Mondo di calcio, che ancora non esisteva all’epoca della Grande guerra. Si passò invece, per tetra magia, dall’edizione del 1938 in Francia, che corrispose al secondo trionfo consecutivo dell’Italia, a quella del 1950 in Brasile, con la squadra di casa costretta a cedere il passo al nemico Uruguay. Le due guerre paralizzarono comunque tutto lo sport. Da un lato perché i buoni atleti erano considerati anche dei buoni soldati. Dall’altro perché non era il caso di gareggiare sotto una pioggia di bombe. Anche le grandi corse a tappe, a maggior ragione, dato che
si disputano sotto tiro, non sfuggirono a questa logica. Anzi, lo stop della Vuelta di Spagna iniziò già nel 1937 quando il paese era devastato dalla fase più acuta della guerra civile fra Nazionalisti e Repubblicani. Il 2020 non è stato un anno di guerra, anche se in questi nove mesi di pandemia, abbiamo preso confidenza con termini come isolamento, quarantena, coprifuoco. Il virus è stato cieco. Ha colpito indiscriminatamente. Sono stati i fattori anagrafici e quelli socioeconomici a selezionare i sani dagli ammalati. Lo sport ha tentato di reagire. Ha reagito, con determinazione e con coraggio. Soprattutto il grande sport. Le piccole manifestazioni hanno dovuto soccombere di fronte a esigenze di protezione e di sicurezza che prevedevano mezzi e persone in enorme quantità. Nella Svizzera italiana prendiamo, ad esempio, la Media Blenio, il Memorial Arturo Gander e il Gran Premio ciclistico Città di Lugano, tutti spazzati via dal virus. Non hanno alzato bandiera bianca colossi come la Champions League e i grandi giri ciclistici. Da un lato la Uefa è corsa ai ripari, ideando una formula nuova ed eccezionale, che prevedeva tutta la fase post gironi in una sola località, senza pubblico, con giocatori e staff immersi in una bolla quasi asettica. Dall’altro, le grandi corse a tappe, così come le grandi classiche, hanno ugualmente vinto la sfida, sia pure con la complicità della buona sorte, che le ha baciate dal primo all’ultimo giorno. Hanno pianto, fatto strepiti, opposto resistenza, poi hanno accettato di andare in scena, in rapida sequenza,
Ci potremmo accontentare di guardare lo sport in televisione? (pixabay.com)
da fine agosto a metà novembre. Se il calendario fosse stato spostato avanti anche solo di un paio di settimane il giocattolino si sarebbe infranto contro i marosi della seconda ondata pandemica. Meglio così. Tour, Giro, Vuelta, e Classiche, senza pubblico, anche se ogni tanto le immagini televisive sembravano farci ripiombare in edizione
pre-Covid, hanno regalato una botta di ottimismo. Non sarà facile ripetersi nel 2021. Mi spiego: se tutto tornerà alla normalità entro la primavera, non ci saranno gravi conseguenze per la struttura economica del fenomeno sport, visto anche il sostegno da parte degli Stati. Ma se la soluzione «Huis clos», a porte
chiuse, dovesse protrarsi a oltranza, lo sport dovrà essere capace di reinventarsi. L’unica via percorribile sarebbe quella della fruizione televisiva o, in termini più generali, online. Ciò comporterebbe conseguenze positive, ma anche aspetti negativi. Alla ridotta mobilità di centinaia di milioni di fans sull’arco dell’anno, con i relativi benefici per l’ambiente, e la riduzione dei costi per la sicurezza, corrisponderebbe un calo nettissimo dell’indotto. Il tifoso, viaggia, mangia, beve, acquista, a volte dorme. Stadi e piste vuote significherebbero anche casse chiuse. E vuote. Poi, come la metteremmo con le passioni e le emozioni? Anche per questo aspetto, si corre su un crinale: passione significa abbracci, ma, ahinoi, significa anche botte da orbi. I club sportivi potrebbero recuperare terreno negoziando nuovi parametri per la gestione dei diritti di trasmissione. Questa fase, che coinvolgerebbe federazioni, società sportive, televisioni e agenzie, a mio modo di vedere, potrebbe essere quella più delicata. I rappresentanti di queste quattro categorie, dovrebbero dare prova di equilibrio e senso di responsabilità. Se ci sarà un beneficio, sia pure minimo, per tutti, si potrà guardare al futuro con una briciola di ottimismo. Se invece qualcuno vorrà a tutti i costi vincere a braccio di ferro, qualche fibra muscolare andrà allo sfascio. E con lei tutto il sistema. Conoscendo la natura umana, non resta che sperare in un rapido ritorno alla normalità e alla tradizione. Con l’augurio che la lezione Covid-19 possa aiutare a una più sana e consapevole gestione dei bilanci.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Cosa vuol dire la parola «ataxofobia»? Scoprilo a soluzione ultimata leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 3, 9)
ORIZZONTALI 1.Grecoingeometria 3.Luogodiapprendimento 7.L’amorediLeandro 9.Unacroceconl’accento... 10.Una...sponda 12.Leinizialidell’attoreDalton 13.Checonsumaelogora 15.Lospagnolo... 16.Notiziaprivadifondamento 22.Giovelamutòingiovenca 24.Ungigantein...tiro 25.Decigrammo 26.LeinizialidelnotoElkann 28.AdessoperBrignano 30.Fucacciatadall’Olimpo 32.Inconsapevole,all’oscuro 35. Piùversano...piùguadagnano 37.StelladellacostellazionedellaVergine 38.IlnomediTeocoli VERTICALI 1. Siraccolgononelfrutteto 2.Partedell’occhio 4.Supergliinglesi 5.Illettodeiwagons 6.Caratteristicadichihacoraggio 8.Ellittici 11.LeinizialidelloscrittoreCamilleri 14.Lafedenelcuore... 17.Centrodellacapitale 18.Ripido,scosceso 19.LeinizialidellaconduttriceD’Amico 20.Unortaggio 21.Indumentointimo 23.CelebremoscheadiGerusalemme 27.Primapersonalatina 29. Dannounpuntoascopa 31.Sidistingueall’alba 33.Fuunfamosotrombettista...Rosso 34. Sillaba sacra ai buddisti 36. Ha un proprio servizio
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
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Sudoku Soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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La statua più alta del mondo dove si trova, chi rappresenta e quanti metri è alta? Risultante: INDIA, SARDAR PATEL, CENTOTTANTADUE.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Politica e Economia La «bestia» scatenata dalla politica Il populismo del 2016 era una fonte potente di voti, era seducente, era internazionale. Era bello cedere a Trump, anche se qualcuno già suonava l’allarme. Ma già all’inizio questo patto con il populismo conteneva le avvisaglie del processo degenerativo di cui vediamo gli effetti in questi giorni
Fotoreportage dalla Bosnia Sulla rotta balcanica dei profughi provenienti da Afghanistan e Pakistan che disperatamente cercano di raggiungere l’Europa: storie di abbandono delle istituzioni nel limbo bosniaco, di violenza e di avversità pagina 19
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C’era una volta in America Capitol Hill Il Paese è sotto shock
Federico Rampini Com’è potuto entrare nel linguaggio politico americano, e nella realtà dei fatti, il concetto di «golpe»? Non è solo l’assalto al Congresso del 6 gennaio ad aver imposto questo tema. Pochi giorni prima di quel tragico attacco non si era prestata la dovuta attenzione ad un appello firmato da tutti gli ex ministri della Difesa americani – inclusi molti repubblicani come Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Jim Mattis – che intimavano alle forze armate di rispettare la Costituzione e tenersi fuori dallo scontro politico. Donald Trump aveva reso verosimile anche quello, a cominciare dalle sue minacce di usare l’esercito contro i manifestanti di Black lives matter l’estate scorsa. Molto più di recente erano circolate indiscrezioni su alcuni scambi con i suoi collaboratori, riguardo all’ipotesi di mandare le truppe in alcuni Stati per far ripetere l’elezione presidenziale. Quelle forse erano destinate a rimanere elucubrazioni da fantapolitica, delirio paranoico. Il 6 gennaio lo scenario che è sembrato realizzarsi nei sogni di qualcuno era un altro. È accertato che alcuni manifestanti partiti all’assalto del Congresso quel giorno erano convinti che Trump stesse guidando il corteo, che il presidente fosse personalmente in testa all’assalto popolare contro la sede delle odiate istituzioni, il covo dei politici «corrotti e venduti». George W. Bush quella sera commentava: è così che ci s’immagina il passaggio dei poteri nelle cosiddette repubbliche delle banane. Mezza America si è interrogata con costernazione sul godimento di autocrati come Xi Jinping e Vladimir Putin. In realtà il golpismo è un po’ meno estraneo alla storia americana di quanto si creda. All’inizio della Grande depressione un bivacco di reduci della Prima guerra mondiale assediava il Congresso per chiedere aiuti, fino a quando il generale MacArthur lanciò le sue truppe contro i manifestanti, interpretando in maniera molto espansiva gli ordini del presidente Herbert Hoover. Lo stesso generale MacArthur fu accusato di piani golpisti quando tentò di disubbidire alla Casa Bianca durante la guerra di Corea (voleva lanciare bombe atomiche sulla Cina). Gli anni Trenta videro anche un pezzo di classe dirigente americana simpatizzare
apertamente con Benito Mussolini. E quando Franklin Roosevelt chiese poteri speciali per attuare il «New Deal», molti nel suo entourage e nella sua base auspicarono una «dittatura di sinistra» per piegare le resistenze dell’establishment capitalista. Trump ha aggiunto la sua capacità di essere dentro e fuori le istituzioni al tempo stesso. Ha continuato a tuonare contro la politica pur essendo il titolare del potere esecutivo. È un capo-popolo e al tempo stesso maneggia le leve del Governo federale. Quanti degli apprendisti stregoni che hanno «costruito» il fenomeno Trump, dal 2015 in poi, si rendono conto delle proprie responsabilità? Questo dovrebbe interpellare anche i grandi media progressisti che hanno campato sul giornalismo «resistenziale» ingigantendo la visibilità di Trump, prima di tutto i social media Facebook e Twitter che hanno cominciato a censurarlo solo alla fine, quando ormai era troppo tardi. La principale responsabilità ricade comunque sulla «Fox News» di Rupert Murdoch. Questa rete televisiva di destra dopo il 6 gennaio ha tentato un’operazione di damage control per limitare i danni. Ha condannato le violenze, senza attribuirle direttamente a Trump. La Fox ha accusato la sinistra di usare due pesi e due misure, avendo sempre legittimato la violenza dell’estate scorsa quando i cortei anti-razzisti di Black lives matter devastavano interi quartieri e incendiavano commissariati. Ha preso le distanze da Twitter e Facebook per la loro scelta di censurare il presidente. Tutti a destra cercano comunque di non tagliare i ponti con la base di Trump, quei 70 milioni di elettori dei quali molti credono davvero che Joe Biden sia un usurpatore e che la sua vittoria sia rubata. Biden per ora ne esce rafforzato. L’assalto al Congresso di Washington ha coinciso con un exploit quasi miracoloso, la conquista di ambedue i seggi senatoriali della Georgia. Di colpo Biden ha una maggioranza omogenea nei due rami del Parlamento e la sua agibilità di governo è superiore alle attese. Ne ha approfittato per designare il suo ministro della Giustizia: sarà Merrick Garland, magistrato federale che Obama tentò di nominare alla Corte suprema nel 2016, ma che venne bocciato dalla maggioranza repubblicana
AFP
dopo l’assalto degli estremisti pro Trump anche se in realtà il golpismo è un concetto un po’ meno estraneo alla storia americana di quanto si creda
del Senato. Il ruolo di segretario della Giustizia sarà ancor più delicato nel dopo-Trump, visto che dovrà guidare con imparzialità e rigore anche il cumulo di pendenze giudiziarie a carico dell’ex presidente. Biden deve interrogarsi su quel che può accadere prima del 20 gennaio. La lunghezza della transizione americana è un’anomalia fra le democrazie. Era ancora più lunga fino al 1933 (durava da novembre a marzo) e fu accorciata da Roosevelt che doveva affrontare la Grande depressione. Un passaggio dei poteri così dilazionato crea dei vuoti decisionali pericolosi. Con Trump si è scoperto che può essere perfino un rischio per la tenuta della democrazia. Il tema più sostanziale, che accompagnerà Biden a lungo, è la base sociale del trumpismo, la larvata guerra civile americana. Biden rischia di essere altrettanto «illegittimo» per quasi mezza America di quanto lo è stato Trump nei suoi 4 anni. Cosa può fare, cosa cercherà di fare per evitare di essere lo specchio
rovesciato del suo predecessore, cioè il presidente di mezza Nazione, l’usurpatore per gli altri? È curabile questa divisione? Con quali mezzi? Biden cercherà di rispondere al disagio economico della classe operaia, aggravato dai lockdown e dalla recessione. Ha già rubato a Trump il tema del protezionismo, con il suo slogan «Buy american», compra americano, che va nella stessa direzione di «Make America great again». Una lettura esclusivamente economicista del trumpismo sarebbe riduttiva, però. Le analisi più serie e approfondite sulla base sociale di Trump – ben rappresentata dai «quarantamila di Washington» – dicono che l’impoverimento e il regresso economico non sono sempre presenti in quel mondo, né determinanti. Il movente più importante, per esempio dietro il fenomeno dei democratici che votarono per Barack Obama e poi passarono a Trump, è il declassamento di status. L’America «con laurea» li guarda dall’alto in basso.
