Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio La nuova sede di Pro Infirmis Ticino e Moesano a Bellinzona sarà una Casa della socialità
Ambiente e Benessere Con il dottor Sebastiano Franscella e il professor Pierpaolo Trimboli parliamo del diabete, una patologia complessa e comune
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 25 gennaio 2021
Azione 04 Politica e Economia Il governo Conte si salva, ma intanto la pandemia fa sprofondare l’Italia nella povertà
Cultura e Spettacoli La riflessione dello scrittore israeliano Yishai Sarid sul valore e sul ruolo della memoria
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L’America volta pagina
Keystone
di Federico Rampini pagina 19
Una sensazione di pericolo scampato di Peter Schiesser L’incubo, per i Democratici, è finito. Trump è partito per la Forida, Biden si è insediato alla Casa Bianca senza che una nuova, vasta e violenta insurrezione dei più fanatici sostenitori di Trump si materializzasse. Il sollievo è grande. Ma il pomposo cerimoniale ricco di pathos, i discorsi su un futuro luminoso, i fuochi d’artificio che hanno illuminato la notte di Washington e aperto la presidenza Biden, non possono nascondere un’altra faccia della realtà: le vie della capitale degli Stati Uniti occupate da militari e filo spinato, la vasta spianata davanti al Campidoglio, in queste occasioni solitamente gremita di gente, ricoperta da una vastità di bandiere, a ricordare anche quei 400mila cittadini periti nella pandemia. Un Inauguration Day di un paese posto sotto assedio, da un virus biologico venuto dall’esterno e da un virus ideologico coltivato al suo interno. La sensazione di scampato pericolo ha rafforzato la forza simbolica della cerimonia. E la fragilità insita nella democrazia, riecheggiata anche nelle parole degli oratori davanti al Campidoglio profanato solo due settimane prima, ha reso ancora più consapevoli i presenti
dell’importanza di battersi in sua difesa: «Abbiamo imparato che la democrazia è preziosa, che la democrazia è fragile. In questo momento la democrazia ha prevalso», ha detto Joseph Biden in uno dei suoi discorsi ispirati, schietti. La sua storia personale fa di lui un interprete autentico della volontà di riunire il paese attorno a valori condivisi, di costruire ponti, dopo quattro anni che hanno portato gli Stati Uniti sull’orlo di una frattura insanabile. Non sarà impresa facile, né risolvibile in soli quattro anni, ma Biden può dare un contributo iniziale importante, se da una parte e dall’altra degli schieramenti politici sarà condivisa questa urgenza di rappacificazione. D’altronde, va detto che l’assalto a Capitol Hill ha talmente scosso le coscienze che il sistema immunitario statunitense ha reagito immediatamente: Trump è stato tagliato fuori dai social, la sua arma di distrazione di massa; chi ha partecipato alla presa del Congresso viene perseguito penalmente; molti donatori hanno bloccato i contributi ai congressisti repubblicani che hanno rifiutato di certificare la vittoria di Biden. Lo stesso Trump, dopo aver aizzato i suoi sostenitori a riprendersi la vittoria (la sua), quindi a impedire al Congresso di certificare la vittoria di Biden, ha dapprima richiesto un «ritorno in
caserma» alle sue truppe e man mano che si avvicinava il 20 gennaio ha più volte invitato alla calma e alla pace, arrivando persino a dire, pochi minuti prima di salire sull’aereo per la Florida, che la prossima Amministrazione farà un ottimo lavoro e che deve essere sostenuta. Pur dignitoso, e un po’ patetico nel ricordare gli stupefacenti successi della sua presidenza, è parso un pugile suonato, incerto. «Torneremo, in una qualche forma», ha detto ai suoi, ma sa benissimo che a questo punto tutta la sua esistenza entra in un limbo, quella politica e quella privata. Politicamente, c’è la minaccia del secondo impeachment, che va avanti anche dopo la sua partenza dalla Casa Bianca, e che se trovasse l’assenso di un certo numero di senatori repubblicani gli impedirebbe di concorrere in futuro per una carica pubblica (e il leader dei Repubblicani al Senato Mitch McConnell mostra un certo desiderio di liberarsi di Trump). Privatamente, lo attendono numerose cause penali. E i suoi sostenitori più fanatici? I Proud Boys si sono sentiti traditi da Trump, che non ha difeso l’assalto al Campidoglio e nemmeno graziato il loro capo. Gli estremisti hanno perso la loro icona? Sarebbe già un vantaggio, perché smorzerebbe la tensione. Ma attenti a non farsi distrarre dai fuochi d’artificio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Attualità Migros
Fuori dalla nebbia
Formazione Accompagnare e orientare anche in tempo di incertezza: la mission della Scuola Club di Migros Ticino
Da diversi mesi ormai, da quando il Covid 19 ha impattato sulle nostre vite, siamo costretti a convivere con una crescente sensazione di incertezza. La percezione comune è quella di essere immersi in una fitta nebbia che impedisce scorci sul futuro. Questo schiacciamento sul «qui e ora» costretto dalla pandemia è comprensibile, ma è anche rischioso. Non solo perché l’incertezza – come insegnano gli etologi – ha come facile reazione l’immobilità, ma anche perché quest’ultima, trasformandosi in insicurezza, tende ad isolarci e, pertanto, a renderci più fragili. In questa situazione, a corrodersi progressivamente è soprattutto la fiducia, mentre aumentano frustrazione e demotivazione. Del resto, se tutto è incerto, perché progettare e investire su un futuro sempre meno prevedibile? La difficoltà a guardare e sperare avanti coinvolge molte sfere della nostra vita, formazione compresa. Lo si vede bene nella faticosa tenuta dell’impegno scolastico delle giovani generazioni, ma anche nei percorsi della formazione adulta. La questione non è affatto secondaria, poiché la formazione è cruciale per la qualità della vita personale e sociale. E dunque, come ritrovare uno sguardo costruttivo, capace di andare al di là dell’oggi e continuare ad immaginare il futuro? Basterebbe avere il coraggio di guardare l’altro lato della medaglia per scoprire, pur nelle difficoltà di questo tempo, anche le sue grandi opportunità. Quello che stiamo attraversando è certamente un momento storico sfidante, ma anche per molti aspetti chiarificatore poiché ci costringe a rimettere al centro cosa conta davvero per noi. In questo senso è anche un tempo promettente, poiché apre nuovi scenari di possibilità al nuovo. La navigazione che ci è consentita oggi è forse diversa da quella alla quale
«Orientarsi» per disegnare il proprio futuro.
eravamo abituati, ma sarebbe un peccato rinunciare al viaggio e fermarsi nel porto più vicino. C’è una navigazione possibile ed è insieme esplorazione e scoperta. Ma servono validi compagni di viaggio con i quali intravedere nuove rotte e nuove possibilità. Per questo ridiventa centrale un accompagnamento capace di orientare. Orientare deriva da «oriente», il punto cardinale che indica da dove sorgerà il sole. Orientare, oggi, potrebbe tradursi nella capacità di sostenere altri nell’identificare la strada il proprio «oriente», l’orizzonte che apre ad un nuovo giorno, alla luce e al calore.
È questa la mission della Scuola Club di Migros Ticino: mettersi al fianco di chi è in ricerca di formazione. Nel corso di questi mesi, il valore aggiunto offerto dalla Scuola Club è stato l’affiancamento ad ogni partecipante nella scelta di un percorso costruito su misura. Pur nella distanza dovuta al rispetto delle normative Covid, la scuola è diventata ancora più «vicina» attraverso la consulenza, quale ascolto qualificato ed orientante per disegnare percorsi formativi tailor-made. Una prossimità che si concretizza anche attraverso un servizio di consulenza telefonico e digitale e docenti capaci di ascoltare e prendersi cura degli
Migros partner dell’Open air che non si terrà Ghost Festival I biglietti sono in vendita sul web
Dal festival di Gurten a quello Paléo, dal festival di Frauenfeld a quello di Gampel: da molti anni Migros sponsorizza i principali festival svizzeri. Ora Migros diventa partner principale del Ghost Festival. Il prestigioso programma di grande interesse comprende più di 300 band, che il 27 e 28 febbraio 2021 NON si esibiranno in occasione del Ghost Festival. Il programma fittizio comprende e musicisti di tutta la Svizzera, tra cui Patent Ochsner, Annie Taylor, Stefan Eicher, Lo & Leduc, Züri West e molte altre band più piccole e meno conosciute. E perché Migros sostiene questo festival fantasma? Per Martin Koch, responsabile Sponsoring & Events presso la Federazione delle cooperative Migros non ci sono dubbi: «Vogliamo sostenere musicisti e band in questi tempi difficili. Solo così, prima o poi, riusciranno di nuovo a calcare le scene di veri festival». Il Ghost Festival è una campagna di solidarietà a favore degli operatori
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Più di 300 band, il 27 e 28 febbraio.
del settore musicale svizzero, colpito in maniera particolarmente grave dalla pandemia di coronavirus. Il festival è stato ideato dal Ghost Club, un’associazione composta da musicisti, booker e organizzatori. L’11 gennaio 2021, alle 11.11, è iniziata la vendita dei biglietti Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
per l’evento fittizio. Il ricavato verrà devoluto al 100% agli operatori del settore musicale partecipanti. Informazioni
www.ghost-festival.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
obiettivi e bisogni formativi dei partecipanti per continuare a costruire insieme sempre nuove rotte, dalle lingue straniere alla contabilità, dal digitale alla formazione professionalizzante, incluso l’ampio ventaglio di possibilità di esami che la scuola è in grado di offrire. In un tempo che chiude il futuro, tenere aperto l’«oriente» formativo di ogni persona e di ogni organizzazione è un impegno che merita la fatica di questo tempo. La Scuola Club di Migros Ticino desidera seminare ogni giorno fiducia nel domani e trasmettere nuova energia perché – nonostante la densa
nebbia che ancora ci avvolge – persone e organizzazioni possano continuare ad investire nella formazione continua, nella qualificazione professionale, nell’inclusione sociale (che oggi è anche inclusione digitale), e nelle relazioni che tengono insieme le persone e rendono più vivibile una comunità. Informazioni
I nostri consulenti sono a tua disposizione: Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 11 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60.
Ordina sul Web e ritira in filiale
Shopping online Un’iniziativa degli shop
online di Micasa, SportXX e Melectronics In conseguenza alle nuove direttive legate alla gestione della pandemia da Covid19, diramate la scorsa settimana dal Consiglio federale (chiusura dei negozi che non vendono beni di prima necessità) Migros Ticino deve rinunciare dal 18 gennaio 2021 e fino alla fine di febbraio, all’apertura di alcuni dei suoi mercati specializzati. Essendo però nel contempo concessa dalle stesse direttive la possibilità di ritirare la merce ordinata online, offriamo la possibilità di fare riferimento alla filiale per ottenere i prodotti dei negozi online Micasa (www. micasa.ch), SportXX (www.sportxx. ch) e Melectronics (www.melectronics.ch). Sarà quindi possibile effettuare delle ordinazioni via web dei prodotti richiesti, che saranno poi avviate al negozio prescelto dal cliente nel momento dell’ordinazione. Tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Possibilità di acquisto che rispettano le nuove direttive contro il Covid. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Società e Territorio Voli temerari Un tempo si decollava dal Campo Marzio: il passato spericolato e glorioso dell’aviazione luganese
Scollinando Il progetto che unisce undici comuni propone una fitta rete di gite nel territorio a nord di Lugano, un opuscolo e un sito per scoprire bellezze a due passi da casa
Studiare con metodo Pro Juventute Svizzera italiana propone anche quest’anno i corsi che aiutano i ragazzi delle scuole medie ad apprendere metodi e tecniche di studio efficaci pagina 8
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Una casa della socialità Pro Infirmis La nuova sede centrale
in costruzione a Bellinzona si fonda su un concetto sperimentato a livello nazionale
Stefania Hubmann Una sede propria in centro città da condividere con altre associazioni all’ascolto delle persone con disabilità per offrire a queste ultime sostegno pratico ma anche un’accoglienza familiare. Sono questi gli intenti che Pro Infirmis Ticino e Moesano desidera promuovere attraverso la Casa della socialità, in fase di costruzione a Bellinzona. Un nome che racchiude il senso dell’operazione, resa possibile grazie alla donazione del sedime avvenuta oltre un decennio fa. La sede centrale di Pro Infirmis Ticino e Moesano, che sarà pronta a metà 2022, si fonda su una visione già sperimentata a livello nazionale che coinvolgerà anche le altre due antenne cantonali situate a Locarno e Massagno. Non a livello di proprietà degli spazi – il caso di Bellinzona è da considerarsi un’occasione praticamente unica – quanto rispetto all’ambiente e alle sinergie che si vogliono concretizzare per continuare a svolgere al meglio l’attività di sostegno a favore delle persone con disabilità e dei loro familiari. Fra le necessità emerse durante la pandemia, Pro Infirmis ha colto in particolare il bisogno dei suoi utenti di mantenere vive le relazioni umane. Relazioni preziose anche sul piano professionale nel contesto di una rete che la Casa della socialità contribuirà a rafforzare. Al momento l’area in via San Giovanni a Bellinzona che vedrà sorgere il sobrio edificio con l’insegna Pro Infirmis è ancora solo un grande cantiere. Iniziati da pochi mesi, i lavori si sono finora concentrati sull’abbattimento del precedente complesso, costruito a inizio Novecento. Sebbene la sua storia sia interessante – ospitava una sala da ballo, un cinema e, si racconta, anche una pista di ghiaccio sul tetto – nel tempo ha subito modifiche che lo hanno snaturato andando a coprire anche parte del lato posteriore della chiesa San Giovanni. Resi di nuovo visibili i muri della chiesa, tra quest’ultima e la nuova costruzione, progettata dagli architetti Michele e Francesco Bardelli di Locarno, si ricaverà un ampio giardino. I cinque livelli saranno occupati al pianterreno dal centro diurno della Fondazione Madonna di Re (con accesso all’area verde), al primo piano dalla Lega polmonare ticinese che condividerà la superficie con la Lega ticinese contro il reumatismo e il Servizio di consulenza per persone sordocieche, deboli di vista e di udito, lasciando a Pro Infirmis i tre piani superiori suddi-
visi in spazi amministrativi, locali per la consulenza e una sala riunioni a disposizione anche per incontri pubblici. Una casa aperta allo scambio, sia al suo interno, sia con l’esterno. È questa una delle specificità del progetto che Danilo Forini, direttore di Pro Infirmis Ticino e Moesano, tiene ad evidenziare. «La posizione centrale della nuova sede, vicina alla stazione e ai commerci, è un enorme vantaggio pratico, come pure un simbolo della volontà inclusiva delle persone con disabilità che la nostra associazione sostiene. Abbiamo colto l’opportunità di una nuova edificazione sia per concepire gli spazi secondo le nostre esigenze, inclusa un’esemplare accessibilità, sia per dar corpo a una visione. La Casa della socialità deve poter essere identificata con un’anima che costruiremo assieme agli altri enti presenti nell’edificio». Un edificio le cui rifiniture interne sono state definite nell’ottica di perseguire questo obiettivo. Prosegue il nostro interlocutore: «I colori, l’impiego del legno, la scelta di porte tipiche delle abitazioni, sono elementi rappresentativi di una casa piuttosto che di uno stabile amministrativo. Va inoltre menzionata l’efficienza energetica, privilegiata nel nome di una responsabilità ambientale e che si tradurrà in risparmi sulle spese di gestione. L’intera operazione, finanziata da Pro Infirmis Svizzera, è d’altronde concepita anche quale investimento razionale: sfruttare la disponibilità del sedime e la favorevole situazione dei tassi ipotecari per disporre di una sede propria riducendo i costi degli affitti. La tenacia del promotore nazionale è stata più che indispensabile per portare a buon fine la realizzazione della sede centrale di Pro Infirmis nella Svizzera italiana così come auspicato a suo tempo dai coniugi Zurini, donatori del sedime. L’iter prolungato, determinato da una serie di ricorsi, ha avuto fra le conseguenze anche la perdita di un partner come Pro Senectute, interessata ad inserire al pianterreno il Centro diurno Alzheimer, poi realizzato altrove. «Ciò dimostra – spiega Danilo Forini – che i bisogni sono reali e non possono attendere. Grazie alla collaborazione con la Fondazione Madonna di Re abbiamo però trovato una valida alternativa per garantire al pianterreno dell’edificio una forte valenza sociale». Le sinergie si svilupperanno anche con gli altri tre enti che si insedieranno in via San Giovanni. Rispetto a Pro Infirmis, che offre un ampio ventaglio di prestazioni, Lega polmonare,
Rendering della futura sede che sorgerà accanto alla chiesa di San Giovanni. (Bardelli Architetti)
Lega contro il reumatismo e Servizio di consulenza per persone sordocieche sono organizzazioni specializzate nei rispettivi settori di attività. L’incontro fra professionalità di ambiti diversi rappresenta per il direttore Forini una fonte di arricchimento per tutti. Il buon esito di questo tipo di convivenza e collaborazione è dimostrato da precedenti iniziative di Pro Infirmis Svizzera. Precisa il direttore cantonale: «A Friborgo cinque anni fa è stato avviato uno dei primi progetti di questo genere. Fra i suoi successi figurano azioni comuni dei diversi partner come l’apertura di uno sportello informativo e programmi di sensibilizzazione. Nei prossimi anni in Ticino sono previsti spostamenti di sede sia a Locarno che a Massagno. Sfrutteremo questi cambiamenti per aprire altre Case della socialità, sebbene non in nostre proprietà. Il progetto di Locarno è più avanzato e già nel corso di quest’anno ci inseriremo negli stabili della Cooperativa Isolino a
Solduno, caratterizzati da appartamenti a misura di anziano e dalla presenza di attività intergenerazionali. Da rilevare, che la commissione costruzione del progetto di Bellinzona ha potuto contare sulla presenza di una persona con disabilità e di un familiare in modo da garantire il punto di vista dei diretti interessati. Questo coinvolgimento è d’altronde assicurato anche nel comitato cantonale e traspare a livello di cariche dirigenziali. Il dialogo permanente con i beneficiari delle prestazioni dell’associazione sarà però ulteriormente intensificato grazie a un recente progetto nazionale denominato «Comitato partecipazione e inclusione» volto ad estendere questa possibilità di partecipazione ad un maggior numero di utenti. Solo in Ticino e Moesano gli utenti sono 1600, di cui si occupano 90 collaboratori a tempo fisso, 150 impiegati a ore e 250 volontari. Quella al sud delle Alpi è la terza sede aperta dall’associazio-
ne nazionale, che ne conta oggi sedici. Il centenario di Pro Infirmis Svizzera, caduto nel 2020, non ha purtroppo potuto trasformarsi, come auspicato, in preziosa occasione di incontro a tutti i livelli. L’associazione ha concentrato gli sforzi sulla ricerca di un equilibrio fra la protezione degli utenti e le loro esigenze di vivere una quotidianità il più normale possibile. Il servizio di lingua facile si è rivelato molto utile per accompagnarli nella comprensione delle norme da rispettare, semplificando il contenuto delle disposizioni ufficiali. Per la sezione Ticino e Moesano il 2020 ha però segnato anche un momento propizio proprio in ragione dell’avvio del cantiere della nuova sede. Così come una famiglia costruisce una volta nella vita la propria casa, l’associazione ha sviluppato il progetto della Casa della socialità con l’obiettivo di riunire sotto un unico tetto operatori e beneficiari di più organizzazioni nel segno dell’inclusione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
Quando c’è da sfogliare verze
Attualità Un salutare ortaggio tipicamente invernale che si presta bene per molte preparazioni
Le verze nostrane sono coltivate principalmente sul Piano di Magadino secondo i criteri della produzione integrata. Nella stagione fredda hanno un aroma più pronunciato. Verze Ticino, al kg Fr. 2.50
Le puntine di maiale, rispetto alle classiche costine, risultano più «carnose», perciò sono ideali anche per la cottura in umido, per esempio assieme alla verza. Puntine di maiale TerraSuisse Svizzera, per 100 g Fr. 1.25
Prodotte dalla Salumi del Pin di Mendrisio con carni di maiali allevati in Ticino, le luganighe sono una specialità imprescindibile della nostra tradizione. Luganighe Nostrane Ticino, per 100 g Fr. 2.20
La verza è una verdura della grande famiglia dei cavoli, simile al cavolo bianco o rosso per quanto attiene a grandezza e modalità di crescita. Si caratterizza per la sua forma sferica e le grandi foglie ondulate di colore verde scuro, particolarmente versatili in cucina. È un ortaggio molto robusto che resiste bene anche a temperature sotto lo zero.
Dal punto di vista nutrizionale contiene soprattutto molta vitamina C e acido folico, vitamine che contribuiscono in modo determinante al buon funzionamento del nostro sistema immunitario. La verza è un ingrediente alla base di molte ricette: dal pot-au-feu francese alle varie zuppe, dai contorni di verdura alle pietanze al wok, fino agli involtini
di verza farciti con i più svariati ripieni. Le foglie più tenere sono ottime crude anche in insalata. Un gustosissimo piatto tradizionale invernale della cucina insubrica a base di verza è la cazzöla, dove l’ortaggio in umido si sposa alla perfezione con vari tagli del maiale, tra cui per esempio puntine, luganighe e cotechino.
Il Salumificio Sciaroni di Monte Carasso produce questo grande classico a base di carne di maiale, lardo, cotenna e spezie, e infine insaccato nel budello naturale. Cotechino Sciaroni Prodotto in Ticino, per 100 g Fr. 1.90
La formaggella «light»
Attualità La formaggella ¼ grassa è ideale per chi desidera mangiare più leggero ma senza rinunciare
al buon gusto della tradizione ticinese. La trovate in offerta speciale questa settimana alla vostra Migros Si consiglia di togliere la formaggella dal frigo almeno 30 minuti prima del consumo per gustarne appieno gli aromi. Conservarla in un’apposita carta da formaggio o in una pellicola trasparente.
Formaggella ticinese ¼ grassa, prodotta in Ticino per 100 g, imballata Fr. 1.60* invece di 2.– Azione 20% di sconto dal 26.01 al 1.02
La formaggella ¼ grassa è un formaggio a pasta semidura di latte vaccino pastorizzato. Possiede crosta naturale e pasta bianca morbida e compatta. Il sapore è delicato, dolce, tipico del latte fresco. Stagiona almeno venti giorni.
La formaggella oggi è prodotta tutto l’anno. In passato, quando le mucche d’estate erano sull’alpe, non la si produceva.
La formaggella ¼ grassa è prodotta con latte ticinese dalla LATI di S. Antonino, la maggiore azienda casearia attiva in Ticino nella produzione di latte, formaggi freschi e formaggi a pasta molle e semiduri.
Per la produzione della formaggella ¼ grassa il latte subisce una maggiore scrematura rispetto a quello impiegato per produrre la formaggella cremosa o mezza grassa.
Regione che vai, dialetto che trovi: in val di Blenio è chiamata «Crenga», in alcune zone del Locarnese «Fromagèla» o «Frumagèla», «Formasgèla» a Sonvico e «Hormaièle» a Gorduno.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
La spesa in pochi click
Smood La società Smood SA, specializzata nella consegna di pasti a domicilio, dopo una fruttuosa
collaborazione con Migros Ginevra, ha iniziato lo scorso anno a collaborare anche con Migros Ticino nella consegna della spesa a domicilio. E il successo non si è fatto attendere. Per il fondatore di Smood, Marc Aeschlimann, questa partnership con Migros è la prova di una sana logica economica
Marc Aeschlimann, come è nato Smood?
Tutto iniziò nel 2012 a Parigi; assieme ad un amico una sera decidemmo di farci consegnare un pasto a domicilio. A quell’epoca, la consegna a domicilio significava Domino’s Pizza o Pizza Hut. Il mio amico, dopo essersi reso conto della limitata scelta e del mio desiderio di non gradire questo tipo di cibo, mi mostrò un catalogo di menù di ristoranti i quali proponevano un servizio di consegna. Per provare il servizio, mi feci consegnare una choucroute da Lipp. E lo trovai ingegnoso: la consegna era arrivata calda e puntuale, ed il corriere era di buona presenza. Visto il numero di ristoranti presenti a Ginevra e i suoi abitanti, mi dissi che poteva funzionare anche in Svizzera. Ed è così che l’anno
Smood e Migros Ticino Lanciato lo scorso autunno, il servizio di consegna della spesa Migros a domicilio Smood ha riscontrato un crescente apprezzamento presso gli utenti, tanto che oggi è attivo su buona parte del territorio ticinese. Il portale offre oltre 6000 apprezzati prodotti Migros, allo stesso prezzo del negozio, tra cui molti prodotti dei Nostrani del Ticino e articoli freschi. Oltre alla consegna della spesa a casa entro 1 ora, vi è anche possibilità di ritirarla comodamente in una ventina di filiali Migros senza spese di consegna. Ma non finisce qui: su Smood.ch si può anche ordinare dalle enoteche Vinarte, che offrono un’ampia selezione di vini, spumanti, birre e superalcolici.
scorso la società ha festeggiato i suoi 8 anni, poiché il primo ordine è stato effettuato il 15 dicembre 2012 a Ginevra. È stato un successo immediato?
Ho fondato Smood quando ero ancora studente grazie ai soldi che avevo messo da parte. Per un anno abbiamo valutato se questo progetto potesse funzionare o meno. Ci tengo a precisare che fin dall’inizio i corrieri sono stati assunti come collaboratori. In un contesto dove le grandi società internazionali come Uber Eats non esistevano, l’idea ci sembrava irreale o sproporzionata. Le persone intorno a me cercavano di scoraggiarmi: «Consegnare piatti a domicilio allo stesso prezzo che al ristorante? Non funzionerà mai!». Un mio professore all’Università mi diceva sempre: «Più un’idea è buona, più sarà criticata». Il successo però arrivò presto: la domanda raddoppiava tutti i mesi, tenendo conto che questo servizio corrispondeva ad un vero bisogno. Il secondo anno iniziammo ad espanderci verso Losanna con lo stesso successo. E lì ci accorgemmo che eravamo sulla strada giusta. Come si è sviluppata Smood a livello nazionale?
Nel 2014 ci siamo recati a Zurigo, dove siamo partiti da zero: un altro tipo di comunicazione, una nuova cultura… Ed anche qui il riscontro è stato più che positivo. Oggi siamo ormai presenti in 18 città svizzere con la consegna di pasti a domicilio. E anche in Ticino i ristoranti con cui collaboriamo sono in continua crescita. Ci siamo resi conto fin dall’inizio che la tecnologia sarebbe stata il centro del successo di questa attività – all’inizio completamente manuale e dove gli ordini
www.smood.ch
venivano effettuati via telefono. Il lancio nel 2016 della nostra applicazione è stato un boom. Da ormai 4 anni la crescita annuale è tra il 60% ed il 100%, e la maggior parte ormai è gestita attraverso l’applicazione. Penso che entro 3 anni sarà al 100%. Come è iniziata la collaborazione con Migros?
Il direttore generale di Migros Ginevra, Philippe Echenard, aveva sentito parlare di Smood attraverso la stampa. In seguito abbiamo avuto un incontro dove ci siamo scambiati le nostre idee ed abbiamo pensato che, dato che la consegna a domicilio funzionava bene, perché non provare anche con la consegna della spesa Migros direttamente a casa? Ci è sembrato anche più sensato: il servizio ristorante ha un impatto diverso da quello della spesa. Quando si va fare la spesa alla Migros, bisogna tenere in conto il trasporto e la consegna, in particolare nelle abitazioni sprovviste di un ascensore. Qual è la differenza con l’e-commerce di Migros.ch?
L’e-commerce consegna il giorno successivo, noi consegniamo il giorno stesso, entro un’ora, e proponiamo molti prodotti freschi. Dovete vederci come degli aiutanti in cucina. Ad esempio, stai cucinando e ti manca del burro? Con pochi gesti ordini il burro e, mentre continui a preparare il tuo pasto, il corriere ti consegna il prodotto a casa. Si prevede che questa partnership con Migros subirà degli sviluppi?
Gli inizi sono molto incoraggianti. Dopo Migros Ginevra, abbiamo iniziato a lavorare con Migros Ticino, Migros Vaud e con Migros Vallese. Oltre alla consegna, offriamo anche un sistema drive-in; dove la spesa può essere ritira-
Marc Aeschlimann, CEO di Smood.
ta comodamente presso il supermercato Migros più vicino alla propria abitazione. Alcuni ristoratori criticano il fatto che lavorare con Migros vuol dire competere con loro...
Penso l’esatto contrario. Un cliente che ordina un ribeye già pronto con le sue patatine significa che non ha voglia di cucinare. Quando lo farà, quando vorrà preparare qualcosa, ordinerà invece la stessa bistecca alla Migros. Potrebbe aver sentito parlare di questa possibilità perché ha usato l’app per ordinare un pasto da Smood. Funziona in entrambi i modi: chi per primo usa l’app per ordinare da Migros scoprirà la possibilità di ordinare anche da un ristorante.
menti sociali che dovevano comunque avvenire. Con la crisi le persone hanno iniziato a ordinare online, ma lo avrebbero fatto comunque entro i prossimi cinque anni. Lo stesso fenomeno è stato osservato con il telelavoro. Per quanto riguarda la consegna a domicilio, abbiamo comunque guadagnato dai due ai tre anni di sviluppo. Ha mai ricevuto proposte di acquisto, ad esempio da Uber Eats?
Abbiamo offerte, ma non da Uber Eats. Ma abbiamo fatto una scelta diversa, quella di collaborare con una delle tre più grandi aziende della Svizzera: Migros fa parte del nostro territorio.
Possiamo dire che la crisi sanitaria ha giovato molto a Smood?
Questo è stato ovviamente un catalizzatore, un’accelerazione dei cambiaAnnuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Società e Territorio
Gli audaci uomini del cielo
Notizie in breve
Storia Sono mesi decisivi per il futuro dell’aeroporto di Agno. Ma l’aviazione luganese
ha un passato spericolato e glorioso
Ritratto dell’aviatore luganese Attilio Maffei, 1913 ca. (ETH Blibliothek Zürich, Bildarchiv/ Fotograf: Jean Gaberell)
Jonas Marti «Sono le tre e mezza. Il motore freme come un demone, il ronzio si diffonde, l’elica gira velocissima: è la partenza. Il monoplano striscia come agile farfalla sull’erba primaverile, poi grado grado si innalza sul bacino del Ceresio. Il pubblico, affascinato, applaude lungamente. Il volo è magnifico. Il monoplano a poco si abbassa: l’aviatore vuole sfiorare la Lugano sua quasi per mandarle un saluto; poi s’innalza rapidamente, costeggia il monte, domina il lago, si abbassa, sempre felicemente, e con un bellissimo volo plané atterra d’ond’era partito accolto da unanimi, insistenti, prolungati battimani».
