Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’ONU sostiene una maggiore presenza di donne nelle carriere scientifiche, ambito in cui la parità di genere è ancora lontana
Ambiente e Benessere La dottoressa Claudia Gamondi e lo psichiatra Michele Mattia spiegano il ruolo fondamentale delle cure palliative
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 15 febbraio 2021
Azione 07 Politica e Economia Test sullo stato della democrazia in Africa dove oltre venti Paesi sono chiamati alle urne
Cultura e Spettacoli Il mondo distopico del dopo Angela Merkel nel nuovo romanzo della tedesca Juli Zeh
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Valentina Scaglia
All’avventura sul Ticino lombardo
di Valentina Scaglia pagina 13
Un argine alle fake news di Peter Schiesser Sono immagini e filmati angoscianti, quelli proiettati al Senato a Washington sull’assalto al Campidoglio durante il secondo processo a Trump. Ai molti già visti, altri video inediti aggiungono una drammaticità che lo sconcerto della prima ora non aveva permesso di cogliere appieno. Eppure si prevede che Trump non verrà condannato, poiché mancherà il voto di un manipolo di repubblicani per raggiungere il quorum dei due terzi – per motivi di opportunità politica, nella speranza che i sostenitori dell’ex presidente si acquietino. Forse qualcuno dei partecipanti all’assalto si è pure pentito di aver ceduto all’istinto del branco, della brutalità di gruppo, ben visibile in questi filmati. La consapevolezza di incorrere in sanzioni, di finire in prigione, come avvenuto per decine di persone, tratterrà molta gente dall’osare un secondo assalto. Ma esperti di terrorismo americani temono che dopo gli eventi del 6 gennaio i membri dei gruppi di estrema destra si sentano galvanizzati dal successo avuto e possano radicalizzarsi passando ad atti di terrorismo armato. Dopo aver concentrato l’attenzione per 20 anni a combattere quello islamico, gli
americani si rendono conto che il terrorismo più pericoloso (per la coesione della società) se lo ritrovano in casa. E si alimenta di teorie cospirazioniste, di paranoie, di falsità alla cui costruzione Donald Trump si è reso in prima persona responsabile. Un’idelogia e delle convinzioni che non spariranno e che possono diffondersi facilmente attraverso i social media. Secondo vari studi e analisi, quasi tutti i sostenitori di Trump continuano a credere alla bugia di una vittoria rubata e addossano la responsabilità dell’assalto a forze di estrema sinistra, convinti che l’ex presidente si è comportato in modo responsabile – nonostante fatti e immagini non lascino spazio a dubbi. Le fake news hanno dunque ancora molta presa. E di fronte alla valanga di falsità che circolano in rete, sembra impossibile riuscire a porre un argine. Soprattutto negli Stati Uniti il primo emendamento della Costituzione riconosce un diritto quasi illimitato alla libertà di parola. Eppure qualcuno non ci sta e ha deciso di rivolgersi ai tribunali: dapprima Dominion e poi Smartmatic, entrambi società specializzate in sistemi di voto (hanno fornito le macchine che conteggiano le schede per le elezioni presidenziali), hanno querelato per diffamazione due dei principali
propagandisti di Trump e alcuni media per aver propagato la menzogna che le macchine per il conteggio delle schede erano truccate. Dominion chiede un risarcimento di 1 miliardo e 300 milioni di dollari, Smartmatic ne chiede 2 miliardi e 700 milioni, prendendo di mira in particolare Sidney Powell, già membro del team legale di Trump, e Rudy Giuliani, l’ex sindaco di New York già implicato nel primo impeachment del presidente, ma anche il canale televisivo Fox News e alcuni dei suoi anchorman più vicini all’ex presidente. Le due compagnie hanno in serbo altre querele, ma intanto le prime hanno già avuto effetto: dopo aver fatto da megafono a Trump per mesi, in dicembre Fox News ha presentato nel programma dei tre anchorman querelati il parere di un esperto che sfata il mito delle elezioni truccate; su Newsmax (anch’esso un network molto a destra) l’alleato di Trump Mike Lindell è stato zittito dal moderatore, che ha poi letto una dichiarazione secondo cui la rete televisiva riconosce come legale il risultato delle elezioni; a New York la radio WABC ha smentito in diretta Rudy Giuliani, che cura un programma su quelle onde. La paura fa novanta, perché chi diffonde fake news sa di non potere dimostrare che non sono tali.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Società e Territorio Immergersi in acque ghiacciate È nata l’associazione Gelidisti del Ticino. La loro missione è diffondere la bellezza dei bagni invernali nelle fredde acque di pozze, laghi e laghetti del nostro territorio pagina 6