Un sintomo emblematico lo trovo nel linguaggio usato dal mio amico Alan Friedman, giornalista progressista, che nei talkshow definisce gli elettori di Trump dei «bifolchi», ignoranti che non sanno quello che fanno. È la definizione più benevola, ma è proprio quella che gli interessati percepiscono come la nuova forma di razzismo. Mentre è proibito nella cultura contemporanea manifestare apertamente disprezzo per chi ha un colore della pelle diverso dal nostro, per chi è gay o musulmano, è del tutto normale disprezzare i «bifolchi». È perfino considerato una forma di antifascismo. Biden forse può capirlo perché ha le sue radici familiari nell’immigrazione irlandese, un mondo dove il razzismo verso i «bianchi di serie B» fu un’esperienza concreta e durevole. Ma c’è poco nell’arsenale delle politiche di governo che lui possa fare. Dovrà lavorare sui simboli, sulle narrazioni, sull’immaginario della Nazione. Auguri.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Politica e Economia
«Come siamo arrivati fin qui?» Dopo l’assalto al Congresso Il partito repubblicano, che si era convinto di poter controllare
le pulsioni populiste, ne è finito divorato e ora dovrà pagarne le conseguenze
A guardare le immagini dell’orda di fanatici trumpiani che tenta con successo l’irruzione dentro al Campidoglio viene da chiedersi: come siamo arrivati a questo punto? La risposta c’entra con la pizza e con la disinformazione. Come tutti ricorderanno, cinque anni fa fra i circoli della destra e dei sostenitori di Trump cominciò a girare una teoria del complotto che riguardava i democratici. Ne esistevano molte versioni, ma più o meno la trama era la stessa: il partito democratico era in realtà una gigantesca operazione di copertura per una rete di pedofili che si riuniva per i suoi traffici infami in una pizzeria di Washington (la capitale americana ha sempre un fascino irresistibile per i complottisti). A dare il via a questa teoria del complotto erano stati i servizi russi, che avevano hackerato le mail del Partito democratico e le avevano gettate su internet a disposizione di tutti. Da lì era cominciata un’opera perversa di lettura delle mail alla ricerca di dettagli e di indizi nascosti. E poiché sappiamo che internet è internet, a un certo punto molti si erano convinti che alcune mail dal contenuto innocente fossero in realtà messaggi in codice tra i leader democratici. Andare a mangiare la pizza? Voleva dire andare ad abusare di bambini. Le pizze erano i bambini. E una pizzeria in particolare era, nella mente dei complottisti, la prigione delle piccole vittime – rinchiuse in sotterranei. Fino a qui è una storia demenziale, ma ora arriva la parte interessante. Un ventottenne prende un fucile Ar15 (quello più usato nelle stragi, arma temibile) e una pistola, sale in macchina, fa qualche centinaio di chilometri fino alla pizzeria, entra, spara tre colpi contro un tavolo e una parete e cerca di scendere nella cantina – che per lui è il sotterraneo dove gli aguzzini tengono prigionieri i bambini. Lui si vede come un eroe. Il problema è che la pizzeria non ha una cantina. Non ci sono sotterranei. Arriva la polizia, circonda il locale, il giovane si arrende. È confuso: credeva che quello che aveva letto sui siti fosse vero (su quei siti che bazzicava perché ricordiamo che il resto dei media, per questa gente, non dice mai la verità), aveva imbracciato le armi e invece scopriva di essere dalla parte del torto. Voleva arrestare cattivi e invece era lui a essere arrestato. Avevo delle informazioni sbagliate, ammetterà poi davanti al giudice.
Di fatto i repubblicani sono scissi in due tronconi. Se stanno con Trump non stanno con le istituzioni, e viceversa Questa vicenda è diventata famosa con il nome di Pizzagate ed è accaduta nel dicembre 2016, quindi nel lasso di tempo tra la vittoria alle presidenziali di Donald Trump e il suo insediamento alla Casa Bianca. Il clima era quello. Basta moltiplicare per mille e si capisce cosa è successo mercoledì mattina. Un gigantesco Pizzagate contro il Congresso. La folla che è arrivata a Washington da tutto il Paese e ha ascoltato Trump dal vivo non vedeva l’ora di sconfiggere i cattivi – o almeno così aveva capito. Il presidente americano da mesi continua a dire che le elezioni sono state un grande inganno e che ci sono stati brogli. Ci hanno rubato la Casa Bianca! La folla ha fatto irruzione al Campidoglio con la stessa foga che il solita-
AFP
Daniele Raineri
rio cacciatore di pedofili immaginari aveva usato anni prima in un quella pizzeria, nemmeno troppo distante. E una volta dentro non sapeva nemmeno cosa fare. Non ci sono state dichiarazioni, appelli, ultimatum. I fanatici trumpiani hanno rovesciato un po’ di fogli, si sono fatti molti selfie, hanno spaccato qualche vetro e adesso rischiano anni di carcere. Il giorno dopo Ministero della Giustizia e l’Fbi hanno annunciato una campagna implacabile per incriminarne il maggior numero possibile. Non saranno indagini molto complesse. Questi trasmettevano in diretta l’irruzione sui loro profili social, convinti per qualche ragione di godere di impunità totale. Poche ore di entusiasmo e ora dovranno vedersela con una lista di reati federali che vale anni di carcere. Quello che i siti della destra avevano fatto al giovane del Pizzagate nel 2016, quattro anni di intossicazione trumpiana hanno fatto a migliaia di americani che si sono presentate a Washington «to stop the steal», per fermare il furto (e ad altre centinaia di migliaia che sono rimaste a casa). La cosa tocca da vicino il partito repubblicano, che si era convinto di poter controllare queste pulsioni populiste e invece ne è finito divorato. Il populismo del 2016 era una fonte potente di voti, era seducente, era internazionale – vedi per esempio il referendum sulla Brexit nel Regno Unito – ed era difficile dire di no. Era bello cedere a Trump, anche se qualcuno già suonava l’allarme. «Se sceglieremo Trump finiremo per essere distrutti e ce lo saremo meritati», disse un senatore repubblicano, Lindsey Graham, che poi è diventato uno dei più fedeli consiglieri del presidente. Ma già all’inizio questo patto con il populismo conteneva le avvisaglie del processo degenerativo di cui vediamo gli effetti in questi giorni. In ogni sua fase, occorre aumentare la dose per soddisfare i fan ed è esattamente quello che ha fatto Trump. Invece che acquisire esperienza e bravura nel calcolare le sue mosse, invece che superare le ingenuità iniziali e diventare sempre più istituzionale, per quattro anni il presidente ha disceso una china ripida. Ha raddoppiato in populismo a ogni occasione e spesso è stato premiato. È uscito quasi illeso da dichiarazioni che avrebbero steso qualsiasi altro politico. Il Covid-19 che «sta per sparire, adesso abbiamo quindici casi ma nel giro di un paio di giorni scenderanno a zero»
– così disse durante una conferenza stampa a febbraio. La milizia fascistoide dei Proud Boys che deve «tenersi pronta» – così disse durante un dibattito in diretta tv contro Joe Biden. E tante altre. Il partito non ha mai battuto ci-
glio. Quando i democratici hanno tentato un impeachment un anno esatto fa (sembra passato molto più tempo), i repubblicani lo hanno difeso compatti come un sol uomo. Quando chiedevano a Trump cosa pensa di QAnon, il
culto apocalittico che lo considera un semidio e crede che i suoi avversari siano dei pedofili che vanno rinchiusi a Guantanamo, lui ha glissato sempre. Perché rinunciare a fan così entusiasti, anche se è l’entusiasmo dei folli? Mercoledì quelli di QAnon erano in prima fila durante l’assalto al Campidoglio, si sono trasformati nel suo braccio. Il primo a sfondare il cordone della polizia è stato un uomo di QAnon, lo sciamano con le corna che si vede in tantissime foto, è di QAnon, la donna che è morta per i colpi di pistola delle guardie, è di QAnon e i simboli della setta erano dappertutto, sulle bandiere e sui vestiti. Adesso tutti i repubblicani abbandonano il presidente degli eccessi, fuori tempo massimo. Il suo ministro della Giustizia, cacciato a dicembre, dice che Trump ha tradito il Paese. Il capo della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha respinto le teorie del complotto di Trump e ha certificato la vittoria di Biden. Persino il suo vice, il fedelissimo Mike Pence, gli ha voltato le spalle e ora è diventato il bersaglio più detestato dalla base del presidente – almeno fino a quando non ci sarà un nuovo bersaglio da odiare ancora di più. Il partito ha perso la maggioranza al Senato e Stati simbolici come l’Arizona e la Georgia, che votavano sempre repubblicano da più di vent’anni. Quel che è peggio, di fatto i repubblicani sono scissi in due tronconi. Se stanno con Trump non stanno con le istituzioni, e viceversa. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Politica e Economia
Sognando l’Europa
Reportage La Bosnia negli ultimi anni è diventata una delle rotte migratorie per chi cerca di raggiungere
l’Unione europea via Croazia. Ecco le storie di chi tenta il Game in balia del freddo e di violenze inaudite
Francesca Mannocchi Il freddo in Bosnia ha due colori, quello dell’ora appena dopo il sorgere del sole, bianco ghiaccio, e quello delle nove del mattino, ocra, fatto dell’alternarsi delle ombre. Strisce allungate dalla luce, sagome che si muovono cercando il primo raggio di sole. Sono i fantasmi di Bihac che si svegliano, allargano sulle spalle le coperte e camminano come lucertole verso qualcosa che intiepidisca quello che la notte ha gelato. Imran ha 19 anni, ha lasciato Jalalabad, in Afghanistan, due anni fa e oggi vive in un edificio abbandonato nella zona industriale della città bosniaca. Per spiegare perché ha lasciato il suo Paese dice solo «i talebani non ci fanno vivere». Poi, forse temendo che la parola «talebano» non evochi sufficiente preoccupazione in chi ascolta, elenca le persone che conosce vittime di un attacco, una bomba, un assalto: uno zio che andava a lavorare in ospedale, un cugino che andava ad accompagnare i figli a scuola, una vicina, mentre camminava per andare a comprare il pane. Tutti morti. Imran ci ha messo sei mesi per raggiungere la Bosnia. Ora è fermo qui, a Bihac, da un anno e mezzo. Bloccato tra un tentativo e l’altro di attraversare i monti e arrivare in Croazia, dunque Europa. Quelli come lui, i «camminatori», i migranti, i rifugiati, i «senza casa», lo chiamano Game, gioco. Imran ci ha provato sette volte, senza successo: «Mi hanno sempre riportato indietro. Tre volte senza picchiarmi, quattro dopo avermi derubato e colpito sulla schiena con le spranghe». Funziona così, per tutti, dopo aver attraversato i monti: vengono catturati da forze ufficiali e non ufficiali della sicurezza croata che prendono tutto: telefoni, coperte, documenti. Spesso vengono trasportati sulle rive di un fiume, dove viene dato fuoco alle loro cose. Vengono denudati, picchiati e riportati al confine con la Bosnia. Lasciati in cima alle montagne, in mezzo ai boschi o vicino ai corsi d’acqua. È la procedura. L’ultima volta che l’hanno catturato in Croazia, Imran è rimasto senza giacca, senza soldi e senza scarpe. Come lui i suoi sei compagni di viaggio. Il primo centro abitato era distante 8 chilometri. Imran ha aspettato che passasse la notte e si è messo in cammino, a piedi nudi, per riattraversare la montagna e tornare al punto di partenza di quello che più di un Game ormai è un sadico Gioco dell’oca che non ha arrivi, ma eterni ritorni di una partenza senza destinazione. Nel percorso ha visto tante persone morte: uomini rimasti senza acqua o senza cibo. O forse troppo stanchi per affrontare dieci giorni di cammino oppure morti di freddo. Qualcuno che si è perso. Succede quando i gruppi di migranti seguono lo smuggler, il trafficante, che deve condurli di confine in confine e vengono sorpresi dall’arrivo della polizia, magari in mezzo ai monti. Il gruppo si disperde, ragazzi e uomini cominciano a correre tra gli alberi, magari perdendo il telefono o lasciando indietro lo zaino con l’acqua, il cibo e le coperte. E quando il gruppo si ricompatta intorno allo smuggler manca una persona o due. E di lui, di loro, non si sa più niente fino al passaggio del Game successivo, del gruppo successivo. Uomini che un passo dopo l’altro vedono un corpo tra le foglie e la neve. Oppure di chi si è smarrito semplicemente non si sa più niente e basta. E quella fuga nei boschi si trasforma in una delle tante morti non registrate, che non fanno statistica e non fanno rumore.