La pista di terra e erba del Campo Marzio vide i primi arditi voli tra il 1911 e il 1912, nel 1935 l’Aero Club scelse di trasferirsi al piano di Agno Cominciò così, il 31 marzo del 1912, con i toni epici tratteggiati dal cronista della «Gazzetta Ticinese», l’avventura dell’aviazione luganese. Quel giorno, sulla spianata del Campo Marzio – primo e primitivo aeroporto luganese, con la sua pista d’erba – migliaia di persone si erano radunate per assistere al volo del loro concittadino trentacinquenne Attilio Maffei, «aviatore luganese puro sangue», sul suo Blériot-Gnome di 50 cavalli. Una vera e propria festa, allietata dalle note della Civica Filarmonica, che durante le spericolate evoluzioni si mise pure, solennemente, a suonare il salmo svizzero. Per l’occasione fu organizzato anche un concorso fotografico, dotato di due premi di trenta e venti franchi, in palio per le migliori immagini scattate al monoplano in azione. Più tardi, in serata, al Kursaal l’«ardito uomo del cielo», che in quella «memorabile giornata» aveva volato due volte,
venne festeggiato da tutta la Lugano bene con un’entusiasmante ovazione. Era la seconda volta che i luganesi vedevano un aeroplano volare. L’anno precedente, sempre sulla pista del Campo Marzio, era stato organizzato il primo meeting aviatorio ticinese, con un ospite speciale, l’aviatore parigino Georges Legagneaux, che per prima cosa aveva supervisionato la pista, giudicandola «un po’ piccola, ma abbastanza adatta per le evoluzioni nello spazio previsto». La due giorni, con prezzi d’entrata tra i 50 centesimi e i 5 franchi, fu un grande successo e gli organizzatori incassarono 14’814 franchi. Erano i primi voli dell’umanità – il primo, compiuto dai fratelli Wright nel 1903, risaliva a nemmeno dieci anni prima – e poter osservare un aeroplano nel cielo, agli albori del nuovo mondo, rappresentava un evento rarissimo e impressionante. Poco più di cento anni dopo tutto è cambiato. Oggi nulla ci sorprende più, e la lunga crisi che da anni attanaglia l’aviazione ticinese, resa ancora peggiore dall’emergenza sanitaria, ha seppellito sotto cordate di imprenditori e bilanci finanziari il romanticismo aviatorio del passato: il coraggio di sfidare i cieli, andando «nell’etere a giocar, ch’è ormai conquiso», con aerei fatti di legno e tela, spinti da motori spesso meno potenti di quelli delle nostre automobili, volando all’aperto tra le nebbie e le raffiche di altitudini vertiginose. Vertiginosamente primi. Qualche mese dopo il suo primo show, il 6 giugno del 1912 Attilio Maffei si alzò di nuovo in volo durante la processione del Corpus Domini. Il giorno dopo un quotidiano scrisse con toni entusiastici, al limite dell’esaltazione futuristica, che «mentre sfilavano per le vie luganesi i preti salmodianti, seguiti e preceduti da lunga processione, Maffei solcava le vie del cielo, stabilendo così, tra la terra e il cielo, questa antitesi superba: sulla terra gli ultimi bagliori di una civiltà che tramonta, nel cielo le primi luci di una nuova era». I fedeli non gradirono: i fogli cattolici accusarono l’aviatore di aver voluto espressamente disturbare la processione, ma dissero
pure che «fra i promotori dell’aviazione ci sono anche credenti, frati, preti e persino gesuiti» e che «alla fede resero omaggio tutte le scienze e tutte le arti e renderà omaggio anche l’aviazione!». Il 13 marzo del 1913 nei cieli sopra Lugano si udì un altro rombo. Oltre il lago, a un’altitudine vertiginosa, era improvvisamente comparso un puntino nero che stava valicando il Monte Generoso e puntava verso la città. A bordo del monoplano c’era un altro pioniere luganese, il ventottenne Pierino Primavesi, deciso a portare a termine un’eroica impresa che a quei tempi doveva sembrare al limite dell’umano: tentare il volo da Milano a Lugano. Ma a un certo punto accadde qualcosa. Scrisse un cronista: «Molte centinaia di persone avevano, in pochi minuti, affollata tutta la riva e seguivano l’apparecchio, in attesa di vederlo entrare al Campo Marzio. Ed invece, inorridendo, lo videro d’un tratto scendere sul lago, poi scomparire nell’onda schiumante...». Quando arrivarono i primi soccorsi, non ci fu più nulla da fare. Pierino Primavesi e il suo aereo erano già stati inghiottiti dai gorghi del lago. «Solo una larga chiazza d’olio segnava, come una croce nella terra nera, la tomba dell’aviatore». Il corpo fu ripescato solo un mese dopo a 280 metri di profondità, insieme all’orologio che si era fermato all’ora dell’incidente, le 17.28. Una vicenda che per molti anni rimase impressa nella memoria dei luganesi, ma che oggi è dimenticata: la lapide di Rivetta Tell che ricorda Pierino Primavesi, posta nel 1973, sessantesimo anniversario dalla morte, è quasi illeggibile. «I pacifici borghesi possono ben scandalizzarsi di questa sua tremenda audacia – scrisse un quotidiano – ma non hanno il diritto di giudicarlo. Perché, mentre i comuni mortali mettono in cima alla loro scala dei valori il valore “vita”, egli lo poneva ben più basso, sotto a valori come questi: ardimento su tutto e su tutti, ebrezza delle grandi velocità e del rischio improvviso, bellezza del gesto arduo, dell’atto raro e inimitabile... La Morte lo sapeva: e si rannicchiò sempre col suo sardonico sorriso sui moto-
cicli, sulle automobili, sui canotti ch’egli pilotava. E finalmente lo ha ghermito». Ma la tragica fine di Pierino Primavesi non tagliò le ali al fervore aviatorio, anzi. Pochi mesi dopo, per la smania di vedere un aereo volare, fu addirittura sospesa tra le proteste di alcuni deputati una seduta del Gran Consiglio a Bellinzona. La maggioranza dei parlamentari, d’accordo con il presidente, volle assistere all’atterraggio bellinzonese di Attilio Maffei che, eletto nel Partito liberale radicale, intendeva insediarsi a Palazzo delle Orsoline con una eccentrica esibizione. Quel giorno però a Bellinzona non ci arrivò. Sopra il Monte Ceneri il motore ebbe un guasto. Dopo aver urtato un albero, riuscì ad atterrare sul piano di Magadino, andando a piedi fino a Cadenazzo e telefonando a Lugano per assicurare gli amici di essere sano e salvo. Nel novembre 1921 fu il turno di Plinio Romaneschi di Pollegio. Sopra la folla trepidante del Campo Marzio, fu il primo paracadutista a lanciarsi nel lago. Sul volantino dell’evento c’era scritto: «Due salti nel vuoto dall’aeroplano a 150 km all’ora. Durante la discesa eseguirà i suoi esercizi acrobatici: cerchio della morte, discesa a testa in basso». Si dice che il paracadute utilizzato fosse costato la modica cifra di tremila franchi di allora, un vero salasso, tanto che dopo lo show il cimelio fu esposto, ma per poterlo vedere bisognava pagare. Poi l’epoca gloriosa degli audaci uomini del cielo finì. Il mondo aveva cominciato a correre sempre più veloce. Per le nuove esigenze del crescente settore dell’aviazione le improvvisate spianate di terra ed erba non bastarono più. Così la Sezione Luganese dell’Aero Club Svizzero nel 1935 decise di traslocare. Il Campo Marzio, testimone di quelle irripetibili imprese eroiche, fu abbandonato per il piano di Agno. La scelta non fu scontata: a contendersi il luogo per la nuova pista ci fu anche Cornaredo, dove si sarebbero dovuti rimuovere solo pochi ostacoli, come alcuni vigneti, due linee del telefono e una elettrica. Ma infine si decise per il campo di Agno, inaugurato il 27 agosto del 1938. E questa è ancora un’altra storia.
I fumetti dedicati ai matematici Sul nostro sito è online da oggi la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie, molto scettica riguardo alla materia, compie grazie agli occhiali virtuali costruiti in laboratorio dal geniale zio Angelo. Ellie incontra così i personaggi che nel passato hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Socrate. I fumetti sono sul sito www.azione. ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca del sito).
Nuove comunicazioni sulle attività del Monte Generoso A fronte dell’attuale situazione Covid 19, la Ferrovia Monte Generoso SA ha deciso per tempo e nell’interesse dei suoi ospiti di posticipare l’inizio della stagione per la ferrovia a cremagliera e l’apertura del Fiore di pietra al 1. maggio 2021. Il mese in più che ci separa dall’inaugurazione della nuova stagione verrà utilizzato per continuare i lavori di risanamento dei binari e per recuperare le settimane perse a causa delle copiose nevicate che hanno interessato il Ticino e il Monte Generoso in particolare. I lavori di risanamento della ferrovia del 1890 sono iniziati, lo ricordiamo, nel 2019 e proseguiranno sino al 2023 durante le pause invernali. In vista dell’apertura, che avverrà secondo le indicazioni igieniche stabilite dall’UFSP e certificate dal marchio «Clean&Safe» di Svizzera Turismo, si sta completando il calendario degli eventi al Fiore di pietra. Oltre alle attese serate enogastronomiche a tema e ai Sunset Apéro, il programma 2021 è ricco di novità e sorprese in grado di mettere in risalto il legame con il territorio e i suoi prodotti. Per inaugurare la nuova stagione è stata scelta un’esposizione che rappresenta gli obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU. La mostra intitolata EvE Carcan – Art for the Global Goals, frutto del sodalizio artistico tra la fotografa Patricia Carpani e la pittrice Claudia Cantoni, sarà visitabile al Fiore di pietra dal 2 maggio. Inoltre il Camping Monte Generoso a Melano, certificato anch’esso «Clean&Safe» grazie ai piani di protezione anti-Covid 19 riapre, come previsto, il 27 marzo 2021. Dopo un’ottima stagione 2020 sotto tutti i punti di vista e il riconoscimento da parte della rivista tedesca di settore PiNCAMP quale 27esimo miglior campeggio svizzero tra i 271 annoverati, il team del Camping Monte Generoso non vede l’ora di accogliere i suoi ospiti con la professionalità, la qualità e il calore di sempre. Informazioni
www.montegeneroso.ch www.campingmontegeneroso.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Società e Territorio
I colli che uniscono undici comuni
Passeggiate Scollinando propone una fitta offerta di gite nel territorio a nord di Lugano, con i colli di San Zeno,
San Bernardo e San Clemente, la riserva naturale Bolla di San Martino, alcuni parchi e il lago d’Origlio
Elia Stampanoni Scollinando è conosciuto soprattutto per il suo evento annuale che, lanciato nel 2010, lo scorso anno ha dovuto essere cancellato a causa della pandemia. Una manifestazione che ricorre solitamente in una domenica d’inizio giugno e vede gli undici comuni coinvolti nel progetto unirsi per proporre attività ed intrattenimenti gratuiti all’aria aperta, incontrandosi passeggiando su e giù per le colline. In attesa e nella speranza che l’evento possa svolgersi il prossimo 13 giugno, nel corso dell’estate è stato stampato il nuovo prospetto dei percorsi di scollinando, presentati in un comodo pieghevole tascabile. L’opuscolo, uno spunto per avvicinarsi al ricco territorio, si può trovare nelle cancellerie degli undici comuni (Cadempino, Canobbio, Comano, Cureglia, Lamone, Massagno, Origlio, Ponte Capriasca, Porza, Savosa e Vezia), presso gli enti turistici, oppure è consultabile e scaricabile dal sito internet www.scollinando.ch. Seguire uno dei percorsi demarcati con i colori verde, bianco e bluazzurro è l’occasione, preziosa soprattutto in questo periodo, per uscire e scoprire i boschi, le campagne o gli agglomerati vicini a casa. Luoghi che a volte non si conoscono, malgrado si trovino a «due passi». Salite e discese, strade, sentieri o scalinate, tratti discosti o passaggi nei nuclei, natura
selvaggia o zone residenziali, silenzio o rumori. Le sensazioni che si possono vivere lungo uno dei vari tragitti sono innumerevoli e mutano anche a dipendenza del periodo scelto, sia esso in estate o in inverno, al mattino presto o al pomeriggio. Importante è sempre essere attrezzati con il corretto abbigliamento ed equipaggiamento, soprattutto quando s’intraprendono i sentieri più impegnativi e discosti, anche indicati sulla cartina. I percorsi di scollinando ricalcano sostanzialmente la rete sentieristica ufficiale (cartelli gialli) e in questi casi la segnaletica è pure su sfondo giallo. Alcuni segmenti seguono dei sentieri escursionistici impegnativi e sono quindi demarcati da cartelli su sfondo giallo con punta bianca e rossa. In aggiunta s’incontrano dei tratti caratterizzati da segnalazioni bianche con il logo di scollinando, mentre le tre linee di colore verde, bianco e blu-azzurro dipinte per terra aiutano principalmente nei segmenti in paese o su asfalto. Per ora vengono proposti tre circuiti, ognuno con più varianti. La prima camminata si sviluppa tra Massagno, Vezia e Savosa, seguendo un ampio tragitto circolare accorciabile in anelli più brevi. Un itinerario che si può iniziare a piacimento lungo il tracciato per poi prendere la direzione preferita e passare così in poco tempo dai centri urbani alle zone agricole, dai boschi agli edifici storici. Vengono quindi suggerite delle
Verso San Zeno seguendo la segnaletica verde-bianco-blu. (E.Stampanoni)
gite tra Comano, Canobbio, Cureglia e Porza, che pure alternano passaggi da zone abitate a tratti nel bosco. Si tratta sovente di percorsi circolari, da selezionare e concatenare a scelta, per escursioni più o meno lunghe. Anche il terzo consiglio propone varie camminate, tra Cadempino, Lamone, Origlio e Ponte Capriasca, sempre con la possibilità di crearsi un itinerario in base alle proprie capacità, esigenze e disponibilità di tempo da trascorrere all’aria aperta e scoprire qualche novità che la natura sa sempre regalare.
La rete dei sentieri è fitta e copre la regione in modo omogeneo, andando a incontrare diversi elementi d’interesse naturalistico, paesaggistico e culturale, come indicato sul sito internet: «Dal San Zeno e dal San Bernardo si gode di una magnifica vista sul territorio circostante, mentre la bolla di San Martino e il laghetto d’Origlio offrono la possibilità di rallentare il ritmo a volte sfrenato della quotidianità per osservare animali e piante ed entrare così in perfetta sintonia con la natura, immersi nella quiete di questi luoghi».
Ma al di là dei 25 punti d’interesse, segnalati e descritti brevemente anche nell’opuscolo, ogni passeggiata può essere l’occasione per scoprire angoli nuovi e vivere esperienze a contatto con il territorio. Il progetto «scollinando» è nato nel 2009 tra dieci comuni della collina residenziale a nord di Lugano, in seguito divenuti undici con l’adesione di Ponte Capriasca. L’obiettivo del gruppo è di «rivalutare l’utilizzazione del territorio non edificato e valorizzarne le peculiarità, considerando anche l’ampio patrimonio artistico-culturale». L’idea resiste tuttora e, a partire dal 2017, ha potuto essere rinnovata e consolidata anche con la realizzazione, a tappe, del progetto di segnaletica. Lo scopo principale di scollinando è di stimolare la popolazione residente nel comprensorio (quasi 25’000 abitanti), ma non solo loro, a scoprire o riscoprire la collina, un’area che si estende su quasi duemila ettari e accoglie numerose meraviglie della natura. Oltre a trovare informazioni sull’evento del 13 giugno 2021 e sugli itinerari segnalati, il sito internet vuole pure raccogliere altre notizie: dalla breve descrizione storico-culturale di ognuno dei comuni alle società sportive, dagli esercizi pubblici alle infrastrutture per il tempo libero. Informazioni
www.scollinando.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Società e Territorio
Imparare a studiare
Pro Juventute Tornano anche quest’anno i corsi che aiutano i ragazzi delle scuole medie ad apprendere
metodi e tecniche di studio efficaci Alessandra Ostini Sutto «Il progetto “Impariamo a studiare: alla scoperta dei metodi di studio” è nato una decina di anni fa, nel Locarnese. Vi era un unico docente formato ad hoc per questo ruolo, per cui l’offerta si limitava ad uno o due percorsi annuali, nella regione, destinati ai ragazzi di scuola media, senza distinzione di età». Descrive così la nascita dei corsi voluti da Pro Juventute della Svizzera italiana Roberta Wullschleger, che due anni fa, quando il progetto ha raggiunto un’ampiezza tale da necessitare un coordinamento, ha assunto il ruolo di responsabile, lasciando quello di docente, che esercitava da cinque anni.
I corsi sono di dieci incontri settimanali organizzati in piccoli gruppi distinti per fasce di età Nel tempo, infatti, il corso ha conosciuto un successo crescente, che ha spinto Pro Juventute Svizzera italiana ad ampliare progressivamente il suo progetto. Attualmente i percorsi, suddivisi per ragazzi del primo e del secondo ciclo, sono proposti a Chiasso, Paradiso, Bellinzona, Locarno e nelle Tre Valli in autunno e in primavera; il corso primaverile del 2021 comincia proprio in questi giorni. «Per la precisione, i percorsi autunnali si rivolgono a ragazzi a partire dalla seconda media; quelli di prima possono prendere parte ai corsi che si tengono nella seconda parte dell’anno», puntualizza Roberta Wullschelger, «questo perché da settembre a dicembre, le ragazzine e i ragazzini di prima media impiegano tutte le energie nello scoprire il nuovo mondo in cui si trovano immersi: nuovi compagni, docenti, modi di relazionarsi, orari, metodi di insegnamento, nuove materie ed aspettative nei loro confronti, una struttura scolastica diversa, un viaggio casa-scuola per molti di loro più lungo, eccetera. Insomma, le novità sono così tante che un tempo di adattamento è necessario e fisiologico. Dopo la pausa natalizia, in genere, corpo e mente si sono abituati e adattati alla nuova realtà ed ecco allora che loro energie possono essere utilizzate per qualcosa di nuovo». La proposta di Pro Juventute Sviz-
zera italiana, che fin dalla sua nascita si inserisce all’interno del progetto educativo della Fondazione, oltre ad essere cresciuta, nel corso degli anni si è pure affinata: «Grazie alle esperienze fatte sono stati apportati quegli accorgimenti che meglio permettono di raggiungere lo scopo principale di ogni nostra attività, ovvero consentire ai giovani di vivere un’esperienza di senso, all’interno della quale siano loro i veri protagonisti e dalla quale ognuno possa uscire con una maggiore conoscenza di sé, delle proprie inclinazioni e dei propri bisogni», commenta la responsabile, «oggi nella fattispecie lavoriamo con piccoli gruppi (massimo 12 partecipanti) distinti per fasce di età, cui proponiamo un percorso dai tempi relativamente lunghi – come sono peraltro i tempi dell’educazione – (10 incontri settimanali di 1h30 l’uno) e curiamo molto non solo i contenuti legati alle modalità di apprendimento, ma anche e soprattutto gli aspetti relazionali e la vita del gruppo stesso, anch’essi di grande importanza». Obiettivo del progetto è quello di offrire ai ragazzi delle basi solide per quanto riguarda metodi e tecniche di studio. Sappiamo infatti che negli insuccessi scolastici – che in genere si cominciano a manifestare proprio durante gli anni delle scuole medie – una scarsa organizzazione e la mancanza di un approccio sistematico allo studio giocano un ruolo di rilievo. Senza metodo e senza tecnica l’esperienza dell’apprendimento scolastico corre inoltre il rischio di limitarsi ad essere un pesante esercizio, senza riuscire ad esprimere la propria dimensione di esperienza educativa interessante e piacevole. «In questi anni ci siamo accorti che la difficoltà nel trovare una propria modalità di lavorare non si limita solo ai ragazzini delle scuole medie, ma si ritrova anche nei ragazzi più grandi, che frequentano una scuola post-obbligatoria, sia a tempo pieno che all’interno di una formazione duale (apprendistato) – commenta Roberta Wullschleger – credo che una possibile causa sia semplicemente la disabitudine che abbiamo a fermarci e chiederci che cosa stiamo facendo, come lo stiamo facendo e soprattutto perché lo stiamo facendo. Siamo sempre più portati a rispondere alle esigenze che l’esterno (le aspettative della società, dell’ambiente in cui cresciamo,…) ha su di noi piuttosto che chiederci quali siano i nostri reali bisogni, desideri e quale sia il senso che
Organizzare meglio il tempo e il metodo rende lo studio più soddisfacente e migliora i risultati. (Shutterstock)
ci porta a fare ciò che stiamo facendo. È un atteggiamento che ci caratterizza un po’ tutti e che ci porta ad essere scollegati da noi stessi, a conoscerci sempre meno. Come posso appropriarmi di una nuova conoscenza se non mi conosco? Dove andrà a depositarsi e crescere il nuovo seme se non conosco il terreno nel quale semino e non gli ho preparato uno spazio dedicato?». Per trovare le strategie e la modalità di lavoro che meglio si adattano alle proprie capacità di apprendimento, è quindi essenziale conoscersi, esplorarsi, osservarsi ed essere in ascolto verso sé stessi. «Farlo da soli non è però sempre facile – spiega la responsabile del progetto – trovarsi in un contesto come il nostro, dover venire a conoscenza dell’esistenza di diversi modi di apprendere, avere la possibilità di confrontarsi con altri, condividere le proprie difficoltà e insieme provare a trovare delle vie per farvi fronte e avere poi l’occasione di metterle in atto, proprio con lo scopo di individuare ciò che più conviene ad ognuno, è sicuramente una valida opportunità per trovare la propria strada». Durante i dieci incontri si vanno a toccare i punti principali dei metodi di studio: dalla sottolineatura, alla sche-
matizzazione, passando alla ricerca delle parole chiave e la loro categorizzazione, per citarne solo alcuni. Il fatto di approfondire tecniche e strategie riconosciute, porta in automatico a lavorare su aspetti focali dell’attività di uno studente, quali l’attenzione, la concentrazione, la comprensione, l’assimilazione e la memorizzazione. Oltre a lavorare su tecniche e metodi, il progetto si propone poi di fornire degli spunti di approfondimento relativi alla concezione stessa dello studio, grazie ai quali i ragazzi possono comprendere come uno studio adeguato e curato porti ad essere maggiormente consapevoli delle proprie capacità e delle proprie facoltà. Imparare a studiare significa così scoprire le opportunità che si celano dietro l’acquisizione di competenze, che possono anche essere spese sul piano relazionale: con i propri compagni di scuola, i membri della propria famiglia e altre persone in generale. «Il corso fornisce gli strumenti per organizzare meglio il proprio tempo, l’ambiente di lavoro e il metodo di studio, con l’obiettivo di rendere i momenti ad esso dedicati più efficaci – e di conseguenza più brevi – e pure più soddisfacenti, visto il miglioramento dei risultati che è lecito attendersi»,
sottolinea la responsabile di progetto. Il riscontro da parte dei ragazzi è in genere positivo e i genitori, da parte loro, osservano spesso un cambiamento nei loro figli, sia nell’attitudine che, appunto, nei risultati. Abbiamo appena toccato un aspetto fondamentale nella società di oggi, quello del tempo. «Una migliore organizzazione dello studio e l’utilizzo di strategie adeguate alle proprie modalità di apprendimento fanno sì che il tempo impiegato per studiare diminuisca. Non è infatti solo la quantità di ore passate sui libri a fare la differenza, ma anche la qualità con cui questo tempo è impiegato – afferma Roberta Wullschleger – per noi questo concetto è molto importante, anzi direi fondamentale, soprattutto se pensiamo che stiamo parlando di ragazzi e ragazze che hanno tra gli undici e i quindici anni e che passano gran parte della loro giornata sui banchi di scuola. Riuscire ad ottimizzare il tempo di studio per poter avere ancora a disposizione del tempo libero è davvero importante per i ragazzi. Come è altrettanto importante che il tempo e le energie dedicati allo studio diano i loro frutti, quali ad esempio dei risultati che corrispondano all’investimento».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Silvia Roncaglia, Ma che razza di razza è?, Illustrazioni di Cristiana Cerretti, Città Nuova Editrice. Da 7 anni Noi e loro. Questa visione discriminante fatica a scomparire, pervade le culture dalla notte dei tempi, si nutre della paura atavica dell’invasore e del bisogno di una rassicurante classificazione (greci e barbari erano la dicotomia «noi/loro» in cui persino i colti Antichi dividevano il mondo). A questa necessità di confini simbolici ed escludenti, è indubbio che il termine «razza», riferito agli esseri umani, abbia fatto molto comodo. Ed è altrettanto indubbio che oggi questo termine sia del tutto improprio, sia dal punto di vista biologico, come già, tra gli altri, il genetista Luca Cavalli-Sforza aveva ben dimostrato, sia dal punto di vista etico-linguistico, in quanto il sostantivo derivato è «razzismo», motore aberrante di ogni sopraffazione. Oggi si parla invece di popolazioni, o di etnie, e il discorso si farebbe lungo e complesso, ma in certi
casi il linguaggio più adeguato può anche essere non quello «tecnico», ma quello immediato e caldo dei bambini. «Bimbo con mamma», «bimbo con mamma», «bimbo con mamma», è il Leitmotiv che ritma lo sfogliare delle pagine di un vecchio volume che parla di «razze» umane, pronunciato dal fratellino di Leo, il protagonista di questo piccolo libro di Silvia Roncaglia. Leo, l’io narrante della storia, deve fare una ricerca sulle differenti etnie umane e apre un’enciclopedia con le foto di donne e bambini di varie parti del mondo. Quelle foto, secondo il suo fratellino Pino, non rappresenta-
no né razze né etnie, ma solo, appunto, «bimbi con mamme». Perché questo è ciò che siamo stati (e a cui a volte potremmo ispirarci), tutti. Ma che razza di razza è? era uscito nel 1999, ottenendo importanti riconoscimenti, ed ora, rinnovato, torna alle stampe, sempre per l’editore Città Nuova, nella recente collana «I nuovi colori del mondo», ben curata dalla stessa Roncaglia. Da citare anche le illustrazioni di Cristiana Cerretti, che forniscono un notevole apporto al testo. Silvia Nalon, Broncio e Coda, Sinnos. Illustrazioni di Martina Motzo. Da 7 anni Una storia deliziosa, divertente, scritta con elegante freschezza, perfettamente aderente alla prospettiva bambina. Una piccola storia di quotidianità familiare dal punto di vista della piccola Teresa, attraverso – e questo è il fulcro originale della vicenda – il suo accudimento di due pesci rossi, Broncio e Coda. «Vorrei quello che sembra arrabbiato e quello con la coda grande»
dice Teresa al commesso. Ed eccoli lì, Broncio e Coda, nella loro vaschetta, ormai diventati parte della famiglia. A dire il vero Teresa aveva provato a chiedere un cane, ma il condominio non permette cani, allora un gatto, ma «papà è allergico al pelo di gatto», «Allora posso avere due pesci rossi?» «Ok, i pesci rossi li puoi avere». Comincia così, con un ritmo perfetto, senza parole inutili, il racconto di Teresa, che porta subito il giovane lettore dentro la vicenda, una vicenda che, anche se non contempla adrenaliniche avventure, ma «solo» la vita di una bambina, dei suoi due fratelli maggiori, e di mam-
ma e papà, riesce – e forse proprio per questo – a tenere alto l’interesse di chi legge. Il merito è tutto della scrittura intelligente di Silvia Nalon (che non a caso è una maestra), della sua capacità di suscitare la meraviglia dello sguardo bambino, anche in dettagli minimi («io, quando vado in piscina, e vedo che nell’acqua ci sono insetti morti, foglie secche, capelli, non entro. Però io posso anche non nuotare mentre Broncio e Coda non ne possono fare a meno. Per questo gli ho abbellito la vaschetta[...]»), che sfociano spesso in considerazioni quasi filosofiche, perché Broncio e Coda, a loro modo, ne dicono di cose («ho imparato un sacco di cose dai pesci», ed è proprio «sbagliato quando si dice “muto come un pesce”»). Una proposta perfetta per i primi lettori, che va ad arricchire la bella collana «leggimi!» di Sinnos, anch’essa attenta, per impostazioni grafiche e redazionali (come anche l’altra collana proposta oggi, nella recensione precedente), a favorire la leggibilità.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Vedova, levatrice, strega e fantasma Agnes Sampson, scozzese della remota irrilevante regione dell’East Lothian (? – 1591), fu prima garrotata (vedi web) poi bruciata al rogo in quanto strega il 28 gennaio 1591. Nota al volgo come «La Saggia Moglie di Keith/The wise wife of Keith» aveva per anagrafe tutti i requisiti che occorrevano per finire male, molto male. Non che fosse difficile allora come da sempre per una vedova con prole che campava alla meno peggio facendo la mammana e dunque, per implicazione del mestiere, distribuendo pozioni e rimedi della farmacopea tradizionale in cambio di un pasto o una preghiera, andare a sbattere a seguito di un passo falso, di un’invidia, di una gelosia o di una semplice antipatia. Se questi erano da sempre gli incerti del mestiere, la crisi culturale internazionale che finì per investire le parti più remote d’Europa nel cinquantennio successivo al Concilio di Trento fece il resto per sigillarne il destino. Di quell’evento epocale che oggi solo gli addetti
ai lavori storici sembrano ricordare, la tradizione orale popolare mantiene più spiccia memoria che sia stato il Concilio a porre fine alla piaga epocale della stregoneria. Come spiegava al vostro Altropologo preferito un vecchio montanaro in Val di Fassa: «Il Concilio di Trento ha confinato i diavoli sulle cime dei monti, i Protestanti in Germania – e le streghe le ha spedite al rogo». Questo il legato culturale dell’antefatto. Nella primavera del 1590, James VI Re di Scozia ed Inghilterra era rientrato da Copenaghen dove aveva sposato Anne, la figlia del re di Danimarca e Norvegia. Il monarca era rimasto particolarmente colpito dall’ansia che pervadeva allora l’establishment danese, intento com’era a rafforzare le difese contro la stregoneria istruendo processi di corti «civili», spesso molto più amatoriali e sbrigativi dei tribunali ecclesiastici dove almeno operavano boia professionisti e non macellai (mettiamola così). La traversata verso la Scozia fu caratterizzata da
tempeste che misero a rischio l’incolumità degli sposini. L’Ammiraglio danese Peder Munk non ebbe allora dubbi ad emettere il verdetto – poco nautico in verità – che a scatenarle fossero state le streghe. «Poco nautico, perché?», chiederanno i lettori. «Poco nautico» perché fino ad allora il responsabile delle tempeste era stato il mandante delle streghe – il Diavolo. Che come tale era combattibile con la preghiera anche se – data la strumentazione del tempo – la navigazione era sottomessa all’imperscrutabile volontà della Divina Provvidenza. Ma per Munk (nomen omen?) il Monaco Ammiraglio, era ora di razionalizzare le antiche superstizioni, chiamare i responsabili delle disgrazie con nome e cognome e portarli al Tribunale della Ragione ritrovata contro le superstizioni religiose. Questo l’assunto «razionalista» che al tempo trapassava dalle Tesi di Lutero contro il mercimonio delle reliquie, la credulità nei miracoli e tutta quella roba
irrazionale lì. Insomma come dire: fino al Diavolo non possiamo arrivarci, ma alle Streghe sì. L’Ammiraglio aveva da tempo questioni aperte con il Borgomastro di Copenaghen e non perse l’occasione per puntare il dito (nascondendo la mano) contro una certa Anna Koldings. Era codesta un’amica della Prima Cittadina di Copenaghen, come si dice al Sud delle Alpi: «se non puoi fartela col marito, fattela con la moglie». Il risultato fu che tutte e cinque le Ladies di quello che possiamo immaginare come gossip dell’Ora del Tè – ante litteram, s’intende – confessarono di aver stregato il Vascello Reale in odio alla novella Regina Anne. Il perché di questa mortale (e suicida) avversione resterà Breaking News del Giorno in cui Tutto Sarà Rivelato. Invidia? Gelosia? Delusion de grandeur? Per ora dobbiamo, confinati come siamo al Covid storico della vicenda, solo confidare nella testimonianza delle imputate: coi loro poteri stregoneschi avevano comandato
ai demoni di sorgere dagli abissi ed abbordare il vascello reale. Il risultato? Nel settembre del 1590 due delle ree confesse furono giustiziate al rogo. Delle Tea Ladies complici invece non si seppe più nulla. Fattostà che King James VI, felice per lo scampato pericolo , determinato a non importare nel suo reame vizi e virtù à la mode di un Continente Perverso e Inaffidabile – si direbbe oggi – decise di istituire un proprio Tribunale contro la stregoneria. Zelante fra i primi successi del suo regno, dunque, la grottesca (per noi postumi) vicenda processuale di Agnes Sampson: vicenda standard di vedova, levatrice guaritrice – torturata senza capire perché – rea confessa e condannata al rogo. Nel 1597 il Re avrebbe pubblicato Demonologiae, un dotto trattato sulla stregoneria. Le sue ossessioni però non lo abbandonarono. Si dice che il fantasma di Agnes Sampson ancora si aggiri nei saloni del Palazzo Reale Scozzese di Holyrood…
quelle positive che pure esistono, come voglia di conoscere, d’incontrarsi, confrontarsi, condividere insicurezze e ansietà. Ed è proprio su queste che dovrebbero puntare gli educatori per essere all’altezza delle sfide che pone l’attualità. Privo di controllo e di guida, Ludovico rischia di rimanere sopraffatto da esibizioni di onnipotenza che lo allontanano dal riconoscimento del vero Sé, che comprende fragilità, vulnerabilità, bisogno di essere apprezzato, desiderio di essere amato e di amare. Non possiamo ignorare che i nostri figli vivono, nella sfera del Web, un’esistenza parallela a quella reale. Ed è lì, oltre che nella quotidianità, che dobbiamo incontrarli. Ma questo compito non può essere delegato alla famiglia, tanto meno a una mamma sola. Occorre che se ne faccia carico la comunità educante: i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, gli allenatori sportivi, i medici e gli psicologi, tutti coloro che vengono a contatto, in modo significativo, con gli adolescenti. Nel suo caso, cara Magda, potrebbe parlare con suo figlio ma temo che, sen-
tendosi spiato e scoperto in flagrante «delitto», reagisca al conseguente senso di vergogna e di colpa con atteggiamenti di sdegno, negazione, chiusura, mutismo e isolamento che potrebbero incrinare il vostro rapporto. Meglio, se possibile, chiedere l’intervento, magari in classe, di una figura autorevole senza essere autoritaria, una persona responsabile, capace di testimoniare la bellezza di una vita degna di essere vissuta senza eccedere in prediche e minacce. Se qualcuno, tra i lettori, possiede in proposito esperienze, riflessioni, consigli e suggerimenti, ci scriva. Il compito, difficile e nuovo, riguarda tutti. Per esortarvi a intervenire, cito ancora una volta la fondamentale dichiarazione della narratrice Christa Wolf: «io comprendo solo ciò che condivido».