In Ticino si fa scienza Il nuovo portale di divulgazione scientifica online ticinoscienza.ch spiega a un pubblico allargato ciò che avviene nei laboratori e nelle strutture di ricerca attivi nel nostro Cantone pagina 7
Donne nella scienza Parità di genere L’ONU sostiene una
maggiore presenza femminile nelle carriere scientifiche e di ricerca
Marco Martucci Ancora qualche decennio fa, noi studenti al Poly di Zurigo, la ETHZ, ci si meravigliava della presenza di una ragazza e, se ne volevamo vedere qualcuna, bastava attraversare la strada e passare davanti all’università, dove la presenza femminile era decisamente più cospicua. Nel frattempo, molto è cambiato, si parla di parità di genere e, dal Monitoring report on gender equality della ETHZ apprendiamo che mentre nel 2014 le studentesse rappresentavano il 30%, nel 2019 erano aumentate al 32,3%, una media fra tutti i dipartimenti. A biologia e architettura, le studentesse superano il 50%, a fisica raggiungono a stento il 10%. Nel complesso, fra i dottorandi oltre un terzo sono donne e la quota di professoresse supera il 16%. Nella vicina università, nel 1974 si contavano circa 2800 studentesse e 7500 studenti, proporzione ribaltata nel 2018: 15’000 studentesse e «solo» 11’000 studenti. Le ragazze, insomma, sembrano davvero più studiose. Resta comunque il divario fra generi, il gender gap, non tanto nelle scienze sociali e umane, ma nel settore delle hard sciences, le scienze «dure», raggruppate nell’acronimo STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) o, in Svizzera, MINT (matematica, informatica, scienze naturali, tecnica). Qui, le donne sono nettamente in minoranza. Nei Premi Nobel, che saranno fin che si vuole un caso molto particolare ma comunque rappresentativo, il divario è ancor più impressionante. Dal 1901, anno dell’istituzione del Nobel, sono state premiate 930 persone ma solo 57 erano donne e 23 su 624, meno del 4%, sono state premiate per chimica (7), fisica (4) e medicina (12). Il 2020 è stato un anno eccezionale, che conferma una tendenza: anche fra i Nobel, le donne stanno aumentando. Il Premio Nobel per la chimica è stato vinto dalla francese Emmanuelle Charpentier e dalla statunitense Jennifer A. Doudna per un «nuovo metodo di editing genomico», il CRISPR/Cas9, le «forbici genetiche» efficienti e precise dalle molteplici e innovative applicazioni. Ma non basta: la statunitense Andrea Ghez ha condiviso con due ricercatori il Nobel per la fisica con la scoperta di un «oggetto compatto e supermassiccio», un buco nero, al centro della nostra Galassia. Molti media hanno sottolineato il fatto che si trattasse di donne, quasi con meraviglia, il che non dovrebbe essere il caso perché non c’è nessuna valida
ragione per cui una donna non possa eccellere nelle materie scientifiche a scuola e, in seguito, intraprendere una carriera di successo in fisica, chimica, matematica o ingegneria. Saranno in minoranza, ma gli esempi non mancano. Tanto per citarne uno non di poco conto, dal 2016 la direttrice generale del CERN è la fisica italiana Fabiola Gianotti. Ma ecco due esempi che per molti saranno una sorpresa: due donne politiche molto famose. Angela Merkel, cancelliera federale della Germania dal 2005, ha un dottorato in chimica fisica dell’Università di Lipsia. Margaret Thatcher, Prima ministra del Regno Unito dal 1979 al 1990, aveva una laurea in giurisprudenza e una laurea in chimica dell’università di Oxford, di cui era particolarmente orgogliosa. Il tema delle donne nella scienza è molto attuale e basta muoversi un po’ nella rete per rendersene conto. Ma è anche complesso. Quali sono le cause di questa forte disparità fra uomo e donna? Non c’è una causa sola e le ipotesi sono tante. Superate da tempo le vecchie teorie sull’intelligenza della donna e garantito praticamente in tutto il mondo l’accesso delle donne agli studi superiori ci devono essere altre ragioni. Non dimentichiamo comunque che la donna è ancor oggi discriminata e pensiamo che in Svizzera il suffragio femminile a livello federale è una realtà da soli cinquant’anni. Potrebbe essere che le ragazze si sentano poco attratte dalle STEM o MINT, le materie