«Cosa fai se perdi tutto, nel bosco, Imran?», chiediamo. «Prego, non posso fare altro. Mi è capitato di restare tre giorni senza acqua. Ma sono ancora qui. Aspetto che passi il dolore ai piedi e riproverò». Negli ultimi anni la Bosnia-Erzegovina è diventata una delle rotte migratorie miste più significative per le persone che cercano di entrare nell’Ue. Soprattutto dopo il 2016, quando l’Unione europea ha chiuso la rotta balcanica e migliaia di rifugiati si sono accampati nei boschi bosniaci o in quello che resta dei palazzi in rovina, nelle zone industriali abbandonate o negli edifici che portano ancora i segni della guerra dei primi anni Novanta. Soprattutto nella parte nord occidentale del Paese, nel cantone dell’UnaSana. Dall’altra parte dei monti c’è la Croazia. Ad aspettare chi ancora, dopo anni, tenta il Game c’è la polizia, armata e con visori notturni per identificare le persone in cammino. Dall’inizio del 2018 in Bosnia sono stati registrati circa 65.000 rifugiati, migranti e richiedenti l’asilo, le strutture di accoglienza riescono ad ospitare 6.500 persone, e le organizzazioni umanitarie ne hanno mappate almeno altre 3.000 che vivono al fuori dei centri di accoglienza, in campi improvvisati. Nicola Bay è il direttore per la Bosnia di DRC, il Danish refugee council. Da mesi, con l’inverno implacabile che si avvicinava ed è arrivato, denuncia le condizioni in cui vivono i migranti e la mancanza di strategia del Governo di Sarajevo. A settembre il DRC ha pubblicato un report sulla base di interviste alle persone che vivono negli insediamenti informali: un quarto di loro riesce a mangiare una volta al giorno, metà non ha accesso all’acqua e il 92 per cento delle persone ha riferito di soffrire di vomito, diarrea. «Facciamo assistenza medica d’urgenza negli insediamenti – dice Bay – ma è solo un modo per tamponare, non è una soluzione. È inaccettabile che non ci sia un sistema di accoglienza per 8.000 persone in Bosnia, sono numeri che non costituiscono una crisi umanitaria, ma un fenomeno da gestire. Le autorità del Paese non hanno individuato ancora, dopo anni, siti adatti per strutture recettive. Addirittura quelli che ci sono vengono chiusi». Bay si riferisce al campo di Bira che potrebbe ospitare 2.000 persone ed è stato chiuso per ordine delle autorità cantonali dell’Una-Sana e del campo di Lipa, venti chilometri a sud di Bihac, pronto alla chiusura, che ospita altre 1.300 persone. Il campo di Lipa era stato aperto come centro temporaneo a marzo, all’inizio dell’emergenza Covid, quando è stato necessario trovare soluzioni per monitorare il contagio e la salute delle persone migranti. Secondo gli accordi con le autorità cantonali, il campo di Lipa – fatto di tende e poche tensostrutture in mezzo ai monti – avrebbe dovuto essere attrezzato per l’inverno, con una fornitura di acqua e elettricità. Non è stato fatto. E senza elettricità e acqua è impossibile affrontare l’inverno così come è impossibile adottare misure igieniche anti-Covid. Perciò le istituzioni cantonali anziché migliorare le condizioni del campo hanno deciso di smantellare le tende e chiuderlo. Le persone che vivono a Lipa non hanno idea di dove passeranno l’inverno. Sono 1.300 e andranno a unirsi ai 3.000 che già vivono all’addiaccio. «L’intento delle istituzioni è quello di scoraggiare gli arrivi – dice Nicola Bay – ignorando ancora, dopo anni, che il luogo è il punto di passaggio per la Croazia e dunque per l’Unione Europea e che le persone che hanno
I profughi bloccati in Bosnia vengono spesso denudati, picchiati e derubati. (Alessio Romenzi)
attraversato 3.000 chilometri non si fermano a 50 chilometri dalla Croazia perché non ci sono centri di accoglienza. Sono qui perché vogliono raggiungere l’Europa e continueranno ad arrivare e a provarci». Le autorità bosniache hanno a lungo negato la realtà, sperando che il fenomeno si sarebbe spostato altrove. Così non è mai stata pianificata una strategia nazionale per la gestione degli arrivi e non sono mai stati identificati siti che potessero ospitare un sistema di accoglienza strutturato. Eppure, nonostante la mancata gestione degli ultimi anni, il 16 dicembre la Commissione europea ha adottato un pacchetto di assistenza aggiuntivo di 25 milioni di euro per sostenere la Bosnia nella gestione della migrazione, che vanno ad aggiungersi ai 60 milioni già ricevuti dal 2018. All’inizio della crisi, nel 2016, in assenza di campi e centri di accoglienza, i bosniaci hanno aperto le case ai migranti. Nelle zone di confine non era difficile trovare giovani bengalesi o pachistani ospiti di anziane signore che permettevano loro di fare una doccia o ricaricare i telefoni, come non era difficile incontrare bottegai e contadini che a fine giornata distribuivano pane e coperte nelle tendopoli. Oggi il clima è cambiato. La propaganda antiimmigrati, accentuata dall’emergenza Covid, ha esasperato gli animi degli abitanti, soprattutto a Velika Kladusa, dove i residenti, ad agosto, hanno bloccato la strada che porta in città per impedire l’ingresso dei mezzi che trasportavano migranti e richiedenti l’asilo. Un mese dopo uomini non ancora identificati hanno dato fuoco a una casa abbandonata dove viveva un gruppo di richiedenti l’asilo afghani. Amad ha 40 anni. Vive a Velika Kladusa, è uno dei fortunati che dorme nel campo Miral, l’unico della città. Può ospitare fino a 600 persone ma quando fa freddo e nevica, come ora, di notte in tanti provano a saltare il cancello e trovare riparo almeno per la notte. Amad è un attivista politico in Baluchistan, una delle quattro province del Pakistan. Racconta che suo fratello è stato ucciso dalle forze di sicurezza pakistane e suo nipote di 17 anni rapito mesi fa. Da allora la famiglia non ha più sue notizie. Amad insieme a 3 cugini sono fuggiti per timore di essere rapiti. Direzione Europa, con l’obiettivo di fare
richiesta d’asilo. Hanno provato ad attraversare i monti cinque volte. L’ultima un mese fa. Hanno camminato due giorni, poi sono iniziate le piogge e hanno aspettato nei boschi coprendosi con qualche pezzo di plastica e un sacco a pelo. Quando hanno raggiunto la Croazia sono stati sorpresi da un gruppo di uomini armati, in uniforme verde, che hanno chiesto loro di spogliarsi, consegnare tutti gli oggetti personali e li hanno costretti a stendersi a terra, completamente nudi. Li hanno prima picchiati, poi hanno restituito loro la biancheria intima e li hanno caricati su un camion per trasportarli vicino al confine nelle mani di un altro gruppo di uomini, stavolta in uniforme nera e passamontagna. Sono stati picchiati ancora, presi a calci e bastonate sulla schiena, prima di essere di nuovo caricati su un veicolo che li ha riportati al confine. «Non avevamo più niente, né telefoni, né vestiti. Avevamo paura di muoverci, temevamo di essere ancora in Croazia e che avremmo incontrato un altro gruppo di uomini armati». Di quelle ore nel bosco i tre uomini portano ancora i segni. Non solo fisici. Amad si sveglia di notte, sente una voce che grida: «Non puoi entrare qui, vai via». Poi apre gli occhi e pensa: è tutto finito. Dall’inizio dell’anno sono 15.672 i respingimenti registrati dalla Croazia. Nel solo mese di ottobre sono stati 1934, più di 60 al giorno. Secondo i dati del DRC almeno il 60 per cento delle persone ha subito violenza. A ottobre sono stati registrati 189 casi di «violenza inaudita», così li descrive l’organizzazione, in due casi si tratta di violenza sessuale da parte di uomini in uniformi nere senza segni identificativi, senza divise riconoscibili. «I racconti delle persone riportate indietro sono tutti concordi», afferma Nicola Bay. «Vengono consegnati dalla polizia croata nelle mani di uomini in uniforme nera e passamontagna. Non possiamo sapere se siano membri della polizia croata o meno, ma possiamo desumere che operino in accordo con le autorità croate e le forze di sicurezza del Paese. I push back rappresentano una violazione della legge europea. Non servono nuove norme, è necessario esigere il rispetto di quelle esistenti». I respingimenti violano non solo la legge croata sull’asilo ma anche la legge europea e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Nonostante le ripetute denunce e la preoccupazione espressa
dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic, le autorità croate hanno sempre negato le accuse di violenze da parte dei funzionari di frontiera. Nel recente patto sulla migrazione la Commissione europea propone che gli Stati membri istituiscano meccanismi di monitoraggio delle frontiere per prevenire abusi ma le organizzazioni umanitarie sono scettiche. «Al momento la proposta inserita nel patto sulla migrazione è solo confusa», osserva Bay. «È fondamentale che i meccanismi di monitoraggio siano indipendenti. Non si può pensare che gli stessi Governi o Stati membri accusati di violare il diritto europeo siano incaricati di istituire il controllo sui respingimenti nelle zone di confine. E, soprattutto, c’è bisogno di trasparenza e sanzioni. Al momento non ne vediamo». Così, mentre le organizzazioni in difesa dei diritti umani, come Amnesty International, sporgono denuncia contro la Commissione europea perché non ha affrontato le accuse di violazioni dei diritti umani, la Croazia continua a beneficiare di aiuti economici per il controllo dei confini e nell’ottobre del 2019 la Commissione europea ha valutato positivamente i progressi del Paese verso l’adesione all’area Schengen. Un anno fa la Commissione ha anche incrementato di 7 milioni di euro i fondi destinati alla Croazia per la gestione delle frontiere, «finanziamento destinato a coprire i costi operativi di 10 stazioni di polizia di frontiera attraverso la fornitura di indennità giornaliere, indennità extra e attrezzature», si legge nei documenti della Commissione europea. L’aumento di 7 milioni porta il finanziamento globale per la Croazia a 124 milioni, tra programmi nazionali del Fondo asilo, migrazione e integrazione e del Fondo sicurezza interna 2014-2020. Eppure il Fondo asilo non sembra funzionare: infatti ai migranti che attraversano il confine, picchiati e derubati, non viene data la possibilità di fare domanda di protezione internazionale. Tra di loro Mansour che ha lasciato Herat, in Afganistan, quando aveva 13 anni e ha viaggiato da solo. Un caso come molti: una famiglia intera che punta sulla migrazione del più giovane e del più sveglio. Lui ha scommesso coi monti e ha perso, almeno fino ad ora, intanto ha compiuto 18 anni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Austerità e aumenti fiscali all’orizzonte Per i commentatori dei fatti economici l’inizio dell’anno è sempre un periodo di bilanci e di previsioni. Anche se l’informazione economica necessaria non è ancora disponibile (le aziende hanno appena cominciato a calcolare le loro chiusure per il 2020) l’opinione pubblica vuole essere informata di come sono andate le cose e di come potrebbero svilupparsi nell’anno che si è appena aperto. Cominciamo dunque dai bilanci. Per la natura stessa degli avvenimenti che hanno influenzato l’evoluzione dell’economia svizzera (e anche quella di molti altri Paesi) durante nove mesi dello scorso anno, i mesi del coronavirus per intenderci, nel tirare le somme per il 2020 dobbiamo distinguere tra il settore privato e il settore pubblico. Per quel che riguarda il settore privato possiamo dire che, nel suo insieme, se
l’è cavata solo con un occhio ammaccato, nel senso che il risultato economico, pur essendo negativo, sarà migliore di quanto la maggioranza dei commentatori si aspettava verso metà anno. Calcolata sull’intero anno la recessione del prodotto interno lordo reale non dovrebbe superare il 4-4,5%. L’economia svizzera si troverà quindi nel piccolo gruppo di economie favorite le cui perdite in termini di Pil saranno inferiori al 5%. Come si può motivare questo relativo successo? La nostra economia ha forse di nuovo rivelato di essere particolarmente resistente alle crisi? Un momento, non corriamo troppo con le conclusioni. Bisogna infatti ricordare che se la recessione del 2020 sarà contenuta il merito andrà in buona parte agli aiuti e sostegni che moltissime aziende hanno ricevuto dallo Stato, dalla Confederazione in
primis, ma anche dai Cantoni e dai Comuni. Gli stessi hanno consentito di limitare i disavanzi aziendali e di mantenere la disoccupazione a un livello estremamente basso. La «Svizzera SA», ossia il settore privato dell’economia svizzera – per utilizzare una formula cara a Silvio Borner, l’economista neoliberale appena scomparso – nel 2020 è stata dunque salvata dallo Stato o se volete dalla «Svizzera CH». Non è la prima volta che succede nella storia del nostro Paese, ma è certamente la prima volta in cui l’aiuto dello Stato viene distribuito in così larga misura e a una quota così elevata dell’effettivo totale delle aziende. Sapere cosa sarebbe capitato se lo Stato non fosse intervenuto offrirà, nei prossimi mesi, un buon soggetto per uno studio di caso alle nostre scuole di management. Il problema vero, però, è che l’aiuto alle
aziende, concesso durante il periodo del coronavirus, dovrà essere pagato da qualcuno. In altre parole i disavanzi che si sono potuti evitare o contenere nelle aziende del settore privato, si ritroveranno immancabilmente in quelli delle istituzioni del settore pubblico. Per essere ancora più chiari: Confederazione, Cantoni e Comuni chiuderanno il 2020 con larghi deficit e con forti aumenti dei loro debiti. Veniamo quindi alle prospettive. Per il 2021, in uno scenario nel quale il coronavirus dovrebbe scomparire prima dell’autunno, le prospettive dell’economia svizzera sono ottime. Gli istituti di previsione anticipavano, a fine 2020, tassi di crescita del Pil reale, per il 2021, dell’ordine del 3%. Inflazione e disoccupazione dovrebbero restare sotto controllo. Per il settore pubblico si annuncia invece un anno finanziariamente difficile. I
preventivi di Confederazione e Cantoni, approvati negli ultimi mesi del 2020, indicano anche per il 2021 disavanzi di centinaia di milioni. Per fare un solo esempio, il disavanzo del conto di finanziamento della Confederazione sarà superiore al miliardo di franchi. Se rapportata al totale della spesa non si tratta di una grande cifra, ma basterà per invertire la tendenza, in atto da diversi anni, alla diminuzione del debito pubblico della Confederazione. Nel 2021 il debito della stessa ritornerà a superare i 100 miliardi di franchi. Finanziariamente parlando lo stress sarà proporzionalmente ancora maggiore nei Cantoni e in molti Comuni. È facile di conseguenza prevedere che, per quel che riguarda le finanze dello Stato, ci aspettano almeno un paio d’anni di austerità e, purtroppo, anche aumenti del carico fiscale.
