Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’uso continuo degli smartphone sta peggiorando la nostra capacità di concentrazione: lo dice la giornalista Lisa Iotti
Ambiente e Benessere All’Ospedale Regionale di Lugano si studiano sintomatologia e intervento fisioterapico legati alla guarigione da Covid-19
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 8 febbraio 2021
Azione 06 Politica e Economia Gli Usa intendono contrastare l’avanzata del modello autoritario, anche in Birmania
Cultura e Spettacoli Nasceva cento anni or sono Beuys, grande protagonista della scena artistica internazionale
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Franco Banfi
Cetacei veloci come ghepardi
di Sabrina Belloni pagina 17
Big Tech alla resa dei conti di Peter Schiesser Si può essere sollevati che Twitter, Facebook, Youtube abbiano chiuso l’account di Donald Trump: da un mese si vive un salubre silenzio. Tuttavia, se questa decisione risolve un caso particolare, apre altre questioni, che in ultima analisi potrebbero costare care a questi social media (vedi Nesurini a pagina 27). La prima, fondamentale: è giusto che delle imprese private abbiano il potere di condizionare a piacimento il dibattito politico e culturale di un paese? Non dovrebbe essere lo Stato a definire i limiti della libertà d’espressione? La seconda è: se fino a ieri i proprietari dei social media insistevano a non considerarsi degli editori e quindi non responsabili dei contenuti che veicolano, con l’estromissione di Trump compiono un atto politico che dimostra un intento censorio, quindi di intervento sui contenuti – che cosa sono allora, editori o no? Se tanti hanno commentato la decisione di mettere a tacere Trump con un «era ora», altri hanno pensato «perché non prima?». L’ipocrisia dei social media è evidente: a parte il fatto che l’incitamento alla presa del Campidoglio non è stata comunicata da Trump via Twitter
ma in un comizio pubblico, in questi anni hanno permesso che il presidente americano pubblicasse migliaia di falsità, insulti, minacce, e tantomeno si sognano di censurare capi di Stato autocratici stranieri e messaggi che incitano alla violenza al di fuori degli Stati Uniti. I vantaggi economici derivanti dall’enorme udienza di cui gode l’ex presidente erano troppo appetibili, come lo sono tuttora nel resto del mondo. Se si vuole elogiarli per avere censurato Trump, si deve altrettanto criticarli per averlo aiutato a costruire il suo potere manipolatorio su decine di milioni di persone. Molto probabilmente, la conseguenza di queste contraddizioni sarà un intervento regolatorio delle autorità statali americane. Ad essere critici verso Facebook&Co non sono solo i democratici, anche molti repubblicani hanno il dente avvelenato per la censura di voci conservatrici. In queste condizioni è probabile che il Congresso riveda l’articolo 230 del Communications Decency Act, che dovrebbe garantire la «decenza» di quanto pubblicato in internet, ma in realtà riconosce ai social media di non essere responsabili dei contenuti che veicolano e concede loro la libertà di escludere un utente a piacimento. Questa impostazione è considerata superata da entrambi
gli schieramenti, i social media non potranno più sfuggire ad una regolamentazione che limiterà le loro libertà e imporrà nuovi doveri. Ma c’è un altro pericolo: in ottobre la commissione giustizia della Camera dei rappresentanti ha consegnato un rapporto di 450 pagine in cui accusa Apple, Google, Amazon, oltre che Facebook di pratiche monopolistiche. Una delle proposte della commissione è di impedire ogni nuova acquisizione, ma possiamo ipotizzare che in un Congresso a maggioranza democratica le voci che chiedono di smembrare le grandi aziende tecnologiche tornino a levarsi e con maggiore forza. Da quanto si legge, lo stesso Biden intende chiamare al Dipartimento di giustizia e ai vertici della Commissione federale delle comunicazioni delle persone molto critiche verso i Big Tech. Zuckerberg e compagni non dormiranno sonni tranquilli. Forse si chiuderà un’era selvaggia, quella in cui Internet, da luogo di massima espressione della libertà e della democrazia, si è trasformato nel paradiso del complottismo, dell’aggressività verbale, delle fake news. Ma definire quanta libertà possa sussistere nel web e quanto controllo istituzionale, quanta responsabilità addossare ai Big Tech, sarà un cammino molto lungo e complesso.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Attualità Migros
La lotta allo spreco funziona! Too Good to go Il progetto di recupero dei prodotti invenduti ha salvato
un quarto di milione di porzioni di cibo
Solidarietà Migros
propone la raccolta di fondi per associazioni
Per ritirare le Magicbox ricordate di portare un vostro sacchetto: se è uno di quelli riutilizzabili, ancora meglio.
Lo scorso anno i clienti di Migros hanno ordinato 250’000 Magic Box di Too Good To Go, salvando così dal deterioramento numerosi alimenti del supermercato, dei ristoranti e dei take away Migros. Il bilancio della collaborazione tra la Migros e Too Good To Go, lanciata un anno fa a livello nazionale, non può
quindi che essere completamente positivo. Nella lotta contro lo spreco alimentare la Migros fa leva su vari punti della catena del valore aggiunto. Riassumiamo i fatti: da gennaio 2020 Migros e Too Good To Go consentono di acquistare mediante un’app gli alimenti in eccesso delle filiali Migros.
Come partecipare Il funzionamento dell’applicazione Too Good To Go è semplicissimo: l’utente ordina e paga la sua Magic Box direttamente nell’app e la ritira mezz’ora prima della chiusura della filiale prescelta. Chi vuol essere ancora più sostenibile si porta con sé una borsa. I clienti possono anche usare
un Tupperware portato da casa o le ciotole riutilizzabili della Migros. Per le filiali e i ristoranti Migros, l’app Too Good To Go consente all’utente di scegliere tra le Magic Box vegetariane e quelle contenenti carne. Per i take away è invece disponibile una Magic Box standard con prodotti misti.
Un sostegno allo sport locale
Il contenuto delle cosiddette Magic Box dipende da quali prodotti sono rimasti sugli scaffali dei negozi, nei ristoranti o presso i take away. Tutti i cibi contenuti nelle Magic Box sono di qualità impeccabile. Il bilancio a un anno dall’inizio della collaborazione è, come detto, impressionante: nel 2020 i clienti hanno acquistato 250’000 Magic Box; è stato così possibile risparmiare l’equivalente di 625 tonnellate di CO2; questa cifra corrisponde a una doccia calda lunga 38 anni o a 623 voli da Zurigo a New York. La proficua collaborazione con Too Good To Go è soltanto una delle tante misure che Migros ha adottato per combattere attivamente lo spreco alimentare. L’impegno di Migros comincia già dai produttori: Migros acquista infatti dai contadini grandi quantità di frutta e verdura che non soddisfano gli usuali standard visivi. I
prodotti vengono elaborati nell’Industria Migros propria e trasformati nei canali gastronomici, per esempio, in zuppe, salse e succhi. Inoltre, i prodotti non conformi a suddetti standard vengono offerti nelle filiali tra gli articoli della linea M-Budget. Una parte considerevole dei prodotti che scadono a breve vengono donati da Migros a organizzazioni caritatevoli come Tavolino magico, Tavola svizzera o Partage. Nel 2019 sono stati contati quasi sette milioni di porzioni (2097 tonnellate di alimenti). Migros sperimenta altresì tecnologie innovative che servono a impedire lo spreco alimentare. Attualmente, per esempio, tiene in assortimento avocado che sono rivestiti da uno strato vegetale aggiuntivo. Questa cosiddetta pellicola «Apeel» aiuta i prodotti a rimanere freschi più a lungo.
Un settore a cui la pandemia sembra aver inferto un duro colpo è quello delle associazioni. Migros, che dimostra da sempre una grande sensibilità per il tema delle associazioni e per il volontariato, ha creato una piattaforma online in cui le associazioni possono trovare consigli concreti per affrontare questo difficile periodo: www.vitaminab.ch. Una delle iniziative attualmente lanciate è il programma «Support your Sport» che si propone di raccogliere 3 milioni di franchi per promuovere le associazioni sportive dilettantistiche in Svizzera. I fondi vengono distribuiti sotto forma di cosiddetti «buoni sport», disponibili dal 2 febbraio al 12 aprile 2021. Per ogni 20 franchi spesi nei supermercati Migros, online su shop.migros. ch e da SportXX il cliente riceverà un buono sport che si potrà poi destinare a un’associazione sportiva. Le associazioni stesse sono invitate a iscriversi nel sito www.wemakeit. com/pages/migros. Durante l’iscrizione possono chiarire il progetto per il quale chiedono il finanziamento da parte del pubblico.
L’impegno ecologico, anche su strada Mobilità Migros Ticino ha una nuova flotta di auto aziendali, Seat Leon Hybrid Mario Alberto Cucchi Migros Ticino da sempre riserva una particolare attenzione alla tutela dell’ambiente. Oggi, ancora una volta, lo dimostra con i fatti. In questi giorni la nuova Seat Leon e-HYBRID entra a far parte della flotta di auto utilizzate da Migros. Si tratta di quanto di meglio offre l’attuale tecnologia: una ibrida plugin di ultima generazione. Un’automobile alla spina. Leon può infatti ricaricare le batterie non solo durante l’utilizzo del propulsore termico e nelle frenate rigenerative, ma anche collegandola con il cavo dedicato alle colonnine di ricarica o alla presa di corrente domestica. Insomma, due auto in una. Si può viaggiare utilizzando solo il motore elettrico, oppure esclusivamente quello a benzina, altrimenti entrambi contemporaneamente lasciando scegliere all’elettronica. Il propulsore termico TSI da 1.4 litri, in grado di erogare una potenza massima di 150 cavalli, lavora in abbinamento con un’unità elettrica da 115 cavalli
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Per spostamenti fino a 50 km può viaggiare esclusivamente in modalità elettrica.
che si trova tra il motore a combustione e la scatola del cambio automatico DSG a doppia frizione. Le batterie agli ioni di litio da 13 kWh sono posizionate davanti all’asse posteriore in modo da esaltare le doti dinamiche e la tenuta di strada. L’autonomia? Seat dichiara una percorrenza teorica a zero emissioni fino
a 60 chilometri. Se invece si utilizzano entrambi i propulsori si possono percorrere anche 800 chilometri senza fare il pieno. Se per riempire il serbatoio di carburante bastano pochi minuti, il discorso cambia per le batterie. Utilizzando la presa di casa si fa una ricarica completa in meno di sei ore, ma i tempi si dimezzano nel caso in
cui si utilizzi una colonnina dedicata. Le auto ibride non solo sono amiche dell’ambiente, ma anche divertenti da guidare. Caratteristica dell’elettrico è infatti quella di fornire tutta la coppia disponibile sin da subito e un surplus di potenza quando è necessario. Per Leon Seat dichiara 204 cavalli complessivi.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
Tiratura 101’262 copie
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Al fine di gestire in modo ottimale l’utilizzo delle nuove ibride, Migros ha dotato i parcheggi della centrale logistica di ben nove postazioni di ricarica. Va detto che la mobilità sostenibile passa sì attraverso l’acquisto di nuove tecnologie, ma anche adottando comportamenti di guida virtuosi. Migros lo sa bene e perciò organizza corsi di guida ecologici per gli autisti dei camion aziendali. Da oggi anche gli utilizzatori delle Leon e-Hybrid dovranno adottare al volante nuove dinamiche che sono valide per tutte le automobili ibride plug-in. Due le più importanti. Innanzitutto per brevi e medi spostamenti, fino a 50 chilometri, si può utilizzare esclusivamente la modalità elettrica. Ma ancor più determinante è non aspettare l’esaurimento della batteria, ma caricarla ad ogni occasione. A casa, sul lavoro e nelle varie colonnine che, con il passare del tempo, saranno sempre di più. Non va dimenticato: il futuro del mondo in cui viviamo è frutto delle nostre azioni quotidiane. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Società e Territorio Con gli anziani da trent’anni Il Servizio Anziani Soli di Mendrisio garantisce visite periodiche alle persone con più di 70 anni che vivono sole
L’eredità di Milesbo In occasione dei 150 anni dalla nascita Edy Bernasconi ha pubblicato la biografia di Emilio Bossi intitolata Libertà e laicità pagina 7
Suffragio femminile In una ricerca la storica Francesca Falk analizza come l’immigrazione italiana abbia dato un importante contributo all’emancipazione femminile in Svizzera pagina 8
pagine 6-7
L’era della distrazione di massa
Iperconnessione L’uso continuo degli
smartphone sta peggiorando la nostra capacità di attenzione, di comprensione dei testi complessi e di memoria
Stefania Prandi Non è semplice renderci conto di quale sia il nostro livello di dipendenza dagli smartphone e dalle notifiche dei social network. Gli esperti continuano a metterci in guardia sui danni dell’iperconnessione che, a lungo andare, peggiora la capacità di attenzione, di comprensione di testi e problemi complessi e di memoria. Eppure quando leggiamo o sentiamo gli avvertimenti pensiamo sempre si stia parlando di qualcun altro, non di noi. In 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione (Il Saggiatore), la giornalista Lisa Iotti riesce a farci precipitare, fin dalle prime pagine, nell’incubo degli effetti nefasti dell’uso indiscriminato dei cellulari combinati a internet. L’autrice stessa ha sperimentato di persona cosa significhi avere oltrepassato il limite – senza riuscire a tornare indietro – quando si è trovata a un ritiro di meditazione, al quale desiderava partecipare da anni. Nove giorni di assoluto silenzio, isolata dal resto del mondo. Una pratica radicale per «pulire i pensieri». Ma già dal primo giorno Iotti si è resa conto di non potere fare a meno del suo smartphone. Trascorreva le ore seduta a gambe incrociate bramando di tenerlo in mano e la sera, nella sua stanza, lo accendeva di nascosto, «scrollando» i social e rispondendo ai messaggi. Il senso di colpa e la consapevolezza di vanificare i benefici del ritiro non sono bastati a farla smettere. Gli smartphone ci costringono a uno stato di dipendenza, sostiene Lisa Iotti che ha iniziato la sua indagine con una puntata di Presadiretta, programma televisivo italiano condotto da Riccardo Iacona, intitolata «Iperconnessi». Da lì è partito il suo viaggio tra Stati Uniti ed Europa con interviste «alle menti che hanno fatto della Silicon Valley un centro di potere» e ai più celebri studiosi che si occupano dell’impatto cognitivo e comportamentale delle nuove tecnologie. Tra le testimonianze quella di James Wilson Williams, uno degli ex strateghi di Google, che ha abbandonato il colosso quando ha realizzato «che stava emergendo un potere nuovo, in grado di modellare le abitudini di milioni, se non miliardi di per-
sone: non si era mai visto nulla di simile nella storia dell’umanità». Williams – uno dei tanti pentiti della Silicon Valley, altri si possono trovare nel documentario The Social Dilemma, tra i più visti negli ultimi mesi sulla piattaforma di streaming Netflix – adesso insegna Etica della tecnologia all’Università di Oxford. È convinto che «l’unico obiettivo delle grandi compagnie digitali sia tenere l’utente il più possibile connesso, perché è così che guadagnano». Più si resta dentro a un sito e più cresce il conto in banca degli azionisti. «Google, Facebook, Instagram, tutte le piattaforme fanno soldi vendendo la nostra attenzione a inserzionisti, che a loro volta cercheranno di venderci qualcosa che con buona probabilità compreremo, perché è proprio quello di cui ci hanno fatto capire che abbiamo bisogno». Gli fa eco Ramsay Brown, tra i più brillanti esperti di neuroscienze applicate alle tecnologie in circolazione: «Le applicazioni in rete utilizzano software avanzati per manipolare e controllare il comportamento di utenti e le persone non hanno modo di combattere questa guerra per l’attenzione». Per aumentare il nostro engagement, termine che viene ripetuto da programmatori, insider, pentiti digitali – si può tradurre con «coinvolgimento», ma in inglese significa anche «fidanzamento» e «impegno» – le piattaforme fanno leva sui centri della ricompensa nel cervello, in particolare sul rilascio di dopamina, neurotrasmettitore associato alle sensazioni di benessere, che si attiva ogni volta che vediamo un like oppure la notifica di un nuovo messaggio. Patricia Marks Greenfield, docente all’Università della California, Los Angeles, molto nota negli Stati Uniti per i suoi studi sull’apprendimento umano, ha osservato con la risonanza magnetica che quando si riceve un like sotto una foto si illuminano le aree cerebrali del piacere, le stesse che si accendono quando si mangia un cibo gustoso oppure si hanno rapporti sessuali. Erik Peper, della San Francisco State University, spiega che anche quando non arrivano allarmi dallo schermo, ci agitiamo. «Se il cellulare
Lo smartphone fornisce una distrazione perenne anche quando non squilla e non arriva nessuna notifica. (Shutterstock)
non squilla o non arriva nessuna notifica, lo vogliamo controllare, perché l’uso di questi apparecchi ha rinforzato certi circuiti neurali e ormai ci aspettiamo sempre delle novità, che il nostro cervello brama. Siamo in continuo stato di allerta». Non è un caso che Chris Anderson, l’ex direttore della rivista «Wired», considerata la «bibbia» di internet, abbia vietato lo smartphone ai suoi figli perché, nella scala che va dalle caramelle al crack (il derivato dalla cocaina), «lo schermo è più vicino al crack». La sollecitazione ininterrotta causata dagli smartphone sta compromettendo la nostra capacità di concentrazione. Secondo una ricerca della Tate Gallery di Londra, quando visitiamo un museo ci fermiamo in media da-
vanti a un’opera d’arte otto secondi. Gloria Mark, «rockstar dell’antropologia digitale», studia i comportamenti delle persone sui luoghi di lavoro: dieci anni fa passavamo dallo schermo del computer a quello dello smartphone ogni tre minuti, adesso ogni quaranta secondi. Un tempo, come dice la stessa Mark, che non serve nemmeno a cominciare un «pensiero serio». «Abbiamo dimostrato che mentre le persone sono al lavoro e stanno facendo qualcosa di importante improvvisamente si fermano, prendono in mano il telefono, e si mettono a chattare o a controllare i social. Non possono più farne a meno». Per recuperare l’attenzione ci vogliono venticinque minuti e ventisei secondi, secondo Mark, perché i nostri cervelli non sono multitasking come
pensiamo. Inoltre, l’iperstimolazione è dannosa per la memoria, secondo Francis Eustache, uno dei più grandi esperti francesi della memoria e dei suoi disturbi, professore all’Università di Caen. Il vuoto mentale, indispensabile per rigenerare la mente, per riflettere e stimolare la creatività – è in quei momenti che arrivano le idee – è quasi annullato dalla distrazione perenne offerta dagli smartphone. Secondo Eustache, il problema è che viviamo in società dove «bisogna sempre andare veloci, rispondere immediatamente ai messaggi, reagire agli stimoli, avere continue sollecitazioni, e i momenti in cui non siamo dentro a questa dinamica ci sembrano buttati, come se fossero tempo perduto. Non andiamo più à la recherche du temps perdu».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
San Valentino è servito
Attualità Il 14 febbraio perché non concedersi del tempo per cucinare qualcosa di speciale insieme alla propria
dolce metà? Alcuni consigli per portare in tavola un gustoso manicaretto e idee regalo sempre apprezzate Fin da quando Eva invitò Adamo a spartire la sua mela, il connubio tra cibo e amore è indissolubile. Vi sono poi alcuni alimenti e spezie a cui per antonomasia vengono attribuite virtù afrodisiache, come per esempio il cioccolato, il peperoncino, le ostriche, lo zenzero, il tartufo, la vaniglia, le fragole e lo zafferano. Indipendentemente dai presunti poteri nascosti di questi cibi, il giorno di San Valentino è sicuramente un’occasione perfetta per regalarsi un romantico momento culinario con la persona amata, magari preparando insieme un’appetitosa ricetta, come quella che proponiamo in questa pagina. Il filetto di tonno non è solamente una pietanza ricercata e ricca di aromi, ma è anche facile da preparare ed è pronta in poco tempo, lasciando di fatto più tempo da dedicare a sé stessi. E per iniziare con brio perché non assaggiare un antipasto a base di sushi, i raffinati bocconcini della cucina giapponese a base di riso, pesce e verdure? E che dire del dessert, come dei piccoli muffin al cioccolato preparati negli stampini a forma di cuore: davvero un piacere senza eguali. Sicuramente per rendere la festa perfetta è d’obbligo anche un piccolo dono da accompagnare al piatto. In questo caso sono ideali le praline di finissimo cioccolato Giandor nella scatola cuoriforme e un bel pensiero floreale. I reparti fiori Migros per l’occasione hanno allestito un’ampia selezione di idee, tra cui i rigogliosi mazzi di rose Max Havelaar da provenienza sostenibile certificata e altri variopinti arrangiamenti creati appositamente per l’occasione.
Un piatto che conquista cuore e palato. Filetto di tonno (pinne gialle) per 100 g Fr. 5.– invece di 6.40 Azione 20% di sconto dal 9 al 13.2
Ditelo con i fiori sostenibili. Rose Max Havelaar 10 pezzi, 50 cm Fr. 13.95
Filetto di tonno al pepe e all’arancia Ingredienti per 4 persone 2 arance sanguigne non trattate 20 g di zenzero cucchiaino di pepe di Giava o pepe nero 1 fleur de sel 4 filetti di tonno di ca. 160 g ciascuno 500 g d’edamame surgelati nel baccello (ca. 220 g sgusciati) cucchiai d’olio di colza 3 2 cucchiai di senape granulosa olio per rosolare 50 g di portulaca
Amore al primo assaggio. Sushi Love 300 g Fr. 15.95
Un cuore pieno di dolci tentazioni. Frey Giandor Cuore 265 g Fr. 11.80
Specialità carnascialesca
Per portare l’amore in tavola. Formine in silicone Cuore 6 pezzi Fr. 9.95
Attualià I tortelli di carnevale sono un’irrinunciabile ghiottoneria
della tradizione ticinese Le specialità del periodo di carnevale hanno una lunga tradizione nel nostro paese. Tra le delizie diffuse nei cantoni d’oltre Gottardo si possono per esempio citare gli «Schwyzer Krapfen» di Svitto con ripieno di pera, gli appenzellesi «Bacheschnitte» fatti con latte, cannella, birra e, naturalmente, le frittelle di carnevale, conosciute ormai ovunque. Basilea, che ospita uno dei carnevali i più famosi della Svizzera, propone la «Fastenwähe», una sorta di bretzel di pasta lievitata e cosparsa di cumino in superficie. Anche il Ticino ha le sue tipicità, tra cui i tortelli di carnevale. Questi golosi dolcetti a base di pasta bignè farcita con crema chantilly all’aroma di marsala li trovate attualmente in vendita nei supermercati Migros. Sono prodotti dagli abili pasticceri del laboratorio artigianale di S. Antonino con ingredienti accuratamente selezionati. Tortelli di carnevale 220 g Fr. 7.50
Preparazione 1. Grattugiate la scorza delle arance, lo zenzero e mescolateli con il pepe e la fleur de sel. Sfregate il tonno con la miscela, copritelo e lasciatelo riposare per ca. 30 minuti. 2. Nel frattempo, lessate gli edamame in acqua per ca. 5 minuti. Scolateli, passateli sotto l’acqua fredda e sgusciate i fagioli. Pelate a vivo le arance. Con un coltello affilato, estraete gli spicchi d’arancia dalle pellicine raccogliendo il succo. Mettete da parte gli spicchi. Emulsionate il succo d’arancia raccolto con l’olio e la senape e condite con sale. 3. Levate la marinata dal pesce. Scaldate l’olio e rosolate il pesce a fuoco medio 2 minuti circa per lato. Al suo interno, il tonno può restare rosa. Sistematelo nei piatti con gli edamame, gli spicchi d’arancia e la portulaca. Irrorate con la salsa. Servite con del riso.
Novità mondiale in vasetto
I nuovi «Vegurt» V-Love con ceci ti regalano tanto gusto e preziose sostanze nutritive ad ogni cucchiaiata. A base di piante come tutti gli altri prodotti della linea V-Love, sono certificati dal marchio europeo V-Label per un’alimentazione vegetariana o vegana. Gustosi quanto gli yogurt convenzionali,
le cremose specialità sono in vendita nei maggiori supermercati Migros nei gusti vaniglia, fragola e albicocca. Sono prodotti in Svizzera dall’azienda del gruppo Migros Elsa. Con i prodotti V-Love seguire un’alimentazione vegana o vegetariana non è mai stato così facile.
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Idee e acquisti per la settimana
Nel rispetto dell’ambiente e della pelle dei bambini
Mondo bimbi I pannolini Rascal+Friends assicurano il massimo
Un sorso di vitalità Novità Un infuso biologico arricchito
di clorella che aiuta a rimanere in forma
comfort per il vostro pargoletto
Bio Yogi Tea Clorella alla menta 34 g Fr. 4.70 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Rascal+Friends Walker Pants 5 36 pezzi Fr. 14.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Il marchio Rascal+Friends propone pannolini di elevata qualità, sviluppati pensando alla pelle sensibile dei bambini e senza l’utilizzo di sostanze chimiche nocive. Tra le innovative caratteristiche di questi prodotti si possono citare la fascia posteriore a vita alta, la protezione
doppia anti fuoriuscite, il nucleo 3D per un’assorbenza accresciuta, lo strato assorbente in morbidissimo tessuto non tessuto e il retro traspirante che permette alla pelle di respirare riducendo le dermatiti. I pannolini inoltre non contengono formaldeide, cloro, lattice, lozio-
ni o profumi che potrebbero irritare la cute dei bimbi. Infine, i prodotti Rascal+Friends sono certificati OEKO-TEX e Dermatest per l’assenza di sostanze dannose e allergeni cutanei, come pure PETA che esclude test sugli animali in un’ottica assolutamente vegana.
