Azione 3 del 18 gennaio 2021

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*Periodo del ribasso dei prezzi: da settembre 2020 a gennaio 2021. Prezzi validi a partire dal 19.1.2021. Fino a esaurimento dello stock.

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio I genitori dovrebbero essere un riferimento sicuro per i figli e fornire un attaccamento forte e positivo: intervista allo psichiatra Daniele Piacentini

Ambiente e Benessere Il professor Stefanos Demertzis ci parla della banca dei tessuti cardiovascolari e della sua utilità per la cura di molti pazienti

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 18 gennaio 2021

Azione 03 Politica e Economia L’assalto di Capitol Hill ha inferto un duro colpo agli antichi costumi democratici

Cultura e Spettacoli Il mare e il tempo sono al centro della nuova raccolta poetica di Giuseppe Conte

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Priorità assoluta evitare la terza ondata

Vincenzo Vela, tra genio e mito

di Peter Schiesser

di Pietro Montorfani

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© Museo Vincenzo Vela

Per la prima volta dall’inizio della pandemia il Consiglio federale ha agito in anticipo anziché solo reagire. Abbiamo tre settimane di vantaggio sull’Inghilterra, ha detto in sostanza Alain Berset, sappiamo che cosa ci aspetterebbe se non reagissimo: la terza ondata. E una terza ondata si ergerebbe su quell’esteso altopiano che è oggi la seconda (rivelatasi ancora più letale della prima): insostenibile, in particolare per il sistema sanitario, ma anche per la popolazione e l’economia. Agire oggi, con tutti i costi che ne derivano per l’economia e le persone, dovrebbe aiutare ad evitare danni ancora maggiori, che si avrebbero se la variante britannica del Coronavirus, fra il 50 e il 70 per cento più contagiosa delle precedenti, dovesse espandersi senza freni ed affermarsi come dominante. Già oggi, ha indicato Berset, i casi di infezione provocati dalla variante britannica raddoppiano ogni settimana. Possiamo dire che il Consiglio federale ha imparato la lezione della seconda ondata. In precedenza era stato criticato per non essere corso ai ripari alla fine dell’estate, quando si vedeva che la curva dei contagi stava salendo in modo preoccupante (per chi sa leggere le progressioni esponenziali), e di aver sprecato tutto il mese di ottobre prima di intervenire. La consapevolezza dei danni e dei lutti che sta provocando la seconda ondata e lo scenario di una terza ondata devastante hanno infine convinto la maggioranza dei consiglieri federali ad accettare la strategia e le proposte di Alain Berset. Un certo ruolo l’avrebbe avuto anche Ignazio Cassis, secondo il «Tages Anzeiger», che ha sostenuto Berset superando il suo precedente scetticismo; in quanto medico ha certamente una credibilità maggiore all’interno del gremio su questioni sanitarie. Facendo la tara alle critiche e alle geremiadi udite in reazione alle decisioni del Consiglio federale, si percepisce comunque anche soddisfazione e sollievo. Soddisfazione che il Consiglio federale riprenda in mano in modo deciso la situazione, sollievo per le misure di aiuto economico che vengono messe in piedi in brevissimo tempo, per un ammontare di altri miliardi di franchi, in particolare espandendo la somma destinata ai casi di rigore a 2,5 miliardi (ben sapendo che ne verranno alla fine stanziati ancora di più). L’aspettativa è ora che questi soldi vengano devoluti al più presto, forse dimenticando che ci vuole un certo tempo per trattare le 100mila richieste che Berna si aspetta. Inoltre, non illudiamoci: nonostante gli aiuti massicci, per molti settori, dalla gastronomia alla cultura, dal turismo al commercio, alla fine ci saranno lo stesso perdite importanti, contestualmente all’aumento del debito pubblico della Confederazione e dei Cantoni. Si capisce lo sconforto del ministro delle finanze Ueli Maurer, il meno incline a decretare un nuovo lockdown, consapevole che questi debiti ce li porteremo avanti per i prossimi decenni. Tuttavia, fin qui il governo e il parlamento svizzeri hanno varato più aiuti alla cittadinanza della maggior parte (se non di tutti) i paesi europei, per restare solo al nostro Continente. Non è scontato. Resta il capitolo scuole: lasciarle aperte, richiuderle? Questa responsabilità il Consiglio federale la lascia espressamente ai Cantoni. In una presa di posizione, la Conferenza cantonale dei direttori della sanità pubblica indica che in caso di peggioramento della situazione epidemiologica le scuole secondarie dovrebbero essere chiuse, o che perlomeno si debba esaminare questa possibilità, quelle primarie invece dovrebbero essere chiuse solo se nessun’altra misura bastasse a contenere i contagi. Eccoci dunque nel secondo lockdown nazionale, almeno fino a fine febbraio. Per la salute psichica della popolazione (oltre che per l’economia) non è una buona notizia. Ci viene chiesto di resistere ancora, di rimetterci in clausura il più possibile (il limite di assembramenti e incontri è di 5 persone). Per molti non sarà facile accettarlo e comportarsi di conseguenza, speriamo nella consapevolezza della maggior parte della popolazione. Tuttavia, possiamo consolarci con la speranza che l’arrivo dei vaccini abbia presto un impatto importante. Dapprima sulla generazione più anziana, e quindi anche sulle strutture che li ospitano: dopo che hanno pagato il prezzo più alto in questa pandemia, vedere calare il numero dei decessi sarà un grande conforto per tutti, anche per le strutture ospedaliere. Per chi crede nell’importanza e nel valore dei vaccini, è motivo di grande sollievo la notizia dell’omologazione del secondo vaccino, quello di Moderna, arrivata il giorno prima dell’annuncio del nuovo lockdown. Certo, non sappiamo ancora se i vaccini evitano la malattia e pure il contagio o se si resta contagiosi, e quanto dura l’immunizzazione (Moderna parla ora di un anno), ma almeno ora è sicuro che avremo sufficienti dosi per chiunque la volesse, da qui all’estate. Anche questo non era scontato.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Società e Territorio L’Abbazia di Payerne L’antica chiesa romanica vodese è stata riaperta al pubblico dopo un restauro durato quasi dieci anni. Ora i visitatori la riscoprono lungo un percorso dinamico in venti punti audioguidati

Passeggiate svizzere In una gita invernale Oliver Scharpf ci accompagna sull’isola Rousseau di Ginevra, habitat ideale per molti uccelli lacustri e per «gli intenditori della deriva» pagina 9

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Genitori autorevoli, con amore

Intervista Troppa permissività non fa bene

alla crescita: serve anche il senso del limite, come spiega Daniele Piacentini, autore insieme a Haim Omer del nuovo manuale Genitori coraggiosi

Stefania Prandi Per essere buoni genitori bisogna trasmettere amorevolezza, senza però abdicare al ruolo di guida. Un compito non semplice a causa del cambiamento dei valori rispetto al passato, dei ritmi frenetici imposti dalla società e dei pericoli rappresentati da Internet. Genitori coraggiosi. Proteggere i propri figli da tentazioni e influenze negative (Franco Angeli), è un manuale, appena pubblicato in italiano, con consigli pratici, per aiutare – alla luce delle più recenti ricerche scientifiche – chi si sente smarrito nel ruolo genitoriale. È stato scritto da Haim Omer, psicologo di fama internazionale e fondatore dell’approccio «Resistenza non violenta», e Daniele Piacentini, psichiatra e psicoterapeuta, curatore italiano di varie opere di Omer. Daniele Piacentini, è difficile essere genitori oggi?

Il ruolo dei genitori è meno chiaro rispetto al passato. I pilastri principali dell’autorità tradizionale, e cioè la rigida gerarchia e le punizioni severe e immediate, sono stati smantellati. Il problema è che non sono stati sostituiti da nuove forme di autorità adatte ai nostri tempi. Così i genitori di oggi si sentono spesso disorientati e confusi, senza una chiara bussola da seguire nella loro funzione educativa. Inoltre, in passato, gli adulti rappresentavano conoscenza e saggezza. Quel ruolo adesso è stato assunto da Internet: bambini e adolescenti si ritrovano a essere più connessi e aggiornati dei propri genitori, credendo di avere una fonte di «saggezza» diretta a disposizione. A volte, spesso come punizione, i genitori sono tentati di strappare i dispositivi dalle mani dei figli, convinti di agire in modo efficace, ma questa misura non funziona perché ormai è semplicemente impossibile essere davvero disconnessi. Quindi, come dovrebbero comportarsi i genitori?

Dovrebbero trovare il modo di svolgere la funzione di àncora per i propri figli, diventando un riferimento sicuro e fornendo un attaccamento forte e positivo. I figli avranno così genitori presenti e stabili e non saranno in balia degli eventi e delle situazioni.

Scrivete che è importante pranzare o cenare insieme. Perché?

Secondo il nostro approccio i genitori devono essere presenti – anche quando sono distanti – nella vita dei figli. La presenza si concretizza in una serie di momenti di incontro familiare che fanno parte di una routine, di cui i pasti costituiscono un elemento importante. Questa abitudine costituisce un momento di partecipazione e comunicazione familiare e rafforza anche la presenza dei genitori nella mente dei figli, ricordandogli che hanno qualcuno che si prende cura di loro. Si è scoperto che nelle famiglie che mangiano insieme almeno alcune volte la settimana ci sono molti meno fenomeni di delinquenza e abuso di sostanze. Nel libro si insiste sull’importanza della fermezza e dei limiti. Perché sembrano quasi pratiche «superate»?

Fin dagli anni Sessanta, la critica contro l’autorità tradizionale è stata così schiacciante che, almeno per qualche tempo, ha portato a credere che imporre limiti e doveri fosse dannoso. La libertà era il sale dell’educazione. Si credeva che ogni bambino fosse nato con il seme di un vero sé, capace di fiorire a patto di non venire deformato da vincoli contrari alla sua natura. Questa grande speranza è andata gravemente delusa: tra i giovani sono aumentati sensibilmente i comportamenti antisociali o devianti, ma anche ansia, depressioni, suicidi e bassi livelli di autostima. Gli stili genitoriali permissivi si sono rivelati dannosi per lo sviluppo quanto quelli autoritari. Al contrario un equilibrio tra i due estremi ha dimostrato di portare risultati migliori. Da qui è nata l’elaborazione di un’autorità basata sui principi descritti nel libro. I

I genitori devono essere presenti nella vita dei figli e i pasti sono momenti fondamentali di incontro familiare. (Marka)

limiti non si riducono a semplici divieti anonimi supportati da punizioni, ma fanno sentire al bambino che dietro ogni regola ci sono genitori amorevoli, coscienziosi e premurosi. Nel caso in cui i bambini e i ragazzi oltrepassino i limiti, i grandi li conterranno con una resistenza tanto tenace quanto non violenta.

Secondo diverse ricerche, nelle culture dove i bambini vengono cresciuti non solo dai genitori ma anche da altri adulti, i fenomeni patologici di ansia sociale sono meno comuni. Perché?

Stando con gli altri, i piccoli superano non solo l’ansia sociale, ma anche altre forme di ansia. Infatti, quando sono senza genitori, i bambini sviluppano comportamenti meno regrediti perché le altre persone hanno una minore tendenza ad assumere nei loro confronti un atteggiamento iperprotettivo. Questa «distanza» rappresenta un sostegno per affrontare situazioni po-

tenzialmente ansiose. Vedendo che chi hanno intorno non è spaventato dalle loro stesse paure, i bambini imparano a non averne. Qual è il pericolo maggiore per i bambini e gli adolescenti?

Sicuramente Internet. Il mondo virtuale espone alla frequentazione di siti dannosi, all’incontro di predatori e al cyberbullismo. Inoltre, può portare a un ritiro dal mondo, «inghiottendo» bambini e adolescenti.

Quando e come si può permettere ai bambini di avere accesso a cellulari e computer?

Innanzitutto bisognerebbe limitare l’uso degli schermi, che non devono essere usati con la funzione di babysitting. Quanto all’età, va considerato che più un bambino è grande più diventa consapevole di sé e della realtà intorno. Dobbiamo però anche essere consapevoli che ormai, per i bambini, lo smartphone è presente fin dai primi anni di vita in quasi tutte le interazioni.

Nei rapporti con i coetanei svolge una positiva funzione di collante e integratore sociale. Inoltre, Internet è utilizzato sempre più spesso per impegni scolastici. Per questi motivi non è pensabile sottrarre completamente i propri figli a smartphone e computer. Quali sono le principali indicazioni su come gestire l’accesso a Internet?

Il primo passo è il dialogo: ci si fa mostrare dai figli come usano Internet, ad esempio che giochi fanno, chiedendo di spiegare con dimostrazioni pratiche. Si parla dei rischi che si corrono navigando, dai contatti con sconosciuti agli acquisti online, ai furti di informazioni e al bullismo. Il secondo passo è stilare un accordo scritto sulle regole di utilizzo del computer e dello smartphone con la descrizione degli impegni sia dei figli sia dei genitori, evidenziando che in caso di utilizzo improprio o dannoso ci sarà un intervento risoluto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Al lavoro tra tensioni e disagi Covid Quali sono gli effetti della pandemia sulla salute psichica delle lavoratrici e dei lavoratori? Ne parliamo

con la psicologa Stefania Mastrillo del Laboratorio di psicopatologia del lavoro Romina Borla Un minuscolo virus ha stravolto le nostre vite, scaraventandoci in uno stato di incertezza totale. Ha trasformato il mondo del lavoro. Spinto aziende, enti pubblici e dipendenti ad implementare in tutta fretta modalità operative collegate allo sviluppo delle nuove tecnologie, come il telelavoro. Diverse attività si sono fermate, mentre gli operatori del settore sanitario e della vendita dei beni di prima necessità annegano nella fatica e nello stress. Tutti navigano a vista, cercando di tenere a bada la paura di perdere l’impiego e il timore del contagio con mascherine, disinfettanti e pannelli di plexiglas. Ma che effetti provoca questa situazione sulla salute psichica delle lavoratrici e dei lavoratori?

La pandemia ha contribuito a inasprire conflitti interpersonali che caratterizzavano già in precedenza alcuni contesti lavorativi Cerchiamo di capirlo insieme a Stefania Mastrillo, psicologa del Laboratorio di psicopatologia del lavoro, un servizio attivo dal 2006 in seno all’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC) rivolto a tutte le persone che manifestano un disagio importante a causa di una situazione lavorativa problematica. «Nelle ultime settimane abbiamo osservato una leggera crescita delle richieste di aiuto», afferma la nostra interlocutrice. «Si tratta di casi riconducibili in un qualche modo al Coronavirus. In primo luogo la pandemia ha contribuito ad inasprire tensioni e conflitti interpersonali che caratterizzavano già in precedenza alcuni contesti lavorativi, rendendo spesso necessario il distacco temporaneo del dipendente dal posto

Per i lavoratori è importante che la comunicazione aziendale sia chiara. (Keystone)

di lavoro o addirittura, in alcuni casi, lo scioglimento del rapporto professionale». Le assenze sono uno dei motivi più frequenti di discussione, precisa Mastrillo. Sono parecchi infatti i collaboratori in malattia o in quarantena per periodi prolungati. Dirigere un’impresa si fa dunque più complicato, il lavoro per chi rimane aumenta e la tensione inevitabilmente sale. «Spesso inoltre la comunicazione aziendale non è gestita in maniera ottimale: con i dubbi e le preoccupazioni aumentano anche i dissidi. Ci rendiamo conto che non è facile trovare una bussola nella marea di informazioni che ci circondano. Le domande sono tante. Cosa

Il settore sanitario Per quello che riguarda il personale del settore sanitario? In questo periodo continua ad essere molto sollecitato: turni stressanti, carenza di personale, gestione delle urgenze, paura del contagio. «I problemi che incontriamo in questo ambito sono piuttosto legati all’insorgenza di reazioni acute da stress», afferma Stefania Mastrillo. «Abbiamo visto delle persone in difficoltà che hanno vissuto un momento estremamente duro, non hanno avuto il tempo di riprendersi e ora sono sottoposte alla seconda ondata, a un secondo stress. Sarebbe perciò molto utile per loro avere a disposizione dei momenti e degli spazi di parola per potere in un qualche modo decomprimere

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

l’accumulo emotivo. Indirizziamo questi utenti ai Servizi psico-sociali dell’OSC che possono prendersi carico del problema in maniera adeguata». Per quanto riguarda invece le altre figure professionali che hanno continuato ad operare durante il lockdown, come gli addetti alle vendite, il servizio ha osservato dei lavoratori sotto forte pressione. «Carichi di lavoro eccessivi e stress possono causare dei problemi psicologici e fisici ai collaboratori». Informazioni

Laboratorio di psicopatologia del lavoro di Viganello, tel. 091 815 21 11, dss-osc.lavoroesalute@ti.ch.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

fare se un dipendente risulta positivo al Coronavirus? Quando una quarantena è necessaria per il resto del team? È importante chiarirsi le idee – magari contattando le autorità preposte – e assumere una linea chiara». Il Laboratorio di psicopatologia del lavoro in questo periodo ha notato anche una tendenza all’incremento degli episodi di disagio dovuti a licenziamenti o a paura di licenziamento connessi all’andamento della pandemia: aumento dei contagi, diminuzione degli affari, tagli al personale. Invece nei pazienti che hanno perso l’impiego prima dell’avvento della Covid-19 è stato riscontrato un peggioramento dei disturbi ansioso-depressivi. In quei casi è drasticamente aumentata la preoccupazione di non riuscire a rientrare nel mondo del lavoro, anche a causa del prolungarsi della pandemia. Un altro tema che sta emergendo dalle consulenze – osserva Mastrillo – è quello della diffusione dell’home office (se l’attività si svolge al domicilio durante gli orari d’ufficio) e dello smart working (quando il lavoro, organizzato per obiettivi, è caratterizzato dall’assenza di vincoli orari e fisici). «Si tratta di modalità con evidenti lati positivi: favoriscono la flessibilità e l’autonomia, evitano al collaboratore inutili spostamenti e contatti ecc. Ma le zone d’ombra non mancano. Pensiamo alla diminuzione delle relazioni sociali, alla difficoltà di porre dei limiti tra vita privata e professionale. Senza contare che alcuni non erano pronti dal punto di vista digitale e altri hanno dovuto lavorare da casa, coi figli attorno. Inoltre non tutte le aziende possiedono un

“protocollo digitale” e hanno dovuto improvvisare soluzioni percepite come stressanti dai dipendenti». Si rivolgono al servizio operatori di tutti i settori (ristorazione, commercio, sanità, industria ecc.) e di tutte le età, ma la fascia più rappresentata – sottolinea la psicologa – è tendenzialmente quella tra i 40 e i 50 anni. «Si tratta infatti del periodo della vita in cui le persone hanno più paura di perdere il posto di lavoro. Quando si hanno dei figli piccoli e un’ipoteca da pagare le difficoltà assumono un peso specifico maggiore». Donne e uomini chiedono aiuto in egual modo. In ogni caso diversi esperti sostengono che la pandemia ha accentuato le disuguaglianze tra lavoratori e lavoratrici. Sono queste ultime, per la Federazione Associazioni Femminili Ticino Plus (FAFTPlus), ad essere infatti impiegate in maggioranza sia nei settori «caldi» (sanitario e vendita) sia negli ambiti colpiti dalle chiusure (accoglienza alberghiera, ristorazione e turismo). Sempre loro a dover fare i conti con l’accresciuto carico di lavoro domestico e di cura. Ancora loro ad aver perso il lavoro più frequentemente degli uomini. Ma torniamo a Mastrillo: «Chi vive relazioni conflittuali prolungate sul posto di lavoro tende a sviluppare un disturbo dell’adattamento. Arriva cioè al punto di non riuscire più ad adattarsi alla situazione, superando la soglia di tolleranza, non disponendo più di risorse personali per gestirla. I nostri pazienti possono sviluppare sintomi correlati alla situazione quali insonnia, irritabilità, stati ansiosi, emicranie, perdita di peso, gastriti

ecc. Alcuni sprofondano in episodi depressivi più importanti: non riescono ad alzarsi dal letto, piangono in continuazione, si isolano e non riescono più a comunicare con la famiglia e men che meno con il datore di lavoro». Spesso arrivano al Laboratorio troppo tardi, indirizzati dal medico di famiglia o dal sindacato (talvolta sono le stesse aziende a segnalare la situazione di conflitto). «A quel punto il percorso di guarigione si rivela molte volte lungo e difficoltoso mentre magari la relazione col datore di lavoro è compromessa. Da qui l’importanza di affrontare i problemi per tempo, rivolgendosi al medico di famiglia, a degli specialisti o al Laboratorio non appena emergono dei sintomi». Il team del Laboratorio propone una guida alla ricerca di soluzioni concrete, fornendo gli strumenti per accedere alle risorse disponibili dell’individuo o per meglio affrontare le decisioni difficili. «In seconda battuta diamo dei consigli su come affrontare la situazione, rispettando la volontà del collaboratore. Se quest’ultimo ci dà il permesso coinvolgiamo il datore di lavoro, il medico di famiglia, il legale ecc. Nel caso il paziente decida per il suo benessere psicofisico d’interrompere la relazione di lavoro, lo sosteniamo nei passi da intraprendere successivamente, aiutandolo ad immaginarsi in un nuovo progetto professionale. Se la problematica lo richiede, ci appoggiamo inoltre al medico psichiatra del Servizio psico-sociale per una prescrizione farmacologica di supporto. Nel caso di un licenziamento, lavoriamo sul concetto di rinforzo dell’autostima».