chiamiamolo così, di appartenere al primo gruppo di vaccinandi. Correndo il rischio di apparire una cittadina, succuba del potere, non posso che dire: tutto ok. L’intervento si è svolto in modo esemplare, nella sede della protezione civile di Rivera, adeguatamente convertita alle esigenze del caso. All’ospitepaziente è stata riservata un’accoglienza puntuale, efficiente, rapida e, non da ultimo, cordiale da parte di addetti ai lavori ben preparati, anche dal profilo psicologico. Al riparo persino dal rischio di quel paternalismo che, non di rado, vizia i rapporti con i vecchi. Qui, infatti, si tocca un’altra conseguenza del Covid: quella appunto di ripristinare categorie particolari, in una popolazione che si era illusa di averle amalgamate in una convivenza ben funzionante. Invece il dovere di rispettare la distanza fisica, necessaria dal profilo sanitario, ha avuto riper-
cussioni insidiose sui rapporti umani allargando il divario fra generazioni e ceti sociali. Ecco i giovani sotto accusa, responsabili con la movida d’incrementare i contagi e, d’altro canto, i vecchi da isolare per via della loro vulnerabilità. Per non parlare delle rivalità sul fronte dei commercianti e degli imprenditori colpiti da provvedimenti, discussi e discutibili: del tipo fioristi aperti e librerie chiuse? E, conseguenza della precarietà economica, un diffuso impoverimento che, nella Svizzera per definizione benestante, ricrea la categoria dei bisognosi autentici e, purtroppo, anche quella dei profittatori che battono cassa allo Stato alla caccia di sussidi forse immeritati. Per rispondere al nostro interrogativo, il Covid appare più divisivo che unificante. A parte, ovviamente, le lodevoli eccezioni di chi, negli ospedali e anche nella vita sociale, si è sacrificato al servizio della comunità.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Adolescenti e pornografia Cara Silvia, ti chiedo di aiutarmi a risolvere un problema che non so da che parte prendere. Vivo sola con mio figlio Ludovico perché il padre, 14 anni fa, quando ha saputo che ero incinta, mi ha detto che gli dispiaceva ma non si sentiva pronto ad assumere gli impegni di genitore. Poco male, io e Ludovico ce la siamo cavata benissimo. È vero che ho dovuto farmi aiutare perché i miei impegni di lavoro mi tengono per molte ore fuori di casa, ma il bambino è cresciuto bene e sinora non mi aveva dato problemi. Una figura paterna non gli è mai mancata perché mio padre è stato un nonno fantastico, sempre disponibile, sempre vicino. Purtroppo quell’orribile mostro che si chiama Coronavirus ce l’ha portato via. Ora sì che sono sola e alla prima difficoltà mi sento persa. Durante le Feste sono venuta a sapere da una mamma della classe di mio figlio che alcuni ragazzini (quali?) vedono, sul computer, canali porno. Ludovico resta molto tempo in casa solo e potrebbe essere tra quelli. Non le sembra un po’ presto per vedere donne nude? / Magda
Cara Magda, capisco la sua insicurezza e l’ansia che l’assale alla prima trasgressione di quello che credeva essere ancora il suo bambino. Non siamo mai preparati di fronte ai repentini cambiamenti della pubertà. Tanto meno una mamma sola. A una certa età, sempre più precoce, la curiosità per la misteriosa sfera del sesso è naturale ma è il modo con cui viene soddisfatta dalla pornografia che fa problema. Di solito la scuola fornisce informazioni neutre ma agli adolescenti non bastano: è il mistero che vogliono svelare. Freud stesso riconosce che vi è, nella sessualità umana, qualche cosa d’inquietante. Ci siamo allontanati dalla natura, abbiamo sganciato la sessualità dalla procreazione e, a questo punto, è soltanto con una riflessione matura e profonda che possiamo ripristinare l’armonia perduta. Purtroppo nella nostra società non c’è consapevolezza dei disastri innescati da atteggiamenti concilianti verso il porno. Ci vorrebbero educatori saggi e competenti per aiutare ragazzi e ragazze (il problema non riguarda
solo i maschi) a non cadere nella spirale della pornografia che può provocare dipendenza. Non si tratta tanto di «vedere donne nude», sarebbe il meno. Gli adolescenti lo hanno sempre fatto, anche se un tempo si limitavano a sbirciare pubblicazioni proibite dietro le edicole. Ora l’offerta è smisurata, si parla di milioni di siti pornografici nel mondo. Tentare di monitorarli e controllarli non è moralismo ma affermazione della dignità umana e difesa dei più deboli. Dietro a quegli spettacoli indecenti si nascondono insidie pericolosissime come l’adescamento di minori a scopo sessuale, il bullismo e la sopraffazione di genere. Il sesso porno, sempre simulato, è eccessivo e violento perché, avendo come unico scopo l’eccitazione, non tiene conto della reciprocità, dei sentimenti, dei valori estetici e morali che rendono umani i nostri rapporti. Messi a confronto con prestazioni erotiche mirabolanti e ostentate, è facile sentirsi inadeguati. Le emozioni negative come sgomento e paura, suggestioni ipnotiche e fantasie incontrollabili, possono prevalere su
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Effetto Covid: più uniti o più divisi? Adesso è la volta del vaccino, la cosiddetta luce in fondo al tunnel che, però, non si è accesa per tutti. Un farmaco, frutto di ricerche e sperimentazioni scientifiche e tecnologiche condotte sul piano mondiale, non ha ottenuto unanimità di consensi, anzi tutt’altro. È, del resto, la sorte che, nell’era del politically correct, spetta sempre più ai prodotti della chimica, la multinazionale per antonomasia, sinonimo di speculazioni giocate sulla nostra pelle. Mentre conquista simpatie e fiducia il filone verde, accortamente pubblicizzato. In definitiva, è anche questione d’immagine. Da un lato, un rimedio naturale, ricavato da erbe, fiori, cortecce, che suscita visioni di prati, giardini, boschi. Dall’altro, un artificio, che evoca un passato di stregoni alle prese con alambicchi e pozioni misteriose, e un presente associato a un universo inaccessibile alla nostra comprensione,
quali sono i centri di ricerca ai più alti livelli. Proprio da lì, da imprese che si chiamano Pfizer, Moderna e consimili, arriva un ritrovato che le circostanze hanno reso simbolico: dalla sua distribuzione capillare dipenderà la sconfitta definitiva del Covid 19. Ora, trattandosi di un vaccino, appartiene proprio ai farmaci più esposti a sospetti e timori tanto da alimentare correnti d’opinione e addirittura partiti politici, all’insegna del no vax. Sigla vincente, e non soltanto nell’Italia di Grillo e dei 5 stelle, ma, in forma più tranquilla, si è radicata nelle convinzioni di non pochi nostri concittadini. Ma la campagna vaccinale, avviata nelle ultime settimane dalla Confederazione, non dovrà fare i conti unicamente con i prevedibili contestatori no vax, già attivi nei confronti del vaccino antinfluenzale e persino dell’antimorbillo. Si troverà ad affrontare opposizio-
ni create specificamente dalla pandemia. Al pari di una guerra, e a suo modo lo è, la lotta contro il virus sta suscitando reazioni anomale: ispirate al bisogno di denunciare i responsabili di tutto questo guaio. E più a portata di tiro, ecco il politico, il burocrate, il medico ufficiale che, anche con le vaccinazioni hanno sbagliato. Primo rimprovero: la Svizzera, innanzitutto, è partita in ritardo, non ha provveduto a rifornirsi di fiale a sufficienza. Poi la somministrazione, praticata in luoghi lontani e scomodi, e, non da ultimo, i criteri con cui si è stabilita la precedenza. In questo clima di risentimento civico, dove il cittadino rivendica le sue libertà, compresa quella di rifiutare il vaccino, diventa difficile osare contrapporre la voce di un consenso. Tuttavia ci provo, sulla scorta di un’esperienza personale. Per via dell’anagrafe, ho avuto il privilegio,
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Ambiente e Benessere Il castoro nella storia Impariamo a conoscere questo simpatico roditore, famoso per le sue capacità architettoniche pagina 12
La donna che alleva i rapaci Negli Emirati Arabi Uniti la falconeria è uno degli sport più apprezzati e oggi anche le donne iniziano a cimentarsi
Una torta da antipasto Pere e succo di barbabietola sono gli ingredienti per una Tarte Tatin salata e appetitosa
Bergoglio e lo sport Papa Francesco ha rilasciato una lunga intervista alla «Gazzetta dello sport», un vero scoop
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Una malattia dalle tante sfumature
Salute La giornata mondiale sul diabete
del 14 novembre ha acceso i riflettori su una patologia tanto subdola quanto comune
Maria Grazia Buletti Dopo la scoperta dell’insulina, nel 1921, per merito del fisiologo canadese Frederick Grant Banting, il diabete passa dall’essere una malattia mortale a una patologia «controllabile». «È una malattia sistemica che si associa erroneamente al concetto di glicemia (il tasso di zuccheri presente nel sangue), mentre dovrebbe essere presa sul serio a causa delle sue complicanze talvolta devastanti». Il dottor Sebastiano Franscella e il professor Pierpaolo Trimboli (rispettivamente medico aggiunto e caposervizio di Endocrinologia e Diabetologia all’Ospedale Regionale di Lugano) introducono il tema del diabete la cui giornata mondiale cade ogni anno il 14 novembre, ricorrenza istituita nel 1991 dalla International Diabetes Federation (IDF) e dall’OMS in risposta all’aumento delle diagnosi, il cui obiettivo risiede nell’educazione alla sua prevenzione e a una buona gestione della malattia. Se la parola diabete è parecchio nota, il concetto lo è di meno, spiega Franscella: «È una malattia cronica caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia), dovuta a una ridotta quantità o funzione dell’insulina, l’ormone prodotto dal pancreas che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno». Entrambi gli specialisti confermano che in Svizzera circa 400’000 persone sono affette da diabete («però possiamo stimarne anche fino a 500’000 fra pazienti diagnosticati e persone che invece non sanno di esserlo»). Di questi, il 10 per cento si confronta con il diabete di tipo 1 («diabete autoimmune, in cui l’insulina non viene più prodotta dalle cellule pancreatiche preposte, perché attaccate da un processo infiammatorio del sistema immunitario; la causa non è chiara ma vi partecipa verosimilmente una componente facilitante virale»). Il 90 per cento manifesta diabete di tipo 2 («col tempo l’organismo si abitua gradualmente all’iperglicemia mentre il pancreas cerca di compensare il pro-
blema incrementando la produzione di insulina stessa che diventa però meno efficace [insulino-resistenza]»). Negli anni 70 al mondo si stimavano circa 20 milioni di diabetici. Oggi raggiungono i 463 milioni e l’IDF prevede che entro il 2045 si raggiungeranno i 700 milioni. Si calcola che ogni anno più di 3 milioni di persone diabetiche muoiono per malattie ad esso correlate: «Qui emerge l’importanza di una diagnosi tempestiva con precoce educazione del paziente a un’igiene di vita adeguata, finalizzata a ottimizzare la gestione della patologia». Parlando di una «malattia in cui gli zuccheri nel sangue raggiungono un livello eccessivo tanto da diventare tossici per l’organismo», i nostri interlocutori sottolineano le caratteristiche che fanno del diabete una malattia da non trascurare: «Il diabete di tipo 2 può colpire chiunque; dipende molto dall’igiene di vita perché, sebbene le cause scatenanti siano poco chiare, si associa a obesità, sovrappeso e sedentarietà con le conseguenze dovute a queste comorbidità che vanno ad aggiungersi ai problemi di gestione della malattia. Inoltre, il diabete tipo 2 è una patologia subdola perché può essere a lungo asintomatica mentre progredisce silenziosamente». Le persone affette da diabete devono essere molto attente alla loro condizione. Abbisognano di sostegno e assistenza dei propri cari nella gestione della malattia e devono condurre una vita sana: «Maggiore sarà la consapevolezza del paziente sulle manifestazioni collaterali possibili, più la sua condotta di vita contemplerà una sana alimentazione e un regolare movimento fisico, e migliore sarà il risultato sul controllo della glicemia pre – e post-prandiale. Ciò permetterà quindi di ottenere e mantenere un’ottimale gestione del diabete». Sulla sintomatologia del paziente che porterà alla formulazione della diagnosi del diabete di tipo 1 il dottor Franscella dice: «I sintomi appaiono rapidamente perché il paziente non produce insulina, non può utilizzare il glucosio degli alimenti (che quindi viene perso nell’urina attraverso i reni), ha sete e perde energia e peso bruciando i suoi grassi. Quando egli si accorge di tutto questo, la situazione
Per le persone diabetiche la cura dei piedi è molto importante. (Stefano Spinelli)
necessita di una rapida correzione». Trimboli ricorda che invece il diabete di tipo 2 sopravviene gradualmente senza dare noia per lungo tempo: «Il corpo si abitua gradualmente alla condizione crescente di insulinoresistenza e agli alti valori di zucchero nel sangue e il paziente arriva dal medico con altri problemi causati dal protrarsi di questa situazione, ignorata per lungo periodo. Ciò andrà a colpire e deteriorare gli organi nobili dell’organismo come occhi, reni, cuore: testimonianza di un diabete esistente da 5-10 anni». Il trattamento passa per l’assunzione di responsabilità individuale del paziente stesso, spiega Franscella: «Il paziente deve avere piena coscienza della sua malattia e delle sue conseguenze se non dovesse essere controllata adeguatamente». I pazienti sono attori della propria
malattia e si affidano al medico le cui istruzioni e indicazioni mirano a rallentarne la progressione. Questa è la strada tracciata dai diabetologi che, al programma alimentare, all’attività fisica e all’autocontrollo della glicemia, indicano l’aggiunta di farmaci. Tra questi, oggigiorno sempre più numerosi, primeggia tuttora la metformina, una molecola con provata azione insulino-sensibilizzante, mentre si diffonde sempre più l’uso di nuovi farmaci con effetti protettivi a livello cardiaco. L’insulina è una «scelta possibile nel tipo 2 e indispensabile nel tipo 1». Un diabete non ben controllato favorisce una serie di complicanze come quella delle lesioni a carico dei piedi: «Nel tipo 2 c’è un’assuefazione dell’organismo all’iperglicemia che così va a ledere le strutture nervose periferiche, dove entra senza bisogno dell’insulina,
alterandone la conduzione elettrica. La percezione tattile e quella dolorifica dei piedi saranno alterate o perse con presenza di formicolii (neuropatia diabetica distale) fino allo sviluppo di lesioni quali ulcere plantari e/o necrosi, di cui il paziente non si accorge proprio per la perdita del sistema di allarme del dolore». Infine deve essere posto all’attenzione il diabete gravidico per il quale: «La misura di prevenzione è essenziale per madre e nascituro». Due parole vanno inoltre spese sugli effetti della attuale pandemia da COVID-19: «I diabetici in generale sarebbero più a rischio di infezione e potrebbero avere una prognosi peggiore. È dunque essenziale che non perdano il contatto con il proprio medico di famiglia e il diabetologo, in particolare per il timore di infettarsi recandosi presso il loro studio».
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Compra casa con un Euro Viaggiatori d’Occidente Le amministrazioni di alcuni Comuni
a rischio di abbandono cercano di attirare nuovi residenti con iniziative sensazionali Claudio Visentin Meredith Tabbone è una consulente finanziaria di Chicago, con remote radici italiane, testimoniate dal cognome. Qualche tempo fa ha partecipato a un’asta online per comprare una casa nel paese d’origine della sua famiglia, Sambuca, in provincia di Agrigento, nominato Borgo più bello d’Italia nel 2016. L’offerta minima era soltanto di un euro, anche se per essere certa di aggiudicarsi la casa alla quale era interessata la ragazza ha offerto 5555 dollari. In tutto sedici immobili erano in vendita a queste condizioni e il successo è stato enorme. Nei mesi precedenti l’amministrazione comunale ha ricevuto migliaia di email e telefonate da parte di potenziali compratori, provenienti da ogni parte del mondo, anche grazie a un reportage sul borgo trasmesso dall’emittente televisiva statunitense CNN. Inoltre l’iniziativa delle «case a 1 euro» diventerà un format televisivo internazionale: la rete televisiva Discovery Channel ha deciso di acquistare una casa nel comune siciliano per trasformarla nel set di un programma dove il restauro sarà seguito passo dopo passo.
Questa idea delle case a un euro del resto non stanca mai. Fu proposta per la prima volta una decina d’anni fa dal critico d’arte Vittorio Sgarbi, allora sindaco di Salemi, in provincia di Trapani. Naturalmente un euro non basta. Dopo aver acquistato la casa a un prezzo tanto vantaggioso bisogna pagare le spese notarili, le tasse e soprattutto impegnarsi a ristrutturarla entro alcuni anni, versando una cauzione a garanzia della serietà delle proprie intenzioni. Ben che vada, i lavori di sistemazione richiedono qualche decina di migliaia di euro e siamo dunque davvero lontani dall’euro iniziale. Ma anche ricondotto alle sue giuste proporzioni, l’acquisto di una casa a un euro può essere un buon affare e di certo un’esperienza interessante. Il caso di Meredith del resto è un buon esempio. Solo dopo l’asta, nel giugno 2019, ha potuto vedere per la prima volta la sua casa. Ovviamente era in condizioni disastrose, dopo un secolo di abbandono: sporcizia, calcinacci ovunque, niente acqua né elettricità. Meredith non si è scoraggiata e ha cominciato subito i lavori, spesso seguendoli a distanza per via del Covid. Anzi ha acquistato anche
la casa a fianco per avere più spazio e poi un’altra poco distante da trasformare in un caffè, dove esporre opere degli artisti locali. Capita spesso del resto che le case a un euro aprano la via ad altri acquisti immobiliari, questa volta a prezzo di mercato. Strada facendo Meredith ha fatto anche scoperte interessanti: «Il mio bisnonno era nato e cresciuto a solo due isolati dalla mia nuova casa e ho conosciuto dei parenti che non sapevo di avere». Meredith progetta di venire a vivere qui quando andrà in pensione, per riscoprire il piacere della lentezza e la condivisione della vita quotidiana con la comunità. Altre regioni italiane hanno imitato la Sicilia. Per esempio la Calabria ha puntato con intelligenza su un turismo delle radici. Nel corso del Novecento milioni di calabresi sono emigrati nel mondo sospinti dalla miseria e molti di loro hanno ancora una casa in qualche paese della regione. Ora li si invita a tornare per una vacanza estiva e si cerca poi di convincerli a restaurare le loro proprietà. Molti riscoprono così luoghi dei quali hanno sempre sentito parlare a casa, imparano nuovamente il dialetto, approfondiscono la conoscenza del-
In Sicilia in particolare sono offerte varie opportunità. (U. Wolf)
la cultura locale e fanno ricerche sulla propria famiglia, incontrando i parenti rimasti in Calabria. La maggior parte di questi nuovi calabresi per ora proviene dalla Germania e molti diventano poi ambasciatori della regione, all’estero ancora poco conosciuta. Come forse già sapete anche il Comune di Gambarogno ha il suo progetto di «rustici a un franco», nel nucleo montano di Sciaga, sul versante sinistro dell’alta Val Veddasca, di fronte a Indemini: nove edifici storici in rovina potranno essere acquistati dai privati a prezzo simbolico con le solite regole. Per ora si procede con cautela; si attende il via libera cantonale e federale, ma anche in questo caso gli interessati sono stati centinaia da tutto il mondo. La proposta di «case a un euro» insomma funziona. Offre la possibilità di nuovi inizi a cittadini in cerca di al-
tri cieli e al tempo stesso riporta vita in paesi minacciati dall’abbandono e dalla marginalità. Certo i nuovi cittadini per ora sono pochi: la maggior parte delle richieste arriva da stranieri (a Sambuca su sessantasei offerte definitive solo una era italiana) e, in attesa della pensione, gli immobili restaurati diventano piuttosto seconde case o B&B. Tuttavia la pandemia, il distanziamento sociale e il lavoro da remoto hanno moltiplicato l’interesse per proposte di questo tipo e creato un clima davvero favorevole. Ma il marketing e la comunicazione da soli non bastano; sono anzi la parte più facile del percorso. Servono soprattutto una solida preparazione legale e tecnica del progetto, uffici pubblici efficienti, qualche risorsa da investire per i servizi essenziali. Dopo tutto anche i sogni a occhi aperti hanno le loro esigenze. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
«Per metà di sé è carne, per metà è pesce»
Biodiversità Un raro testo del 1600, intitolato Castorologia, ci svela quale importanza ha avuto in passato il castoro
Alessandro Focarile Un improvviso rumore di frasche e di ramaglia rompe il silenzio dello stagno immerso nel bosco. Un altro salice è stato abbattuto, e le inconfondibili rosicchiature alla sua base svelano le capacità del boscaiolo: è opera di un castoro. Il lungo lavoro, eseguito con sapiente tecnica, forse è per l’insediamento di una nuova famigliola, o per la manutenzione di una diga, oppure di una tana già esistente. Il tutto è stato eseguito con i robusti denti incisivi, lunghi oltre cinque centimetri, e che possono tranciare di netto un dito umano. Il castoro si presenta, è di poche parole, e racconta l’essenziale: «Salve! Considerata la vita e il lavoro che faccio, la mia corporatura è piuttosto tozza e robusta. Sono ben costruito, sono lungo 75-130 centimetri (coda compresa), peso circa 30 chili. Insomma, non sono un cagnolino. La mia coda, molto caratteristica, è appiattita e lunga fino a 35 centimetri. È coperta di scaglie e mi è utile come timone quando nuoto. Inoltre, mi è preziosa per compattare i materiali (legno e fango) quando costruisco le mie dighe, o faccio lavori in casa. Vedo poco, in compenso ho un udito e un olfatto finissimi, che mi permettono di percepire ogni pericolo. Lavoro parecchio dopo il tramonto e durante la notte, ma, di giorno, preferisco sonnecchiare e prendere il sole (quando c’è). Sono un vegetariano di stretta osservanza: mi cibo di cortecce, preferendo quelle dei salici, dei pioppi e delle betulle. Radici e tuberi mi sono graditi, e cerco di immagazzinarne il più possibile per l’inverno quando gela l’acqua degli stagni e dei torrenti, mia dimora. In primavera mia moglie partorisce 2-4 castorini, che sono tanto carini. Mediamente vivo 15-20 anni, ed è sempre una bella età per un castoro». Attualmente, esistono soltanto due specie di castori, discendenti di antichi, giganteschi antenati, che ci sono noti grazie ai ritrovamenti fossili dei loro resti. Quello siberiano (Castor fiber), un tempo diffuso anche in tutta l’Europa dalla Scandinavia al Mediterraneo, è caratterizzato per il suo pelame color nocciola. Era ben noto ai Romani, che lo avevano denominato Canis ponticus poiché era diffuso fino in Anatolia (il Ponto). La seconda specie nota è quella
Illustrazione da un’antica pubblicazione sui castori (1892). (Wikimedia)
nord-americana, la cui pelliccia è più scura; quest’altro castoro è forse persino più noto perché è stato immortalato da famosi documentari di Walt Disney dedicati alla Natura. Da molti milioni di anni, e prima che lo facessero le imprese idroelettriche, questi intelligenti e industriosi animali hanno affinato sempre di più le loro tecniche di costruzione delle loro dighe, che possono essere lunghe fino a cento metri, e alte anche tre. Esse hanno lo scopo di mantenere sempre costante il livello dell’acqua degli stagni abitati, per proteggersi dai predatori e avere più cibo a disposizione. Se il livello aumenta, i castori provvedono a innalzare il pavimento della loro tana. Le strutture possono essere abitate anche trent’anni, e sono opera di più generazioni. Castor fiber, ovvero il castoro euro-asiatico, è stato vittima di una caccia spietata attraverso i secoli, fino a giungere alla sua completa estinzione in vaste aree europee. Il motivo di questo accanimento è stato originato principalmente dalle supposte virtù taumaturgiche e curative di due sue ghiandole secernenti una sostanza di sapore acre, e con un odore caratteristico, il castoreo, fino a un recente passato impiegato anche in profumeria. Al castoreo si attribuivano eccelse pro-
prietà come sedativo, antispasmodico e ipnotico. lnoltre, del castoro era molto pregiata la pelliccia (il castorino), e la carne – come vedremo – era considerata una prelibatezza persino dai pontefici dell’epoca. Dopo la ritirata dei ghiacciai quaternari (10mila-13mila anni da oggi), i castori si erano progressivamente diffusi, popolando vasti territori sia nell’Eurasia, sia nel Nord America. Antiche cronache e numerosissimi toponimi attestano la loro presenza un po’ dovunque: dalla Scandinavia alla Sicilia. Non solo nelle grandi pianure alluvionali, ma anche nei territori collinari e montani. Ovunque fossero presenti piccoli corsi d’acqua associati con stagni immersi nei boschi, luoghi ideali per la loro vita. Nel Veneto di pianura, il castoro era di casa. Ne parla anche Dante Alighieri (Inferno): «...e come là tra li tedeschi lurchi (mangioni, crapuloni, n.d.r.) lo bevero s’assetta a far la guerra». Insiste Fazio degli Uberti (1345-1367) nel suo Dittamondo, un poema didascalico in terzine, contenente la descrizione fiabesca di un viaggio attraverso Europa, Africa e Asia: «Per quel cammino, che più ci parve presso / per la pineta passammo a Ferrara / dove l’aquila bianca il nido ha messo. / Nei suoi laguni un animal ripara / ch’è bestia
e pesce, il qual bivaro ha nome / la cui forma a vedere ancor m’è cara». A distanza di 650 anni, ritroviamo in questi luoghi gli attuali toponimi: Beverare, Biverone. Dai Grigioni (Val Bever, Piz Beverin) al Varesotto (Val Bevera, Bedero Val Cuvia, Bedrate), alla Liguria (Val Bevera, Bevera, Beverino), fino alla Sicilia (Biviere di Gela). In terra ticinese (Leventina) la passata e probabilmente diffusa presenza del castoro è documentata innanzitutto grazie al prezioso ritrovamento di una sua mandibola a Dalpe a 1200 metri s.l.m., nel corso di uno scavo di una necropoli datata 2500 anni da oggi (Fransioli, 2002). Significativo è il fatto che la località presso Dalpe si chiami tuttora Vidresc (da Bedresc Biber = castoro), ricordando la prossima Bedrina, una palude-torbiera. Altri toponimi leventinesi si riferiscono alla presenza del nostro amico. Per esempio, Bidré, nella parlata locale per Bedretto, e ancora Bidre sui monti di Bodio. Merita notare che, nel corso del tempo, si sono avute molte alterazioni fonetiche a opera di scrivani, amanuensi e topografi. I quali hanno spesso storpiato o mal trascritto il vocabolo primigenio: bever, biber. La diffusa presenza in tutta l’Europa medievale è testimoniata dalla persistenza fino ai nostri giorni di centinaia di toponimi che fanno riferimento al castoro. Nella sola Germania, oltre 150 nomi recano il prefisso Biber (per esempio Biberbach = il torrente dei castori). Partendo dalla radice babù, bohr, di probabile origine sanscrita (Ba – Buhru), abbiamo tutta una serie di derivazioni nelle varie lingue: Biber, in tedesco; beaver, in inglese; beahbar, in irlandese; bohr, in russo, bulgaro, polacco; bièvre, in francese; bibaro, in spagnolo e in portoghese. Al di là dei toponimi, molte altre notizie interessanti sono state riportate in trascrizioni da secoli in secoli in merito al Caster fiber. Il professore Georg Pilleri (Università di Berna), oltreché essere un rinomato studioso dell’anatomia del cervello dei mammiferi, è anche un colto bibliofilo. A sua cura è stato ristampato un prezioso e raro testo, intitolato Castorologia. Fu stampato a Ulm sul Danubio nel 1685 tra una pestilenza e l’altra, e arricchito con diverse incisioni su legno (xilografie). Si tratta di una originale opera scritta in un latino aulico e macchero-
nico considerata l’epoca, e presentata sotto forma di dialogo tra un chimicomedico (Marius) e un abate (Francus). In quei tempi procellosi, i popoli erano permanentemente in guerra tra di loro. Ma, nel contempo, vi erano questi dotti gentiluomini polivalenti (tuttologi, diremmo). Medici, chimici (alchimisti), fisici, naturalisti, e magari filosofi. Tutti personaggi che ritenevano doveroso scrivere (magari con una penna d’oca), e tramandare ai posteri le loro conoscenze, idee e opinioni. Marcus e Francus discettano in merito a tutto quanto si conoscesse sul castoro nel 1600. Un vero trattato che descrive la vita e i costumi dell’animale, considerato un anfibio «per metà di sé è carne, per metà è pesce». E il suo utilizzo nella medicina del tempo, con numerose e insolite ricette. Schietta e non priva di ironia, ai nostri occhi contemporanei, la lunga e dettagliata trattazione culinaria: «la carne è molto gradita a coloro che amano il grasso nell’alimentazione, ma ad altri produce nausea, così come accadde a un mio onorato concittadino al quale, per sopraggiunta diarrea, causò proprio la morte». Inoltre, «…molti si beano della sua carne, per primi i pontefici». La coda era reputata una squisita prelibatezza da cuocere «…in una padella con vino bianco, dopo aver aggiunto zenzero, cannella e pepe» (trad. dal latino di Caterina Desiati Calò). Relegato in epoca attuale soltanto in poche e isolate aree relitte, come le Bocche del fiume Rodano in Francia, in Scandinavia, in Germania e in Polonia (per non parlare della Russia), si assiste con piacere, a un revival del castoro in Europa. Da una prima reintroduzione nel cantone di Ginevra (Allondon, negli anni Settanta), l’animale si sta lentamente diffondendo nei laghi di Neuchâtel e di Bienne. In Scozia è ricomparso dopo 400 anni, grazie all’immissione di alcune coppie provenienti dalla Norvegia, che hanno «figliato» con successo. Tutto un fervore di iniziative grazie alle benemerite associazioni protezionistiche (in Svizzera, la Pro Natura). I castori sono propensi ad allargare e aumentare gli habitat, riconquistando gli antichi areali da loro occupati, purché sia assicurata una sufficiente continuità territoriale. Auguriamo loro una lunga e serena vita.