L’apprezzata linea bio Yogi Tea in vendita alla Migros si arricchisce di un nuovo prodotto salutare: la tisana clorella alla menta. Rinfrescante ed energetica, questa bevanda ayurvedica alle erbe contiene menta piperita, citronella e clorella. La clorella un’alga verde d’acqua dolce, dal sapore dolciastro, oggi considerata un superfood
grazie alle sue riconosciute proprietà benefiche. Contiene infatti vitamine, sali minerali, antiossidanti e omega-3. È utile per rinforzare il sistema immunitario e aiutarlo a disintossicarsi e depurarsi. Per gustare appieno la bontà della tisana, lasciare una bustina in infusione in 250 ml d’acqua bollente per almeno 5 minuti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Società e Territorio
Da trent’anni vicini agli anziani
Mendrisio Il Servizio Anziani Soli si basa sulla collaborazione tra l’Ufficio antenna sociale e la Polizia comunale
garantendo sicurezza e visite periodiche alle persone con più di 70 anni che vivono sole Stefania Hubmann Sicurezza pubblica e visione sociale sono i pilastri di un intervento a favore degli anziani soli che la Città di Mendrisio ha avviato da pioniere trent’anni orsono. Un servizio il cui perno è la relazione umana che si instaura fra donne e uomini di oltre 70 anni residenti soli al proprio domicilio e l’agente di polizia che mensilmente li va a trovare. Con il sergente Fiorenzo Rizzi, da oltre dieci anni impegnato in questo compito, e Sonia Zanetti, assunta nel 2000 quale prima operatrice sociale e oggi responsabile dell’Area anziani dell’Ufficio antenna sociale, ripercorriamo la loro lunga esperienza a favore delle persone anziane di Mendrisio, alle quali la prossima primavera sarà dedicata anche una mostra fotografica itinerante. L’iniziativa, promossa l’anno scorso per sottolineare i 30 anni del Servizio Anziani Soli (SAS), è stata rinviata a causa della pandemia, evento che ha accentuato l’importanza di questa prestazione. Solitudine e senso di sconforto possono essere dietro l’angolo quando si vive soli. La pandemia, caratterizzata da un isolamento imposto e prolungato, ha intensificato il bisogno degli anziani privi di una compagnia quotidiana di mantenere il contatto con figure di fiducia. Il SAS di Mendrisio ha risposto in modo adeguato a questa esigenza, perché ha potuto contare su un’organizzazione collaudata che in tre
decenni si è progressivamente adeguata all’evoluzione delle esigenze di questa fascia di popolazione. «Siamo inseriti in una rete familiare e di servizi che contribuiamo a rafforzare per prevenire situazioni di isolamento e necessità», spiega Sonia Zanetti, precisando come numerose persone anziane siano comunque ancora molto attive, in famiglia e nella società. «Ogni anno contattiamo cittadine e cittadini che hanno compiuto 70, 73, 76 anni e oltre, proponendo un incontro conoscitivo con un operatore sociale della Città. L’incontro avviene solo se desiderato ed è finalizzato a far conoscere il Servizio come pure a raccogliere dati sulle risorse personali degli anziani identificandone i bisogni». Il numero delle persone contattate è aumentato costantemente negli anni, raggiungendo quota 634 nel 2019. La scorsa primavera, in piena pandemia, si è profuso uno sforzo supplementare, contattando tramite telefonate e lettere 1384 anziani soli. Di questi 41 hanno richiesto una prima visita da parte di un operatore, facendo aumentare del 23% sull’arco del 2020 tale esigenza. La lista delle visite mensili effettuate dal sergente di polizia Fiorenzo Rizzi comprende al momento 46 persone. Agente di provata esperienza, con all’attivo 22 anni di servizio a Chiasso e 11 a Mendrisio, Fiorenzo Rizzi svolge con passione questo compito ricambiato dall’accoglienza riservatagli dalle cittadine e dai cittadini che incontra al
Il sergente Fiorenzo Rizzi durante una delle visite di cortesia mensili. (Ti-Press/Davide Agosta)
loro domicilio. «Ho notato che apprezzano da un lato il senso di sicurezza che infonde la presenza di un agente in divisa e dall’altro il carattere amichevole dell’incontro. Alcuni all’inizio sono un po’ riservati, poi con il trascorrere dei mesi fiducia e confidenza aumen-
tano. Raccontano volentieri vicende personali legate alla famiglia, alla passata attività professionale e agli attuali passatempi. Sono storie interessanti, poiché alcune persone hanno vissuto eventi straordinari, come una signora sopravvissuta alla valanga di Airolo del
1951». Il sergente Rizzi in genere dedica a questo compito la mattina con visite di circa 45 minuti. Precisa al riguardo: «Questo lasso di tempo è necessario affinché l’incontro abbia un senso per la persona anziana. Quest’ultima deve potersi esprimere e raccontare. Si diAnnuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Società e Territorio scutono argomenti diversi, anche se nell’ultimo anno la paura e le domande sull’emergenza sanitaria sono diventate preponderanti». Una signora di 84 anni che abbiamo contattato tramite il SAS conferma la grande fiducia che nutre in Fiorenzo Rizzi. «Mi sono trasferita da una villa in un appartamento e sto bene, ma ho pochi contatti sociali. Grazie alle visite del signor Rizzi – persona seria, professionale e nel contempo molto alla mano – mi sento sicura e sollevata». Come lei, altre persone anziane attendono con impazienza il successivo incontro. Racconta ancora il sergente Rizzi: «Un signore 92enne che vive con il suo cane in un’occasione mi ha fatto notare che era trascorso più di un mese dall’ultima visita. Ero sicuro di averlo visto anche il mese precedente, però lui aveva contato i giorni ed erano effettivamente più di trenta». La disponibilità del sergente, facilmente raggiungibile e pronto ad aiutare con piccoli gesti le persone anziane, lo rendono particolarmente benvoluto. Risulta così più semplice anche il suo compito di monitorare le situazioni individuando ciò che esula dalla normalità. In questi casi si rivolge ad un’operatrice dell’Antenna sociale per i necessari approfondimenti. La collaborazione fra i due rami del SAS è molto stretta come dimostrano anche i regolari incontri di aggiornamento. Consulenza e visite di cortesia si adeguano alle necessità dei singoli, manifestate in diversi casi dai familiari. Sonia Zanetti: «Negli ultimi anni abbiamo constatato di rappresentare una risorsa sempre più significativa per i familiari degli anziani che vivono soli. La consulenza è richiesta soprattutto per riuscire a strutturare una rete di servizi ed identificare le prestazioni di diritto. Sovente siamo chiamati ad accompagnare la persona anziana e la sua famiglia affinché i servizi di sostegno possano essere percepiti come un vantaggio e quindi attivati. Non bisogna infatti
dimenticare che la maggior parte degli anziani cerca di rimanere indipendente il più a lungo possibile, manifestando però sovente una percezione diversa delle proprie capacità fisiche e cognitive rispetto alla situazione reale». La nostra interlocutrice sottolinea come il lavoro del SAS punti ad interventi individuali nel contesto di una dimensione collettiva legata in primo luogo al quartiere. Vanno quindi sfruttate le molteplici risorse disponibili sul territorio (enti, associazioni) per raggiungere l’obiettivo di far sentire tutti i cittadini parte di una comunità. A questa visione contribuirà anche l’esposizione fotografica itinerante prevista appunto nei diversi quartieri della Città la prossima primavera. I ritratti di venti persone anziane con altrettante citazioni rifletteranno la loro identità in relazione al contesto di vita. Pandemia permettendo, saranno pure organizzati momenti d’incontro pubblici per ritrovare quella dimensione in presenza tanto importante non solo per gli anziani. Si potranno così festeggiare nel vero senso del verbo i 30 anni (+1) del Servizio, inaugurato nel 1990 per iniziativa dell’allora municipale Marco Bosia e del comandante della Polizia comunale Brenno Grisetti con il nome «Servizio anziani – persone sole». Un’iniziativa lungimirante, che ha visto e vede tuttora altri Comuni ticinesi interessati a sviluppare prestazioni analoghe. Il concetto di offrire senso di sicurezza e contatto personale alla popolazione anziana che vive sola rimane a distanza di trent’anni il fil rouge del progetto di Mendrisio. Entrambi i settori coinvolti, Polizia da un lato e Ufficio antenna sociale dall’altro, hanno affinato le rispettive competenze a beneficio delle mutate esigenze delle persone anziane e dei loro familiari. Un impegno che oggi è parte di una più ampia rete di collaborazioni.
La forza creativa delle idee
Editoria In occasione dei 150 anni dalla nascita e dei 100 dalla morte
è uscita una biografia di Emilio Bossi, curata da Edy Bernasconi Alessandro Zanoli Emilio Bossi (1870-1920), in arte Milesbo, nel corso della sua intensa carriera ha scritto e pubblicato molto, e oltre a questo si è impegnato in numerose iniziative politiche di rilievo, tanto da essere riconosciuto fra le principali personalità ticinesi attive nel periodo a cavallo tra 800 e 900. Le tracce della sua attività sono numerosissime e chi è interessato a avvicinare la «voce» delle sue idee, non deve far altro che rivolgersi all’Archivio dei quotidiani e dei periodici offerto dal Sistema Bibliotecario ticinese. Qui è possibile sfogliare gli archivi digitalizzati di almeno due degli organi di stampa su cui Milesbo ha dispiegato la sua attività. Una è «L’Azione» (da non confondere con il nostro giornale...) che ha diretto dal 1906 al 1911. L’altra, di cui è stato anche direttore, è «Gazzetta Ticinese». Vale la pena di andare a leggere quelle vecchie pagine perché vi si ritrova la penna di un uomo impegnato, appassionato, lucido, con una linearità del pensiero e una chiarezza di linguaggio che stupisce. In particolare se messa a confronto con quella di alcuni suoi contemporanei (Chiesa compreso): Emilio Bossi ha un discorso limpido, misurato e chiaro. Non che la sua argomentazione sia per questo tranquilla e piana. Anzi: le sue tirate sono generalmente battagliere e solenni, piene di un afflato positivista e costruttivo. Milesbo è stato durante tutta la sua vita combattivo e fortemente legato ai principi in cui credeva; sanguigno nei suoi
articoli, pronto ad affrontare gli avversari politici con una verve decisa e indomita. La stessa che si ritrova nei suoi libri, dai titoli ormai proverbiali come Gesù Cristo non è mai esistito, del 1904, o I clericali e la libertà, del 1909. Sono testimonianze che le nostre biblioteche conservano e che vale la pena di andare a rispolverare, proprio perché ci riportano i toni e le battaglie di un’epoca in cui la lotta delle idee era quotidiana e senza esclusione di colpi e in cui, potremmo dire, si cercava di adeguare il dibattito politico, e la conseguente legislazione, a concetti filosofici assoluti. Milesbo è stato un difensore del liberalismo, un propugnatore della libertà di pensiero e uno strenuo oppositore della tradizione clericale, cioè di
ogni assunto che infrangesse le regole del buonsenso e del pensiero positivo in nome della verità imposta dalla religione. Il libro di Edy Bernasconi (Fontana Edizioni) ci riporta in pieno in quell’epoca e, per chiarire gli avvenimenti che circondano e includono l’esperienza di Milesbo, si apre con un ampio excursus sulla politica cantonale partendo dall’Atto di Mediazione del 1803. La vicenda biografica di Milesbo, che è poi essenzialmente politica e ideologica, si intesse con lo sviluppo politico del nostro Cantone, in particolare in quel periodo di inizio 900 in cui le due correnti conservatrice e liberale si affrontavano in un duello quotidiano. Questo risuonava proprio dalle pagine dei giornali e riportava in Ticino l’eco di battaglie ideologiche che interessavano, del resto, tutta la realtà sociale e politica europea. Da notare come alcune istituzioni che noi oggi diamo per scontate, come la possibilità di scegliere la cremazione dei defunti, ad esempio, siano state oggetto di annose vertenze, di veti politico-ideologici che soltanto una strenua battaglia legale di Milesbo era finalmente riuscita a scavalcare. Libero pensatore, massone, uomo innamorato della verità e della giustizia, difensore delle classi sociali più deboli ma senza venir meno alla sua fiducia nella libera iniziativa dei singoli, Milesbo è sicuramente una figura che fa piacere ritrovare tra i nostri antenati. E ancora più solenne ci sembra ora il suo monumento, sulla piazza di Bruzella, davanti al quale viene voglia di fermarsi un momento. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Femminismo, i nostri progressi grazie anche alle immigrate italiane
Voto alle donne Francesca Falk e alcune testimoni dell’epoca ci raccontano come in Svizzera l’immigrazione
è stata utile nel percorso verso la parità di genere Sara Rossi Guidicelli Maria, arrivata nel 1960 da Parma, lavorava in una sartoria di Lugano. Con le colleghe svizzere si prendevano in giro: «Voi siete italiane, venite qua, da voi non c’è lavoro, ci rubate il nostro...», dicevano le ticinesi scherzosamente. «Beh, però almeno da noi le donne possono votare», rispondevano le italiane. Già. In Italia il voto era universale dal 1946.
«Credo che a un certo punto c’è stato il confronto: io avevo la mia paga, andavo in giro con la bicicletta e mandavo i figli all’asilo nido» Secondo Francesca Falk, storica, ricercatrice e docente all’Università di Berna, l’immigrazione italiana ha contribuito alla presa di coscienza e al movimento femminista della società svizzera. «Di solito si pensa agli stereotipi sull’uomo del sud, maschilista e patriarcale. Invece qua da noi c’erano famiglie italiane i cui genitori lavoravano entrambi e si dividevano i mestieri di casa meglio di tante famiglie svizzere. Queste cose venivano notate e hanno certamente fatto breccia in chi già stava pensando che una migliore ripartizione dei compiti fosse auspicabile». Falk due anni fa ha pubblicato la sua ricerca Gender Innovation and Migration in Switzerland per le Edizioni Palgrave Pivot. «Mia madre», racconta l’autrice, «quando è arrivata a San Gallo dall’Italia negli anni Sessanta, ha avuto l’impressione di fare un salto nel passato. Le donne non votavano, le spose avevano bisogno di un’autorizzazione da parte del marito per lavorare (la legge è cambiata solo nel 1988); di solito però non lavoravano e stavano a casa. Il ruolo di casalinga era esaltato e gli asili nido non erano ben visti dalla popolazione svizzera: in Svizzera tedesca le madri che lasciavano i propri figli a qualcun altro durante il giorno veni-
Operaie italiane impiegate alla Hero di Frauenfeld, 1952. (Keystone)
vano chiamate Rabenmutter (madri corvi)». Secondo lei, le italiane che arrivarono a migliaia negli anni Sessanta in Svizzera furono vettore di emancipazione per le svizzere. Per esempio, grazie a loro, aumentarono i posti negli asili nido; prima li frequentavano solo i figli di immigrati, poi piano piano sono serviti a tutti. «Una mia collega ha rilevato in una sua ricerca che le svizzere provavano spesso un sentimento di invidia verso le italiane che sapevano organizzarsi: lavoravano e a turno si aiutavano nella custodia dei bambini. Erano unite e i mariti le aiutavano. C’erano anche casi in cui una donna svizzera che sposava un uomo straniero continuava a lavorare mentre lui stava a casa... negli anni Settanta questo era rarissimo e succedeva perlopiù nelle famiglie miste». Genovina è arrivata giovanissima nel 1967 a Lucerna, con un permesso turistico per andare a trovare sua sorella. Visto che la fabbrica dove lavorava la sorella cercava altre operaie, Genovina ha pensato di rimanere e impiegarsi; è stata quindi spedita a Chiasso a fare la visita sanitaria. «Non me lo dimenticherò mai – racconta –. Dovevamo metterci in fila a torso nudo per farci
visitare. Ci facevano una radiografia e se qualcuno aveva anche solo un po’ d’influenza o se gli si vedevano tracce di una bronchite avuta in passato, lo rispedivano indietro. La Svizzera a quei tempi aveva bisogno di braccia e quindi considerava le persone solo come braccia». È rimasta a Lucerna per nove anni. «Ci guardavano come bestie rare. Noi giovani eravamo considerati un po’ meglio, ma le persone anziane, quelle che venivano dai paesi, gente umile, semplice, che non aveva studiato, venivano umiliate. Ma loro asserivano sempre: il caporeparto li chiamava “dumm, dumm” e loro rispondevano “jo, jo”. Stupido, stupido; sì, sì. Venivano derisi, mentre loro svolgevano lavori pesanti e umili. Poi per fortuna mi sono spostata in Ticino e lì mi sono trovata bene: almeno grazie alla lingua potevo mostrare che anche io facevo dei ragionamenti. Devo dire d’altronde che in Svizzera interna i ticinesi erano considerati alla pari degli italiani, almeno in fabbrica; le persone autoctone ci guardavano tutti noi italofoni dall’alto in basso, anche se i ticinesi erano svizzeri come loro». Però Genovina sorride quando le chiedo delle donne: «Io vengo dal Mez-
zogiorno e lì c’era una cultura maschilista, in quegli anni la donna non doveva dare giudizi, doveva fare solo i suoi doveri di casa. Però... però almeno potevamo votare. In Svizzera invece no. Era una contraddizione. L’ho scoperto quando ero già qua: un paese tanto evoluto nel mondo del lavoro, dei servizi, anche dell’emancipazione femminile in certi sensi... però votavano solo gli uomini. Mi sembrava strano. Le donne contribuivano alla società ma non votavano: un paradosso». Prima del 1971, una donna italiana che sposava uno svizzero perdeva il suo diritto di voto (non poteva infatti mantenere la doppia cittadinanza). Genovina racconta poi che nei paesi era ancora peggio rispetto alla città: in campagna le madri erano perlopiù a casa a occuparsi dei bambini. «Credo che a un certo punto c’è stato il confronto: loro vedevano che noi italiane eravamo più indipendenti. Io avevo la mia paga, andavo in giro con la bicicletta e mandavo i figli all’asilo nido. Ci hanno viste e forse, un po’, hanno avuto voglia di liberarsi e di prendersi dei diritti. Ricordo il primo voto come un boom, una liberazione. Una giustizia che finalmente viene fatta». Secondo Francesca Falk, la Svizze-
si spegneranno per sempre nel lago, Johnny non sarà mai l’ingegnere che sognava di diventare. E anche Tobi sarà vittima della sconcertante gratuità del male. Becky sopravviverà e non si stancherà di raccontare la sua storia (in un Diario e in svariate conferenze). Proprio quest’anno, per la Giornata della Memoria, il LAC con l’Associazione Svizzera-Israele ha organizzato un evento online con la testimonianza di Rossana Ottolenghi, figlia di Becky, e con un toccante video nel quale vediamo la stessa Becky raccontare molti degli episodi dai quali Ferrara ha tratto il suo libro (https://www. youtube.com/watch?v=5-nD2y2QgE). Tra cui la fuga in Svizzera, dove la prima cosa che le venne offerta (da un soldato elvetico, inizialmente e con terrore scambiato per tedesco) fu una tavoletta di cioccolato. Come ha sottolineato Rossana Ottolenghi, sono «leggerezza» e «grazia» a connotare il discorso della madre: a questa grazia, nell’intensità della tragedia, si è ispirato Antonio Ferrara, che è autore anche delle espressive e belle illustrazioni.
Guido Quarzo, Il bambino, la volpe e il buio, San Paolo. Da 8 anni Come nel precedente romanzo, 1958. Le storie in tasca, Guido Quarzo torna agli anni della sua giovinezza. Siamo in estate, in campagna, a casa dei nonni, dove il piccolo Nino si muove tra infanzia (il calore rassicurante della nonna, i giochi con i soldatini, le paure inconfessabili del buio e dell’ignoto) e preadolescenza (i discorsi tra uomini con gli amici del nonno, le prove di coraggio, le battute di caccia). In questo mondo contadino, dove nulla è edulcorato, dove galline e conigli vengono allevati per essere mangiati, e la realtà sembra spadroneggiare in tutta la sua materica presenza, ecco arrivare una volpe, che fa razzie nel pollaio. Sarà proprio la volpe, creatura la cui selvatichezza per certi versi sfuggente e misteriosa ha ispirato tanta letteratura (penso in particolare allo splendido racconto La volpe alla mangiatoia di Pamela Lyndon Travers, autrice di Mary Poppins, o a La signora trasformata in volpe di David Garnett, a cui lo stesso Quarzo afferma di essersi
ra era rimasta indietro per molti fattori; uno di questi è che non aveva partecipato alle due guerre mondiali e quindi non aveva avuto quella necessità di cambiare la società come gli altri paesi in Europa. Il suo boom economico poi aveva rafforzato le sue tendenze conservatrici. «Un’altra ragione – spiega – è la democrazia diretta e il federalismo, con molte votazioni per il diritto di voto alle donne bocciate a livello cantonale». In Italia invece il suffragio femminile era sancito dalla Costituzione già dal 1946 e nel 1948 sulla carta la parità di genere era già stata approvata (da noi questo avvenne nel 1981). Esisteva inoltre l’assicurazione maternità, a scuola l’orario era continuato, così i genitori potevano lavorare entrambi almeno di mattina, mentre in Svizzera era scontato che le mamme fossero a casa. Anche oggi, come allora, la società tende a vedere l’immigrazione sotto lo sguardo critico del «se vengono qui è perché da loro si sta peggio; quindi noi siamo migliori». Ma attenzione, sottolinea Francesca Falk. «La migrazione in realtà può fornire impulsi preziosi per il rinnovamento sociale, anche nella nostra Confederazione. Guardare la storia della migrazione senza vederla solo come un “problema” può darci una prospettiva nuova in base alla quale guardare il nostro passato e il nostro presente. E cambia così anche lo sguardo che proiettiamo nel futuro». Una prossima possibile ricerca per Falk riguarda il fatto che tra chi intraprende la carriera di «educatore per la prima infanzia» ci sono molti giovani uomini con un percorso migratorio. «Questo certo è dovuto in parte al fatto che i ragazzi con un cognome straniero fanno più fatica degli altri a trovare lavori ben pagati e quindi ripiegano a volte su mestieri meno retribuiti. Però, di nuovo, ci distoglie dal solito pregiudizio dell’immigrato machista. Chi lo sa, magari questi uomini faranno da apripista ai nostri ragazzi e alla nostra visione dei mestieri “femminili”». Questa volta dunque potrebbero contribuire all’emancipazione maschile? «Può darsi; in ogni caso, aiutano a combattere il pregiudizio e questo è molto importante».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Antonio Ferrara, La guerra di Becky. L’Olocausto del lago Maggiore, Le Rane Interlinea. Da 10 anni Un libro non solo per la Giornata della Memoria, ma per ogni giornata. Perché ai ragazzini, con il giusto linguaggio, si può parlare del male, affinché nel futuro – quando gli adulti saranno loro – non si ripeta mai più. Antonio Ferrara ha già scritto di temi analoghi (ad esempio nel recente La corsa giusta, sul coraggio di Gino Bartali, «Giusto tra le Nazioni») e l’impegno civile fa parte della sua intera opera. Un impegno che Ferrara sintonizza spesso su una prospettiva bambina attraverso la quale offrire la storia. La guerra di Becky è un bel titolo, e Becky è realmente esistita: Rebecca (Becky) Behar (1929-2009), ebrea di origini turche cresciuta a Milano e sfollata con la famiglia a Meina, sulla sponda piemontese del lago Maggiore, dove il padre aveva un albergo, quell’Hotel Meina in cui vennero tenute in ostaggio dai nazisti molte famiglie ebree, poi trucidate e gettate nel lago. Fu l’eccidio del lago Maggiore, la prima
strage di ebrei avvenuta in Italia, tra il settembre e l’ottobre del 1943. Non è di Becky la guerra, è di adulti assassini in cui ogni valore si è spento, ed è la guerra subita da milioni di persone innocenti. Tuttavia è la sua in questa storia, perché ce la racconta lei, con il suo sguardo (visivo e etico) quotidiano, che contempla anche i giochi con gli altri bambini (finché si potrà, prima di essere rinchiusi nella famigerata camera 402); l’amicizia (e forse il primo timido amore) con Johnny, dagli occhi azzurri brillanti come il lago; l’affetto che la lega al suo cagnolino Tobi. Gli occhi azzurri di Johnny
ispirato) a dare una svolta metafisica alla vicenda: Nino è così colpito da questa inafferrabile volpe da farla diventare una sorta di «animale totem», uno spirito guida al quale ispirarsi per trovare la forza di crescere. Diventerà egli stesso una volpe, come nel gioco del «facciamo che ero», e che lo diventi realmente o solo nei suoi sogni poco importa. Quello che importa è che essere un po’ volpe (quel meraviglioso ibrido bambino-animale di cui è intessuto l’immaginario infantile) lo aiuterà a diventare grande. Un racconto realistico e simbolico al contempo, una di quelle estati che ti cambiano la vita.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Mocambo, la lotta per la libertà Un certo senso comune, volonteroso e paternalista, ci ha abituato a pensare che la vicenda storica della schiavitù moderna abbia visto le sue vittime subire perlopiù in modo passivo violenze e soprusi impliciti alla loro condizione. Al di là dei singoli – tanto eroici quanto inutili atti di ribellione – si tende a pensare che la vicenda dell’abolizione della tratta, prima, e della schiavitù, poi, sia stata opera esclusiva di illuminati filantropi – Bianchi, benestanti e benemeriti. Si rischia allora di dimenticare come la Rivoluzione che vide gli schiavi di Haiti instaurare nel 1791 una Repubblica con la leadership del grande Toussaint Louverture precedette di un anno la proclamazione della Repubblica Francese rivoluzionaria – la stessa che, ironia della Storia, fu poi responsabile della fine della controparte haitiana. Meno noti, tuttavia, gli innumerevoli episodi di resistenza organizzata e
spesso armata che hanno punteggiato la storia della schiavitù nelle Americhe, e nella fattispecie nei Caraibi ed in Sudamerica. I Mocambo erano villaggi di piccole e medie dimensioni abitati per la maggior parte da schiavi di origine africana, mulattos e cablocos (meticci di discendenza europea ed indios) ma anche europei poveri, soldati disertori e renitenti alla leva. Noti anche come Quilombos, tali insediamenti cominciarono a sorgere in area periferiche spesso nel profondo delle foreste e sulle montagne non appena gli schiavi africani cominciarono ad arrivare in Brasile attorno al 1530. Da allora il loro numero continuò a crescere. Il Mocambo più importante, passato alla storia per la sua resistenza contro i portoghesi è quello oggi noto nella storiografia come Quilombo dos Palmares, nell’attuale Stato di Alagoas, Brasile Nordorientale. Cominciò
a svilupparsi nel 1605 per poi essere soppresso nel 1694. Si stima che alla fine della sua vicenda storica ospitasse fra gli 11 ed i 20’000 abitanti. La maggior parte provenienti dall’Africa Centrale e dall’Angola erano organizzati sulla base di capitanati elettivi e confederati nei quali il Capo risiedeva in una sorta di fortificazione chiamata Macaco. Quando i proprietari delle piantagioni cominciarono a lamentare fughe di massa di schiavi verso i mocambo/quilombo nascosti nelle foresta i Portoghesi decisero di farla finita. La sola Palmares si vide attaccata da ben sei spedizioni nel periodo fra il 1680 ed il 1686, ma tutte fallirono per la resistenza degli ex-schiavi. Questi combattevano con tattiche di guerriglia armati di archi, lance ed archibugi sottratti ai portoghesi oppure ottenuti dagli Olandesi che contendevano ai Portoghesi la supremazia nelle zone costiere. Risalgono a quegli anni
le prime notizie della pratica della Capoeira, un’arte marziale impiegata nei combattimenti corpo a corpo che oggi si svolge come una sorta di danza guerresca largamente praticata dai giovani neri brasiliani. Leggendaria maestra nell’arte della Capoeira ed eroina della resistenza del Quilombo dos Palmares fu la Regina Dandara. Le notizie peraltro frammentarie che abbiamo su di lei ci dicono che fin da giovane era stata un’irriducibile combattente contro la schiavitù come membro di una banda di guerriglieri formata da exschiavi. Sposò Zumbi, un membro della famiglia reale di Palmares, destinato a diventare l’ultimo Re del Quilombo dal quale ebbe tre figli. Quando nel 1630 i Portoghesi cominciarono ad attaccare Palmares, l’allora Grande Capo Ganga Zumba – zio di Zumbi – cercò a più riprese di negoziare la pace. Vi riuscì solo nel 1678, ormai vecchissimo. Il trattato
col governo di Pernambuco stabiliva che tutti i nati a Palmares fossero uomini liberi, che i residenti di Palmares catturati nel corso del conflitto fossero liberati e che gli stessi potessero dedicarsi liberamente al commercio. In cambio Ganga Zumba si impegnava non solo ad impedire che nuovi schiavi fuggiaschi si insediassero a Palmares, ma anche a consegnarli ai Portoghesi. A Palmares si gridò al tradimento. Dandara e Zumbi accusarono Ganga Zumba di essersi reso complice della perpetuazione della schiavitù e promisero resistenza ad oltranza. Ganga Zumba fu assassinato da uno degli irriducibili e Zumbi fu proclamato Re. Anni dopo Dandara fu a sua volta arrestata in un’imboscata. Piuttosto che tornare ad una vita da schiava decise di togliersi la vita davanti ai suoi carcerieri. Era il 6 febbraio 1694. Di lì a poco la vicenda del Mocambo dos Palmares si sarebbe conclusa.
dosi a un sondaggio effettuato da Patti chiari, pone una serie di domande sulle persone che non usano la mascherina. Ritiene quei dati molto interessanti ma manca, secondo lei, un’inchiesta che riguardi chi la utilizza regolarmente. Come sappiamo, Isabel è tra questi, anche se segnala non pochi disagi: «si bagna, fa sudare ma non è vero che non fa respirare. Si respira benissimo». Inoltre non sa, come sostiene una conoscente, se tutti devono fare il test e, nel caso, chi lo paga. Per questa e altre domande rinvio Isabel al Centro che frequenta o al suo medico perché le norme variano ed io non sono abbastanza competente per fornirle risposte esaurienti. Vorrei invece rimarcare il suo modo di reagire alla paura senza imprecare o lagnarsi, la sua capacità di darsi coraggio e di infonderlo agli altri. La prova che stiamo affrontando è indubbiamente durissima e non è vero che ne usciremo automaticamente migliori. Anche se colgo segnali positivi. Dal mio osservatorio vedo che l’empatia, intesa come capacità di comprendere l’altro, di mettersi nei suoi panni, sta moderando i conflitti di una società competitiva.