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Idee e acquisti per la settimana

Fundü du Gutard

Novità Una prelibata miscela fresca prodotta

con i formaggi del Caseificio del Gottardo di Airolo

Fondü du Gutard 400 g Fr. 14.95 In vendita al reparto refrigerati delle maggiori filiali Migros

Dopo aver lanciato lo scorso anno la raclette «Raclètt du Gutard», Migros ha da poco introdotto nel suo assortimento dei Nostrani del Ticino un’altra chicca del Caseificio del Gottardo, la «Fondü du Gutard». La raffinata miscela per fondue è composta da tre differenti tipologie di formaggi ticinesi a pasta semidura, prodotti dal caseificio dimostrativo di Airolo esclusivamente con latte di montagna di alta qualità della regione ottenuto con metodi naturali e sostenibili. Grazie alla vicinanza dei contadini con il caseificio, i trasporti sono brevissimi e la consegna del latte avviene giornalmente. Con questa specialità, disponibile nel sacchetto da 400 grammi recante la caratteristica coccarda dei Nostrani, potrete assaporare anche a casa l’inconfondibile sapore della pietanza già apprezzata da anni dagli avventori del

ristorante del noto caseificio dell’Alta Leventina. Per ottenere una preparazione a regola d’arte per due persone, il procedimento è semplice. Prendete 400 g di miscela «Fondü du Gutard» (la maizena è già contenuta nella fondue), 2 dl di vino bianco merlot ticinese, aglio, pepe, noce moscata, un goccio di grappa di uva americana (a piacimento) e, volendo, 10 g di burro. Preparazione: scaldare nel caquelon il vino con l’aglio, il pepe e la noce moscata. Aggiungere lentamente la miscela di formaggi e farla sciogliere a fuoco medio-basso rimestando regolarmente. Portare a ebollizione continuando a rimestare fino ad ottenere la giusta consistenza. Infine, aggiungere la grappa e il burro. L’aggiunta di una punta di coltello di bicarbonato, permette di ottenere una fondue particolarmente morbida e schiumosa. Buon appetito!

Pizzoccheri pronti da gustare Riso Scotti: il riso Attualità L’Angolo del Buongustaio Migros consiglia una genuina d’eccellenza specialità perfetta per il consumo a casa o in ufficio

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Pronti in pochi minuti in forno, al microonde o in padella, i pizzoccheri nella pratica confezione da asporto sono prodotti in Ticino con l’impiego di materie prime di altissima qualità. Per preparare questo piatto secolare, tipico della Valtellina ma diffuso anche nei Grigioni, viene rispettata il più fe-

delmente possibile la ricetta originale, che prevede l’utilizzo di pasta di grano saraceno, preparata con verdure quali verze, spinaci, coste e patate, e successivamente condita con del buon formaggio a pasta semidura, in primis il tradizionale Casera DOP. L’aggiunta finale di un po’ di burro dona alla prepa-

razione la sua caratteristica genuinità. Il risultato è un piatto molto saporito, che non appesantisce troppo, che saprà incontrare il gusto di tutti. Questa e altre bontà pronte solo da scaldare sono in vendita presso l’Angolo del Buongustaio del vostro supermercato Migros di fiducia.

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Riso Scotti, azienda leader in Italia nel settore del riso, dal 1860 seleziona i risi migliori e li lavora con passione e dedizione per offrire ai consumatori la qualità dei chicchi più pregiati. Da sempre l’azienda pavese si impegna a tutelare il riso italiano, favorendo un’agricoltura efficiente, rispettosa dell’ambiente e dell’uomo. L’assortimento di Migros Ticino comprende alcuni prodotti a firma Riso Scotti, tra cui le due varie-

tà di riso che danno i risultati migliori nella preparazione dei risotti: l’Arborio e il re dei risi, il Carnaroli. Entrambi i tipi si distinguono per i chicchi grossi e allungati, compatti e ricchi di amido, dalla perfetta tenuta in cottura. Grazie a queste caratteristiche permettono di ottenere l’ideale cremosità di un risotto, che si lega al meglio con i condimenti della mantecatura quali burro e parmigiano reggiano.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Società e Territorio

Un’Abbazia rinata, tutta da scoprire

Payerne L’antica chiesa romanica vodese è stata riaperta al pubblico dopo un restauro durato quasi dieci anni.

Un percorso dinamico conduce il visitatore nella storia millenaria del monastero e dei suoi personaggi principali Tommaso Stiano Rimandata a causa della pandemia, si è svolta giovedì 3 settembre 2020 l’inaugurazione ufficiale dell’Abbazia di Payerne (Vaud), a disposizione del pubblico già dall’11 luglio dopo lunghi lavori di restauro durati quasi dieci anni e costati venti milioni di franchi. Classificata come monumento d’importanza nazionale nel 1900, è il più grande edificio romanico della Svizzera e simbolo del comune vodese.

La costruzione della chiesa sul modello romanico di Cluny risale alla metà dell’XI secolo Tre sono stati gli obiettivi della rivitalizzazione: ridonare alla chiesa abbaziale le caratteristiche originali, romaniche appunto, pur conservando gli elementi gotici del XV secolo (campanile e cappelle); eliminare i posteggi e ridare aria alla Place du Marché con un nuovo spazio esclusivamente pedonale abbellito dalle due fontane; creare un percorso didattico-dinamico dell’intero sito per apprezzarne architettura, storia, opere pittoriche e scultoree. Le radici remote del monastero risalgono al 587 d.C. quando il vescovo Marius fece edificare una prima cappella dedicata alla Vergine all’interno della preesistente villa rurale romana appartenente alla famiglia dei Paterni da cui deriva il nome Payerne. Verso il 950 i reali di Borgogna fondano sulla medesima collina una comunità monastica con tanto di chiesa dove l’imperatrice Adelaide di Borgogna nel 961 fa inumare la salma della madre, la regina Berta, famosa nelle zone romande. La stessa sovrana nel 965 lega il monastero alla grande abbazia benedettina di Cluny (Francia) e da quel momento il monastero vodese, assieme a quello di Romainmôtier e di Villars-les-Moines, è sottomesso alla casa madre, diventa un centro religioso di rilievo e contribuisce allo sviluppo sociale ed economico della regione. La costruzione della chiesa che vediamo oggi rinata risale alla metà dell’XI secolo e durò all’incirca 50 anni imitando il modello romanico di Cluny. Lo stile romanico, che in Europa «va di moda» nell’XI e XII secolo, si

distingue per due caratteristiche fondamentali che si ritrovano pure a Payerne: il prevalere dei pieni sui vuoti con robusti archi a tutto sesto nelle navate ripetuti più leggeri nelle finestre e nelle decorazioni interne ed esterne e lo sviluppo orizzontale che predomina su quello verticale dando all’edificio un senso di costruzione massiccia ben ancorata a terra. Tra alti e bassi arriviamo al 1536 quando la Riforma protestante arriva nel villaggio portata dai bernesi: il monastero fu chiuso, il chiostro distrutto, la chiesa sconsacrata e i dieci monaci dispersi. La navata e l’abside furono suddivisi per piani ottimizzando lo spazio e lungo i secoli successivi la chiesa diventò granaio, fonderia di campane, deposito dei pompieri, sala di ginnastica, prigione, posto di polizia e archivio. Nel 1835 l’ala conventuale ovest venne adibita a scuola e nel 1963 l’edificio sacro fu restituito al culto riformato dopo interventi di ripulitura e adattamenti. Emersero già a quel tempo grossi problemi di statica che minacciavano l’intera struttura e che diedero il via ai progetti di conservazione appena conclusi. Il percorso dinamico in venti punti audioguidati necessita di almeno un’ora e mezza e comincia con un breve filmato che ripercorre a grandi linee la storia del luogo. Poi, una chiave magnetica che portiamo al collo, come per incanto, apre un primo portale che ci immette nel nartece, un atrio coperto nel quale si possono leggere ancora alcuni affreschi del Duecento. Si schiude un altro portone e siamo nella navata principale che si presenta nella sua massiccia maestosità con sette archi romanici che portano

La Place du Marché e l’Abbatiale Notre-Dame de Payerne. Altre fotografie su www.azione.ch (Tommaso Stiano)

all’altare. Saliamo quindi nella cappella di San Michele dove è conservata una grossa corona in castagno del 1645 (un omaggio ai reali di Borgogna) che contornava la guglia del campanile e dove ci sono delle nuove installazioni artistiche. Per la gioia del nostro udito, nel presbiterio proviamo noi stessi l’acustica perfetta della chiesa e ascoltiamo spezzoni di

Elementi gotici e affreschi nella Cappella Grailly presso il presbiterio. (T. Stiano)

musica sacra diffusa in diretta dall’organo. Ad un’altezza eccessiva per lo sguardo ci sono i capitelli con belle sculture e nelle cappelle gotiche apprezziamo gli affreschi medievali superstiti. Una porta laterale ci introduce al punto 13 dell’itinerario, considerato una novità assoluta: si tratta del Dormitorium, immerso nel buio e nel silenzio per ricreare l’atmosfera delle celle monastiche; ci sdraiamo sui letti dal «morbido materasso» di legno e sul soffitto parte una proiezione che narra la lunga giornata del monaco secondo la regola benedettina dell’ora et labora (prega e lavora). Con qualche dolore in più alla schiena entriamo nella sala attigua che ci illustra la parte culinaria, ossia il tipo di alimentazione del cenobio nei vari periodi del calendario liturgico, una postazione didatticamente ineccepibile che con qualche manipolazione ci permette di tuffarci nei parchi/ricchi piatti dei monaci… ahinoi solo virtuali, senza profumi e sapori. Ora usciamo in quel che resta dell’antico chiostro (il pozzo, la fontana) oggi utilizzato come cortile per i bambini della scuola che si è insediata negli spazi del monastero… dai frati agli scolari è pur sempre

animazione con qualche differenza di decibel. Dopo la visita alla sala capitolare dalle fattezze gotiche, passiamo dalla vicina parrocchiale protestante dove è stata collocata la tomba della regina Berta scoperta durante le ispezioni del sottosuolo nella chiesa restaurata. Punto finale del percorso è la nuova Piazza del Mercato che interamente lastricata a porfido valorizza l’Abbazia con tutta la sua imponente bellezza. Anche senza monaci, l’intento di ridare vita a questa antica abbazia è riuscito e i visitatori non mancano (8500 in luglio e agosto), il viaggio vale la scoperta di un monastero che ha fatto la storia della Svizzera romanda. Dove e quando

Abbatiale Notre-Dame de Payerne, Place du Marché 3, 1530 Payerne (VD). Chiusa fino al 28 febbraio a causa delle misure di contenimento della pandemia di Covid-19. Orari: lu chiuso, altri giorni dalle 10.00 alle 17.30. Biglietti adulti a 15 fr. compresa l’audioguida in quattro lingue. Info: www.abbatiale-payerne.ch Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Il 2021, un anno davvero nuovo? Con un’intensità del tutto particolare, visti i tempi così difficili, ci siamo scambiati gli auguri di Capodanno. Molte e diverse le parole con cui abbiamo offerto alle persone care il nostro auspicio per un anno migliore. Dalla gettonatissima salute, alla sempreverde felicità, all’immancabile successo, fino alle più filosofiche pace e armonia. L’anno che verrà è stato invece accompagnato, come sempre, dalla sua insostituibile caratteristica: sarà un anno nuovo. Nuovo è parola polisemica che rimanda a molteplici orizzonti di senso. Può essere nuovo un oggetto, un abito, ma anche una relazione, un sentimento o un pensiero che sappiano sostituire ciò che appare ormai superato, inutilizzabile o privo di senso. Nuovo può però indicare anche ciò che semplicemente si presenta a noi come altro: l’inatteso, il sorprendente, il «non ancora visto». La differenza di significati non sembra trascurabile, sembra anzi suggerire sfumature diverse con cui il nostro sguar-

do sul presente si apre alla percezione del tempo e al suo continuo divenire tra passato e futuro. Per riuscire a pensare il nuovo è infatti sempre necessario saper stare nel tempo, abitare le sue durate, il suo farsi e disfarsi tra memoria e progetto. Il compito appare piuttosto difficile perché oggi viviamo quasi ogni esperienza in tempo reale. A dispetto di quel continuo agitarsi che tanto ci è mancato nei mesi passati, viviamo perlopiù bloccati dentro una specie di eterno presente: un presente che si rinnova, eccome, ogni giorno, ma proprio per non passare mai, per non diventare passato. Tra innovazioni tecnologiche e algoritmi identitari, la piena disponibilità del mondo ci invita a sostare sulla superficie del tempo e ad apprezzarne la sua insuperabile attualità. Ecco allora la domanda: in un’epoca che rischia di dimenticare il passato e di spegnere il futuro, saprà essere davvero nuovo il 2021?

Forse sì, perché il nuovo, così come lo pronunciamo oggi, sembra proprio volersi riconoscere in una percezione più autentica del tempo; sembra indicare il bisogno di ritrovarne un senso più ampio e profondo e di rimettere in movimento il suo continuo fluire. Il presente della pandemia, il presente delle difficoltà e delle sofferenze a cui non eravamo preparati, richiede con urgenza un superamento. Il re è nudo: deve gettare la sua maschera di meraviglioso assoluto; non può più sottrarsi al giudizio del tempo. Il superamento del presente della pandemia, un presente diventato ingestibile e insopportabile, mette in scena uno strano rapporto tra passato e futuro. Un intreccio che può anche rivelarsi insidioso: il futuro è nel vaccino che ci permetterà di tornare al passato. Il futuro nel passato, insomma. Mai come in questo periodo mi è capitato di percepire tanta nostalgia, a cominciare dagli irrinunciabili racconti di sé esibiti

online: quanti ricordi, quante foto della propria infanzia, immagini di tempi lontani, divenuti i luoghi più vicini di identità rinnovate. Che cosa può significare questo desiderio di passato? Forse una bellissima occasione, se saremo però capaci di evitare un’insidia sempre presente nell’idea di passato. Una bellissima occasione, se sapremo rinunciare alla tentazione di esaltare le meraviglie della cosiddetta normalità perduta; se sapremo rinunciare ad un approccio acritico alla realtà esistente, incapace di sospettare che proprio quella normalità sia stata almeno un po’ responsabile dell’attuale disastro. Il rischio, insomma, è quello di rimanere bloccati sulle evidenze di un mondo che c’è, di una realtà normale di cui è necessario prendere atto affinché tutto continui a funzionare bene. Se saremo capaci di uscire da queste gabbie del vivere e del pensare, il passato potrà allora offrirci tutto il suo

autentico significato come nutrimento del futuro. Una bellissima occasione per reimparare ad abitare le profondità di un tempo finalmente ritrovato e a viverlo in prima persona fin dentro il proprio intimo racconto: per riconoscervi nuove aperture e per immaginare nuovi volti del presente. La libertà da coltivare oggi non è tanto, o non solo, quella un po’ riduttiva che ci è mancata durante l’emergenza sanitaria provocando sofferenze e insofferenze forse esagerate, spesso in conflitto con l’esercizio della responsabilità. Per dare al nuovo il suo nome più vero è necessaria la libertà di andare oltre, di immaginare il possibile, di vedere il «non ancora visto». La libertà, insomma, di cambiare il nostro sguardo sul mondo per cercare di renderlo migliore. È questa, credo, l’espressione più autentica del nuovo di cui abbiamo tanto bisogno. Il mio augurio è che sia proprio questo il momento propizio.

della statua di Rousseau, Razumov, tormentatissimo personaggio principale di Sotto gli occhi dell’Occidente (1911), trova la quiete necessaria per mettere giù, sul suo taccuino, i primi appunti per un rapporto spionistico. Passeggio su questa «isola assurda» come la definisce Joseph Conrad nel suo memorabile romanzo. Rimaneggiata per il tricentenario della nascita di Rousseau, ho l’impressione che abbia perso un po’ quella decadenza lieve che dava conforto. A parte la nota incoraggiante degli otto nuovi pioppi ripiantati, dopo l’abbattimento di quelli vecchi pochi anni prima, chi ci ha guadagnato è forse il pavillon-chiosco. Snaturato negli anni con diverse aggiunte, è stato epurato riportandolo alla sua volumetria originale del 1912. Anno in cui, in occasione del bicentenario di Rousseau, il pavillon in stile cinese del 1858 viene trasformato in chiosco ottagonale con tetto a cupola. Per assomigliare forse a quello frequentato da Rousseau sull’isola di San Pietro, ammirato la primavera scorsa. Dal 2018 ospita, in estate, il ristorante Shima – isola in giapponese –

legato allo storico Hotel des Bergues qui in faccia. L’acqua, tersa dal gelo, è di una tonalità azzurrina irreale. I cigni dormono alla loro maniera stramba, con la testa reclinata all’indietro, uno smergo li imita. In giro tanti gabbiani irrequieti. Un corvo sbandato si posa sulla statua di Rousseau. Il cui orientamento, dopo il restauro a Fleurier per l’inaugurazione del diciannove gennaio 2012, è stato modificato: verso la città alla quale per anni ha voltato le spalle, come è successo in realtà. O viceversa. L’opera in bronzo di James Pradier, scultore ginevrino neoclassico amato da Flaubert e odiato da Baudelaire, tra l’altro autore dei medaglioni per l’obelisco sull’isola de La Harpe, in cima a un piedistallo, vira al color petrolio. Una aiuola banale lo circonda. Da notare, sotto la sedia, il dettaglio di una pila scultorea di libri. Mica di certo la Capri immortalata da Godard in Le Mépris, né l’isola di San Pietro amata da Rousseau e ritratta nella quinta delle sue passeggiate, eppure in inverno, in alternativa a Lanzarote, quest’isoletta rodanica di città, merita sempre uno sguardo.

raccolgono tutti mesi. E non sono pochi considerati i tempi pandemici: Hazel e Thomas raccolgono fino a undicimila euro al mese e contano 2714 sostenitori. A confermare il successo della stand up comedian c’è anche il premio ricevuto ad ottobre in Germania che la attesta come migliore comica tedesca e la sua entrata sulla piattaforma di streaming digitale Netflix con una sua performance dal vivo a Colonia dal titolo Hazel Brugger Tropical. Su Patreon (www. patreon.com) il duo spiega come utilizza le risorse che riceve e soprattutto sottolinea come il successo metta in atto un circolo virtuoso anche per i professionisti che gravitano e collaborano con loro. Auguri ai due giovani artisti e complimenti a Jack Conte che ha avuto questa idea nata dalla necessità di trasformare in guadagno le prestazioni che da musicista offriva gratuitamente su youtube.

Patreon permette ai suoi artisti, autori di podcast, giornalisti che pubblicano regolarmente i loro contenuti online di diventare imprenditori di se stessi, dando un valore economico a tutte quelle opere e prestazioni che in rete sono gratuite. Si possono donare dai cento ai cinquecento dollari settimanali, chi possiede un account riceve direttamente le quote assegnate. L’iscrizione a Patreon è gratuita, la piattaforma detrae una piccola percentuale da quanto guadagnato dagli artisti solo se le loro attività hanno successo. Tra l’altro la piattaforma di crowdfunding ha sostenuto i suoi membri durante il lockdown con una raccolta fondi e un programma di sovvenzioni. «In momenti come questi, supportare gli artisti e assicurarsi che abbiano le risorse economiche per superare una crisi sanitaria globale non è solo la cosa giusta da fare, è una nostra responsabilità» dice Jack Conte.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola Rousseau di Ginevra Sempre in inverno e spesso, chissàpoiperché, quasi per disperazione, al posto di rintanarmi per una cioccolata calda o un gamay, a volte, tempo fa, andavo sull’isola Rousseau. Riparo di molti uccelli lacustri, in particolar modo dei cigni, il cui biancore placa l’inquietudine. Aggraziato da tutti quei volatili, quello sputo pentagonale di terra sull’acqua con un pavillon d’altri tempi, la statua triste di Rousseau, e gli alberi spogli, era anche habitat ideale per gli intenditori della deriva. Ricordo una vecchia signora con un paltò bordò, tirato spesso su per via della bise, che era sempre lì, canticchiando Bach, a dare il pane secco ai gabbiani in volo. La stessa mossa femminile del bavero del cappotto tirato ripetutamente sul collo, l’ho ritrovata, anni dopo, in biancoenero, nel cortometraggio invernale girato da Godard sull’isola Rousseau. Creduto perduto, Une femme coquette (1955) ricompare su youtube, nel gennaio 2017, determinando per me, una volta per tutte, l’invernalità dell’isola di neanche mezzo ettaro dedicata a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Ritornarci in

inverno mi sono detto allora. Così, verso metà gennaio alle undici in punto eccola lì, al debutto della corrente vera scaturita appena dopo il pont du Mont-Blanc, l’isola Rousseau (376 m) di Ginevra. Apparsa nel 1585 come bastione difensivo e conosciuta poi come île des Barques, nell’ambito dell’abbellimento della rada da parte del generale e ingegnere Dufour, in un periodo di romantizzazione dilagante, nel 1834 viene dedicata al filosofo e scrittore nato qui a Ginevra e morto a Ermenonville. In omaggio alla sua tomba immediata – oggi cenotafio – su un’isoletta popolata solo da pioppi, in mezzo a un laghetto di un parco a Ermenonville, nel dipartimento francese dell’Oise, vengono piantati i pioppi. Si pensa poi ai platani e soprattutto ai salici piangenti. «Specie coltivata per la sua bellezza» scrive Rousseau nelle Lettres élémentaires sur la botanique. Da una vita, come ancora adesso, i salici piangenti sono il preludio melanconico all’isoletta che si trova nel punto in cui il Lemano ridiventa Rodano. Proprio lì, sotto i rami pendenti, si rifugiano diverse specie di uccelli, tra le

quali quattro oche selvatiche. Grassottelle e buffe, infondono buonumore. Collegata al mondo da una breve passerella che parte dal pont des Bergues, l’anima è il vecchio platano maestosto, sulla cui corteccia maculata sono incisi cuoricini, iniziali, iniziali nei cuoricini, nomi come Vesna, Marlon, Noah, Mya. Maria Lysandre è invece il nome della bella attrice sconosciuta, della quale nessuno sa niente neppure oggi, protagonista del corto di Godard tratto da un racconto di Guy de Maupassant intitolato Le Signe (1886). Il segno d’intesa, cercando goffamente di imitare quelle del mestiere, per rimorchiare uno sconosciuto che legge il giornale seduto su una di quelle belle panchine di legno a onda, ai piedi della statua di Rousseau, lo lancia, sedendosi nella panchina accanto. Abbassa di colpo il cappotto, tirato su prima per nervosismo perfino sul volto, lasciando campo libero a un sorriso frettoloso, sulle note dei concerti brandeburghesi di Bach. Sparite per far posto a inutili parallelepipedi freddi di sasso chiaro in tinta con la ghiaia desolante, su una di quelle panchine ai piedi