I cibi senza lattosio
La nutrizionista Molti prodotti oggi possiedono questa caratteristica: cerchiamo di capire
esattamente cosa significa per la nostra digestione Laura Botticelli Sento spesso vantare le qualità dei «senza lattosio» come «prodotti leggeri», ma siccome spesso il «leggero» è stato associato al «non grasso», cioè al «dietetico», temo che la sovrapposizione dei termini porti molti a credere che «senza lattosio» equivalga a «dietetico», o meglio a «non ingrassante». Sbaglio io, oppure non c’entra niente, e mangiare prodotti senza lattosio, ad esempio un gelato alla crema di vaniglia, si ingrassa comunque, tanto quanto mangiare un gelato cremoso alla vaniglia con il lattosio? / Lara Gentile Lara, effettivamente negli ultimi tempi l’aggettivo «leggero» è stato associato a tanti, forse troppi prodotti. Se si ricerca sul vocabolario il suo signi-
ficato si legge: «Che non dà sensazione di peso o di pesantezza: cibi l., alimenti l., pane l., che non appesantiscono lo stomaco, di facile digestione; pasto l., frugale, non troppo abbondante». Ha ragione Lara, è facile confondersi perché di per sé la parola leggero implica i due aspetti, frugale e di facile digestione, ma un cibo leggero non sempre può andare bene per un intollerante e non sempre è povero di calorie. Cerco di spiegarmi meglio prendendo il suo esempio del gelato alla vaniglia senza lattosio. Gelato senza lattosio innanzitutto cosa significa? Il lattosio è lo zucchero del latte, è un disaccaride, costituito da due monosaccaridi glucosio+galattosio. Io cerco di spiegarlo «visivamente» ai miei pazienti mostrando i miei due pugni uniti
dai pollici (non me ne vogliano i miei colleghi). Con la digestione, a livello intestinale, questo legame viene rotto dall’enzima lattasi e il glucosio e il galattosio vengono utilizzati per i loro scopi (un paio di forbici che rompono il legame e i due pugni si staccano). Le persone intolleranti al lattosio producono troppo poco o addirittura nessuna lattasi e quindi non si rompe il legame e la molecola così come è – i due pugni uniti – non viene digerita e viaggia a livello intestinale richiamando acqua, dando nutrimento ai batteri intestinali creando così possibili problemi di diarrea, meteorismo, gonfiore addominale. Nei prodotti senza lattosio il lattosio non è presente come disaccaride ma già come glucosio e galattosio separati, quindi non deve essere digeri-
to dalle persone: questo processo è già stato indotto industrialmente. Il gelato senza lattosio può essere considerato leggero per questo motivo. Se guardo dal punto di vista calorico: 100 g hanno 164 kcal. Se lo paragono con un gelato alla vaniglia normale le calorie possono variare da 211 a 278 kcal su 100 g a seconda della quantità di panna presente. In un gelato alla vaniglia leggero, inteso come povero di calorie perché fatto con acqua e latte magro, 100 g possono avere da 85 a 169 kcal. In conclusione, attenzione a non farvi confondere dalla parola «leggero». Se volete perdere qualche chilo e non siete intolleranti al lattosio non prendete questi prodotti nella speranza che vi aiutino: come potete vedere i valori nutrizionali cambiano di poco.
Il fatto che sia «leggero» non significa che sia ipocalorico.
Lo ripeto sempre: so che è più facile a dirsi che a farsi, ma la moderazione è sempre la chiave di tutto. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Ambiente e Benessere Negli Emirati Arabi la falconeria è uno sport maschile, ma le donne iniziano a cimentarsi. (Didier Ruef – Su www.azione.ch una galleria fotografica più ampia)
Una donna tra i rapaci Personaggi Ayesha Al Mansoori è l’unica falconiera degli Emirati Arabi Uniti
Harald Maass Padre e figlia uscivano di casa anche prima dell’alba. A volte vedevano le tracce nella sabbia lasciate da una volpe durante la notte. Questa complicità ha avuto un prezzo: Ayesha Al Mansoori dice che sua madre l’ha rimproverata per aver saltato la scuola ed essere andata nel deserto con suo padre. Dice anche che la magia di questa arida vastità l’ha sempre attratta. Lì, le è stato permesso di fare ciò che era impossibile per la maggior parte delle giovani ragazze e rimane ancora oggi un tabù per le donne del mondo arabo: indossare un guanto di pelle e dare il braccio a un falco pellegrino. Con potenti battiti d’ala, l’uccello rapace si è alzato in volo prima di sfrecciare su una preda. Ayesha Al Mansoori dice che suo padre, un pastore di cammelli di Abu Dhabi, ha condiviso con lei tutti i suoi segreti sulla caccia con il falco. Oggi è l’unica falconiera professionista degli Emirati Arabi Uniti. Ci vuole mezz’ora di macchina dal centro di Abu Dhabi al Falcon Club. Le sagome dei grattacieli sono scomparse da tempo nella nebbia dell’afa quando appaiono una dozzina di edifici bassi, chiusi da una recinzione metallica e sorvegliati da guardie. Queste precauzioni non sono troppe per proteggere uccelli che possono valere milioni. Falchi pellegrini, girifalchi o gheppi sono alloggiati in voliere climatizzate. Alcuni di loro sono campioni e cacciano le loro prede in pochi secondi. La maggior parte sono stati allevati in Europa e vengono coccolati giorno e notte da personale proveniente dall’India e dal Pakistan. Gli uccelli hanno spesso assistenti personali, nutrizionisti, formatori, medici e persino il proprio passaporto. In nessun altro luogo i falchi e la falconeria sono così venerati come negli Emirati Arabi. Gli uccelli rapaci sono un simbolo nazionale, che adorna le banconote e compare sui loghi aziendali. Sono anche il simbolo ultimo dello status sociale. Alcuni sceicchi hanno
Gli uccelli sono impegnati in competizioni molto seguite. (Didier Ruef)
Alcuni lanci avvengono da mongolfiere. (Didier Ruef)
enormi fattorie di falchi che ospitano centinaia di uccelli. I loro emissari setacciano il mondo alla ricerca dei migliori pulcini che un giorno si sfideranno in giochi professionali trasmessi in diretta televisiva. Ayesha Al Mansoori sta aspettando fuori dal Falcon Club. Due volte al giorno, mattina e sera, addestra i suoi uccelli. La maggior parte delle volte,
sua figlia è presente. I falchi sono selvaggi per natura; per abituarli all’uomo, il falconiere deve ripetere più e più volte gli stessi gesti con loro. Al Mansoori ripete più e più volte questi movimenti rituali, facendoli atterrare tranquillamente sul guanto di cuoio, mandandoli a caccia a comando. Il suo sogno è quello di partecipare un giorno a uno dei concorsi nazionali.
Migliaia di anni fa, molto prima dell’arrivo dell’Islam in Medio Oriente, i beduini iniziarono ad allevare rapaci per la caccia. Sarebbe stato difficile trovare un modo migliore per cacciare. I falchi sono le creature più veloci della terra, in picchiata possono raggiungere i 360 chilometri all’ora e la loro vista è otto volte migliore di quella degli esseri umani. Oggi i falchi sono protetti in tutto il mondo, ma si ritiene che esista un enorme mercato nero. Qualche anno fa, ad esempio, i doganieri dell’aeroporto di Birmingham in Gran Bretagna hanno arrestato un viaggiatore che si era legato al corpo con del nastro adesivo ben quattordici uova di falco pellegrino. Le aveva rubate nel Galles, da nidi in natura, e li aveva portati a Dubai, perché molti falconieri arabi sono convinti della superiorità degli uccelli selvatici sugli uccelli d’allevamento. «È un girfalco», dice Muhammed Ihsan, mettendo un bellissimo animale sul suo guanto di pelle. Alla periferia di Dubai, il «Falcon and Heritage Sports Center» si presenta come un mercato specializzato per i rapaci. Sulle bancarelle e nei piccoli negozi, i commercianti offrono di tutto, dai cinturini in pelle ai contenitori per il trasporto, ai droni e agli aerei telecomandati utilizzati per l’addestramento dei rapaci. Il girfalco di Muhammed Ihsan costa 80’000 dirham, circa 22’000 franchi svizzeri. Con i falchi da caccia di razza, il prezzo può salire rapidamente. «Il mio animale più costoso è costato 600’000 dirham. Aveva il suo account Instagram» dice il venditore. Lo sceicco Zayid bin Sultan Al Nahyan, fondatore degli Emirati Arabi Uniti nel 1971, incoraggiò l’allevamento dei falchi e ne fece uno sport nazionale. Il giovane Paese, arricchito dal boom del petrolio, aveva bisogno di una cultura unificante. Nel 2002, Dubai ha organizzato i primi concorsi, in cui gli uccelli dovevano coprire una determinata distanza il più rapidamente possibile. Da allora, i ricchi sceicchi non si li-
mitano più a sfoggiare i loro falchi alle fiere di pollame, ma competono l’uno contro l’altro. La falconeria è diventata un evento sportivo commercializzato con la stessa professionalità della Formula 1. La distanza abituale per una gara è di 400 metri. Il falconiere libera l’uccello nella zona di partenza, mentre al traguardo un assistente fa roteare una preda fittizia con le piume: il telwah. Gli uccelli sono addestrati a volare verso il bersaglio a livello del suolo, ma non è raro che un falco da competizione addestrato si allontani dalla sua traiettoria e si sollevi verso il cielo in un arco, prima di scagliarsi contro la finta preda. Accompagniamo Al Tayer agli allenamenti, poco prima del tramonto, quando il caldo opprimente del pomeriggio si è calmato. Un container funge da campo base nel deserto. Un aereo telecomandato con un manichino di piume attaccato simula la preda. Appena l’aereo è decollato, Al Tayer lancia il primo falco. «È stato un bel volo», dice quando l’animale è tornato a terra. La ricompensa con un po’ di carne d’anatra. La falconeria è un mondo di uomini: gli addestratori, i custodi degli animali, i cuochi, tutti i dipendenti di Al Tayer sono uomini. Sessanta scintillanti 4x4 giapponesi sono allineate in due lunghe file nella sabbia del deserto. Splendono al sole del mattino. Questi sono i premi per i vincitori del gran finale della stagione, la President’s Cup. L’importo complessivo dei premi è di oltre 6,5 milioni di franchi. Ayesha Al Mansoori non è presente alla grande finale. «Non c’è un’area per le donne, è solo per gli uomini», spiega. Mentre i falconieri gareggiano, la giovane donna continua il suo allenamento quotidiano. Con sua figlia, va spesso nel deserto per allenarsi con i suoi uccelli. Le donne avranno mai un ruolo nella falconeria araba? «Lo hanno già» risponde Al Mansoori. «Nei falchi, le femmine sono più grandi e più forti dei maschi», spiega. Sono loro, quindi, molte delle vincitrici nel concorso.
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Uno spezzatino Tarte Tatin piccante d’agnello alle pere speciale Piatto principale Antipasto
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 800 (Perguna di spezzatino tortiera di d’agnello, ca. 24 cm ad Ø) esempio 6 pere piccole spalla· ·1sale cuc-· pepe chiaio· 2dicucchiai spezie per d’olio panpepato di colza HOLL · 1 presa · 4 spicchi di sale d’aglio · 1 cucchiaino · 2 cipolledigrosse pasta·di 8 pomodori vaniglia · 1secchi peperoncino sott’olio ·· 6½dlcucchiaio di succo di di barbabietola farina · 4 dl ·di5 brodo cucchiai di d’aceto manzo di · 50 mele g di· 1olive rametto nere di snocciolate rosmarino · 4piccolo fette di· prosciutto 60 g di zucchero crudo · 12 pasta cipollotti sfoglia · 1 limone. rotonda già spianata · 1 cucchiaio di pistacchi tritati. 1. Condite la carne con sale e pepe e rosolatela bene nell’olio in una padella. 1. Dimezzate Pelate le pere l’aglio, lasciando tritate grossolanamente il picciolo, dimezzatele le cipolle. ed eliminate Aggiungete il torsolo aglio, cipolle con unoe scavino. pomodoriDisponete alla carne, a strati spolverizzate i frutti in con una la farina padella. e bagnate Distribuite conleilspezie brodo.per Mettete panpepato il coperchio e il sale e stufate sulle pere. a fuoco Aggiungete medio-basso la pasta per circa di vaniglia. 50 minuti. Unite Lasciate il peperoncino il coperchio leggermente spezzettato grossolanamente. aperto per permettere al vapore di fuoriuscire dalla padella, in modo 2. Coprite che ilcompletamente liquido si riduca. le pere con il succo di barbabietola. Unite l’aceto di 2. mele. Tagliate Mettete le olive il coperchio e i cipollotti e lasciate a rondelle sobbollire sottili, per il prosciutto ca. 30 minuti. a dadini. Allontanate Ricavate la delle padella listarelle dal fuoco, dallalasciate scorzaraffreddare del limone.leMescolate pere nel sugo tutto.e fatele marinare per tutta 3. la notte. Spremete la metà del limone. Condite lo spezzatino con il succo di limone, sale e3.pepe Il giorno e distribuite seguentelascaldate gramolata il forno sullaacarne. 180 °C. Staccate gli aghi di rosmarino dal rametto e tritateli finemente. Estraete le pere dal sugo e fatele sgocciolare bene. Un piatto gustoso può essere accompagnato con pasta o semplicemente con Filtrate il sugo conche un colino a maglie fini e mettetelo da parte. fette di pane. lo zucchero in una padella, poi versate con cautela ca. 1,5 dl del 4. Caramellate sugo messo da parte (attenzione agli spruzzi!). Mescolando continuamente, fate Preparazione: circa 20 minuti; circauno 50 minuti. ridurre il liquido a fuoco basso, brasatura: finché diventa sciroppo. Per porzione: circa 47 gda di forno proteine, 27tortiera, g di grassi, 13 g diche carboidrati, 5. Accomodate la carta nella in modo la carta sporga dal 520 kcal/2150 kJ. bordo dalla tortiera. Disponete a strati ben stretti le pere nella tortiera, lasciando un po’ di spazio per la pasta lungo il bordo. Distribuite il rosmarino e 3-4 cucchiai di sciroppo sui frutti. Adagiate la pasta sulle pere, ripiegando il bordo all’interno verso il basso. 6. Bucherellate più volte la superficie con una forchetta. Cuocete la torta nella parte bassa del forno per ca. 30 minuti. Sfornate e lasciate intiepidire un po’. Capovolgete con cautela la tarte tatin su un piatto. Guarnitela con i pistacchi. Ideale da gustare con formaggio fresco di capra o gorgonzola. Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura per 30 minuti; marinatura per tutta la notte; cottura in forno per 30 minuti. Per persona: circa 7 g di proteine, 19 g di grassi, 79 g di carboidrati, 540 kcal/ 2250 kJ.
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Ambiente e Benessere
Meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca
Sport Papa Francesco coglie l’importanza dello sport nella società odierna e concede
una lunga intervista alla «Gazzetta dello sport» Giancarlo Dionisio Può sembrare banale e ovvio, quanto si afferma nel titolo. Ma, se a pronunciare la frase è il Pontefice, dall’alto della sua apparente e serafica ingenuità, il messaggio è decisamente più forte e luminoso. Non eravamo abituati a leggere o ad ascoltare un Papa immerso in riflessioni etiche, sociologiche e spirituali sul fenomeno sport. In passato, Giovanni Paolo II si era concesso agli obiettivi mentre camminava, o praticava lo sci di fondo sui sentieri delle Dolomiti, della Valle d’Aosta, del Terminillo e del Gran Sasso. Ma tutto si fermava lì. Dopo il papato di Benedetto XVI, votato soprattutto alle questioni teologiche e filosofiche, il conclave ci ha regalato uno straordinario comunicatore, abilissimo nel mettersi in relazione con la modernità. Il 3 gennaio scorso, Pierre Bergonzi, direttore responsabile di Sportweek, da decenni illustre firma della «Gazzetta dello Sport», ha piazzato il colpaccio: tre pagine di intervista a Francesco I sullo sport. A ruota libera, sui suoi valori, le sue criticità e le sue storture. È evidente che, dalle colonne della rosea, il Papa condanni il doping, la truffa e la mercificazione degli esseri umani. Sarebbe stato stupefacente il contrario. Chiamando in causa evangelisti come San Paolo, padri della Chiesa come Sant’Agostino o grandi educatori cattolici come Don Bosco, Papa Bergoglio sottolinea come
lo sport possa essere uno stimolo ad impegnarsi, nonché un preziosissimo veicolo di inclusione. In una delle sue lettere, inserite nei Vangeli, San Paolo scrive: «Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo!». Sorprendente. E in antitesi con il celeberrimo concetto del «porgere l’altra guancia». Personalmente, credo che si tratti invece di un’esortazione a perseverare, a non abbattersi, e perseguire con tenacia un obiettivo. Questa, infatti, è la postilla del Santo Padre: «La resa è il sogno dei nostri avversari. Arrendersi significa lasciare loro la vittoria. Ma anche coltivare rimpianti. E se avessi resistito un attimo in più?». Non sono mancate parole di affetto nei confronti del suo illustre connazionale, recentemente scomparso. «Maradona in campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone. Era anche un uomo molto fragile». È un Francesco al tempo stesso tenero e battagliero, che vediamo rispondere alle sollecitazioni dell’intervistatore. «La vita è una guerra. Si può anche perdere una battaglia, ma la guerra, quella no! Un uomo non muore quando è sconfitto. Muore quando si arrende, quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacolare di che cosa voglia dire non arrendersi. Nemmeno di fronte all’evidenza dell’indifferenza,
Giochi Cruciverba Tra amici: «Com’è finita la litigata con tua moglie?» – «È venuta da me strisciando!» – «Davvero? E che ti ha detto?» Troverai la risposta a cruciverba ultimato, leggendo nelle caselle evidenziate (Frase: 4, 2, 5, 2, 5, 7) ORIZZONTALI 1. Lo sono lampuga e donzella 5. Si dice esserlo il tempo 10. Dagli Urali al Giappone 11. Personaggio delle fiabe 12. Sono uguali nel diritto 13. L’America che si ... adopera 14. Antonio de Curtis 15. Adesso per Trilussa 16. Le iniziali dell’attrice Autieri 17. Indiana è per uno 18. Nome maschile 20. Un anagramma di resa 21. Inchiostro per stampanti 22. Pulito 24. Può anche essere di paglia 25. Balena... nella testa 26. Un tessuto luccicante 27. Una sillaba del 20 orizzontale 28. Le iniziali del conduttore Papi 29. Il famoso Gigio 30. Fiume polacco... sul calendario 31. Le iniziali del compositore Respighi 32. Promesse a Dio Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
«È preziosissimo: non solo perché include tutti, ma anche perché è l’occasione per raccontare e dare diritto di cittadinanza nei media a storie di uomini e donne che hanno fatto della disabilità l’arma dei riscatto. Quando vedo o leggo di qualche loro impresa, penso che il limite non sia dentro di loro, ma soltanto negli occhi di chi li guarda. Sono storie che fanno nascere storie, quando tutti pensano che non ci sia più nessuna storia da raccontare». Ne sono passati di anni, da quando il piccolo Jorge Mario Bergoglio seguiva con ammirazione il babbo, giocatore di pallacanestro del San Lorenzo, oppure tirava calci ad una «pelota de trapo», una palla di stracci. Lo faceva piuttosto male, così racconta. Tant’è vero che finiva sovente in porta, dove, secondo una diffusissima e sbagliatissima teoria, poteva fare meno danni. La passione per lo sport è rimasta nello spirito dell’anziano e affaticato Francesco I. Forse la sua potenziale carriera di sportivo è stata stroncata da una grave forma di polmonite contratta sui vent’anni, costata anche l’asportazione di una parte del polmone destro. Ma il suo percorso ecclesiastico ed il suo iter spirituale ci hanno regalato un leader, dalla voce flebile, ma capace di esprimere concetti forti e scomodi, anche in ambito sportivo. Perché lo sport, il Pontefice ce lo ribadisce, è «fatica, motivazione, sviluppo della società, assimilazione delle regole, divertimento e senso di appartenenza».
Per Bergoglio l’attività sportiva è uno stimolo all’impegno personale. (Marka)
continuano a combattere per difendere la loro vita». Che straordinaria lezione di dignità. Lo sport è anche questo. Ma non solo, purtroppo. Francesco I si emoziona pensando ai 5 cerchi olimpici, che si sovrappongono a simboleggiare unione e fratellanza. «È un’immagine splendida di come potrebbe essere il mondo». Il condizionale è d’obbligo. Potrebbe, ma
non è, compreso il movimento olimpico, con i suoi valori al sapore di melassa, con la sua farsesca tregua olimpica. Ricordate, nel 2014, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, perpetrata praticamente pochi minuti dopo che si era spenta la fiamma olimpica dei giochi di Sochi. Uno sguardo speciale il Papa lo concede al movimento paraolimpico.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Sudoku Soluzione:
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33. Titolo nobiliare inglese 34. Toglie la capacità di ragionare 35. Un drappo in premio VERTICALI 1. Una Laura cantante 2. Pronome personale 3. E va bene... 4. Le iniziali dell’attore Amendola 5. Si scrive sull’assegno 6. Io per Cicerone 7. Un avverbio 8. Gareggia nel palio 9. Due in moto 11. La pietra dei mulini 14. Si regola con l’alzo
15. Se è tenera... scrive meglio 17. Formaggio greco 18. Fa piacere riceverla 19. Furioso quello di Ariosto 20. Fase di un procedimento 21. È impegnativo leggerlo... 23. È un’arrampicatrice... 24. Sono anche di vestiario 26. Fiore simile alla ninfea 27. Lo sono alcuni gas 29. Un colpo all’uscio 30. Moneta del Perù 31. Un grido dell’acrobata 32. Le iniziali dell’attrice Incontrada 33. Le iniziali dell’attore Argentero
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Soluzione della settimana precedente
LO SAPEVI CHE… – Risultante: IL POMODORO È UN FRUTTO.
P O D I O
I L O R L I O O N O D A D R A L E’
O P A M O S O I T B U N O N F U N I I C C T A R A
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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3.20 Detersivo per capi delicati
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Politica e Economia Impasse politica e povertà In Italia Conte resiste ma il clima rimane teso mentre crescono povertà e disperazione
«America is back» L’esordio di Biden presidente, tra pandemia, crisi economica e oppositori. Gli Usa tornano a guardare all’Europa pagina 19
Caccia ai dati I dati personali messi a disposizione permettono una pubblicità sempre più mirata e individualizzata, entro i limiti della legge pagina 21
pagina 18 La scelta dell’oppositore Navalny di tornare in Russia e farsi arrestare tre giorni prima del cambio della guardia alla Casa Bianca appare calcolata. (Keystone)
Nuovi grattacapi per lo Zar
Russia/Usa Con l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca cambiano gli equilibri tra le due potenze.
Sul tavolo altre sanzioni e novità sui fronti ucraino e bielorusso mentre tra Putin e Navalny la guerra continua
Anna Zafesova Per il Cremlino di Vladimir Putin il nuovo anno si presenta fin dai primi giorni ancora più complicato di quello precedente. Mentre tutti i problemi del 2020 restano al loro posto – l’epidemia di COVID-19, con la Russia il Paese più colpito del Continente per numero di casi, la crisi economica, l’isolamento internazionale e il calo dei consensi – l’entrata in carica di Joe Biden dovrebbe riportare in azione anche un’America molto più presente nel resto del mondo, molto più attenta a tenere d’occhio e bacchettare gli autocrati. Tra i primi dossier che arriveranno sul tavolo nell’Ufficio Ovale ci sarà anche quello di Alexey Navalny, il leader dell’opposizione russa di recente arrestato all’aeroporto di Mosca subito dopo essere rientrato dalla Germania, dove si era curato dopo l’avvelenamento dell’agosto scorso. Navalny rischia ora di dover scontare una condanna di 3 anni e mezzo per frode, sulla base di una sentenza del 2014, rimasta finora condizionale e giudicata immotivata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Già il fatto che una sentenza così discutibile sia stata riesumata in violazione delle regole della stessa giustizia
russa dimostra che sia Putin sia Navalny hanno deciso di andare verso uno scontro finale. L’oppositore ha deciso di rientrare in Russia dopo aver pubblicato un’indagine sul proprio avvelenamento. Non solo mostrando nomi, cognomi e indirizzi degli agenti dell’Fsb (il Servizio federale per la sicurezza ovvero l’ex Kgb) che avevano cercato di ucciderlo, ma anche telefonando a uno di loro e costringendolo a confessare i dettagli dell’attentato con l’utilizzo dell’agente nervino Novichok. Il suo rientro è stato seguito in diretta su internet da centinaia di migliaia di persone, mentre una folla di sostenitori lo aspettava all’aeroporto. All’ultimo momento le autorità hanno dirottato il volo da Berlino verso un altro aeroporto, per far scattare le manette subito dopo che l’oppositore aveva dichiarato ai giornalisti che lo seguivano: «Non ho paura di nulla perché sono dalla parte del giusto». Joe Biden ha già chiesto la liberazione di Navalny, insieme all’Unione europea e a diversi Governi e Ong, che hanno proclamato l’oppositore russo un prigioniero di coscienza. La Casa Bianca dovrà decidere eventuali nuove sanzioni contro Mosca e appare estremamente probabile che scelga di bloc-
care la costruzione del gasdotto russo North Stream 2, sostenuto da una forte lobby tedesca. All’ordine del giorno anche la discussione su eventuali provvedimenti direttamente collegati all’avvelenamento di Navalny – sul quale l’amministrazione Trump ha preferito non intervenire, a differenza di Bruxelles – forse la creazione di una vera e propria Navalny’s list finalizzata a punire funzionari e politici russi considerati responsabili del tentativo di omicidio. Del back to normal di Biden farà inevitabilmente parte il ritorno al sostegno dell’Ucraina – della quale il nuovo presidente americano si era già occupato, in quanto membro dell’Amministrazione di Barack Obama, e dove ha lavorato suo figlio Hunter, rendendo centrale il ruolo di Kiev nella prima procedura di impeachment di Trump – nella sua guerra contro la Russia in Donbass e in Crimea. Dossier al quale probabilmente andrà ad aggiungersi anche il sostegno alla Bielorussia, da mesi in rivolta contro il dittatore filo russo Aleksandr Lukashenko. A Mosca non si aspettano nulla di buono, fedeli alla regola del Cremlino che le amministrazioni democratiche sono più ostili alla Russia. Cosa che nel
caso di Biden potrebbe essere vera. Il nuovo presidente degli USA ha già richiamato in servizio una serie di diplomatici in forza al Dipartimento di Stato con Hillary Clinton, in particolare la sottosegretaria Victoria Nuland, considerata a Mosca la diretta responsabile della rivoluzione europeista sul Maidan di Kiev nel 2014. Il prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, mette in guardia contro una «delusione» chi spera in una qualche cooperazione con il Cremlino e il segretario di Stato in pectore, Anthony Blinken, dice che Putin non è interessato a una svolta verso l’Occidente perché non può accettarne le regole di trasparenza «che andrebbero a minare la sua cleptocrazia», ovvero il suo «Governo del furto». Parole che sembrano tratte dal vocabolario di Navalny, il quale sicuramente è più vicino ai democratici americani che al partito repubblicano. Il giorno dopo la sua incarcerazione l’oppositore ha pubblicato su YouTube un film-inchiesta di due ore che racconta la corruzione di Putin. Un attacco senza precedenti, con rivelazioni sul palazzo segreto del presidente russo sul mar Nero, fornito di lussi esagerati come un campo per l’hockey
su ghiaccio sotterraneo, un teatro, una sala per il narghilè con un palco per la pole dance e una stanza per le macchinine giocattolo. Stimato dall’oppositore come «l’immobile privato più costoso sul mercato mondiale», il sontuoso e pacchiano palazzo sarebbe stato finanziato da oligarchi privati e da compagnie pubbliche russe, in un intreccio di interessi che vede coinvolti i vecchi amici di Putin dai tempi del Kgb e del lavoro a Pietroburgo, suo cugino, il suo consuocero e almeno due amanti con relativi figli. Una denuncia di una potenza dirompente, chiaramente progettata da Navalny mesi prima, quando probabilmente si era già reso conto che Putin non gli avrebbe permesso di ritornare in Russia e restare in libertà. La scelta di tornare, per farsi arrestare, tre giorni prima del cambio della guardia alla Casa Bianca appare calcolata come il resto dell’offensiva con cui Navalny è intenzionato a far vacillare il Cremlino, tra le proteste in piazza e la campagna per le elezioni oneste (a settembre di quest’anno si terranno le elezioni per rinnovare la Camera bassa del Parlamento). Due temi che d’ora in poi saranno anche sull’agenda di Washington.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Politica e Economia
La disperazione degli italiani
Povertà A causa della pandemia nella vicina Penisola quasi tre milioni di persone sono cadute in miseria.