«Chi empatizza, scrive Elena Pulcini nel suo ultimo libro Empatie (Cortina Editore), “vede” di più (o si accorge di quanto abitualmente non vede) “sente” di più (la pena al pensiero della sofferenza dell’altro). La circolazione dell’empatia sta mutando la solidarietà umana rendendola meno astratta e formale. Il modo con cui ci prendiamo cura degli altri sta cambiando. Colpiti da una pandemia che non fa distinzioni, che può colpire chiunque in qualsiasi momento, ci sentiamo tutti “sulla stessa barca”», naufraghi alla ricerca di un porto sicuro. La compassione si sta attuando, non semplicemente con un gesto che appaga la coscienza, come partecipare a una raccolta di fondi per una causa umanitaria, ma anche col prenderci cura delle persone in difficoltà, non solo materiale. L’attenzione può essere così sensibile da raggiungere chi è talmente demoralizzato da rinunciare persino a chiedere aiuto. La cura di chi ha bisogno non riveste più l’aspetto caritatevole di un tempo, quando il ricco che donava si sentiva superiore al povero che riceveva. Ora il dare e l’avere si pareggiano nella reciprocità.
Tra congiunti, colleghi, vicini di casa si sta creando una solidarietà paritetica: oggi tocca a me, domani a te. Una corrente vitale passa attraverso la prossimità , si realizza in un incontro di corpi e pensieri che avviene con discrezione, senza suscitare né superbia né umiliazione. Per vincere l’anonimato della società di massa in cui viviamo, abbiamo bisogno di sentirci «qualcuno per qualcuno», non solo nella teoria ma nella pratica quotidiana. E lo scambio di attenzione da persona a persona ce lo consente. L’ascolto, il dialogo, un gesto gentile sono modalità concrete di stare insieme, di vincere la solitudine e di riconoscere il desiderio di amore che si sottende a ogni domanda. E a ogni risposta. Grazie Isabel per aver bussato alla Stanza del dialogo, dove ti riceviamo con l’ospitalità che si deve a un’amica.
goduto pienamente, o, invece, filtrato, rifiutato, addirittura colpevolizzato. Fino a ieri, cioè febbraio 2020, rappresentava una scelta a nostro ampio uso e consumo. C’era chi ne approfittava per coltivare il piacere della compagnia, del gruppo, della folla, tipo riunioni familiari allargate, cene fra coetanei e colleghi, viaggi organizzati, vacanze a ferragosto, weekend a Venezia o Barcellona, e via enumerando i momenti e itinerari battuti. Per contro, c’era chi preferiva una solitudine elitaria, con cui sfoggiare la capacità di farsi i fatti propri nel miglior modo. Tutto ciò, come detto, prima che l’oggi cancellasse, uno dopo l’altro, gli appuntamenti, vicini o lontani, dove la presenza umana era la materia prima insostituibile, imponendoci una solitudine forzata. Che mette insidiosamente alla prova. Magari, favorirà i grandi talenti creativi, in
grado di captarne i messaggi segreti. Ma, intanto, priva il comune cittadino di abitudini e contatti, banali e, adesso, rivalutati. Per quel che mi concerne, il caffè al bar, il pranzo in trattoria, la capatina in libreria o nella boutique per vedere i colori della primavera, o il film domenicale all’Iride e i concerti al LAC. C’è però dell’altro: durante la forzata prigionia, può maturare persino un diverso giudizio, un ravvedimento, nei confronti di situazioni e comportamenti, in precedenza evitati. A cominciare dai carnevali, mai frequentati, di cui adesso, scopro il valore consolatorio di scappatoia. Che spetta del resto a tutta una serie di momenti e luoghi, non frequentati, perché affollati, rumorosi, confusionari. Come centri commerciali la domenica, concerti pop all’aperto, spettacoli di fuochi d’artificio, grandi finali di campionato negli stadi, ecc... E al novero
delle manifestazioni, che, adesso, mi mancano devo aggiungere persino il Meeting di Davos, dove i grandi e famosi, in persona, da Trump a Greta, discutevano sulle sorti finanziarie e ambientali del mondo. Ora, accumulandosi, le privazioni di semplici abitudini quotidiane, che implicavano, comunque, il rapporto con l’altro, sfociano, sempre più spesso, in derive inquietanti. Con il Covid 19, si diffonde un contagio parallelo in forme di disagi psichici, di smarrimenti, a cui rimediare ricorrendo addirittura a pratiche paranormali, al limite della stregoneria. E che dire, infine, dell’esplosione di violenza giovanile registrata dalle nostre cronache? Ci si deve arrendere all’evidenza. Mancano le scappatoie, abbinate alle normali libertà, che svolgevano una funzione in apparenza banale, in realtà preziosa. Ci facevano stare insieme.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Una testimonianza che infonde coraggio Qualche giorno fa sono giunte alla Stanza del dialogo due lettere, scritte a mano su fogli a quadretti con un linguaggio italo-portoghese un po’ difficile da leggere ma alla fine veniamo a conoscere la nostra corrispondente. Si chiama Isabel, ha 63 anni ed è di origine portoghese. Come tutti sta vivendo una situazione difficile per la pandemia che ha colpito il mondo. Nel suo caso particolarmente difficile perché vive sola, soffre di malattie croniche ed è immigrata in una nazione che, per quanto l’abbia accolta con solidarietà, non è quella in cui è nata, non cucina i suoi cibi, non parla la sua lingua. A una certa età la memoria torna al passato. Per gli immigrati la nostalgia del paese natio, della patria lontana, si colora di malinconia mentre la prima lingua, quella materna, si sovrappone sempre più alla seconda, appresa per adattamento. Ma Isabel non si lamenta, anzi, cerca di incoraggiare gli altri. Ascoltiamola: «Prima mi domando, come mai sempre più gente dice che sta male in questi momenti. Dicono addirittura maledetto il Covid 19. Ma io non sono d’accordo. C’è una malattia adesso come tante avute nel passato, inutile
maledirla. Siamo noi che dobbiamo conformarci alle cose che vengono. Io sono fortunata o magari sarò contagiata più avanti. Sono sola ma non soffro di solitudine. Uso sempre la mascherina quando sono fuori casa ma mi chiedo: come mai dobbiamo usarla per proteggere gli altri e non noi stessi? Mi dicono che proteggendo gli altri proteggiamo noi stessi. Se è così sono d’accordo altrimenti non sono molto d’accordo. Frequento tre volte alla settimana il Centro diurno di Lugano “La Fenice”. Mi aiuta molto stare in compagnia perché c’è gente nella mia stessa situazione. L’importante per me è avere salute e il denaro per la spesa settimanale, così non mi lamento: leggo i giornali , guardo la televisione e sono a posto così. Grazie mille per la sua comprensione e arrivederci». Grazie a lei, cara Isabel, che evidentemente legge «Azione» e segue la rubrica La stanza del dialogo, grazie per la fiducia che mostra nei miei confronti e grazie di testimoniare, con coraggio, e generosità, che il distanziamento non comporta necessariamente solitudine e che tutti insieme ce la possiamo fare. Nella seconda lettera Isabel, riferen-
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio In cerca di scappatoie: ma come? Un anno fa, per la precisione domenica 23 febbraio, a Bellinzona il corteo del Rabadan, animato da 2000 comparse, attirò un pubblico valutato a 25’000 spettatori. Cifre da record che confermavano il successo di una tradizione, capace di rinnovarsi, grazie all’inventiva di instancabili volontari e, non da ultimo, terreno di sfida per i politici. Ma, oltre ai Rabadan, Nebiopoli, Re Naregna, ricorrenze storiche celebrate in giorni precisi, il carnevale doveva allargarsi a dismisura, nel tempo e nei luoghi. Insomma, una proliferazione di festeggiamenti, fra Capodanno e Pasqua, sotto innumerevoli tendoni, disseminati nelle nostre periferie, che è sfociata in un fenomeno diffuso. Qualcosa di tipicamente ticinese, da paese dell’iperbole, secondo l’impareggiabile definizione di Francesco Chiesa. Ciò che non ha mancato di sorprendere i nostri vicini d’oltre frontiera. Capitava
di sentirsi dire: «Come mai, da voi, è sempre carnevale?» Al che era facile ribattere: «È come, da voi, con Sanremo, se ne parla tutto l’anno». Del resto, il paragone non è campato in aria. Dimensioni a parte, si sta parlando di manifestazioni appartenenti allo stesso filone, cosiddetto nazionalpopolare, o per noi cantonpopolare che, con i suoi prodotti, appaga richieste di svago primarie: il carnevale con le baldorie in maschera, Sanremo con le canzoni orecchiabili e la sfilata di divi in abiti scintillanti. Si potrebbe, poi, citare un’altra specialità nostrana: gli eventi che riempiono, sino all’inverosimile, le nostre estati. Ben 500 a Lugano in versione «marittima». Facili ironie a parte, sta di fatto che queste iniziative hanno successo perché gente attira gente. Il comune denominatore, in tutto ciò, è appunto l’incontro con gli altri: voluto,
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Ambiente e Benessere Più è lontano, meglio è L’immobilità dell’ultimo anno ha stimolato progetti di viaggio straordinari e a tratti pazzeschi
Terra avvisata, ancora non salvata Dopo i documentari del 2007e l’apprezzato Spillover anche La pianta del mondo di Stefano Mancuso mette in discussione il rapporto tra uomo e natura
Globicefali di Gray Lenti e paciosi in superficie si trasformano in ghepardi nelle profondità oscure
Mancherà The King Al via gli Australian Open, il primo Grande Slam della stagione senza Roger Federer pagina 18
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Il «poi», tra monitoraggio e fisioterapia
Covid Monitoraggio a corto e lungo termine
e riabilitazione: essenziali per chi ha avuto un decorso grave da Coronavirus Maria Grazia Buletti Tre malati di Covid-19 su quattro presentano almeno un residuo di sintomi, sei mesi dopo. È il risultato di una ricerca sui pazienti dimessi a Wuhan, che pone interrogativi sulle conseguenze a corto e lungo termine sui guariti dalla fase acuta della malattia. Per ora è il più importante studio condotto a livello mondiale su circa 1700 pazienti dell’ospedale Jin Yin-tan di Wuhan, dove è esplosa la pandemia. Concerne persone dimesse tra gennaio e maggio dello scorso anno e sottoposte a controlli periodici (anamnesi, test e controlli mirati) per tutta l’estate e a 6 mesi di distanza da quando hanno lasciato l’ospedale. Tre quarti di loro presenta almeno un sintomo: stanchezza e dolori muscolari nel 63% dei casi, insonnia (26%), ansia e depressione (23%), ed effetti più seri come problemi renali (in persone che prima avevano un apparato urinario sano) e funzioni polmonari compromesse in coloro che avevano contratto la Covid-19 in forma più severa. «Anche all’Ospedale Regionale di Lugano è in corso uno studio di valutazione di pazienti ammalatisi in modo serio e che hanno avuto una polmonite da Coronavirus: una continua raccolta clinica, di esami e dati a 3, a 6 e a 12 mesi dalla dimissione dall’ospedale, che contempla visita del paziente, valutazione della funzionalità polmonare e radiologica con TAC» spiega il pneumologo e primario di medicina dell’ORL Marco Pons, sottolineando l’importanza di studi di follow-up più lunghi in popolazioni più ampie possibile con l’intento di riuscire a capire l’intero spettro di conseguenze che l’infezione da Coronavirus può comportare. «Al pari dei virus influenzali, il Sars-CoV-2 è un virus in grado di colpire tutti gli organi, pur concentrandosi sulle vie respiratorie superiori e inferiori», esordisce lo pneumologo, portando l’attenzione sulle serie conseguenze del Sars-CoV-2 che, a differenza dei virus influenzali a noi noti, si manifesta pure in un ampio ventaglio di disturbi cardiaci, renali, neurologici, psichiatrici e via dicendo. «Inoltre, il Sars-CoV-2 non colpisce unicamente l’albero tracheobronchiale come fanno in genere gli altri virus influenzali, ma danneggia tutto l’apparato respiratorio insinuandosi fino agli interstizi del tessuto polmonare dove avviene lo scambio emato-gas-
soso». Egli conferma che le ragioni che favoriscono questo meccanismo sono ancora poco chiare, osservando che per colpire così i polmoni il virus necessita del «recettore ACE» insito nel tessuto polmonare con il quale ha particolare affinità. Spesso il decorso individuale di chi si ammala di Covid-19 è un’incognita: «A prescindere da eventuali malattie pregresse e dall’età, il decorso di ciascun paziente può riservare sorprese». Ma qualcosa si sta imparando: «Nei pazienti poco sintomatici le polmoniti sono presenti in misura minore, ma restano fattore determinante per la gravità della malattia». Una cosa è certa: «Coloro che hanno mostrato un decorso più grave sono in genere quelli che hanno malattie pregresse (cardiopolmonari, renali, pazienti diabetici); molto delicati sono i pazienti obesi, anche relativamente giovani e con poche comorbidità che però, da obesi, hanno sviluppato polmoniti da Covid molto più gravi». Inizialmente la malattia è radiologicamente poco visibile: «Sappiamo che nei pazienti giunti con dispnea e diminuzione di ossigeno nel sangue il virus ha colpito il polmone ma ancora non è visibile nella TAC. Ciononostante, è già in grado di causare fatica a respirare e perfino trombosi locali con ulteriori complicanze». Dopo 3 mesi «tanti hanno ancora addensamenti polmonari o cicatrici visibili sui polmoni, difficoltà di ossigenazione sanguigna, dispnea e stanchezza, indipendentemente dalla gravità della polmonite da Covid». A 6 mesi si è finora osservata sovente una residua fatica a respirare: «Ogni polmonite per guarire necessita di tempo, quella causata da Covid ancora di più e induce a indagare una possibile asma soggiacente o una malattia broncopolmonare pregressa. Sintomi, profilo polmonare e documentazione radiologica permettono di dire che la guarigione della polmonite da Covid è estremamente lenta: a 3 mesi oltre il 60% dei pazienti ha residui polmonari documentati dalla TAC e difficoltà di scambio dell’ossigeno negli alveoli polmonari, mentre oltre la metà delle persone fatica ancora a respirare». Per chi ha avuto un grave decorso della malattia, intubato per settimane in terapia intensiva, sarà necessaria un’accurata riabilitazione polmonare: «Sana igiene di vita e movimento sono essenziali, come la fisioterapia, per un recupero muscolare che porterà a un
Marco Pons, pneumologo, primario di medicina all’ORL. (Stefano Spinelli)
miglioramento della funzione polmonare, senza tralasciare la riabilitazione psicologica per attenuare l’accertata sindrome da stress post traumatico e lo stato ansioso depressivo per cui valgono buona alimentazione e movimento all’aria aperta». Tra persone ospedalizzate e quelle dimesse c’è un mondo: l’inizio di una completa riabilitazione fisioterapica molto lunga. Il basso profilo mediatico della figura del fisioterapista non ne scalfisce l’importanza dall’inizio al termine della malattia e oltre: «All’Ospedale La Carità di Locarno, convertito a ospedale Covid, si è creato un “reparto tracheo” ad hoc dove sono convenuti fisioterapisti di altre sedi EOC con competenze respiratorie specifiche. Dall’inizio lavoriamo con gli pneumo-
logi assistendo pazienti in fase acuta che seguiamo nella delicata fase riabilitatoria», spiega il fisioterapista Ruben Forni che illustra la presa a carico post acuta, il cui inizio non è la palestra ma la riabilitazione funzionale di base: «Parliamo di pazienti fragili, che dalle cure intensive arrivano al reparto tracheo dove si cerca di ridurre progressivamente il sostegno respiratorio meccanico, stabilizzandone le condizioni, per permetterne la dimissione verso strutture riabilitative preposte. Importante è la verticalizzazione dei pazienti costretti a lungo sdraiati e intubati nel reparto intensivo, che hanno subìto una perdita di massa muscolare e che perciò devono trovare nuovamente forma ed energia per riuscire a stare seduti, riattivare la muscolatura respiratoria e la postura».
Il recupero è un percorso lungo e difficile ma percorribile, che richiede l’intervento su diversi apparati per i quali la presa a carico è interprofessionale (fisioterapista, ergoterapista, logopedista, nutrizionista). Alla dimissione fa seguito il programma riabilitativo stazionario in un centro di riferimento scelto secondo il profilo del paziente e una volta a domicilio si valuta il prosieguo in uno studio fisioterapico privato per una terapia personalizzata secondo gravità, comorbidità pregresse e decorso. I protocolli sono studiati per un recupero a lungo termine e non si trascurano dettagli come la gestione a domicilio di eventuali nuovi mezzi ausiliari: «Stampelle, bastone o presidi casalinghi, fisioterapia respiratoria, inalazioni e altro».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Uno spezzatino Ricotta con castagne d’agnello al miele speciale
Migusto La ricetta della settimana
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migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 1800 dl di g di succo spezzatino di mele d’agnello, · 200 g di castagne ad esempio arrostite spallae· sbucsale · ciate pepe ·· 22cucchiai anici stellati d’olio· di ½ colza bastoncino HOLLdi· 4cannella spicchi d’aglio · 5 chiodi · 2 cipolle di garofano grosse · 81 pomodori c di miele di secchi castagno sott’olio · 1 ricotta · ½ cucchiaio di 250 g.di farina · 4 dl di brodo di manzo · 50 g di olive nere snocciolate · 4 fette di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone. 1. Portate a ebollizione il succo di mele con le castagne, gli anici stellati, la cannella, 1. Condite i chiodi la di carne garofano con sale e il miele. e pepe e rosolatela bene nell’olio in una padella. 2. Dimezzate Lasciate sobbollire l’aglio, tritate per grossolanamente circa 10 minuti, fino le cipolle. a ottenere Aggiungete un liquido aglio, sciropposo. cipolle e 3. pomodori Capovolgete alla carne, la ricotta, spolverizzate sformatelacon e irroratela la farinacon e bagnate lo sciroppo. con il brodo. Mettete 4. il coperchio Servite la ricotta e stufatecon a fuoco le castagne medio-basso calde e per la salsa. circaA50piacere minuti.guarnite Lasciatecon il coperqualche chiofogliolina leggermente di timo aperto fresco. per permettere al vapore di fuoriuscire dalla padella, in modo che il liquido si riduca. Preparazione: circa minuti. a rondelle sottili, il prosciutto a dadini. Ricavate 2. Tagliate le olive e i15 cipollotti Per persona: g di proteine, 10 gMescolate di grassi, 29 g di carboidrati, 230 kcal/ delle listarelle circa dalla 7scorza del limone. tutto. 950 kJ. 3. Spremete la metà del limone. Condite lo spezzatino con il succo di limone, sale e pepe e distribuite la gramolata sulla carne.
Un piatto gustoso che può essere accompagnato con pasta o semplicemente con fette di pane. Preparazione: circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Si torna a sognare
Il giro della Svizzera per i più piccoli
Viaggiatori d’Occidente Bizzarri e al limite dell’immaginabile alcuni progetti
di appassionati esploratori del mondo che dopo tanto confinamento ora vogliono straviaggiare
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Due anni fa, quando il mondo girava ancora sui suoi cardini, di questi tempi avevamo già in tasca i biglietti per la prossima estate. Le vetrine delle agenzie scintillavano di mari azzurri e contribuivano a sollevare gli animi dal grigiore invernale. Ora tutto è cambiato e l’incertezza prevale. Certo grazie ai vaccini intravediamo la luce ma il percorso resta mal segnato. Come sarà la prossima estate? Sembra logico ipotizzare un lento ritorno alla normalità nel corso del 2021, per poi spiccare il volo nel 2022. E dunque i mesi estivi sarebbero ancora sotto il segno del turismo di prossimità, senza allontanarsi troppo dai confini nazionali. In questa prospettiva bisognerebbe affrettarsi a prenotare perché le offerte più interessanti a corto raggio non sono infinite. Altri però giungono a conclusioni esattamente opposte. Non mi riferisco alle consuete classifiche delle destinazioni più desiderate (per esempio Bali sarebbe al primo posto davanti a Londra, secondo Tripadvisor Travellers’ Choice Awards). Piuttosto la lunga, forzata immobilità ha alimentato desideri profondi di lontananza e diversità, pronti ad avverarsi al venir meno delle restrizioni. Per esempio, i lettori del quotidiano britannico «The Guardian» hanno liberato i cavalli dell’immaginazione. Minnie guarda verso il Kirghizistan: sogna l’animazione della capitale Biškek combinata con i silenzi delle iurte dei nomadi. John vuole portare il figlio di nove anni, appassionato di calcio, nelle isole Fær Øer a tifare per la nazionale locale nella sfida contro la Scozia per le qualificazioni alla Coppa del Mondo: una riedizione calcistica di Davide contro Golia. Martin invece sogna Leopoli e l’Ucraina in agosto, in occasione della Festa del Salvatore delle mele, una celebrazione del raccolto di tradizione ortodossa. Infine, Venkata progetta un viaggio ancora per pochi, ma sempre più popolare attraverso il passaparola: settecento chilometri in un giorno e mezzo sul lunghissimo (anche due o tre chilometri) e pesante treno del ferro dal nord della Mauritania attraverso il Sahara sino alla costa atlantica del Paese. Una nuova, dolorosa consapevolez-
«Finalmente è arrivato il mese di giugno e la scuola è terminata. Oltre alla promozione (complimenti!) nel corso dell’inverno hai partecipato a una selezione importante. Hai dimostrato di avere coraggio e di possedere un intuito incredibile, inoltre hai dato prova di essere in grado di valutare quando correre dei rischi e quando invece è necessario essere prudente. Per questo una giuria di esperti ha scelto proprio te, su 10mila candidati. Trascorrerai un’estate speciale, della quale sarai protagonista. Partirai per il Grand Tour della Svizzera, vedrai un sacco di luoghi fantastici e vivrai delle avventure indimenticabili. Quasi sempre ti muoverai a bordo del tuo monopattino volante...».
Il treno del ferro che va dal nord della Mauritania attraverso il Sahara sino alla costa atlantica del Paese. (Bahnfrend)
za di come il tempo sia prezioso rende i progetti di viaggio più nitidi e consapevoli. Invece di spa o crociere di lusso, molti viaggiatori si propongono sfide impegnative, esplorano le loro radici e lavorano al proprio miglioramento. Un altro quotidiano del Regno Unito, «The Telegraph», ha interrogato i suoi esperti di viaggio sparsi per il mondo sui loro progetti futuri. Anche qui le risposte sono decisamente originali. Annie Bennet vuole indugiare piacevolmente in qualche alberghetto nascosto della Spagna rurale e poi percorrere almeno alcune tappe del Cammino di Santiago. Nel 2021 la festa di San Giacomo (25 luglio) cade di domenica e sarà quindi un Anno santo giacobeo: remissione dei peccati garantita a chi entra nella Cattedrale di Santiago di Compostela dalla Porta dell’Anno santo, aperta per l’occasione. Certo occorre anche essere nella giusta disposizione d’animo di sincera contrizione (e questo non è facile), ma ci si può sempre accontentare di una laica liberazione dalle cattive abitudini.