zione, è il Paese che ha somministrato più dosi di vaccino in assoluto, anche se il numero di iniezioni pro capite non è altissimo: 0,23 per cento (in crescita). L’unico punto positivo, spesso sottostimato nelle polemiche, è che il processo di vaccinazione non può che andare più veloce e crea un altro effetto virtuoso quando l’immunizzazione comincia a diventare ampia. A chiudere la classifica è la Francia, che si è dotata anche di un «monsieur vaccino», Alain Fischer. C’è un’enorme insofferenza contro il Governo e contro il presidente Emmanuel Macron, però al fondo della questione c’è il fatto che la Francia ha uno Stato molto centralizzato le cui inefficienze si vedono di più quando si deve mettere in atto una campagna capillare sul territorio, lontana cioè dal centro. Ma come spesso accade nel nostro Continente, le critiche più grandi sono rivolte all’Unione europea che, secondo l’accusa, non avrebbe fatto abbastanza – né bene – per dotarci tutti di una strategia vaccinale funzionante. Lentezza, miopia, scommesse
sbagliate: la polemica contro l’Ue si muove lungo le solite linee che hanno a che fare con la gestione di 27 Paesi, per sua natura più lenta e più macchinosa rispetto, per dire, agli Stati Uniti o adesso al Regno unito appena uscito dal consesso europeo. Gli analisti europei ribaltano la questione e chiedono: cosa sarebbe accaduto se invece che l’Ue a gestire la strategia dei vaccini fosse stato ogni singolo Paese? Con tutta probabilità, è la risposta, ci staremmo lamentando molto di più. Invece nonostante gli ostacoli, le negoziazioni e le lentezze fisiologiche, l’Ue è riuscita a firmare sei contratti per quasi due miliardi di dosi: un quantitativo più che sufficiente per vaccinare i suoi 450 milioni di cittadini. Il prezzo pagato dall’Ue è inferiore a quello che le case farmaceutiche hanno negoziato con i singoli Stati, come gli Stati Uniti e il Regno unito. La ratio della ripartizione è ugualitaria: le dosi vengono distribuite pro rata in base alla popolazione, malgrado il fatto che alcuni Paesi siano più pronti di altri con la vaccinazione nazionale.
In più il portafoglio dei vaccini è ampio: 300 milioni di dosi di PfizerBioNTech, 160 milioni di Moderna, 400 milioni di vaccini di AstraZeneca, 300 milioni di Sanofi-Gsk, 400 milioni di Johnson&Johnson. La diversificazione, fatta peraltro in un momento in cui non c’era un vaccino «vincente», contribuisce a ridurre i rischi. Va poi ricordato che, pure se nell’emergenza e nella mancata preparazione ce lo si dimentica, i singoli Paesi hanno partecipato e approvato il negoziato europeo: le scommesse su questo o quel vaccino, per dire, sono state decise tutti insieme e approvate tutti insieme. Oggi poi i problemi che si riscontrano in ogni Paese sono fuori dalle competenze dell’Ue: ogni nazione deve badare alla propria campagna di vaccinazione. Semmai l’Ue sta cercando di dare una mano, chiedendo di costruire nuove fabbriche per la produzione dei vaccino, ribadendo la necessità di formare il personale sanitario e dotarsi di più strutture possibili per la somministrazione. E poi, certo, c’è il Recovery fund.
si spegnesse anche stavolta, non però la speranza di salvare dall’oblio qualcuno dei messaggi messi da parte. Per questo provo a cercare rifugio in questi spazi confidando che la bonarietà del redattore capo tolleri come prima rubrica una manciata di reperti archiviati, un «bonsai» fiorito di battute e pensieri incontrati durante gli ultimi dodici mesi. Avrei voluto iniziare soffermandomi su un tuitt che, chi conosce la mia stazza, avrebbe potuto pensare che fosse mio e non ripreso @ Jonathan Bazzi: «Tutti d’accordo che 80 grammi di pasta sono quelli che assaggiamo mentre è in cottura?». Mi oriento invece su appunti più emblematici di quanto siamo stati costretti a subire con la pandemia, sperando che aiutino a sopportare quanto ancora dovremo affrontare. Il primo è un severissimo monito della pianista portoghese, Maria João Pires, che in ottobre aveva in programma un concerto a Lugano: «Siamo stupidi e quindi andremo verso il disastro. Abbiamo lasciato che certa
gente ci governasse. Tutti si lamentano, però nessuno fa niente. La forza di fare rivoluzioni che avevamo in passato è sparita. Abbiamo paura del virus e questo in certi Paesi è perfetto per chi detiene il potere». Una fotografia in alta definizione del 2020 rimane quella dell’incipit del romanzo di Charles Dickens Le due città, scritto nel 1859: «Era il migliore di tutti i tempi, era il peggiore di tutti i tempi, era il secolo della saggezza, era il secolo della stoltizia, era l’epoca della fede, era l’epoca dell’incredulità, era la stagione della Luce, era la stagione delle tenebre, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione». Ma basta virus. Ancora su Twitter trovo questa magnifica confessione riguardo al telelavoro: «Ho raccontato la mia idea e il capo mi ha detto: “Vedi, Eugenio, tu hai il singolare talento per rendere difficile il facile attraverso l’inutile”» (Eugenio R. Ventimiglia). Un appassionato di meteorologia (Marco P.) in agosto ha invece inviato a Meteo svizzera
questo singolare commento: «Buongiorno, lo sapevate che anagrammando «VIOLENTA TEMPESTA» si ottiene «VENTO, LAMPI, SAETTE»? Cordiali saluti». Per un altro tipo di pioggia, quello degli aiuti inventati dal governo italiano, tra gli «Scartafazz» ho invece archiviato questa mia battuta sempre di attualità: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, ma anche sui bonus». Invece seguendo il dibattito sulla millantata obiettività dei media su un blog francese ho captato questo fulminante giudizio di Jean-Luc Godard: «L’objectivité, c’est 5 minutes pour les juifs et 5 minutes pour Hitler». Concludo con un aforisma di G.B. Shaw: «Sia gli ottimisti che i pessimisti danno il loro apporto alla società, l’ottimista inventando gli aerei, il pessimista i paracadute». Mi suggerisce una parafrasi che spero possa tornare utile per tutti noi: «Sia gli ottimisti che i pessimisti danno il loro apporto alla società, l’ottimista facendosi vaccinare, il pessimista rifiutando». Auguri.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Vaccini: l’Ue non ha fatto così male I lockdown delle feste non hanno portato i risultati sperati, così molti Paesi, a cominciare da Regno unito e Germania, stanno prolungando le misure restrittive per cercare di contenere il contagio del Coronavirus, in tutte le sue nuove varianti (che spaventano più i cittadini degli scienziati, va detto). Intanto sono iniziate le campagne di
Le vaccinazioni in Europa sono iniziate a ritmi diversi. (Getty Images)
vaccinazione in tutta Europa, a ritmi diversi a seconda dei Paesi ma con polemiche più o meno simili riassumibili in: si va troppo lenti. C’è un problema di percezione: nell’emergenza permanente causata dalla pandemia molti Governi si sono scordati di manage expectations, come dicono gli inglesi, cioè di gestire le aspettative delle persone. Per molto tempo la fine della pandemia è stata associata al vaccino e, anche se gli esperti si sono affannati a ripetere che il vaccino non era una bacchetta magica, molti hanno pensato che invece sì, il vaccino era la salvezza immediata e contestuale. Stiamo scoprendo che non è affatto così e che anzi, la gestione della vaccinazione è un lavoro complesso al quale forse ci si poteva preparare con un po’ più di anticipo e precisione. Nelle classifiche europee la Danimarca è il Paese con il tasso più alto di vaccinazione: 0,78 persone vaccinate ogni cento abitanti. La Germania, che ha introdotto un modello molto efficiente dal punto di vista dell’approvvigionamento e della logistica della vaccina-
Zig-Zag di Ovidio Biffi Barcollando tra fine e inizio anno Come sempre, e come già ho avuto modo di spiegare, ogni fine dicembre passo in veloce rassegna gli appunti di una cartella del computer battezzata «Scartafazz», in cui durante l’anno quasi quotidianamente «archivio» (più che altro dei copia-incolla digitali) quanto trovo sul web o sui social media, uno sfarfallio di scritti, immagini e messaggi utili per capire, ricordare o seguire tematiche, vicende o dibattiti. Ho così ritrovato anche l’illusione di vederle riunite non in un articolo (ci vorrebbero due o tre paginate) ma addirittura in una pubblicazione, pur sapendo di non avere né talento né forza né mezzi per una simile impresa. A suggerirmi la missione impossibile quest’anno c’erano anche alcuni libri della mia biblioteca salvati dalla disintegrazione (centinaia di testi destinati alle bancarelle di un ente benefico, «Tutto a 1 euro», l’epitaffio per quelli che sono stati miei tesori). Il salvataggio si è infatti esteso anche ad alcuni libricini praticamente introva-
bili. Difficile che qualcuno conosca o conservi L’elogio del cretino affettuoso di Luigi Compagnone, oppure O pio pellicano di Fulco Pratesi. Men che meno due libretti di Carlo Ferrario (Alfabeto comasco e Urbietorbi), le raccolte di aforismi di Carlo Liberto, il saggio I vecchi invisibili di Valentino Bompiani, I giochi dei grandi di Giampaolo Dossena o il minuscolo (8 x 4 cm) Mi chiamo Indro, ovviamente di Montanelli. Sono quasi tutti fuori commercio, alcuni recano dediche lasciate dagli autori che collaboravano o mi visitavano quando ero all’«Azione». Messi insieme stanno in una mano, tanto sono piccoli. E potrebbero essere definiti libri bonsai. Ecco, ogni fine anno la mia illusione era quella di inventare un «bonsai» cartaceo. La cartella «Scartafazz 2020» era zeppa di ricordi di un anno che per molti di noi è stato il più triste, forse anche il più brutto degli ultimi decenni. Inevitabile, vista la ripetitività delle argomentazioni ritrovate, che il sogno di un libricino
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Cultura e Spettacoli A musei chiusi Oetzi, la celebre mummia del Similaun, ora protagonista di un affascinante tour virtuale
«Disinvolt e pien de talent» Un ricordo del poeta milanese Carlo Porta a duecento anni dalla sua prematura scomparsa pagina 25
Nel mondo del Dalai Lama Le ricche e istruttive conversazioni di Pietro Verni con il Dalai Lama raccolte nella nuova edizione di La visione interiore pagina 26
pagina 24
Minimal Cave Musica Dalla pandemia un miracolo
inatteso: la straziante intensità della minimalista esibizione «in solitaria» di Nick Cave come riflessione sul dolore
Benedicta Froelich Come si sa, l’emergenza causata dal rapido propagarsi del Covid-19 e il conseguente lockdown primaverile hanno purtroppo colpito con particolare violenza il mondo dello spettacolo, tanto che nemmeno la musica rock di alto profilo ne è uscita indenne. Per molti artisti questa sorta di «clausura forzata» ha funto da spinta nella ricerca di una nuova concezione della musica dal vivo. Nell’ambito della scena angloamericana ciò ha condotto alla nascita di alcune gemme inattese, la più luminosa delle quali viene nientemeno che dall’australiano Nick Cave: un artista che, ben prima della pandemia, si era già trovato a dover sublimare un inferno personale (la morte del figlio quindicenne Arthur) attraverso un capolavoro assoluto come l’album Ghosteen, pubblicato nell’ottobre 2019. Oggi Cave ripete il miracolo, sopperendo all’annullamento delle tournée del 2020 tramite un esperimento unico quanto struggente e facendo così di un limite un insospettabile punto di forza. La scorsa estate Nick si è infatti presentato al pubblico dal vittoriano e squisitamente old-fashioned Alexandra Palace di Londra per un’esibizione in solitaria, filmata un mese prima da Robbie Ryan (in un solo take!) e trasmessa in streaming su YouTube il 23 luglio. Un concerto senza musicisti né pubblico, sullo sfondo di un teatro spettralmente deserto, in cui l’unico elemento a spezzare la silenziosa vastità della sala vuota era lo stesso Cave, vestito nel solito completo nero d’ordinanza e seduto al pianoforte a coda al centro dello spazio. Un setting quasi crepuscolare che ha conferito all’intero concerto l’atmosfera di una funzione sacra: un vero e proprio rituale che, originariamente riservato ai fedelissimi presenti online, è
poi divenuto un film (uscito nei cinema lo scorso novembre) e, ora, anche un album dal vivo, entrambi dal titolo Idiot Prayer: Nick Cave Alone At Alexandra Palace. E sebbene il CD non permetta di apprezzare l’importante componente visiva della performance – ovvero l’elegante maestosità dell’Alexandra Palace, ammantato da un silenzio quasi surreale, spezzato soltanto dalla presenza solenne e quasi immobile di Cave e del suo piano – resta il fatto che, più ancora del setting minimalista e dell’ambientazione, a lasciare davvero sconcertati e mesmerizzati è soprattutto la struggente intensità dell’interpretazione: un’intensità che va ben oltre quanto ci si potrebbe aspettare da un concerto per sola voce e pianoforte. Non si tratta soltanto del fatto che la mancanza di accompagnamento musicale e la totale assenza di pubblico donano all’esibizione un’innegabile solennità; Cave regala infatti una performance assolutamente minimalista, scevra da qualsiasi orpello o lungaggine (nemmeno una parola a riempire le pause tra un brano e l’altro), in cui il trasporto e concentrazione evidenti nella presenza e nel contegno stessi dell’artista portano ogni brano a picchi d’intensità quasi paradossali. L’atmosfera fortemente sacrale che ne nasce pervade e ammanta così l’intera serata, spingendo lo spettatore a trattenere il respiro mentre Nick inanella una meraviglia dietro l’altra: brani come Far From Me, Nobody’s Baby Now, Jubilee Street e Higgs Boson Blues acquistano un’urgenza e una tensione ben superiori rispetto alle registrazioni originali, mentre la storica ballata (Are You) The One That I’ve Been Looking For offre uno dei rari momenti in cui l’artista «abbassa la guardia», abbandonandosi a una risata liberatoria dopo aver sbagliato la nota di chiusura.