La società connessa di Natascha Fioretti Nuove strade per chi crea ed è indipendente Notai per la prima volta il nome di Hazel Brugger lo scorso anno quando presi i biglietti per una serata al Kaufleuten di Zurigo per andare a vedere il filosofo Richard David Precht. Un evento organizzato in collaborazione con la NZZ per cui come moderatore o moderatrice della serata mi aspettavo una delle grandi firme del giornale. Invece figurava questo nome mai sentito – Hazel Brugger. Con una ricerca veloce l’ho subito associata ad una giovane donna di 27 anni di professione comica e stand up comedian. Ho pensato fosse davvero uno strano binomio – un filosofo e una comica – ero davvero curiosa di vederli dal vivo, ma con questa storia della pandemia potete immaginarvi come è andata a finire. Nel frattempo, ho imparato che Hazel Brugger, nata a San Diego in California e cresciuta a Dielsdorf vicino a Zurigo, studi in filosofia e letteratura, sin dai 17 anni appassionata di slam

poetry è molto nota nel mondo germanofono. Artisti come lei vivono delle loro apparizioni dal vivo e delle loro collaborazioni con redazioni e programmi televisivi. Ma come tutti sappiamo, da un anno a questa parte, gli eventi live e in generale tutte le manifestazioni e iniziative culturali sono fermi mentre le entrate crollano. La stessa Hazel Brugger, collega freelance che si muove tra varie collaborazioni e ingaggi, ha visto ridurre le sue entrate del 90%. I tempi sono quelli che sono. Ma c’è un lieto fine e questa storia può essere d’ispirazione per altri artisti e creativi. Hazel insieme al suo compagno Thomas Spitzer, autore e produttore digitale, ha aperto il sito vielspass.gmbh iscritto a Patreon, una piattaforma di crowdfunding che ospita i contenuti di persone creative che grazie a delle membership, delle sottoscrizioni in forma di abbonamento, possono ricevere soldi dai loro patron, mecenati

e sostenitori. Fondata nel 2013 dal musicista Jack Conte, la piattaforma vanta milioni di iscritti, mentre il suo fondatore conta su un patrimonio stimato intorno ai cinque milioni di dollari. Un esempio concreto di come funziona: per accedere ai contenuti di Hazel Brugger e del suo compagno si possono versare quattro, otto o dodici euro al mese. Per ognuno di questi abbonamenti si accede ad un certo numero e tipo di contenuti, come ad esempio la serie in podcast Good Vibes Only, chiacchierate dal vivo molto informali con diversi ospiti. C’è chi apprezza questa risorsa alternativa ai media mainstream dove oggi, se pensiamo alla televisione, le redazioni hanno sempre meno risorse e coraggio da investire in giovani di talento e nuovi format di qualità. La piattaforma Patreon opera in completa trasparenza, vale a dire i sostenitori di vielspass. gmbh vedono quanti soldi i due giovani


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Ambiente e Benessere Venere unita a Bacco Nella letteratura classica, da Platone in poi, il vino viene visto come un alleato dell’amore pagina 12

Il paese della «brovade» La cucina friulana offre una grande varietà di ricette saporite che utilizzano i principali ingredienti regionali

Sul fiume, nel Kerala Un affascinante percorso lungo le vie d’acqua minori dell’India, da Kochi a Chenganassery

Un’isola visionaria A Stampalia il governo greco e la Volkswagen progettano un futuro senza combustibili fossili

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pagina 15 Il professor Stefanos Demertzis, primario di cardiochirurgia al Cardiocentro. (Stefano Spinelli)

Pezzi di ricambio originali per il cuore Medicina La Banca dei tessuti cardiovascolari ticinese: pietra miliare della cardiochirurgia cantonale

Maria Grazia Buletti La differenza fra qualcosa di artificiale, prodotto dall’uomo, e qualcosa creato dalla natura sta nel fatto che, per quanto l’essere umano sia meravigliosamente ingegnoso nel riprodurre a immagine e somiglianza, non sarà mai davvero capace di farlo in modo perfettamente aderente, e qualche «difettuccio» o svantaggio sarà sempre lì, a ricordarci che la natura è perfetta, davvero insostituibile e inimitabile. Lo sanno bene i cardiochirurghi del Cardiocentro Ticino la cui sala operatoria, citiamo, «È stata recentemente teatro di due interventi chirurgici particolari e straordinari: una novità che arricchisce il ventaglio di prestazioni terapeutiche di altissimo standard offerte alla popolazione ticinese, che apre le porte a nuove affascinanti prospettive anche in altri ambiti della chirurgia». Che una sala operatoria sia definita «teatro» con una messa in scena chirurgica pare quasi un ossimoro, ma esprime la grande evoluzione di scienza e medicina nella presa in carico di pazienti che necessitano della sostituzione di una porzione del loro cuore: «Si tratta della sostituzione della radi-

ce aortica, valvola e tessuti circostanti, con “pezzi di ricambio” prelevati da donatori e crioconservati presso la banca dei tessuti della Lugano Cell Factory», spiega il primario di cardiochirurgia del Cardiocentro della Svizzera italiana Stefanos Demertzis, anche a nome del professor Enrico Ferrari, chirurgo responsabile degli interventi effettuati. Il Professor Demertzis afferma che: «Questo è considerato il trattamento migliore, in una prospettiva di lungo termine, in caso di infezione della radice aortica per quei pazienti che, magari, sono già stati operati per sostituire valvole (forse con pezzi artificiali) e nelle recidive di endocarditi». L’indicazione classica per questo tipo di intervento sta nella necessità di sostituire quella porzione di cuore ammalata a causa di un’infezioni distruttiva batterica: «Il trapianto di una radice aortica naturale (o homograft) comporta il beneficio di poter sostituire e ricostruire i diversi elementi distrutti dall’infezione: compreso un pezzo della valvola mitralica naturalmente coadiuvante la valvola aortica stessa». Sono interventi che già erano eseguiti in precedenza, ma con l’inserimento di un pezzo ricostruito artifi-

cialmente (radice e relativi vasi): «Non si può procrastinare questo tipo di intervento al momento in cui dovesse essere disponibile il pezzo di cuore naturale e spesso bisogna procedere con l’alternativa del trapianto di una radice aortica artificiale che però, con questa indicazione di distruzione dei germi, non è performante come l’intervento di valvola umana, decisamente migliore, prognosi compresa. Infatti, trapiantare una radice aortica naturale, trattata e conservata nella banca fino all’utilizzo, non comporta rischi di rigetto, almeno in fase acuta, perché il tessuto utilizzato risulta “inerte” a seguito del processo di isolamento, decontaminazione e congelamento. Inoltre, non implica alcuna immunosoppressione e non rende ad esempio necessaria una terapia anticoagulante come nel caso di trapianto della valvola cardiaca di carbonio (meccanica): questo è indubbiamente un chiaro vantaggio soprattutto per i pazienti giovani che non dovranno poi vivere con i rischi causati dall’anticoagulazione del sangue». Esito positivo degli interventi e benessere post operatorio dei pazienti sono motivo di soddisfazione per questo trattamento chirurgico «certamen-

te migliore possibile per questi specifici pazienti operati». La difficoltà, per il momento, sta ancora nella reperibilità di un numero apprezzabile di pezzi di cuore naturali: «Le radici aortiche sono prelevate da donatori il cui cuore non è idoneo al trapianto, oppure da chi, scegliendo di donare gli organi, ha deciso di limitare la sua disponibilità di donatore ai soli tessuti. Questi pezzi possono pure provenire da cuori espiantati di persone che subiscono un trapianto cardiaco, perché la radice aortica del loro cuore ammalato non è di norma intaccata, risulta sana e può perciò essere prelevata, trattata e messa a disposizione». La disponibilità di questi preziosi tessuti dipende ovviamente pure dalla possibilità di conservarli in strutture dedicate: «La banca dei tessuti cardiovascolari della Lugano Cell Factory è autorizzata dall’Ufficio Federale di Sanità pubblica ed è la prima struttura in Svizzera specificatamente dedicata all’espianto, al processamento e alla conservazione di tessuti cardiovascolari destinati al trapianto. Fino ad ora, e finché nella nostra banca non disporremo di tessuti e valvole a sufficienza (anche per poi metterli a disposizione

di altri centri svizzeri), stiamo facendo capo a una banca belga». Certo, è innegabile come questa nuova realtà ticinese sia di assoluto valore e di grande importanza: «Non solo per il Cardiocentro e la cardiochirurgia a tutto vantaggio dei pazienti che ne necessitano, ma in previsione di un ampliamento di questi benefici per pazienti di altri centri di cardiochirurgia, in Svizzera e all’estero». Un aiuto può certamente venire dalla popolazione: chi volesse donare basta che ne parli in famiglia, come si fa per la donazione d’organi, iscriversi al Registro nazionale, specificare sul tesserino da donatore e via dicendo: «Anche se il cuore non sarà ad esempio idoneo alla donazione, lo saranno le sue valvole o i tessuti, ovviamente previa valutazione individuale, ma di principio e se le valvole non risultano danneggiate, fino a 65 anni possono essere di grande aiuto». Il professor Demertzis esprime un pensiero anche per i piccoli pazienti che necessitano di questo tipo di intervento per i quali: «A maggior ragione abbiamo una seria indicazione di poter disporre di una radice aortica non artificiale».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Ambiente e Benessere

Venere e Bacco in armonia

Scelto per voi

Vino nella storia Il filosofo Platone ha indicato il forte legame tra l’amore e i frutti

della vite, unione che viene cantata tra l’altro anche nell’Antologia palatina

Petit Vignoble AOC Yvorne

Alleanza tra Bacco e Venere, bassorilievo olandese in marmo, 17501775. (Marka)

Davide Comoli Per Platone, son le Muse ad infondere una sorta di «furore», che però essendo una forza liberatoria, egli non esita a definire di «ispirazione bacchica». Al filosofo ateniese va riconosciuto il merito di aver indicato l’originario vigore liberatorio del vino: con lui Dioniso ritorna ad essere il dio della spontaneità. È fuori discussione che in un’ipotetica sfida la quale avesse come tema una sorta di «esegesi» bacchica e coinvolgesse i maggiori interpreti delle virtù di Dioniso, Platone, il vecchio

aristocratico filosofo ateniese, guadagnerebbe la palma della vittoria. L’opera di Platone consta di 34 dialoghi divisi in quattro gruppi: tra i principali Simposio e Repubblica, a cui vanno aggiunte tredici lettere, dove sono affrontati problemi di etica, circa il conseguimento della virtù, definita come sapienza e pertanto insegnabile. Nel complesso di orientamenti filosofici derivati da Platone e professati nella scuola da lui fondata, «l’Accademia», troviamo nella «dottrina dell’eros» (amore) la scintilla che fa accendere la lampadina per il nostro pezzo.

Al di là di ogni ragionevole dubbio è accertato che il vino predispone l’animo e il corpo ai piaceri di Venere. Come afferma infatti il filosofo, il vino ha la capacità di far diventare manifesta la parte che è latente in ogni uomo. Questa tesi sarà sostenuta fortemente qualche secolo dopo da Ovidio, poeta latino (Sulmona 43 a.C.-. Tomi, M. Nero 17 d.C). Nella sua Arte amatoria scrive: «Varietà di vini predispongono i cuori e li rendono pronti alle passioni ardenti; cede ogni grave pensiero e si stempera fra le molte libagioni. Allora si fa strada l’allegria, allora il

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povero assume fierezza, allora sparisce il dolore, nonché l’ansia e le rughe dalla fronte. Allora la spontaneità, così rara al tempo nostro, discopre i pensieri, perché il dio mette bando alle finzioni. Quivi belle donne catturano cuori di giovani: fra i vini Venere vuol essere fuoco su fuoco». Dioniso e Eros, vino e amore furono il binomio che ispirò buona parte della poesia di Anacreonte (570-485 a.C.), poeta che mai trascende nella volgarità. La sua poesia resta sempre misurata e castigata. L’Amore è il tema dominante nei suoi versi: Anacreonte non ha esitazione a usare il vino al servizio di questo sentimento, e dal momento che durante il «symposion» c’è spazio anche per l’amore recita: «Porta l’acqua, porta il vino ragazzo e portami corone di fiori che voglio fare a pugni con Eros». L’Antologia Palatina, è una raccolta di libri (XV) in cui sono raccolti ben 3700 componimenti per lo più brevi, detti «epigrammi» dai vari contenuti, molti di questi sono inviti alla gioia e confidenze d’amore.

La poesia della classicità è piena di accenni alle proprietà inebrianti della bevanda che favorisce le passioni

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L’eccezionale scoperta avvenne nel 1607 in un codice del XI sec. conservato presso la Biblioteca Palatina, nella città di Heidelberg (Germania) e gli autori sono più di 300 poeti greci, distribuiti in un arco di tempo di oltre 1000 anni dal IV sec. a.C. alla tarda età bizantina. Gli epigrammi che vogliamo proporvi, vogliono fornirvi una testimonianza dell’importante ruolo del vino nella poesia greca di questo periodo, dove il nettare sacro a Dioniso è quasi sempre messo al servizio dell’Amore. Il primo dei poeti che abbiamo scelto è Asclepiade (Samo 310 a.C.), 45 sono gli epigrammi di argomento amoroso e d’intonazione pessimistica che lo collocano tra i maggiori poeti della sua epoca: «Il vino è la spia dell’amore. Negava di essere innamorato, Nicàgora, ma i brindisi lo hanno smascherato. Piangeva, con la testa tremante e lo sguardo abbassato. Mentre la ghirlanda lentamente gli scivolava dal capo». Solo attraverso l’Antologia Palatina è stato possibile conoscere uno dei grandi della poesia greca, Melandro (140 ca. Gadara oggi Umm Qeih – Palestina) ecco uno dei suoi 134 epigrammi: «La coppia esulta di gioia perché ha toccato la garrula bocca di Zenofila, amica dell’amore. Felice lei! Oh, se ora

Fondata nel lontano 1902 la «maison» Henri Badoux (il fondatore), è ancora oggi saldamente nelle mani dei discendenti. La proprietà con sede a Aigle (VD), s’estende per ca. 55 hettari vitati, ma sono ben 105 gli ettari che questa azienda vinifica nelle sue cantine, con uve provenienti oltre che da Aigle da Yvorne, Ollon e Villeneuve, comuni situati nel cuore dello Chablais, dove l’influenza del lago Lemano e delle Alpi permettono un’ottima maturazione delle uve. Qui naturalmente il vitigno Chasselas è il principe e l’indiscusso ambasciatore dei vini svizzeri. Il Petit Vignoble che vi proponiamo questa settimana è coltivato sulle morene (argillo-calcaree) che ci ha lasciato la glaciazione del Rodano 10’000 anni fa nel comune di Yvorne; è un eccellente vino per tutte le occasioni, secco, abbastanza fruttato e notevoli note minerali, fanno dell’Yvorne un ottimo aperitivo o come accompagnamento a parecchie preparazioni culinarie, in particolar modo alla «raclette» e alla «fondue al formaggio». / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 20.50.–.

accostando le sue labbra alle mie mi bevesse d’un fiato l’anima». Il ciclo di maturazione dell’uva, diventa metafora delle fasi di un rapporto amoroso, che tuttavia l’Autore Anonimo vorrebbe in qualche modo concretizzare: «Grappolo acerbo, non m’accettasti. Grappolo maturo, passasti oltre. Non rifiutarmi, ti prego, qualche chicco di uva passa». Di Rufino, un altro poeta dell’Antologia Palatina, del quale ignoriamo sia il luogo di nascita sia dove è vissuto, per qualcuno va collocato alla fine del I sec. d.C.: in questo epigramma il poeta propone il vino come rimedio alle fuggevoli gioie della vita: «Facciamo il bagno, Prodice. Incoroniamoci e tracanniamo vino puro (àcraton) levando le grandi coppe. Breve è la durata delle gioie. Poi, per il resto del tempo ce le proibirà la vecchia e, alla fine, la morte». Sempre di Rufino il seguente epigramma dimostra quanto sia potente l’alleanza tra Dioniso e Eros, quando vogliono vincere sulla Ragione umana: «Ho una robusta corazza per difendermi: la Ragione, e il grande Eros, uno contro uno, non mi piega. Uomo contro dio: e tuttavia gli resisto. Se però chiama Bacco a sostenerlo, io da solo contro due, come faccio?». Vorremmo chiudere con un brano che a noi piace molto, è forse il più bel complimento che si possa fare alla donna di cui si è innamorati: l’autore è Macedonio Console, pare nato a Salonicco (l’antica Tessalonica) e vissuto intorno al VI sec. d.C. «Durante la vendemmia, cogliendo il grappolo nessuno straccia anche i viticci. Te, amor mio dalle rosee braccia, te stringo a me, in morbidi amplessi e faccio una vendemmia d’amore. Non so aspettare un’altra primavera né un’altra estate, tanto tu sei colma di grazie! Possa il tuo fiore non sfiorire mai: ma se spunterà qualche ribelle viticcio di rughe, non lo vedrò, perché ti amo».


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Ambiente e Benessere

Sapori del Friuli Allan Bay

Parliamo dalla cucina friulana. La regione è limitrofa ad Austria e Slovenia, con cui condivide parte della storia e della tradizione gastronomica. Caratteristiche salienti della gastronomia friulana (e giuliana) sono l’impiego del mais e, in minor misura, dell’orzo, le preparazioni in agrodolce, i dolci a base di frutta secca, l’utilizzo dei fagioli e dei semi di papavero.

La carne di maiale trova una celebrazione assoluta nel San Daniele ma sono notevoli anche le minestre tipiche, i formaggi e i piatti di pesce della regione La carne più diffusa è quella di maiale, lavorata nei prosciutti crudi di Sauris, San Daniele, Cormòns, e in salumi come il muset (una sorta di cotechino). Anche lardo e costolette sono molto utilizzati, accanto al manzo, protagonista nel golas, versione locale del gulasch, e al vitello, come nello stinco di vitello al forno. Altra preparazione tipica è la brovada (brovade), un contorno a base di rape macerate a lungo sotto le vinacce; prima dell’uso, gli ortaggi vengono tagliati a striscioline e conditi variamente per accompagnare il muset (foto) o integrare la jota, la minestra diffusa con molte varianti in tutta la regione ma sempre comprendente i fagioli rossi. Le lasagne al papavero dell’area triestina fanno parte dei primi piatti dolci o agrodolci, come il pistum (gnocchi di pangrattato, zucchero, uova ed erbe, cotti in brodo di maiale) e i cialzons (ravioli variamente farciti). Molto pungente è invece la salsa al cren, che viene appena addolcita con poche mele. Le zone costiere possono contare

su un ricco assortimento di pesce, sia di mare sia di laguna: cefali, branzini, anguille – le cosiddette bisate, cucinate allo spiedo –, sarde, orate... Non mancano molluschi come le cozze, cucinate «a la scotadeo», le seppie e i calamari. I crostacei conoscono il proprio apogeo negli scampi alla buzara, tipici di Muggia, mentre molti pesci diventano squisiti nel brodetto, dopo essere stati spinati e passati al setaccio. Tra i piatti forti, il boreto a la graisana, un secondo a base di rombo e altri pesci, tipico di Grado. Ampio l’assortimento di formaggi: dal celebre montasio al meno noto janar, stagionato a lungo in una grotta carsica, passando attraverso ricotte, caprini, caciotte, formaggi di malga e il gustoso tabor, proveniente dai pascoli del Carso. Altro prodotto caratteristico è il formai del cit, realizzato con i pezzi di formaggio non amalgamati nelle forme, mescolati con latte e panna fino a formare una crema densa e spalmabile. Con i residui della caseificazione si prepara anche un’altra pietanza tipica, il frico. Oltre al tabor, l’altopiano carsico fornisce, tra l’altro, olio extravergine d’oliva e l’agnello istriano. Ed eccoci infine al nutrito capitolo dei dolci. Il più famoso sicuramente è la gubana, pasta lievitata e arrotolata a chiocciola, farcita con uvetta, pinoli, noci, mele. La stessa farcia viene impiegata per preparare i biscotti detti strucchi. Altro dolce diffuso è la putizza, preparato già nel secolo XV a Vienna: si tratta di un involucro di pasta lievitata farcito con un ripieno di frutta secca. Il presniz è preparato con pasta sfoglia e una notevole varietà di frutta secca; il buiadnik è invece una sorta di zelten realizzata con farina integrale di mais. Tipica di Trieste è anche la berlina al caffè, per preparare la quale si versa in una coppa qualche cucchiaio di caffè freddo, si aggiungono poi 2-3 palline di gelato (crema, nocciola, o altro gusto), panna montata e ancora caffè freddo a ricoprire il tutto.