Perché non il Giappone? si chiede Danielle Demetriou. L’anno delle Olimpiadi (spostate dal 2020 al 2021) è perfetto per… girare al largo dalle grandi città piene di turisti ed esplorare il Giappone rurale. Per contrastare lo spopolamento provocato dall’invecchiamento della popolazione, antichi edifici in legno vecchi di secoli sono stati perfettamente restaurati e aperti ai turisti, come le fattorie nella regione di Setouchi. Tara Stevens progetta a maggio the ultimate road trip in Marocco, da Fes a Marrakech, con una deviazione per vedere il Festival delle Rose a Kelaat Mgouna, tra profumi stordenti e una pioggia di petali. Anthony Peregrine concluderà un lungo viaggio francese visitando il Memoriale di Ver-sur-Mer, dove sono sepolti oltre ventimila soldati britannici caduti dopo lo sbarco di Normandia; tanto per ricordarci che il 2020 non è stato l’unico anno difficile nella storia. Thomas O’Malley vuole prendere la patente cinese e poi guidare fino a Xa-
nadu, quattro ore di macchina a nord di Pechino, passando per la Grande muraglia e le praterie al confine con il Deserto del Gobi. Settecento anni fa Xanadu era la residenza estiva di Kublai Khan, imperatore cinese di stirpe mongola reso immortale dai versi di Coleridge («A Xanadu Kublai Khan fece costruire un imponente palazzo di piaceri…»). E pazienza se di quel meraviglioso edificio restano solo poche rovine. Infine, Sarah Hedley Hymers non vuole perdersi le celebrazioni per i cinquant’anni degli Emirati Arabi Uniti, il 2 dicembre 2021, quando le strade di Dubai saranno punteggiate di bandiere e i fuochi d’artificio illumineranno la notte. E negli ultimi mesi dell’anno milioni di visitatori (Covid permettendo) si uniranno agli expat per visitare Expo Dubai 2021 (anch’esso rinviato dallo scorso anno). Certo, per adesso sono ancora in larga parte sogni; ma per cominciare sognare fa bene e poi, dopo tante frustrazioni, finalmente sentiamo sul viso un lontano vento di speranza.
L’insegnante e blogger Augusta Medici Suriani, dopo aver frequentato un corso di scrittura di viaggio presso la nostra Scuola Club Migros, ha pubblicato questo bel libro per bambini. Il viaggio inizia fra le casette della Swissminiatur di Melide ma questa è l’unica certezza. Alla fine di ogni capitolo, infatti, viene chiesto come proseguire e, a seconda delle vostre scelte, la trama cambia continuamente. Anche nel tempo dei videogiochi più veri del vero è un gioco divertente ed efficace. Strada facendo il giovane lettore incontrerà quattro compagni di viaggio − i gemelli Tommy e Greta, Annagioia e Nino − ma soprattutto imparerà a conoscere meglio la storia e la geografia svizzera. Un codice a barre permette di approfondire ulteriormente alcuni luoghi conducendo al blog di viaggi con bambini Mini Me Explorer (minimeexplorer.ch). Soprattutto il Grand Tour della Svizzera, schiudendo sempre nuovi orizzonti, può essere un ottimo antidoto per questi mesi di forzata immobilità, che i bambini patiscono più di ogni altro. / CV Bibliografia
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Una profetica visione precovidiana
Il seme nel cassetto La pianta del mondo di Stefano Mancuso mette in evidenza criticità dell’inurbamento
e della nostra tendenza ad ammassarci nelle città
La metropoli quale sistema sta scoppiando. Non ce la fa più. Di questo, almeno da marzo dell’anno scorso, siamo consapevoli tutti: vivere uno addosso all’altro, in spazi che diventano stretti e iper-cementificati, non funziona più e ne stiamo prendendo lentamente atto. Ma è colpa solo del Covid? O il Covid è una delle possibili conseguenze di un modo di vivere e fruire di quanto offerto dal Pianeta Terra nevrotico e, in fin dei conti, autodistruttivo? Prendiamo per esempio La pianta del mondo, l’ultimo libro del Direttore del Laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale di Firenze, il botanico Stefano Mancuso, scienziato di fama internazionale e autore di svariati libri sul tema (non dimentichiamo il bellissimo Verde brillante, sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, che abbiamo recensito su «Azione» del 18 settembre 2017): fa strano leggere fra queste pagine, scritte nella ormai leggendaria epoca pre-Covid, quando ce ne andavamo ancora in giro senza mascherine illudendoci che il nostro modo di vivere non sarebbe stato messo in discussione – non sul breve termine, perlomeno – una critica puntuale e acuta sul sistema-metropoli. Scrive Mancuso: «Siamo abituati a considerarci al di fuori della natura, ma rispondiamo agli stessi fondamentali fattori che controllano l’espansione delle spe-
cie: clima, modifiche dell’ecosistema, interazioni fra specie, fattori abiotici, ecc. È molto semplice: più favorevoli sono le condizioni, maggiore sarà la diffusione di una specie e, quindi, le sue possibilità di sopravvivenza. Questa affermazione non deve sorprendere: immaginiamo che una specie, prima diffusa su tutto il pianeta, limiti per qualche motivo, conosciuto o sconosciuto, la sua presenza soltanto a piccole, delimitate zone sulla superficie terrestre. È chiaro che per questa specie i rischi aumenteranno. È molto più facile, infatti, che qualche cambiamento incompatibile con la sua sopravvivenza accada a livello locale, piuttosto che a livello globale». Sembra quasi una profezia, ma i meno disattenti sapranno che di profezie simili gli scienziati ne avevano formulate parecchie (di recente, sul canale tv di «Focus», è andato in onda un documentario del 2007 che ipotizzava scenari legati a una pandemia come quella che stiamo vivendo, per non parlare del già discussissimo e apprezzato Spillover di David Quammen): la cosa interessante su cui fa riflettere questo libro riguarda il fatto che questo modo di vivere il Pianeta sia recente, quasi inedito. Scrive l’autore: «È un fenomeno (questo dell’inurbamento, ndr) della cui strabiliante velocità non ci rendiamo conto: nel 1959, più di due terzi delle persone in tutto il mondo viveva ancora in insediamenti rurali. Il punto più interessante dell’intera vicenda è che
Siamo sicuri che questa pandemia ci abbia reso attenti sul rischio che comportano lo sfruttamento e la centralizzazione delle risorse, la cementificazione, le disuguaglianze sociali? (Spixy.org)
l’uomo, in una manciata d’anni, sta rivoluzionando i propri comportamenti atavici di specie. La conquista di nuove terre è stata la maggiore occupazione della nostra specie fin dalla sua apparizione. Poi, improvvisamente, tutto si è bloccato. Prendiamo, ad esempio, la storia dell’esplorazione spaziale: nel 1969 abbiamo messo per la prima volta piede sulla luna… e in pratica non ci siamo più tornati. Nessuno sembra avere più interesse a colonizzare nuovi
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territori, mentre tutti provano un’invincibile attrazione ad ammassarsi nei centri urbani». Un nuovo modo di vivere il territorio che però porta gravissime conseguenze, come il riscaldamento globale, causato anche dal fatto che il verde nelle nostre città sta sparendo. Ben lontani i tempi in cui, come si legge nel primo capitolo del libro, durante la Rivoluzione francese venne piantata una comunità di alberi per tutta Europa: un sim-
bolo importante, che l’inurbamento di cui parlavamo sopra ha voluto cancellare. Certo, il vivere in città grandi e complesse porta dei vantaggi a livello di PIL, crescita, reddito, ma anche benessere generale; a quale prezzo, però? «La ragione è la stessa per cui il koala è molto più suscettibile all’estinzione di quanto non lo siano i topi: la specializzazione estrema. La trasformazione della nostra specie da generalista a specialista se da un lato è vantaggiosa in termini di accesso alle risorse, efficienza, difesa e diffusione della specie, dall’altra ci espone a un rischio terribile. Infatti, se le condizioni urbane che ci permettono di prosperare dovessero cambiare, questo avrebbe un impatto significativo sulle nostre possibilità di sopravvivenza». Mancuso, in questo libro, che parla di storie di piante e ci racconta come esse siano molto più disposte a sacrificarsi per la comunità di quanto lo siano gli esseri umani e gli animali, riflette sulla nostra incapacità di vedere veramente questo pericolo, di capire che è qui, dietro l’angolo, e potrebbe influenzare la nostra quotidianità oggi, nel presente. Certo, lui scriveva prima del Covid: ma siamo sicuri che questa pandemia ci abbia aperto gli occhi? Ci abbia reso attenti sul rischio che comportano lo sfruttamento e la centralizzazione delle risorse, la cementificazione, le disuguaglianze sociali? Oggi più che mai, forse, farci amiche le piante e imparare da loro.
Fiori per innamorati Mondo verde Dalle classiche rose
Azione
al bouquet tropicale
2. 2 – 15. 2. 2021
Anita Negretti Regalare fiori è un gesto che non dovrebbe mai passare di moda e non dovremmo ricordarcene solo a San Valentino: i fiori andrebbero donati spesso a chi amiamo. Basta lasciarsi ispirare, durante l’anno, e a maggior ragione il 14 febbraio che normalmente ci permette di entrare da un fiorista e trovare mazzi, bouquet e composizioni di tutti i gusti, creati apposta per stupire chi li riceverà. Il simbolo per eccellenza della passione e dell’amore sono, inutile dirlo, le rose, e meglio se di un bel rosso vivo: vanno regalate a dozzine scegliendo preferibilmente quelle a gambo lungo oppure tagliate corte in un cesto a forma di cuore, per fugare ogni dubbio a chi li riceverà. Bellissimi poi, sono i bouquet misti con rose velluto e fresie bianche, unite da un semplice nastro rosso fuoco. Idee troppo classiche? Un po’ sì. Se preferite sorprendere, scegliete dunque i tulipani, magari sempre di colore rosso, a significare un amore appassionato; o fatevi preparare un mazzo multicolore formato da molti steli di tulipani
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con colori bianchi, arancioni, rosa e rossi, circondati da foglie di edera, che sono simbolo di fedeltà, e legati semplicemente con della rafia, per un regalo non solo d’amore, ma anche ecologico. Se invece il vostro amore ha una fotografia di voi sulla scrivania in ufficio, vi consiglio allora di sorprenderlo facendogli recapitare al lavoro degli anemoni (Anemone coronaria) o un delicato e profumato bouquet di narcisi gialli e muscari azzurri. Mentre se desiderata esprimere genuinità, potreste optare per un regalo floreale home-made: uscite in giardino e raccogliete qualche ramo di calicanto, che profumerà a lungo la casa; è questo un fiore che ben si abbina alle violette: unite al mazzetto un ramo di camelia, qualche fiore di ciclamino e dei rametti di erica, disponendoli già tutti in un vaso di vetro colmo di acqua. E infine, un suggerimento per chi cerca qualcosa di esotico, per far dimenticare il freddo inverno e portare il proprio amore anche solo per pochi istanti in qualche paradiso al caldo: per creare questa magia vi basterà orientare la vostra scelta su un bel mazzo di protee, strelitzie, gloriose, eliconie e orchidee.
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Laura Di Corcia
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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I ghepardi degli oceani
Ambiente e Benessere
Mondosommerso Un tuffo nell’Oceano Atlantico, al largo della costa sud di Tenerife, per scoprire
la specie protetta dei Globicefali di Gray
Due balene pilota con pinne corte (Globicephala macrorhynchus) appena sotto la superficie dell’acqua. Tenerife Sud, Isole Canarie, Oceano Atlantico; su www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. (Franco Banfi)
lità di nutrimenti per tutta la catena alimentare marina e pertanto sostengono una maggiore biodiversità di specie, non lontano dalla costa. La vicinanza all’isola consente di avere acque superficiali più calme, adatte all’allevamento dei cuccioli e pertanto quest’area oceanica è nota per essere frequentata da
una popolazione stanziale di globicefali, a cui periodicamente si uniscono popolazioni nomadi, garantendo così anche una buona diversità genetica nei membri delle comunità residenti. Nei giorni che abbiamo trascorso a Tenerife, abbiamo potuto documentare gruppi di adulti, esemplari giovanili e
Franco Banfi
Globicefalo. Nel regno animale è uno dei nomi meglio coniati per indicare la caratteristica principale di questi cetacei odontoceti: una grande testa di forma sferica, che li rende simili ai siluri. Ne esistono due sole specie: Globicephala macrorhynchus (Globicefalo di Gray) e Globicephala melas (semplicemente Globicefalo), purtroppo protagonista della efferata caccia Grindadráp, che viene effettuata nelle Isole Fær Øer. Incuriositi da questi spettacolari mammiferi marini, che appartengono alla famiglia dei delfinidi, siamo andati a documentare i Globicefali di Gray nell’Oceano Atlantico, al largo della costa sud di Tenerife, dove i ricercatori del Università «La Laguna», dell’Istituto Oceanografico del Massachusetts e del Dipartimento di Scienze Biologiche della Danimarca li studiano da molto tempo. Essendo specie animali protette, è stato necessario ottenere un permesso speciale per poter entrare in acqua insieme ai ricercatori e fotografarli. Hanno caratteristiche strabilianti. Mentre sono lenti e sembrano bighellonare quando nuotano in superficie, i ricercatori hanno rilevato che sono estremamente veloci quando cacciano nelle profondità oceaniche. In particolare, utilizzano la medesima strategia che viene attuata dai ghepardi nelle steppe africane, accelerando a tutta velocità per brevi tratti, mentre nuotano nel buio più totale (cacciano a 800/1000 metri di profondità) in cerca di cefalopodi (totani e calamari) e trattenendo il respiro. I sensori (tag) utilizzati dai ricercatori rilevano la velocità, la profondità e la direzione. Con questi strumenti è stato possibile accertare che i Globicefali di Gray impiegano 15 minuti per raggiungere le profondità indicate e riemergere, scendendo verticalmente a una velocità di 10 metri al secondo e risalendo a 2,2 metri al secondo. Le
modifiche corporee che la pressione della colonna d’acqua esercita sui loro tessuti sono inimmaginabili, ad esempio la riduzione del volume degli spazi aerei (i polmoni, le cavità nasali e uditive) e il richiamo di sangue che dalla periferia (capillari) affluisce al centro (dove risiedono gli organi nobili: cuore e polmoni). Quando i Globicefali di Gray individuano le prede, nuotano alla velocità massima, raggiungendo talvolta i 32 km/h, e riescono a sostenere questa andatura per 200 metri, ovviamente sempre in apnea, nell’oscurità assoluta. Precedentemente, il mondo scientifico riteneva che i cetacei a caccia nelle profondità oceaniche si muovessero lentamente, rallentando il metabolismo per minimizzare il consumo di ossigeno. Al contrario, la strategia di caccia dei globicefali di Gray si basa su accelerazioni, il che spiega perché dopo ozino in superficie, riposando e riossigenando i tessuti. Un’altra sorprendente osservazione è che i globicefali, come tutti i cetacei odontoceti, utilizzano la eco-localizzazione (sonar) per scovare le loro prede, emettendo suoni (click) a varie frequenze. La vista è infatti un organo inefficacie nell’oscurità e per la densità dell’acqua marina. Emettere click implica un consumo di aria (e sono in apnea) e un dispendio di energia non indifferente. Essi sono prodotti facendo transitare aria compressa nelle cavità naso-faringee sino agli organi vestibolari, ma a mille metri di profondità è disponibile solamente l’uno per cento del volume di aria respirato in superficie. I ricercatori ritengono che l’aria venga imprigionata nella trachea e negli spazi aerei della testa, mentre il volume polmonare collassa all’aumentare della pressione idrostatica. Nell’area occidentale dell’arcipelago delle Canarie, le isole fanno da scudo alle correnti oceaniche, generando vortici e correnti ascensionali vicino alle coste, che aumentano la disponibi-
cuccioli di pochi giorni, giocare e interagire vicino alla superficie dell’oceano. Sono animali molto sociali e hanno una spiccata curiosità per tutto ciò che è diverso o anomalo rispetto alla quotidianità. Ogni esemplare delle varie famiglie ha legami con gli altri membri del proprio gruppo di appartenenza matrilineare e svolgono insieme molte attività: riposare, cacciare, socializzare, giocare, viaggiare… e anche fare i funerali. È stato veramente coinvolgente osservare e cercare di rappresentare fotograficamente il comportamento di un intero gruppo, nel quale due femmine hanno vagato senza meta in oceano aperto per giorni e notti, trasportando i propri cuccioli morti alla nascita, tenendo la loro coda fra le labbra, riluttanti a lasciarli sprofondare nelle profondità abissali. Dagli atteggiamenti del maschio dominante e delle altre femmine del gruppo si intuiva chiaramente che la perdita dei due cuccioli influenzava l’intera comunità. Le femmine adulte nuotavano vicino alle due mamme, scortandole gentilmente nel loro girovagare. Il maschio manteneva i ricercatori a debita distanza dalle due madri: non è mai stato aggressivo, ma l’intento di proteggere i membri della comunità era ben chiaro. In queste situazioni, una delle cose più difficili è gestire le proprie emozioni, evitando di interpretare i comportamenti degli animali selvatici in base alla logica e alle culture umane. Nota
Franco Banfi
Sabrina Belloni
Per il rilascio del permesso ed il supporto logistico, si ringraziano: MITECO: Ministerio para la Transición Ecológica y el Reto Demografico (Ministero dell’Ambiente), www. miteco.gob.es/en Arona Son Atlantico: Association for developing culture and responsible tourism, www.sonatlanticofestival. com
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Nel segno dell’amore Ciò che rende i momenti intimi più belli, le coppie lo trovano alla Migros – come anche dei piccoli regali per San Valentino. Ma da dove arriva questa usanza?
Leggende e fatti su San Valentino Qual è l’origine? Da dove arrivi questa usanza, non è ancora completamente chiaro. Molta diffusa è la storia di San Valentino di Terni. Visse nel 3° secolo dopo Cristo e si dice che abbia regalato alle coppie dei fiori del suo giardino e sposato degli innamorati secondo la tradizione cristiana, malgrado fosse stato proibito dall’imperatore romano. Per questo motivo si ritiene che San Valentino sia stato giustiziato il 14 febbraio del 268 o 269. Come si festeggia oggi nel mondo questo giorno? Il classico biglietto di San Valentino da qualche anno ha perso di significato. I momenti di intimità sono sempre più ricercati: le prenotazioni di hotel per il 14 febbraio negli ultimi 3 anni sono aumentate del 22 per cento, le cene al ristorante del 32 per cento. Si acquista spesso champagne, cioccolatini, profumi e biancheria intima. Esistono delle particolarità svizzere? Siamo dei romantici un po‘ pigri: nel 2017 la spesa per San Valentino da noi è scesa del 3%, mentre è cresciuta del 17% a livello mondiale. Con i pagamenti con la carta spendiamo all’incirca 40 milioni di franchi in fiori, più che in qualsiasi altro giorno dell’anno. E per i ristoranti si spendono 42 milioni di franchi.
Foto Getty Images
Fonte: helles-koepfchen.de, Mastercard (Love Index)
Piccolo apparecchio, notevoli prestazioni: il mini vibratore possiede 30 livelli di vibrazione. Ceylor Secret Lover Fr. 29.95
Natura pura: lubrificante al 100% a base di sostanze naturali. Ceylor Pure Glide 100 ml Fr. 11.90
Per frizzanti giochi d’amore: gel stimolante per la donna. Cosano Gel Stimolante 40 ml Fr. 9.95
Solo un velo: il preservativo extra sottile. Cosano Beyond Thin 8 pezzi Fr. 8.50
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Riusciremo ad abituarci al tennis senza Federer? Sport Sarà molto difficile, perché Roger, per 20 anni, ci ha viziati e coccolati con le sue magie
Giancarlo Dionisio Scrivo queste righe nel tentativo di diluire il senso di vuoto che mi attanaglia. Per elaborarlo ratealmente. Un po’ me lo gioco in questi giorni di inizio febbraio. Una parte, chissà, in primavera. Il resto, purtroppo, in un futuro non molto lontano. Lo scorso fine settimana, in un’atmosfera rarefatta e surreale, sono scattati gli Australian Open, il primo Grande Slam della stagione tennistica. Senza Roger Federer. Ma con Rafael Nadal, smanioso di operare il sorpasso, e Novak Djokovic, proteso verso il riaggancio nei confronti dei due fenomeni che lo precedono per numero di Majors conquistati. A malincuore, dovremo abituarci a questa situazione. Roger Federer non aveva mai disertato il torneo che si disputa al Melbourne Park. Alcuni infortuni, e le relative fasi di riabilitazione, lo avevano tenuto lontano da alcune edizioni degli altri Grandi Slam, ma mai, dal suo debutto nel lontano 2000, fino allo scorso anno, quando fu eliminato in semifinale da Djokovic, l’asso basilese aveva saltato l’appuntamento con gli Australian Open. 21 partecipazioni, una in fila all’altra, 6 trionfi su 7 finali disputate (solo Nole con 8, ha fatto meglio di lui), 8 eliminazioni allo stadio delle semifinali. Un percorso stellare che, forse, era già scritto nel firmamento, da quel gennaio del 2000, quando Roger, al primo turno, estromise Michael Chang, nettamente in 3 set. Sì, proprio lui, il
minuscolo furetto statunitense di origini cinesi, che l’anno precedente, al Roland Garros, aveva messo in imbarazzo il fuoriclasse Ivan Lendl, con quel suo malizioso servizio scucchiaiato dal basso in alto. Da quel giorno, il pianeta tennis, per King Roger, è stato un sovrapporsi di autostrade a otto corsie, di boschi incantati, di palcoscenici sui quali esibire la propria classe e il proprio carisma. Non credo di esagerare se ritengo Federer come uno dei campioni più carismatici di tutti i tempi. Lo era già da ragazzino, quando spaccava le racchette dalla rabbia. Lo è rimasto da Numero 1, con i suoi colpi apparentemente impossibili, ma snocciolati con una facilità disarmante, con le sue lacrime, le sue emozioni, il suo rispetto per gli avversari, la tranquilla determinazione con la quale ha sempre protetto dai possibili gossip, la sua signora e i suoi figli. Da tempo, secondo me, fa parte del Gotha dello sport mondiale, al pari di Mohammed Alì, Pelè, Maradona, Michael Jordan, e pochi altri. Tutti fenomeni capaci di elevare ad arte la loro disciplina sportiva. Lungi da me l’intenzione di fare un torto alle donne, ma non riesco a trovare, nel novero delle grandi campionesse, un personaggio altrettanto carismatico. Forse Nadia Comaneci, per come ha gestito la sua drammatica e intensa storia? O Cathy Freeman, per come si è caricata sulle spalle tutte le discriminazioni subite dalla sua gente, la popolazione aborigena d’Australia?
questo riconoscimento gli è stato conferito anche da perdente. Senza scivolare nel fanatismo di coloro che hanno istituito una religione che ha in Diego Armando Maradona la sua divinità, mi sento di affermare che nel tennis si parlerà dell’era Prefederer, del meraviglioso ventennio di puro godimento che ci ha regalato, e dell’era Postfederer. Quest’ultima, fortunatamente, non è ancora iniziata, nonostante la sua assenza dagli Australian Open. Eppure, il profumo acre della nostalgia comincia già a torturare le mucose dei nostri nasi perplessi, e a inumidire le nostre pupille, memori del commovente pianto al quale si abbandonava Lui, ogni volta che si imponeva in un grande Torneo. Ci può consolare la concreta speranza che Roger One possa riapparire, Covid permettendo, a casa di Nadal, al Roland Garros, oppure nel suo giardino di Wimbledon, o ancora ai Giochi Olimpici di Tokyo, o agli autunnali US Open. In ogni caso, avrà 40 anni suonati, e il solo vederlo scendere in campo sarà un bonus dal valore inestimabile. Dopo di che, punto e a capo. Di Roger resteranno innumerevoli e splendidi ricordi, ma nelle nostre menti e nei nostri cuori albergherà anche il desiderio irrefrenabile di veder apparire, sul palcoscenico del tennis, un altro fenomeno in grado di rimpiazzare colui che da anni viene definito «Il Mozart della racchetta». Sì, perché senza di lui, il tennis, tornerà ad essere «solo» una bellissima disciplina sportiva.
Un francobollo austriaco del 2010 omaggiava già Federer. (Shutterstock)
Qualcuno potrà obiettare che la mia affermazione sia figlia del fatto che Roger è svizzero, quindi appartenente alla nostra collettività. Non nego che questa componente affettiva possa giocare un ruolo. Quante volte, ad esempio, ci siamo ritrovati uniti, davanti alla TV, a sospingere Simon Ammann, quando volava, anche se, con ogni probabilità, il salto con gli sci prima di allora non faceva parte delle nostre priorità. E col Curling? Quante spazzolate, anche in piena notte, quando un nostro
rappresentante lottava per una medaglia olimpica nel curling! Tuttavia con Federer il discorso è diverso. Lui è riuscito a moltiplicare da subito, sia il fascino del tennis, sia l’interesse del pubblico mondiale nei suoi confronti. Lo dicono i dati di ascolto e di gradimento televisivi: stellari quando sua Maestà scende in campo. Lo conferma il fatto che, per parecchi anni, è stato votato, secondo un sondaggio demoscopico, come il campione più amato del pianeta. Lo è stato da vincente. Ma
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba In Giappone gli inchini non sono tutti uguali, i gradi di inclinazione dipendono dalle… Completa la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 11, 1, 2, 3, 2, 6)
ORIZZONTALI 1.Siusapertruccarsi 6.Laparolapiùgenerica 9.Exmoneteportoghesi 10.Ungruppodilavoro 12.Prefissochevuoldirevino 13.Dasolinonvalgononulla 14.Terminediparagone... 15.Preposizione 16.Statodell’Asiaorientale 17.SuoaLondra 18.Inizianoaltramontardelsole 19.Disseminatedidifficoltà 20.Siincrocianopercoincidenza... 23.Èmaggiorenelcielo 24.Articolo 25.Preposizionearticolata 26.LasuacapitaleèAddisAbeba
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VERTICALI 1. Hadirittoalrimborso 2.Mammiferoafricano 3.QuelloXIIful’ultimo... 4.Leinizialidell’attore Scamarcio 5.Capitaleeuropea 6.ClubAlpinoItaliano 7.Sillabasacraaibuddisti 8.Conseguire,ottenere 11.LaGiunonedeigreci 13.Contenevanoolio 14.Vocedeltennis 16.L’Ultima...operadiLeonardo daVinci 17.LeinizialidelpittoreRousseau 18.Precedonoisettimi 21.Inizialidel40°presidenteUSA 22.Unica 24.Pronomepersonale 25.LeinizialidiPellico Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
Il puma, a differenza degli altri grandi felini, non può ruggire perché l’osso ioide alla base della lingua non ha...: LA CARTILAGINE PER VIBRARE.