Nick Cave è nato a Warracknabeal, Australia, nel 1957. (Keystone)
Diviene così evidente all’ascoltatore come, paradossalmente, la tragedia personale vissuta da Cave l’abbia portato a trascendere il dolore attraverso una rinnovata, ancor più forte spinta creativa, stavolta spogliata di qualsiasi orpello o artificio artistico. La voce stessa del rocker, a partire dal timbro e dall’intonazione, suona infatti differente, pervasa da una struggente consapevolezza e un dolore lancinante, talmente intensi da non apparire neppure di questo mondo. L’ascolto ne risulta così a tratti straziante, come nel caso di pezzi dagli accenti mistici (si vedano lo splendido Brompton Oratory e la title track) o della traccia conclusiva, Galleon Ship: un’allegoria del trapasso, visto attraverso la lente del disperato affetto verso una figura amata, con la quale la voce narrante desidererebbe potersi infine
involare lontano, a bordo, appunto, di un metafisico galeone celeste («perché a quanto sembra non siamo soli, così tanti altri passeggeri in cielo / nelle loro vele i venti del desiderio, tutti in cerca dell’altro versante»): e non si può rimanere indifferenti nell’udire la voce di Cave assumere toni quasi disperati nel suo ansioso tendersi verso colui che si è perduto, forse per sempre. L’intera esibizione si muove così lungo questi binari, alternandosi tra gli inevitabili quanto legittimi aneliti di speranza nel futuro e la nostalgia verso un passato più sereno e semplice; la mediazione tra questi due sentimenti contrastanti porta Nick a un’accettazione quasi cristiana del proprio destino e all’implicita constatazione di come il presente, per quanto difficile, rivesta un’importanza cruciale. Il tutto espresso senza nessun autocompiaci-
mento o retorica, cosicché i molteplici riferimenti al Nuovo Testamento e alla figura di Cristo – quella magistrale combinazione di sacro e profano che da sempre contraddistingue la produzione di Cave – assumono qui un nuovo e più forte significato e rilevanza. Proprio in questo, in effetti, risiede il senso più intimo e profondo di Idiot Prayer, esemplificato dal fatto che, nelle mani di Nick, perfino una scelta audace come quella dell’esecuzione per sola voce e pianoforte diventa mezzo per la creazione di un vero e proprio capolavoro, inaspettato, e per questo ancor più prezioso, soprattutto in momenti difficili come questi. Un’ulteriore dimostrazione della profonda, sacra benedizione che la vera musica può rappresentare in qualsiasi circostanza, almeno nelle mani di maestri assoluti come Cave.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Cultura e Spettacoli
Le sette vite di ötzi
Musei In tempi di pandemia ci si inventano visite alternative
La lingua batte Certi modi di dire hanno
una doppia vita che può trarci in inganno. E magari anche strapparci un sorriso
Marco Horat I musei fanno fatica a restare aperti, anche se, escludendo quelli abitualmente più affollati, lo potrebbero tranquillamente rimanere: in un museo non si tocca nulla e si può circolare di sala in sala tenendosi a distanza; basta che i visitatori entrino in modo scaglionato e sia dato loro un timing preciso. Ma per seguire le indicazioni delle autorità anche loro hanno chiuso i battenti. Per molti però questo non ha voluto dire cessare ogni attività di divulgazione; anzi la difficoltà è stata uno stimolo a trovare soluzioni originali, oggi possibili grazie alla tecnologia. La scelta più seguita è stata la visita virtuale via internet con la quale si può ripercorrere un’esposizione solo cliccando sul mouse del pc per soffermarsi sulle singole vetrine. Naturalmente non è la stessa cosa che vedere con i propri occhi, ma in mancanza di meglio può funzionare. Il museo archeologico dell’Alto Adige, quello creato nel 1998 attorno alla mummia più famosa scoperta nel XX secolo, ha voluto fare un ulteriore passo in avanti per ricordare al pubblico che, anche in tempi grami come quelli attuali, la cultura non è un bene superfluo. Offerta rivolta prima di tutto alle scuole. Lo STAM (Südtiroler Archäologiemuseum) è da anni molto attivo nella promozione di Ötzi, l’Uomo venuto dal ghiaccio, quello del Similaun, e reso per così dire a una seconda vita più di 5000 anni dopo la morte unitamente al suo ricco corredo, mediante studi, ricerche che utilizzano tecniche d’avanguardia (si è perfino potuta ricrearne la possibile voce), ricostruzioni fisionomiche, genetiche e ambientali che hanno coinvolto specialisti e università di mezzo mondo. I risultati sono puntualmente divulgati, così da rendere la visita della «casa di Ötzi» sempre interessante e sorprendente, anno dopo anno. Ora cosa ci propone in Museo di Bolzano? Lo spiega Giuliana Plotegher, Responsabile mediatrice culturale dello STAM: «L’attività che proponiamo in questo momento di chiusura (ma che potrebbe anche continuare in futuro, se avrà successo) si compone di due parti. La prima è un video di circa 15 minuti in cui una guida presenta il museo e i suoi contenuti mettendo il focus su Ötzi e i reperti a esso legati (abiti, armi, strumenti, ecc). Nel video rivolto alle scuole elementari la guida è accompa-
Inciampare sui proverbi
Laila Meroni Petrantoni
Una ricostruzione dell’aspetto della celebre mummia Oetzi risalente al 2011. (Keystone)
gnata da un bambino che visita il museo così chi guarda da casa può immedesimarsi con il piccolo protagonista. Al video, che vuole essere uno stimolo alla discussione e che andrebbe quindi visto con un certo anticipo, segue un collegamento in diretta con una guida del museo tramite la piattaforma Microsoft Teams, della durata di circa 40 minuti, in cui la classe può fare tutte le domande suscitate dal video e chiarire i temi rimasti in sospeso. Durante la chat è possibile mostrare in diretta fotografie e soprattutto gli oggetti che Ötzi portava con sé al momento della morte avvenuta per un colpo di freccia nella schiena: le sue scarpe foderate con fieno adatte quindi a percorsi alpini in-
nevati, i pantaloni, la tunica, il berretto e il mantello, le armi (arco, frecce e faretra, un pugnale, un’ascia di bronzo), strumenti per accendere il fuoco e curare le ferite, compresi i famosi funghi medicinali». L’offerta è valida per tutti gli ordini di scuole (sono già arrivate richieste anche dagli Stati Uniti) e costa circa 40 franchi per ogni classe; la medesima attività è anche possibile per privati o gruppi di appassionati di archeologia. Basta iscriversi tramite il sito del museo e prendere un appuntamento.
Tanti alunni si irrigidiscono quando si nomina la matematica. Eppure se si riesce a penetrare la logica di questa materia scolastica si scopre che la danza dei numeri è molto digeribile. In matematica le eccezioni sono rare, mentre sono ben presenti quando si studia una lingua. Della matematica ci interessa una regola: la proprietà detta commutativa della moltiplicazione, che fa sì che 2x3 oppure 3x2 facciano ugualmente 6. Ma se dalla lezione di «mate» ci spostiamo a quella di «ita», le cose si complicano. Quante volte infatti, per esprimere l’idea di un evento che si produce spesso, si sente dire «questo accade ogni tre per due». Sia chiaro: il «3 per 2» è comodo quando si va a fare la spesa perché permette di portarsi a casa gratis il terzo pezzo di un determinato articolo, ma non ha alcun senso come espressione equivalente a «quasi sempre». La forma corretta – l’unica – è «ogni due per tre», ossia «due volte su tre». Poco convinti? Invertite i fattori come in una moltiplicazione e capirete che dire «tre volte su due» non ha davvero alcun senso. Che birbanti, questi modi di dire! O forse siamo noi a cadere facilmente nella trappola. Per citare un altro esempio restiamo indirettamente nel mondo dei numeri: prendiamo l’espressione «fare il terzo grado», ossia sottoporre qualcuno a una serie di domande incalzante, come accade durante un interrogatorio a un sospetto criminale. Esattamente non è chiaro da cosa derivi (per alcuni sarebbe da ricondurre alle
Informazioni
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Il santo varrà poi la candela? (Wikipedia)
raffiche inquisitorie, spesso condite da torture, cui venivano sottoposti attorno al 1300 i templari, il cui terzo grado gerarchico corrispondeva all’alta carica di «maestro»). Non di rado però spunta una certa confusione: «mi ha fatto il quarto grado». Il sospetto è che ci metta lo zampino una popolare trasmissione televisiva italiana che si picca di fare chiarezza sui crimini insoluti. Vocazione forse lodevole, tuttavia il rischio corso da questo genere di format che sbatte davanti alle telecamere i drammi umani è di esagerare; e allora, si sa, «il troppo storpia»… O «il troppo stroppia»? Ahimè, quest’ultimo è il modo di dire su cui spesso si è incartata la mia lingua, nel tentativo di mascherare balbettando l’insicurezza su quale sia la forma corretta di questa espressione. «[T]utti i vocabolari dell’italiano contemporaneo – spiega l’Accademia della Crusca – mettono a lemma la voce storpiare e segnalano stroppiare come variante popolare», dove stroppia suona comodamente simile a troppo. Visto che la forma popolare è la più diffusa, risulta la più corretta «perché rispetta la natura dei proverbi che esprimono sempre la ‘voce del popolo’», precisano Angela Frati e Stefania Iannizzotto per l’Accademia. Meno male: la cultura popolare assolve dalla confusione linguistica. A proposito di assoluzione e di pratiche religiose: sempre secondo il popolo ci sono dei santi un po’ sordi alle preghiere, tanto che invocarli non vale il costo di accender loro un cero. Se «quel santo non vale la candela», sopravvive tuttavia nella lingua anche il suo gemello laico. In «il gioco non vale la candela», il lume non tenta l’ascesa ai cieli, bensì in passato serviva molto più prosaicamente ai giocatori di carte per scommettere ben oltre il calar del sole. Le candele erano preziose, tanto che a volte il loro costo superava la posta in gioco: da qui il consiglio a lasciar perdere se il risultato rischia di essere scarso. Chissà se la versione «profana» è nata per una storpiatura dell’originale «religioso»? Quanto al santo pigro, un certo miracolo lo ha fatto, visto che il suo proverbio sopravvive nel nostro oggi, nell’era dell’elettricità. Intrigante, la doppia vita di certi proverbi e modi di dire. Fino alla bara, sempre s’impara.