Marka

Gastronomia La cucina del Nordest italiano ha una sua precisa personalità e propone ottime ricette

CSF (come si fa)

Vediamo come si fanno tre piatti mangiati da me in Friuli, anche se per gulasch e knodel l’influenza austriaca è netta. Frico. Per 4 persone. In una casseruola sciogliete una noce di burro. Affettate 500 g di formaggio Montasio e mettetelo nella casseruola. Fate roteare la casseruola perché il formaggio non si attacchi e cuocete per circa 10’. Quando si è creata una leggera crosticina

dorata sul fondo del formaggio giratelo, come se fosse una frittata, e rosolate anche l’altro lato. Servite subito, accompagnando con uova fritte. Gulasch di guancia. Per 4 persone. Mondate 2 cipolle, spezzettatele, stufatele con poca acqua per 20’ e frullatele. Rosolate per 4’ in burro 1 kg di guancia di vitellone tagliata a dadoni. Unite 2 bicchieri di brodo di vitello, 100 g di salsa di pomodoro, le cipolle, 2 spicchi d’aglio mondati e leggermente schiacciati. Coprite e cuocete a fuoco dolcissimo per un’ora più o meno – dipende dalla carne – e unite poco brodo se dovesse asciugare troppo. Regolate di sale e di abbondante paprica, cuocete ancora per 2’ e servite. Knödel. Per 4 persone. Impastate 400 g di pane bianco raffermo tagliato a pezzetti con 50 g di farina, 3 uova battute

con 1 bicchierino di latte, 1 cipolla soffritta, prezzemolo tritato, sale e noce moscata. Lasciate riposare per 2 ore. Prima di procedere, fate un test: formate uno gnocco da 4 cm di diametro e mettetelo a cuocere in acqua sobbollente: se si disfa aumentate la dose di farina. Cuoceteli in acqua sobbollente salata per 15’ e serviteli in un brodo saporito. Invece di servirli in brodo potete passarli in una pirofila, condirli con burro e salvia o burro e formaggio tagliato a dadini e gratinarli in forno per 2’. Quanto all’impasto, se li volete verdi, potete aggiungere 200 g di bietole o spinaci, sbollentati, scolati, fatti saltare in padella con poco olio per 2’ e tritati; se li volete rossi, arricchite l’impasto con qualche cucchiaiata di salsa di pomodoro densa.

Ballando coi gusti Oggi due dolcetti fritti, abbastanza semplici, che vanno bene sempre e che piacciono a tutti.

Frittelle di ricotta e canditi Ingredienti per 6 persone: zucchero g 200 · la scorza grattugiata di 1 limone · farina g 300 · 6 uova · strutto g 100 · olio per friggere · sale. Per la farcia: ricotta g 300 · frutta candita mista g 100 · cioccolato fondente g 30. Per guarnire: pistacchi tritati · zucchero a velo.

Versate in una pentola 4 dl di acqua, unite lo zucchero e la scorza di limone e portate al bollore. Mescolate e togliete dal fuoco. Lasciate intiepidire, unite la farina setacciata, poca per volta, mescolando di continuo; incorporate poi le uova, uno per volta, e lo strutto, mescolando fino a ottenere un composto omogeneo. Lasciatelo raffreddare. Per la farcia, mescolate la ricotta con i canditi ridotti a pezzetti e il cioccolato a scagliette. Prelevate a cucchiaiate il composto di farina e uova e friggetelo in abbondante olio ben caldo. Sgocciolate le frittelle appena saranno dorate e trasferitele ad asciugare su carta assorbente da cucina. Spalmatele con la farcia, cospargete di pistacchi tritati e zucchero a velo e servite.

Ciambelline Ingredienti per 4 persone: farina g 500 · lievito di birra g 30 · zucchero · olio per

friggere · sale.

Stemperate il lievito in poca acqua tiepida leggermente salata. Disponete la farina a fontana sulla spianatoia; al centro versate il composto di lievito e iniziate a impastare. Continuate a lavorare con le mani, aggiungendo, poca per volta, tanta acqua quanta ne occorre per ottenere un composto omogeneo e uniforme: sarà necessario circa 1 bicchiere di acqua. Ponete l’impasto in una ciotola leggermente infarinata, copritelo con un canovaccio e lasciatelo lievitare per una notte intera. Ricavate dall’impasto delle ciambelline e friggetele, poche per volta, in una padella con abbondante olio. Sgocciolatele con il mestolo forato non appena saranno dorate e trasferitele su carta assorbente da cucina perché perdano l’unto in eccesso. Servitele calde, spolverizzate con zucchero.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Ambiente e Benessere

Tra terra e acqua

Reportage Viaggio in barca nell’entroterra

del Kerala, in India Pierpaolo Di Nardo

Piccoli appezzamenti strappati all’acqua, canali che disegnano i confini di terre emerse che al ritorno del monsone saranno ancora acqua, in un gioco continuo di apparizione e scomparsa, dove la terra si offre e si nega: queste sono le backwater del Kerala. La mia meta è uno dei luoghi più sacri e venerati dell’India: Sabarimala, sui Gathi Occidentali, dove si trova il tempio di Ayyappan, figlio di Shiva e Vishnu. Lascio Kochi, città olandese e portoghese, a bordo di una Ambassador, vecchia auto inglese fattasi indiana. Pochi chilometri mi separano dal villaggio di Kattapuram, dov’è ormeggiata la mia barca, una kettuvalam. Da qui si snodano infinite vie d’acqua, oltre mille chilometri di canali navigabili. La kettuvalam veniva utilizzata per trasportare i raccolti dai villaggi isolati delle lagune verso i mercati della costa. Queste imbarcazioni sono il modo migliore per immergersi nella natura dell’entroterra: solcano lagune azzurre, canali color smeraldo e villaggi addormentati in uno scenario fatto di acqua, silenzio e alberi a perdita d’occhio. Esplorare il Kerala in barca è l’unico modo per vedere dietro le quinte, per scoprire il mondo nascosto dei canali più isolati, per ascoltare le voci delle mondine con le mani nell’acqua. Lungo la costa del Kerala, da nord verso sud, si estende la National Waterway 3, una vera e propria autostrada fluviale. Ma io, per raggiungere Sabarimala, preferisco vie d’acqua più appartate. Ho studiato il percorso e possiamo andare fino a Chenganassery, 80 chilo-

metri a sud di Kochi, rimanendo su canali meno battuti. Ghopi, il capitano della barca, scuote il capo appena mi vede: gli indiani dicono no con la testa quando vogliono dire sì. È un capitano senza ciurma: oltre a lui, siamo solo io e lo chef. Partiamo! Il primo giorno di navigazione, a non più di 5-6 chilometri all’ora, lo passiamo tra villaggi. Il cuoco di bordo fa un cenno al capitano e la barca si ferma davanti a un mercato: compriamo pesce, cocco, verdure e spezie, la base della cucina del Kerala. Uomini in dhoti e camicia stirata vanno con passo lento sui sentieri tra un canale e l’altro, al tramonto affrettano il passo per arrivare a casa prima del buio. Donne in sari multicolori si nascondono tra il verde delle palme. Una luce di sole accecante invade la mia cabina e annuncia il secondo giorno di navigazione: un tuffo nelle acque del canale e sono sveglio. Scendiamo a terra in una piantagione di anacardi, ne attraversiamo una di banane, poi è la volta di un campo di riso dove si apre un viale di manghi. In uno spiazzo bambini giocano a cricket, le porte di casa sono aperte, galli e galline si rincorrono corteggiandosi, uomini discorrono di politica, ragazze lavano capelli lunghi un metro tra i fiori di loto. Riprendiamo la navigazione e siamo ad Alleppey, cuore del mondo fluviale del Kuttanad, com’è chiamata la rete di canali del Kerala. Piccole imbarcazioni lunghe e strette attendono di essere caricate con banane e riso. La nostra kettuvalam avanza senza quasi muovere l’acqua; il modo migliore per attraversare questo mondo di terra e acqua è stabilire un collegamento, Annuncio pubblicitario

Per le nostre filiali cerchiamo un/una

Cuoco/a Data di inizio Da concordare

Descrizione attività Impiego presso un ristorante del gruppo in una delle sedi in Ticino nell’ambito della gastronomia standardizzata: preparazione pietanze in cucina, show-cooking e allestimento buffet seguendo i parametri aziendali uniformati. Requisiti richiesti – Formazione di cuoco (AFC o superiore); – Almeno 5 anni di esperienza certificata nel ruolo; – Diploma cantonale di esercente (certificato tipo 1); – Attitudine al lavoro di gruppo; – Spiccate doti comunicative e facilità nei rapporti interpersonali; – Costanza nelle prestazioni e resistenza fisica; – La conoscenza della lingua tedesca e/o francese costituisce titolo preferenziale. Offriamo – Prestazioni sociali all’avanguardia; – Ambiente di lavoro aperto e dinamico. Flessibilità e disponibilità al cambiamento (anche legata a spostamenti sul territorio ticinese), sono fattori collegati alla funzione in oggetto. Saranno prese in considerazione solo le candidature con i requisiti corrispondenti al profilo indicato e complete dei documenti richiesti. Le persone interessate sono invitate a compilare la loro candidatura in forma elettronica, collegandosi al sito www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.

Sullo sfondo, una Kettuvalam, imbarcazione tradizionale. (Di Nardo)

captarne i colori, gli odori, i suoni, lasciando che semi di significato mettano radici dentro di noi. Ci fermiamo in una grande mansion circondata da risaie dove incontro Prasaad. Siamo alla terza generazione: i suoi nonni cento anni fa hanno bonificato la terra, suo padre ha costruito la casa e lui ha avviato la piantagione di palme da cocco. Le mansion si trovano un metro e mezzo sotto il livello dell’acqua del lago; durante il periodo dei monsoni dighe e moderne pompe elettriche difendono i campi coltivati. Gli abitanti del Kerala combattono una lotta continua contro la pioggia: sono marinai di terra che sudano ogni giorno per difendere i campi e tutti i giorni guardano il cielo preoccupati, scrutando le nuvole all’orizzonte. Villaggi di pescatori si susseguono per chilometri, minareti, campanili e gopuram (le torri monumentali all’ingresso dei templi indiani) si confondono con le cime delle palme incurvate dal vento. Attracchiamo ed è di nuovo sera. Al mattino seguente un bagno di sorrisi mi butta giù dal letto. Bambini dai capelli lucidi pettinati con la riga di lato, camicia azzurra stirata e zaino in spalla mi trascinano nel cortile della scuola. Tutti in fila cantiamo l’inno nazionale indiano: Jana-gana-manaadhinayaka… (Tu sei il dominatore delle menti di tutti…). Avanziamo verso Manalady; è una giornata di navigazione lentissima lungo canali più stretti, fatta di avanti e indietro, di incroci tra kettuvalam mentre passiamo di villaggio in villaggio. La vita si svolge sulle sponde dei canali, in apparenza semplice e in equilibrio con la natura. Ma uno sguardo più attento scopre anche tanto duro lavoro: braccia che scaricano montagne di sabbia e mattoni da una barca, argini da tenere a bada, raccolti da mettere al sicuro prima che torni il monsone. Al tramonto attracchiamo nei pressi di un’altra mansion dove musici e luminarie ci accolgono in festa. Il matrimonio tra Poonam e Ranju sarà tra pochi giorni. La famiglia di Poonam è originaria del Kannur, un distretto più a nord lungo la costa, e stasera si balla il Theyyam (la danza di Dio), singolare rituale di possessione spiritica, a metà tra performance teatrale e danza tribale. Ci addentriamo nella notte; danze e canti narrano le storie degli dei,

la polvere di curcuma e riso benedice le famiglie e gli sposi. Navighiamo da quattro giorni ormai e il fruscio del vento tra le foglie delle palme è l’unica colonna sonora che ci accompagna. Verde ovunque. Passa un gregge di anatre seguite dal loro pastore in barca; poi solo acqua, silenzio e alberi. All’improvviso il tetto del St. Antony’s Pilgrim Centre appare in fondo al canale, segno che siamo giunti a Chenganassery. Da qui in avanti è solo montagna. Una corriera per Sabarimala ci aspetta. In tre ore di curve attraversiamo piantagioni di caucciù

mentre gli altri passeggeri cantano le lodi di Ayyappan. Chi arriva a Sabarimala dopo aver osservato quarantun giorni di austerità è considerato puro e devoto agli dei: si accede al tempio vestiti con un semplice dhoti nero, portando sulla testa due noci di cocco da offrire alla divinità. Non so se sono abbastanza puro e devoto ma intanto, su questo autobus sgangherato, mi unisco ai canti. Dopo qualche curva mi volto a guardare indietro: ai miei piedi, in un orizzonte limpido e infinito, si estende la distesa di terra e acqua che ho attraversato e che mi ha cullato per giorni.

Donne al lavoro tra i canali nei pressi di Cherthala. (Philip Kuttys Farm)

Anche le merci viaggiano sull’acqua. (Di Nardo)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Ambiente e Benessere

Un’isola a energia green

Motori Stampalia, in Grecia, punta a diventare un modello per la mobilità smart ed elettrica

e presto tutti i veicoli a combustione verranno sostituiti

Mario Alberto Cucchi Una mobilità totalmente ecosostenibile. Un mondo senza automobili alimentate a benzina e gasolio. Futuro? No, presente. O almeno dovrebbe esserlo entro quest’anno in un’isola della Grecia che si chiama Stampalia. Proprio così. Questo è il frutto dell’accordo stretto tra il Primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il CEO del Gruppo Volkswagen, Herbert Diess. Insieme hanno firmato un memorandum di intesa per sviluppare un sistema di mobilità elettrica integrata. Un’impresa che sembra fattibile considerando che nella stupenda isola del mar Egeo vivono stabilmente 1300 persone.

Oltre a servire per il traffico automobilistico oggi gli idrocarburi vi sono usati anche per la produzione di corrente

Volkswagen ha firmato un’intesa con il governo greco per lo sviluppo di un sistema energetico integrato.

Attenzione però. La richiesta di mobilità è decisamente superiore nel periodo estivo, in cui si aggiungono circa 72mila turisti. Ecco infatti che sull’isola complessivamente circolano 1500 veicoli, ad oggi tutti alimentati da motori a combustione interna. L’ardita scommessa è convertire integralmente il parco circolante all’elettrico. Nessuno escluso. I mezzi dedicati al trasporto pubblico, le auto della polizia e persino le ambulanze saranno a emissioni zero.

«Attraverso questa collaborazione vogliamo dimostrare come un’impresa commerciale internazionale, una comunità locale e uno Stato europeo possano lavorare insieme a beneficio delle persone» ha commentato il viceministro degli Affari esteri greco, Konstantinos Fragogiannis. In pratica cosa si farà per ottenere un risultato così ambizioso? Lo sharing ovvero la condivisione di mobilità verrà applicata in tutte le sue forme. Car sharing con le auto, bike sharing con le bici, scooter sharing con i motorini e anche il ride sharing, ovvero

l’evoluzione dei passaggi in auto, prenderanno il posto della vecchia rete di autobus. «Vogliamo dimostrare che si può raggiungere un livello più elevato di mobilità individuale con meno veicoli, essendo allo stesso tempo neutrali dal punto di vista climatico» spiega Maik Stephan, Responsabile del Business Development del Gruppo Volkswagen. Certo, a parole sembra facile, ma tutti sanno che la mobilità elettrica funziona proprio grazie all’elettricità. Va detto che attualmente Stampalia viene quasi totalmente alimentata

da generatori Diesel. Oggi sull’isola la corrente si produce infatti grazie al gasolio. La scommessa quindi è ancor più impegnativa. Non basta portare sull’isola mille veicoli a emissione zero di ultima generazione. Il progetto prevede che i generatori Diesel verranno spenti entro i prossimi due anni e il fabbisogno di elettricità di famiglie, aziende e traffico sarà coperto esclusivamente con sistemi eolici e solari, che il governo greco installerà contestualmente sull’isola, insieme a stazioni per stoccare l’energia. Una vera transizione completa

verso il carbon-free. «Abbiamo escluso grandi isole come Creta o Rodi per motivi di costi, mentre per isole molto piccole con poche centinaia di persone i risultati non sarebbero stati rappresentativi. Stampalia, invece, è la scelta perfetta» ha spiegato il viceministro Fragogiannis. Insomma chi vuole provare a vivere in uno degli ipotetici futuri della mobilità oggi può farlo prenotandosi una settimana di vacanza sull’isola di Stampalia. Il mare blu, il cielo azzurro e le tipiche casette bianche dell’Egeo faranno da sfondo.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Forse non tutti sanno che… Scopri il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 8, 1, 2, 6)

ORIZZONTALI 1. Orifizio dello stomaco 6. Lo è l’oro a 24 carati 9. Essenziale... sulla pelle 10. Un gancio ... sinistro 12. Le iniziali del cantante Britti 13. Fiume russo 14. Ardito, temerario 15. Si spinge alla partenza 16. Li inventò Palamede 18. Il giro di Francia 19. Un tipo di esame 20. Giovane gradasso 21. Ultimo cerchio dell’Inferno dantesco 22. Pendono dai pozzi 23. Laureato in breve 24. Se ci... capovolgete 25. Hanno la forma del 16 orizzontale 27. Città pugliese

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Su questo si consegna la medaglia 2. Infossatura del polmone 3. Pulita e ordinata 4. Coppia di anelli 5. Lungo gli uadi 6. Sono uguali nel supporto 7. L’attore Bova 8. Vergogna, disonore 11. Le iniziali del conduttore Ossini 14. Operetta poetica 15. Il boccone che va nello stomaco 17. Preposizione articolata 18. Indumento d’altri tempi 20. È buono a Parigi 21. Occipite 22. È adatto a Londra... 23. Dispari nei debiti 26. Un terzo di undici Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

UN PO’ DI PSICOLOGIA – La parola «ataxofobia» vuol dire: PAURA DEL DISORDINE.

P I A E R O R I V A E D A C E L S I O M L E I G N A P O R R

U L A P I U T D E A D I C T I O A R O I M A

E R I A R D G T E L O S T I T E O

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Politica e Economia «Trump un pericolo» Così ha definito Nancy Pelosi l’attuale presidente sottoposto per due volte al procedimento di impeachment

Che ne sarà di Gibilterra? La piccola enclave di 6 chilometri quadrati entrerà nell’area di Schengen e con la Spagna ha raggiunto un accordo di «soft Brexit» pagina 19

Emergenza America Latina Un vaccino contro il Covid-19 e le sue varianti è atteso come manna al cielo. Una vaccinazione di massa è una priorità assoluta. Sanitaria, ma anche economica

Prestazioni garantite Il Consiglio federale approva il compromesso raggiunto fra le parti sociali per riformare la previdenza professionale

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pagina 20 La Guardia nazionale sta schierando fino a 15mila soldati per proteggere Capitol Hill dopo la rivolta del 6 gennaio. (AFP)

Vecchi costumi, antiche certezze

Scenario americano La tempesta abbattutasi su Capitol Hill sta mettendo in discussione il funzionamento

e quindi la legittimità stessa dello Stato fondato su mores più che sulle regole

Lucio Caracciolo La democrazia americana non è stata mai fondata principalmente sulle regole, ma sul senso comune. Sui mores. I costumi, i riflessi condizionati che tengono assieme la comunità nazionale e vengono succhiati con il latte fin dall’infanzia. Costumi e abitudini di matrice tipicamente Wasp, il ceppo bianco-anglosassone (germanico) e protestante che domina gli Stati Uniti fin dalla nascita, che oggi si sente minacciato dall’ascesa delle minoranze ed è profondamente diviso socialmente e culturalmente. Gli obblighi reciproci, con relativi gentlemen’s agreements, permettevano ad esempio di assorbire senza troppi danni l’assurdo sistema elettorale che battezza ogni quattro anni il presidente. Il perdente, di norma, «concedeva» la vittoria del rivale. Certo non sono mancate le eccezioni. Ma lo scontro Trump-Biden è novità assoluta. Perché rivela come la fine (provvisoria?) dei mores metta in discussione il funzionamento e

quindi la legittimità stessa dello Stato. Conviene qui un passo indietro. Siamo abituati a considerare la democrazia come marchio dell’America. Fattore decisivo del suo soft power, o meglio della sua influenza nel mondo. Certamente in Occidente. Vanamente però cercheremmo nella costituzione (1789) o nella dichiarazione d’indipendenza (1776), qualsiasi riferimento alla democrazia. I padri fondatori temevano infatti il popolo, inteso più come minaccia che come risorsa. Meglio, ne temevano le derive che oggi sarebbero bollate «populiste». Insomma, più plebe a rischio di manipolazione demagogica che famiglia di cittadini, alla francese. Il principio primo della comunità nata emancipandosi dalla Corona britannica era, e resta, la protezione della libertà individuale, nel senso più ampio e meno regolato del termine. Lo Stato, ovvero anzitutto il governo federale, è considerato più un problema, per la sua natura spiccatamente invasiva, che una garanzia della libertà dei cittadini. Gli Stati federati, poi, man-

tengono poteri e identità che rendono piuttosto lasco il federalismo a stelle e strisce. A rischio di separatismi, per ora impensabili – ma ormai siamo abituati ad essere sopraffatti da eventi assolutamente imponderabili fino a un minuto prima che accadano. Si è scritto, detto e ripetuto che il Congresso è il «tempio della democrazia». Bene: ma allora perché gli assalitori che il giorno dell’Epifania, sobillati dal presidente in carica, l’hanno devastato e umiliato trovano la comprensione di ampie fasce dell’opinione pubblica? E perché la sicurezza intorno al Campidoglio è stata così negligente, se non collaborativa con un gruppo di invasori armati? La risposta sta anche nei sondaggi Gallup che rivelano il grado di adesione degli americani alle loro istituzioni. Gli ultimi rilevamenti, precedenti al 6 gennaio, stabilivano che solo il 4% della popolazione esprime «piena adesione» al «tempio della democrazia», ovvero al Congresso. Del presidente (allora Trump, ma la domanda era sulla carica non sull’uomo), solo il 24%; il

12% crede ai giornali, il 7% ai media in Rete. Le due istituzioni preferite sono pertinenti alla forza: polizia (29%) e soprattutto Forze armate (45%). Dunque le strutture che avrebbero dovuto proteggere l’impopolarissimo Congresso e non lo hanno fatto. Oggi l’America è percorsa da una crisi che si manifesta come tribalizzazione identitaria, sfilacciamento delle legature sociali e della fiducia nello Stato, proliferazione della violenza. Se consideriamo che di fatto negli Stati Uniti non vige il principio primo su cui si fondano di norma le istituzioni pubbliche, ossia il monopolio della violenza, e che quando c’è una crisi sanitaria come quella del Covid-19 la gente più che alle farmacie corre alle armerie temendo disordini, si capisce perché il grado di allarme a Washington e dintorni sia massimo. Espresso plasticamente dalla telefonata della speaker (presidente) della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, democratica ferocemente anti-trumpiana, al capo delle Forze armate perché vigilasse sui codici nucleari, nel caso al

presidente venisse in mente di scatenare la guerra atomica. I prossimi mesi e anni ci diranno se il colosso a stelle e strisce, che resta la potenza Numero Uno e ha a disposizione risorse formidabili, saprà ricucire le ferite e ripresentarsi in futuro sulla scena internazionale con un vestito meno macchiato, con un marchio di nuovo credibile, invidiato. La tempesta che sconvolge l’America è comunque destinata a durare. Nel momento in cui le antiche certezze crollano, forse questa è l’unica su cui si può ragionevolmente scommettere. Ma è chiaro che della crisi domestica risente e risentirà la presa della superpotenza sul suo informale ma potente impero, diffuso su tutti i continenti, inquadrato e stabilizzato in Europa grazie al sistema euroatlantico, di fatto comprendente anche Stati neutrali come Svizzera, Svezia, Finlandia. Le crisi dell’impero si misurano al centro, ma si riflettono subito in periferia. E talvolta il centro può essere tentato dallo scaricarla non solo sui nemici ma anche sui soci.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Politica e Economia

Si apre la presidenza Biden

Transizione turbolenta Trump è il primo presidente sottoposto per due volte al procedimento di impeachment.