Molti si sfamano nei centri di aiuto. C’è chi muore consegnando cibo e chi dorme per strada
Alfio Caruso Il simbolo dell’Italia dei nuovi poveri è diventato un pianista quarantenne, Adriano Urso, apprezzato e applaudito in tanti locali di Roma. Ma l’ultimo ingaggio risaliva alla scorsa estate. Così da novembre Urso lavorava per un servizio di food delivery consegnando il cibo con una vecchia Fiat 750. Il tocco finale di un personaggio dai modi, dall’educazione, dall’abbigliamento ottocenteschi. Proprio l’auto l’ha però tradito in una sera di freddo e di pioggia: Urso si è messo a spingerla finché il suo cuore ha fatto «crac». La morte gli ha procurato quella fama nazionale a lungo inseguita. È finito perfino nei telegiornali, in tal modo ha messo anche i più distratti dinanzi alla nuova realtà di un Paese dove la sopravvivenza si sta trasformando in un’angoscia quotidiana (mentre i politici continuano a litigare, leggi l’articolo sotto).
Gli anziani sono quasi tutti italiani. La pensione sociale da 400 euro mensili li esclude dai sostegni dell’era Covid Vengono colpiti i lavoratori in nero e pure quelli dotati di partita Iva, tuttavia senza un’occupazione stabile, abituati nell’ultimo decennio a cavarsela saltabeccando da un mestiere all’altro. Di conseguenza le file si allungano dinanzi ai centri della Caritas, di Pane quotidiano, del Banco alimentare, delle associazioni clericali e laiche che offrono cibo, vestiti, detersivi, sapone e mascherine chirurgiche. Paradossalmente il grande assente risulta il sindacato, muto e inerte dinanzi al più grande dramma sociale nei 75 anni della Repubblica. Nell’anno dello scatafascio
generale, le tre grandi sigle confederate corrono il rischio di essere ricordate per un insensato sciopero generale proclamato contro la pandemia e per la difesa corporativistica delle ricchissime pensioni dei propri vertici. La percentuale di un tempo dei bisognosi, 70 per centro stranieri, 30 per cento italiani, adesso è in perfetta parità, 50 e 50. Posteggiatori abusivi e pizzaioli africani sono mescolati a colf dell’Est e lavapiatti, a commessi e scaricatori dell’ortomercato, a fattorini e giovani mamme con il passeggino, a ragazzi attaccati al telefonino e silenziose donne con il velo in testa. Gli anziani sono quasi tutti italiani, tengono il capo chino, hanno lo sguardo spento, spesso detentori di una pensione sociale da 400 euro mensili, che li esclude dai sostegni varati dal Governo nell’era Covid. Eppure capita che alla fine della fila qualcuno stenda un tappeto per offrire accendini, cinture, calzini, fazzoletti. Le testimonianze raccolte dai media danno i brividi: Luigi, 55 anni, faceva l’imbianchino da quando di anni ne aveva 15. Era andata talmente bene da potersi consentire di acquistare un bilocale nella periferia milanese. Però da aprile non lo chiamano a pitturare, dunque ha dato fondo ai pochi risparmi di cui disponeva e adesso è terrorizzato di non poter pagare le rate del mutuo, le bollette di luce e gas. Roberto, 35 anni, faceva il buttafuori in discoteca. Ora vive dalle suore, si sfama in convento, opera da volontario nella distribuzione dei pacchi raccolti dai frati. Sara è ancora formalmente la proprietaria di un negozietto di prodotti biologici ma per nutrire i suoi due bambini ricorre alla carità pubblica. Alessandro, 41 anni, faceva l’artista di strada e dorme in strada. Il reddito di cittadinanza da 573 euro mensili, la pensione di cittadinanza da 270 euro, il reddito di emergenza da 559 euro, il buono spesa da 300 euro
Un’istantanea da Roma. Strade deserte a causa del Coronavirus e tanto freddo. (Shutterstock)
hanno soltanto in minima parte alleviato la crescente indigenza dilagante nel Paese, coinvolgendo poco più di 5 milioni di cittadini. A ogni zona rossa istituita si abbassano saracinesche, che non verranno più rialzate, si perdono impieghi, che non verranno più recuperati. Per il Coronavirus in un anno hanno perso il lavoro circa 800mila persone. Il 40 per cento degli under 35 è tornato ad abitare con i genitori: la famiglia continua a rappresentare la forma di welfare più diffusa nella Penisola. I numeri d’altronde sono spietati: 6 milioni d’italiani vivono in povertà assoluta (ovvero con meno di 500 euro mensili di reddito), 10 milioni in povertà relativa (con meno di 650 euro mensili di reddito), significa il 27 per cento della popolazione complessiva. Un brusco peggioramento dei dati del 2019, che anzi avevano indicato una
diminuzione del rischio povertà, dal 27,3 per cento al 25,6 con il 6,4 per cento delle famiglie in povertà assoluta e l’11,4 in povertà relativa. Tradotto in cifre: 4,6 milioni il primo gruppo, 8,8 milioni il secondo gruppo. La somma fa 13,4 milioni: significa che in poco più di dodici mesi per quasi tre milioni d’italiani si sono spalancate le porte della disperazione. Con un riflesso anche sulla salute dei tanti che non sono nelle condizioni di potersi concedere la minima spesa in farmacia o, come raccontato da una giovane madre di Reggio Calabria, non hanno addirittura i soldi per raggiungere con l’autobus l’ospedale. In un simile quadro alcuni geriatri hanno pronosticato un drastico abbassamento dell’età media, che ultimamente aveva raggiunto la vetta di 83 anni per le donne e di 79 anni e mezzo per gli uomini.
La situazione più grave tocca ovviamente il Meridione. Il miraggio del lavoro si è spesso estrinsecato in occupazioni sottopagate, fuori da ogni tutela, dipendenti dal ghiribizzo del titolare. Carmela è una cinquantenne catanese licenziata da un negozio di abbigliamento dopo 15 anni di lavoro a 500 euro al mese senza tredicesima, assistenza sanitaria, contributi pensionistici e infine senza liquidazione. Casi come questo se ne verificano a bizzeffe ogni giorno. Spiegano lo straripante successo nelle elezioni del 2018 del M5S con la promessa del reddito di cittadinanza, che per altro è risultato una misura parziale – 3 milioni i beneficiati – non poche volte finita nelle tasche sbagliate. All’orizzonte purtroppo si addensa il peggio: che cosa accadrà da marzo in avanti con il ripristino dei licenziamenti?
Il duello, il mercato delle vacche e la paura del voto Roma Giuseppe Conte resiste all’attacco di Matteo Renzi e punta a rafforzare la maggioranza che lo ha salvato.
Ma la partita rimane aperta mentre il Paese annaspa nella crisi e accumula ritardi sul Recovery Plan Alfredo Venturi Matteo Renzi voleva far cadere Giuseppe Conte ma per ora lo ha soltanto indebolito. Al termine del primo assalto il capo del Governo sale un po’ malconcio al Quirinale e illustra al presidente della Repubblica il suo programma: darsi un paio di settimane per allargare la maggioranza improvvisata che lo ha salvato dalle grinfie di Renzi, distribuire qualche Ministero ai parlamentari che hanno accolto la sua richiesta di soccorso e tirare avanti verso l’epilogo fisiologico della legislatura, che il calendario colloca fra poco più di 2 anni. Gongola il Partito democratico, che registra il successo della strategia difensiva di Conte e in fondo vede con piacere Renzi confinato all’opposizione. Ma la partita resta aperta, questo duello scatenato proprio al culmine della doppia emergenza, sanitaria ed economica, innescata dalla pandemia (vedi articolo in alto), può ancora riservare molte sorprese. Abbiamo evitato il salto nel buio, commenta il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Ma si rende conto che Renzi non mollerà la presa. L’ex capo del Governo sa di essere impopolare, ben pochi lo rivogliono a Palazzo Chigi. Ma almeno vorrebbe indossare i panni del kingmaker, o meglio del kingkiller, e mandare a casa quell’outsider di Con-
te. Per questo ha ritirato dall’Esecutivo le due ministre e il sottosegretario che fanno capo al suo partito, Italia viva, puntando sulle dimissioni del presidente. Ma Conte non è stato al gioco: niente dimissioni, anzi ricerca di nuovi consensi parlamentari in sostituzione di quelli venuti meno. La manovra di Renzi ha stupito e allarmato l’Ue, visto l’inquietante sfondo delle difficoltà italiane. Il dettaglio non meno inquietante è che Roma è in grave ritardo nel mettere a punto i progetti per attingere ai fondi europei destinati a far ripartire l’Italia (Recovery plan). Renzi deve evitare elezioni anticipate che andrebbero a vantaggio del centro-destra e sarebbero probabilmente deleterie per il suo partito. Punta sul fatto che non è il solo a temere il ricorso alle urne. Per favorire la transizione si dice pronto ad appoggiare un nuovo Esecutivo ma a questo punto è Conte a fare il duro: mai più rapporti con chi provoca la crisi in un momento simile! Manca il consenso di Italia viva? Ebbene, cercheremo in Parlamento i voti dei cosiddetti «responsabili» (o «volenterosi»), che rimpiazzino quelli degli ex alleati e assicurino la fiducia al Governo. E così parte quello che l’opposizione fulmina con una formula non proprio elegante, «mercato delle vacche»: deputati e senatori delle più varie provenien-
ze guadagnati alla causa in cambio di misteriose promesse. Ciò che rende la diatriba surreale è che di tutto si parla fuorché di contenuti, di programmi, di cose concrete. Lo scontro fra il presidente e l’ex presidente si fa serrato. Di fronte all’intransigenza dell’avversario, Renzi rischia l’effetto Salvini, cioè l’amaro destino che toccò all’altro Matteo un paio di anni fa, in quella pazza estate del 2019 quando il capo leghista, allora ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio, stordito dai bagni di folla e dai sondaggi favorevoli provocò la crisi del suo stesso Governo. Lo scopo dichiarato era prendere il posto di Conte a Palazzo Chigi dopo aver fatto man bassa di voti elettorali. In quella occasione fu proprio Renzi a salvare il presidente scongiurando le elezioni anticipate e bloccando l’ascesa di Salvini. Gli bastò suggerire un paradossale ritocco: il Pd prese il posto della Lega al fianco dei Cinquestelle e come per incanto il Governo gialloverde subì una metamorfosi e diventò giallo-rosso. Accadde così che un incredulo Conte, fino a qual momento alla guida di un Esecutivo di centro-destra, si trovò traslocato al centro-sinistra. Ma a Renzi il frutto della sua spericolata manovra non piaceva affatto, per questo nell’autunno 2019 uscì dal Pd fondando Italia viva. Contava molto
sulla nuova creatura politica ma si accorse ben presto che era ben lontana dal sedurre gli italiani. Il suo spazio di manovra è dunque limitato dal timore di un confronto elettorale dagli esiti prevedibilmente disastrosi. Sbarazzarsi di Conte senza interrompere la legislatura, questo lo scenario perfetto. All’ex presidente non manca il gusto dell’azzardo, come quando promosse un referendum costituzionale giurando che in caso di sconfitta avrebbe considerato chiusa la sua esperienza politica: «Cambierò mestiere, non mi vedrete più». Era il dicembre 2016 e fu sconfitto, forse perché molti elettori desideravano proprio levarselo di torno, eppure rimase politicamente attivo, lasciando la presidenza del Consiglio ma tenendosi ben stretta la segreteria del Pd fino alla batosta elettorale del marzo 2018. Di fatto Renzi è ancora al centro della scena, nonostante lo scarso peso del suo partitino, ma stavolta non ha legato il suo destino politico all’esito della sua arrischiatissima mossa. Cerca piuttosto di recuperare i favori popolari, ai minimi termini stando ai sondaggi d’opinione. Tanto che il caustico Massimo D’Alema, a suo tempo fra i principali bersagli della «rottamazione» predicata da Renzi, riassume così la situazione: il politico che riscuote meno consensi vuole cacciare chi è al vertice della po-
polarità. Cioè Conte, appunto, che a torto o a ragione i sondaggi collocano in quella confortante condizione. Il duello fra il presidente e l’ex presidente ha avuto il suo culmine al Senato, dove i due si sono affrontati direttamente. Alle parole aspre del senatore Renzi – «Stiamo assistendo a un mercato indecoroso» – Conte risponde con accenti altrettanto duri: «Non si può governare con chi dissemina mine». Per ora la strategia del capo del Governo, basata sulla sostituzione di nuovi consensi parlamentari a quelli di Italia viva (che non ha spinto a fondo l’offensiva, come forse avrebbe voluto Renzi frenato dai suoi, scegliendo una prudente astensione) è dunque andata a buon fine. La fiducia è passata, sia pure con un esiguo margine di voti, dopo che Conte ha invocato la necessità di contrastare il sovranismo rilanciando la tradizione europeista. Ha anche insistito sulla prospettiva del rimpasto: nel linguaggio dei corridoi parlamentari rimpasto significa posti di Governo a disposizione. Ora si attendono la definizione di una più ampia maggioranza, forse la creazione di un gruppo centrista al Senato e l’ardua navigazione in un mare pieno di scogli. Se non ce la facciamo non abbiamo paura del voto, si dice a Palazzo Chigi. Un chiaro messaggio per tutti, soprattutto per Renzi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Politica e Economia
Biden strizza l’occhio all’Europa
Fra i libri di Enrico Morresi ANDREA VOSTI, America First. Dadò Editore
Usa Nessuna luna di miele per il neopresidente confrontato con pandemia e crisi economica.
Sul fronte estero l’obiettivo è creare una coalizione occidentale che eserciti pressing sulla Cina
Federico Rampini L’esordio di Joe Biden gli ha portato subito 900mila nuove richieste d’indennità per disoccupazione, la conferma che sul mercato del lavoro americano la ripresa ha subito una pesante battuta d’arresto, legata sempre alla stessa causa: pandemia e lockdown. L’esordio arriva anche con un’avvertenza: siamo nei primi giorni di quella che un tempo si chiamava luna di miele. Mi riferisco ai bei tempi andati (un po’ troppo idealizzati) in cui un nuovo presidente godeva di un’apertura di credito, una fiducia da parte di una maggioranza di cittadini, perfino alcuni che non lo avevano votato. Le lune di miele non esistono più. Esattamente come 4 anni fa mezza America democratica e di sinistra cominciò a sparare su Trump da subito, oggi basta sintonizzarsi su «Fox News» per osservare che la destra ha già aperto le ostilità verso Biden. Il clima di «guerra incivile» – tema centrale nel pacato discorso di Biden all’Inauguration day – contagia in modo simmetrico e speculare i media che simpatizzano per il 46esimo presidente degli Usa. Invece della luna di miele abbiamo la propaganda. La «Cnn» si distingue, pompando a dismisura annunci che vengono dalla Casa Bianca. Viene presentata come una svolta nella lotta alla pandemia il ritorno degli Usa nell’Organizzazione mondiale della sanità. In realtà è un gesto simbolico, in omaggio al multilateralismo, per segnalare il diverso spirito di cooperazione internazionale di Biden. Conseguenze pratiche: zero. L’Oms ha brillato per un’inefficienza spettacolare, oltre che per la grave collusione iniziale con la Cina. Se servisse a qualcosa, i Paesi che ne sono membri come l’Italia, il Belgio, il Regno Unito non avrebbero una mortalità da Covid ancora superiore agli Usa. Idem per l’accusa della nuova Amministrazione rivolta a quella uscente, di non avere mai avuto un piano per le vaccinazioni. In passato Biden diede atto all’operazione Warp speed di Trump di aver contribuito alla rapida messa a punto dei vaccini. La loro inoculazione di massa è partita male, con troppi ritardi e intoppi, anche se funziona meglio che in Europa. I ritardi sono da ricondurre a molte responsabilità, comprese quelle di Stati come California e New York governati dai democratici. Tutti hanno contribuito all’impreparazione e tutti devono fare
un salto di efficienza per raggiungere l’obiettivo di 100 milioni di vaccinati in 100 giorni. Ogni giorno un tema, un messaggio, un annuncio: è la strategia della comunicazione della Casa Bianca nell’era di Biden. Si è cominciato con la pandemia, poi il «salvataggio dell’economia» e il piano Buy american, comprate americano, per difendere l’industria e i posti di lavoro nazionali, cioè la versione di sinistra del protezionismo di Trump. Domani domina il tema dell’equità, tutto ciò che la nuova Amministrazione ha in cantiere contro le diseguaglianze. Il 27 sarà la lotta al cambiamento climatico. Il 28 si torna a parlare di sanità ma in modo più strutturale: come intervenire con riforme di lungo termine per completare quella che venne chiamata Obamacare. Il 29 è il turno dell’immigrazione. E ai primi di febbraio: «Ricostruire il ruolo dell’America nel mondo». Il calendario rivela un metodo di lavoro, conferma delle priorità. In parte l’ordine temporale è imposto dalla dura necessità, come la scelta dei decreti presidenziali firmati all’insediamento: il primo fra tutti gli ordini esecutivi era proprio quello che impone di portare la mascherina nelle aree sotto giurisdizione federale, come palazzi governativi o mezzi di trasporto che collegano i diversi Stati. Qui siamo nel regno del simbolismo: poiché Trump manifestava insofferenza verso le mascherine, il nuovo Governo vuole sottolineare il proprio «rispetto per la scienza», anche se per la verità l’obbligo delle mascherine viene già imposto nei fatti dalle compagnie aeree e dagli uffici pubblici. Sull’economia Biden può fare poco da solo, deve passare dal Congresso per il suo piano di aiuti da 1.900 miliardi di dollari. La comunicazione serve a focalizzare tutto ciò che sta dentro quella manovra ed esercitare la massima pressione sui parlamentari per un iter veloce. Anche sull’immigrazione Biden deve per forza passare la palla al Congresso quando si tratta della grande riforma per regolarizzare in 8 anni 11 milioni di clandestini. Da solo lui può disfare solo ciò che Trump fece per decreto: la costruzione del Muro col Messico o il Muslim ban che vietava l’ingresso di cittadini da Paesi a maggioranza islamica. I decreti iniziali sono un omaggio alla base militante del partito democratico, agli ambientalisti, alle minoranze etniche. Era tutto previsto, dal rientro negli accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico alla cancellazione
dell’oleodotto Keystone, dall’abrogazione di alcune direttive anti-immigrati alla proroga degli sfratti. Il messaggio è: stiamo ribaltando alla velocità della luce gli atti più odiosi di Trump. Le cose più sostanziali devono ancora venire e quasi tutte dipendono dall’intesa con il Congresso. Una delle prime nomine a incappare nelle resistenze dei repubblicani è il candidato ispanico di Biden al vertice della Homeland security, il superministero che gestisce polizie, ordine pubblico, antiterrorismo e controlli alle frontiere. Su questo fronte Biden ha già fatto capire che non vuole andare molto oltre i gesti simbolici, come lo stop alla costruzione del Muro col Messico. Di «aprire le frontiere» non se ne parla. Biden ha bloccato perfino la limitata riapertura ai viaggiatori europei che Trump voleva introdurre nelle ultime ore del suo governo. Il Covid è la ragione ufficiale ma servirà anche per mantenere sigillato il confine col Messico. L’ultima cosa di cui Biden ha bisogno in questa fase è ritrovarsi in un’emergenza profughi. Accadde a Obama quando Joe era il suo vice e non andò bene: fu allora che vennero introdotte le «gabbie» nei centri di detenzione, poi attribuite a Trump. Sarebbe ancora più calamitoso se dovesse accadere in mezzo a pandemia e crisi economica. «America is back». L’America è tornata in mezzo a voi: questo è il messaggio che Biden ha voluto trasmettere ai leader europei. Le nomine che ha fatto sono rassicuranti per l’Europa: uomini di collaudata esperienza in politica estera, tutti con solidi curriculum da establishment atlantista. Lo stesso Biden vanta un record personale significativo, è l’esponente americano con la più antica appartenenza alla Munich security conference, consesso di alto livello dove gli alleati si consultano. La sua squadra spicca per l’omogeneità a una visione occidentale del mondo che Trump ha ignorato per 4 anni: il futuro segretario di Stato Anthony Blinken, il National security adviser Jake Sullivan, il capodesignato della Cia William Burns, sono dei veterani dei rapporti con i Governi europei. Però è lo stesso Blinken ad avvisare che «non si torna indietro». Non solo perché Trump ha creato dei fatti compiuti, che non si smontano in un attimo: per esempio i dazi su 370 miliardi d’importazioni dalla Cina o l’uscita dall’accordo nucleare con l’Iran, due dossier che hanno grande rilevanza per l’Europa e sui quali Biden non ha
l’intenzione di tornare immediatamente alla situazione di 4 anni fa. Ancora più importante è la revisione strategica compiuta da Biden, i suoi collaboratori e i think tank che li consigliano per tenere conto delle cause strutturali del trumpismo. Sullivan è molto esplicito sul fatto che la politica estera Usa e la strategia commerciale saranno guidate dalla priorità di «ricostruire le classi lavoratrici». La nomina del «falco» Kurt Campbell come super-coordinatore delle politiche verso l’Asia conferma un’analisi molto più negativa sulla minaccia cinese rispetto alle Amministrazioni Obama-Biden. Non mancheranno altri gesti amichevoli verso gli europei. Dopo il rientro negli accordi di Parigi, Biden potrebbe eliminare certi dazi che avevano colpito prodotti europei. Ci sarà un rilancio del ruolo della Nato e forse non avverrà il taglio di truppe di stanza in Germania che Trump aveva ordinato. La manifestazione simbolica più potente di questa nuova luna di miele tra i vecchi coniugi America ed Europa, sarà il supervertice delle democrazie annunciato da Biden. Il presidente eletto vuole «rinnovare il comune sentire e l’unità di obiettivi tra le Nazioni del mondo libero». È ispirato ad un summit che Obama organizzò nel 2012 per la limitazione delle armi nucleari, solo che al vertice del «mondo libero» non saranno invitati Xi Jinping e Vladimir Putin né altri autocrati. Ma l’iniziativa di Biden ha perso un po’ del suo fascino strada facendo, per ragioni che gettano un’ombra sul rilancio dell’Occidente. La Covid costringerà a trasformare il summit in un evento in remoto, virtuale, depotenziandolo. La stessa pandemia ha rafforzato la Cina e l’assalto al Congresso di Washington il 6 gennaio ha inflitto un colpo al prestigio della democrazia Usa. In Europa l’elettorato ha un’opinione dell’America che è appena di poco migliore rispetto a Cina e Russia. Gli americani ereditano dal Governo Obama-Biden un «pivot to Asia» che è la presa d’atto della realtà: il centro del mondo è nel Pacifico. Il vero test delle nuove relazioni con l’Europa sarà proprio la Cina. Biden vuole costruire una grande coalizione per rafforzare il potere contrattuale dell’Occidente ed estrarre concessioni da Xi su molti terreni: dal commercio alle tecnologie ai diritti umani. Ma Xi lo ha battuto in velocità attirando gli europei in un accordo Cina-Ue sugli investimenti, alla vigilia di Natale.
Una raffica di decreti esecutivi per ribaltare gli «atti più odiosi» di Trump. (Keystone)
Un instant book, ovvero un libro scritto e pubblicato in tempi strettissimi che racconta un avvenimento della cronaca recente. Più di un instant book. È questo America First, il saggio che Andrea Vosti, corrispondente dagli Stati Uniti per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana dal 2013 al 2019, ha affidato alle stampe mentre ancora rumoreggiava l’eco della più drammatica delle elezioni presidenziali americane. Un libro su Donald Trump? No, anche se la sceneggiata che ha avuto per teatro la Casa Bianca per quattro interminabili anni basterebbe per riempire le colonne di un’opera anche più densa. Su quegli eventi libri-testimonianza ne usciranno a decine, in italiano e in tutte le lingue. Chi vorrà andare a fondo del problema avrà a disposizione decine di titoli, fondati sulle ricerche dei migliori istituti di politica interna e internazionale. Per fortuna, anche cancellando tutti i capitoli da cui emerge anche un solo riferimento al «caso Trump», il libro di Vosti si dimostra un racconto ben scritto delle esperienze vissute da un giovane giornalista a contatto con stile e abitudini di vita molto diversi dai nostri. Da noi, in Ticino, è poco coltivato dagli ex corrispondenti il genere narrativo: la maggior parte, rientrata in sede, delle sue esperienze personali non parla più: toccherà agli storici, eventualmente, riascoltare, rivedere e contestualizzare tutto quanto giace nella memoria (bene organizzata, alla RSI). Del primo di questi inviati, Lohengrin Filipello (1912-1981), qualcosa è stato raccontato. Di altri si ricorda una qualche prodezza giornalistica, come il reportage di Roberto Antonini dal «braccio della morte» di un penitenziario. Qualcosa è stato registrato delle esperienze di Leandro Manfrini in Vietnam: ma molto più ricco è il «prodotto finito» che giace negli archivi, ed è un peccato. Per questa ragione approvo la scelta di Vosti di raccontare anche di sé. Tanto più se, come nel suo caso, aiutano lo stile di scrittura sciolto, i paragoni lucidi, dalla costosa ritualità del regime ospedaliero dentro il quale far nascere un figlio allo smarrirsi dentro il turbine del tornado che si è andati a descrivere. Della vita che si vive negli Stati Uniti è facile innamorarsi. Della bellezza dei luoghi, del calore della gente, delle infinite sottigliezze con cui attraverso la legge si assicura il rispetto dei diritti. È un mondo affascinante di cui non si riesce mai a esaurire la conoscenza. Vosti non tace i paragoni, non tutti a danno della vecchia Europa. Imparziale (l’autore fu nel 2018 al centro di un’odiosa polemica) egli si dimostra comunque. A lui, tornato in sede, l’augurio di vivere presto un’altra esperienza così. Il mondo è grande, la RSI sprecherebbe un talento se lo tenesse a cuccia per troppo tempo. Moglie e figlia permettendolo, naturalmente. Ma chi sposa un giornalista sa che cosa l’aspetta dietro l’angolo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
Perfetta igiene anche fuori casa Molte malattie infettive vengono trasmesse attraverso le mani. Per questo motivo andrebbero lavate regolarmente. Ciò vale in modo particolare dopo aver soffiato il naso, starnutito o tossito, dopo l’utilizzo dei mezzi pubblici o quando si rientra a casa. Mentre quando si è casa l’accurato lavaggio delle mani con il sapone aiuta, quando si è in giro i disinfettanti per le mani sono particolarmente pratici.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Politica e Economia
Dati, bene sensibile Commerci&Consumi Le tecnologie moderne permettono
una pubblicità sempre più mirata grazie ai dati personali messi a disposizione, con però dei limiti posti dal legislatore
Più acquisti, meno viaggi e pranzi
Conti FCM Il Gruppo Migros archivia
l’esercizio 2020 con un aumento del fatturato
Quali sono i bisogni, gli interessi, le aspirazioni dei clienti? Lo rivelano i dati personali. (Keystone)
Mirko Nesurini I dati personali sono sempre stati importanti per le aziende e hanno assunto maggiore rilevanza il 27 ottobre 1994, con l’apparizione, sui nostri schermi, del primo banner pubblicitario. Da quel giorno, negli addetti ai lavori del settore pubblicitario, si è instaurato un bisogno di ottimizzare l’investimento, rendendolo vieppiù «misurabile» e «preciso». La partita si gioca su un campo caratterizzato da una certa complessità e con obiettivi alti di selezione del potenziale consumatore. La volontà è quella di evitare di disperdere l’investimento sul pubblico non interessato al prodotto offerto. Di conseguenza, la tecnologia ha proposto, anno dopo anno, strumenti più raffinati per suddividere, organizzare, focalizzare; tanto che oggi, parlando di target della comunicazione, definiamo quel gruppo organizzato con il termine personas. Le personas sono un gruppo d’informazioni raccolte secondo criteri vari; veri e propri identikit di clienti, una sorta di profilo dell’utente ideale, dove sono raccolti dati sui bisogni, i comportamenti, gli interessi e le aspirazioni degli utenti reali. Nella definizione delle personas si tiene conto di qualsiasi informazione che possa tornare utile alla ricostruzione del proprio cliente ideale: età, sesso, posizione geografica, reddito, comportamenti, interessi, ragioni d’acquisto e necessità. Identificando due o tre tipologie di personas, nonostante possa apparire come una restrizione degli utenti cui potersi rivolgere, si definisce un pubblico «mirato» che sarà più proattivo nelle proposte commerciali (ordinari visitatori del portale e-commerce che si «convertono» in cliente, cioè che acquista) e nella fidelizzazione con il brand (quante volte quello stesso cliente tornerà a comprare). Come consumatori, capiamo subito quando siamo stati «catturati» da un marchio commerciale. Dopo avere abbandonato un carrello su un sito di ecommerce, o dopo avere cercato un tale prodotto su un motore di ricerca, da lì a poco, sui vari portali o siti web visitati in seguito, appariranno, «magicamente», le pubblicità di quella marca specifica o di quella categoria di prodotti che ci avevano interessato in precedenza. Taluni considerano tali pratiche «un’invasione della privacy», altri un semplice esercizio di pubblicità di un prodotto, in altri termini, un aiuto offerto al consumatore per valutare meglio l’acquisto. La tesi commerciale sostiene che
quando ci si rivolge a un pubblico eterogeneo, il rischio è quello di rivolgersi a «tutti e nessuno». Impostare una strategia che possa soddisfare tanti diversi clienti è pressoché impossibile, o comunque poco efficace, in quanto non assicura un’esperienza d’interazione soddisfacente e personalizzata sui propri interessi specifici. Interagendo invece con le personas, si ha l’opportunità di dare al prodotto un’identità ben chiara ed è quindi possibile delineare con precisione il bacino di utenti di riferimento. Tutte le azioni che s’intraprendono saranno quindi modellate sulle caratteristiche di tali personas, rendendo l’interazione con i propri clienti unica e pensata su misura di ciascuno. Sappiamo da sempre che la precisione è utile all’esercizio economico. I fondi investiti, infatti, sono diretti all’obiettivo e, teoricamente, il ritorno dell’investimento sarà mirato e quindi percentualmente superiore rispetto a quello di una comunicazione di massa. Il concetto di personas, nel marketing, è l’attuale confine della raccolta dati organizzata. Tutto bene, allora? In realtà, soprattutto per prodotti mass market, una certa dispersione genera conoscenza del brand e del prodotto che sostiene l’immagine e di conseguenza gli acquisti. Puntare al solo cliente focalizzato sul tema (cioè che decide l’acquisto) è una tecnica spesso riduttiva perché rischia di deprimere l’effetto degli influenzatori («Mamma voglio le caramelle!») e di soddisfazione ricavata dal consumatore nell’esibizione dell’acquisto fatto («Che bella la tua nuova felpa di Gucci!»). Dal lato del consumatore, inoltre, è emersa l’esigenza di difendersi: sapere di più di ciascuno è, di fatto, un’intrusione nella nostra vita personale e privata, in quella sfera che ciascuno ritiene da sempre «riservato». L’intrusione del marketing avviene proprio a causa di questa «fame» di informazioni su ciascuno di noi le quali, proprio perché di natura «individuale», si chiamano «dati personali». Il legislatore è intervenuto cercando un giusto equilibrio fondato sul concetto di «scambio»: quello tra operatore economico che ha «fame» di dati e quello del consumatore che vuole controllarne l’uso. Lo scambio avviene secondo le regole del vivere civile: laddove vuoi prendermi qualcosa di mio me lo devi chiedere ed io devo poter essere d’accordo; se ne abusi, devo potermi difendere. Perciò, tra una impresa che pretende di maturare nel tempo dei benefici,
«conoscendo» il proprio consumatore e il consumatore stesso che consente all’azienda di capire meglio le proprie abitudini. Il 25 maggio 2018, l’Europa – la Svizzera ha seguito con rigore elvetico – ha costretto le aziende ad accettare alcune regole semplici nella gestione del «privato» del consumatore, cioè del suo dato personale. Quel giorno, siamo tornati al baratto tra, una parte che cede dati – seppur a titolo gratuito – e una parte che acquisisce dati, secondo regole chiare. Se, per caso, il consumatore desiderasse riappropriarsi in via esclusiva dei propri dati, lo potrà fare senza dare particolari spiegazioni. Ma vi è un «cuore» anche nello spazio privato, quello che va oltre la concessione di analisi dei propri consumi, rappresentato da informazioni di particolare sensibilità come quelle sul nostro stato di salute o le nostre preferenze sessuali, rimaste ai margini dello scambio descritto. La normativa se ne fa carico: se per via di una malattia sono più vulnerabile, perché rischio di essere emarginato, la legge impone una logica di pari opportunità – per esempio in una selezione del personale – è vietato raccogliere i fatti «sensibili», personali, intimi di ognuno di noi. Sono trascorsi anni nei quali siamo stati sottoposti a reboanti concetti a difesa della nostra «privacy», non sapendo bene di cosa si trattasse. Alla prima e-mail non autorizzata scattava la segnalazione al garante della privacy per abuso della sfera personale, forse con qualche esagerazione. Poi è arrivata la pandemia. Da quel giorno c’è necessità di auto-certificazioni di buona salute, un foglio A4 dove rilasciamo informazioni sanitarie, senza esitare. Per entrare in Spagna, ad esempio, dobbiamo compilare un documento online che genera un QR Code attestante il nostro stato di salute (necessariamente buono). Entriamo al ristorante e ci prendono la temperatura. All’entrata di un’azienda, firmiamo l’ingresso, apponendo una sigla su un formulario prestampato che chissà mai quale fine farà. Un domani potrebbe risultare più utile un tatuaggio a forma di bollino blu = sano. Nella sacrosanta tutela della salute pubblica e individuale si annida un altro virus altrettanto mortale, quello della potenziale emarginazione dalla società, la discriminazione tra «sani» e «malati». L’unico antidoto è il rispetto della «persona», non più solo per scopi di marketing.