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A L A R E
N E R R O B A N T
P A T O M I E R E O V E I T
C E I C O C O E L T I E R A E S
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Politica e Economia Covid e indipendentismo Le elezioni previste domenica in Catalogna rappresentano una prova per le forze secessioniste
Navalny e il malcontento dell’élite Sanzioni contro la Russia potrebbero accentuare l’insofferenza di parte della classe al potere e aprire nuovi scenari
Tunisini ancora in piazza A dieci anni dalla «Rivoluzione dei gelsomini» il popolo chiede ancora pane, riforme e libertà
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Un potere discutibile La decisione di Twitter e di altri social media di bloccare l’account di Trump solleva più di un interrogativo
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Biden, la Cina e il golpe Usa Il ruolo cruciale dell’economia
nella nuova fase di confronto con il Gigante asiatico e l’importanza strategica della Birmania ora in mano ai militari
Federico Rampini «America is back», l’America è di ritorno. Subito dopo: «Diplomacy is back», torniamo a fare diplomazia. Sono le due frasi con cui Joe Biden ha voluto aprire il suo primo discorso programmatico di politica estera, dopo una visita al Dipartimento di Stato il 4 febbraio. Il ritorno alla tradizione nei modi e nel linguaggio, non significa però guardare al passato. «Vogliamo riparare le nostre alleanze – ha detto Biden – non per reagire alle sfide di ieri ma a quelle di domani». Ha indicato subito quali siano le due sfide principali: «Rispondere alle ambizioni crescenti della Cina. Reagire alle offensive con cui la Russia ha cercato di sabotare la nostra democrazia». Per Biden il richiamo alla tradizione liberale e umanitaria non è buonismo: «Una diplomazia che affonda le radici nei nostri valori, che difende la libertà, è la nostra forza, è ciò che ci ha sempre messi in vantaggio sugli avversari». Non abbassa la guardia verso Xi Jinping: «Affronteremo la Cina per i suoi abusi economici. Se rispettasse le regole del gioco, non avrebbero sofferto tanto la competitività dei lavoratori e delle imprese americane». C’è anche il tema dei diritti umani sul quale questa Amministrazione usa un linguaggio uguale a quello di Mike Pompeo. Il nuovo segretario di Stato Antony Blinken ha ripreso la stessa definizione di «genocidio» per il trattamento inflitto agli uiguri musulmani dello Xinjiang. Ma apre alla cooperazione «se i cinesi vogliono lavorare insieme a noi». Biden indica subito un terreno possibile d’intesa nella lotta al cambiamento climatico: «Siamo rientrati negli accordi di Parigi dal giorno del mio insediamento, ospiterò un summit mondiale sulla crisi climatica nell’Earth day». Ma l’economia avrà un peso determinante nella nuova fase di confronto tra le due superpotenze. L’ultima previsione del Fondo monetario internazionale conferma una ripresa globale a tre velocità. Nel 2021 la Cina continuerà a guidare la classifica (si prevede che chiuderà l’anno con una crescita del Pil dell’8%), trascinando con sé la volata di altri Paesi asiatici. L’America insegue e sembra in accelerazione (+5% il Pil a fine anno). Il terzo polo è l’Europa, decisamente l’ultima e la più lenta a recuperare. La Cina toglie un altro
primato agli Stati uniti: il ruolo di principale meta degli investimenti esteri diretti. Questo sorpasso è accaduto nel 2020, anno-chiave per l’accelerazione di tutte le dinamiche preesistenti in favore della Cina. Gli Usa, che per molti decenni erano stati la destinazione numero uno per gli investimenti delle imprese da tutto il mondo, li hanno visti crollare del 49% nel 2020, mentre gli investimenti diretti in Cina sono aumentati del 4%. Sono dati dell’Unctad, agenzia economica delle Nazioni unite. La punta massima degli investimenti diretti negli Stati uniti fu raggiunta nel 2016 a quota 472 miliardi di dollari. In quell’anno gli investimenti diretti in Cina erano poco più di un quarto, 134 miliardi. L’Asia guida anche il rimbalzo del commercio internazionale. Il boom di esportazioni dalla Cina verso gli Stati uniti continua a creare strozzature logistiche nel trasporto navale e a rincarare i suoi costi. Già a dicembre il traffico cargo era cresciuto del 23% rispetto allo stesso mese del 2019. Certi noli sono rincarati dell’80% da novembre a oggi e sono triplicati rispetto a un anno fa. A dispetto di tutte le previsioni su una «retromarcia della globalizzazione» (scenari fondati sia sulla guerra fredda Usa-Cina, sia sulle conseguenze della pandemia), la ripresa dell’economia cinese è in larga parte trainata dalle esportazioni. Per adesso, non solo la Cina è la vincitrice della prima fase della pandemia, ma lo è conservando il suo modello di sviluppo precedente, basato sul traino della domanda altrui. In parte questo è legato al fatto che la Cina ha rimesso in moto la sua macchina produttiva in tempi record già alla fine della primavera scorsa; in parte è la conferma che sostituire la produzione cinese, anche per chi voglia farlo, non è una cosa semplice né istantanea. La ripresa cinese trainata dalle esportazioni pone una delle prime sfide internazionali a Biden. Pechino non sta ai patti, non mantiene le promesse per riequilibrare il suo immenso attivo commerciale con gli Usa. Si tratta di patti che erano stati siglati con l’Amministrazione Trump, un anno fa, quando venne raggiunto l’accordo della cosiddetta Fase uno. Una tregua più che una vera pace. Ma la Cina non ha fatto quello che promise. Doveva aumentare i suoi acquisti di prodotti america-
Aung San Suu Kyi – appoggiata in passato da Obama, Clinton e Kerry – è finita agli arresti. (AFP)
ni per 200 miliardi di dollari. L’ultima stima fatta dal Peterson institute for international economics rivela che la Cina ha importato solo il 64% delle derrate agricole Usa che aveva promesso di comprare, il 60% dei prodotti industriali e il 39% dell’energia. Perciò sui dazi imposti da Trump su 360 miliardi di importazioni made in China, Biden prende tempo: non ha fretta di toglierli. Fra i terreni su cui invece lui è deciso a contrastare l’avanzata cinese – oltre alla guerra tecnologica, al 5G, allo spionaggio industriale, agli attacchi di hacker – c’è l’esportazione del modello autoritario fuori dal perimetro della
Grande muraglia. Biden cita la prima crisi internazionale che ha dovuto affrontare, il colpo di Stato militare in Birmania. Conferma il suo metodo: «Lavoriamo con i nostri partner, per restaurare le democrazie». La divergenza con Xi è già netta su questa crisi «periferica», perché al Consiglio di sicurezza dell’ONU è stata proprio la Cina a bloccare una risoluzione di condanna del golpe. Il colpo di Stato in Birmania o Myanmar è una prova molto seria. Vacilla un Paese che l’Amministrazione Obama-Biden era riuscita a sottrarre alla sfera d’influenza cinese. Avanza un altro autoritarismo, in un mondo se-
gnato dalla «recessione delle democrazie». Finisce agli arresti una leader che Obama e Biden, Hillary Clinton e John Kerry avevano appoggiato pur tra le riserve di tanti occidentali, la Lady birmana Aung San Suu Kyi. E per quanto la Birmania sia il più povero tra i Paesi del sud-est asiatico, la sua importanza strategica è chiara a Washington: ha petrolio, diamanti, legname e altre risorse naturali. È al confine tra una democrazia amica dell’America (l’India) e la Cina. È attraversata da progetti della Belt and road initiative con cui Xi Jinping promuove il suo espansionismo economico e geopolitico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Politica e Economia
La Covid frenerà l’indipendentismo?
Elezioni catalane Il voto di domenica è un test per sondare la forza del secessionismo a tre anni dalle violenze
di Barcellona. La pandemia intanto ha rimesso tutto in discussione, caos e incertezza regnano sovrani Gabriele Lurati Caos giuridico ed emergenza sanitaria. Questo è il clima che stanno vivendo sei milioni di elettori catalani all’approssimarsi dell’appuntamento del 14 febbraio. Un’atmosfera quasi surreale, intrisa di decisioni giudiziarie ribaltate, colpi di scena politici e numeri epidemiologici allarmanti. Le elezioni erano state in un primo momento rinviate dal Governo catalano a causa della pandemia ma la sentenza di un tribunale ha invalidato questa decisione, cambiando i piani dei partiti il 29 gennaio scorso, a soli 16 giorni dal voto. Da allora si è assistito ad altre sorprese, come quella avvenuta per mano del Governo uscente della Generalitat che ha decretato all’improvviso un regime di semi-libertà per i nove leader indipendentisti, in carcere ormai da 3 anni. Questi esponenti politici hanno quindi avuto la possibilità di uscire di prigione per partecipare a raduni elettorali o persino presenziare ad atti solenni in cui loro stessi chiedevano la propria amnistia. Una scena che dà l’idea della confusione regnante in Catalogna, aggravata da una situazione pandemica che ha obbligato a una tornata elettorale anomala, nella quale i meeting si sono svolti prevalentemente per via telematica.
L’ex ministro della Salute Salvador Illa è la scommessa del premier Sánchez per battere gli indipendentisti Questo contesto di disorientamento e di conflitto giuridico-istituzionale è lo specchio di quanto vissuto nei tre anni dell’ultima legislatura, contraddistinti dal continuo scontro tra Barcellona e Madrid. Dalla nascita del Governo a
JxCat di Puigdemont e la sinistra repubblicana di Junqueras sono favoriti. (Shutterstock)
maggioranza indipendentista guidato da Quim Torra a inizio 2018, passando per la condanna ai leader indipendentisti da parte del Tribunale supremo di Madrid dell’ottobre 2019 e finendo con la sospensione dai pubblici uffici decretata nell’autunno scorso dallo stesso organo giudiziario nei confronti di Torra. L’ex presidente della Generalitat, secondo la massima Corte spagnola, non aveva rispettato l’imparzialità durante le ultime elezioni generali, essendosi rifiutato di togliere uno striscione a favore dei politici condannati per il referendum dell’ottobre 2017. Ciò ha determinato di fatto la fine anticipata della legislatura anche per i sopraggiunti dissapori nell’alleanza di Governo formata dai due maggiori partiti indipendentisti catalani: Junts per Catalunya (JxCat) ed Esquerra republicana de Catalunya (Erc). JxCat, il partito di destra dell’ex «presidente
in esilio» Carles Puigdemont, si è mostrato determinato a voler riprendere il cammino verso l’indipendenza. Per contro Erc, la sinistra repubblicana di Oriol Junqueras (leader de facto del partito e condannato a 13 anni di carcere per sedizione), ha optato per un approccio più graduale per il raggiungimento della secessione, cercando di ottenere il maggior appoggio sociale possibile. Questi due partiti sono anche i favoriti nelle intenzioni di voto in queste elezioni, insieme a un terzo inaspettato incomodo: il Partito socialista catalano (Psc), capeggiato dall’ex ministro della Salute Salvador Illa. Questo politico, che predica «legge e dialogo» e preferisce la conciliazione agli estremismi, è la scommessa del premier Pedro Sánchez per battere gli indipendentisti. La candidatura di Illa, lanciata a sorpresa da Sánchez in virtù della popolarità
raggiunta dall’ex ministro durante la gestione della pandemia, ha sparigliato le carte degli altri partiti. A tal punto che, durante i dibattiti elettorali in Tv, si è assistito a una specie di «Tutti contro Illa». Il candidato del Psc ha dovuto subire attacchi da parte di tutte le formazioni, dagli indipendentisti sino a quelli unionisti di Partito popolare, Vox e Ciudadanos. Quest’ultimo partito, primo per numero di deputati nell’ultimo Parlament, è in caduta libera e viene dato nelle inchieste demoscopiche come il sicuro sconfitto delle elezioni. I sondaggi pre-elettorali indicano che Erc, JxCat e Psc veleggiano attorno al 20 per cento nelle preferenze di voto. Gli altri partiti oscillerebbero invece tra il 5 e il 10 per cento, a cominciare dai liberali di Ciudadanos, En común podem (la versione catalana di Podemos), i conservatori del Partito popolare, l’estrema destra di Vox (che farà
per la prima volta il suo ingresso nel Parlamento catalano) fino alla sinistra indipendentista anti-sistema della Cup. La società catalana rimarrebbe quindi ancora una volta spaccata a metà. Piccole differenze di voto per un partito o per un altro potrebbero determinare un risultato favorevole al fronte secessionista o a quello costituzionalista. Tra tante incertezze l’unico dato sicuro è che il Parlamento catalano sarà il più frammentato di sempre e che sarà possibile formare solo un Governo di coalizione. Le opzioni più probabili sono due: o una riedizione di un Governo secessionista (formato da Erc, JxCat e la Cup) oppure il cosiddetto Governo del Tripartito (composto da Erc, Psc e Podemos). Questo Governo delle tre sinistre è già stato in carica alla Generalitat in due occasioni dal 2003 al 2010 e riflette anche la composizione politica dell’attuale Governo centrale di Sánchez (composto da Psoe e Podemos ma nato grazie alla decisiva astensione di Erc). L’esito delle elezioni catalane avrà pertanto delle ripercussioni anche sulla stabilità del Governo di Madrid. Una vittoria indipendentista con JxCat come primo partito sarebbe il peggiore degli scenari per il primo ministro, dato che il partito di Puigdemont intende proseguire pugnacemente nella lotta per l’indipendenza. I sogni di «Sánchez il riconciliatore» andrebbero in frantumi. Per contro, se Erc o il Psc fossero il primo partito in Catalogna, si aprirebbe la possibilità della riedizione di un nuovo Governo tripartito. Secondo molti analisti, Erc continuerebbe ad appoggiare esternamente il Governo di Sánchez a Madrid e in cambio otterrebbe un indulto governativo per tutti i leader indipendentisti in carcere. Molte incognite comunque incomberanno sul voto fino all’ultimo minuto. L’unica certezza è che, con o senza pandemia, il rebus catalano sarà ben lungi dall’essere risolto la sera del 14 febbraio.
Le mire cinesi sulle Svalbard
Strategia L’arcipelago norvegese è conteso in quanto punto cruciale per la conquista
delle ricchezze dell’Artico. Anche i russi marcano presenza mentre Oslo cerca di resistere Irene Peroni Le Svalbard sono un arcipelago nel Mare glaciale artico appartenente alla Norvegia. Per chi, visitandole, cercasse un segno tangibile della presenza cinese lo troverebbe soltanto negli inconfondibili leoni di pietra posti a guardia dell’ingresso di un edificio di legno ribattezzato «Base artica Fiume Giallo». Siamo a Ny Ålesund, una specie di villaggio internazionale della scienza: è lì che, tra le varie comunità scientifiche, da 18 anni è presente anche un team proveniente dalla Cina. Negli ultimi mesi i media norvegesi parlano con crescente preoccupazione di possibili acquisizioni in zona da parte della Cina. Quest’ultima, che delle proprie ambizioni nell’Artico non fa mistero, sta cercando infatti di aggiudicarsi una licenza mineraria che l’attuale proprietaria, una compagnia privata norvegese, ha messo in vendita. Si tratta di un territorio che misura circa 200 chilometri quadrati e si trova non lontano dalla capitale Longyearbyen. Ma perché il gigante cinese dovrebbe voler sfruttare un bacino carbonifero in questo remoto arcipelago nel cuore dell’Artico? E perché vuole farlo proprio ora, mentre parte del mondo dichiara di lottare per ridurre le emissioni di gas serra e la stessa Norvegia mira a chiudere l’u-
nica miniera che le è rimasta, sostituendo l’attuale centrale a carbone con un impianto più green? «L’interesse cinese nei confronti dell’Artico è emerso soltanto negli ultimi anni», ci spiega il norvegese Per Arne Totland, autore di un libro e vari saggi sull’importanza strategica delle Svalbard. «La Cina ha ottenuto lo status di osservatore permanente presso il Consiglio artico nel 2013, poi si è autoproclamata uno “Stato quasi artico”, definizione a mio avviso priva di senso, pubblicando nel 2018 un documento sulla sua strategia per l’Artico». Per Pechino la posta in gioco è molto alta, afferma il nostro interlocutore: con lo scioglimento dei ghiacci, stanno affiorando le preziosissime materie prime finora protette della calotta glaciale. Queste rappresentano il 20 per cento delle risorse naturali di tutto il pianeta. Basti pensare all’uranio e alle terre rare in Groenlandia (indispensabili per la produzione di batterie elettriche, telefoni cellulari e delle pale eoliche). Risorse su cui naturalmente ha messo gli occhi anche la Cina, che già ne detiene il monopolio assoluto. Inoltre la Rotta marittima del Nord sta per diventare una realtà e con essa si realizzerà il sogno di una vera e propria Via polare della seta. Questa permetterà ai cargo di viaggiare più agevolmente tra Cina
ed Europa navigando lungo la costa settentrionale della Russia, senza dover passare per il Canale di Suez o circumnavigare il Continente africano. La lontananza geografica della Cina dall’Artico rende ancora più appetibili le Svalbard, considerate per molti secoli terra di tutti e di nessuno. In base a un trattato internazionale firmato nel 1920, questo arcipelago, penultima tappa delle storiche spedizioni alla conquista del Polo Nord, è sotto la sovranità norvegese. Ciononostante individui e aziende di tutti i 44 Paesi firmatari del documento godono di pari diritti anche per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali e lo svolgimento di qualsiasi attività commerciale.
Con lo scioglimento dei ghiacci affiorano le materie prime, inoltre la Via polare della seta sta diventando realtà Ad essere sinceri, al di là del turismo, grandi opportunità di business alle Svalbard non ci sono. Le miniere di carbone (ad esempio quello di Barentsburg, un abitato russo con tanto
di busto di Lenin in piazza) vengono principalmente sfruttate per generare l’energia elettrica necessaria ad approvvigionare la comunità locale, che consiste in gran parte di minatori. Si tratta dunque di attività non molto redditizie ma di enorme valore strategico. In primis per i russi che infatti sono presenti ormai da quasi 90 anni e non hanno alcuna intenzione di andarsene. Totland afferma che Mosca ha di recente rinnovato e potenziato il proprio insediamento e non vede di buon occhio le mire cinesi. Con l’accresciuto interesse internazionale nei confronti dell’arcipelago, Oslo è sempre più sotto pressione per quanto riguarda l’esercizio della propria autorità. La situazione è complicata dal fatto che alle Svalbard gli stranieri stanno prendendo numericamente il sopravvento: sono aumentati del 60% rispetto a 10 anni fa mentre i norvegesi se ne stanno andando. Questo preoccupa Totland: «La presenza norvegese alle Svalbard dev’essere sufficientemente consistente e robusta da far sì che la Norvegia mantenga la propria credibilità». Stefano Poli, imprenditore milanese nel campo del turismo che a Longyearyen vive da ben 27 anni, pensa che entro breve si assisterà a grandi cambiamenti che renderanno più diffi-
Il saggista Per Arne Totland. (Anna Julia Granberg, Blunderbuss)
cile stabilirsi e gestire attività sulle isole. «Una delle poche aree del globo che possano ancora essere sfruttate è l’Artico», spiega. «La Norvegia si sente come una pecorella che custodisce un tesoro, circondata da lupi feroci che tentano di sottrarglielo. Lo Stato norvegese sta cercando comunque di riprendere il controllo politico e logistico sulle Svalbard ponendo dei limiti di vario genere: nei confronti degli investitori, di chi è autorizzato a gestire il turismo e perfino limitando l’accesso in motoslitta ad alcune zone». Per quanto riguarda la Cina, Poli non crede che la Norvegia le lascerà acquistare i diritti minerari di cui tanto si parla: «Li comprerà lo Stato norvegese. E se ciò non dovesse avvenire, esiste sempre la possibilità di cambiare le leggi in modo tale da creare ostacoli nei confronti di chi dovesse avere mire espansionistiche».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Politica e Economia L’irruzione di Draghi sulla scena politica italiana è stata salutata dall’euforia dei mercati finanziari. (Keystone)
Russia, sanzioni e rivolta di palazzo
Caso Navalny L’opposizione resta in piazza
e guarda agli scontenti nell’élite putiniana Anna Zafesova
Il sovranismo contro Super Mario Italia La visione europeista di Draghi infastidisce molti
ma la paura del voto è forte. La politica ne esce con le ossa rotte
Alfredo Venturi Non resta dunque per guidare l’Italia che un Governo di salute pubblica. A questa conclusione è giunto il presidente della repubblica Sergio Mattarella dopo che il presidente della Camera Roberto Fico, incaricato di sondare i partiti alla ricerca di una maggioranza politica che spianasse la via a un terzo governo Conte, ha malinconicamente gettato la spugna. Proprio come la Francia rivoluzionaria, minacciata e accerchiata dagli eserciti delle potenze legittimiste e dalla controrivoluzione interna ispirata da aristocratici e clero, così l’Italia stretta fra la pandemia, il collasso economico e un disagio sociale che rischia di diventare rapidamente incontrollabile, cerca un Esecutivo d’emergenza che superando l’inerzia rissosa dei partiti la tiri fuori dai guai.
La vicina penisola, stretta fra la pandemia, il collasso economico e il disagio sociale, cerca una via d’uscita Siamo di fronte a una plateale sconfitta della politica, che non solo non è stata all’altezza della sfida ma se ne è praticamente distolta per trastullarsi con i suoi giochi di potere. A questo punto ecco davanti a Mattarella una secca alternativa: da una parte lo scioglimento delle Camere e il voto anticipato rispetto alla scadenza naturale del marzo 2023, dall’altra un Esecutivo tecnicoistituzionale di alto profilo cui affidare il Paese spossato. Il presidente ha scelto quest’ultima soluzione e si è affidato a una personalità al di fuori della politica politicante. Così è maturato l’incarico a Mario Draghi, l’ex presidente della Banca centrale europea che Mattarella ha strappato agli ozi di Città della Pieve, la località umbra in cui si godeva il meritato riposo dopo i faticosi anni di Francoforte. Certo ben consapevole che prima o poi il Quirinale lo avrebbe chiamato in soccorso. È accaduto, e come vuole la prassi ha accettato l’incarico «con riserva». Per 6 anni governatore della Banca d’Italia, per 8 presidente della Banca centrale europea, Draghi è da sempre considerato a Roma una preziosa riserva della Repubblica, di
più, un vero e proprio deus ex machina, l’uomo che dopo avere salvato l’euro perché mai non potrebbe salvare l’Italia? Molti ricordano la formula con cui assicurò che la banca centrale europea avrebbe fatto tutto il possibile, whatever it takes, per contrastare la speculazione contro la valuta comune. Così come ricordano la sua impassibile fermezza nel resistere alle pressioni di chi, a cominciare da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, era contrario all’acquisto indiscriminato, deciso sulla base del quantitative easing, dei titoli di Stato emessi dai Paesi in difficoltà finanziarie. Proprio questa capacità di resistenza alle politiche dell’ingombrante partner tedesco è fra le ragioni della popolarità di «Super Mario», come lo hanno ribattezzato. La sua improvvisa irruzione sulla scena politica è stata salutata dall’euforia dei mercati finanziari. Prima ancora che l’ex banchiere centrale salisse al Quirinale per ricevere formalmente l’incarico, le borse segnalavano una netta tendenza al rialzo soprattutto dei titoli bancari. In forte ribasso, al contrario, il famigerato spread che misura la differenza di rendimento fra i titoli di Stato italiani e tedeschi, in pratica il volubile termometro delle difficoltà finanziarie di Roma. I favorevoli commenti sulla stampa internazionale confermano il prestigio da cui «Super Mario» è circondato nel mondo e la speranza che la sua presenza a Palazzo Chigi possa proiettare dell’Italia un’immagine affidabile. Certo, fanno notare gli editorialisti, s’impongono scelte difficili. Fin dall’inizio la scommessa del Governo Draghi si presentava piuttosto ardua. Lui stesso aveva messo le mani avanti: accetterò a patto di poter disporre di un’ampia maggioranza. Ma non è affatto facile. I partiti italiani vivono da tempo giorni difficili. Proprio per attenuare l’impatto della sua mossa, Mattarella pensa a un Governo tecnico-politico: salute pubblica sì, ma non senza la partecipazione delle forze rappresentate in Parlamento. La politica tradizionale è tutta da conquistare se si escludono tre elementi: il Partito democratico, che pure avrebbe preferito ricomporre attorno a Conte la maggioranza uscente; Italia viva, la formazione di Matteo Renzi, l’uomo che ha voluto la crisi, ne ha impedito la soluzione politica e ora canta vittoria;
e nel centro-destra i berlusconiani di Forza Italia. Sul fronte della maggioranza uscente i Cinquestelle sono lacerati, da sempre sono dichiaratamente ostili agli Esecutivi tecnici e molti di loro decisamente a disagio di fronte alla forte impronta europeista del presidente incaricato, considerato fra l’altro uomo dei poteri forti, dell’establishment bancario. Fra le forze del centro-destra questa soluzione è vista con dichiarata avversione dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che oltre a respingere l’europeismo di Draghi sono favoriti dai sondaggi e dunque preferirebbero chiamare gli elettori al voto. Quanto alla Lega è profondamente divisa, anche Matteo Salvini vorrebbe andare a votare ma manda segnali di apertura dichiarando di non avere pregiudizi. Lo scoglio che ostacola l’operazione Draghi è la presenza nell’intero spettro politico, soprattutto nella Lega ma anche nei Cinquestelle, di forti componenti sovraniste. A parte i Fratelli d’Italia che sovranisti lo sono per così dire fin nel Dna. Costoro ovviamente osteggiano Draghi e la sua visione che colloca al centro della scena l’Unione europea. Assieme all’incarico, Mattarella ha dato al presidente incaricato un compito davvero difficile, convincere il maggior numero possibile di parlamentari che i problemi dell’emergenza sanitaria economica e sociale hanno al momento un’assoluta priorità, tutto il resto passa in secondo piano. L’incompatibilità con le pulsioni sovraniste conferma il fallimento della politica implicito nell’incarico a Draghi. Infatti la sua maggioranza potenziale disarticola non soltanto i due schieramenti contrapposti, quello che sosteneva Conte e l’opposizione di centro-destra, ma anche molti singoli partiti. È come uno tsunami che travolge antiche certezze. Eppure l’ex presidente della banca centrale è salito al Quirinale avendo in mano una buona carta, forse una carta vincente. È la paura del voto che attanaglia i partiti della maggioranza giallo-rossa ma anche molti parlamentari dell’altra sponda. Perché il recente referendum ha sfoltito le Camere e, alle prossime elezioni, i seggi a disposizione dei deputati e dei senatori saranno complessivamente non più 945 ma solo 600. Così per molti uscenti la rielezione sarà problematica...