Ora dovrà passare al Senato, quando The Donald avrà già lasciato (suo malgrado) la Casa Bianca Federico Rampini Donald Trump è entrato nella storia come il primo presidente degli Stati Uniti sottoposto per due volte al procedimento di impeachment. L’articolo di legge dell’interdizione lo accusa di «incitamento all’insurrezione». La Camera lo ha votato dopo che la presidente Nancy Pelosi, democratica, ha definito Trump «un pericolo tuttora presente». Ci sono state poche defezioni a destra, solo dieci deputati repubblicani hanno votato a favore dell’impeachment, tra questi la figura più autorevole è Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente di George W. Bush. Il capogruppo della destra alla Camera, Kevin McCarthy, ha denunciato «le responsabilità di Trump nell’assalto», però ha respinto l’impeachment come «fonte di divisioni». 197 repubblicani hanno votato no. Anche il secondo impeachment però rischia di fare la stessa fine del primo, che risale a un anno fa. Per arrivare a conclusione, e tradursi nell’interdizione del presidente, il procedimento deve passare al Senato dove occorrono due terzi dei voti. Quando il Senato comincerà a discutere e a votare, Trump avrà già lasciato la Casa Bianca. Alcuni repubblicani sostengono che questo renderebbe anti-costituzionale l’impeachment stesso; molti democratici al contrario sostengono che il procedimento può e deve continuare. Una condanna «postuma» avrebbe tra i suoi effetti collaterali con ogni probabilità l’interdizione dai pubblici uffici e quindi renderebbe impossibile un’eventuale ricandidatura di Trump nel 2024. Nei giorni precedenti l’Inauguration Day il Congresso degli Stati Uniti sembrava diventato un caserma: invaso da soldati in divisa accampati nei corridoi attorno alle aule parlamentari, con pile di fucili automatici accatastati lungo i muri. Tutto il centro di Washington si è trasformato in una zona di occupazione militare, con autoblindo ovunque, barriere di cemento, transenne sempre più alte e insormontabili a difesa di un perimetro allargato: non solo il Campidoglio e la Casa Bianca ma tutta l’area detta The National Mall, l’enorme spianata verde dominata dall’obelisco, è diventata off-limits per chi non faccia parte dell’imponente apparato di sicurezza. L’arrivo di ventimila soldati della Guardia Nazionale, la militarizzazione della capitale in stato d’assedio, i divieti sempre più invasivi che si aggiungono al coprifuoco: tutto è stato pianificato per blindare e desertificare Washington. Inauguration Day è il giorno che l’Fbi e il Secret Service considerano di massimo pericolo per la sicurezza nazionale e per l’incolumità dei leader. Diverse milizie e organizzazioni di estrema destra hanno chiamato a nuove insurrezioni, nuovi attacchi armati per impedire l’insediamento di Biden alla Casa Bianca. La cerimonia solenne dell’insediamento è stata ridotta ai minimi termini, con restrizioni sempre più severe per escludere ogni pubblico: che siano potenziali bersagli o poten-

La speaker della House of Representatives Nancy Pelosi mostra il documento di impeachment di Donald Trump. (AFP)

ziali terroristi. Biden ha rinunciato a viaggiare in treno dalla sua Wilmington – com’è solito fare – per il timore di attentati contro la linea ferroviaria Amtrak. Bombe e cariche esplosive potrebbero essere la prossima arma delle milizie. La sindaca di Washington, Muriel Bowser, fa la sua parte rendendo quasi impossibile circolare: ampie zone della città vengono proibite al traffico, 13 stazioni della metropolitana sono chiuse, i parking sono inaccessibili. Le misure di sicurezza sono così estreme che si configura un altro rischio: i gruppi estremisti possono dirottare la violenza altrove, verso bersagli meno protetti. Tutte le Capitol Hill dei 50 Stati sono a rischio. Il 6 gennaio in simultanea con l’attacco al Congresso della capitale federale, delle aggressioni armate avvennero contro le sedi parlamentari e di governo negli Stati del Minnesota e di Washington (che è sulla costa settentrionale del Pacifico, all’estremo opposto rispetto all’omonima città). Non rassicurano le ultime rivelazioni sull’assalto del 6 gennaio, secondo cui alcuni parlamentari repubblicani avrebbero potuto fare da «talpa per gli assalitori. Ma la ricostruzione della tragica giornata del 6 gennaio non può limitarsi alla dinamica «militare» di quell’assalto dalla scenografia golpista; né chiamare in causa soltanto le dietrologie sulla mancata protezione del Congresso da parte delle varie polizie e corpi militari che avrebbero potuto fare la differenza. Oltre ad aver schierato pochi uomini e male organizzati, è intervenuto un fattore «ambientale» che ora appare ancora più grave. Gli stessi poliziotti di guardia al Campidoglio non avevano la sensazione di avere a che fare con una manifestazione ostile.

Anzi, qualcuno è stato visto mentre si faceva dei «selfie» con i manifestanti. Nella folla trumpiana c’erano magliette con lo slogan Blue Lives Matter: è la risposta a Black Lives Matter, che sostiene la difesa delle vite dei poliziotti (divise blu). La rivelazione sugli agenti venuti da altri Stati non per garantire l’ordine, ma per partecipare al raduno, conferma che «l’insurrezione» godeva di appoggi e complicità proprio tra chi avrebbe dovuto impedire la violenza. Le immagini degli scontri dicono che la collusione si è dissolta di fronte all’aggressione: tra le cinque vittime di quella tragica giornata c’è anche un ufficiale di polizia del Campidoglio, morto dopo essere stato colpito alla testa con un estintore. Ma le omertà e i silenzi sull’insurrezione del 6 gennaio non sono solo a destra. È evidente che non ci sono state vaste manifestazioni a favore del Congresso violato. In seguito a quell’attacco la reazione è stata fortissima tra i politici (democratici) e i media (progressisti). Quasi niente nelle piazze d’America. La sinistra che le aveva riempite dopo l’uccisione di George Floyd l’estate scorsa, non ha sentito il bisogno di manifestare solidarietà con le istituzioni aggredite. Nulla che assomigli a una mobilitazione in difesa della democrazia. Una chiave di lettura la prendo da Michael Lind, docente alla University of Texas. In un’analisi uscita sul sito Tablet, Lind ricorda che l’assalto alla collina del Campidoglio di Washington ha avuto un precedente otto mesi prima, un’insurrezione di sinistra sull’altra costa degli Stati Uniti. Fu l’8 giugno 2020: quel giorno la polizia di Seattle evacuò nel panico il Commissariato East sulla collina del Campidoglio di quella città. «Milizie radicali dell’e-

strema sinistra – ricorda Lind – assaltarono, saccheggiarono e devastarono la sede della polizia. Da quel momento e per i successivi 24 giorni il governo dello Stato di Washington permise che degli aspiranti rivoluzionari creassero una Comune anarchica, realizzando il loro sogno di “abolire la polizia”, con l’appoggio di gran parte della sinistra… La Comune anarchica fu creata sull’onda delle proteste nazionali contro l’uccisione avvenuta il 25 maggio di un afroamericano del Minnesota, George Floyd, da parte della polizia. Nella Comune anarchica ci furono sparatorie, in cui due afroamericani persero la vita, prima che la polizia la chiudesse il primo luglio». Lo slogan «tagliare fondi alla polizia» nel frattempo era diventato nazionale, adottato dai sindaci democratici di New York e Los Angeles, con il risultato di spostare ancora più a destra i sindacati degli agenti. La transizione più turbolenta nella storia contemporanea degli Stati Uniti, crea altri problemi per la sicurezza nazionale: una delle ragioni per cui Biden è cauto sull’impeachment, è il timore che ritardi ulteriormente l’approvazione da parte del Senato del suo futuro esecutivo. Il presidente-eletto ha fretta di incassare la conferma dei suoi ministri più importanti a cominciare da quello della Difesa: il finale raccapricciante dell’Amministrazione Trump è un regalo insperato a tutti i nemici dell’America, e il pericolo di attacchi da parte di potenze straniere in questa «finestra di opportunità» non viene sottovalutato. Biden teme che l’impeachment distragga l’attenzione dall’agenda di governo dei suoi primi 100 giorni, oltre a ritardare la conferma dei suoi membri di gabinetto. Per non mettersi di traver-

so e non inaugurare la sua presidenza all’insegna di una divergenza col suo stesso partito, Biden chiede ai leader democratici del Senato di «biforcare» l’agenda dei lavoratori parlamentari per consentire che impeachment e nomine possano procedere di pari passo. «L’impeachment non deve distrarre o ritardare il compito prioritario di offrire aiuto economico ai lavoratori»: lo dice il capo del sindacato Afl-Cio, Richard Trumka, e riflette il pensiero di Biden. L’impeachment al Senato può interferire con due agende di lavori: la ratifica delle nomine, senza la quale Biden non ha un governo; e l’avvio della prossima manovra di spesa pubblica. Il nuovo presidente non vuole iniziare il suo mandato con lo sguardo rivolto all’indietro, impigliato negli strascichi velenosi dell’assalto al Congresso. Vuole subito affrontare le due sfide, collegate tra loro, della vaccinazione e della ripresa economica. Per farlo deve mettere in cantiere una manovra in tempi rapidi. All’interno del provvedimento – nei desideri di Biden – deve esserci un trasferimento di duemila dollari alle famiglie sotto una certa soglia di reddito (quello che peraltro avrebbe voluto Trump e non riuscì a ottenere dai suoi senatori repubblicani alla vigilia di Natale); più un nuovo prolungamento delle indennità di disoccupazione; più una robusta iniezione di fondi per la campagna di vaccinazione; e trasferimenti dal centro alla periferia per alleviare il disastro della finanza locale, peraltro impegnata in prima linea nell’operazione vaccini (sono i singoli Stati il perno dell’organizzazione logistica). Biden ha scelto come primo approccio di cercare un consenso bipartisan per questa manovra. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Politica e Economia

In mezzo al guado tra Gibilterra e la Catalogna

Spagna Il primo ministro Pedro Sánchez ha risolto il problema della piccola enclave britannica che si unirà

allo spazio Schengen dopo la Brexit. Ora lo aspetta l’ostacolo più difficile: la questione catalana

Una zona di prosperità condivisa. Così Spagna e Regno Unito hanno riassunto il senso dell’accordo trovato in extremis su Gibilterra e che ridefinirà le relazioni tra l’enclave britannica e il governo di Madrid nei prossimi anni. A poche ore dallo scadere della mezzanotte del 31 dicembre scorso la ministra degli Esteri spagnola González Lara e l’omologo britannico Dominic Raab hanno trovato l’intesa. Viene così mantenuta la libertà di muoversi fra la Spagna e Gibilterra nonostante la Brexit e vi sarà inoltre la nascita di una zona senza barriere. L’accordo su Gibilterra prevede infatti la scomparsa della cosiddetta «Verja», l’attuale frontiera esistente tra il territorio d’oltremare britannico e La Línea de la Concepción, la città andalusa confinante. Gibilterra si unirà così al «club di Schengen», raggiungendo Svizzera, Norvegia, Islanda e altri 22 Paesi dell’Ue nello spazio europeo che prevede la libera circolazione delle persone. D’ora in avanti i cittadini che abitano nei paesi Schengen potranno entrare liberamente nel territorio gibilterrino, mentre paradossalmente i cittadini britannici non residenti dovranno usare il passaporto per entrarvi. A Gibilterra si è evitato quindi una «hard Brexit», cosa che avrebbe creato enormi problemi all’economia locale, considerando soprattutto che la Rocca ha un solo confine terrestre, quello con la Spagna. Questo lo sanno bene i gibilterrini che, nel referendum sulla Brexit del 2016, votarono in massa (96%) per rimanere nell’Unione europea. Alla fine si è trovata una soluzione che soddisfa entrambe le parti. Il primo ministro gibilterrino Fabian Picardo voleva continuare a garantire la libera circolazione delle persone e l’esistenza di un regime doganale speciale favorevole per Gibilterra. La Spagna non voleva la creazione di un confine rigido per Campo de Gibraltar, la regione spagnola che circonda Gibilterra, estremamente povera e con un’altissima disoccupazione. Le due zone, quella spagnola e quella britannica, sono talmente contigue e interdipendenti che avrebbero subíto un

soccupazione ufficiale all’11% nasconde, secondo la Cepal, una disoccupazione reale almeno doppia. I più colpiti sono i giovani, le donne e i lavoratori poco qualificati. L’aspetto più triste della crisi economica riguarda i bambini. L’Unicef stima che in tutta la regione, compresi i Caraibi, siano almeno 24 milioni i bambini che hanno bisogno di assistenza umanitaria, il numero è più del triplo di quello dell’anno scorso. «Non avevamo mai visto tanti bambini bisognosi di un intervento di assistenza immediata, contemporaneamente, in tanti paesi» denuncia l’Unicef. Secondo la Banca mondiale quasi 30 milioni di persone sono a rischio di scivolare nella estrema povertà. Un arretramento impensato fino a 12 mesi fa, quando la stessa Banca mondiale aveva previsto una diminuzione del 4% per il 2020 del numero delle persone in miseria. C’è stato un collasso storico dell’attività economica. Considerando che negli ultimi 6 anni la crescita economica è stata molto bassa, in media dello 0,3%, è improbabile che prima dei prossimi cinque anni ci possa essere un pieno recupero. Di fronte a questo disperante panorama la Cepal raccomanda che gli aiuti statali alle famiglie e alle imprese non diminuiscano, si augura che au-

mentino le strategie di aiuto pubblico all’economia e quelle di politica fiscale perché, avverte, se invece diminuissero, il recupero previsto – già difficilissimo – sarebbe impossibile. Non è chiaro con quali soldi dovrebbero essere realizzati questi interventi pubblici, visto lo stato generale delle casse pubbliche. Sta di fatto che lo stesso Fondo monetario, tradizionalmente il primo a prescrivere politiche di riduzione di spesa pubblica, sembra dubitare che si possa evitare l’implosione economica, e conseguentemente l’esplosione sociale, senza un intervento pubblico di sostegno alle imprese e al lavoro.

Per l’enclave britannica si è negoziata una «soft Brexit». (Keystone)

duro colpo economico se i loro abitanti non avessero più potuto spostarsi liberamente per lavorare (si pensi che sono circa 15’000 i cittadini spagnoli che entrano quotidianamente nel Peñón, la famosa Rocca, ai cui piedi vivono i 33’000 abitanti di Gibilterra in 7 kmq). Il testo dell’accordo non parla invece della questione della sovranità sul territorio d’oltremare britannico, tema storicamente di grande scontro tra Spagna e Regno Unito. Gibilterra fu occupata dal Regno Unito nel 1704, quando fu trasformata in una fortezza e in una base navale da cui i britannici potevano controllare l’accesso al mar Mediterraneo. Nonostante da allora sia sempre rimasta sotto il controllo britannico, la Spagna non ha mai smesso di rivendicarne la sovranità. Negli ultimi decenni la Spagna ha spesso proposto la possibilità di una «sovranità condivisa» con il Regno Unito ma questo tema non è entrato nell’accordo appena sottoscritto e ciò ha generato le critiche dell’opposizione nei confronti del governo del socialista Pedro Sánchez. Il primo ministro spagnolo, dal canto suo, si è detto ugualmente soddisfatto di questo compromesso raggiunto all’ultimo minuto. Sánchez in questi giorni celebra

un anno dalla nascita del suo governo, il primo esecutivo di coalizione della Spagna postfranchista, e si ritiene contento di quanto fatto finora. Il premier ha dichiarato di aver raggiunto il 23,4% degli obiettivi che si era prefissato nell’accordo di governo con Podemos, il partito della sinistra massimalista, suo alleato di governo. Nato nel gennaio 2020 tra molti dubbi sulla sua durata e grazie alla decisiva astensione degli indipendentisti catalani di Esquerra Repubblicana (ERC), il governo rossoviola di Sánchez ha ottenuto diverse vittorie significative per l’elettorato progressista e tutta la sinistra spagnola. Dapprima l’introduzione di un salario minimo (di 950 euro al mese), poi la riforma del sistema educativo, quindi una legge dal valore storico come quella sul diritto all’eutanasia ed infine l’approvazione di una legge di bilancio con l’aumento delle tasse per i redditi più alti e un inasprimento fiscale per le grandi aziende, soprattutto le multinazionali del settore digitale. L’approvazione della Finanziaria, avvenuta in forma definitiva poco prima di Natale, è stata di particolare importanza politica perché si tratta del primo bilancio approvato dal 2018,

America Latina in sofferenza Stime Pil precipitato, nuovi milioni di disoccupati e 24 milioni

di bambini bisognosi: questi gli effetti della pandemia da Covid-19 Angela Nocioni Russo, cinese, americano, o inglese. Venga da dove venga, un vaccino contro il Covid-19 e le sue varianti è atteso in America latina come manna dal cielo. Una vaccinazione di massa è un’emergenza assoluta. Non solo sanitaria, anche economica. Le analisi dei principali organismi internazionali, anche di quelli di opposta matrice d’origine, concordano nel denunciare il rischio imminente di un nuovo decennio perduto da un punto di vista economico (e quindi sociale) per il Continente. L’ultimo decennio perso ci fu negli anni 80, quando la crisi del debito mise in ginocchio l’economia latinoamericana con una serie di drammatici effetti a catena. L’impatto della pandemia da Coronavirus dal Messico alla Patagonia ha avuto conseguenze pesantissime. Si tratta della zona geografica più colpita in tutto il pianeta, nonostante non se ne parli come di un luogo di

grande emergenza. Ci sono al momento quasi 15 milioni di persone infette e ci sono stati finora oltre 480’000 morti. Si tratta ovviamente di cifre inferiori a quelle reali perché molti contagi rimangono sconosciuti, lì come altrove, e molte morti non vengono denunciate come provocate dal virus, lì come altrove. Ma anche peggio d’altrove viste le condizioni medie della sanità pubblica. Le misure di limitazione agli spostamenti e le chiusure delle attività economiche, imposte in maniera diversa nei vari paesi, hanno avuto conseguenze inevitabili e drammatiche nell’economia. Secondo la Commissione economica per l’America Latina e Caraibi, la Cepal, l’ultimo organismo in ordine di tempo ad avere pubblicato delle analisi dettagliate al riguardo, la regione soffrirà nei prossimi mesi una contrazione economica ulteriore rispetto a quella dell’8% registrata nel 2020. La contrazione degli ultimi mesi ne determinerà infatti una conseguente nei prossimi.