Nel 2020, anno particolarmente difficile, il Gruppo Migros ha registrato nuovamente un incremento del fatturato nonostante massicce flessioni nei settori dei viaggi e della gastronomia. A tal proposito, la concentrazione sul core business e l’ampliamento dell’offerta online hanno giocato un ruolo strategico cruciale. Il fatturato consolidato del Gruppo Migros è aumentato del 4%, attestandosi a 29,822 miliardi di franchi. Il fatturato del commercio al dettaglio è cresciuto al netto dei disinvestimenti del 7,2%, raggiungendo 24,191 miliardi di franchi. Lo sviluppo accelerato degli shop online ha permesso a Migros di soddisfare prontamente nuove esigenze della clientela. Nel complesso il fatturato online del Gruppo Migros è salito del 31,0% fino quasi a quota 3 miliardi di franchi, contribuendo per la prima volta al fatturato globale per oltre il 10%. L’esercizio 2020 del Gruppo Migros è stato caratterizzato da diversi fattori straordinari. A causa della pandemia di Coronavirus, Migros ha dovuto far fronte a un aumento della domanda nel commercio stazionario e online. Al contempo settori di attività quali viaggi, gastronomia, offerte per il tempo libero e fitness hanno subito pesanti perdite. In questo contesto, la rettifica del portafoglio di imprese iniziata l’anno precedente, la concentrazione sul core business e l’ampliamento forzato dell’offerta online hanno avuto un’importanza strategica cruciale. La rettifica del portafoglio di aziende è stata attuata in modo sistematico con la vendita della catena di grandi magazzini Globus (all’inizio dell’anno) e del fornitore all’ingrosso operante nel settore della ristorazione Saviva (alla fine dell’anno). «Migros si è difesa bene nel 2020, un anno estremamente complesso. In questo periodo difficile per molte persone, ha esercitato un ruolo fondamentale nell’approvvigionamento della popolazione svizzera. Il merito va alle nostre collaboratrici e ai nostri collaboratori che hanno profuso un impegno straordinario a livello dell’intero Gruppo Migros, dimostrando un’instancabile dedizione alla clientela», ha dichiarato Fabrice Zumbrunnen, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros. Le dieci cooperative hanno realizzato in Svizzera un fatturato di 14,850 miliardi di franchi (+3,0%). Grazie alla catena di supermercati Tegut, all’estero si è registrato un progresso del 9,6% fino a quota 1,499 miliardi di franchi. In Svizzera la gastronomia ha accusato un calo del fatturato del 41,7%, scendendo a 390 milioni di franchi. Per contro, i supermercati e gli ipermercati hanno messo a segno una crescita
netta, generando un fatturato di 12,455 miliardi di franchi (+7,4%) in Svizzera. La pandemia di coronavirus ha modificato il comportamento di acquisto di molti consumatori. Le persone hanno trascorso più tempo a casa e hanno effettuato maggiormente gli acquisti nei piccoli negozi di quartiere, che hanno evidenziato una crescita a due cifre. La quantità di prodotti nei carrelli della spesa è salita, ma la frequenza di acquisto è diminuita. L’affluenza dei clienti è calata di conseguenza a 321 milioni di acquisti (–8,9%). La clientela ha apprezzato in particolare i prodotti regionali e sostenibili. Il fatturato generato con gli alimenti biologici è cresciuto del 15,6%. Per quanto concerne i prodotti a valore aggiunto ecologico o sociale, il fatturato è aumentato del 7,4%, attestandosi a 3,382 miliardi di franchi. Migros ha diminuito i prezzi anche nel 2020. Da settembre 2020, i prezzi di 700 articoli di supermercato sono stati abbassati in modo permanente. Nonostante il lockdown in primavera, i negozi specializzati Micasa, SportXX, melectronics, Do it + Garden e OBI hanno aumentato il fatturato del 5,6% a 1,717 miliardi di franchi. L’espansione nel canale online del 138,8% ha permesso di compensare la chiusura temporanea dei negozi. Il numero delle ordinazioni online è più che raddoppiata nel corso dell’anno, in alcuni periodi durante il lockdown è persino decuplicata. Un passo importante è stato compiuto all’inizio di novembre 2020 con il trasferimento del supermercato online LeShop.ch in «Migros Online». Migros Online ha registrato un rialzo del fatturato del 40,0%, raggiungendo i 266 milioni di franchi, e ha consegnato il 43,6% di ordinazioni in più rispetto all’anno precedente. Per gestire l’aumento dei volumi, Migros Online ha messo in esercizio ulteriori magazzini. Oltre al rebranding, Migros Online ha arricchito l’assortimento di 2000 articoli. A causa delle notevoli limitazioni, il settore strategico dei viaggi ha registrato il risultato peggiore di tutti i tempi. Sono state decine di migliaia i viaggi di ritorno organizzati per i clienti, i viaggi stornati e i voli cancellati. L’operatore turistico ha realizzato un fatturato netto di 732 milioni di franchi (–38,4%). Su base comparabile, ovvero insieme all’impresa vtours acquisita nel 2019, il calo del fatturato è stato pari a –57%. Hotelplan Group comunicherà nel dettaglio le proprie cifre annuali il 2 febbraio 2021. La Banca Migros pubblicherà il suo risultato d’esercizio dettagliato il 21 gennaio 2021. Il comunicato integrale è visionabile su www.azione.ch
La domanda di prodotti è aumentata sia nei negozi sia online. (Keystone)
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Le ďŹ liali Do it + Garden e OBI sono sempre aperte.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un mercato del lavoro «hors sol» Da una trentina d’anni l’agricoltura hors sol è conosciuta come quella produzione agricola che può fare a meno del terreno. Una contraddizione in termini, insomma. Tenendo conto dell’evoluzione degli ultimi anni ci è sembrato che questa definizione potesse essere applicata anche al mercato del lavoro ticinese. Questo semplicemente perché è un mercato che si sviluppa soprattutto grazie all’apporto di manodopera straniera, mentre l’offerta di lavoro locale resta costante in termini assoluti e diminuisce come quota dell’offerta totale. Se questo capita non è perché i lavoratori svizzeri non abbiano voglia di lavorare. No, la loro offerta di lavoro viene tenuta in giusto conto. È semplicemente che il loro numero è insufficiente a soddisfare le sempre crescenti esigenze della domanda di lavoro regionale. La popolazione attiva di nazionalità svizzera
(dalla quale dipende naturalmente l’offerta di lavoro da parte dei residenti di nazionalità svizzera) era, in Ticino, nel 2010, pari a 121’600 persone. Nel 2019 questo effettivo era salito a 123’800 persone segnando quindi un aumento di 2200 persone. Ora, per molte ragioni che non staremo ad enumerare nel contesto di questo articolo, il mercato del lavoro ticinese è stato, per buona parte dell’ultimo decennio, un mercato che tirava, con una domanda di forza lavoro sempre in crescita. Questa domanda si è trovata a fronteggiare un’offerta di lavoro interna che, come abbiamo visto, è rimasta stagnante, durante tutto il decennio. L’evoluzione della domanda di lavoro è rappresentata dallo sviluppo dell’occupazione. Come dimostra il panorama statistico del mercato del lavoro ticinese, pubblicato all’inizio di gennaio di quest’anno dall’Uffi-
cio cantonale di statistica, nel 2009 l’economia ticinese occupava 203’900 persone delle quali 112’000 erano lavoratori di nazionalità svizzera e 91’900 erano lavoratori stranieri. Dieci anni più tardi, nel 2019, nella nostra economia cantonale erano attivi 233’900 lavoratori (ossia 30’000 lavoratori in più che nel 2009). Di questi 112’000 erano di nazionalità svizzera mentre l’effettivo di lavoratori stranieri era salito a 121’900. In altre parole, il forte aumento dell’occupazione realizzato durante il decennio analizzato è stato possibile solo grazie al crescente apporto di manodopera straniera. Di conseguenza, mentre nel 2009 la quota dei lavoratori stranieri nel totale dell’occupazione cantonale era pari al 39,8%, dieci anni più tardi la stessa rappresentava il 52,1%. Così, nel corso dell’ultimo decennio, il mercato del lavoro ticinese è diventato, in misura
preponderante, un mercato hors sol. A questo punto è necessario precisare che, nella misura in cui questi dati descrivono in modo fedele l’evoluzione che si è manifestata sul nostro mercato del lavoro, il forte aumento dell’occupazione di lavoratori stranieri non è andata a detrimento dell’occupazione di lavoratori svizzeri. Ripetiamolo: nel 2019 l’economia ticinese occupava 112’000 lavoratori svizzeri come nel 2009. È vero che nel medesimo periodo il movimento migratorio degli svizzeri è diventato negativo, ma l’emigrazione di lavoratori svizzeri dal Ticino è di poco conto se paragonata con l’aumento dell’occupazione di lavoratori stranieri nel Cantone. Precisiamolo: anche se l’intera popolazione attiva di nazionalità svizzera avesse trovato occupazione nel Cantone e anche se l’economia dello stesso avesse potuto offrire un’occupazione a quei lavora-
tori svizzeri che sono emigrati, negli ultimi dieci anni, per ottenere l’equilibrio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro ticinese, in questo periodo, si sarebbe comunque dovuto ricorre a una forte immigrazione di manodopera estera. È possibile che nei prossimi dieci anni vi sia però una svolta in questa evoluzione e ciò per tre tipi di cause. In primo luogo per un irrigidimento della politica di immigrazione che potrebbe insorgere a seguito di iniziative popolari o per la modifica degli accordi con l’Ue. In secondo luogo per l’estendersi del digitale nei processi lavorativi e la conseguente riduzione degli effettivi di lavoratori occupati e, in terzo luogo, ma tocchiamo ferro perché ciò non succeda, per il concretizzarsi del fenomeno di decrescita segnalato dalle ultime previsioni di sviluppo a lungo termine dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale.
fatto fatica a trovare una nuova forma e un nuovo leader. Come in altre parti d’Europa, in particolare in Germania, l’elettorato di sinistra si è spostato più sui Verdi, invertendo il processo che volevano i socialisti, cioè quello di essere loro a inglobare la questione ecologista. In questa mestizia, dicono a Parigi, hai presente la luce in fondo al tunnel? Ecco, Anne Hidalgo è questo, la speranza del riscatto. È una donna molto tenace, amata e odiata proprio per la sua determinazione. Anche se non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali, è diventata molto critica nei confronti del Governo. Soprattutto ha affermato che la Francia merita un’alternativa allo scontro tra Macron e la leader del Rassemblement national, Marine Le Pen. Questo sbilanciamento a destra è lo spettro che aleggia sul Paese e nemmeno il decisionismo liberale di Macron è riuscito a dissiparlo. Anne Hidalgo vuole che ci sia un terzo incomodo e questo non può essere che un partito di sinistra che sia abbastanza coeso
nelle sue diverse ispirazioni da formare un’alternativa convincente. Intanto utilizza la pandemia, in particolare la campagna di vaccinazione, per fare una distinzione netta tra l’efficienza di Parigi e l’inefficienza generale del piano governativo. In un’intervista che è stata riproposta moltissimo in Francia come la prova della sua candidatura imminente, Hidalgo ha detto: «Con queste carenze, la Francia non sarebbe riuscita a organizzare nemmeno lo sbarco in Normandia». Il commento ha suscitato molte polemiche, sintetizzabili in: «Ma chi si crede di essere?», cui la sindaca di Parigi ha risposto mostrando quanti centri sono stati aperti nella capitale per somministrare i vaccini e insistendo sui numeri migliori rispetto al resto del Paese (la Francia comunque ha iniziato a rilento rispetto alla media europea). In realtà le pressioni su Hidalgo non arrivano soltanto dai cosiddetti nemici naturali, come sono i macroniani e le destre, ma anche dagli amici ecologisti. Alla fine dell’anno scorso ci fu uno
scontro scatenato dalla stessa sindaca di Parigi che aveva chiesto ai Verdi, durante i giorni sconvolgenti della decapitazione per strada del professore di storia e geografia Samuel Paty, di spiegare bene quali fossero i loro valori e i loro rapporti con la Repubblica. Li considerava troppo cauti nell’affrontare una questione così profonda. Dopo le baruffe si era trovata una tregua, caldeggiata dal Partito socialista stesso che corteggia gli «Ecolò» da tempo, soprattutto dopo «l’onda verde» che si è creata alle elezioni amministrative dello scorso anno. Ma il punto politico resta irrisolto: i Verdi fumano di rabbia quando vedono titoli in cui Hidalgo è chiamata «la più ecologista dei sindaci di Francia». Un sistema avanzato di piste ciclabili, come quello attivato da Hidalgo a Parigi, è sufficiente per lasciare alla signora lo scettro green e quindi la possibilità di organizzare una riunificazione a sinistra? Buona parte dei Verdi pensa di no e fuori da Parigi lo pensano anche molti altri.
miglioramenti sempre più sofisticati e prodigi elettronici in atto da qualche anno, gli «smartphone» continuano a essere usati, visti, acquistati e usati essenzialmente come macchine per comunicare e per fotografare (in realtà, spiegano i tecnici, più che fotografare essi compongono: a seconda del tasto premuto, in una frazione di secondo selezionano milioni di pixel e montano foto, video, fototesti e film digitali da diffondere in tutto il mondo alla velocità di un battito di ciglia). Al massimo sono «nuovi utensili» utili anche per altre funzioni, tipo scrivere e trasmettere messaggi, riprodurre milioni di brani musicali e sfornare applicazioni che vanno dal collegamento web all’evasione. Pochissimi di noi sono però in grado di utilizzare appieno la potenza della meraviglia che portiamo in tasca. Come ricorda Sabino Cassese su «La Lettura», lo «smartphone» è migliaia di volte più performante rispetto al supercomputer lungo 10 metri e pesante 18 tonnellate che Ibm presentò nel 1961 (sessant’anni
fra pochi mesi!); eppure, cosa ancor più incredibile in epoca consumistica, esso costa 7 mila volte meno del suo antenato della Ibm che oltretutto garantiva funzioni utili solo a matematici, scienziati e ricercatori, incapace quindi di fare fotografie (solo lo scorso anno le memorie digitali dei telefonini ne hanno caricate e spedite oltre duemila miliardi. Pensate: una per ogni dollaro promesso dal presidente Biden per gli aiuti post-Corona agli americani!), come pure di comunicare e spedire messaggi alla gente dei cinque continenti senza costi e in pochi secondi. Oggi invece miliardi di persone usano supercomputer tascabili praticamente «solo» per prestazioni e servizi che i geniali creatori della macchina dell’Ibm non avrebbero mai immaginato. Da questi nostri atteggiamenti si approda a una triste e sconcertante conclusione: in definitiva continuiamo a sfruttare solo una minima percentuale (circa il 5%) della potenza e delle capacità dei dispositivi che lo «smartphone» può
attivare e far lavorare per noi; quindi il telefono del terzo millennio è sicuramente «smart», cioè intelligente, ma noi, altrettanto di sicuro, lo siamo un po’ meno. Il perché ce lo spiega ancora Assante: fondamentalmente siamo dei pigri e la nostra pigrizia ci spinge a dimenticare che il supercomputer che abbiamo in tasca sia «una delle chiavi del nostro futuro e che se sapessimo usarla bene, meglio, potrebbe davvero farci scoprire qualcosa di interessante, di utile, di comodo, di davvero “intelligente”». Invece preferiamo illuderci che gli intelligenti siamo noi, anche se lo usiamo solo per telefonare, fare foto, ascoltare musica, scrivere 160 battute, o magari solo per giocare. Cercando un paragone per spiegare questo controsenso, è un po’ come se, ogni volta che vogliamo portare in tavola 100 grammi di insalata, noi ne comperassimo trenta o cinquanta chili. A conferma di una caustica definizione del poeta Guido Ceronetti: il cellulare è «una pulce che ha uno stomaco da elefante»!
Affari Esteri di Paola Peduzzi Anne Hidalgo, la luce in fondo al tunnel? Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, è sempre meno vaga: alla candidatura alle presidenziali francesi del 2022 fa riferimento più spesso, non tanto parlando di sé, ma parlando male degli altri. In particolare di Emmanuel Macron, il presidente, che nel 2017 svuotò la sinistra con il suo progetto centrista e che poi virò un pochino più a destra (a destrissima, secondo la sindaca di Parigi). Ora Hidalgo vuole riprendersi il maltolto, riempiendo di progetti, idee e leadership quel fronte rimasto sguarnito, non soltanto a causa del Macronismo, ma anche per il partito più a sinistra, quello di Jean-Luc Mélenchon, che da tempo sogna di essere l’aggregatore delle varie anime e non vuole dare spazio al Partito socialista. Il segnale più evidente delle ambizioni di Hidalgo è il lancio di «Ideés en Commune», il centro di aggregazione di persone e spunti che comunemente chiamiamo «piattaforma» ma che è il trampolino di lancio di una candidatura un po’ voluta e un po’ temuta, anche a sinistra.
Hidalgo, sessant’anni di eleganza e fierezza, nata in Andalusia e naturalizzata francese, è sindaca di Parigi dal 2014 ed è riuscita a creare in città quella riunificazione di diverse anime della sinistra francese che altrove – e a livello nazionale – non è mai riuscita. Soprattutto Hidalgo è riuscita a restituire un’anima progressista ed ecologista a un Partito socialista che dell’Eliseo non ha ricordi recenti particolarmente promettenti. Lionel Jospin fu buttato fuori dal secondo turno nel 2002, quando la Francia sperimentò il suo primo spavento nazionalista con Jean-Marie Le Pen al ballottaggio (vinse Jacques Chirac). François Hollande, diventato presidente nel 2012 con grandi aspettative, è durato un solo mandato; è tuttora impopolare e un po’ troppo calcolatore per chi sogna una candidatura a sinistra genuina e spontanea (vasto programma). Nel 2017 ci fu poi lo strazio di Benoît Hamon, che prese soltanto il 6 per cento alle presidenziali e sancì il collasso del Partito socialista, il quale da allora ha
Zig-Zag di Ovidio Biffi Pulce con stomaco d’elefante Se non a Natale, perlomeno a inizio anno sarete incappati anche voi in qualche ammiccante video pubblicitario del nuovo iPhone, lo smartphone presentato in quattro modelli a inizio ottobre dalla Apple di Cupertino in California. O magari avrete letto una delle tante promozioni mediatiche sulla sua presentazione, evento da «mondovisione» che gli specialisti non perdono mai (e su questo fanno molto affidamento anche i guru della Apple). Se è così, ho paura che quanto dirò di seguito potrà aggiungere ben poco alle vostre conoscenze in materia. E questo nonostante l’idea di parlare dei progressi tecnologici mi sia giunta leggendo un articolo pubblicato su «La Lettura» da Sabino Cassese, editorialista del «Corriere della Sera» e del «Foglio», e abbia poi reperito le informazioni tecniche sul nuovo apparecchietto sfornato della Apple dalla recensione di Ernesto Assante, esperto di «Repubblica» di nuove tecnologie. In avvio ho una domanda che mi insegue da tempo e che ritrovo nella mente
non appena vedo qualcuno all’opera con un telefonino: come mai lo «smartphone», nonostante la molteplicità degli usi e un continuo sforzo per dotarlo di mille altre funzioni, molte delle quali non sappiamo nemmeno che esistono, come mai per tutti coloro che lo acquistano continua a essere fondamentalmente solo un telefonino? L’interrogativo non si collega solo alle mirabolanti prestazioni dei nuovi modelli, riguarda anche le novità tecnologiche e le analisi tecniche (i due termini spesso vengono scambiati per sinonimi ma in realtà si differenziano: la tecnologia riguarda la creazione delle macchine, mentre la tecnica tocca solo il funzionamento) e arriva sino alla nostra difficoltà, che nel mio caso è frammista a una naturale riluttanza, a capire una straordinaria realtà: i moderni dispositivi elettronici sono in grado di compiere meraviglie, tanto che le loro prestazioni, come dice Assante, possono «cambiare la nostra vita, le nostre abitudini, la nostra idea del mondo». Invece, nonostante
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Cultura e Spettacoli La spia dimenticata Anche la Svizzera ebbe una Mata Hari: Marie-Antoinette Avvico, in arte Régina Diana pagina 28
Il cinema svizzero, da casa Sono iniziate le Giornate del Cinema di Soletta che, a causa della situazione pandemica, andranno in scena online pagina 29
Roma violenta Nel suo ultimo romanzo Nicola Lagioia racconta il degrado della Capitale italiana attraverso un fatto di nera pagina 30
Vincenzo Vicari, 1875 ca: la luganese Piazza Bandoria (oggi Piazza Manzoni) ospitava un tempo un teatro. (Archivio storico della Città di Lugano)
Melodramma in provincia
Musica Nell’Ottocento la nostra regione era davvero a digiuno di momenti musicali colti?
Carlo Piccardi Il gazzettiere Macrobio in un’aria del primo atto de La pietra del paragone di Rossini intona le parole: «Chi è colei che s’avvicina / È una prima ballerina / sul teatro di Lugano / gran furor nel Solimano». Si potrebbe pensare che il librettista Luigi Romanelli sia caduto sul nome della nostra cittadina per una semplice ricerca di corrispondenza nella rima. In verità nel 1807, cioè appena cinque anni prima di questa «burletta in musica» rossiniana, è documentato che l’impresa Carlo Re abbia portato a Lugano Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, completato da un «ballo eroico» di un certo Filippo Ottavo intitolato Selim II, che potrebbe appunto far pensare a quanto menzionato dal poeta. Non è questo il solo episodio in cui Lugano compaia nelle vicende della musica dell’Ottocento. Nel 1838, quando Franz Liszt si trattenne sulle rive del Ceresio al riparo dalle ire dei milanesi di cui era divenuto il bersaglio per i giudizi severi da lui riservati alla loro vita musicale, Lugano (che allora era poco più di una borgata) appariva alla sua compagna Marie d’Agoult quale «un sale trou»,
come scrisse nelle sue Memorie. Sarebbe stato troppo pretendere da essa a quel tempo di mettersi in concorrenza con Parigi, Ginevra, Vienna, Venezia e con gli altri centri che il grande concertista inanellava nei suoi lunghi peripli concertistici. È evidente che, anche per un musicista che da romantico purosangue non poteva rimanere insensibile all’armoniosa combinazione di lago e monti, la bellezza del paesaggio naturale non bastava a compensare il vuoto di operosità musicale in cui si trovò durante il suo soggiorno luganese. Non bastavano gli sforzi del suo anfitrione, il conte Giovanni Grillenzoni, che si era rifugiato sulle rive del Ceresio fissando residenza in una villa alla Muggina di Viganello e sfogando il suo amore per l’arte dei suoni in quello che allora dalle nostre parti era uno dei pochi modi per far risuonare note di musica in pubblico, cioè come direttore di una corale, una delle prime di cui si abbia notizia. Anche se «Il Repubblicano della Svizzera italiana» del 21 agosto 1838 documentò l’esibizione del grande pianista che concesse al conte il privilegio di «suonare nella di lui casa, abilitandolo in pari tempo a condurvi gli amici che credeva», concerti del ge-
nere alla nostra latitudine erano praticamente inesistenti. In effetti in una regione strutturalmente rurale, priva di centri urbani veri e propri, mancava quella borghesia che consentisse di svilupparvi stabilmente forme di cultura in grado di interagire, al di là della dimensione locale, con quanto poteva essere realizzato nelle città d’Italia e d’Europa. Tanto più tale debolezza si faceva sentire in campo musicale, per una disciplina che abbisognava di un apparato produttivo complesso e costoso, che non poteva darsi senza il sostegno collettivo, per non dire senza istituzioni. Ciò che appare dalle parole spregiative della compagna di Liszt è appunto il vuoto istituzionale riguardo alle modalità di trasmissione della cultura, che poteva essere compensato episodicamente ma che già individuava una situazione di fondo con cui, fino in anni a noi più vicini, la nostra regione avrebbe continuato a confrontarsi. Non per questo essa rimase estranea alle cose di musica, a quelle cioè che, mattone su mattone, costruivano l’edificio di una civiltà. Un capitolo ancora da trattare è infatti la diffusione dell’opera teatrale in provincia, a livello
statistico non sufficientemente rilevato ma nelle terre italiane esteso al punto da aver raggiunto un grado di penetrazione forse maggiore rispetto alla diffusione della musica strumentale nelle periferie dei paesi tedeschi. Senza contare la diffusa presenza di fantasie e di brani trascritti da opere nel fiorente repertorio bandistico dell’epoca, basterà ricordare la rappresentazione de L’elisir d’amore a Lugano nel 1834 (due anni appena dopo la composizione dell’opera donizettiana) quando la locale società filarmonica prestò i suoi fiati alla compagnia ingaggiata dal piccolo teatro della cittadina, a testimoniare come essa fosse inserita stabilmente nei percorsi delle compagnie itineranti che portavano il melodramma nelle regioni di provincia. Ogni anno, nel piccolo teatro dell’allora Piazza Bandoria (generalmente in ottobre) una compagnia con tanto di balletto assicurava la sua presenza portando titoli di tutto rispetto. Nel 1806 rileviamo la Griselda di Ferdinando Paer, nel 1811 Don Papirio di Pietro Guglielmi, nel 1827 Matilde di Shabran di Rossini, nel 1837 Il furioso all’isola di San Domingo di Donizetti, nel 1839 Lucia di Lammermoor sempre
di Donizetti, il quale doveva godere di particolare favore se nel 1841 troviamo ancora la sua Gemma di Vergy. Certamente si trattava di piccole compagnie, con orchestre che arrivavano al massimo a venti persone e cori ridotti a poco più di un quartetto. Ciò che però è importante sottolineare è la partecipazione diretta del pubblico all’evoluzione di un genere di cui non arrivava solo il riflesso, ma che veniva vissuto nella sua sostanza, nella realtà estetica della rappresentazione operistica. L’immagine evocata dal «sale trou» andrebbe perciò ridimensionata, nel senso che nella fattispecie Lugano rimaneva periferia estrema e povera di occasioni ma tutt’altro che incapace di esprimere una coscienza musicale all’altezza dei tempi che allora, in quanto terra di civiltà italiana, voleva dire soggetta al primato del melodramma e quindi scarsamente attenta alla realtà del concerto come auspicava l’illustre virtuoso. D’altra parte egli non poteva pretendere da un luogo di provincia più di quanto poteva dare Milano stessa, da lui criticata per il livello esecutivo delle manifestazioni musicali non più in grado di reggere il confronto con la realtà dei paesi dell’Europa del nord.