scientifiche, ma questo riguarda anche gli uomini. C’è una mancanza, non solo nel nostro Paese, di tecnici, chimici, fisici, ingegneri, un problema noto da tempo e che si cerca di risolvere, per esempio, rendendo più attrattive le materie scientifiche. C’è poi uno stereotipo classico: i mestieri tecnici e scientifici non sarebbero «cosa da donne». I fatti negano tali affermazioni ma i pregiudizi sono duri a morire. Per le donne che concludono i loro studi e volessero proseguire con una carriera scientifica si potrebbero presentare altre difficoltà fra cui la competizione. Qualcuno ha affermato che le donne si sentirebbero «meno brillanti» dei loro colleghi uomini. Insomma, c’è una gran varietà di cause, che spesso s’intrecciano fra loro. Il gender gap stenta a sparire. Ed è un peccato perché le donne sono la metà della popolazione e la loro esclusione dal mondo della scienza può avere conseguenze sullo stesso progresso scientifico. Di questo si sono accorte anche le Nazioni Unite. Secondo l’UNESCO, a livello mondiale, meno del
Emmanuelle Charpentier, biochimica e microbiologa, che con Jennifer Doudna ha vinto il Nobel per la chimica 2020. (Keystone)
30% dei ricercatori sono donne. Il tasso di scolarizzazione delle ragazze è particolarmente debole nei settori ingegneria, fabbricazione e costruzione, 8%, scienze naturali, matematica e statistica, 5%, IT 3%. Così, l’ONU ha dichiarato l’11 febbraio di ogni anno «Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza». «Dobbiamo sfruttare pienamente il nostro potenziale, eliminando gli stereotipi di genere e sostenendo le donne nella loro scelta per una carriera nella scienza e nella ricerca», così António Guterres, Segretario generale dell’ONU. A questo punto, lasciamoci ispirare da cinque esempi fra i tanti di donne che si sono distinte nel mondo della scienza. Ecco Marie-Anne Paulze La-
voisier (1758-1836), moglie di Antoine Laurent Lavoisier, padre della chimica moderna, attiva collaboratrice del marito e che, fra l’altro, realizzò i disegni per il primo libro di testo di chimica. La «star» è indubbiamente Marie Skłodowska Curie che, insieme al marito Pierre, vinse il Nobel per la fisica nel 1903 e, rimasta vedova, si aggiudicò il Nobel per la chimica nel 1911, unica donna al mondo con due Premi Nobel. Una delle sue figlie, Irène, condivise con il marito Frédéric Joliot il Nobel per la chimica nel 1935. La fisica austriaca Lise Meitner (1878-1968) collaborò a Berlino con Otto Hahn, artefice nel 1938 della prima fissione nucleare. Per sfuggire alla persecuzione, l’ebrea Meitner riparò in Svezia
e comprese la natura e l’importanza della scoperta di Hahn, vincitore nel 1944 del Nobel per la chimica che, in altre condizioni, avrebbe forse condiviso con Lise Meitner, ebrea e donna, per molti un Nobel mancato. Concludiamo con le parole di un’altra grande donna di scienza, Rita Levi-Montalcini (1909-2012), Premio Nobel per la medicina nel 1986, parole di speranza e incoraggiamento: «Le nostre capacità mentali – uomo e donna – son le stesse: abbiamo uguali possibilità e differente approccio». Informazioni
www.un.org/en/observances/womenand-girls-in-science-day
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Insegnare la privacy
Didattica «I segreti sono ammessi» è un nuovo modulo online per spiegare ai bambini e ai ragazzi come comportarsi
nel mondo digitale. Ne parliamo con Giordano Costa, incaricato cantonale per la protezione dei dati Guido Grilli Furto d’identità, bullismo, danni di immagine, adescamento. Muoversi con consapevolezza nel mondo digitale è basilare e urgente. Sin dall’infanzia. Detto, fatto. Proprio per far conoscere i princìpi alla base della privacy, per sensibilizzare alla protezione dei dati, insegnare ai bambini a riflettere su tali fondamenti in relazione ai propri atteggiamenti in Internet e all’uso di tablet e smartphone, è stato realizzato uno strumento per le nuove generazioni che risponde appieno al delicato argomento, confrontandosi con situazioni concrete e quotidiane: si tratta di un manuale didattico online, intitolato I segreti sono ammessi e dedicato agli scolari dai 4 ai 9 anni. Presentato lo scorso 28 gennaio, in occasione della quindicesima Giornata europea della protezione dei dati, è stato curato dagli incaricati cantonali della protezione dei dati di Ticino, Grigioni e Zurigo. Il volume ha già ottenuto un significativo riconoscimento, il premio «Global Privacy and Data Protection