Con la condanna di Alexei Navalny a 3 anni e mezzo di carcere per un’accusa palesemente pretestuosa, e la conseguente violentissima repressione poliziesca delle proteste nel centro di Mosca e San Pietroburgo, il Cremlino ha varcato la linea che separava la «democrazia sovrana» di Vladimir Putin dalla «lista nera» delle dittature. Lo si è visto anche dalle reazioni internazionali, immediate e brusche, alla condanna. Washington e Bruxelles, Londra e Parigi, Berlino e Stoccolma, tutti i Governi occidentali hanno chiesto la «liberazione immediata e incondizionata» del leader dell’opposizione russa e delle migliaia di arrestati negli ultimi giorni, definiti dal neosegretario di Stato Usa Anthony Blinken «detenuti politici». La diplomazia internazionale mette da parte, dunque, formule prudenti come «auspicio» e «profonda preoccupazione», in una condanna unanime di un sistema che viene ormai considerato incapace «di rispettare gli impegni più elementari che ci si aspetta da qualsiasi Paese responsabile della comunità internazionale», come recita un comunicato del Foreign office britannico.
L’élite al potere si proclama nazionalista ma possiede conti in Svizzera e manda i figli a studiare a Londra La Russia torna ad assomigliare all’Unione sovietica anche nell’ostilità ormai dichiarata verso l’Occidente, con il ministero degli Esteri russo che inquadra le targhe diplomatiche dei rappresentanti delle ambasciate europee venuti al processo e accusa di «ingerenza» i Governi che hanno condannato le repressioni dei dissidenti. La visita dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, a Mosca ha inaugurato quello che probabilmente sarà d’ora in poi l’approccio internazionale verso il Cremlino. Ogni interazione inizierà dalla richiesta di liberare i detenuti politici, come all’epoca sovietica per Andrei Sakharov. L’Europa sta discutendo un nuovo pacchetto di sanzioni verso la Russia e anche Blinken ha promesso un dibattito con gli alleati per quella che potrebbe diventare una sorta di «Lista Navalny», un elenco di funzionari e oligarchi russi su cui esercitare pressioni nella speranza che a loro volta facciano pressioni su Putin per un’inversione di rotta. Tra i più probabili bersagli delle sanzioni c’è anche il gasdotto North Stream 2 che porta il metano dalla Russia alla Germania (però Berlino non ci sente). Ma l’esempio della Bielorussia – dove il dittatore Alexandr Lukashenko, già colpito da un quarto pacchetto di sanzioni europee, si è visto togliere l’or-
ganizzazione dei mondiali di hockey, ai quali sarebbe sicuramente venuto anche Putin – mostra che si possono trovare tanti altri modi per far pagare al Cremlino la sua condotta. Lo stesso Navalny ha invocato da dietro le sbarre sanzioni più vaste non soltanto alla cerchia più ristretta di Putin, ma a diversi oligarchi e funzionari russi, che legano i loro interessi, patrimoni e divertimenti all’Occidente. L’élite putiniana si proclama ultranazionalista, ma normalmente – non solo i magnati e i capi della propaganda, ma anche funzionari di provincia come sindaci e governatori – possiede conti in Svizzera, ville sul lago di Como e in Costa Azzurra, appartamenti a Miami e New York, manda i figli a studiare in Inghilterra, mogli e amanti a fare shopping a Londra. Sicuramente non desidera perdere i benefici di cui gode quindi non vede di buon occhio un ulteriore isolamento della Russia. Da qui una certa insofferenza. Esempi di primi screzi si sono visti anche durante il processo a Navalny: la giudice che doveva condannarlo è stata sostituita all’ultimo momento e il presidente del tribunale mandato in pensione. Segnali di un probabile rifiuto da parte di certi membri dell’élite al potere di partecipare al nuovo giro di vite, dove la paura di sanzioni e di un prezzo pesante da pagare una volta caduto il sistema Putin sono una componente importante. Quella di una «rivolta di palazzo», una sorta di «perestroika» imposta da un pezzo di classe dirigente che non ha nessuna intenzione di farsi travolgere dal declino del putinismo, è infatti una delle carte che l’opposizione russa vuole giocare, insieme al programma di mantenere e possibilmente ampliare le manifestazioni di scontento, nei limiti entro cui le autorità russe le permetteranno. Attualmente gran parte del vertice dell’organizzazione di Navalny è in carcere o agli arresti domiciliari, in attesa di venire processato per «organizzazione di manifestazioni illegali» e «violazione delle norme anti-epidemiche», imputazioni penali con condanne a reclusione reali. La macchina repressiva però si scontra con manifestazioni di solidarietà diffuse, che vanno dagli appelli sui social al crowdfunding per gli oppositori e gli arrestati, a piccoli gesti ribelli come i clacson suonati dai conducenti nel centro di Mosca durante i cortei. Intanto al primo posto dell’agenda del Cremlino si pone il mantenimento del controllo sullo scontento e, in assenza di risorse economiche da investire, la scommessa viene fatta sulla repressione poliziesca, in una svolta probabilmente definitiva verso l’ala più dura del Governo, a danno dei tecnocrati più moderati e pragmatici che si occupano dell’economia. Squilibrio che il partito di Putin rischierà di pagare già al prossimo grande appuntamento elettorale: il voto di settembre per la Duma.
Il Cremlino punta sempre più sulla forza per mantenere il controllo. (Shutterstock)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Politica e Economia
Uno scherzo di Rivoluzione Reportage A dieci anni dalla sua «Primavera» la Tunisia non ha ancora trovato la pace e una direzione.
Si scende sempre in piazza per chiedere pane, riforme, libertà di espressione e denunciare gli abusi della polizia Francesca Mannocchi Nariman Zorgui ha 21 anni, grandi occhi neri che spuntano dalla mascherina che copre il volto. Che sorrida si capisce dalle pieghe che le circondano gli occhi mentre osserva la piazza, quando le centinaia di giovani che affollano il sabato pomeriggio Avenue Bourguiba, in centro a Tunisi, alzano le braccia, battono le mani e intonano lo stesso slogan: «Basta corruzione, vogliamo le riforme». Nariman non è né povera né disoccupata. È figlia della Tunisia benestante, di una classe media che non si è (ancora) impoverita. Il suo inglese è perfetto, studia marketing all’università. Nessuno nella sua famiglia ha problemi economici, eppure quando tre settimane fa ha acceso la Tv e ha assistito all’ondata di arresti durante le manifestazioni ha deciso di unirsi ai suoi coetanei per difendere un diritto per cui il Paese ha combattuto 10 anni fa ma che, evidentemente, non è ancora completamente acquisito: la libertà di espressione. «Stavo mangiando con la mia famiglia», ci racconta. «Guardavo il notiziario e c’erano persone arrestate per il solo fatto di essere scese in piazza a rivendicare i loro diritti, a protestare pacificamente per chiedere riforme. Anzi, pane e riforme. Si vedevano minorenni trascinati in malo modo dalle forze dell’ordine. Non posso accettare che questo accada ancora in Tunisia, 10 anni dopo la Rivoluzione». Per questo motivo il sabato successivo è scesa in piazza anche lei. A chiedere la scarcerazione dei giovani ingiustamente fermati. A domandare che le richieste di riforme non restino inascoltate.
La Tunisia ha cambiato 11 Governi in 10 anni. Il 36 per cento dei giovani è disoccupato e la Covid complica il quadro La «Primavera tunisina» è generalmente ricordata come la storia di maggior successo delle rivolte di 10 anni fa, talvolta come la sola di successo. Eppure i tunisini aspettano ancora stabilità e prosperità. Lavoro e giustizia. Il 14 gennaio scorso, anniversario della Rivoluzione, il primo ministro Hichem Mechichi ha annunciato un rigoroso lockdown di 4 giorni, formalmente per arginare il contagio dovuto all’epidemia da Covid-19. La decisione è stata però percepita come un blocco politico per evitare l’espressione del malcontento, le manifestazioni. Una strategia per far sì che i cittadini non protestassero per le mancate riforme, l’ennesima crisi governativa, la mancanza di aiuti economici. E quando il giorno successivo un video ha mostrato un agente di polizia nell’atto di aggredire un pastore a Siliana, regione nord occidentale del Paese, la rabbia è esplosa nelle strade e le proteste continuano. Il Governo accusa i manifestanti di aggredire le forze dell’ordine e saccheggiare case e negozi. I manifestanti chiedono lavoro e dignità, rilascio dei detenuti. Denunciano abusi perpetrati dalla polizia che ha usato lacrimogeni, idranti e arrestato arbitrariamente centinaia di minorenni e attivisti. Ad esempio Ahmed Ghram, blogger e membro della Lega tunisina dei diritti umani, è stato fermato lo scorso 17 gennaio dopo che le forze di polizia hanno fatto irruzione in casa sua, accusandolo di incitamento alla disobbedienza civile. È stato trattenuto per 11 giorni in prigione. Secondo Nawres Zoghbi Douzi, altro attivista della Lega tunisina per i diritti umani,
Anche i giovani benestanti esprimono il loro dissenso. Un’istantanea da Tunisi. (A. Romenzi)
dall’inizio delle proteste sarebbero 1400 le persone tratte in arresto, il 30 per cento avrebbe meno di 16 anni. «È il retaggio del regime», dice. «In questo Paese puoi deridere il Governo senza essere punito ma non puoi criticare l’operato delle forze dell’ordine». Il 19 gennaio il primo ministro Mechichi, rivolgendosi alla Nazione, ha affermato di essere consapevole della crescente rabbia sociale e della necessità di riforme strutturali. Una settimana dopo ha nominato 11 nuovi ministri. Un rimpasto di Governo che però ha poco a che fare col cambiamento: 4 dei ministri di nuova nomina sono sospettati o indagati per corruzione. Le blande promesse del primo ministro non sono bastate a placare l’urgenza della piazza e il 26 gennaio centinaia di tunisini hanno di nuovo marciato al Bardo verso il Parlamento, mentre altri protestavano nei quartieri marginalizzati della capitale come Kabaria e Hay Ettadhamen. La folla cantava gli slogan della rivolta tunisina del 2011: «La gente vuole rovesciare il regime» e «Pane, libertà, dignità nazionale». Le parole d’ordine, a 10 anni di distanza, non sono cambiate. Lo scorso anno, secondo l’agenzia di rating Fitch, l’economia tunisina ha subito una contrazione di circa l’8 per cento, il calo più significativo dalla dichiarazione di indipendenza del 1956. Fitch prevede anche che il debito pubblico tunisino raggiungerà l’anno prossimo quasi il 90 per cento del Prodotto interno lordo, con un aumento di circa il 20 per cento rispetto a soli 2 anni fa. A questo vanno ad aggiungersi i numeri della disoccupazione che sono impressionanti. Il 36 per cento dei giovani è senza lavoro e la situazione rischia di peggiorare: secondo il Governo e le organizzazioni internazionali la pandemia ha decimato l’industria turistica del Paese e tagliato le esportazioni verso l’Europa, il principale partner commerciale della Tunisia, provocando la chiusura di migliaia di aziende. Nel 2020 le entrate legate al turismo sono crollate del 65% e a seguito della crisi sanitaria, secondo un rapporto recente dell’International finance corporation, il 5% delle aziende tunisine ha chiuso definitivamente. Nariman non era in piazza 10 anni fa, nelle settimane della «Rivoluzione dei gelsomini». Di quei giorni però ricorda sapori, odori, i volti di chi la cir-
condava. Le immagini del 17 dicembre 2010 quando Mohammed Bouazizi, un giovane fruttivendolo di Sidi Bou Zid, si è dato fuoco contro la confisca della sua carriola, sono per Nariman un simbolo e un monito. Una ferita da celebrare, una promessa di cambiamento a cui tenere fede. Della piazza del 2011 la giovane gode le conquiste e ricorda il sangue, i morti, i sacrifici di tante famiglie e tante città, compresa la città natale della sua famiglia, Kasserine, uno degli epicentri della rivoluzione. Kasserine, insieme a Sidi Bou Zid, è stata una delle culle del «Thawrat alkarama», la «Rivoluzione della dignità». La città, patria del maggior numero di martiri della rivoluzione, era ed è una delle più emarginate del Paese, con un tasso di povertà del 50%. Nella città di Kasserine il 43% dei giovani tra i 18 e i 34 anni non ha lavoro. È anche per sostenere la loro protesta che Nariman, oggi, è in piazza. «Avevo solo 11 anni quando la Rivoluzione ha determinato la fine del regime di Ben Ali», racconta. «Ma ricordo i ragazzi della mia città picchiati e uccisi dalla polizia. Ecco perché se mi chiedi cosa sia la democrazia oggi penso al sacrificio delle persone morte in quei giorni. La democrazia per me ha il colore del sangue, il sangue dei martiri è quello che ci ha permesso di arrivare qui, oggi, a dire al Governo che abbiamo bisogno di riforme. I nostri genitori erano oppressi dal regime di Ben Ali, hanno combattuto per la nostra libertà. È allo sforzo di chi ha sfidato il regime nel 2011 che dobbiamo la forza delle nostre proteste, oggi». Quando la prima fila dei manifestanti comincia a prendere a calci gli scudi delle forze dell’ordine lo sguardo di Nariman si fa malinconico. «La Rivoluzione a volte mi pare un grande scherzo», è una frase che sussurra, a differenza delle altre che pronunciava con forza e orgoglio. Quando dice scherzo la voce di fa bassa, come se ne avesse pudore, o peggio, come se ne avesse paura. «Ma è per questo che siamo qui. Non la daremo vinta a chi vuole restaurare forme di potere repressive». Nariman, come molti dei suoi coetanei sa che la transizione democratica richiede tempo e che 10 anni non sono un tempo sufficiente per compiere tutti i cambiamenti necessari. È saggia abbastanza da sapere che è vero che la Rivoluzione tunisina è una Rivoluzione
compiuta e non fallita, perché – dice – «abbiamo guadagnato a differenza di altri il diritto di essere qui a dire che vogliamo quello che ci spetta», ma mancano molti pezzi per completare il puzzle. E i pezzi sono in mano a una classe politica che si è dimostrata inadeguata al compito storico che avrebbe dovuto svolgere, accompagnare il Paese alla formazione e stabilizzazione di istituzioni democratiche. Invece la Tunisia ha cambiato 11 Governi in 10 anni e il tessuto socioeconomico, anziché ripararsi, ha continuato a essere danneggiato ed è
rimasto vittima della mancanza di capacità istituzionale di fissare obiettivi di medio termine e progettare soluzioni durature, soprattutto nel mercato del lavoro. «Quella di queste settimane – afferma Nariman – non è una Rivoluzione. Almeno non ancora. È un’onda di giovani che riempie le strade per ricordare ai politici che abbiamo eletto che sono passati 10 anni e stiamo ancora aspettando che mantengano le promesse del 2011. Siamo qui per ricordare loro che siamo in attesa. Poi, se servirà un’altra Rivoluzione per averle, beh, la faremo». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Politica e Economia
Un esplosivo potere decisionale
Social Media Il «dietro le quinte» di quanto è accaduto a Twitter è abbastanza curioso e, perlomeno, fa vedere
un lato interessante della vicenda che ha visto il profilo dell’ex Presidente americano Donald Trump, prima criticato, poi sospeso e poi cancellato Mirko Nesurini Il fondatore del social network, Jack Dorsey, ha dei collaboratori ai quali concede molta autonomia e fiducia. Una di questi è Vijaya Gadde, capo dell’ufficio legale e safety expert. Quando il 6 gennaio 2021, Trump ha oltrepassato il limite, incitando i suoi fan alla rivolta, Gadde ha chiamato il suo capo e l’ha informato di un fatto significativo per la loro azienda: la decisione di «sospendere temporaneamente l’account del Presidente». Probabilmente, dall’altra parte del telefono, Dorsey ha passato un brutto quarto d’ora, ma coerente con se stesso, ha risposto: «procedi pure, questa decisione è una tua competenza». Per comprendere la grandezza della risposta di Dorsey, bisogna considerare che erano quattro anni che si trovava sotto assedio da parte dei leader democratici, degli investitori liberal della sua azienda e dei propri dipendenti per intervenire sull’account del Presidente, ma aveva sempre spostato avanti la decisione. Nei giorni seguenti alla sospensione, e poi dopo la cancellazione definitiva dell’account @realDonaldTrump, Dorsey, ha espresso la sua opinione in una serie di post che possono essere riassunti con il seguente concetto: «la cancellazione dell’account di Trump è stato un fallimento nella nostra attività di promozione di conversazioni equilibrate su Twitter».
La decisione di Twitter, ma anche di Facebook e Youtube, apre un acceso dibattito sui limiti e sul loro potere di controllo e intervento nei dibattiti online Per tutti, invece, la decisione è stata una «buona scelta», perché le circostanze sembravano davvero portare a un esito che sarebbe stato indesiderato.
La critica principale è: perché non siete intervenuti prima? (Keystone)
Tuttavia, quella decisione presa da un legittimo responsabile legale di una società privata, è stata un punto di svolta per tutta l’industria tecnologica, poiché il dibattito si è surriscaldato parecchio intorno ai limiti di potere di queste società e sul loro livello di controllo e intervento nei dibattiti online. Nelle ultime settimane abbiamo letto opinioni provenienti da rappresentanti di diverse aree di pensiero e di professione: esperti di privacy, professori delle più famose università, politici di ogni risma, esperti costituzionalisti e di comunicazione. I punti in discussione sono: 1) potevate intervenire prima, avete lasciato scorrazzare libero Trump perché vi tornava comodo per lo sviluppo della vostra piattaforma e forse perché avevate paura del potente di turno; 2) avete chiuso il suo profilo, ma nel mondo esistono decine di altri soggetti che
continuano indisturbati a bullizzare i loro avversari via Twitter e 3) non tocca a Twitter intervenire in modo tanto brutale nel dibattito politico zittendo quello che probabilmente era l’uomo più potente al mondo. In realtà, un precedente ci fu il mese di marzo scorso, quando un tweet del presidente del Brasile Bolsonaro, altro soggetto caratterizzato da una certa vivacità comunicativa, fu valutato come critico per via del contenuto che promuoveva: false cure contro il coronavirus. Ma in quel caso, il tweet non fu cancellato, venne aggiunto un adesivo che informava l’utente circa una violazione delle regole di Twitter. La stessa procedura fu adottata per i post pubblicati dal presidente Trump dopo le elezioni di novembre. Il punto effettivamente delicato è il potere che un’azienda, o meglio, dei dipendenti incaricati di monitorare le conversazioni online dentro un social
network, possano avere sulla conversazione pubblica globale. I mezzi di comunicazione di massa, tutti quanti, e quindi anche Twitter, sono delle istituzioni sociali che hanno regole e norme proprie e che contribuiscono a definire la realtà sociale, esprimono valori, offrono uno spazio in cui si svolgono importanti processi culturali. Rispetto a un quotidiano o a un canale televisivo, Twitter è un media in cui l’intermediazione del giornalista è assente, ognuno può presentare la propria visione della società e contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. Da qualche anno – non molti, ma sono stati intensi – ci troviamo nell’età della tecnologia che ha ridefinito le funzioni e le potenzialità dell’intero sistema comunicativo. Il social network è un mezzo che deroga alla regola di stare «in mezzo» tra quel che succede e il lettore, propo-
nendosi come filtro adatto per mostrare i fatti secondo la visione del giornalista. In assenza di filtro, è come andare sulla neve senza gli occhiali da sole, può andarti bene che in una splendida giornata vedi la natura nella sua bellezza esplicita, che non richiede didascalie, perché evidente, oppure può andarti male e finisci in un burrone, tanto che l’aiuto di un bel paio di lenti sarebbe stato utile. Non c’è da stupirsi che, a un certo punto, i giornalisti abbiano perso il piglio sulla società, perché tutti abbiamo pensato che potessimo essere in grado di interpretare il mondo senza filtri. Purtroppo, ci siamo distratti, rinunciando al ruolo fondamentale del giornalista, e cioè quello di aiutarci a unire gli eventi tra loro per costruire una trama sensata e, in fin dei conti, per aiutarci a capire ciò che ci circonda. La brevità delle frasi, l’uso di una impostazione a slogan, hanno fatto il resto, rendendo facile la fruizione, ma spesso tralasciando il gusto dell’approfondimento, portando molti di noi a cumulare un notevole deficit di attenzione. Un’altra curiosa dinamica opposta al passato, è la riduzione delle fonti. Non più mille giornali, ma tre o quattro social network e non più pochi interpreti per ogni network, ma una moltitudine per pochi network. Allora è proprio questo il tema. Se sei editore di uno dei tanti giornali di questo mondo e decidi di non ospitare più o commentare i deliri di un presidente, ce ne faremo una ragione e alla fine saranno pure fatti tuoi, poiché le alternative sono garantite. Ma se sei il proprietario di un medium che offre al presidente di turno un audience di 88 milioni di lettori e sei – di fatto – l’unico o tra i pochi, allora la partita cambia di livello e, prima di agire, o di dare tanto potere discrezionale alla tua responsabile dell’ufficio legale, magari ci pensi due volte e semmai ti consulti con un ente terzo, che possa dare una lettura alternativa o perlomeno abbia un ruolo consultivo rispetto a quello dei tuoi dipendenti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 febbraio 2021 • N. 06
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La strategia climatica del Consiglio federale Entro la fine del 2020 i paesi firmatari dell’accordo di Parigi si erano obbligati a presentare il programma di come, entro il 2050, ciascun di loro avrebbe cercato di realizzare l’obiettivo principale di quell’accordo, ossia l’azzeramento delle emissioni che determinano il riscaldamento dell’atmosfera (eliminazione dei gas serra). Con qualche settimana di ritardo la consigliera federale Simonetta Sommaruga ha dato seguito a questo impegno rendendo pubblica la strategia climatica del Consiglio federale. Nella stessa vengono formulati dieci principi strategici che nei prossimi anni dovranno guidare la politica climatica della Svizzera. Viene inoltre indicato il da farsi, fino al 2050, nei settori Edifici, Industria, Trasporti, Agricoltura e alimentazione, Mercato finanziario, Aviazione e Industria dei
rifiuti. Per ciascuno di questi settori si stabiliscono obiettivi strategici. Il documento del Consiglio federale non è però solo una dichiarazione di intenti. Esso elenca infatti anche gli interventi per i prossimi dieci anni. Le finalità che la politica climatica si pone sono ambiziose ma la necessità di intervenire si fa sempre più urgente se si vuole frenare il surriscaldamento dell’atmosfera. La tendenza in atto è infatti nota da tempo: l’aumento di temperatura registrato negli ultimi decenni è stato, da noi, praticamente due volte superiore a quello medio mondiale. Il nostro paese è responsabile di due tipi di emissioni. In primo luogo di quelle che vengono provocate, sul nostro territorio nazionale, dalle attività economiche, dalle attività di svago e da una parte degli impianti di riscaldamento. In secondo
nazione di 12 milioni di tonnellate di gas di serra, rimanenti alla fine del periodo previsto, pesa ancora più di un dubbio. Stando al comunicato stampa che riporta la notizia dell’approvazione della strategia i costi sociali ed economici di un cambiamento climatico incontrollato supererebbero di gran lunga i costi delle misure di protezione del clima previste dalla strategia. Il problema tuttavia è quello di sempre rispetto a misure di questo tipo: esse sono vantaggiose a livello dell’insieme dell’economia e della società ma possono beninteso provocare eccessi di costi in singoli settori, gruppi di aziende o per singoli agenti economici. Anche se l’orizzonte del 2050 sembra essere ancora lontano, ci si deve attendere che gli interessati che saranno toccati dalle misure della strategia non staranno
con le mani in mano e si paleseranno presto come oppositori della stessa. Un primo importantissimo banco di prova delle possibilità che questa strategia a lungo termine ha di essere realizzata ce lo offrirà la prossima votazione sul referendum contro la revisione della legge federale sul CO2. È certo che se questa legge non dovesse superare lo scoglio del referendum la strategia appena adottata dovrà essere riveduta e adattata. Saranno in grado gli elettori di apprezzare queste implicazioni? Per ora, la settimana scorsa, la legge sul Co2 ha ottenuto l’approvazione di «Economie suisse», l’associazione della aziende svizzere che, inoltre, ha reso pubblico un suo piano per l’azzeramento delle emissioni entro il 2050. Qualcosa si sta muovendo sul fronte della politica climatica. Affaire a suivre!