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La memoria mostruosa Giorno della Memoria A colloquio con Yishai Sarid, autore de Il mostro della memoria
Sarah Parenzo Scrittore israeliano classe 1965, Yishai Sarid, figlio del noto giornalista e politico Yossi Sarid, vive a Tel Aviv dove lavora come avvocato. Il poeta di Gaza (E/O 2012), suo secondo romanzo, ha vinto in Francia il Grand prix de littérature policière nel 2011. Ne Il mostro della memoria Sarid affronta il tema della Shoah da un’interessante prospettiva critica che offre al lettore straniero una nuova finestra sulle sfide e le contraddizioni della società israeliana contemporanea. Il libro è strutturato sotto forma di una lettera accorata che il protagonista, storico ricercatore dei meccanismi di sterminio, nonché guida e accompagnatore di studenti, politici ed esponenti dell’esercito nelle visite ai campi nazisti della Polonia, rivolge al direttore dello Yad Vashem, il Museo Nazionale Israeliano dedicato alla Shoah. Il mostro della memoria è stato annoverato dal «New York Times» tra i 100 migliori libri del 2020. Figlia della «seconda generazione», come si usa dire qui in Israele, ho ereditato il trauma della Shoah nel patrimonio genetico, sperimentandolo emotivamente, sin da piccolissima, attraverso le figure dei miei nonni paterni, entrambi unici superstiti di due famiglie sterminate. Tuttavia, solo quando, una volta trasferitami in Israele, mi si presentò l’occasione di frequentare dei corsi sul tema proposti dall’Università Ebraica di Gerusalemme, ebbi modo di comprendere realmente la complessità del meccanismo della memoria e le insidie nascoste nel suo seno. Fu allora che sentii parlare per la prima volta del rischio di ridurre la Shoah a una memoria autoreferenziale, o peggio, di manipolarla, utilizzandola per giustificare azioni poco etiche, e sollevare domande sulla necessità di onorare le vittime dello sterminio ebraico senza incorrere in simili trappole. Se questi e altri interrogativi fanno parte integrante del dibattito intellettuale israeliano, in Europa, pressoché ogni tentativo di approcciare la questione con spirito critico viene tacciato di antisemitismo, anche quando a sollevare le critiche sono gli stessi ebrei. Soprattutto in Germania da anni è in atto una vera e propria caccia alle streghe che esclude dalla scena esponenti della cultura che muovano critiche di sorta a Israele o alle sue politiche della memoria. È per tali ragioni che sono stata particolarmente lieta di apprendere dell’avvenuta traduzione italiana del libro di Yishai Sarid e oggi ne parlo con l’autore. Partiamo dall’inizio, cosa l’ha condotta a scrivere sulla Shoah e come è nata l’idea di questo libro?
La domanda corretta da porre a uno scrittore israeliano è piuttosto «come evitare» di scrivere sulla Shoah, evento che ci coinvolge sia sul piano privato sia su quello collettivo, rivestendo un ruolo centrale nelle nostre vite. Da sempre ho letto molto su questo argomento, da libri di storia a memoir, da articoli di giornale a interviste, ma ci è voluto molto tempo perché maturassi l’idea di scrivere qualcosa anch’io. Se da un lato mi era chiaro che non avrei inventato una fiction sulla Shoah – ci sono già sei milioni di racconti veri – dall’altro non sono uno storico, quindi nemmeno un libro di saggistica faceva al caso mio. Poi nel 2015 sono partito per la Polonia, ho noleggiato una mac-
china e per circa due settimane ho visitato tutti i campi di sterminio polacchi. Al ritorno in Israele ero emotivamente molto provato. All’improvviso tutte le letture fatte negli anni erano divenute concrete e tangibili, così ho optato per un protagonista storico, cercando di non inventare nulla. Se vogliamo andare ancora più indietro nel tempo il mio cognome in ebraico significa «superstite». Mio nonno si chiamava Yaakov Shneider ed era emigrato in Israele dalla Polonia negli anni 30. Faceva l’insegnante e, alla fine della Guerra, nel 1945, decise di tornare in Europa per insegnare ai bambini dei campi di transito e prepararli in vista dell’arrivo in Israele. Fu lì, in un villaggio dell’Ucraina (allora Polonia), che modificò il nostro cognome in Sarid. Anche da parte di mia madre, del resto, molti parenti furono sterminati. Si tratta dunque di un trauma famigliare, prima ancora che nazionale. Inoltre, il fatto di essere da sempre spettatore della manipolazione della memoria ha costituito un’ulteriore motivazione a scrivere. La memoria infatti non rimane congelata, bensì muta nel tempo e se ne fa uso in negativo.
La prospettiva scelta è davvero rappresentativa del suo pensiero sulla Shoah? Come si pone rispetto alla definizione di A.B. Yehoshua della Shoah come «sconfitta» del popolo ebraico?
La cosa bella della prosa è che puoi scrivere tanto le cose belle quanto quelle brutte, comprese cose che non dirò in questa sede. Non sono per forza le mie opinioni sul piano razionale, ma si tratta senz’altro di pensieri che mi sono passati per la mente. Per quanto riguarda l’affermazione di Yehoshua, non la condivido. Gli ebrei non possedevano un esercito, né costituivano una nazione o un’entità dal punto di vista internazionale. Non avevano alcuna possibilità di opporsi, e non ritengo giusto attribuire loro colpe o responsabilità. Piuttosto, poiché si tratta di una ferita aperta, di un trauma irrisolto che ci domina sino a oggi, vi proiettiamo questioni come l’impotenza o il collaborazionismo al quale sono stati costretti gli ebrei con la forza. Rimaniamo sul tema della responsabilità. Nel libro lei parla molto della responsabilità dei tedeschi, poco di quella dei polacchi e, solo raramente, fa accenno a un’eventuale responsabilità degli ebrei.
Ribadisco, oggettivamente non si può parlare di responsabilità degli ebrei. Dal Sonderkommando allo Judenrat, tutto faceva parte degli ingranaggi perversi del piano nazista che delegavano il lavoro sporco agli stessi ebrei. Per quanto riguarda i polacchi, non sono stati loro ad aver messo in atto la Shoah. In definitiva non si può sottrarre responsabilità ai tedeschi attribuendola ad altri. Per non parlare delle assurde proporzioni assurte dal «romanzo» Israele-Germania. Non che io sia contrario alla Realpolitik, né all’importanza di una riconciliazione, ma sorge la domanda come sia possibile che in pochi anni non abbiamo stabilito solo rapporti di amicizia, bensì una relazione d’amore sin troppo intima.
La capisco. A casa mia era proibito studiare il tedesco, così come comprare lavatrici o macchine tedesche, mentre oggi un israeliano su due si trasferisce a Berlino come se niente fosse. Mio padre si rivolterebbe nella tomba. D’altra parte i tedeschi non hanno agito da soli, penso ad
fatto un passo indietro, dando una sorta di convalida all’inevitabile uso della forza, come se non vi fossero reali alternative in risposta all’antisemitismo, che quella di rinchiudersi in ghetti rafforzati e militarmente protetti. Penso anche al timore costante da parte degli ebrei della diaspora che, criticando Israele o le sue politiche della Memoria, non si faccia che alimentare l’antisemitismo. Si tratta di un atteggiamento pericoloso per l’ebraismo europeo che rischia di ripiegarsi su sé stesso impoverendosi culturalmente.
Questa è un’ottima domanda che non mi viene posta spesso. A Yad Vashem il libro non è stato gradito proprio perché è molto critico. Parla infatti del complesso che abbiamo come israeliani con l’uso della forza. Se si ricorda, uno degli studenti dice a un certo punto che per sopravvivere nel mondo «bisogna essere un po’ nazisti». Il problema è che la Shoah costituisce oggi la scusa e la giustificazione a ogni utilizzo della forza da parte degli ebrei e di Israele, a cominciare dall’occupazione che è di per sé negativa e contraria ai valori ebraici e universali. Come pensa allora che si possa esercitare nella pratica un utilizzo critico della memoria?
Yishai Sarid, 1965, fa l’avvocato a Tel Aviv. (Yasmin Saird) esempio al mito del «bravo italiano» oggi finalmente rimesso in discussione dagli storici. Ma non va bene neppure la narrativa dell’ebreo come vittima eterna...
Certo che no, oggi poi oggettivamente non siamo più vittime, siamo forti e abbiamo un nostro Stato. In generale ritengo che, come tutti, l’ebreo possa essere tanto vittima quanto carnefice.
Uno dei temi centrali del libro è quello della didattica della Shoah, in particolare dei viaggi-studio organizzati dalle scuole israeliane per gli studenti di liceo.
Nel 1983 avevo 18 anni, frequentavo la classe dodicesima e ho partecipato al primo viaggio organizzato per adolescenti. La Polonia era allora sotto il regime comunista del generale Jaruzelski. La verità è che mi sono divertito molto, allora poi non si andava tanto all’estero come oggi, e tutto mi apparve sostanzialmente romantico e avventuroso. A quell’età si è anche un po’ immaturi, facilmente impressionabili o manipolabili. Così, anche se avevamo studiato la storia, la visita non sortì in me neppure lontanamente l’impatto emotivo della seconda che ha preceduto la stesura del libro. Il messaggio che recepii come studente è che gli israeliani devono essere molto forti affinché la tragedia non accada di nuovo. Successivamente mi arruolai e frequentai il corso ufficiali. In totale ho servito nell’esercito per sei anni. Lo racconto perché, se da un lato sono convinto che sia meglio che siamo forti come nazione, nel libro mi chiedo se questo debba o possa essere l’unico lascito della Shoah a favore degli ebrei israeliani.
Nel Mostro lei si sofferma anche sulle sottili differenze tra studenti di origine ashkenazita, per i quali la Shoah fa parte della storia familiare, e quelli di origine sefardita orientale, le cui famiglie provengono per lo più dai paesi arabi. Vi è anche la questione dell’insegnamento della Shoah all’estero, ai non ebrei. Da una parte, da quando hanno stabili-
to il Giorno della Memoria vengono investiti grandi sforzi, tuttavia l’antisemitismo è in aumento in tutta Europa, Liliana Segre deve vivere sotto scorta e gruppi neonazisti fanno irruzione alla presentazione di libri sulla Shoah.
Prima del Covid ho avuto modo di viaggiare molto per la presentazione del libro. Sono stato in Germania, in Austria, Francia e Spagna. La mia impressione è che in Germania si studi la Shoah, ma che sia diventata una memoria congelata nel tempo, un argomento sacro che è meglio non toccare né indagare troppo. In questo senso la Shoah è sempre meno rilevante per i giovani tedeschi, che si rapportano agli anni della II Guerra mondiale come noi al XIX secolo, non comprendendone la rilevanza per la vita di tutti i giorni. Tale fenomeno, secondo me, spiega anche il ritorno dell’antisemitismo e dei vari fascismi in Europa. A mia volta io sono israeliano e sionista, e penso che Israele abbia ragione e diritto di esistere. Tuttavia, negli incontri che ho avuto, il libro, grazie agli interrogativi in esso sollevati, ha sortito l’effetto di rendere l’argomento più attuale e rilevante per il presente. Non mi fermo al messaggio «c’erano una volta i tedeschi cattivi che hanno ucciso gli ebrei buoni», bensì porto l’attenzione sulla responsabilità di ognuno, sull’importanza di salvaguardare le istituzioni democratiche e di ribellarsi alle forze che cercano di imporsi. Vorrei condividere con lei una percezione suscitatami dal suo libro. Per circa tre quarti della lettura avevo l’impressione di trovarmi di fronte a un’audace parodia critica di quella che in Israele è diventata una vera e propria industria della Shoah. L’ossessione per lo studio dei meccanismi di sterminio nei minimi dettagli, che avuto origine anche da considerazioni di natura puramente economica, conduce infatti lo storico israeliano protagonista sull’orlo del baratro. Tuttavia, verso la fine, ho avuto la sensazione che abbia
Per quanto riguarda la memoria, proporrei, ad esempio, di non recarci solo negli ultimi luoghi della morte, come le rampe o le fosse delle uccisioni di massa, dove tutta l’attenzione dei visitatori è focalizzata sulla condotta dei tedeschi. Interessarci della vita degli ebrei in Europa prima della Shoah potrebbe essere un modo migliore di onorare le vittime, piuttosto che rivederle umiliate negli ultimi attimi come delle ombre impotenti. Altrettanto importante è insegnare ai bambini a opporsi a fascismi e razzismi di ogni sorta. Credo che politicamente si possa essere critici nei confronti di Israele scrivendo cose anche abbastanza pesanti come quelle del libro e, ciò nonostante, essere israeliani sionisti e patrioti. Come si è sentito quando ha presentato il libro all’estero? E soprattutto, come pensa che il libro possa contribuire al discorso sulla memoria fuori da Israele?
Ogni posto è a sé, ma in generale il rapporto con il pubblico europeo o comunque non israeliano è molto importante per me, anche perché i miei potenziali lettori israeliani sono relativamente pochi. In Germania alcuni incontri si sono rivelati tesi, e non mi sono stati facili a livello personale. In altre parti del mondo, ho potuto parlare al pubblico più apertamente. Io non cerco né commiserazione né scuse. Sono critico verso tutte le parti in causa e propongo di parlarci alla stessa altezza. L’intervista è terminata e a Tel Aviv siamo giunti al quarto lockdown. Pur non condividendo molte delle posizioni di Sarid, ritengo ancora che Il mostro della memoria offra forse per la prima volta al lettore di narrativa in lingua italiana una gamma più ampia di prospettive, che coniuga sapientemente razionali attribuzioni di responsabilità, retaggi emotivi e traumi irrisolti, consentendo di affrontare il Giorno della Memoria con rinnovata consapevolezza. Bibliografia
Yishai Sarid, Il mostro della memoria, Roma, Edizioni E/O, 2019.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 gennaio 2021 • N. 04
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Cultura e Spettacoli
L’arte dello spionaggio
Ritratti Il «grande gioco» di Régina: breve vita e drammatica morte di una Mata Hari svizzera,
troppo a lungo trascurata dagli annali dello spionaggio Benedicta Froelich
Immagine di Régina Diana dalla copertina del libro a lei dedicato.
Come gli amanti di spy stories ben sanno, la condizione di neutralità della Svizzera, unita alla sua posizione strategica nel cuore dell’Europa e al crocevia economico rappresentato dal segreto bancario, ne ha sempre fatto terreno particolarmente fertile per lo spionaggio internazionale. Soprattutto durante il Primo e Secondo conflitto mondiali, il nostro piccolo Paese ha infatti visto avvicendarsi trame, intrighi ed eventi che hanno spesso deciso le sorti dell’intero continente – sebbene si abbia qualche difficoltà a rintracciare, almeno nei libri di storia, spie celebri di nazionalità rossocrociata. Almeno fino al 2017 – anno in cui, grazie agli sforzi congiunti della biografa Vivien Newman e del medico militare David Semeraro, il grande pubblico ha scoperto l’esistenza di una rappresentante elvetica di tutto rispetto, appartenente alla scarna, intrigante categoria delle spie di sesso femminile: una sorta di Mata Hari confederata, accomunata all’illustre collega anche dal fato infausto che l’avrebbe infine colpita. In effetti, nulla, nella modesta e inquieta giovinezza di Marie-Antoinette Avvico, nata nel 1885 nei quartieri popolari di Ginevra, lasciava presagire quanto la attendeva: figlia di immigrati franco-italiani assurti a un mediocre benessere, la giovane Régina si sarebbe presto trovata a svolgere il mestiere di cantante d’operetta nei café-chantant cittadini, dove non avrebbe disdegnato neppure la prostituzione occasionale e qualche exploit nel campo del contrabbando. E fu proprio in qualità di aspirante femme fatale che assunse il nome d’arte di Régina Diana e il ruolo di amante del misterioso «Cherix»,
impresario svizzero dal passato oscuro. Sarebbe stato l’inizio di una nuova vita: nel 1910, la giovane cantante dalle vaghe tendenze francofobe si recava infatti a Zurigo (luogo nodale nello scacchiere spionistico internazionale), dove veniva attentamente esaminata dalle medesime «figure nell’ombra» per le quali il suo protettore Cherix già lavorava – i vertici dello spionaggio tedesco, che l’avrebbero in breve arruolata nei ranghi degli operativi sul campo.
Régina Diana, giustiziata nel 1918, era nata in un quartiere popolare di Ginevra con il nome di Marie-Antoinette Avvico La vigilia della Grande Guerra trovò così la nostra eroina a Parigi, dove il mestiere di modista in una bottega a poca distanza dal Castello di Vincennes, quartier generale dell’esercito francese, fungeva da perfetta copertura per le sue nuove attività: l’arte seduttoria dell’abilissima Régina si rivelò presto strumento essenziale per carpire ogni sorta di informazioni sugli spostamenti delle truppe. Gli ufficiali di stanza a Vincennes sarebbero stati solo i primi della lunga lista di uomini manipolati dalla Diana; e mentre rivelava ai vertici tedeschi informazioni preziosissime su ogni movimento (e scandalo) militare che riguardasse la Francia di quei giorni, Régina saliva rapidamente di rango agli occhi della
committenza, al punto da essere trasferita a Marsiglia per fare regolarmente la spola tra Francia e Svizzera. Nel contempo sarebbe stata iniziata alle più raffinate tecniche dello spionaggio internazionale nientemeno che dalla fantomatica «Mademoiselle Docteur», la più celebre spia tedesca di tutti tempi, da alcuni oggi identificata con Elsbeth Schragmüller: gli insegnamenti più importanti avrebbero riguardato la trasmissione dei dispacci segreti (tramite un particolare tipo di inchiostro simpatico) e le arti della liaison e dell’ampliamento della rete di contatti sul campo. E a misura che il conflitto si faceva più aspro e globale, il lavoro di Régina diveniva sempre più capillare e importante, grazie alla sua memoria perfetta e all’abilità nell’intessere relazioni intime con figure di spicco, foriere di informazioni cruciali; a volte, tali rapporti finivano per divenire sinceri legami affettivi, come nel caso dell’ignaro Capitano Lefebvre, coordinatore logistico delle truppe francesi, al quale la spia svizzera sarebbe rimasta a lungo legata. Purtroppo, però, il ruolo svolto da Régina stava per essere infine svelato al mondo. Nel 1917, uno dei tanti dispacci segreti che l’ormai esperta operativa nascondeva con maestria dietro banali cartoline postali, venne fortunosamente intercetttato durante il tragitto da Marsiglia a Ginevra, quando il calore di una stufa rivelò il messaggio nascosto dietro le innocue righe di saluti; e da lì fu relativamente facile, per la polizia elvetica, risalire al mittente – e, soprattutto, al ruolo a dir poco cruciale che questi aveva avuto nella trasmissione di informazioni riservate alla Germania, in barba a ogni neutralità svizzera. Oltre ai movimenti militari attraverso
la Francia, le cartoline in seguito confiscate riguardavano infatti lo spostamento di guarnigioni sempre più ingenti da Inghilterra, Canada e perfino da Haiti – chiari segnali di un imminente colpo di mano nello scenario bellico. Ma per Régina la guerra, e il «grande gioco» da lei tanto amato, erano ormai finiti: abbandonata dai francesi come dagli svizzeri, i quali negarono ogni coinvolgimento con l’ex cantante di operetta (per sua sfortuna, la Diana non poteva vantare la nazionalità svizzera), venne arrestata, messa a processo e infine fucilata a Marsiglia. Tale e tanta era la paura provata dai francesi nei riguardi della traditrice, da far sì che il plotone d’esecuzione a lei destinato fosse composto da ben venticinque soldati, anziché dai dodici solitamente impiegati per lo scopo. Così, il 5 gennaio del 1918, all’avvento dell’ultimo anno di guerra, usciva di scena una figura tuttora per molti versi oscura – nonché, secondo molti, la più abile spia che la Svizzera abbia mai potuto vantare. E cosa rimane, oggi, della misteriosa Régina? Per quasi un secolo condannata all’oblio, senza poter vantare neanche una citazione nei libri di storia dello spionaggio, la sfortunata ginevrina resta tuttavia un’antieroina autentica quanto rara: icona di un mondo scomparso, in cui le guerre si vincevano grazie all’astuzia, la seduzione e l’incoscienza più ardite – e con l’aiuto di semplici cartoline postali e inchiostro simpatico. Bibliografia
Vivien Newman, David A. S. Semeraro, Régina Diana. Seductress, Singer, Spy, Barnsley (GB), Pen & Sword History, 2017
Julian Barnes: un occhio ironico e navigato
Arte La domanda che attraversa i diciassette saggi di Julian Barnes è: in che misura la parola scritta riesce
a traghettare un’immagine? Emanuela Burgazzoli John Berger scriveva che «dopo aver guardato un’opera, lascio il museo o la galleria in cui è esposta e provo a entrare nell’atelier in cui è stata creata. Parlo tra me e me, e mi rivolgo all’artista che forse conosco, o che magari è morto da secoli». In questa tipologia di incontri sembrano rientrare anche i diciassette saggi scritti da Julian Barnes. Nei due casi si tratta infatti di storyteller (Berger aborriva la definizione di «critico d’arte») che accostano parole a immagini di grandi pittori; anche lo scrittore inglese, autore de Il senso di una fine e Il porcospino, si inserisce in quella tradizione del saggio anglosassone dalla prosa erudita e brillante, frutto anche della consultazione di fonti documentarie, che con ironia e piglio narrativo conduce il lettore alla scoperta di celebri dipinti. Nel caso de La zattera della Medusa di Géricault Barnes ne indaga la genesi, dall’evento storico del naufragio della fregata francese Meduse nel 1816, passando per la preparazione e il racconto della realizzazione del dipinto, fino alla lettura dettagliata del quadro, che si dipana per ipotesi, ognuna esplorata e poi scartata; Barnes è uno scrittore che segue le linee narrative suggerite dall’immagine – «un trionfo di muscoli e dinamismo» –, tenendo tutti i fili, seminando indizi, da accorto romanziere, fino alla conclusione senza dimenticare il contesto storico e il destino che la critica ha riservato al di-
pinto, tanto apprezzato da Delacroix (e per il quale aveva anche posato) e liquidato invece dallo stesso Géricault in punto di morte come «une vignette!». Barnes ripercorre il periodo che abbraccia il passaggio dal romanticismo al realismo al modernismo, che «non era stato meraviglioso in tutte le sue parti», senza rinunciare a incursioni anche nella contemporaneità con i testi dedicati a Oldenburg e ai ritratti del «maestro dei corpi» Lucian Freud, per concludere con un saggio sull’amico Howard Hodgkin, pittore che più di altri «ha attratto l’attenzione di chi sa raccontare, descrivere, immaginare, spiegare», ovvero degli scrittori. Perché in fondo la sfida, o il paradosso, che lega tutti questi saggi è il rapporto fra la parola (poetica) e l’immagine (artistica), ovvero quanto la parola può davvero «tradurre» la pittura; secondo Leonardo da Vinci infatti «la pittura serve a più degno senso che la poesia, e fa con più verità le figure delle opere di natura che il poeta, e sono molto più degne le opere di natura che le parole, che sono opere dell’uomo». Parole che sembrano riecheggiare nella «professione di fede» del grande maestro del realismo, quel Gustave Courbet a cui Barnes dedica un ampio testo, concentrandosi su una opera fondamentale – L’atelier dell’artista –, un quadro-manifesto che inneggia alla bellezza della natura, considerata superiore a ogni arte accademica e romantica. «Dovremmo sempre affidarci (e dare giudizi) al quadro piuttosto che
al manifesto tanto decantato. Il richiamo alla concretezza del realismo non esclude l’allegoria, il mistero o l’irriverenza – come nell’Atelier» scrive Barnes, analizzando il dipinto del pittore francese, autore dello scandaloso L’origine du monde, senza tralasciare dettagli sulla tumultuosa biografia di Courbet, che negli ultimi anni della sua vita, dopo la caduta della Comune di Parigi, deve riparare in Svizzera, dove muore nel 1877. In parte ancora avvolta nel mistero è invece la genesi delle tre versioni dell’Esecuzione dell’imperatore Massimiliano di Manet, opera bandita in Francia ed esposta, senza grande successo negli Stati Uniti, che riporta in primo piano il tema del rapporto fra arte e storia e quello – sempre attuale – della censura, in questo caso legata alla reputazione dell’artista. Altro appassionante capitolo riguarda il rapporto di collaborazione e di rivalità fra Picasso e Braque, due personalità complesse e complementari; un rapporto di cui Barnes fornisce una utile rilettura, mettendo l’accento sull’influenza di Braque. Per Julian Barnes la vera passione per l’arte comincia nel 1964 quando ragazzo visita a Parigi il museo dedicato a Gustave Moreau, artista di cui apprezza la stravaganza, ma che a mezzo secolo di distanza, di ritorno nel museo-atelier del maestro simbolista, considera privo di estro. Dalla fine degli anni Ottanta, quando comincia a scrivere di arte, lo scrittore ammette
Léon Valade, Ernest d’Hervilly, Camille Pelletan, particolare di Coin de la table, di Fantin-Latour (1872) riportato sulla copertina del libro.
di aver capito quanto «in tutte le arti coesistessero due elementi: il desiderio di qualcosa di nuovo e un’ininterrotta conversazione con il passato» e che l’arte non era un tentativo di trasporre e comunicare il fremito della vita, bensì era in molti casi quel fremito. E se anche di fronte a un’opera d’arte non riusciamo a rinunciare alle parole, «rimaniamo, inguaribilmente, creature verbali che amano spiegarsi le cose, formarsi delle opinioni, dibattere», contrariamente a quanto sostiene Flaubert che credeva «fosse impossi-
bile spiegare una forma d’arte usando il linguaggio di un’altra forma d’arte». Inevitabile per Barnes dunque affidarsi alle parole, che a volte compongono prose che sono esempi di una personale interpretazione dell’ekphrasis, antico genere letterario che designava la descrizione di un’opera d’arte. «Fidati della narrazione, e non del narratore». Bibliografia
Julian Barnes, Con un occhio aperto, Torino, Einaudi, 2019.
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Cultura e Spettacoli
Il coraggio nel DNA
Giornate di Soletta/1 Una stimolante versione online per l’amato
festival svizzero
In cima all’Atlas con Castelli
Giornate di Soletta/2 Il regista sembra
sulla buona strada per trovare la propria voce
Giorgia Del Don Vittima anche lei della crisi sanitaria che continua a tenere la cultura in ostaggio, la cinquantaseiesima edizione delle Giornate di Soletta è stata costretta a reinventarsi proponendo l’insieme della sua programmazione (focus, tavole rotonde e discussioni incluse) in formato digitale. Un’impresa titanica ma necessaria che ha dato l’impulso per la creazione di un nuovo sito internet arricchito da un archivio cinematografico dedicato alla storia del cinema svizzero. Un’iniziativa questa che permette di unire il passato al presente e al futuro digitale che invade i nostri schermi. La schiavitù della nostra società, e soprattutto dei pubblici più giovani, rispetto alle numerose piattaforme di VOD che spuntano da ogni dove con ammiccanti proposte, è una realtà che le Giornate di Soletta hanno deciso di sfruttare intelligentemente. Invece di tenere il broncio e rassegnarsi a constatare che il pubblico si rifugia sempre più spesso tra le mura domestiche, davanti allo schermo della televisione, disertando le sale oscure, il festival solettese ha deciso di contrattaccare sfruttando la pandemia di Covid 19 come opportunità per raggiungere altri pubblici, quelli meno avvezzi alle dinamiche festivaliere, seducendoli e spingendoli, in un futuro che speriamo prossimo, a partecipare di persona alla magia del cinema. Per evidenziare la sua volontà di ritrovare al più presto il rassicurante tepore delle sale oscure, il festival ha deciso di accogliere l’insieme delle interviste ai registi in presenza a Soletta, in quelle stesse sale dove normalmente avrebbero dovuto svolgersi le proiezioni. Nessuna competizione fra digitale e reale quindi, ma piuttosto il bisogno di trasformare il dramma in opportunità, di mettere in avanti il proprio ruolo indispensabile di vetrina del cinema svizzero, e questo malgrado tutto. Come sottolineato dalla carismatica Anita Hugi, direttrice delle Giornate di Soletta al suo secondo mandato, era inconcepibile pensare di gettare la spugna privando i film svizzeri di un’indispensabile visibilità, soprattutto in questo momento così delicato per la cultura. Rinunciare alla propria programmazione, che raggruppa il meglio del cinema elvetico dell’anno appena trascorso, avrebbe significato lasciare uno spazio vuoto, come un cratere che ci avrebbe ricordato per sempre a che punto la pandemia di Covid 19 ci ha messo in ginocchio. «Per me era molto importante che ogni film avesse il suo momento di gloria e visibilità», sottolinea la diret-
Nicola Mazzi
Dal film sòne di Daniel Kemény, in lizza per il Prix du public. (visionsdureel.ch)
trice, come a volerci ricordare che, al di là dei limiti di proiezioni forzatamente virtuali, il pericolo più grande per ogni opera d’arte resta l’invisibilità. Comunque attente a non trasformarsi in mera piattaforma di VOD, le Giornate di Soletta hanno messo a punto un piano d’attacco che permette agli spettatori di godere ogni giorno di un nuovo bouquet di film freschi. Questo al fine di rinnovare costantemente l’esperienza rendendola simile a quella più classica di un festival. Concretamente, ogni film ha non i suoi 15 minuti, come auspicato da Andy Warhol, ma le sue settantadue ore di gloria. Il primo giorno, a mezzogiorno, ha luogo la prima proiezione (giornalmente sono messi a disposizione fra i quindici e i venti film), durante il secondo si svolge l’intervista con il regista, e il terzo raggruppa le due realtà: il film e il ritratto. In questo modo, creando per ogni film un percorso personalizzato con la sua durata limitata e la sua visibilità propria, il festival spinge l’esperienza dello streaming più in là, dilata la vetrina del cinema svizzero senza però intaccarne l’indispensabile DNA di festival. Un arricchimento dell’esperienza virtuale ripreso anche dal progetto Filmo, un’iniziativa delle Giornate di Soletta, che ambisce a far riscoprire la storia del cinema svizzero attraverso le sue opere faro, spesso di difficile accesso, ora disponibili in streaming accompagnate da una serie di «bonus»: materiale d’archivio, commenti di professionisti del settore, ma anche un’originale «portineria» («film-concierge») che sceglie per noi i contenuti più atti a stuzzicare la nostra curiosità. Un modo di riportarci indietro nel tempo senza rinunciare alle nostre (spesso pigre) abitudini presenti, un «inganno» giocoso che spera di farci riscoprire l’o-
riginalità e la radicalità che le opere del passato posseggono. È invece verso il futuro che guarda il festival con l’introduzione del nuovo premio «Opera prima» che ricompensa un primo film fra tutti quelli presenti nel tentacolare involucro del «Panorama suisse». Fra questi l’intrigante e futuristico Réveil sur Mars della giovanissima Dea Gjinovci (in lizza per il Prix de Soleure), Lovecut, scorcio edificante sulle abitudini sessuali e amorose di un gruppo di giovani d’oggi, del duo di registe Iliana Estañol e Johanna Lietha e il poetico sòne di Daniel Kemény, che competono per il Prix du public. Sebbene siano numerosi i film firmati da nomi noti della cinematografia elvetica – Jean-Stéphane Bron e The Brain (prima mondiale), tuffo nei meccanismi tortuosi del cervello umano, Andrea Štaca e il suo già pluripremiato Mare, o ancora Milo Rau e il suo ambizioso Das neue Evangelium, tutti in lizza per il Prix de Soleure – è proprio tra le giovani leve che vediamo delinearsi un cinema svizzero forte che non ha più peli sulla lingua, multiculturale e sincero. Una boccata d’aria fresca di cui le Giornate di Soletta non ci privano mai, arricchite quest’anno da uno stimolante programma speciale («Histoire du cinéma suisse») dedicato a sette registe svizzere d’eccezione: Lucienne Lanaz, Gertrud Pinkus, Tula Roy, Marlies GrafDätwyler, Isa Hesse-Rabinovitch, June Kovach e Carole Roussopoulos, che, con le loro proposte radicali e controcorrente, hanno marchiato a fuoco la cinematografia svizzera nel decennio successivo all’introduzione del diritto di voto alle donne. Proposte forti che vengono tanto dal passato quanto dal presente per ricordarci che il coraggio è radicato nel DNA del nostro cinema.