Award». Non solo, grazie al sostegno finanziario della piattaforma nazionale «Giovani e Media», il progetto è stato tradotto in francese, italiano e inglese e – per la parte audiovisiva – anche in cinque idiomi romanci. Lo sviluppo? I moduli di apprendimento per tutte le fasce scolastiche saranno implementati entro la fine di quest’anno. Ma il nuovo materiale didattico è già stato integrato nei programmi delle scuole di formazione per insegnanti nelle quattro regioni linguistiche della Svizzera. Ne abbiamo parlato con l’incaricato per la protezione dei dati in Ticino, Giordano Costa, promotore, unitamente agli omologhi di Grigioni e Zurigo, del progetto per la tutela dei minori in internet. Giordano Costa, come nasce l’iniziativa?
Oggigiorno, con l’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione, le persone devono affrontare una crescente pressione sulla loro privacy sin dall’infanzia. Pensiamo innanzitutto ai genitori che pubblicano le fotografie e i filmati dei loro bambini sui social media. Queste immagini potrebbero essere usate, più tardi, contro di loro. In giovane età, poi – e spesso già nella fase pre-adolescenziale dello sviluppo – i minori iniziano loro stessi a crearsi una personalità virtuale. E qui possono cominciare numerosi problemi. Già per noi adulti non è sempre facile valutare le conseguenze della pubblicazione di dati personali in internet per la nostra persona e per quella altrui, figuriamoci per i bambini. A quell’età è difficile o impossibile valutare i pericoli che derivano dal trattamento incauto di dati personali su internet. Insomma, i bambini, lo sappiamo, non hanno un grande senso del pudore, della privacy propria e altrui. Se aggiungiamo, a ciò, l’effetto seducente che le nuove
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il manuale didattico online riflette anche su cosa si può fare e cosa invece non si dovrebbe fare con foto, filmati e selfie. (datenschutzlernen. ch)
tecnologie hanno su di loro e l’esempio – spesso non buono – che noi adulti diamo ai bambini nell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione sociale, il risultato è chiaro: danni di immagine, di reputazione, bullismo, stalking, violenza verbale, adescamento, Revenge Porn, perdita di controllo sulla propria sfera privata e sulla propria libertà, sin dall’infanzia. Per questi motivi, noi garanti svizzeri della privacy riteniamo importante sensibilizzare i minori, sin da giovanissimi, sui rischi legati all’uso dei social media e di internet in generale. Quali sono i maggiori rischi per i minori e per i giovani in rete?
Sappiamo oramai tutti del bullismo, della violenza verbale, dello stalking e del furto d’identità online. Quali esempi di rischi online citerei piuttosto il Revenge Porn, che consiste nella diffusione, spesso per vendetta, di immagini intime della ex amica o amico su gruppi in WhatsApp, che poi qualcuno gira ad altri fuori dal gruppo e che poi qualcun altro pubblica su Facebook o altro social media. E improvvisamente la nostra intimità non è più tale, non è più nostra, ma è di dominio pubblico. Alla perdita di controllo sulla nostra sfera intima fa seguito il danno di immagine, di reputazione, la violenza verbale, eccetera. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Le conseguenze sul piano psicologico e sul sano sviluppo della personalità del minore possono essere pesanti. Quale secondo esempio, riporterei quello dell’adescamento. Nel caso degli adolescenti, gli adescatori chiedono spesso fotografie, anche intime, a fini di ricatto: «Se non fai quello che dico o voglio, pubblico le tue fotografie online». Poi c’è un altro fenomeno – quello dell’influencer – che è sempre più presente fra gli adolescenti. Molti giovani sono sedotti dall’idea di diventare influencer, così cercano a tutti i costi di apparire, costruendosi una personalità online secondo il motto «esisti se appari, se ti esibisci» e, come sempre, più appari e più ti esibisci, più sei esposto ai pericoli che ho citato, mentre hai ancora una fragilità psicologica molto elevata. Ci sono poi territori non facilmente accessibili al monitoraggio, come WhatsApp, oppure Telegram o Signal e lì tutto è possibile, dai veri e propri pestaggi verbali di gruppo, allo scambio di contenuti di violenza, alla diffusione del linguaggio dell’odio di ogni tipo, razziale, politico. Quali sono, più concretamente, le conseguenze per i diritti e le libertà fondamentali dei minori?