Sempre di recente il team legale di Trump ha subito un duro colpo: cinque suoi consiglieri se ne sono andati. Secondo le ricostruzioni dei media, la rottura si è consumata sulla strategia da seguire per affrontare il processo al Congresso, cioè il secondo impeachment di Trump. La messa in stato d’accusa dell’ex presidente è stata voluta dai democratici e da alcuni repubblicani per sanzionare quel che è accaduto al Campidoglio il 6 gennaio scorso. Donald Trump è accusato di aver istigato l’assalto al palazzo. Qual è la linea di difesa? Ce ne sono due: una vuole che si combatta e cioè che si porti anche dentro al Congresso la teoria delle elezioni rubate. Questa è la linea dei «fighters», la più radicale, secondo la quale, in sostanza, Joe Biden è un impostore. La seconda è la linea di difesa cosiddetta tecnica: è incostituzionale portare avanti un impeachment di un ex presidente. È la linea dei più ragionevoli o dei più cauti, di quelli insomma che sono disposti a difendere Trump
ma non a tutti i costi. Il team legale si è spaccato su questo punto, ora si è ricomposto con due nuove entrate. Ancora non si sa quale sarà la linea di difesa adottata da Trump, ufficialmente prevale la seconda. Il test di lealtà sui «fighters» non serve soltanto a maneggiare il fine regno di Trump: è la premessa per il suo futuro. «Save America», un Pac creato dopo le elezioni di novembre, cioè dopo la sconfitta del repubblicano (Pac sta per Political action committee, Comitati di azione politica che hanno il compito di raccogliere fondi a sostegno di candidati), ha raccolto 31 milioni di dollari. In gran parte si tratta di risorse che erano confluite nel Pac elettorale di Trump, il «Make America great again». Ma se si fa un calcolo di quel che ha messo da parte l’ex presidente si trovano: un conto con 10,7 milioni di dollari e un altro Pac, «Save victory», con 33 milioni di dollari. Non tutti questi fondi sono a disposizione diretta di Trump, ma sono il trampolino di lancio della resistenza dell’ex presiden-
te all’interno del Partito repubblicano e in America. La forma di questa resistenza è ancora poco chiara: viene chiamata Patriot party, cioè il partito che Trump e i trumpiani vorrebbero costruire. Mentre la resa dei conti all’interno dei repubblicani è appena iniziata e ci sono segnali contrastanti rispetto all’obiettivo finale. C’è chi vuole raggiungere una convivenza tra le diverse anime del mondo conservatore e chi invece pensa che senza un’epurazione del trumpismo il Partito repubblicano non potrà ricompattarsi. Non si tratta soltanto di linee ideologiche: il sistema americano vive di fatto in una campagna elettorale permanente e quindi il primo esito evidente di questa tensione interna è già individuabile ed è il voto di metà mandato del novembre 2022. Candidature, primarie, sostituzioni: il metro del Patriot party è questo. C’è poi Facebook. Secondo uno studio pubblicato da Reuters, il partito di Trump è già quasi formato e ha milioni di followers.
quando su «Azione» autorevoli colleghi hanno affrontato i problemi dell’invecchiamento demografico del nostro cantone e dello spopolamento delle valli. Il tema – avviato da Orazio Martinetti in novembre, ma trattato e ampliato, sempre sul nostro giornale e in modo magistrale, anche da Angelo Rossi e Elio Venturelli – ha poi avuto un atto finale con il ritorno di Martinetti sul futuro delle regioni di montagna, delle valli e dei loro villaggi. Nella sua rubrica, dopo aver sottolineato che il «vedere svuotarsi il Sopraceneri come una clessidra dovrebbe preoccupare anche i sostenitori delle “città intelligenti”», Martinetti ha continuato la sua coraggiosa analisi di storico con un avvertimento che merita ripetizione: «Considerare questa parte del cantone solo come un provvidenziale ricetto per sottrarsi alla “malitia temporum” ricalca una mentalità neo-coloniale: vuol dire ignorarne le esigenze vitali, i bisogni di coloro che, fra mille difficoltà, non intendono cedere al richiamo della pianura. È compito della politica non
dimenticare questo Ticino rimasto ai margini eppure determinato a resistere». Proprio la sera prima di leggere queste parole, in un documentario su La 1, anche Ruben Rossello della Rsi aveva amabilmente «accarezzato» la Leventina, seguendo Teco Celio, versatile attore figlio dell’ex-consigliere federale avv. Nello, in una rimpatriata in valle per dare lustro, dopo tanti anni, al suo sontuoso pedigree degagnese. Simpatia ed empatia del protagonista, come pure testimonianze e progetti presentati nel documentario, non sono bastati a tenere lontana la malinconia: sullo sfondo, quasi a turno, facevano capolino spopolamento, fuga di giovani, mancanza di prospettive, pericoli di stagnazione e così via. È però molto probabile che questi drammatici elementi e altre contingenze negative spariscano quando ci si troverà nel bailamme del post-pandemia, quando chi governa o legifera, oltre ai normali aiuti e sussidi, dovrebbe contemplare anche progetti volti a sostenere chi nelle
nostre valli, oltre che contro le conseguenze del virus, ha lottato e dovrà lottare anche per la sopravvivenza e cercare un futuro meno negativo. Con le loro difficoltà, in fondo, le valli ci stanno ricordando che passato e tradizione anche nel loro declino «offrono risposte a domande non ancora formulate» e quindi possono diventare ottime fonti di ispirazione. Chi oggi cerca soluzioni per rimettere in cammino e riconnettere una società drammaticamente disorientata dalla pandemia è sempre più convinto che, piuttosto che su progetti utopistici, occorra puntare su interventi concreti come produrre energia più sostenibile, garantire maggior protezione ad acque e agricoltura, mirare alla salvaguardia dell’ambiente e dei paesaggi, promuovere nuove forme di turismo e una vivibilità più semplice e più gestibile. Allora: oltre a garantire tenuta e produttività in industrie e servizi, è proprio da sprovveduti puntare subito anche su quanto le nostre valli possono offrire in tutti questi ambiti?
luogo di quelle che si manifestano nei paesi dai quali provengono le nostre importazioni e che vengono provocate dai processi di produzione e trasporto delle stesse. È giusto chiarire che l’attuale strategia di contenimento si riferisce solo al primo tipo di emissioni, ossia quelle che si manifestano sul nostro territorio nazionale. Le emissioni da eliminare sono poi limitate in un secondo senso perché pur tenendo conto del possibile progresso tecnologico è possibile che, anche in futuro, certe emissioni continuino a manifestarsi. Nella strategia del Consiglio federale si spera comunque di poterle eliminare utilizzando tecnologie a emissioni negative e tecnologie di stoccaggio. Si tratta però di tecnologie che devono essere ancora sviluppate, ragione per cui sulla definitiva elimi-
Affari Esteri di Paola Peduzzi I combattenti di Trump e le voci della ragione Nel tardo pomeriggio del 18 dicembre 2020 quattro sostenitori di teorie del complotto entrarono nello studio ovale, dove Donald Trump li aspettava. Era passato più di un mese da quando Joe Biden aveva vinto le elezioni ed erano passati quattro giorni da quando i Collegi elettorali avevano reso ufficiale la vittoria del democratico. I quattro erano guidati da Sidney Powell, la più tenace e ciarliera dei legali di Trump, alle prese con le prove definitive: l’interferenza dei democratici che hanno falsato il risultato negli Stati chiave e l’interferenza di Paesi stranieri (quest’ultimo punto era la «novità» portata avanti da Powell). L’incontro finì a urli e insulti, con The Donald che usciva, rientrava e sobillava i più scalmanati, e con Rudy Giuliani, legale di Trump non esattamente cauto, che faceva «la voce della ragione», come ha scritto il sito Axios (www. axios.com), autore di questo retroscena dettagliato e imperdibile. Il fatto che Giuliani fosse il più ragionevole dà il senso dell’incontro e il suo
obiettivo. La priorità di Trump erano i «fighters», i combattenti, quelli disposti a tutto pur di difendere e rilanciare l’ex presidente americano. Negli scorsi giorni, il sito Politico (www.politico.com) è venuto in possesso di quello che è definito il «report post mortem» del trumpismo, un documento di 27 pagine redatto dall’esperto di sondaggi della Casa Bianca Tony Fabrizio, che racconta i dettagli della sconfitta di Trump e indica un elemento chiave: nel momento in cui la campagna elettorale di Trump si è colorata di vittimismo e di complottismo (le elezioni rubate) c’è stata un’emorragia di consensi nei confronti dell’ex presidente. Il documento è stato consegnato ai leader dei repubblicani e ai funzionari della Casa Bianca tra dicembre e gennaio: non è certo che Trump lo abbia letto. In ogni caso l’ex presidente ha scelto la via dello scontro: desidera i «fighters», la lealtà si misura in quanto ti esponi, quanto sei disposto a comprometterti per salvarlo.
Zig-Zag di Ovidio Biffi Le valli mandano a dire La scorsa primavera ho incontrato due carissimi ex-commilitoni in uno dei posti più bucolici del nostro cantone: i grotti di Personico. Un po’ per colpa dei bei ricordi legati alla soprastante Val d’Ambra, o forse perché quella era la prima gita dopo il lockdown (ancora non si temeva il bis...), appena arrivato e guardando a nord l’inizio della valle, ho avvertito una botta di malinconia. Figlio di una delle valli minori (la Valle di Muggio, ora rivalutata perlomeno per il suo paesaggio e, si spera, anche per futuri programmi) appartengo a una generazione che, adolescente negli anni Sessanta, è approdata alla maturità senza particolari coinvolgimenti nella dimensione socio-politica di quei tempi. Non per incomprensione o astio, o come tanti per indifferenza o menefreghismo; piuttosto perché lotte giovanili e mutamenti intergenerazionali di quei tempi non mi hanno mai convinto. Più dei proclami di grandi contestatori e dei loro megafoni piazzati anche nelle nostre città, a lenire le cicatrici del passaggio da
paesano a cittadino e a far prevalere sempre il legame originario hanno contribuito i versi di una poesia di quei tempi di Pier Paolo Pasolini: «Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore». Non proprio un mantra, ma pur sempre un richiamo, poi diventato quasi automatico, a rispettare il passato e la tradizione. Questo per spiegare il velo di malinconia che avverto non appena nella mente arrivano tematiche riguardanti le valli o discorsi su una politica sempre refrattaria verso chi abita in quota o «fuori mura». Quel mattino di primavera, guardando verso nord, mi sono sorpreso anche a cantare mentalmente un «O mia bèla Leventina...», chiedendomi poi subito come potessero la «Madunina» di un duomo lontano e una canzone milanese balzarmi in mente come saluto per una delle nostre valli. Il pensiero è rimasto in sospeso: gli amici erano arrivati e la liturgia della rimpatriata scacciava tutto. L’ «O mia bèla Leventina...» è però ricomparso sul finire dell’autunno scorso,
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In memoriam Cento anni fa nasceva l’artista
tedesco Joseph Beuys
Alessia Brughera Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Joseph Beuys. Pandemia permettendo, la Germania si appresta a festeggiare a dovere l’anniversario di uno dei suoi artisti più significativi e rivoluzionari con un articolato programma di esposizioni, performance e seminari che coinvolgerà buona parte del territorio tedesco, privilegiando in particolare le città della Renania Settentrionale-Vestfalia, da Bonn a Düsseldorf, passando anche, tra le altre, per Krefeld, dove Beuys è nato nel 1921. Personaggio tra i più complessi della cultura europea contemporanea, Beuys è la figura che meglio incarna, con la sua vita e le sue opere, il vigore antitradizionale dell’arte del secondo Novecento. L’inseparabile cappello di feltro, segno di sapienza e autorevolezza, il bastone, simbolo di rettitudine morale, il gilet da «pescatore di anime» e gli scarponi da eterno viandante, così come la camminata decisa, il volto scarno e lo sguardo penetrante, hanno fatto di lui una vera e propria icona, conferendogli un’identità riconoscibilissima che lo ha reso noto forse ancor prima dei suoi stessi lavori. Tanti sono gli appellativi che gli sono stati attribuiti: artista-sciamano, utopista messianico, filosofo-predicatore. Probabilmente Beuys è stato un po’ tutte queste cose, ma più di ogni altra è stato un uomo alla ricerca di una via di accesso alla verità. Una verità da trovare non in una dimensione astratta e ideale bensì nella realtà, poiché ciò che accade nel mondo accade anche dentro di noi. Il suo carisma e la sua incrollabile fiducia nel dialogo sono stati alla base di un approccio all’arte poco convenzionale che, nonostante i tentativi di assimilazione ad alcuni movimenti (Minimalismo, Concettuale, Arte Povera...), ha reclamato fin da subito la sua autonomia. L’urgenza di comunicare con ogni mezzo ha trovato nel lavoro di Beuys una piena risposta. Non sorprende, infatti, che il maestro tedesco si sia occupato anche di politica, di economia e di ecologia (è stato tra i fondatori del Partito dei Verdi in Germania), sorretto dalla convinzione che l’arte sia strettamente connessa a tutto ciò che coinvolge l’individuo. Ed è per questo che l’operato dell’artista può essere com-
preso solo se considerato nella totalità delle sue molteplici attinenze sociali, al cui centro sono sempre collocati l’essere umano e la sua potenzialità creativa. Ben conosciuto è uno degli «slogan» che hanno accompagnato il pensiero di Beuys: «ogni uomo è un artista», un assunto che rievoca le parole di uno dei suoi scrittori prediletti, il connazionale Johann Wolfgang von Goethe, per sottolineare come ogni singola persona sia custode di una vigorosa energia in grado di cambiare il mondo. È proprio da qui che nasce la sua idea di «scultura sociale», ovvero un principio universale finalizzato a elevare ogni azione quotidiana ad atto artistico, così da plasmare l’intera società con la vitalità che si sprigiona dal processo creativo. Per Beuys il pensiero degli uomini liberi, coloro che ricercano l’armonia perduta con la natura e con la sfera spirituale, è una sorta di opera d’arte collettiva, la sola capace di condurci verso la salvezza. Trascorsa l’infanzia nella piccola città di Kleve, Beuys si orienta dapprima verso gli studi di medicina. È poi la guerra a mutare i suoi progetti. Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale viene arruolato nella Luftwaffe come pilota di bombardiere in picchiata e durante una missione sul fronte orientale, nel marzo del 1943, lo Stuka su cui sta volando si schianta al suolo durante una tempesta di neve in una desolata pianura della Crimea. La leggenda vuole che Beuys venga salvato da alcuni nomadi tartari che, trovatolo semiassiderato, lo curano con le loro antiche pratiche terapeutiche, ricoprendo il suo corpo di grasso per rigenerarne il calore e avvolgendolo nel feltro per conservarlo. Profondamente cambiato nel fisico e nello spirito, alla fine della guerra Beuys attraversa una forte crisi interiore che lo porta a decidere di diventare un artista. Il grave incidente avuto in Crimea segna in maniera indelebile la sua esistenza, ammantato com’è di implicazioni simboliche legate al concetto di rinascita e rievocato di continuo nella sua arte proprio mediante l’uso del feltro e del grasso animale come elementi caratteristici. Oltre a frequentare la Kunstakademie di Düsseldorf (dove ottiene nel 1961 la cattedra di scultura, sottrattagli poi una decina di anni dopo per aver organizzato uno sciopero), Beuys mostra interesse per diverse discipline,
Il suo look era già parte della sua opera: un’immagine del 1979. (Keystone)
dalla filosofia alla poesia, dalla letteratura alla musica. Studia Kierkegaard e Nietzsche, legge Schiller, Schelling e Novalis, ascolta Wagner e Satie, condivide le teorie antroposofiche di Rudolf Steiner. Mosso dalla volontà di indagare il senso dell’arte in rapporto alla sua fruizione sociale, si accosta dapprima al gruppo Fluxus per poi incominciare negli anni Sessanta a dar vita alle sue installazioni e alle sue performance finalizzate alla sollecitazione di una coscienza critica nel pubblico. Beuys si presenta sempre in un ruolo di primo piano, divenendo insostituibile protagonista delle sue azioni artistiche, ogni volta demiurgo di modelli di pensiero che spronano a un impegno morale e politico. Nelle sue opere i materiali scelti per il loro profondo valore simbolico si mescolano alle parole e ai gesti di un uomo che punta sulla mitologia della sua stessa persona
e sulla sua innegabile capacità di persuasione. Del 1964 è una delle sue prime Aktionen più significative: Beuys fa sciogliere due cubi di grasso su una piastra rovente mentre nella sala viene trasmessa la registrazione del discorso di Goebbels allo Sportpalast di Berlino che istigava alla «guerra totale». La performance continua anche quando l’artista, attaccato da un gruppo di studenti neonazisti, viene colpito al naso, che incominica a sanguinare copiosamente. Leggendaria è, ancora, I like America and America likes me, del 1974, in cui Beuys si rinchiude per qualche giorno in una galleria d’arte di New York insieme a un coyote, animale antico e indomito, simbolo delle origini americane, per far riflettere sulla difficile coesistenza tra civiltà umana e natura selvaggia. Invitato nel 1982 a partecipare
alla rassegna internazionale d’arte documenta a Kassel, Beuys realizza una delle sue opere più suggestive. Davanti al Museo Federiciano della città colloca settemila pietre di basalto, acquistabili da chiunque, il cui ricavato della vendita viene usato per sostituire ogni blocco con una quercia. Vero e proprio manifesto dell’ecologismo artistico, questo lavoro in realtà va al di là della salvaguardia della natura per assurgere a difesa dell’uomo stesso e dei suoi valori fondamentali. Dopo aver piantato il primo albero il giorno dell’inaugurazione, Beuys avrebbe dovuto occuparsi anche dell’ultimo, il settemillesimo, cinque anni dopo. Non è stato lui a farlo, morto nel 1986 per problemi cardiaci, ma il figlio Wenzel. Quest’opera, però, continua a vivere oltre il suo autore, incarnazione di quell’utopia concreta e di quell’arte che cavalca il flusso dell’energia umana di cui Beuys si è sempre fatto interprete.
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Cultura e Spettacoli
Anche loro, nel loro piccolo
Il Santo di ogni reietto
Pubblicazioni Nella collana Adelphi «Animalia» un libro su attività
produttive e comunicazione delle formiche con risultati interessanti nell’ambito degli studi sul linguaggio
Netflix Luci e ombre della comunità
di San Patrignano in una serie tv
Giovanni Gavazzeni
Stefano Vassere Esistono formiche tropicali che si chiamano attini e si nutrono di funghi. Anzi, coltivano funghi per mangiarli; la coltivazione avviene predisponendo un letto dove viene adagiata la fungaia. Le tribù di formiche che vivono in questo modo sono chiamate tagliatrici di foglie, perché riducono le foglie in frammenti, che poi lavorano e utilizzano per attrezzare il nido. Questi industriosi animaletti sono oggetto dello studio Le formiche tagliafoglie di Bert Hölldobler e Edward O. Wilson. Un contributo a dire il vero non nuovo ma «rivestito» per l’occasione e inserito nella geniale collana «Animalia» di Adelphi, che fino ad ora aveva già ospitato libri sulla comunicazione degli elefanti, dei polipi, del corvo e di molte altre specie. Animali che usano la mediazione di oggetti per produrre qualcosa sono automaticamente interessanti nella prospettiva dell’analisi della comunicazione. Questo perché si ritiene che parlare sia un po’ come mediare la propria attività utilizzando uno strumento: là sono le foglie portate a casa per la fabbrica dei funghi, qui è lo strumento-lingua per parlare. Così le nostre amiche formiche attuano un «foraggiamento cooperativo» molto comunicato, percorrendo piste tanto infinite quanto disciplinate; una specie di ferrovia merci dove le merci sono le foglie e loro sono i vagoncini. L’uomo vede molto bene queste autostrade di approvvigionamento (ottime le foto che allietano questa nuova edizione del libro) ma difficilmente intuisce il raffinato sistema comunicativo che le regge. In pratica funziona così: le formiche rilasciano una secrezione, un feromone che marca la pista e permette al gruppo di procedere spedito per una unica direzione, ricorrendo a due componenti: una richiama altre formiche alla collaborazione, letteralmente le «recluta», l’altra traccia la via. L’informazione è potentissima:
L’atta è diffusa per lo più in zone dal clima tropicale. (Wikipedia)
un milligrammo di feromone prodotto dalle foraggiatrici del tipo Atta vollenweideri «basterebbe a depositare una traccia lungo la circonferenza del pianeta per ben sessanta volte». Giunte sulle foglie più appetitose, alcune formiche sono poi in grado di emettere «segnali di reclutamento a breve raggio detti suoni stridulatori», per concentrare lì le risorse e le energie della squadra. Questi suoni non sono percepiti attraverso onde sonore provenienti dall’aria, ma sono «sentiti» dalle formiche dal suolo su cui si trovano. E in più i suoni stridulatori possono essere usati anche come segnale di allarme nel caso il nido stesso sia esposto a un pericolo improvviso e come ordine di marcia per altre operaie, per la ricerca di altre foglie e per la costruzione del nido. Questi sistemi servono pure ad altri scopi: indicare la presenza e il luogo di residenza della regina, assecondare una sorta di autostop sulla pista di trasporto ecc. Ora, tutto ciò potrà sembrare facile e banale (anche se provare a far fare tutto questo al vostro cane di casa e a una serie di suoi «compari» potrebbe risultare un po’ frustrante), ma denota
alcuni corredi tipici dei linguaggi animali, anche i più evoluti: prima di tutto che la comunicazione animale è di regola confinata a tre finalità principali ed esclusive: trovare e gestire cibo, proteggersi dai pericoli, assicurare la sopravvivenza del gruppo e della specie. E poi che ciò che informa la lingua degli animali è il fatto che ogni animale, uomo compreso, comunica con ciò che ha sensorialmente più «sotto mano»: per l’uomo la bocca e le orecchie per l’orale e la vista per lo scritto, per queste formiche l’olfatto per i feromoni, il tatto inferiore per i suoni striduli. Ogni animale è in sostanza confinato entro un suo universo sensoriale che ne determina la comunicazione e, in concreto, la capacità di stare al mondo senza troppi danni. Per quanto ci riguarda, raramente riusciamo con i nostri sensi a percepire tutto quello che fanno e si dicono gli animali, specie quelli minuscoli. Buon per loro, forse.
Per chi ha vissuto gli anni in cui nelle città italiane grandi e piccole si evitavano le strade dove sostavano torme di «tossici», non si frequentavano i parchi dove spaccio e «buco» erano pratica continua e dove una generazione o finiva reclutata nelle formazioni eversive di sinistra e di destra o veniva sepolta da viva sotto una valanga di eroina, la visione della docu-serie di Netflix, Sanpa, sarà ripercorre una via crucis mai sepolta. Una stagione di morte che le nuove generazioni devono conoscere attraverso le cinque puntate-stazioni che raccontano Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta di Vincenzo Muccioli, il fondatore di San Patrignano, uno sparuto podere sulle colline riminesi trasformato in pochi anni nella più grande comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa. Con un montaggio serrato di interviste e materiali d’archivio, gli autori raccontano la vita di un uomo che si prese cura dei paria d’Europa. Vincenzo Muccioli che minestrava schiaffoni e paternali colorite divenne il santo patrono dei nuovi reietti, perché accoglieva, insegnava un
Bibliografia
Bert Hölldobler e Edward O. Wilson, Le formiche tagliafoglie, Milano, Adelphi, 2020.
lavoro, dava amore ai nuovi appestati, ai «drogati», molti dei quali erano già ammalati di AIDS. Muccioli riportava la speranza nel cuore delle madri disperate, rassegnate a coprire i figli che rubavano o che si prostituivano per farsi la dose. Muccioli eroe osannato dai giornalisti benpensanti, Indro Montanelli ed Enzo Biagi, dai politici di tutte le parrocchie che si precipitavano in pellegrinaggio a Sanpa, assolto a furor di popolo quando le procure della Romagna rossa cominciano a indagare su suicidi poco chiari e metodi coercitivi discutibili. Se qualcosa andò storto, i processi si trasformarono in un referendum pro o contro il Salvatore, cui si attribuirono nel bene e nel male poteri taumaturgici. Sulla collinetta riminese piovvero donazioni dei facoltosi e scorsero fiumi di riconoscenza degli indigenti che ritrovavano figli creduti persi per sempre. I problemi sorgono quando la struttura si ingrandisce e il Capo nega di essere a conoscenza di un tragico pestaggio finito in omicidio. Si apre il vaso di Pandora e comincia la «caduta». Questo documentario, pur dando voce a molte opinioni contrastanti, critici dei sistemi pesanti di Muccioli e difensori accaniti, non è piaciuto a chi ha proseguito il lavoro di fondatore nel governo della Comunità. Consente però di capire che Vincenzo Muccioli ha realizzato qualcosa di straordinario, un fatto che non esclude il diritto di soppesare luci e ombre, di ragionare come testimonia l’esperienza di uno dei più stretti collaboratori di Muccioli, Fabio, lucido e coraggioso nel riconoscere i meriti come nel dire cose meno comode: come la causa della morte prematura del Fondatore. Informazioni
Una comunità di recupero discussa diventa ora una docu-serie.