A tavola? Non più di sette
Massimario classico tra ieri e oggi Seppur per motivi diversi, anche nell’antichità si cercava di regolamentare
il numero degli invitati a tavola Elio Marinoni Septem convivium, novem convicium «In sette è un banchetto, in nove una gazzarra». (Scriptores Historiae Augustae, Vita di Vero, 5, 1) Aggiungi un posto a tavola recitava il titolo di una commedia musicale di Garinei e Giovannini (1974). Ora, in tempi di pandemia, i governi (non solo quello italiano) ci hanno esortato a togliere uno o più posti dalla tavola del cenone (o del pranzo) di Natale e di fine anno, limitando a poche unità il numero dei commensali. Queste raccomandazioni hanno provocato una pletora di reazioni indignate da parte di chi, strenuo difensore delle libertà individuali, asserisce che lo Stato non può legiferare sui comportamenti da tenere nelle private abitazioni o in-
viarvi le forze di polizia. Eppure, non sarebbe la prima volta nella storia che l’autorità tenta di disciplinare le modalità dei conviti. Da un passo dei Saturnalia di Macrobio sappiamo che nel 182 a.C. il tribuno della plebe Gaio Orchio fece approvare una legge che fissava il numero massimo dei partecipanti a un banchetto. Ecco cosa scrive in proposito Macrobio: «Prima fra tutte le leggi sulle cene fu sottoposta al popolo la legge Orchia, proposta, su parere del senato, dal tribuno della plebe Gaio Orchio tre anni dopo che Catone era stato censore. […] In sostanza essa prescriveva un numero massimo di convitati. Ed è questa la legge di cui poi strillava Catone nelle sue orazioni, poiché si preoccupava che fossero invitati a cena in numero maggiore di quanto essa prescriveva» (Saturnalia, III, 17, 2-3, ed. Von Jan). Va tuttavia precisato che la legge Orchia non era stata
dettata da un’emergenza sanitaria; si trattava invece di una legge sumptuaria, intesa cioè a porre un freno al lusso privato: una legge di austerity, direm-
Pittura murale da Pompei (I sec. d.C.) raffigurante un banchetto. (Wikipedia)
mo noi, sul tipo della ben più famosa lex Oppia, che nel 215 a.C. – nel pieno deflagrare della seconda guerra punica, come dice Livio – aveva limitato il lusso femminile. In ogni caso, varie sono le fonti antiche che indicano come ideale un numero piuttosto ristretto di partecipanti a un convito. Se nell’aforisma citato in epigrafe (singolarmente riecheggiato dal proverbio tedesco Sieben Gäste ein Mahl, neun eine Qual, «sette ospiti un pranzo, nove un martirio») il numero ideale è sette, secondo un passo del poemetto Ephemeris di Decimo Magno Ausonio, che ripropone lo stesso gioco di parole convivium / convicium, il massimo è sei, compreso il padrone di casa: Sex convivium / cum rege iustum; si super convicium est, «In sei, compreso il padrone di casa, è un banchetto giusto; di più, è una gazzarra» (Ephemeris, 5, 5-6).
Della questione si erano del resto già occupati in Grecia Archestrato di Gela (IV sec. a.C.), che nel suo poema Hedypatheia (La dolce vita) aveva indicato in cinque il numero ideale dei convitati (fr. 61, 3-4); e a Roma l’erudito Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C.), che in una delle sue satire affermava che gli invitati non devono essere né meno delle Grazie, né più delle Muse, ossia da tre a nove, chiosando che «non conviene essere in molti, perché la folla perlopiù è turbolenta» (Satire Menippee, 333 Bücherer = Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIII, 11). Dunque, se dobbiamo credere alle fonti citate, non solo l’emergenza sanitaria, ma anche esigenze di budget e ragioni di bon ton dovrebbero continuare a consigliarci, quanto meno per il futuro prossimo, di riunire attorno alla tavola un numero assai limitato di persone.
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Cultura e Spettacoli Giuseppe Bossi, Autoritratto con Gaetano Cattaneo, Carlo Porta e Giuseppe Taverna (Cameretta portiana), 1809. (Milano, Pinacoteca di Brera)
Due sorelle, là dove le avevamo lasciate Narrativa In Borgo Sud Donatella
Di Pietrantonio continua la storia de L’Arminuta Laura Marzi
Carlo Porta, un’eredità che non muore Letteratura Ricorrono i duecento anni dalla scomparsa
del poeta milanese Federica Alziati
«L’è ona brutta giornada scura scura, / El pioeuv a la roversa, el tira vent», scriveva il poeta milanese Tommaso Grossi, dando inizio al suo componimento In morte di Carlo Porta, omaggio commosso all’amico fraterno, prematuramente scomparso il 5 gennaio del 1821: «Pover Porta! […] / scior, gioven, disinvolt, pien de talent, / ben veduu al mond de tutt i galantomen, / stimaa de tutta la pu brava gent» (vv. 19-22). Difficile immaginare un ritratto altrettanto fedele del più grande autore meneghino, che riservò il meglio della propria intelligenza e sensibilità all’intima cerchia dei suoi amici e sodali, e consacrò un talento poetico fuori del comune a ritrarre la realtà umana della sua città, ancora pressoché racchiusa tra la contrada del Monte (poi Monte Napoleone, all’epoca scevra di vetrine abbaglianti) e via Brera, tra il Duomo, il Broletto e la piazza dei Mercanti.
Nella «Cameretta» di casa Porta, al Monte, si riunivano regolarmente gli intellettuali di spicco dell’epoca Abitavano o gravitavano tutti lì, in quel gomitolo di strade, gli intellettuali e poeti che si radunavano a cadenza regolare nella celebre «Cameretta» di casa Porta, al Monte: Tommaso Grossi, appunto, ma anche Giovanni Torti, Gaetano Cattaneo, Luigi Rossari e poi Ermes Visconti, confidente di Alessandro Manzoni, quest’ultimo domiciliato poco lontano, in una palazzina di via del Morone. Dapprima l’appuntamento fisso era per la domenica, ma dal 1817 ci si ritrovò ogni mercoledì e sabato, a legger versi e commentare scritti e fatti; a immaginare un futuro diverso, all’indomani della Restaurazione, per Milano e per l’Italia, per la letteratura, i letterati e il pubblico dei lettori. Non si può comprendere la rivoluzione let-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
teraria del Romanticismo italiano senza guardare all’epicentro della scena milanese – dai fascicoli della rivista «Il Conciliatore» alle opere di Manzoni; e non si può capire l’esperienza milanese senza sforzarsi di penetrare nel vivo del dibattito che animava la Cameretta, senza provare ad assaporare l’ispirazione sincera e il realismo minuto delle poesie dialettali del Porta. Lasciando al figlio Giuseppe una raccolta autografa dei propri versi, l’autore confidava di aver voluto «provare se il dialetto nostro poteva esso pure far mostra di alcune di quelle veneri, che furono fin or credute intangibile patrimonio di linguaggi più generali ed accetti» (si cita, qui e oltre, dall’edizione integrale delle Poesie procurata da Dante Isella). Ma l’eredità poetica di Carlo Porta non si limitava a dimostrare l’efficacia espressiva del vernacolo milanese: sfruttando l’immediatezza della parlata dialettale mostrava piuttosto alla letteratura tutta – locale o nazionale, in lingua o vernacolare – la possibilità, o meglio la necessità di scrollarsi di dosso i retaggi del classicismo, per mettere in risalto ogni espressione dell’esistenza e dar voce alle diverse figure umane di cui sono popolate le strade di qualunque città. La lenta, faticosa apparizione degli umili protagonisti dei Promessi sposi o della famiglia Malavoglia fanno seguito al debutto su una scena di prestigio dei personaggi portiani, eredi nobilitati di una tradizione comico-realistica per secoli giudicata «minore»: Meneghin, «poetta» improvvisato al tavolo dell’osteria; lo sfortunato Giovannin Bongee, sempre intento a sviscerare le proprie Desgrazzi, e a illudersi di ottenere prima o poi dalla forza pubblica «la giusta giustizia ch’han de fann» (Olter desgrazzi, v. 346); la Ninetta del Verzee, che rivela con disinvoltura la propria tragedia di donna traviata; il povero Marchionn di gamb avert, col suo Lament per le pene d’amore inflittegli dalla Tetton; e persino l’aristocratica Donna Fabia Fabron de Fabrian, che eleva giaculatorie miste di italiano e dialetto, convinta com’è «che sia
prossima assai la fin del mond, / chè vedo cose d’una tal natura, / d’una natura tal, che non ponn dars / che in un mondo assai prossim a disfas» (Offerta a Dio, vv. 9-12). Se nella scorrevolezza delle sestine o delle ottave dei poemetti guadagna per lo più spazio e mordente la testimonianza diretta dei caratteri d’invenzione, non mancano d’altro canto le occasioni in cui il poeta si concede la prima persona, intervenendo con consapevolezza e ironia nel vivo del dibattito letterario e dimostrando che «Carlo Porta poetta Ambrosian / […] el gh’ha minga el coo balzan» (sonetto 48, vv. 1-4). È il caso dei pungenti sonetti contro il classicista Pietro Giordani, del ritratto delle Muse come «on mucc de sabett vuna pù veggia / de l’oltra» che figura nei versi Per el matrimoni del sur Cont Don Gabriell Verr (72-73), o delle lucide teorizzazioni del Romanticismo, in cui si denuncia a gran voce come per mezzo delle regole canoniche «se streng, se imbruga l’imaginazion, / e el camp de la natura inscì spazios / el va tutt a fornì in d’on guss de nos» (vv. 184-186). Fedele alla sua «Musa nostrana» e al suo «lenguagg s’cett e leal» (componimento 64, vv. 1-5), Carlo Porta non avrebbe mai smarrito il suo timbro onesto e un’umiltà di sguardo capace di posarsi sulle piccole e grandi miserie dell’esistenza quotidiana, sulle ingiustizie minime o eclatanti della società del suo e di ogni tempo. Con la stessa umiltà, avrebbe dato prova di non considerare la poesia un esercizio di vanità, bensì un impegno virtuoso: «Io non pretendo […] di esibirti un modello di poesia da dovere, o potere imitare», scrisse al figlio nel consegnargli i suoi versi, «pretendo bensì di esserti esempio in ciò, che fui nemico in ogni tempo dell’ozio e che ebbi dall’amor delle lettere […] additata una strada sicura per sottrarmi alle di lui insidie e fuggirlo». Con la medesima semplicità, al contempo sobria e colma d’affetto, lo avrebbe salutato per l’ultima volta Tommaso Grossi, chiudendo il ricordo dal quale abbiamo preso le mosse: «Basta, Carlo, on quai dì se vedaremm».