Quando ci accorgiamo di aver divulgato impropriamente dati personali è troppo tardi. Abbiamo perso il controllo Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
su noi stessi, sulla nostra sfera privata, siamo nelle mani di altri. Non siamo più individui liberi. Tutto ciò rappresenta un grave pericolo per la sana costruzione dell’individuo, legalmente e democraticamente adulto e responsabile. È perciò importante evitare di crescere una generazione di persone violate nei loro diritti sin dalla giovane età. Ciò è possibile sensibilizzando e educando le persone, sin dall’infanzia, ai diritti e doveri legati al corretto uso di internet e dei social media. Bisogna, insomma, evitare che la gioventù rimanga competente soltanto tecnologicamente, ma non, anche, giuridicamente. I giovani devono capire che internet e i social media sono come un coltellino svizzero: molto utile, ma anche pericoloso per sé stessi e per gli altri, se non lo si usa correttamente. Quali finalità si prefigge lo strumento didattico online I segreti sono ammessi e come è sorta la sinergia con le altre realtà geografiche di Zurigo e Grigioni?
Lo strumento è stato sviluppato dall’Alta scuola pedagogica del Canton Zurigo, in collaborazione con l’incaricato cantonale zurighese della protezione dei dati. Persegue lo scopo di insegnare ai più giovani che la privacy è un requisito fondamentale per una persona, una società e una democrazia funzionanTiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
te. L’incaricato cantonale zurighese della protezione dei dati ha coinvolto gli omologhi grigionesi e ticinesi nella promozione di questo strumento didattico al fine di proporlo anche ai bambini di lingua italiana o romancia.
Non si tratta di un volume cartaceo, bensì di un’applicazione online, di un modulo di insegnamento. Può spiegare, in sintesi, quali sono i contenuti e i temi e come vengono concretamente trasmessi agli allievi?
Lo strumento didattico spiega ai bambini cosa è la persona, cosa sono i suoi dati personali e come vanno trattati per evitare di violare i diritti propri e altrui. Lo fa principalmente con video, giochi di ruolo, discussioni, rappresentazioni teatrali e esercizi.
Come sono state le esperienze finora compiute in Ticino con questo nuovo strumento didattico?
Un sondaggio promosso dalla Supsi presso i docenti in formazione ha rilevato che lo strumento didattico I segreti sono ammessi viene valutato, perlopiù, positivamente. In particolare, viene considerato come innovativo e importante per una problematica – quella legata alla tutela della privacy dei bambini in internet – sottovalutata. È stato ritenuto adatto ai bambini, chiaro e di facile uso in classe. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
Formaggio Caseificio Blenio
Il merluzzo migrante
Novità Il pregiato skrei norvegese è di nuovo
disponibile presso i reparti pesce Migros
Attualità Una saporita specialità prodotta
con cura e dedizione dal Caseificio del Sole di Aquila
Azione 20%
Flavia Leuenberger Ceppi
Caseificio Blenio prodotto in Ticino per 100 g, imballato Fr. 1.90 invece di 2.40 dal 16 al 22.02
L’azienda agricola Caseificio del Sole sorge nella campagna adiacente al villaggio bleniese di Aquila e dal 1976 è gestita da Severino Rigozzi, a cui negli ultimi anni si sono affiancati i figli Odis e Nancy nella conduzione di questa dinamica realtà produttiva di montagna. L’azienda è composta dalla stalla a stabulazione libera, dove oggi vengono allevate una novantina di mucche lattifere e sessanta tra manze e manzette; e dal moderno caseificio dove sono prodotte alcune rinomate specialità casearie. Una di queste è il formaggio Caseificio Blenio, un prodotto in vendita nei supermercati Migros sia a libero servizio, sia presso i banconi del formaggio. «Si tratta di un formaggio a pasta semidura, grasso, prodotto con il nostro latte vaccino di montagna proveniente da mucche alimentate