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Cultura e Spettacoli
Con le strategie dei deboli
Letteratura In L’acqua del lago non è mai dolce alla scrittrice Giulia Caminito riesce il convincente ritratto
di una figura sociale perdente e di conseguenza giustamente arrabbiata
Laura Marzi A quanto pare gli alberi non si arrabbiano con le proprie radici, non maledicono il posto in cui hanno attecchito. Agli esseri umani capita invece di odiare il luogo in cui si nasce, la propria condizione sociale. A volte succede che strabordi in vari modi la rabbia nei confronti di chi ci mette al mondo. Si tratta di una possibilità talmente connaturata, di un sentimento così umano, appunto, che la letteratura se ne prende carico. L’odio nei confronti della propria appartenenza è il motore dell’ultimo libro di Giulia Caminito: L’acqua del lago non è mai dolce, per Bompiani. L’autrice, classe 1988, dopo aver scritto due romanzi storici acclamati giustamente dalla critica (La grande A, 2016, Giunti e Un anno verrà, 2019, Bompiani) si sposta ora sulla contemporaneità. Il testo non riporta date precise, ma è evidente dai riferimenti culturali che contiene, che racconta gli anni 90 e il primo decennio del 2000. La rabbia di cui l’intero romanzo è innervato, che si trasforma in vari momenti in vero e proprio odio, è quella di Gaia, una bambina che nasce e vive la sua prima infanzia in una sorta di scantinato, che sua madre Antonia ripulisce con grande cura dalle siringhe che ingombrerebbero altrimenti lo spazio davanti alla por-
ta: il pezzo di cemento in cui Gaia e suo fratello Mariano giocano. Antonia però lotta e non si arrende e grazie anche a un colpo di fortuna riesce a ottenere per i suoi quattro figli – sono nati anche due gemelli – e per il suo compagno invalido (nel frattempo il padre di Gaia è caduto dall’impalcatura su cui lavorava in nero) un appartamento. È una casa in una cittadina vicino a Roma, Anguillara, sul lago di Bracciano. È il luogo in cui è ambientata la maggior parte del romanzo. Il lago è lo spazio intorno al quale si svolge la vita di Gaia che va alle medie, dove i suoi compagni per via di un taglio di capelli artigianale, mal riuscito ad Antonia, iniziano a prendersi gioco di lei, come accade spesso in quel momento della vita di moltissime ragazzine. Il particolare su cui si concentrano i dileggi e poi le offese sono le sue orecchie. Ed è grazie a esse che avviene una rivelazione che stupisce Gaia stessa e che trasforma il romanzo in un testo unico, in un libro significativo. La ragazzina, dopo aver subito silenziosamente gli scherzi e le offese abbastanza a lungo, reagisce con una violenza che non ripristina la giustizia. Gaia non riesce a essere indifferente, non si salva con sagacia, non mette in ridicolo il compagno che la perseguita riuscendo così a estinguere le maldicenze sul suo conto. Lei lo annienta. Si tratta del primo episodio in cui la protagonista del romanzo reagi-
Un particolare della copertina del libro.
sce sbagliando. Non possiamo infatti pensare che picchiare a sangue un coetaneo o appiccare un incendio per vendicarsi del tradimento del proprio fidanzato sia giusto. Solo che, cos’è la giustizia? O meglio, la si può davvero invocare per giudicare chi non ne ha mai assaporato i doni? È giusto non avere una casa? Non avere carezze, non avere soldi, non avere niente di quello che tutte e tutti intorno danno per scontato? Caminito riesce in questo romanzo attraverso una protagonista ragazzina a mettere in scena il conflitto
insanabile tra la giustizia e la rabbia sociale: ci si ribella per ottenerla, per i propri diritti e lo si fa commettendo crimini più o meno gravi. Così facendo, cercando di distruggere tutto ciò che le fa male, Gaia si barrica sempre di più nella sua condizione originaria di vittima: ferma nel suo diventare cattiva, si isola e aderisce interiormente al suo destino di freak. Molto spesso, infatti, non esistono soluzioni. Se, come nel caso della storia raccontata in questo libro, la vita si accanisce, diventa retorico e ingenuo immaginare o suggerire vie di reden-
zione. Ed è meraviglioso come un romanzo del genere, oltre a mostrare la bellezza della vendetta, riesca a riabilitare le strategie dei deboli. Si tratta di un’impresa che Caminito compie, sostenuta da una capacità di scrittura poderosa, in cui ritroviamo quasi in ogni pagina, immagini, quindi visioni della realtà, che in primo luogo indicano la presenza di una vera scrittrice. Bibliografia
Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani, pp. 304. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
L’umiltà della montagna
Fotografia La Via Lactea di Alfio Tommasini è una delle più belle pubblicazioni recenti sulla vita dei contadini
di montagna, fra neve e animali
Gian Franco Ragno Avrebbe dovuto essere presentato a Zurigo a fine ottobre, ma l’appuntamento è stato cancellato per le note vicende legate all’evoluzione della situazione pandemica. Ma nonostante ciò, in questi mesi dalla pubblicazione, esso ha suscitato un grande e meritato interesse, da parte dei media nazionali e anche internazionali. Parliamo di Via Lactea, libro fotografico di Alfio Tommasini (1979) – giovane autore ticinese tra i fondatori e curatori del Verzasca Fotofestival – edito dall’eccellente editore zurighese Patrick Frey. A dominare il volume sin dal primo contatto con la copertina, un progetto grafico di Sidi Vanetti, è un unico colore, ovvero il bianco. Il bianco della neve e il bianco del latte, il bianco sporco di un paesaggio invernale dove le persone raffigurate lavorano duramente, e che non è certo il paesaggio rurale di montagna svizzero idealizzato di tanta produzione turistica. L’unica aggiunta di colore è una lieve nota magenta, di tono caldo, che nelle stampe sembra ben avvolgere la ferma presenza dei protagonisti. Ma nell’insieme ciò che colpisce maggiormente dell’intero progetto – ovvero la raffigurazione della produzione del latte nei mesi invernali in diverse regioni periferiche della Svizzera – è la totale assenza di retorica e finzione, per affidarsi totalmente a un registro documentaristico. Il racconto visivo si svolge in una
sorta di dialogo tra i due soggetti, l’uomo e l’animale, i cui ritmi procedono paralleli: la vicinanza fisica – il contatto continuo, la mutua ed esistenziale complementarietà, fanno sì che si formi una sorta di abbraccio esistenziale tra le due parti. A tratti si sfiora la simbiosi: una delle immagini più suggestive, quella di un contadino e della sua giumenta nella neve durante una nevicata, è in questo senso fortemente emblematica. I primi, gli uomini, nostri contemporanei, nei gesti e nella solida presenza si offrono al ritratto senza abbellimenti, interrotti nelle loro faccende quotidiane e pronti immediatamente dopo a riprendere un’azione con sapienza antica; i secondi, gli animali, fotografati in piccole realtà contadine svizzere, e quindi in un numero contenuto, lontani dalle batterie industriali, si prestano senza paura, a tratti con curiosità, a un dialogo con la macchina fotografica. Allo stesso modo, il loro peso nelle pagine sembra paritario, bilanciato, se non proprio ancora speculare (la nascita di un agnellino, una donna incinta che scopre il suo ventre nella stalla). Tra i punti più lirici del libro vi sono senza dubbio gli attimi vissuti al di fuori delle stalle. Si tratta delle riprese notturne, o di prima mattina, momento in cui il mondo sembra ancora addormentato, ancora più distante nelle sue preoccupazioni materiali. Qui la montagna, imponente e imperiosa ripresa dal basso, alla quale funge da quinta un ricco cielo di stelle, non può che aprire le porte a
Due suggestive immagini che fanno parte del libro. (editionpatrickfrey. com)
riflessioni lontane dalla semplice quotidianità. All’esterno, scorre ed è visibile nei mesi primaverili la Via Lactea, la stessa che i pellegrini seguivano per arrivare a Santiago di Compostela, la costellazione che ci collega – al di fuori delle categorie di spazio e tempo – alle generazioni passate. Il pensiero corre subito alle tante persone che, a cavallo del secolo e dalle stesse terre d’origine del fotografo e in genere dall’alto Ticino, dovettero migrare per svolgere proprio questa tipologia di lavori, per trovare delle condizioni più favorevoli alla sopravvivenza,
o banalmente, più terra su cui poggiare la loro esistenza. Nulla più della trama del libro più letto della letteratura regionale, Il fondo del sacco di Plinio Martini. Solo nelle ultime pagine si accenna – brevemente e senza polemiche – a ciò che è oggi l’industria del latte – dove l’animale sembra non aver nome e dove esso diventa prodotto e merce, asettico spazio dove tutto sembra perdere la dimensione simbolica e storica. A completare il volume un testo, finora riportato solo in tedesco e inglese, della scrittrice Noëmi Lerch, recentemente insignita del premio svizzero della Letteratura, e soprattut-
to, anche lei contadina di professione. Condotto con un ammirevole impegno negli ultimi quattro anni, dal tono dimesso ma autenticamente partecipato – molto lontano dal protagonismo e carrierismo dell’essere artisti d’oggi – Via Lactea di Alfio Tommasini è uno dei libri più belli stampati in Svizzera nell’ultimo difficile anno – e per il Ticino, uno dei libri più significativi dati alle stampe negli ultimi anni. Bibliografia
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Cultura e Spettacoli
Bee Gees in chiave country
Musica Dopo un lungo lutto: Barry Gibb, unico superstite dei mitici Bee Gees, regala al suo pubblico
un omaggio sentito quanto riuscito al repertorio di famiglia
Benedicta Froelich Sebbene il grande pubblico li rammenti essenzialmente per la colonna sonora del vagamente pacchiano La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, del 1977), in realtà i fenomenali fratelli Gibb – la cui formazione è meglio nota con il nome di Bee Gees – sono stati, tra gli anni 60 e 70, responsabili di innumerevoli hit indimenticabili, stampate a caratteri indelebili nella memoria di tutti coloro abbiano avuto la fortuna di vivere in prima persona quell’irripetibile stagione musicale. Oggi, purtroppo, il 74enne Barry Gibb resta l’unico membro ancora attivo della propria ex band, essendo i gemelli Maurice e Robin passati prematuramente a miglior vita (rispettivamente nel 2003 e 2012); e ciò fa sì che un sincero entusiasmo popolare abbia salutato questo nuovo sforzo discografico, Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, Vol. 1 – soprattutto dal momento che si tratta solo del terzo album solista di Barry (dopo Now Voyager, risalente al 1984, e In the Now, del 2016), e costituisce inoltre un esperimento a prima vista peculiare. L’artista ha infatti deciso di rivisitare i maggiori classici del repertorio dei Bee Gees nientemeno che in chiave country; il che potrebbe portare i puristi a storcere il naso, sebbene si tratti di un genere per il quale il maggiore dei fratelli Gibb ha sempre dichiarato di avere un debole. Tuttavia, basta schiacciare il tasto «play»
sul lettore per ritrovarsi in un attimo avvolti dalla tuttora meravigliosa voce di Barry: un’emozione innegabile, foriera di innumerevoli ricordi e déjà-vu fin dalla traccia d’apertura dell’album – una megahit come la storica I’ve Gotta Get a Message to You, certo uno dei brani più iconici della leggendaria formazione, in cui la combinazione (a prima vista un poco azzardata) tra il falsetto di Barry e la voce suadente della nuova stella delle country charts Keith Urban, funziona come un meccanismo a orologeria. Del resto, ciò che maggiormente colpisce in Greenfields sono proprio il gusto e l’equilibrio stilistico a dir poco invidiabili da cui ogni traccia è pervasa: tutti i duetti del CD sono infatti condotti secondo una saggezza e sensibilità nate direttamente dall’esperienza e professionalità a dir poco sopraffine di Gibb, che mostra un intuito fenomenale nella scelta dei partner, ognuno dei quali si prodiga nel dar vita a un’impeccabile fusione con il materiale di partenza. Di fatto, i brani prescelti per queste cover risultano valorizzati e omaggiati nel migliore dei modi possibili, senza mai una sola concessione alle leggi da classifica, o al sound «commerciale» o radiofonico oggi considerato appetibile. Basta ascoltare una gemma inaspettata come la versione di Words of a Fool cantata con Jason Isbell, ammantata di una sorta di mascolina e ruvida sincerità capace di rendere il brano ancor più lacerante; o alla toccante rivisitazione di Too Much Heaven eseguita con Alison Krauss, la
Greenfields è il nuovo lavoro di Barry Gibb.
cui voce si fonde meravigliosamente con quella di Barry, fino a farle apparire come un tutt’uno. Non solo: brani come Rest Your Love On Me, eseguito in coppia con Olivia Newton-John (sì, proprio quella di Grease!), non subiscono nessun particolare riarrangiamento o stravolgimento tecnico; e sebbene, da un certo punto di
vista, sarebbe stato facile decidere di «rischiare» un po’ di più, Greenfields dimostra come, quando il materiale di partenza è di tale livello, non ci sia bisogno di alcun effetto speciale – tanto che, per dar vita al più puro spirito da «ol’time country» basta qui l’uso sapiente delle slide guitars. Così, le sonorità non risultano mai
stucchevoli o forzate, e non c’è nulla di nemmeno lontanamente artificioso nelle combinazioni offerte dalle voci intrecciate di Gibb e di nomi cardine della scena americana come, tra gli altri, Gillian Welch e David Rawlings (con cui Barry duetta nella struggente Butterfly), o l’inossidabile Dolly Parton, protagonista di un caposaldo del songbook dei Bee Gees quale Words; per non parlare di To Love Somebody (con Jay Buchanan). Ecco quindi che Greenfields diventa un piccolo capolavoro pop, cesellato fino alla perfezione evidente in ogni brano: perfino le tracce popolate da figure meno note al grande pubblico – come Miranda Lambert (Jive Talkin’), o la formazione dei Little Big Town (responsabili della ballata Lonely Days, qui accompagnata da un’azzecatissima orchestra) – sono caratterizzate da grazia e piacevolezza assolute. Certo, anche per un aficionado dei Bee Gees è difficile negare che, a prima vista, quest’album possa apparire come l’ennesimo tentativo di riportare in auge i fasti dei tempi d’oro della band, senza nessun altro reale obiettivo; eppure – sarà colpa del periodo particolarmente duro che stiamo ora vivendo, o del solito «effetto nostalgia» – bisogna ammettere come non vi sia nulla di più confortante che riascoltare questi brani, a tutt’oggi per nulla datati, e ancora trasudanti autentica passione e sapienza musicale. Il che fa di Greenfields un disco pressoché perfetto, e non solo per i fan di vecchia data. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta A ognuno il suo San Valentino Su giornali e periodici non c’è traccia: è mai possibile che nessuno se ne faccia carico? Eppure è già tardi per pensarci: come sarà quest’anno il primo, e speriamo l’ultimo San Valentino con la mascherina? Sarà un San Valentino giallo, arancione o rosso? Tra l’altro cade di domenica il giorno della settimana perfetto per scambiarci i cuoricini. Mica possiamo rinviarlo all’anno prossimo come hanno fatto e di nuovo faranno per le Olimpiadi di Tokyo. Un San Valentino perso lo è per sempre, gli innamoramenti non reggono l’attesa di un anno, si creerebbe un vuoto nel nostro curriculum degli amori. E spostarlo più in là, sperando che la pandemia finisca? Vediamo: andrebbe bene il 14 settembre? Il calendario ci informa che quel giorno è la festa di san Materno che, come tutti sanno, è stato il primo vescovo di Colonia ed era un tedesco severissimo. Chi di noi ha il coraggio di chiedergli il favore di saltare un turno? Non va meglio il 14 ottobre, il
giorno in cui si festeggia addirittura un papa, san Callisto I. No, rimaniamo a febbraio e vediamo di cavarcela, magari stampando i cuoricini sulle mascherine. Chiediamo lumi agli Stati Uniti, lì è esploso lo sfruttamento commerciale del giorno dedicato agli innamorati, che pure ha origini antichissime. (Lo cita persino Ofelia nell’Amleto). Fra la quindicina di decreti firmati dal presidente Biden nello stesso giorno del suo insediamento non c’era quello che dovrebbe disciplinare il San Valentino di quest’anno e la cosa è comprensibile, ci sono problemi ben più urgenti da affrontare. Cerchiamo altrove, leggiamo le strisce dei comics statunitensi che hanno per protagonisti dei bambini – Linus o Calvin & Hobbes – e scopriamo che la prima cosa che s’impara all’asilo consiste nel confezionare un biglietto per San Valentino. Non abbiamo esperienza diretta ma siamo indotti a pensare che all’estremo opposto – sulle sponde del Lago Dorato – amorose ma
implacabili infermiere guidino la mano tremante degli appartenenti al glorioso battaglione Alzheimer nel compilare il biglietto di quello che forse sarà l’ultimo di una lunga serie. Per i nostri nonni, prima dello sfruttamento commerciale della ricorrenza, l’innamoramento era una fase ben delimitata nel tempo, un’astuzia della natura per assicurare la sopravvivenza della specie a causa di un intontimento, di un obnubilamento temporaneo in due individui di sesso diverso, in età ottimale per la riproduzione, che in altri periodi della vita si sarebbero detestati o ignorati. In virtù di quell’astuzia si sentivano irresistibilmente attratti uno verso l’altra e davano origine a una nuova vita. Ci pensavano poi le rigide norme sociali a incatenarli per tutto il resto dei giorni, in modo che le piccole creature avessero cure e assistenza fino al momento in cui toccava a loro perdere temporaneamente il senno. Tutto questo è finito per sempre, adesso si è innamorati in servizio per-
manente effettivo, l’innamoramento va dalla culla alla tomba e deve toccare il suo culmine a una data fissa, il 14 febbraio. Puoi avere il colpo della strega o un mal di denti da cane, non c’è scusa che tenga, oggi devi esibire lo sguardo da innamorato, l’occhio da pesce bollito. Tanto che essere veramente degli innamorati – è un caso piuttosto raro ma capita – in questo giorno fatidico è una disgrazia perché ti devi confondere in questa melassa dolciastra che avvolge tutti i rapporti sociali. Stiamo meglio noi, la sterminata moltitudine dei non innamorati: possiamo limitarci a fingere di esserlo solo per poche ore. Quest’anno poi possiamo chiuderci in casa per paura del contagio. Fra coloro che vogliono prendere parte all’evento ci sono anche i distratti che se ne ricordano all’ultimo momento: «Fra una settimana è san Valentino e io non mi sono ancora innamorato». In questi casi non resta che rivolgersi a un’agenzia specializzata. C’è poi chi nuota dentro
San Valentino come un pesce nell’acqua. È l’esercito in continua crescita dei single che, dopo aver deposto dalla mamma il sacco della roba da lavare e stirare, si precipitano ad acquistare un bel po’ della paccottiglia d’occasione di cui sono pieni i negozi d’ogni genere. Poi, agendina degli indirizzi alla mano, spediscono le mini pantofole a forma di cigno o il romanzo con la parola «cuore» nel titolo a tutte le amiche in quel momento libere. E aspettano: se la destinataria prende sul serio il messaggio è fatta, meglio di tante parole. Se invece si fa una bella risata è uno scherzo. C’è anche chi festeggia con cuore puro e limpido questa ricorrenza, sono i fabbricanti di cioccolatini che questa notte, dopo aver dato un’ultima occhiata al monitor che documenta l’impennata delle vendite, si abbandoneranno a un sabba che durerà tre giorni. Per tutti gli altri, coraggio! Passerà anche questa giornata e fino all’anno prossimo possiamo stare in pace.
sci?» «Sì che ne conosco, caro. Quando facevo ancora la escort, prima di conoscerti amore mio, ne ho incontrate un sacco, non erano professioniste. Erano studentesse o casalinghe felici di farsi un vecchio per un paio di Luoboutin da 575 euro... ma soprattutto erano attrici, attrici disoccupate. Sì sì, le attrici erano la maggioranza: fallite bellocce sull’orlo della quarantina. Posso presentartene un battaglione. Basta chiedere». Quel dialogo le scorreva davanti agli occhi come una didascalia Si ripeteva, volgare, con poche variazioni. Le rimbombava in testa mentre camminava, si interrompeva e ricominciava, anche se accelerava il passo per non sentirlo. Erano due voci intrecciate, confidenziali, divertite. Lui e lei. Complici. Paolo e Natasha. Paolo e Olga. Paolo e Ludmilla. Iniziava così la schizofrenia? Con quel fracasso che soltanto lei sentiva? Senza averlo deciso, presa com’era da quel sintomo, Betta si ritrovò in via Valadier 45, davanti al portone che aveva varcato, per undici anni di fila, provando a
dare un nome, una causa, una cura, al suo dispetto, alla sua inquietudine, alla sua confusione. Si era sempre trattato di prevenzione del dolore, pensò, e per tutti quegli anni aveva funzionato, ma forse non funzionava più. Forse stava per scoppiare un bubbone nascosto Pensò che doveva dirglielo, doveva avvisarlo e farsi mettere in sicurezza. Erano appena le dieci del mattino. Il suo appuntamento, al quale fino a quel momento aveva pensato di non presentarsi, era per il giorno dopo alle 17. Restò in piedi, la schiena appoggiata al portone, in attesa, per un tempo che la sua naturale impazienza non le aveva mai concesso. Vide uscire una donna con la borsa della spesa, una donna con un bambino. Due ragazze. E finalmente un uomo giovane, piccolo di statura e stempiato, con un cerotto sulla fronte e un’espressione esausta. Le parve di averlo già incrociato sul pianerottolo o forse nel salottino dove, quando era particolarmente in anticipo, restava ad aspettare. Decise di affrontarlo, soltan-
to perché era reale e lei aveva bisogno di installarsi nella realtà. «Mi scusi», disse, e già sentire la sua voce le fece bene, «È anche lei un paziente del dottor M.?» L’uomo le dedicò uno sguardo volutamente annoiato: «No», disse, poi aggiunse. «Ci mancherebbe». Pronta a difendere M. e la sua nobile missione Betta chiese: «In che senso “ci mancherebbe”?». «Nel senso che sono suo figlio», rispose l’uomo. Betta gli tese la mano, euforica, come una fan che incontra una celebrità: «Io sono una paziente di suo padre da undici anni, è un uomo straordinario». L’uomo si lasciò stringere la mano senza partecipare, si asciugò il palmo sui blue jeans, come se temesse un contagio poi disse: «Lo so lo so, chi sei... Sei Betta, Betta la bella, quella che non paga mai. Prima o poi dovrai farlo, sa? I soldi servono a tutti. Anche agli uomini straordinari». (Continua)
della metropoli ideato da Robert Moses. Ma New York è soprattutto sulla bocca della Lebowitz, perché possiede il raro dono di trasformare ogni parola in immagine, perché Manhattan rivive attraverso gli occhi e la sensibilità dell’intervistata: si vanta di non avere un cellulare e di conservare il raro dono di guardare tutti i newyorkesi che, ogni giorno, rischiano di investirla con la macchina perché non riescono a staccare gli occhi da quegli aggeggi infernali che regolano le loro vite. A Scorsese, che ride a crepapelle a ogni sua battuta, ricorda la loro sostanziale differenza: «Mi piacciono le feste, vado a molte più feste rispetto a te. Ed ecco perché tu ha fatto un mucchio di film mentre io ho scritto pochissimi libri». E poi: «Tutti si lamentano che è impossibile vivere a New York (caro vita, rumori incessanti, case mal costruite…), ma siamo otto milioni, come facciamo non lo sappiamo». E poi ancora, rispondendo alla domanda su quale forma d’arte
sia più carente in questo momento: «Le arti visive: una sorta di racket. Vai a un’asta, tirano fuori il Picasso, silenzio di tomba. Poi battono il prezzo con il martello: applauso. Viviamo in un mondo in cui si applaude al prezzo, non al Picasso! Ho detto tutto». C’è un aspetto molto curioso della sua vita professionale. La Lebowitz su «Interview» curava due rubriche: una sui film brutti (civetteria che poi è esplosa anche in altri paesi) e una di mondanità newyorkese: I Cover the Waterfront. A volerla fu Bob Colacello, collaboratore di Warhol e deus ex machina della rivista, che adorava il suo humour caustico. Warhol invece non la trovava affatto divertente. È lui stesso ad ammetterlo nei diari: «Bob (Colacello) mi ha mostrato una recensione che il libro di Fran Lebowitz ha ricevuto sul “New York Times” da John Leonard, e non riesco a capirla. La sua scrittura è divertente? Una giornalista che conosciamo le ha fatto una lunga recensione
sul “Sunday Times” e ora John Leonard e io… le sue cose – tutte le critiche e le lamentele – semplicemente sono altro rispetto al mio senso dell’umorismo. Non so qual è il punto. Eppure, Bob voleva dimostrarmi che le altre persone non si sentono come me al riguardo, che lei è una risorsa per “Interview”». «I libri – ha scritto Simonetta Sciandivasci sul «Foglio» – sono per lei la cosa che più si avvicina a un essere umano», «e infatti, Martin, non so tu, ma io proprio non so gettarli via, nemmeno se sono brutti, nemmeno se li ho detestati, perché mi sembrerebbe di gettare via un essere umano, per quanto ce ne siano diversi, di esseri umani, che mi piacerebbe gettare via, ma capisci cosa voglio dire». Certo che capisce, Martin Scorsese. Che infatti le fa poi dire: «A cosa servono i soldi, se leggi?» Insomma, se leggi non hai il tempo di spendere». Sarà per questo che da anni indossa solo jeans Levi’s modello 501.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/15 «Quella è stata un’idea di mia moglie» Betta sorrise in ritardo e con uno sforzo evidente. Dunque il vecchio aveva un moglie. Una giovane iena probabilmente più bella di lei e certamente più furba, una di quelle che non sbagliano un passo dall’età pediatrica fino a una precoce scintillante vedovanza. Si alzò, sentendosi addosso il sorriso superiore di Von Arnim (Von Arnim: gran bel cognome per una badante ucraina o bulgara, dagli zigomi imponenti) e con il sorriso superiore di Von Arnim la certezza di aver perso ogni fascino. «Grazie per il caffè», disse, rigida, e uscì dal salotto. L’imbarazzo non è grazioso se non è simulato, l’imbarazzo ti fa arrossire e tartagliare e sbagliare tono, è una dichiarazione di inferiorità. Quando è autentico. E quello di Betta lo era. Sentì la porta chiudersi dietro le sue spalle. Von Arnim non l’aveva seguita. Non si era scusato. Non aveva detto una parola. E non l’aveva accompagnata all’uscita, lasciandola sola ad attraver-
sare la penombra di una anticamera che le parve improvvisamente sproporzionata, ridondante di marmo, cafona. Nemmeno il senegalese, con la sua uniforme da cameriere, si era materializzato al suo fianco. E questo era davvero intollerabile. Si sentì come un piazzista d’altri tempi, scacciato dal decoro degli appartamenti degli altri mentre prova a vendere un’enciclopedia illustrata. La madre di Tommaso l’aveva fatto, per mantenersi all’università e ne aveva tratto una gustosa serie di aneddoti sull’umiliazione. Mentre scendeva di corsa quelle scale monumentali la perseguitava l’immagine del vecchio e della sua giovane moglie che discutevano sulla cifra da destinare a quella poveraccia con la sciarpa di cachemire. Cioè a lei, Betta. Lei era la protagonista inconsapevole di un gioco di coppia. «Dai corteggiala un po’, lo sai fare così bene. Poi le diamo dei soldi e vediamo come reagisce. Uh, non sai quante ce n’è che farebbero qualsiasi cosa per un paio di banconote da cento!». «Tu ne cono-
A video spento di Aldo Grasso Lebowitz, maîtresse-à-penser Dopo la serie Pretend it’s a City, tutti a chiedersi: ma chi è Fran Lebowitz? Nata nel New Jersey, a Morristown, nel 1950, la Lebowitz è una delle più popolari autrici e umoriste americane, definita una moderna Dorothy Parker. «La verità è che di cose su Fran Lebowitz – ha scritto Francesca Pellas su «Rivista Studio» – se ne potrebbero dire tremila: da quanto fuma a quanto parla, dal cameo che “Marty” le fece fare in The Wolf of Wall Street, al fatto che non ha cellulare né computer e scrive a penna... Si potrebbe raccontare della sua idiosincrasia per i turisti, poiché proprio da quella viene il titolo del documentario: Pretend it’s a City è infatti la frase che vorrebbe gridare ai turisti, troppi, che invadono New York, quando incrociandola per strada hanno la malaugurata idea di chiederle indicazioni. Fate finta che sia una città. Non è un parco giochi ma una vera città». A volte, a essere politicamente corretti si rischia il ridicolo, specie se si devono
fare i conti con la Lebowitz. Va bene definirla scrittrice (anche se da un po’ di tempo si dice vittima della pagina bianca, di un blocco scritturale); va bene definirla umorista (lo è), ma con maîtresse-à-penser si sfiora l’insulto. Eppure, se c’è una maestra del pensiero questa è proprio l’ex columnist di «Interview», la famosa rivista di Andy Warhol, una delle prime donne a insinuarsi nei salotti bene del Greenwich Village diventandone la massima esperta, una influencer quando non esistevano le influencer. Il regista Martin Scorsese ha realizzato due opere dedicate a lei, il film La parola a Fran Lebowitz e la docu-serie Fran Lebowitz – Una vita a New York girata nel 2020 e uscita su Netflix, titolo italiano ben meno efficace dell’originale, che era Pretend it’s a city. La conversazione avviene in alcuni luoghi simbolici della città, tra cui un elegante club all’antica e il Queens Museum che contiene il famoso modellino
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Per motivi igienici il mascara dovrebbe essere sostituito ogni 4-6 mesi. Se il prodotto si secca prima del previsto, ecco alcuni consigli per renderlo di nuovo liquido: 1. Mettere il flaconcino chiuso a bagno Maria. 2. Versare nel flaconcino del collirio o del liquido per lenti a contatto, chiudere il mascara e scuoterlo bene. 3. Per prevenire il danno: non muovere su e giù l’applicatore quando si preleva il mascara dal flaconcino altrimenti entrerà aria che farà seccare il prodotto.
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