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Esistono famiglie che non lasciano scampo, destini genetici che scorrono nelle vene. In fondo è questo ciò che scrive Donatella Di Pietrantonio nel suo ultimo romanzo Borgo Sud, edito da Einaudi. Si tratta, in effetti, della cifra narrativa di tutti i suoi romanzi, da Mia madre è un fiume (Elliot, 2010) fino a L’Arminuta (Einaudi, 2017), con cui ha vinto il Premio Campiello. L’Arminuta, che in dialetto abruzzese significa: «quella che è tornata» raccontava di una ragazzina data «in affidamento» a una parente senza figli, che a un certo punto della sua vita borghese deve fare ritorno nella miseria della famiglia d’origine. Il dolore e l’alienazione sono profondi, ma in quella casa insieme alla bruttezza di una vita misera e ignorante, ritrova Adriana, sua sorella. La storia di Borgo Sud riprende da lì, dalla vita adulta di quelle due donne molto diverse, che portano nella carne un destino di solitudine. Ed è come se la loro sorellanza, la necessità che hanno di condividere la vita, di sostenersi, di raccontarsi e ridere, combattesse costantemente con la differenza di carattere e di vita che le rende così incompatibili. All’inizio di questa storia Adriana irrompe con un bambino di qualche mese in braccio nell’appartamento in cui la protagonista, sua sorella, vive da quando ha sposato l’uomo che ama: Piero, il figlio di una delle famiglie più ricche di Pescara. Nessuno sapeva che avesse avuto un figlio e nemmeno si sa chi sia il padre: non c’è modo di convincerla a raccontare da cosa scappi né perché i suoi capelli siano stati tagliati a sfregio. È il primo ricordo che la voce narrante racconta dopo essere stata richiamata d’urgenza in Italia: insegna Letteratura Italiana all’Università di Grenoble. Scopriremo solo verso la fine quale sia stata la ragione di quel rientro improvviso, come se Di Pietrantonio ci stesse raccontando non solo la storia di due donne, ma soprattutto una catena di misteri familiari. Un altro dei protagonisti del romanzo è il mare, che si vede dall’appartamento di lusso che i genitori di Piero hanno comprato per la coppia di sposi:
del suo odore, della salsedine, del sentimento e dell’aria che lascia addosso troviamo tracce in moltissime pagine del romanzo. Per Rafael e tutti i pescatori del Borgo di Pescara che ogni notte ci vanno a procurarsi la propria sopravvivenza, esso è «il pericolo». Adriana, innamorata di Rafael, al mare ci andrà per cercarlo, per aiutarlo e per maledire quelli che gli hanno preso la barca come pegno per tutti i debiti che lui non paga. Soprattutto nelle pagine dedicate al borgo dei pescatori, alle loro storie, è forte il richiamo a I malavoglia e non solo perché anche il capolavoro di Verga raccontava di una famiglia di marinai, ma perché come Verga, l’autrice di Borgo Sud scrive di destini che non possono essere cambiati, di una realtà che resiste identica e non si fa scalfire dal sogno, così fragile, di una società in ascesa, di una ricchezza alla portata di tutti. È questa in fondo la visione che guida tutto il romanzo: le due sorelle sono così diverse perché una delle due ha potuto godere dell’aiuto economico e dell’educazione di una famiglia borghese e l’altra no. Il sangue però sembra non riconoscere l’alfabeto e non cambia direzione, nonostante gli anni di studio, il dottorato, la cattedra: «c’era qualcosa in me che chiamava gli abbandoni». A unire Adriana e sua sorella, nonostante le differenze così profonde, è una matrice comune, una linea genealogica troppo chiara. Per loro in qualche modo non c’è scampo alla sofferenza perché non sono state abbastanza amate e neanche lo studio, la cultura possono sopperire a questa mancanza. È quando le due cose si combinano, quando l’affetto e la cura di chi mette al mondo dei figli si unisce a una educazione alla conoscenza, che diventa possibile allevare persone migliori, soprattutto libere davvero dalla condanna di un destino sociale. Questo è il messaggio dell’ultimo tassello della storia della famiglia proletaria abruzzese protagonista dell’opera di Di Pietrantonio. E questa pare essere proprio la verità. Bibliografia
Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi, 2020, pp. 168.
La copertina del nuovo libro di Donatella Di Pietrantonio. Tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Cultura e Spettacoli
Nella luce del Dalai Lama
Incontri A colloquio con Pietro Verni, unico giornalista italiano autorizzato a scrivere
una biografia sul Dalai Lama Eliana Bernasconi Sua Santità il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale del popolo tibetano, preferisce definirsi un semplice monaco. Ha compiuto 85 anni il 6 luglio scorso; nato nel Tibet nord orientale da una famiglia di agricoltori, all’età di 2 anni viene riconosciuto come la reincarnazione del XIII Dalai Lama Thubten Gyatso. A seguito dell’invasione cinese del 1959 è costretto all’esilio a Dharamsala, nella vallata di Kangra, vicino ai primi contrafforti himalayani, nel nord dell’India, dove vive tuttora. Per il grande prestigio della sua persona, punto di orientamento per il dialogo interreligioso, per la collaborazione fra monaci buddisti e scienziati di fama mondiale che da sempre promuove, ha ricevuto continui riconoscimenti in tutto il mondo. Nei suoi discorsi ha anche detto che gli occidentali non dovrebbero rinunciare alla religione in cui sono nati. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel. È recentemente uscito La visione interiore, conversazioni con Piero Verni, nuova edizione aggiornata di un testo pubblicato negli anni 90 per le edizioni Red. Raccoglie una serie di colloqui privati che nel corso degli anni il Dalai Lama ha concesso a Piero Verni. Giornalista, scrittore e documentarista, da oltre 30 anni Piero Verni viaggia, studia e compie ricerche in India e Tibet, godendo dell’amicizia del Dalai Lama. Si tratta dell’unico autore italiano ad averne pubblicato una biografia autorizzata (Edizioni Jaca Book). Domande e risposte di ammirevole chiarezza suddivise per temi in questo scorrevole testo introducono il lettore ai molteplici aspetti del buddismo tibetano detto Dharma, o dottrina buddista. In una lunga intervista di piacevole lettura, guidati dalle vive parole del Dalai Lama, possiamo avvicinare e soprattutto comprendere fondamentali temi spirituali, etici, filosofici e scientifici. Piero Verni, ci descriva il suo libro.
È un tentativo di fornire al lettore un panorama spero esauriente anche se sintetico, del pensiero e del lavoro di Sua Santità, un’introduzione a quella che senza retorica possiamo considerare una delle più grandi figure del XX e XXI secolo. Come tutte le persone di grande cultura e conoscenza, il Dalai Lama si spiega in maniera esaustiva ma semplice, è facile seguirlo anche quando parla dei concetti più alti e degli orizzonti sconfinati della filosofia e psicologia buddiste. Ho cercato di fare buon uso delle risposte dirette, argute,
Il 14esimo Dalai Lama (terzo da sin.) insieme alla madre e a fratelli e sorelle in un’immagine scattata in India nel 1956. (Keystone)
sincere ed efficaci che «Kundun», come lo chiamano i tibetani, ha sempre dato alle mie domande, anche alle più ingenue e banali, con un linguaggio immediato, fatto di lealtà e candore. Da decenni Lei ha con il Dalai Lama una assidua frequentazione: come è, visto da vicino?
Vorrei sottolineare la sua capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore: dopo le prime domande che gli rivolgi ti sembra di parlare a un vecchio amico che conosci da sempre. Ho avuto la fortuna di poterlo incontrare in molti luoghi e contesti diversi come l’India, la regione himalayana, la Francia, la Germania, la Norvegia e naturalmente anche l’Italia. Ogni volta egli sa riprendere il filo di un discorso interrotto con tutti coloro che hanno avuto a che fare privatamente con lui, ti riconosce immediatamente, ti chiede come va il lavoro. C’è un termine, nel Buddismo tibetano, per definire il maestro che ci indica il sentiero: «amico spirituale», questo è Tenzin Gyatso. Il XIV Dalai Lama del Tibet è un grande amico spirituale di tutti coloro che incontra.
Come noto, egli è costretto a vivere in esilio in seguito all’occupazione cinese; siamo in un momento
altamente drammatico nella storia della cultura del Tibet, eppure nel libro il Dalai Lama ci parla di etica, di «politica della gentilezza». Cosa intende?
Sintetizzando al massimo, intende far comprendere che le ragioni del dialogo, della reciproca comprensione, della volontà di vedere le differenze come un arricchimento e non come un ostacolo, dovrebbero essere alla base della comunicazione tra gli individui, le comunità e gli Stati. E ovviamente applica tutto questo alla battaglia non violenta che dal 1950 combatte per sostenere le ragioni del martoriato popolo tibetano.
Nel libro si toccano i temi della ricerca scientifica, della fisica quantistica, di energia e materia: a che livello se ne occupa il Dalai Lama?
Nell’ottobre del 1987 incontrò nella sua residenza indiana di Mac Leod Ganj un gruppo di ricercatori occidentali coordinato dal neuroscienziato e biologo Francesco Varela (1946-2001). Per qualche giorno ascoltò l’esposizione delle teorie scientifiche moderne, tra cui appunto la fisica dei «quanti» e a sua volta spiegò i termini essenziali del pensiero e della filosofia buddista.
Fu un incontro estremamente fecondo, seguito da molti altri che videro la partecipazione di alcuni fra i più noti scienziati contemporanei e gettò le basi per la nascita del Mind&Life Institute, oggi uno dei principali luoghi in cui la ricerca scientifica si confronta con le tradizioni spirituali e la pratica contemplativa (mindandlife.org).
Nei suoi discorsi il Dalai Lama ha affermato che gli occidentali fanno male a trascurare o rinunciare alla religione in cui sono nati. Il Dalai Lama è venerato come «reincarnazione del Bodhisattva della compassione universale»: è possibile comprendere questo per noi occidentali?
È uno degli aspetti più difficili da avvicinare per gli occidentali, ma non impossibile. Alla tradizione dei «tulku» (i maestri che rinunciano alla Liberazione continuando a reincarnarsi sulla terra per aiutare con la loro saggezza tutti gli esseri senzienti) ho dedicato uno dei miei ultimi libri (Tulku, le incarnazioni mistiche del Tibet, NdR). Certo per una società come quella occidentale contemporanea, che per il post mortem ipotizza o la triade cattolica Inferno-Purgatorio-Paradiso o, in alternativa, il nulla della cultura
atea, accettare questo aspetto della civiltà tibetana non è semplice. Però se si approfondisce l’argomento con mente aperta e disponibile, potranno esserci delle sorprese. Sorprese positive.
Ricorda un momento significativo vissuto vicino a lui?
Sicuramente la consegna del Nobel a Oslo nel 1989. L’Ufficio privato del Dalai Lama aveva cortesemente invitato il sottoscritto alla cerimonia di conferimento. Nel discorso di accettazione il Dalai Lama disse che accoglieva il prestigioso riconoscimento «a nome del popolo tibetano e di tutti coloro che sono sfruttati e privi delle libertà fondamentali». Tra gli invitati c’erano, ovviamente, anche molti tibetani, e come scrissi nell’ultimo capitolo della prima edizione (1990) della mia Biografia di Sua Santità: «Gli occhi dei tibetani sono lucidi di commozione. Dopo aver versato negli ultimi 40 anni tante lacrime di dolore finalmente a Oslo questo popolo piange di gioia». Bibliografia
Dalai Lama. La visione interiore. Conversazioni con Piero Verni, Nalanda edizioni 2020. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 gennaio 2021 • N. 02
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Cinque anziani per ogni bambino Caro nipote, per svolgere un compito a casa durante le vacanze invernali mi chiedi qual è stato il più bel Natale della mia vita. Ebbene, caro Enea, tuo bisnonno non ha dubbi: è stato quello del 2020, settanta anni fa, quando avevo 12 anni, la tua età. A farlo diventare memorabile è stata una notizia: l’Istat aveva scoperto che in Italia per ogni bambino c’erano 5 anziani. A capo del Governo c’era un brav’uomo; nessuno ricorda più il suo nome ma tutti ricordano che soffriva di una curiosa patologia, la «decretite». Emanava decreti dal mattino alla sera e talvolta anche di notte. Informato dall’Istat ha subito emesso un nuovo decreto per pianificare, nel giorno di Natale, il tempo di noi bambini in modo che ogni anziano avesse la sua quota di minore. Una task force di 500 pediatri aveva stabilito che un bambino aveva diritto a 9 ore di sonno. Ventiquattro meno 9 faceva 15 che diviso 5 faceva 3 ore a testa per ogni anziano. Per fortuna c’era la pandemia, altrimenti ognuno di
noi avrebbe avuto l’obbligo di lasciarsi prendere in braccio e sbaciucchiare da 5 anziani, nel mio caso 3 nonni e 2 nonne. Come sarebbe a dire, cos’era la pandemia? A scuola non ti hanno raccontato che 70 anni fa c’era la diffusione del Covid 19? Ah già, dimenticavo, 50 anni fa hanno abolito lo studio della Storia, diventata inutile da quando c’è Wikipedia. Sarebbe troppo lungo spiegartelo, sappi solo che quell’anno la scuola si faceva con la DAD, la Didattica a distanza, stando a casa. Con i miei 5 nonni ho praticato l’AAD, ovvero l’Anziano a distanza. Com’è ovvio, il decreto, di complessive 1.428 pagine, non poteva limitarsi agli aridi numeri. Una serie di calcoli eseguiti da una task force di 850 matematici e spiegati in appendice, faceva in modo che la distribuzione dei 5 anziani per ogni bambino avvenisse seguendo solo 212 parametri, così che, per fare un esempio, a un bambino non capitassero 5 cantanti d’opera e a un altro 5
contabili o 5 casalinghe. Il peso medio di un anziano doveva essere di 75 chili, con una tolleranza di due etti. Perciò la somma del peso dei 5 anziani doveva essere di 375 chilogrammi. Erano poi disciplinate le patologie, il servizio militare, il numero dei matrimoni, gli sport praticati, la squadra del cuore. Non ti sto a tediare oltre. Dimenticavo: dovevano provenire da Regioni diverse ma dello stesso colore. Cosa fossero queste Regioni e questi colori non l’ho mai capito bene perché già allora avevano abolito l’insegnamento della Geografia, considerata un’inutile perdita di tempo dopo l’avvento dei navigatori satellitari. Ogni bambino doveva farsi riprendere stando ai piedi dell’albero di Natale sommerso dai doni ricevuti. Se la sua famiglia era povera una task force di giovani arruolati con un concorso pubblico, messo sotto accusa dagli esclusi presso il TAR del Lazio, provvedeva a portarli nelle case e poi a riprenderli. I doni sotto l’albero volevano essere un segnale
agli anziani perché non si sentissero in obbligo di fare regali al minore di turno. Ma loro non ci stavano e ordinavano regali anche se a quel tempo Amazon era ancora arretrato, pensa che talvolta dall’ordine al momento in cui il fattorino suonava al citofono trascorreva persino mezz’ora. Si scusavano dicendo che quel prodotto avevano dovuto farlo arrivare dalla Cina. Sarebbero dovuti trascorrere altri 10 anni prima che fosse possibile impiantare nel cervello di ogni neonato un microchip tale che se osservi con desiderio un determinato prodotto, questo ti arriva a casa in 5 minuti, al massimo 6. Vorrai sapere come erano i 5 anziani a cui la task force del Governo mi aveva assegnato per quel Natale. Una nonna, avendo avuto in regalo dai figli un nuovo cellulare, mi aveva chiesto di spiegarle il funzionamento. Dopo le sue 3 ore aveva capito solo come si faceva ad accenderlo. Per fortuna il nonno venuto dopo di lei, che da giovane aveva
fatto l’equilibrista in un circo, ha voluto dimostrarmi che era ancora capace di esibirsi: è salito su due sedie, è caduto e si è rotto una gamba, così ha liberato 2 ore. Un altro nonno, commissario in pensione, mi ha sottoposto a un serrato interrogatorio per farmi vedere come faceva a far confessare gli innocenti. L’altra nonna da giovane aveva fatto la cantante e aveva vinto un festival famoso nel mondo perché la giuria premiava sempre la peggiore canzone dell’anno, comprovata dal fatto che già il giorno dopo nessuno se la ricordava più. Figurati che quando sono andato in missione in Corea del Nord, il dittatore che la governava, quando ha saputo che ero italiano, ha sorriso e ha pronunciato la parola magica: «San Remo». La nonna cantante ha voluto farmi sentire tutto il suo repertorio. Dopo la prima canzone ho stoppato l’audio e ho trovato il tempo per leggere il libro che mi aveva regalato il terzo nonno, La relatività spiegata a Babbo Natale di Piergiorgio Odifreddi.