Sono diversi i pregi di Atlas, ma il film del ticinese Niccolò Castelli – presentato in apertura alle Giornate di Soletta e trasmesso dalla RSI mercoledì sera – ha anche qualche piccola pecca. Inquadriamo il perimetro del film con la trama. Appassionata di arrampicata, Allegra è vittima di un attacco terroristico che costa la vita ai suoi amici. Annientata dalle ferite subite dal suo corpo che l’hanno resa impotente e senza speranza, si ritira in un silenzio immobile, diffidente e finanche aggressivo, come fanno gli animali feriti. Allontanando persino i suoi cari, alcuni disperati, altri colmi di rabbia per l’accaduto. Così, per tornare alla vita, Allegra deve intraprendere una lunga lotta per ritrovare sé stessa e affrontare i suoi fantasmi. In questo contesto incontra Arad, un giovane rifugiato del Medio Oriente. Veniamo alle annotazioni positive. Il primo aspetto che colpisce è l’ambientazione. Il regista e il direttore della fotografia (Pietro Zuercher) sono stati bravi a filmare un Ticino diverso: piovoso e buio. Ne esce un territorio che seppur catturato nei suoi luoghi caratteristici (montagne, laghi e città), non diventa la solita Sonnenstube da cartolina a cui siamo abituati. Un’atmosfera cupa (soprattutto quella cittadina) che ben si abbina all’oscurità che aleggia nell’animo della protagonista e che in qualche modo lo sottolinea. In generale Atlas è filmato piuttosto bene con la camera che indugia spesso e volentieri sulla protagonista, come un film di Loach o dei Dardenne, anche se bisogna
La brava Matilda De Angelis è la protagonista del film.
dirlo: il realismo raggiunto nel film di Castelli non è mai al livello dei registi appena citati. Riuscito pure lo sviluppo della storia. Il difficile percorso di rinascita di Allegra, che si alterna a flashback nei quali si ricostruisce, come un puzzle, quanto è successo, è interessante. Infatti, solo dopo la metà del film si ha tutto più chiaro, e soprattutto chi ha un minimo di memoria si ricorderà del tragico attentato di Marrakech che sconvolse il Cantone qualche anno fa. Un modo per mantenere alta la curiosità nello spettatore e per evitare il melodramma e la lacrima facile. Buona anche la rappresentazione dei desideri giovanili. La vita dei ragazzi che abbina il desiderio di libertà (le scalate tra amici) alla voglia di socializzare (i concerti, i bar e la condivisione di un appartamento) è uno sfondo credibile per la vicenda. Ed eccoci ad alcuni aspetti più discutibili. Anzitutto la recitazione. Se la bravura di Matilda De Angelis è fuori discussione, qualche perplessità emerge per il suo accento troppo lontano dalla nostra realtà. Sempre restando sull’aspetto recitativo, qualche riserva su alcune performance (penso al padre e al protagonista che interpreta Arad, il rifugiato musicista) le segnalo. Così come annoto qualche tematica non troppo sviluppata. Per esempio, il lato più leggero della ragazza (che intravediamo nel tentativo di seduzione di Arad) non aggiunge nulla al suo carattere né al percorso che sta effettuando. Così come risulta secondario il filone tematico legato alla paura dell’altro, del diverso. Se nell’intenzione del regista doveva essere questo il focus, nei fatti e nelle immagini ci si concentra di più sul travaglio personale e la rinascita, a prescindere dal diverso. L’impressione è che la questione della diversità sia solo un pretesto e non venga mai affrontata davvero. Atlas è un bel salto in avanti rispetto a Tutti Giù (la prima fiction di Castelli). Il regista non è ancora del tutto a fuoco però, ci sono ancora aspetti da meglio inquadrare, una ricerca cinematografica da sviluppare e soprattutto una voce personale da affinare. Ecco, Castelli deve trovare la libertà di quel cane che vaga nella notte per le strade di Lugano, deve ancora diventare unico. Senza per forza omaggiare il coyote di Collateral che fa la stessa cosa in quel di Los Angeles. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
L’inconfessabile desiderio di sbagliare Editoria/1 Nella Città dei vivi Nicola Lagioia sviscera l’insensato
omicidio di Luca Varani sullo sfondo del caos di Roma Capitale Laura Marzi In francese si chiamano faits divers: è la cronaca. I grandi narratori come Flaubert, Maupassant, Balzac trovavano spesso ispirazione per i loro romanzi a partire da ciò che leggevano sui giornali, al caffè. La cronaca racconta i fatti dell’umanità, la letteratura può trarne una visione. Il caso dell’uccisione di Luca Varani ha travolto l’opinione pubblica in Italia nel 2016. Il ragazzo di ventitré anni è stato torturato e ucciso in un appartamento di Roma, senza nessuna apparente ragione. La brutalità con cui Manuel Foffo e Marco Prato si sono accaniti contro il giovane per ore non ha movente: non c’erano di mezzo soldi o questioni personali. I due, rinchiusi nell’appartamento in cui si svolse l’omicidio, da giorni a consumare cocaina e a bere alcolici, giunti a una sorta di accordo delirante, hanno invitato Varani, lo hanno drogato con un cocktail di alcol e psicofarmaci e lo hanno massacrato.
Questo è il caso su cui si concentra La città dei vivi edito da Einaudi, l’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, scrittore italiano già vincitore del premio Strega nel 2015. Il narratore è un giornalista a cui viene proposto di fare un reportage sul caso Varani. In un primo momento si rifiuta, ma poi risucchiato da una curiosità invincibile e da una certa identificazione con la storia della vittima, inizia il suo lavoro di inchiesta. Il romanzo, allora, è un collage dei molti punti di vista coinvolti, dei protagonisti e delle comparse. Lagioia ricostruisce l’intero lavoro di indagine attraverso il personaggio del giornalista narratore, che nel romanzo incontra infatti tutti coloro che sono stati contattati dalle autorità, perché nel giro degli assassini e della vittima: gli amici di Luca Varani, coloro che lo conoscevano solo come un ragazzo solare e gentile e quelli che sapevano del vizio che aveva di giocare alle macchinette, di come non riuscisse mai a tenersi un soldo in tasca. E poi Filippo. L’unico che lo aveva accompagnato in macchina
dai clienti con cui Luca si prostituiva per avere contanti in tasca, magari per portarci a cena la fidanzata, Marta Gaia, con cui aveva una relazione da nove anni. Sono molti coloro che conoscevano Marco Prato, organizzatore di eventi e che compaiono nel testo con le loro opinioni sui fatti. Meno numerose invece le persone che frequentavano l’altro assassino, Manuel Foffo, che conduceva una vita più solitaria, dedicata soprattutto a cercare di riscattarsi da quello che ha sempre dichiarato essere il suo vero problema: il rapporto col padre, la preferenza che questi dimostrava nei confronti del fratello… Poi, i colloqui con gli altri ragazzi che erano stati invitati a quel festino dell’orrore prima di Luca e che si sono salvati. Coloro che hanno pensato, dopo aver saputo che cosa fosse successo, di aver scampato una morte atroce, e non hanno più potuto vivere come prima. Il romanzo si basa su una ricerca e uno studio del caso a cui Nicola Lagioia ha dedicato anni, continuando a inter-
Luca Varani: nel posto sbagliato con la gente sbagliata. (Facebook)
rogarsi sulle ragioni che hanno potuto spingere due giovani uomini della medio borghesia a torturare un ragazzo di borgata. Si sofferma sulle perizie psichiatriche, sulle opinioni di coloro che hanno lavorato all’omicidio: inquirenti di esperienza, travolti anch’essi da una violenza così smisurata, perché insensata. Nel libro Lagioia crea un parallelismo tra lo sprofondo infernale del caso e la perdizione della città in cui è avvenuto: Roma. Al tempo dell’omicidio la metropoli era commissariata, in uno stato di abbandono che si è perpetuato anche dopo le ultime elezioni. Accanto alla narrazione dei fatti del caso Varani corre parallela un’altra linea narrativa, dedicata a un’inchiesta che scoppiò poco dopo nella capitale italiana, relativa a una rete di pe-
dofili che agiva indisturbata tra le rovine di una città e di un paese in declino. Nel corso di tutto il romanzo il narratore prova a maledire il posto scomposto e mostruoso in cui si è trovato a vivere, Roma, poi desiste, proprio come ha fatto col caso Varani. Non voleva occuparsene, ma non ha resistito. In una storia talmente eclatante da non lasciare spazio a nessuna elucubrazione, a nessun ripiegamento, Lagioia pare solo non voler dimenticare come e quanto ognuno di noi, nel suo piccolo, sappia desiderare l’errore. Bibliografia
Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, pp. 472.
Scappando dal passato e dalla vita
Editoria/2 Nel romanzo di Alessandra Sarchi la resa dei conti di una donna con il passato,
il presente, e forse anche il futuro
Massimo Gezzi Potrebbe sembrare una storia tutto sommato lineare, quella che Alessandra Sarchi racconta nel suo quarto romanzo, Il dono di Antonia (Einaudi, 2020): una giovane universitaria italiana con una borsa di studio in California, Antonia Fabbri, dona un ovulo a un’amica conosciuta a Los Angeles, Myrtha, che non può avere figli e ne desidera, per poi
allontanarsi definitivamente da lei. Ventisei anni dopo Jessie, il figlio di Myrtha, che nel frattempo si è ammalata e gli ha svelato la vicenda della fecondazione eterologa, vola in Italia per conoscere la donatrice che gli ha fornito metà del suo corredo genetico e per ricostruire il suo passato. Eppure faremmo un torto ad Alessandra Sarchi e al suo felice romanzo se ci accontentassimo di ricomporne così la trama e di indicare nelle vicende appena accennate i temi più importanti che i lettori incontrano in queste pagine eleganti e scorrevoli. Perché la storia che ci racconta Sarchi, in realtà, è ben più complessa e tocca nodi sentimentali ed emotivi che si intrecciano con l’azione principale: Antonia, infatti, ha una figlia adolescente con problemi alimentari, Anna, che rifiuta la vicinanza fisica della madre e si distacca progressivamente da lei. Così la protagonista, che ha scelto da parecchi anni di dedicarsi all’alleva-
mento di capre da latte nella campagna intorno a Bologna, subisce ogni giorno dalla figlia, che la respinge e la combatte, la stessa scelta che lei ha compiuto ventisei anni prima, quando ha deciso di allontanarsi per sempre dall’amica californiana e da quel «figlio che non è figlio». Il dono di Antonia è un libro che parla del gesto del donare – come suggeriscono il titolo e l’immagine di copertina – ma anche di distacchi, di abbandoni, di maternità, di paure e di nodi non risolti che a un certo punto della vita e del romanzo vengono proverbialmente al pettine: con grazia e intelligenza narrativa, Sarchi a un certo punto ci fa scoprire, per esempio, che il dono dell’ovulo forse è stato anche un modo escogitato da Antonia per rimediare simbolicamente al senso di colpa che provava per aver deluso sua madre, da cui da giovane, appena entrata all’u-
niversità, era fuggita per sempre, come Anna ora fugge da lei. E se non cediamo al facile impulso di immaginare la fine della vicenda, ma ci soffermiamo a leggere tra le righe, ci accorgiamo che anche Antonia, come sua figlia, non ha abitato bene il suo corpo o ne ha avuto paura, specie quando l’idea o la realtà della gravidanza ne minacciavano l’integrità e l’armonia; o che la scelta di ritirarsi in campagna e di allevare capre, api e ortaggi è forse il modo che la donna si è costruita per continuare a fuggire la vita e il passato, illudendosi di potersi dimenticare di Myrtha e di Jessie. È proprio l’amica, invece, a costringere indirettamente Antonia a fare i conti con sé stessa: il legame tra le due donne, per lunghi anni custodito solo dalla riproduzione di un dipinto che entrambe possiedono (l’enigmatica Pala di Brera di Piero della Francesca), all’improvviso si materializza nella figura di
Jessie che vola in Italia e telefona ad Antonia per incontrarla. Proprio questo incontro e il lungo racconto che la protagonista offre al figlio di Myrtha rappresentano il gesto che sembra garantire ad Antonia la possibilità di accettare la sua imperfezione, il suo passato e le sue paure. All’antico dono dell’amica, Myrtha risponde molti anni dopo con un altro dono che l’autrice si guarda bene dal decifrare sino in fondo, perché quello che succede in casa di Antonia, sui colli intorno a Bologna, ci viene soltanto suggerito dalle ultime pagine: così i lettori e le lettrici di questo romanzo, come accade di norma quando si incontrano libri importanti, lo chiudono con una risposta e un finale individuali. Bibliografia
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Onorino non si sposa più Se hai un amico torinese non ti mancheranno mai i suoi consigli non richiesti. Onorino Pautasso, che grazie al suo carattere si faceva ben volere, aveva un sacco di amici torinesi e non poteva fare una mossa senza essere inondato da consigli. Un giorno, seduto alla sua scrivania, prese a massaggiarsi con una smorfia di dolore la mano sinistra. «Cos’hai?», gli chiese premuroso un collega e amico. «Ma niente, non sento più la mano, si dev’essere intorpidita». «Infarto», sentenziò l’amico fraterno, «è un sintomo infallibile, chiamo subito l’unità coronarica, se si interviene in tempo ti salvi, al limite resti paralizzato». A momenti, a questo annuncio, gli veniva un mezzo infarto, mentre da altre scrivanie si alzavano voci discordi. Una collega gli metteva nella mano malata dei cubetti di ghiaccio e gliela strofinava con dei limoni tagliati a metà; un’altra accendeva una candela e gli versava sul dorso della mano la cera bollente. Tutti convenivano su un punto: Onorino doveva stare sdraiato.
Sgombrata in un attimo la sua scrivania, lo fecero sdraiare supino sul ripiano. In quella posizione lo trovò il gran capo che accompagnava in visita un ispettore venuto da Roma. «Ma non avete un pronto soccorso?», si stupì quando gli ebbero illustrata la situazione. «Sì, ma lui ha insistito così tanto che non abbiamo voluto contrariarlo», spiegò l’amico che era stato il primo a diagnosticare l’infarto, «il nostro collega è ipocondriaco, al primo lieve sintomo lui pensa subito che si tratti del cuore». Onorino, pur essendo in vista dei quarant’anni, non si è ancora accasato. Il pensiero che un maschio adulto si aggiri senza legami nella savana del rapporto fra i sessi risulta intollerabile a coloro che quei legami li subiscono. La parola d’ordine: «Bisogna trovargli una brava ragazza». Ecco le serate combinate in casa o in birreria, le manovre per far sedere i due piccioncini vicini a tavola o sul sofà, quell’adocchiarli senza farsene accorgere. Ogni volta che incrociava uno sguardo indagatore che
subito scantonava, a Onorino pareva di trovarsi nel ruolo di un cane di razza che i padroni fanno incontrare con un esemplare dell’altro sesso e poi spìano ansiosamente dal buco della serratura per vedere se i due convengono a congresso carnale. Qualcuno, per lo sforzo di occhieggiarlo di traverso, rischiava di diventare strabico. Il padre di Onorino per dire che un tale aveva gli occhi storti, usava l’espressione: «Mentre ti parla con l’altro occhio controlla che nessuno rubi i formaggi messi a stagionare sull’asse». Onorino era disposto a tutto pur di compiacerli. Se gli amici che avevano combinato il primo incontro erano ansiosi di indagare se la ragazza che gli avevano fatto conoscere gli era piaciuta, lui rispondeva sempre di sì, che non vedeva l’ora di sposarla. Poi qualcosa nelle mosse successive andava storto e il matrimonio non si combinava. Il fatto è che Onorino si sentiva in dovere, anche nel corteggiamento, di seguire i consigli non richiesti degli amici. C’era chi gli consigliava
di non farsi vivo per un po’: «Credimi, in amore è sempre meglio essere preda che cacciatore». Così quando, dopo un congruo periodo di latitanza, si faceva vivo con una telefonata, scopriva che la sua promessa aveva preso a uscire con un altro corteggiatore. Un altro gli consigliava: «Sbalordiscila, inondala di fiori, di inviti, di regali, piuttosto fai un mutuo ma ricordati che alle donne piace essere corteggiate». E l’oggetto del desiderio conclamato confidava all’amica di Onorino che gliel’aveva fatta conoscere: «Il tuo collega potrebbe anche non dispiacermi, ma non mi metterei mai con uomo che spreca i soldi in quella maniera, pensa che ogni giorno mi manda cinquanta rose rosse». Un giorno gli dicevano: «Devi mostrarti fragile, insicuro, bisognoso di aiuto, devi assecondare l’istinto materno delle donne». Lui seguiva il consiglio, raccontava che aveva paura del buio, che durante i temporali andava a nascondersi sotto il letto, che la vista di un fiore reciso lo faceva piangere calde
lacrime e il responso era: «Io cerco un compagno non un malato da assistere». Un giorno Onorino Pautasso tornò al paese invitato al matrimonio di un cugino e lì conobbe una ragazza con la quale si fidanzò senza passare attraverso i consigli degli amici. Ma che si sarebbe sposato fu costretto a dirlo se non altro per chiedere al capo la firma sulla richiesta di permesso matrimoniale. Di conseguenza i consigli degli amici, se prima erano una pioggia insistente, ora diventarono una tempesta. Devi dare una festa di addio al celibato, no, non si usa più, piuttosto pensa alle bomboniere, ma quando mai? Non hai visto in tv il servizio sull’infanta di Spagna? Devi farti fare il filmino, no, è volgare, la lista nozze devi metterla almeno in tre negozi, no in quindici. All’ennesimo consiglio non richiesto, Onorino alzò la testa e annunciò: «Ho cambiato idea, non mi sposo più». Era la prima volta che diceva una bugia ai suoi amici, ma quando ci vuole ci vuole.
Allora ogni tanto va a Parma, tutto immalinconito, parcheggia, e poi non sa dove andare, dove cercare; Parma invece che accogliente gli risulta fredda, inospitale, e girovagando per Parma pensa allora che se fosse nato a Piacenza avrebbe avuto di sicuro una fidanzata, che continuava a risiedere anche in quel momento a Piacenza. Dunque sia a Parma, sia a Piacenza c’era una ragazza innamorata di lui, e se non proprio innamorata, c’era una ragazza con cui avrebbe fatto l’amore, e poi magari l’avrebbe rifatto e si sarebbero intesi. Nella vita sono cose bellissime, che è un delitto lasciarle scappare. Parma è stata la prima ipotesi, per via che era a portata di mano, ma poi ha pensato che in qualunque città fosse nato, lì c’era inevitabilmente la sua ragazza, a cui sarebbe piaciuto, e si fosse presentato anche adesso, non c’era motivo non dovesse piacerle. Quante città
ci sono in Italia? Che fanno provincia ce ne sono 110, ma considerando anche le cittadine e i paesi che fanno comune, ce ne sono 7903, e quindi esistono 7903 ragazze che lo stanno aspettando, o che comunque si presentasse, non sarebbero restie, anzi, direbbero: finalmente ti ho conosciuto. Questa è stata l’epoca dei rimuginamenti del mio amico e dei calcoli. Poi ha pensato a internet. Ha postato la sua foto, anzi diverse foto, adatte ciascuna secondo lui a una regione, perché nascendo in un posto uno prende l’aria del posto. Voleva scriverci sotto: «la ragazza tra i 25 e i 35 anni che pensa di riconoscermi come suo amante o fidanzato finora mancato, mi scriva allegando foto e certificato di nascita». Poi ha soprasseduto, pensando di apparire troppo pignolo, e ha scritto: «cerco la mia ragazza, gradisco foto». Poi ha corretto: «cerco ragazza per dividere momenti d’intimità». La
foto l’avrebbe chiesta dopo. E tante hanno risposto. Ha incominciato con i comuni limitrofi, ne sceglieva una che l’ispirava, poi combinava l’incontro. Diverse sono risultate a pagamento, per non offenderle consumava e pagava; altre l’hanno derubato; altre non risultavano uguali alla fotografia, altre, anche fosse nato nella loro città non erano adatte, non si innamorava, ci provava, ma niente. Non escludeva le prostitute purché fossero nate in quella città, magari l’avrebbe incontrata prima che si prostituisse, chi può dirlo? Ha viaggiato molto per alcuni anni. Poi si è convinto che una prostituta di Parma era lei, è diventato cliente fisso, costava poco, era comoda. Se fosse nato a Parma l’avrebbe salvata dalla prostituzione fidanzandosi prima; adesso era troppo tardi, però l’aveva trovata, e l’accettava così; dispiacendosi solo di non essere fin da subito nato nell’altra vita.
Ci sono autori che amano metterci, nelle soglie dei loro libri, tutto ciò che possono, non solo nome e cognome, ma vita, opere senza omissioni, fotografie. E ci sono autori che preferiscono tenersi nell’ombra. Céline disse al suo editore: «Odio le foto! Diletto da scimmie: attori! Politici!». A Calvino, redattore e ufficio stampa einaudiano, che nel 1952 gli chiedeva un ritratto in prossimità dell’uscita de I ventitré giorni della città di Alba (6–), Beppe Fenoglio rispose che era da sette anni che non si faceva fotografare. Sciascia non chiese mai uno scatto all’amico fotografo Ferdinando Scianna, che pure gliene fece a centinaia per circa due decenni. Solo in extremis, quando capì che stava morendo, in maglia della salute e con i capelli cortissimi, Leonardo gli disse: «Fammi una fotografia», ben sapendo che sarebbe stata l’ultima. Nei casi migliori, l’editoria non lascia nulla all’improvvisazione, ma molto dipende dal rapporto (di forza) tra editore e scrittore, oltre che dalla consapevolez-
za, dall’understatement o dal narcisismo di quest’ultimo. Spesso vanità ed esigenze di marketing vanno d’accordo, specie se l’autore o l’autrice sono molto giovani, carini, spiritosi, televisivi, fotogenici, corretti, scorretti, diversi, uguali, dandy, outsider, maledetti, bruschi, impegnati in qualcosa, molto qualcosa al punto da fare di quel «qualcosa» il proprio brand. A volte sparire è meglio che apparire, come insegna il caso di Elena Ferrante, che decisamente alla lunga si è avvalsa (meglio avvals*), oltre che del suo talento, anche del mistero da cui è avvolt*. L’asterisco è usato da Notarberardino nell’introduzione, in cui si rivolge al lettore e alla lettrice con ironia, confessando il suo «colpevole divertimento» nello studiare le soglie e nello scriverne. Divertimento che è sempre un’ottima premessa per catturare il lettore e la lettrice al di là dell’efficacia di tutte le soglie, le sogliole o le «fascette per le allodole». Tra le dediche ne cito una sola. Quella che apre Ladri di biciclette (5), il romanzo di Luigi Bartolini, uscito con
l’editore Polin nel 1946, circolato in pochissime copie ma capitato nelle mani di Cesare Zavattini, che lo propose per un film a Vittorio De Sica (ne venne fuori un capolavoro del neorealismo, 6+). Il romanzo fu ripubblicato da Longanesi nel 1948, ma la dedica rimase la stessa: «Ai ladri romani, pregandoli di non rubarmi la bicicletta per la quarta volta». Devo ammettere che ho scelto la dedica di Bartolini per poter concludere questo articolo ricordando un fatto di cronaca edificante. Dai ladri di biciclette ai ladri d’auto del nostro tempo. Quelli di Bari, che la scorsa settimana hanno rubato una Fiat Doblò, ma quando hanno saputo che la macchina apparteneva a una signora disabile, l’hanno restituita con tanto di biglietto di scuse: «Anche noi abbiamo un cuore. Scusateci non sapevamo della vostra patologia… Scusateci ancora…. I ladri» (6+++). Titolo del romanzo che ne potrebbe uscire: Anche noi abbiamo un cuore. Fascetta per le allodole: «Un capolavoro neorealista al tempo del Covid» (6 preventivo, ovvio).
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Le fidanzate mancate Un mio amico diceva: pensa! se io fossi nato in un’altra città, ad esempio a Parma, avrei avuto amici di Parma, compagni di scuola di Parma, una fidanzata di Parma, la quale però non è astratta, c’è; se non si è trasferita vive a Parma in via tale al numero tale, magari è una bellissima ragazza di cui sarei stato innamorato, e lei altrettanto, e il nostro amore sarebbe stato un romanzo. Lei magari si è accontentata di un altro perché a un certo punto della sua giovinezza ha sentito un vuoto, e il mio amico sostiene che il vuoto era lui, che però era in un’altra città, impegolato in amori non convincenti, con un senso di vuoto pure lui speculare. E non si sarebbe trattato di una scontentezza generica, dovuta ad esempio a un esaurimento nervoso, o ai postumi influenzali, o al lavoro impiegatizio monotono, ma alla mancanza di una persona precisa che però era difficile da individuare, e anche supponendo aves-
se un modo per individuarla, era poi difficile convincerla che la causa del vuoto di entrambi era il loro mancato congiungimento. Quindi il problema era doppio, anzi era triplo, perché se lui fosse nato a Parma, chissà che vita e che frequentazioni avrebbe avuto, sarebbe cresciuto diverso, con altri gusti, altro comportamento, altro vestiario e pettinatura, ed erano queste cose magari che a lei piacevano. Sì, però se lui era lui, fondamentalmente era sempre lo stesso, e lei in ogni caso l’avrebbe amato, magari si fosse presentato adesso, l’avrebbe guardato e gli avrebbe detto: «Sì ti amo, ma cambia pettinatura»; e lui l’avrebbe cambiata, come pure i vestiti, che problema c’è? E quindi lei è ancora là, attraente, desiderata da tutti, e lui lì come un povero pirla che non sa cosa fare, quando basterebbe una telefonata. Ma il numero, come fare ad averlo? E anche l’avesse, lei potrebbe aver cambiato gestore.
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Sulla soglia del libro «Nessun libro che parla di un libro dice di più del libro in questione». È un pensiero di Italo Calvino con cui si apre un libro sui libri: Fuori di testo di Valentina Notarberardino (Ponte alle Grazie, voto 5+). Perché «fuori di testo»? Perché vengono raccontati i cosiddetti paratesti, cioè quegli elementi che fanno parte del libro ma stanno fuori dal testo vero e proprio e che gli fanno da cornice. Copertine, titoli, risvolti, quarte di copertina, fascette promozionali, dediche e altri «margini». È la materia di cui si è occupato il critico (strutturalista) francese Gérard Genette in un saggio del 1987 intitolato Soglie. Le soglie spettano soprattutto all’editore, alla sua sensibilità, al suo gusto, alla sua abilità (commerciale). L’editore migliore è quello che cerca un’armonia tra la soglia e il testo, senza enfatizzare l’arredo e senza pensare che l’abito faccia il monaco anche in mancanza del monaco, cioè di un testo degno di essere pubblicato. Fatto sta che in genere, se il libro «funziona» , gli editori si prendono volentieri il merito di
averlo «vestito» bene; se «non funziona» se la prendono con l’ottusità del pubblico e (più velatamente) con la difficoltà dell’autore: nel gergo editoriale, definire «molto letterario» un romanzo è solo in apparenza un complimento, in realtà significa che ha poco pubblico. A parte ciò, quante volte abbiamo sentito dire che il successo di Va’ dove ti porta il cuore (4+) è dovuto anche al titolo (accattivante) e che le eccezionali vendite della Solitudine dei numeri primi (5) di Paolo Giordano sono anche (soprattutto) il risultato della straordinaria combinazione tra titolo e fotografia di copertina. Chissà se con il titolo originario cui aveva pensato l’autore, Dentro e fuori dall’acqua, il romanzo avrebbe avuto la stessa fortuna. Secondo me, detto molto cautamente, non va affatto escluso. Viceversa, non mi sento di escludere che se Il nome della rosa (5+) fosse stato L’abbazia del delitto, prima ipotesi di Umberto Eco, avrebbe avuto meno fascino. Ma del senno di poi son piene le fosse (delle case editrici).
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