Le imprese chiuse per obbligo di isolamento hanno licenziato molti addetti. Le strade delle città rese deserte dalle quarantene hanno cancellato in un batter d’occhio moltissimi lavoretti in nero, dagli ambulanti, ai camerieri, alle colf. Essendo il lavoro informale l’unica entrata reale per moltissime famiglie, ciò ha creato uno sprofondare nella miseria che sfugge alle statistiche ma è visibilissimo nella quotidianità. Il Fondo monetario internazionale fa una diagnosi allarmante della situazione: l’epidemia ha cancellato buona parte dei successi ottenuti nella regione negli ultimi cinque anni. Secondo il Fondo monetario solo nel 2025 si riuscirà a recuperare, nella più rosea delle ipotesi, il reddito reale pro capite che la regione aveva nel gennaio del 2020. L’Organizzazione internazionale del lavoro e la Cepal concordano nello stimare che si siano persi 48 milioni di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione avrebbe raggiunto l’11%, quasi 3 milioni di imprese hanno chiuso. La di-

Unicef

quando ancora governava Rajoy, e inoltre perché la legge è passata in Parlamento con un margine molto più ampio rispetto al voto di investitura. Questo è avvenuto grazie al «sì» esplicito degli indipendentisti di ERC e di Bildu, il partito che fu braccio politico dei terroristi baschi dell’Eta. Ciò da un lato ha dato linfa politica a Sánchez, rafforzandone la sua posizione, e ha accresciuto la possibilità che rimanga in carica fino al 2023, anno della fine della corrente legislatura. Dall’altro lato l’appoggio datogli da questi partiti estremisti ha scatenato le ire delle opposizioni. Partito popolare e Vox hanno parlato di un ignobile cedimento di Sánchez davanti ai «golpisti catalani» e ai «terroristi baschi». L’arrabbiatura dell’opposizione è andata aumentando ulteriormente dopo le recenti parole di apertura verso la Catalogna espresse dal primo ministro. Nella fattispecie, parlando dei rapporti tra Madrid e Barcellona, Sánchez ha parlato di «riconciliazione», ha riconosciuto che «tutti hanno commesso errori e che è importante superare episodi tristi del passato». Queste parole sono state lette politicamente come la preparazione del terreno per un possi-

bile indulto del governo ai leader indipendentisti catalani, in carcere ormai da più di tre anni. Gli analisti concordano però nel ritenere che questa carta nelle mani di Sánchez non sarà utilizzata prima dello svolgimento delle elezioni in Catalogna, previste per il 14 febbraio (Covid permettendo). Tuttavia il primo ministro ha sorpreso tutti recentemente, indicando il ministro della Salute Salvador Illa quale candidato alla presidenza della Generalitat. Illa, un catalano piuttosto grigio e pacato nei toni, era sconosciuto ai più fino al marzo scorso, quando il Covid è arrivato anche in Spagna e la sua faccia seria e occhialuta è entrata quotidianamente nelle case di tutti gli spagnoli. Le continue conferenze stampa sullo stato della pandemia gli hanno dato una visibilità enorme. Sánchez ha quindi voluto giocare d’anticipo sulla Catalogna, cambiando il candidato originario (Miquel Iceta, segretario del Psc, il Partito socialista catalano) e scegliendo un politico dal profilo conciliatore per una situazione politicamente incandescente come quella catalana. Il premier, con questa mossa a sorpresa, ha di fatto dato inizio alla campagna elettorale già 40 giorni prima dello svolgimento delle elezioni. Questa scelta ha dato carburante all’opposizione che non aspettava altro, accusando Sánchez di usare la pandemia per meri fini elettorali e di pensare più ai suoi interessi partitici che alla salute degli spagnoli. Il premier si gioca molto nell’appuntamento elettorale catalano giacché i suoi due incarichi governativi sono finiti (nel 2019) o nati per mano degli indipendentisti catalani di ERC attraverso il loro decisivo voto (prima contrario e poi favorevole) nelle Cortes di Madrid. È indubbio quindi che il risultato delle elezioni catalane avrà ripercussioni sul futuro del governo Sánchez sia internamente (nei rapporti di forza con Podemos) sia per quanto riguarda la sua stabilità parlamentare, a seconda di chi ne uscirà vincitore (il fronte indipendentista o unionista). Infatti molti pensano che i problemi per Sánchez inizieranno solo dopo lo svolgimento delle elezioni in Catalogna.

Gabriele Lurati


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Politica e Economia

Compromesso raggiunto

Casse pensioni Il Consiglio federale sposa l’accordo fra datori di lavoro e sindacati, che però non risolve il problema

del costo a carico delle giovani generazioni. È garantito, con l’AVS, il principio del 60% dell’ultimo stipendio Ignazio Bonoli Il Consiglio federale ha licenziato a fine novembre l’atteso messaggio sulla riforma della previdenza professionale. In sostanza ha sposato la tesi dell’accordo di massima concluso fra datori di lavoro e sindacati nella speranza di ottenere la tanto attesa maggioranza almeno a livello delle Camere federali. Ne avevamo scritto in un articolo («Azione» 19.08.2019) in cui citavamo alcuni difetti importanti, tra cui quello evidenziato dall’Unione svizzera arti e mestieri che non vuole un miscuglio tra sistema di distribuzione (quello dell’AVS) e sistema di capitalizzazione (quello delle casse pensioni). Altri punti di disaccordo potevano essere visti nella riduzione del salario coordinato (da 24’885 franchi a 12’443 franchi) e, quindi, nelle proposte di compensazione per la generazione di mezzo, nonché nell’aumento dello 0,5% del prelievo sui salari. Per finire, il costo di questa operazione avrebbe comportato oltre tre miliardi di franchi, contro meno di due miliardi per le altre proposte in campo. La proposta del Consiglio federale parte dal presupposto che il livello delle rendite attuali deve essere mantenuto. Cosa che può essere realizzata per la maggior parte delle rendite appunto prelevando lo 0,5% sui salari. Tuttavia, secondo il Consiglio federale, anche coloro che non avranno una diminuzione delle rendite avranno diritto a

una compensazione. Contestando altre proposte di riforma, il governo dice che nella maggior parte dei casi, rispetto alla situazione attuale, si avrebbero diminuzioni di rendite, in qualche caso anche superiori al 13%. La premessa per la complessa operazione è soprattutto la riduzione dal 6,8% al 6% del tasso minimo di conversione del capitale di vecchiaia in rendita, il mantenimento dell’età di pensionamento a 65 anni (però anche per le donne), l’età di entrata nella cassa pensione a 25 anni. Da tempo erano nate accese discussioni sul tasso di conversione, che in ogni caso, nella situazione finanziaria attuale, sarebbe dovuto scendere ben sotto il 6%. L’Associazione delle casse pensioni proponeva almeno il 5,8%, se non altro per attenuare il finanziamento delle rendite della parte obbligatoria prevista dalla legge con la parte non obbligatoria, per altro piuttosto corposa, di molte casse pensioni. Un altro tema spesso messo in discussione è quello dell’età di pensionamento. Un aumento è suggerito anche dal solo aumento della speranza di vita della popolazione, che oggi è molto superiore a quella del momento della creazione dell’obbligatorietà della previdenza professionale (il famoso secondo pilastro) con annesso il problema dell’età di pensionamento delle donne. Rispetto ai modelli alternativi, quello del Consiglio federale garantisce pensioni più elevate, ma grazie all’aumento del prelievo sui salari. Per gli sti-

L’opposizione a una riduzione delle prestazioni è forte, nella popolazione; il Consiglio federale ne ha tenuto conto. (Keystone)

pendi inferiori (fino a 40’000 franchi) la rendita è perfino superiore a quella attuale. Per i redditi superiori entro l’obbligo legale (85’000 franchi) le differenze fra i vari modelli sono minime. Globalmente la proposta governativa chiede un trasferimento maggiore di finanziamento dalle giovani generazioni verso le più anziane. Tutti i modelli

in discussione riescono comunque a soddisfare il principio di una rendita di vecchiaia (Cassa pensione + AVS) del 60% dell’ultimo stipendio. Il messaggio che sarà prossimamente discusso dalle Camere federali ripropone interamente quanto concordato dalle parti sociali. Questo non significa però che la proposta troverà

la necessaria maggioranza in Parlamento o eventualmente nel popolo. Non è, infatti, il pericolo di un’opposizione a destra o a sinistra che possa comprometterne la riuscita. A destra, oltre l’opposizione dell’USAM, si spera sempre in una riforma di fondo con una diminuzione delle rendite nominali, un aumento dell’età di pensionamento e in una forte riduzione del tasso di conversione. A sinistra, in questo campo, gli scontenti di solito non mancano. Bisogna comunque ammettere che tutte le proposte presentate perseguono una soluzione di compromesso, per cui le differenze su cui discutere sono minime. Questo può significare che da tutte le parti si ammette la necessità di una revisione di tutto il sistema, ovviamente però senza rimettere in discussione il modello svizzero dei tre pilastri. Ma, sotto questo aspetto, un problema che oggi non trova soluzione è quello del trasferimento di oneri dalle vecchie verso le giovani generazioni. In realtà, il sistema pensionistico professionale (secondo pilastro) prevede che ogni assicurato (obbligato) accumuli un proprio capitale di vecchiaia con il quale finanziare la propria rendita. Il principio rimane, ma, nella pratica, sono le finanze delle casse pensioni che non riescono a seguire l’evoluzione del numero e dell’età degli assicurati. Per il momento lo fanno ricorrendo alle riserve della parte non obbligatoria, ma questo non potrà durare in eterno. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Politica e Economia

La nuova mutazione del coronavirus frena la ripresa economica La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy

Mercato azionario svizzero finora impassibile 14000 13000 12000 11000 Fonte: Datastream (aggiornamento: 07.01.21)

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

La nuova mutazione del coronavirus diffusasi rapidamente nel Regno Unito richiederà probabilmente una proroga o un inasprimento delle misure di protezione in molti Stati membri dell’Unione europea e anche in Svizzera. In Gran Bretagna i nuovi contagi hanno registrato un forte aumento. Il governo britannico si è pertanto visto costretto a imporre un rigido lockdown. Dai primi studi emerge che il nuovo virus sembra essere più contagioso del 50%-70%. A causa delle restrizioni più severe per il coronavirus, la crescita del prodotto interno lordo nel primo trimestre del 2021 dovrebbe risultare (leggermente) negativa in molti Paesi europei. È probabile che, dopo l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, anche gli Stati Uniti applicheranno ulteriori restrizioni. La volatilità dovrebbe quindi aumentare sui mercati azionari. È maggiore la probabilità di rettifiche di corso: la borsa sembra infatti essere rimasta finora impassibile alla crescente diffusione della nuova variante del virus. La Banca Migros continua tuttavia a credere che il virus debba essere affrontato con vaccinazioni nel corso dell’anno. La disponibilità dei vaccini dovrebbe migliorare notevolmente nelle prossime settimane. Nulla sembra indicare ad oggi che i vaccini non agiscano o che agiscano di meno con la

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Swiss Performance Index

nuova variante del virus. Anzi, i primi dati suggeriscono che la mutazione non incide in alcun modo sull’efficacia e sul periodo di protezione che offrono i vaccini. I dati esistenti non sono comunque sufficientemente solidi per poter

chiarire con certezza questo punto. I virologi sono del parere che non si possa essenzialmente escludere che con la nuova variante alcuni vaccini perdano parte della loro efficacia. Gli esperti segnalano che, se dovesse rendersi necessario, nel giro di poche

settimane sarebbe possibile adattare i vaccini. E questo, nel peggiore dei casi, farebbe slittare di uno o due trimestri l’immunizzazione della società. Lo scenario più probabile resta ad ogni modo quello del superamento della pandemia. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’economia svizzera nel resto del mondo Con il consueto ritardo di un anno, la Banca nazionale svizzera ha pubblicato, il mese scorso, la statistica sugli investimenti diretti per il 2019. In termini di stock di capitale, ossia della somma cumulata degli investimenti realizzati nel corso degli anni, non c’è molto da dire. Sia per quel che riguarda lo stock di capitale svizzero investito all’estero, sia per quel che riguarda lo stock di capitale estero investito in Svizzera, le variazioni del 2019 sono minime. Lo stock di capitale esportato è diminuito dell’1%, quello di capitale importato dall’estero è aumentato dell’1%. Siccome però il livello dei due stock si aggira, in termini assoluti, sui 1500 miliardi, le variazioni sono pur sempre dell’ordine di 15 miliardi di franchi. Quello che si osserva, considerando l’evoluzione degli ultimi dieci anni, è che lo stock di capitale investito all’estero e quello delle economie straniere investito in

Svizzera è aumentato rapidamente fino al 2016 per poi stagnare sul livello già ricordato nel corso degli ultimi tre anni. L’andamento in questione relativizza naturalmente l’importanza di due aspetti degli investimenti diretti che fanno sempre parlare. Ci riferiamo, da un lato, al fenomeno di trasferimento di aziende dalla Svizzera verso paesi con bassi salari, o con economie emergenti, e dall’altro a quello del paventato assalto all’economia svizzera da parte di investitori provenienti da India, Cina o Brasile. Nel quadro statistico globale questi movimenti non sono rilevanti. Questo naturalmente non esclude che gli investimenti diretti, nelle due direzioni, ossia della Svizzera all’estero o del resto del mondo in Svizzera, non possano suscitare polemiche in singoli casi, in particolare quando si tratta di acquisti o di partecipazioni al capitale di aziende importanti. Per questa ra-

gione abbiamo studiato con particolare interesse la statistica sul numero e la cifra d’affari delle filiali di aziende svizzere all’estero, inserita quest’anno per la prima volta nel rapporto della BNS. La statistica sull’attività delle multinazionali svizzere, affermano gli autori del rapporto, dà un’idea di quanto sia avanzata la globalizzazione all’interno delle multinazionali con sede nel nostro paese. Nel 2019 queste aziende possedevano 19’580 filiali nel resto del mondo. Il 42% di queste aziende dipendenti erano filiali di aziende industriali mentre il resto era rappresentato da filiali di aziende del settore dei servizi. Nel rapporto della BNS si sottolinea ancora che il gruppo maggiore di filiali si trovava nel ramo degli «Altri servizi». Si tratterebbe dunque di piccoli uffici di rappresentanza con il quale le aziende svizzere cercano di essere presenti su tutti i mercati del mondo. Ma le filiali delle

multinazionali con sede in Svizzera non sono solo uffici di rappresentanza a Hong Kong, Singapore o a Abu Dhabi. Lo testimoniano sia i dati relativi ai posti di lavoro creati, sia la loro cifra d’affari. Da molti anni il rapporto sugli investimenti diretti ci informa sull’evoluzione dell’impiego nelle multinazionali svizzere. Così sappiamo che le aziende svizzere con filiali all’estero impiegavano, nel 2019, 546’900 persone in Svizzera e 2’072’900 nelle filiali distribuite nel resto del mondo. Ciò significa che per ogni posto di lavoro creato in Svizzera queste aziende avevano creato 3,7 posti di lavoro all’estero. Certo che se si potesse, in qualche modo, tener conto, per esempio nel finanziamento delle nostre assicurazioni sociali, di questo impiego delle aziende svizzere nel resto del mondo – mormora qualcuno – potremmo fare a meno di preoccuparci per il loro futuro finan-

ziamento. Nella statistica per il 2019, è stata anche inserita, per la prima volta, una tabella sulla cifra d’affari delle filiali in questione. Nel 2019 le stesse hanno realizzato una cifra d’affari pari a 741 miliardi di franchi. Si tratta di una somma leggermente superiore al Prodotto interno lordo realizzato dall’economia svizzera nello stesso anno (726,9 miliardi). Naturalmente non conosciamo il valore aggiunto dalle filiali di aziende svizzere al Pil delle loro economie nazionali e quindi non possiamo fare un paragone preciso. Tuttavia, tenendo conto dei dati sulla cifra d’affari, possiamo affermare che, per l’economia svizzera, oggi il rimorchio, rappresentato dall’attività delle filiali nel resto del mondo, è quasi altrettanto importante della motrice, ossia dell’intera prestazione dall’economia svizzera, vale a dire quella delle case-madri più quella delle aziende che non hanno filiali all’estero.

moderati del campo avverso, isolando gli estremisti del proprio. I risultati elettorali, compreso il ballottaggio in Georgia, lo incoraggiano, ma non gli garantiscono il successo: lo scorso 3 novembre non c’è stata la valanga democratica prevista dai sondaggi, bensì una vittoria di misura che Trump nella sua povertà morale ha rifiutato e rifiuterà di riconoscere. Le inchieste dovranno chiarire se la «presa del Campidoglio» è stata frutto solo di imperizia o se ci sono responsabilità operative – oltre che politiche – del presidente sconfitto. Di sicuro la prospettiva di una scissione nel partito repubblicano non è credibile: il sistema elettorale la esclude; gli esponenti ragionevoli del Gop dovranno combattere la propria battaglia nel proprio partito. E il banco di prova ideale sarebbe concordare con i democratici la riforma di un sistema di transizione troppo lento e farraginoso, in un tempo che richiede decisioni immediate. Ora Biden non ha solo un’America da

pacificare. Ha un mondo da riconquistare, o meglio con cui ricucire. Angela Merkel non ha aspettato il nuovo presidente per concludere lo strategico accordo commerciale con Xi Jinping. Trump ha segnato, anche grazie ai social, un cambiamento anche antropologico nella politica. Il suo modello non è mai stato Bush o Reagan o Nixon o Eisenhower. Il suo modello è Hulk Hogan, il re del wrestling, la lotta in cui nessuno si fa davvero male. Come Hogan, Trump visto da vicino è altissimo, sovrappeso, torvo, minaccioso, malmostoso, ma sempre pronto ad aprirsi in un sorriso ammiccante, a tirare all’interlocutore una pacca condiscendente. I suoi non sono comizi, sono show. Sostiene di non aver mai sentito un discorso di Obama sino alla fine. Lui usa lo spettacolo e usava Twitter finché non gliel’hanno tolto. Ha passato quattro anni a dire in sostanza due cose: l’America non è mai stata tanto forte, ricca, potente nella storia; eppure l’America è in pericolo e deve

essere protetta. Tutta la sua politica va letta come un’alternanza tra orgoglio e paura, tra senso di superiorità e allarme per l’impoverimento della classe media e la perdita di sovranità a favore del mondo globale. Sentimenti estranei all’élite che studia, viaggia, compete con l’estero, ma molto vivi nelle classi popolari, in particolare i bianchi. Il rapporto tra The Donald e la sua gente è molto diverso da quello che legava Obama ai sostenitori. Obama era più apprezzato che amato. La gente ammirava lui, la sua storia personale, la sua cultura; ma non era sfiorata dall’idea di essere come lui, di essere lui. Con Trump l’identificazione è totale. Perché Trump non è percepito come un miliardario, ma come un povero con i soldi. Che pensa e sente come i suoi elettori. Fino a quando non accade l’incidente, che pure nel wrestling è sempre in agguato. L’assalto a Capitol Hill è stato l’incidente. Per questo ora Trump è più debole. Anche se questa non è una buona ragione per togliergli Twitter.

invece la sua attività come consigliere federale: un po’ perché il dipartimento che dirigeva (gli Interni) era considerato marginale e un po’ perché le sue cagionevoli condizioni di salute e la sua progressiva sordità gli impedivano una piena integrazione nella squadra di governo. Risultato: a Berna Franscini fu un isolato, un solitario che alla dialettica politica, non priva di asprezze, preferiva la quiete dello studio. A conferma, Altermatt riporta un giudizio poco lusinghiero che la «Gazette de Lausanne» espresse all’indomani della scomparsa (1857): «Egli ha modestamente assolto le sue funzioni e la sua morte non avrà nessuna influenza sulla conduzione degli affari». Si sa che Franscini avrebbe volentieri dismesso i panni del politico per assumere quelli di professore di statistica nel neonato Politecnico di Zurigo. La sua domanda fu tuttavia respinta, aggravando il suo stato di salute fisico e psichico. Ben più incisiva, aggiunge Altermatt, fu l’azione di governo del suo successore,

il locarnese Giovan Battista Pioda, sebbene anche lui, appena poté, preferì lasciare Berna per diventare ministro plenipotenziario svizzero nel Regno d’Italia, prima a Torino e poi a Firenze e Roma. Ma torniamo alla presidenza, carica spesso declassata alla funzione di semplice rappresentanza. Il presidente di turno sarebbe solo un «Schattenkönig», un re-ombra, un sovrano-virtuale. La definizione non persuade, da un lato perché sottovaluta la valenza simbolica dell’investitura, dall’altro perché anche questa carica può imprimere un’accelerazione inattesa a processi mai veramente decollati. Lo si è visto con Flavio Cotti nel 1991 e nel 1998: in entrambi i casi, Cotti seppe scrollare un paese ch’era diventato abulico e percorso da impulsi autodistruttivi, specie dopo la bocciatura di CH 91 nei cantoni della Svizzera centrale. Cotti volle invece ridare all’anniversario la dovuta dignità, spalleggiato in questa sua operazione da Marco Solari e Mario Botta.