Betta, con una durezza sproporzionata alle sue intenzioni. Von Arnim sorrise di nuovo e Betta provò a sentirsene offesa. Era paternalistico e mondano al tempo stesso, quel sorriso. «Oh, cara: la matematica, in certi casi , non è una scienza esatta. Lei si attribuisce il valore di una cena, è una forma di modestia che ricorda l’autosvalutazione. Lei pensa di essere una giovane donna di qualche avvenenza che un anziano Ganimede può corteggiare con un buon ristorante. Io, l’anziano Ganimede, le assicuro che lei è molto di più di quello che crede di essere. Lei è...», nel corso di una breve sospensione Von Arnim le strisciò una carezza leggera sulla guancia sinistra, «incalcolabile». «Incalcolabile? È il complimento più originale che ho ricevuto da quando ho incominciato a ricevere complimenti dagli uomini». Risero tutti e due, e insieme alzarono gli occhi verso il cielo che, improvvisamente si era chiuso in una grigia tenaglia di nuvole.
Furono le prime solide gocce di pioggia a farli riparare nel portone e poi salire le imponenti scale di pietra fino all’attico, dove Von Arnim suonò il campanello e un cameriere di colore, elegante e anacronistico in una giacca a righe verdi e nere, aprì loro la porta. «Thomas questa è Betta, Betta lui è Thomas, viene dal Senegal e cucina la miglior carbonara della città». Seguendolo verso un salotto intimo nonostante le dimensioni che affacciava su una terrazza imponente, Betta pensò che tutto, al vecchio, pareva venire naturale. Si chiese se fosse privilegio degli anziani non essere mai stonati o in imbarazzo, oppure dei ricchi. Forse degli anziani ricchi. Si erano appollaiati nel privilegio e dopo tutti quei decenni di vita pensavano di aver ragione, di essere nel giusto, di non sbagliare mai. Non un tono, non una parola, non un paio di scarpe. «Ha una bellissima casa», disse Betta, bevendo il caffè su un piccolo vassoio
d’argento in una tazzina di ceramica così sottile da risultare trasparente. Non c’era un oggetto, un arredo, una sfumatura di colore che non fosse perfetta in sé e armonizzata con tutto il resto, in quella maledetta casa. «Sapevo che le sarebbe piaciuta», disse Von Arnim. «Benedetta sia la stagione delle piogge. Ci avrei messo un tempo molto più lungo e molti inutili passaggi per attirarla nel mio habitat, se ci fosse stato il sole». «E perché voleva attirarmi nel suo habitat?». «Per vanità, naturalmente. Io non ho più un corpo giovane e attraente da mostrare, come pensi che possa nutrire la belva che cova in tutti noi? Il narcisismo, quel bisogno primitivo di essere lodati? La casa, la terrazza, l’abbigliamento...». «Cinque banconote in una busta...», disse Betta, ritrovando il tono severo. Von Arnim rise di gusto. «No, no no. Quella è stata un’idea di mia moglie». (Continua)
Marlones e senza il preventivo consenso dei suoi superiori, padre Gracián si attirò l’accusa di scrittore mondano. La seconda parte fu pubblicata nel 1653. Le critiche all’interno del suo Ordine si resero più aspre alla pubblicazione della terza parte nel 1657. Critiche che gli procurarono la destituzione dalla cattedra di Sacra Scrittura che teneva a Saragozza dal 1652, il divieto di predicare e infine l’esilio. A partire dal 1658 Gracián fu confinato a Graus, un paesino nei dintorni di Huesca. Dopo poco tempo scrisse al Generale della Compagnia per sollecitare il suo ingresso in un altro ordine religioso. La sua domanda non fu accettata, ma si decise di attenuargli la pena: nell’aprile del 1658 fu trasferito al collegio di Tarazona. Nell’Oracolo sono contenuti trecento aforismi sulle fondamentali norme di comportamento per l’uomo di Corte. Sono istruzioni attraverso cui Gracián traccia un ritratto del perfetto cortigiano che sa conquistarsi la stima e
il rispetto dei potenti senza venir meno ai propri principi. Solo il silenzio è il santuario della prudenza, l’uomo deve imitare quel gran politico che è Dio, il quale, chiuso nella sua oscurità, tiene gli animi in sospeso e non comunica quale sia il destino che ci attende. Come scrive Marc Fumaroli, «nel suo ruolo di mentore dei cristiani adulti e laici, Gracián ebbe l’audacia di varcare un confine pericoloso. I teorici della Ragione di Stato del Cinquecento avevano ammesso che il Principe cristiano potesse, a vantaggio del bene comune e solo in talune circostanze (oltre alla guerra), agire al di fuori della legalità e della morale ordinarie. Gracián è un Machiavelli della morale privata nella misura in cui ammette che il bene possa far ricorso alla falsità e all’astuzia. Per i cattolici giansenisti del tempo si trattava del massimo grado di permissivismo morale, peccato di cui accusavano i gesuiti. Dal punto di vista di Gracián, invece, queste gravi licenze erano
ampiamente giustificate e legittimate dall’intenzione generosa che anima il grande spirito prudente. (...) queste massime di Gracián hanno il merito di ricordarci che non dobbiamo né rifiutarci di vedere la bassezza umana, né rifiutarci di credere alla nobiltà umana e prima di tutto in noi stessi». Apparenza, artificio: tutta l’arte morale di Gracián è un commento a queste due parole. Il segreto, il calcolo, il controllo, l’astuzia, talora la perfidia si celano in un gesto, in un inchino, in una battuta supremamente elegante. Tutto deve apparire come naturale e disinvolto: «Imparate a far uso della stupidità. L’uomo più accorto sa giocare le sue carte al momento giusto. Ci sono occasioni in cui l’astuzia migliore consiste nell’apparire sciocchi (...). Non è bene apparire saggio fra i folli né savio tra i lunatici. Colui che si atteggia a pazzo non lo è. Il miglior modo di essere ben ricevuto da tutti è rivestire la pelle del più ottuso tra i bruti».
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/14 Nella luce del mattino il vecchio le parve più stanco e segnato di come lo ricordava, con la pelle ingiallita come una antica pergamena e un eccesso di profumo sulle mani, come se se lo fosse spruzzato in fretta, sulla soglia di casa sua, prima di scendere. Improvvisamente si sentì in imbarazzo. Non sapeva perché si era appostata sotto casa sua, le era sembrata una scelta facile. Come è facile spendere troppo per una persona che è sempre stata ricca. La dismisura fra gli anni che restavano da vivere a lei e gli anni che restavano da vivere a lui avrebbe dovuto metterla al riparo da qualsiasi sentimento che non fosse invidia o ammirazione, desiderio, rimpianto. Doveva essere stato un bell’uomo Paolo Von Arnim: la statura (aveva gambe lunghe), gli occhi chiari (due pietre azzurre sepolte in un nido di rughe), le mani curate (una rarità fra i maschi), la prontezza del sorriso (aveva abbastanza soldi per mantenere una dentatura smagliante), tutto in lui rivelava una
trascorsa virile avvenenza che si era trasformata in sicurezza. In potere. «Che magnifica sorpresa», disse guardando Betta, come se l’avessero incaricato di eseguire un expertise e lei fosse il quadro da valutare. Era un autentico capolavoro o una volgare imitazione? Betta si sentiva, in quel momento, una crosta, dipinta da un pittore della domenica e destinata a essere venduta per 10 euro a una fiera di paese. Troppo a disagio per recitare la parte della femmina seducente, decise di ripiegare sulla sincerità. «Lei mi ha dato dei soldi, signor Von Arnim», disse, gustandosi la severità del tono. Von Arnim le sorrise, senza il minimo imbarazzo. «Via, non mi sgridi, Betta. Non volevo essere scortese né invadente. Per me è stato un grande piacere intrattenermi con lei. E i piaceri si pagano. Io sono abituato a pagarli». «Bastava il conto del ristorante», disse
A video spento di Aldo Grasso Le perle di Gracián «Le cose non si percepiscono per quello che sono, ma per come appaiono». Perché ai giorni nostri godono ancora di tanta fortuna i consigli di un acuto moralista come Baltasar Gracián? Fra il Cinquecento e il Seicento nelle grandi letterature d’Europa si assiste alla fioritura di un genere di scrittori che si dedicano a una lucida indagine sulle passioni dell’uomo. Da Machiavelli a Pascal, da Montaigne a Gracián, da Burton a Torquato Accetto, da La Rochefoucauld a La Bruyère. Si tratta di autori grandissimi che hanno in comune una volontà talvolta feroce di giungere al «fondo dell’anima». Osservare il mondo, studiarne i fenomeni, trarne conclusioni che abbiano un valore condivisibile e che fungano da radiografie del tempo presente. Questo hanno fatto gli autori che Giovanni Macchia ha definito «moralisti classici». Questo ha fatto Baltasar Gracián con il suo Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza (Adelphi, trad. Giulia Poggi).
Poco o nulla si sa dei primi anni di vita di Gracián. Entrò nel collegio dei gesuiti di Huesca, dove nel 1627 fu ordinato sacerdote e nel 1631 emise i voti definitivi. Dal 1642 al 1644 fu vicedirettore del collegio di Tarragona, dove fu cappellano militare sul campo di battaglia di Lerida durante la Sollevazione della Catalogna. Al termine di questa campagna militare si ammalò e fu quindi inviato a Valencia in convalescenza. Grazie alla magnifica biblioteca dell’ospedale di Valencia preparò una nuova opera, El Discreto (Il Discreto) che fu pubblicata a Huesca nel 1646. Tornato in questa città insegnò teologia morale fino al 1650. Fu durante questo periodo che poté più attivamente dedicarsi alla letteratura. Pubblicò Oráculo manual y arte de prudencia (1647) e la seconda versione del Trattato dell’acutezza (1648). Con la pubblicazione della prima parte della sua più importante opera letteraria El Criticon (Il Criticone), apparsa nel 1651 sotto lo pseudonimo di García de
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