In&outlet di Aldo Cazzullo Trump «lascia» lo show Togliere Twitter a Trump significa fargli un favore. Perché Trump da sempre si atteggia a vittima del sistema e ora i padroni della Rete si comportano in modo tale da confermare il suo schema. Detto questo, Trump ha responsabilità gravissime. Chiunque abbia seguito una campagna elettorale americana sa che i personaggi che hanno assaltato il Campidoglio il giorno della Befana – il biker barbuto, l’energumeno ipertatuato, il culturista con bandana stelle e strisce, financo lo sciamano cornuto con la pelle di bisonte – ci sono sempre stati e sempre ci saranno. C’erano ai comizi di Bush figlio, di McCain, di Romney, di candidati repubblicani che hanno disprezzato Trump. Venivano accolti dalla folla con un applauso di simpatia, come figure folcloristiche e divertenti. Venivano ripresi dai network in cerca di colore: da quelli di destra, come segno di un radicamento popolare, per quanto bizzarro; da quelli di sinistra, come conferma della propria superiorità

morale. Ma della politica americana erano il contorno. Nessuno avrebbe mai immaginato di vederli in mondovisione occupare il Campidoglio. Se questo è accaduto, se le comparse sono diventate protagoniste, se gli estremisti hanno preso il potere nel 2016 e ora tentano maldestramente di difenderlo, è perché Donald Trump ha provocato una mutazione della destra e della politica Usa. E questo non è solo un problema della sinistra. È un problema anche e soprattutto della destra. Che da conservatrice è diventata populista, da patriottica si è fatta nazionalista. L’America è sempre stata divisa; ma non è mai stata polarizzata come adesso. Trump esce di scena nel peggiore dei modi; e da oggi rientrarci sarà per lui meno facile. Ma i mostri che ha liberato non torneranno facilmente nell’antro oscuro del malessere americano. Joe Biden, il più anziano presidente mai eletto, si insedia nel momento più delicato. La sua strategia è chiara: conquistare i

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Presidente per un anno (ripetibile) Anno nuovo, presidenti nuovi. Memorizzare il nome delle più alte cariche, della Confederazione e dei Cantoni, non è per niente facile. Ogni volta c’è chi si scandalizza, puntando il dito contro la scuola, colpevole di trascurare l’«educazione civica». Ma insomma, è anche comprensibile, considerato che la presidenza cambia da un anno all’altro. E poi la costellazione politicoistituzionale del paese non aiuta. L’opinione pubblica inizia a conoscere i Consiglieri federali solo dopo l’elezione, allorché muovono i primi passi sotto le luci dei riflettori, non prima. Fino a quel momento il loro nome risulta familiare solo ai parlamentari che siedono a Berna, e forse ai giornalisti accreditati. Nei paesi limitrofi, tutti conoscono i capi dello Stato, anche perché rimangono in carica a lungo (Macron per cinque anni, Mattarella per sette). Da noi si fa più fatica, bisogna superare le barriere linguistiche, informarsi, seguire la cronaca politica. Il presidente confederale di turno è solo un «primus

inter pares», non esibisce le greche di un «président de la République» come in Francia. È anche possibile che il prescelto provi un senso di frustrazione, a fronte della breve durata del mandato e degli scarsi poteri che la Costituzione gli attribuisce. Ad ogni modo, scaduto il termine, si vede costretto a rientrare nei ranghi e a cedere il posto al subentrante. «Servir et disparaître», pareva poi essere la consegna alla quale doveva attenersi il politico che usciva di scena al termine del suo iter pubblico. Tutto questo – come spiega Urs Altermatt nel suo ultimo saggio dedicato ai primordi del Consiglio federale – è maturato nel tempo, fra contrasti, prove di forza e compromessi. Sin dalla sua nascita nel 1848 il governo centrale si è autoconcepito come organo collegiale, sebbene i suoi membri appartenessero tutti alla «grande famiglia» liberale, e questo fino al 1891, anno in cui fece il suo ingresso il primo rappresentante cattolico, il lucernese Josef Zemp. Ma sarebbe sbagliato, argomenta Alter-

matt, considerare il «Freisinn» elvetico come una compagine omogenea e priva di tensioni interne. Le correnti e le rivalità erano numerose, espressioni di interessi divergenti, sia economici che regionali nelle loro articolazioni culturali, linguistiche, confessionali. I partiti erano scarsamente organizzati sul piano nazionale, e il liberale operante sulla piazza finanziaria di Zurigo ben poco sapeva del suo collega che proveniva dai cantoni di montagna. Ci si può chiedere infatti quali fili intercorressero tra un Alfred Escher, il barone delle ferrovie, e uno Stefano Franscini, un magistrato figlio di contadini «nato povero e morto povero». L’autore del saggio – appena uscito nelle edizioni della NZZ e intitolato Da focolaio di disordini a Repubblica stabile. Il Consiglio federale dal 1848 al 1875 – ricorda la simpatia che ha sempre accompagnato la parabola del politico leventinese, il suo itinerario come precettore e cultore di indagini statistiche. Non altrettanto brillante fu


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Idee e acquisti per la settimana

Massima praticità Comodi gadget semplificano la convivenza quotidiana con le mascherine: varie stampe mettono in primo piano il colore, pratiche custodie garantiscono l’igiene delle mascherine, mentre il cordino porta mascherina assicura che la protezione per bocca e naso sia sempre a portata di mano

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Cultura e Spettacoli In memoria di Rosbaud Ritratto di un grande direttore d’orchestra che influenzò quelli che vennero dopo di lui

L’Atlas di Niccolò Castelli Il cinema ticinese è cresciuto: la 56esima edizione delle Giornate del cinema di Soletta vedrà protagonista Atlas di Niccolò Castelli

Street food ante litteram A Pompei è stato scoperto un termopolio che saprà dirci molto sulle abitudini alimentari dell’antichità pagina 30

pagina 29

pagina 28

Mito e tormenti di Vincenzo Vela Anniversari Una serie di pubblicazioni attorno a vita e opere dello scultore

Pietro Montorfani Giunti nel punto equidistante dai due anniversari che celebrano in questi mesi la figura di Vincenzo Vela, i duecento anni dalla nascita (maggio 1820) e i 130 dalla morte (ottobre 1891), ci siamo ritrovati tra le mani una piccola messe di pubblicazioni assai eterogenee per stile e contenuti, tese però tutte a favorirne la persistenza del nome, tra i massimi dell’Ottocento europeo, e l’ininterrotto dialogo con la contemporaneità. Regista di questa vasta operazione, non c’è quasi bisogno di dirlo, la Casa-Museo di Ligornetto, diretta oramai da molti anni da Gianna Mina. Sul mio tavolo stanno quindi nell’ordine: un mastodontico e rigoroso carteggio in tre volumi, opera di impostazione accademica curata da Giorgio Zanchetti per le Edizioni dello Stato del Cantone Ticino (collana «Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana», vol. 15); una curiosa graphic novel, illustrata da Hannes Binder con didascalie poetiche di Alberto Nessi, dedicata alla vita di Vela ripercorsa a ritroso dai protagonisti del suo capolavoro più tardo, Le vittime del lavoro (la pubblicazione è, non per caso, sostenuta dalle FFS in occasione del completamento di Alptransit); infine, edita come la precedente da Casagrande di Bellinzona, una non esile antologia poetica di cui non dirò nulla per essere io stesso piccola parte in causa, ma della quale colpisce senz’altro la vastità degli stimoli proposti dagli autori, non circoscritti alle solite 2-3 sculture più note, come se ognuno fosse riuscito a ritagliarsi con originalità un proprio Vela. La forma stessa di questi tre titoli dichiara la diversa destinazione dei volumi, fermo restando il desiderio comune a tutti di andare al fondo della vita e dell’opera dell’artista ticinese. E qui sorge spontanea una domanda: quando «nasce» il celebre scultore? A che altezza cronologica Vela inizia ad essere inequivocabilmente Vela, e lui solamente, senza più ombra di esitazione? Altrimenti detto: dove si situa la sua più pura identità, l’essenza in grado di garantirne lo status di artista privilegiato non solo durante la sua epoca, ma ancora in questi tempi contraddistinti da una memoria storica così breve? Il confronto con gli scultori attivi in Ticino nella seconda metà del XIX secolo, da Raimondo Pereda a Luigi Vassalli alla pur bravissima Adelaide MarainiPandiani, non potrebbe essere infatti più schiacciante. Vela era un mito e, quel che più colpisce, non ha mai veramente smesso di esserlo. Se possibile, la sua caratura è cresciuta con il tempo invece di diminuire. Quel luogo, lo spazio fisico e mentale in cui l’artista di Ligornetto divenne per sempre tale, si trova a Lugano, nell’atrio di ingresso di Palazzo Civico,

Incisione di Hannes Binder realizzata con la tecnica dello scraperboard per la graphic novel Ti chiamavano Cenzìn.

ed equivale al metro scarso che separa il ritratto del vescovo Giuseppe Maria Luvini (1845) dall’indimenticabile tensione dello Spartaco (1847), opera che come ebbe a scrivere Carlo Cattaneo congiunge «la semplice verità della forma alla potenza dell’affetto». Per qualche mese lo Spartaco sarà ancora dislocato nella sede del MASI di Palazzo Reali, ma una volta ritornato al suo posto risulterà di nuovo evidente il balzo tra la pur apprezzabile figura del cappuccino luganese, divenuto vescovo di Pesaro nel 1785, e l’incarnazione stessa della lotta per la libertà, emblema di ogni moto democratico. Tra i due, opera del 1846, la commovente Preghiera del mattino, altra cifra stilistica di Vela, altra personificazione altissima di un concetto simbolico che non rinuncia a una resa mimetica degna della più grande letteratura verista. Quanto il mito di Vela sia stato precoce e in molta misura debitore proprio delle opere scolpite in quegli anni, tra il 1845 e il 1847, traspare anche dalla lettura del corposo carteggio, curato da Zanchetti partendo da materiali conservati all’Archivio federale di Berna (le lettere dei corrispondenti e alcune

minute dello stesso Vela) e da una vasta ricognizione in altri archivi sparsi tra Italia, Svizzera e Francia, cioè i principali luoghi di attività dello scultore. «Quando ci rivedremo» gli confidava il 18 settembre 1855 lo scrittore Andrea Maffei «ti parlerò delle cose vedute a Parigi ed altrove: sappi intanto che fra la tua statua [lo Spartaco] e le altre esposte c’è un abisso di mezzo». Tra la Torino di Vittorio Emanuele II e la Parigi di Napoleone III, sovente in contesti che non corrispondevano in toto alla posizione politica dello scultore, ma che certo gli diedero molte soddisfazioni professionali, si giocano gli ultimi anni della sua carriera, funestati però anche dall’insuccesso clamoroso del progetto ginevrino per il monumento commemorativo al Duca di Brunswick, 1873-78, che assume nell’epistolario un peso preponderante (150 lettere su poco più di un migliaio). I testi scritti di proprio pugno da Vela, circa un terzo del totale, ne restituiscono il carattere mite ma fermo e, sotto il profilo linguistico, una buona capacità di scrittura: «Deve il sottoscritto esprimere a codesta Inclita Academia di Belle Arti la propria riconoscenza per

l’onore che le piacque impartirgli...» (13 luglio 1852, per il gran rifiuto a socio onorario dell’austriacante Accademia di Brera). Dotato di una cultura letteraria non di secondo piano, necessaria a un artista di dichiarate ambizioni intellettuali, al poeta del Cinque maggio Vela mandò nel 1866, per segnare un comune sentire, una fotografia del suo Napoleone morente con questa dedica manoscritta: «A Alessandro Manzoni, dal cui Canto Immortale invocò il soffio ispiratore V. Vela». Invano si cercherebbe però nel carteggio, nonostante il numero dei corrispondenti (469), uno scorcio di vita non professionale e, anche di quelli, quasi solo gli aspetti meno problematici. La selezione operata dalla moglie Sabina Dragoni ci consegna un artista che solo a tratti mostra i suoi veri tormenti. Ad esempio nell’allusione feroce di George Thomas Smith, tra i committenti del monumento a Carlo di Brunswick, secondo il quale il progetto di Vela sarebbe stato opera di un ubriaco («the result of a Bacchanalian inspiration», 22 giugno 1877), in linea con quanto ebbe a scrivere a Giuseppe Verdi la contessa Giuseppina Negro-

ni all’indomani della scomparsa dello scultore: «Che peccato che quell’uomo di tanto ingegno, d’eccellente carattere, modesto e generoso, si sia lasciato dominare dal vizio del vino che lo trasse alla tomba innanzi tempo» (8 ottobre 1891, non compresa in questo carteggio, comprensibilmente, perché lettera di terzi a terzi). Soltanto allargando il quadro ad altri documenti coevi, non per indulgere al pettegolezzo bensì per cogliere la natura anche drammatica del rapporto dell’artista con la propria epoca, si potrà raccontare per davvero questa storia. Intanto bisogna comunque essere grati a chi ha inteso, con grande sforzo e competenza, aumentare la mole dei documenti a disposizione degli studiosi. Bibliografia

Vincenzo Vela, Carteggio, 3 volumi, a cura di Giorgio Zanchetti, Edizioni dello Stato, 2020. Hannes Binder / Alberto Nessi, Ti chiamavano Cenzìn, Casagrande, 2020. Poeti per Vincenzo Vela, Casagrande, 2020.


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PRO SENECTUTE

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Come è profondo il mare

Novità Servizio di aiuto alla spesa In un periodo caratterizzato da importanti limitazioni e timori, è stato riattivato il servizio di aiuto alla spesa. Di principio è destinato a persone che non possono contare sull’aiuto di famigliari, conoscenti o servizi erogati da altri enti e si avvale del supporto prezioso di volontari. Maggiori informazioni consultando il nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17

Poesia Il poeta italiano Giuseppe Conte dedica i suoi pensieri

e le sue riflessioni all’immensità e all’incanto del mare Guido Monti Giuseppe Conte nella sua lunga e rilevante storia poetica, ci regala con la raccolta uscita per Lo Specchio, Non finirò di scrivere sul mare, una grande riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con questo liquido sconfinato, in perpetuo movimento e come dice egli stesso in nota, il Mediterraneo di Ossi di seppia, tra le altre opere, è sicuramente presente come calco, flusso di pensiero sotteso, nelle dodici sezioni in cui è diviso il libro. E però per l’autore questa riflessione può prendere l’abbrivio, non certo dalle mere astrazioni libresche, ma solo dal limitare di un incontro tra l’occhio allenato allo sguardo e la linea d’orizzonte tremula che risponde col suo movimento infinito: «Non finirò di scrivere sul mare. / Perché il mare è le Sirene la cui voce / calamitante d’amore oscura / voglio ascoltare senza paura / io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca / né Penelope né Telemaco che valgano / più del canto e delle traversate. / …».

Oltre a essere un libro sul mare, questa è anche l’opera dei tanti tempi, nonché un’immensa preghiera laica Tutto, sempre, in questi versi inizia da quella relazione vitale e sapienziale tra l’elemento percettivo umano e quello naturale che si alza dalle profondità marine. E l’autore non fa altro che scrutare in esse, come già fece in quel gran libro che fu L’oceano e il Ragazzo, trovandovi nient’altro che i lunghi travagli e abissi della sua psiche; talvolta affinando l’udito, ode da quella massa infinita, un bisbigliare di ritorno alle sue domande aperte, ilari, vitalistiche.

Scherzose come quelle dei bambini sembrano scoscendere in forma di versi nella battigia, prendere il ritmo di risacca, volere in qualche modo mischiarsi al suo moto perpetuo che dà poi tutte e nessuna risposta: «… / parlano fitto di Montecarlo, prezzi, hotel. / O mare, o mio bel / mare d’autunno / h. 11,10 / cosa ne dici tu, cosa mi dici / di felici e infelici, / ne sai qualcosa?». Ecco allora qual è stato l’elisir di giovinezza dell’autore: aver mantenuto col mare un perpetuo rapporto per assorbirne il suo eterno principio. E certo nelle varie sezioni, vi è questo avvicendarsi di tante figure, conosciute, sconosciute, che innanzi alla sua lucente e maestosa terrazza sembrano per contro portare il peso di una fragilità senza scampo. Tra i versi stringati o dall’andatura poematica, le vite degli altri con le loro microstorie magistralmente intagliate, sembrano alimentarsi di quel blu vitreo, lontano, subirne l’influsso magnetico e di esso esserne per sempre debitrici: «… / E tu sei così solo stamattina. / h.11,02 / Quasi come me. / O come quel signore che io vedo / solo di schiena, dai capelli lunghi grigi, / … / che da un’ora e più si accende sigarette / … / Quali dolori avranno conosciuto i suoi ieri, / quali conoscerà adesso. / …». Questo, è anche il libro dei tanti tempi, con i loro protagonisti quasi incorniciati nello spazio attrattivo e atemporale della riva, è la pagina dei tanti luoghi toccati, tutti a baciare riconoscenti uno stesso sibillino mare, sia esso indiano o ligure. Ma confrontarsi davvero con l’oceano, cercandovi struggimento, scontro o abbraccio, significa anche misurarsi col suo mito e quindi con la nostra parte più fuggevole, psicologicamente impegnativa, interiormente remota; solo in seguito potremmo godere a fondo della sua presenza, capendone i riverberi, le accensioni, la sua ferocia disumana.

Conte appunto lambisce nei suoi versi il mito, perché ha saputo entrare primariamente nel mare materiale che da sempre lo ricopre, vivendolo ed interpretando a fondo la sua «pagina rombante», come direbbe Montale. Per questo è riuscito a catturare, nella sua trama poetica, Nausicaa, l’Odisseo millenario ma anche quello contemporaneo, chiamato a ragione e con punta d’ironia «Internauta», o gli spiriti guida degli dei-natura che partecipano alle apoteosi marine, o quella sillaba pronunciata dagli avi in punto di morte, che nomina ancora mare e quindi mito, col suo tempo che è stato e che sarà: «… / pare che disse solo una parola / spirando, pare che disse solo: ma’! / Chissà se avrà visto in quell’attimo il mare, / il mare della morte e della vita / … / la barca di Caronte che traghetta / senza peso né rotta / nel buio degli inferi le folle, / o se invece volle dire: madre! / volle chiamare lei, proprio lei, / mae Annettina, / …». Talune pagine di questo libro anche dal forte spessore etico ed ambientale, possono allora anche essere interpretate come una immensa preghiera laica rivolta a ogni uomo di buona volontà a che non sovverta definitivamente l’equilibrio marino; facendolo difatti, annienterebbe quelle stesse storie che viaggiano nelle ampolle schiumose da millenni, e quindi la nostra memoria e identità, ricacciandoci nel nulla: «… / Ci sono uomini schiavi che vorrebbero / ridurti a schiavo, profanarti / … / Ma non potranno. Per quanti / siano basta una tua onda a respingerli. / Non saranno mai chiuse / le porte del tuo tempio, mare, / così sante per chi ancora le sa vedere, / …».

Gambe forti per camminare sicuri Pro Senectute con il team di formatori di Gambe forti per camminare sicuri raccomanda a tutte le persone di fare movimento in maniera regolare anche in questo periodo in cui le strutture sportive e i corsi sono sospesi. Muoversi almeno mezz’ora al giorno è importante per il benessere fisico e psichico in questo delicato periodo. È possibile richiedere l’opuscolo «I vostri esercizi per tutti i giorni» all’Associazione PIPA (pipa@ticino.com o Tel. 079 357 31 24)

Attività e prestazioni – DOCUPASS: Con questo documento mettete per iscritto i vostri desideri, le vostre esigenze e le vostre aspettative per i casi di emergenza. Corsi strutturati in un incontro di 2 ore a livello regionale: Muralto, Lugano, Giubiasco e Mendrisio. Maggiori informazioni telefonando allo 091 912 17 17. – Pasti a domicilio: Durante la crisi sanitaria i beneficiari del servizio sono aumentati notevolmente. Possono richiedere un pasto a domicilio le persone in età AVS o AI e le persone in malattia con certificato medico. Maggiori informazioni sul sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Seminari di preparazione al pensionamento In collaborazione con Avantage, attiva da oltre 25 anni su questo tema, proponiamo seminari di preparazione al pensionamento rivolti alle persone che si trovano a meno di 5 anni dalla pensione. I seminari durano 2 giorni e possono essere organizzati sia nella versione inter-aziendale (aperti a dipendenti di più aziende) che intra-aziendale, quindi organizzati ad-hoc per una singola azienda. Maggiori informazioni sul nostro sito internet.

Bibliografia

Giuseppe Conte, Non finirò di scrivere sul mare, Milano, Mondadori, 2019.

– Volontariato Cerchiamo sempre volontari per i diversi ambiti della nostra Fondazione, in particolare cerchiamo persone disponibili per il servizio fiduciario.

Contatto: Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 info@prosenectute.org

Il poeta italiano Giuseppe Conte, classe 1945. (Leonardo Cendamo)

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Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto www.prosenectute.org Seguiteci anche su Facebook!


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Cultura e Spettacoli

Rosbaud, scrupolo e autorità

Musica Il direttore d’orchestra Hans Rosbaud (scomparso a Lugano nel 1962) è stato un grande esempio

per tutti quelli venuti dopo di lui

Giovanni Gavazzeni Pierre Boulez, Verbo indiscutibile per mezzo secolo della musica contemporanea, manifestava, bontà sua, ammirazione nei confronti di un direttore d’orchestra oggi poco noto, l’austriaco Hans Rosbaud (nato a Graz nel 1895 e morto, durante una convalescenza a Carabbia, nel 1962). In un certo senso Boulez aveva spiccato il volo nella carriera direttoriale, proprio quando Rosbaud aveva iniziato ad avere i primi problemi di salute. Testimoniando il debito come compositore, Boulez mostrava di essere lui ad avere raccolto il prezioso testimone di gran pontefice della contemporaneità («sono troppo conscio di quanto gli devo come compositore, senza di lui la mia musica non sarebbe stata eseguita come è stata. Ho chiara memoria delle sue prove, perché ho imparato così tanto dalla sua attitudine professionale a qualsiasi cosa stesse facendo»). Rosbaud era capace di ottenere la cifra incredibile di 44 prove d’orchestra per assicurare l’adeguata prima esecuzione del brano che diverrà emblema di Boulez, Le marteau sans maître. Uno zelo tecnico e morale che riservava a tutte le prime esecuzioni storiche di Messiaen, Ligeti, Penderecki, Xenakis, Henze nel corso delle famose Musiktage di Donaueschingen, il sancta sanctorum dell’avanguardia, dove diede qualcosa come 56 prime assolute. Lo scrupolo e l’autorità con cui

Rosbaud dirigeva le novità del giorno con l’orchestra che aveva plasmato, l’Orchestra della SWR di Baden-Baden, metteva d’accordo compositori che fra loro si vituperavano senza pietà. È famoso il turpe episodio che vide Boulez, Nono e Stockhausen, subito dopo le prime battute di Nachtstücken und Arien di H.W. Henze, alzarsi e abbandonare la sala sdegnati, nonostante Rosbaud, cui dovevano tutto, dirigesse. Al gesto plateale, seguì la scomunica generale dell’autore, reo di aver scritto un pezzo «bello» che piaceva al pubblico, il tutto in barba a quella libertà culturale di cui si riempivano la bocca. Ma Rosbaud era un uomo senza chiusure: nel suo repertorio c’era grande spazio per le tre corone classiche (Haydn, Mozart e Beethoven), per i romantici tedeschi e i moderni; dirigeva la musica della bestia nera dei teorici dell’avanguardia (Jean Sibelius) e quella del loro idolo (Mahler) in tempi non sospetti; poteva farsi applaudire nelle terre dei vinti (il santuario bruckneriano di München) e in quelle dei vincitori, colonna del neonato Festival di Aix-en-Provence, dove lo snobissimo fondatore Gabriel Dussurget lo volle per un decennio direttore dell’opera simbolo, il Don Giovanni di Mozart nell’allestimento sintetico di Alphonse Cassandre e di storiche riprese di Gluck e Rameau, tutte eseguite con drammaticità senza pesantezze teutoniche e con una cura (compresi i recitativi italiani e francesi) allora molto rara.

Il direttore, compositore e pianista Hans Rosbaud in una fotografia del 1954. (Keystone)

Durante l’epoca nazista, Rosbaud, distintosi a Radio Francoforte per l’eclettismo dei programmi e le collaborazioni con i massimi compositori del tempo, Stravinskij e Bartók, Hindemith e Schoenberg, si ritirò in secondo piano, stabilendosi a Münster in Vestfalia e poi a Strasburgo, dove la mano

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degli occupanti tedeschi imponeva con violenza la germanizzazione dell’Alsazia. A guerra finita gli americani gli offrirono subito un posto alla Filarmonica di München e i francesi lo vollero a Aix e a Parigi, dove per i transalpini divenne le grand mozartien. Il profilo cauto e il riserbo tenuti

durante la guerra avevano origine in un fatto che si è scoperto solo quarant’anni dopo. Vale a dire quando uno scienziato che aveva lavorato al Progetto Manhattan rivelò che Paul Rosbaud, il fratello fisico e giornalista di Hans, reclutato dal servizio segreto inglese MI6, aveva aiutato scienziati ebrei a fuggire dalla Germania, informato gli Alleati degli imminenti lanci dei razzi bomba V2 e dei fallimenti tedeschi sulla bomba atomica. Forse era stato proprio lui a consegnare a Oslo il più famoso resoconto sulle armi segrete naziste redatto dal fisico antinazista Meyer, il Rapporto Oslo. Nuovi «ritrovamenti» negli archivi della SWR di Baden-Baden consentono di apprezzare la sensibilità fonica (Seconda scuola di Vienna, Sibelius, Stravinskij) e l’asciutta razionalizzazione degli impulsi infuocati della Romantik (Weber e Mendelssohn), la religiosità cosmica di Bruckner e la tragica essenza di Mahler, la misura lucida con cui interpreta l’autore più difficile di tutti, Mozart. Rosbaud aveva il dono di staccare tempi «giusti», di differenziare gli allegri, con fraseggi e dinamiche misurate frase per frase, sfuggendo alla genericità e all’imbellettamento della routine mozartiana. Hans Rosbaud morì un mese prima del fratello Paul, a soli 67 anni. Si trovava a Carabbia, non distante dall’altro grande apostolo della musica moderna, il tedesco Hermann Scherchen, che aveva stabilito in Ticino, a Gravesano, la sua casa-laboratorio.

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L’ultimo numero della sempre sorprendente «Rivista italiana di onomastica» diretta da un quarto di secolo da Enzo Caffarelli riferisce con respiro di un articolo del linguista Alfonso Germano, che si è preoccupato di raccogliere un gran numero di nomignoli imposti agli emigrati italiani nel mondo. Come puntualmente capita, questo tipo di etichetta rappresenta una curiosità in sé ma ci dice anche molto di atteggiamenti e mentalità di fondo delle comunità coinvolte. Alcune «fabbriche» linguistiche tipiche sono arcinote, alla ricerca e ai parlanti. C’è un diffuso insistere sull’alimentare, la pasta in particolare: i Maccheroni, il tedesco Spaghettifresser, dove quel fressen è il verbo per usare il consumo di cibo da parte degli animali (da noi, maiare). Ma anche, nella Svizzera tedesca e in probabile rinvio ai flussi immigratori precoci dall’Italia del Nord, Bolanderschlugger, «ingoiapolenta». In questa serie hanno spazio anche l’aglio (nell’area anglofona), los Polpettos nell’America del Sud, il plurirazzismo di mozzarellanigger, qualcosa tipo «negro-mozzarella», pizza, vini e altro. Le categorie alternative sono quelle ovvie della denigrazione etnica: gli animali, le riduzioni associate alla malavita e alla mafia (qui andrà citato il tedesco Messerhelden, gli «eroi del coltello», e il brasiliano carcamano «furbastro»), i tipicamente svizzero-tedeschi Cincali e Minghiaweisch, con quest’ultimo che risuona il classico fenomeno del codeswitching ben conosciuto e sentito da chi frequenti quelle regioni e quegli individui bilingui. Ben al di là della questione relativa

a se quanto richiamato da nomignoli e blasoni sia o meno oggettivamente attribuibile alle comunità immigrate, peraltro mai interpellate sull’effetto che fa, queste formazioni dicono tanto delle società che le producono. Perché dipende dal calderone da dove si pesca per indicare il diverso: un’evidenza vistosa della cultura come le abitudini alimentari, la storia, la politica, la stessa lingua parlata da chi decidiamo di accogliere o no. Un altro asse di fluttuazione qualifica però rumorosamente questo comportamento e i suoi attori: l’opzione data tra lo scherzo leggero e innocuo da una parte e l’offesa pesante e senza appello dall’altra. A doversi mettere in gioco è chi, desolato, deve subire questo settore del malcostume linguistico e sociale. A chi arriva non resta altra scelta che prendere atto del tipo di semplificazione che altri hanno scelto per lui, cercando di faire avec, come si dice, senza troppi danni. Bibliografia

Blasoni e nomignoli degli italiani all’estero, «Rivista italiana di onomastica», 26, 2020.


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Cultura e Spettacoli

Ciak, la parola al Ticino

Incontri A colloquio con il regista ticinese Niccolò Castelli, il cui film Atlas inaugurerà la 56esima edizione

delle Giornate del cinema di Soletta Nicola Falcinella Per la prima volta le Giornate del cinema di Soletta saranno inaugurate da un film ticinese. La 56esima edizione della rassegna nazionale si svolgerà online, a causa della pandemia, sul sito journeesdesoleure.ch dal 20 al 27 gennaio. La cerimonia inaugurale sarà diffusa in diretta in contemporanea su Rsi LA 2, Srf 2 e Rts 2, oltre che online, e seguita dal lungometraggio Atlas di Niccolò Castelli. La prima assoluta del film del regista, già noto per Tutti giù, spicca tra i 170 titoli che compongono il ricco programma, fruibile accedendo al sito da tutta la Svizzera (ma il numero di spettatori per ciascun titolo è limitato). La pellicola è prodotta da Villi Hermann (cui Soletta dedica la retrospettiva «Rencontre» con la proiezione dei suoi lavori da regista) e Michela Pini per ImagoFilm, una coproduzione Svizzera, Italia e Belgio che vede protagonista la bolognese Matilda De Angelis. L’attrice lanciata da Velocità massima è stata «Shooting Star» al Festival

«Punterò ad abbattere la barriera linguistica, favorirò gli scambi e creerò interesse per il Ticino e i suoi film» di Berlino ed è attualmente nella miniserie Hbo The Undoing a fianco di Nicole Kidman e Hugh Grant, oltre che su Netflix ne L’incredibile storia dell’isola delle rose. Nel cast figurano anche l’attore franco-tunisino Helmi Dridi, lo zurighese Nicola Perot, Anna Manuelli, Irene Casagrande e Neri Marcorè in un piccolo ruolo importante. Atlas è stato girato tra il 2018 e il 2019 tra incastri complicati, difficoltà previste come

le riprese ad alta quota e ostacoli imprevisti, compreso il Coronavirus. Ispirato a un fatto realmente accaduto, il film narra la storia di Allegra, una giovane e grintosa arrampicatrice, la cui esistenza è sconvolta da un evento tragico e che dovrà ricostruirsi dopo una perdita. «È un film diventato ancora più attuale e universale nella situazione che stiamo vivendo – spiega Castelli – Racconta la paura del diverso dopo un attentato terroristico, ma in questi mesi tutti abbiamo sperimentato la paura dell’altro, del toccarsi. Così il film è cambiato un po’ rispetto a come era stato scritto: è stato impossibile andare in Marocco a girare le ultime scene, così con la montatrice Esmeralda Calabria ha cercato un modo diverso per rendere ciò che volevamo. Il bello del cinema è che si possono trovare soluzioni creative, così abbiamo evocato di più e mostrato meno, il tempo a disposizione dovuto alla pandemia mi ha permesso di ripensare alcune cose». «Spero – aggiunge il regista – di aver trovato una modalità interessante per il pubblico. Faccio film per passare pensieri ed emozioni agli spettatori, bisogna trovare un equilibrio difficile, il cinema d’autore non deve sempre essere ostico per chi guarda, ci sono tanti esempi, penso a Ken Loach e altri, dobbiamo trovare il modo di arrivare a loro». Quanto alla scelta di presentare il film a Soletta, Castelli dichiara: «Abbiamo fatto vedere il film al festival e alla direttrice Anita Hugi quando non era ancora terminato. La loro proposta è stato un modo coraggioso per omaggiare il cinema svizzero. Per me è un onore, per la prima volta un film italofono inaugura Soletta e passa in contemporanea sulle tre tv nazionali. È una bellissima occasione e non potevamo non coglierla, è raro che un film arthouse vada in prima serata in tv. In più non si sa quando riapriranno i cine-

L’attrice italiana Matilda De Angelis in Atlas. (imagofilm.ch)

ma, non si tornerà alla normalità prima del 2022, e, quando accadrà, ci saranno tanti film che dovranno uscire. L’intenzione è comunque di portare Atlas in sala quando si potrà, ma intanto questa è una bella occasione per chi al cinema avrebbe avuto difficoltà a vederlo. E anche il discorso festival è difficile, perché in questi mesi tanti sono stati annullati o ridotti, per questa ragione c’è una marea di lungometraggi in attesa». Per il regista luganese l’anno appe-

na concluso è stato molto importante e di svolta, dalla paternità raccontata nel cortometraggio Quasi padre, quasi figlio inserito nella Lockdown Collection della televisione svizzera, alla recentissima nomina a direttore della Ticino Film Commission. «Sono molto contento di tutto questo – commenta Castelli – Il bambino è la cosa più importante, e per me è un bel momento nonostante tutto. La scelta di Soletta è importante per il cinema ti-

cinese, conferma che siamo cresciuti tanto. È cresciuto tutto quello che sta attorno al cinema in Ticino, c’è più lavoro, sono migliorati i tecnici, sono cresciuti i film, grazie anche alla Film Commission. Intendo continuare su questa strada, puntando ad abbattere la barriera linguistica, a favorire gli scambi e creando interesse verso il Ticino e i nostri film, in collegamento con il Festival di Locarno e le altre realtà presenti».

ne d’autorialità, sono stati il visionario coreografo e interprete svedese Markus Öhrn, conosciuto per le opere radicali e deliziosamente inquietanti che criticano in modo frontale il patriarcato occidentale (Hominal/Öhrn), e Nelisiwe Xaba (Hominal/Xaba), performer e coreografa sudafricana, interessata a indagare in profondità il contesto sociale in cui vive, e più in particolare la condizione delle donne che lo occupano. Animate da questioni quali l’appropriazione e la ricerca del meccanismo dal quale scaturisce la creatività, queste serie diventano per Hominal il pretesto ideale per collaborare con artisti esigenti, per confrontarsi con universi anche lontani dal proprio dai quali attingere senza mai lasciarsi sopraffare, con intelligenza e una liberatoria dose di umorismo. Se nel primo caso la coreografa svizzera si pone, per sua propria scelta, sotto l’autorità di Öhrn che ne stimola gli istinti più bestiali dando vita a uno show a dir poco catartico, nel secondo l’esperienza risulta un po’ più conflittuale, come se le artiste non riuscissero davvero ad amalgamare i loro due universi e i tessuti che ognuna manipola convivessero senza riuscire a creare una trama comune. Assolutamente felice è stato invece l’incontro con Ivan Blagajcevic, ballerino e drag queen che ritroviamo anche nel suo ultimo spettacolo, Sugar Dance e con l’artista viennese, zurighese d’adozione, Teresa Vittucci. Due giovani e audaci

interpreti che, insieme alla coreografa, hanno dato vita a Taxi-Dancers, uno spettacolo elegante ed elettrizzante che riesuma personaggi intriganti (i taxidancers appunto) che affittavano le loro braccia giusto il tempo di un ballo. Ultima creazione di Hominal, Sugar Dance è stato presentato per la prima volta a Ginevra, all’Associazione della danza contemporanea, pochi giorni prima che le sale da spettacolo chiudessero di nuovo a causa della pandemia. Come un piccolo ma preziosissimo diamante, il nuovo spettacolo di Hominal, i cui interpreti si sono esibiti con le ormai immancabili mascherine, ha rappresentato uno degli ultimi eventi culturali ginevrini, una boccata d’ossigeno necessaria per superare un inverno culturalmente spoglio. Riflessione sul dietro le quinte di uno spettacolo da farsi, Sugar Dance ci ricorda il meglio della cinematografia felliniana, un mondo circense abitato da creature splendenti e mostruose: un’ammiccante drag queen, una giunonica cantante d’opera, un ballerino di street dance, un tamburellista attempato e tanto altro. Sugar Dance ci fa riflettere sull’importanza della scena in quanto luogo magico dove meravigliarsi e sognare al di là del visibile, un sogno che nasce nel dietro le quinte, nell’incontro di sensibilità diverse ed esplosive. Malgrado un’educazione classica, Hominal è nata per rischiare e ogni sua performance ne è la prova.

Hominal, in assenza di pudore Danza Un ritratto della danzatrice svizzera Marie-Caroline Hominal Giorgia Del Don L’originalità che scaturisce dalle performance di Marie-Caroline Hominal (premiata nel 2019 come Danzatrice dall’Ufficio federale della cultura) è di quelle che lasciano il segno, che spiazzano perché ci prendono in contropiede. Non è tanto la violenza, la provocazione o l’affrontare soggetti delicati o tabù a sconvolgere, ma la sua apertura a trecentosessanta gradi rispetto a ciò che l’attornia e che assorbe come una spugna. Mai spaventata di fronte all’ignoto, Marie-Caroline Hominal ha il dono straordinario di non temere il ridicolo, dono che regala alle sue creazioni una sincerità rinfrescante. Non è quindi un caso se uno degli artisti che l’ha più marcata è il re incontrastato del «camp» John Waters. Come lui, ma anche come artiste più contemporanee quali l’inclassificabile Laetitia Dosch o Teresa Vittucci, ambasciatrice di un esigente femminismo queer e con la quale ha collaborato in Taxi-Dancers, la coreografa ginevrina (d’adozione) non ha paura d’inquietare, di divertire con la sua eccentricità, di scavare nella tragicomica oscenità che ci attornia. È proprio questa assenza di pudore, questa sua indifferenza nei confronti delle categorie socialmente prestabilite, a rendere ogni suo spettacolo sorprendente. Una libertà nutrita dalla sua innata curiosità rispetto a sé stessa: alle trasformazioni e metamorfosi del suo

Marie-Caroline Hominal è nata nel 1978. (Keystone)

corpo, ai legami che tesse con lo spazio scenico, alla maniera di rispondere emotivamente tanto agli stimoli quanto agli altri e al loro universo artistico, con il quale ama interagire (come nelle sue Hominal/XXX), alle loro specificità fisiche e alla loro unicità. Come un’antropologa, Hominal ama confrontarsi con realtà estranee al suo universo originario: la musica, la video arte, la lirica, avventurandosi così in territori ancora inesplorati per distillarne pozioni di cui solo lei conosce la formula. «Gesti simbolici o quotidiani formano una scrittura. La scena è la mia pagina: cerco di metterli insieme sotto

una luce inedita», così si esprime la coreografa, evidenziando il suo bisogno di partire da un materiale concreto per trasformarlo in poesia, una poesia personale fatta di colori sgargianti e personaggi atipici che formano improbabili e magiche compagnie dal sapore circense. Figlia d’arte, è proprio nella scuola di danza di sua madre, il Janet Held Studio di Montreux, che Hominal comincia a formarsi prima di frequentare la Schweizerische Ballettberufsschule di Zurigo e la Rambert School of Ballet and Contemporary Dance di Londra, dove si trasferisce a soli quindici anni. Un bisogno precoce di allargare i suoi orizzonti che non l’abbandonerà mai, malgrado il rientro in Svizzera, nazione che, come ammette, le permette di «esercitare la sua professione in modo ottimale» e di viaggiare, attraverso le sue originali coreografie, senza sosta e meta predefinita. Prima di iniziare, nel 2002, a creare le sue prime opere, Marie-Caroline Hominal danza per numerose compagnie, collaborando con artisti temerari, infaticabili ricercatori di nuove forme d’espressione come Gisèle Vienne, La Ribot, Marco Berrettini o Gilles Jobin, coreografi che l’hanno nutrita e ai quali lei, in cambio, ha regalato un po’ della sua follia. Un arricchimento bidirezionale che è parte integrante del suo processo creativo e che ha dato vita alle sue famose serie Hominal/XXX. A duettare con lei, a riflettere insieme sulla nozio-


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 gennaio 2021 • N. 03

30

Cultura e Spettacoli

Pompei stupisce ancora

Archeologia Dagli scavi riaffiora un termopolio intatto, il fast food degli antichi romani

Alessia Brughera Un’altissima nuvola di fumo mista a cenere e lapilli si elevò nel cielo assumendo l’aspetto di un albero di pino dalla cui cima si disperdevano formazioni somiglianti a rami: con questa similitudine lo scrittore latino Plinio il Giovane descriveva in una lettera indirizzata allo storico Publio Cornelio Tacito l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., da lui osservata nella sua forza devastante da Miseno, nella baia di Napoli. Il 24 agosto di quell’anno la montagna che fino a quel momento era stata considerata un’innocua altura, fertile e vivibile, provocò la distruzione della città di Pompei, oltre a quelle di Ercolano, di Stabia e di Oplontis, trasformando tutta l’area attorno al vulcano in un deserto grigio. Da quando nella metà del Settecento le rovine pompeiane rimaste sepolte sotto strati di pomici hanno incominciato a essere riportate alla luce, è stato scoperto uno straordinario patrimonio di architetture, sculture, pitture e mosaici che costituisce una delle migliori testimonianze della vita romana dell’epoca. Ultimo eccezionale ritrovamento a Pompei in ordine di tempo, arrivato quasi come una sorta di dono di buon auspicio dopo un anno terribile anche per la cultura, è un thermopolium in ottimo stato di conservazione rinvenuto nella Regio V, davanti a una piazza che doveva essere sicuramente di grande passaggio, all’angolo tra il vicolo dei Balconi e la via della Casa delle Nozze d’Argento.

Che gli antichi romani fossero piuttosto indaffarati nelle loro attività tanto da restare spesso e volentieri fuori casa per il pranzo lo attestano i numerosi termopòli pompeiani già ritrovati in passato (un’ottantina circa), vere e proprie «tavole calde» dove era possibile acquistare bevande e cibi pronti per il consumo. Questi esercizi commerciali affacciati sulla strada avevano una struttura semplice e funzionale, con grandi giare in terracotta incassate nel bancone in cui venivano riposte le vivande da servire. Nessuno dei tanti termopoli di Pompei, però, è stato rinvenuto così integro come quello appena scoperto, unico caso in cui il bancone è giunto a noi interamente decorato. Gli scavi, proseguiti senza sosta anche durante il lockdown, avevano in realtà individuato e fatto riemergere in maniera parziale già nel 2019 alcuni dettagli di questa bottega di alimentari con smercio di street food. Come la parte del bancone prospiciente la piazza, che aveva rivelato un’elegante pittura a tema mitologico in cui una Nereide, con cetra alla mano, cavalca un ippocampo dal corpo dipinto con un arcobaleno di colori. Soltanto con il procedere dei lavori di scavo, arrivati al loro apice proprio in queste ultime settimane, è stato possibile restituire l’ambiente nella sua totalità, con una grande mole di materiali che potranno ampliare le conoscenze sulla vita quotidiana a Pompei. Tutto è stato ritrovato fermo nel tempo al giorno dell’eruzione, imprigionato per duemila anni dai depositi piroclastici

Il thermopolium scoperto a Pompei è in ottimo stato. (Keystone)

del Vesuvio che ne hanno conservato la condizione originaria. E difatti, con i loro colori ancora sfavillanti, sono affiorate le altre decorazioni del bancone, scene di nature morte che riproducono, proprio come accade negli odierni fast food, i cibi presenti nel menu. Due anatre germane appese a testa in giù e un

baldanzoso galletto di un realismo impressionante sono gli animali scelti dal padrone di questo termopolio per catturare l’occhio e il palato dei possibili avventori. Accanto a essi è emerso anche il dipinto di un grande cane al guinzaglio (probabilmente un cave canem di avvertimento per i clienti) su cui un buontempone dell’epoca, forse

per schernire il proprietario, ha inciso un insulto omofobo. Di estremo interesse sono poi le tracce di alimenti rinvenute nelle pentole e nelle giare del locale che rivelano molti particolari sulle tecniche culinarie degli antichi romani, dall’impiego di mammiferi, uccelli, pesci e lumache nella medesima pietanza, una specie di paella ante litteram, all’utilizzo di fave macinate per sbiancare il vino e migliorarne il gusto. Nel termopolio pompeiano non sono mancati nemmeno i ritrovamenti di ossa animali e umane. È il caso ad esempio dello scheletro di un cane adulto ma di piccola taglia scoperto vicino al bancone, che può far pensare a come già a quei tempi ci fosse la consuetudine di circondarsi di razze canine da compagnia. O ancora dei resti del corpo di un uomo rinvenuti all’interno di un grande vaso in terracotta (con probabilità collocati lì nei secoli scorsi dai primi scavatori) a eccezione di un piede, scovato invece a terra, vicino al coperchio di una pentola, particolare che lascia supporre che l’individuo in questione fosse un ladro entrato nella bottega alla ricerca di qualcosa da mangiare. Il lavoro di studio di tutto il materiale sta adesso procedendo sia sul campo sia in laboratorio, occupando un team di esperti che annovera, tra gli altri, storici dell’arte, restauratori, antropologi, vulcanologi, archeobotanici e archeozoologi. E se l’emergenza sanitaria lo permetterà, forse già in primavera il termopolio potrà essere ammirato in tutta la sua bellezza. Annuncio pubblicitario


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