con foraggio non insilato, in gran parte di nostra produzione», ci spiega Severino. Dalla mungitura alla lavorazione del latte passa pochissimo tempo, dal momento che tutto avviene praticamente sotto lo stesso tetto. «In questo modo possiamo offrire ai consumatori tutta la ricchezza degli aromi e profumi caratteristici del fieno e dell’erba di montagna di cui si nutrono gli animali», racconta con una punta di orgoglio il contadino bleniese. Dopo la trasformazione del latte in formaggio da parte dell’esperto casaro Lucio, le forme di Blenio vengono trasferite a un paio di chilometri di distanza per l’ultima fase del processo di fabbricazione, la stagionatura, che dura minimo 3 mesi. «Per la maturazione del formaggio ho la fortuna di poter far
Azione 30% Filetto dorsale di merluzzo skrei MSC Norvegia, pesca selvatica, per 100 g Fr. 3.35 invece di 4.80 dal 16 al 22.02
Numerose sono le varietà di merluzzo commercializzate, ma tra le più ricercate dai buongustai e dagli chef c’è il merluzzo norvegese skrei. È pescato tra gennaio e aprile nel Mare di Norvegia, soprattutto al largo delle isole Lofoten, come pure a Senja e Vesterålen, dove ogni anno giunge a banchi dal Mare di Barents per deporre le uova. Il lungo viaggio intrapreso dagli skrei conferisce alla carne una consistenza più soda rispetto ad altre specie che tendono a rimanere in un posto solo. Bianca e dal sapore delicato, la carne è talmente tenera che si sfalda facilmente con una forchetta. Il merluzzo skrei può raggiungere un peso di 55 kg e una lunghezza di 180
cm. Questo pesce è uno dei motivi per cui le popolazioni locali sono state in grado di sopravvivere così a nord. Già durante l’epoca vichinga il merluzzo secco rappresentava una riserva alimentare fondamentale. Fresco o essiccato, conosciuto come stoccafisso, lo skrei è uno dei maggiori prodotti norvegesi di esportazione. La sua pesca è severamente regolamentata dalle autorità al fine di preservarne gli stock ittici e l’habitat marino. Ancora oggi i pesci sono catturati da piccoli pescherecci con l’ausilio di metodi di pesca tradizionali, come ami, lenze e piccole reti. Quello venduto da Migros è certificato MSC, ciò che ne garantisce la provenienza da una pesca sostenibile. Lo skrei può essere preparato in molti modi, sia al forno sia grigliato, oppure saltato in padella, e si presta ottimamente per le cucine più disparate, dall’orientale alla mediterranea fino agli abbinamenti dolci.
Severino Rigozzi con una forma di Caseificio Blenio.
capo ad una grotta-cantina situata presso la storica Cima Norma di Dangio-Torre. Qui, grazie a un microclima unico per quanto attiene umidità e temperatura, il formaggio trova le condizioni ideali per poter sviluppare il suo tipico sapore pieno, pronunciato e delicato al contempo», conclude
Severino Rigozzi. Oltre al formaggio Blenio, il Caseificio del Sole produce per Migros Ticino altre genuine bontà: la formaggella Crenga a pasta molle, l’Alpe Camadra DOP 3 e 12 mesi, l’Adula stagionato 6 mesi e il Rakletello, il formaggio da raclette in versione ticinese.
Un idilliaco villaggio di pescatori nelle isole Lofoten norvegesi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
Ordina online e ritira in negozio
Attualità Grazie al servizio Click & Collect la clientela dei negozi
Il cibo di Braccio di Ferro
Melectronics, Micasa e SportXX può acquistare l’articolo desiderato in modo semplice e veloce
Che si tratti della sedia di design bramata da tempo, dell’ultimissimo modello Apple MacBook oppure del paio di sci indossato dai campioni della Coppa del Mondo, nei nostri negozi specializzati Micasa, Melectronics e SportXX da sempre ognuno trova i migliori prodotti di marca senza rinunciare all’ottimo rapporto qualità-
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online sul sito di uno dei nostri tre negozi e ritirati nel punto vendita prescelto dal lunedì al sabato in tutta sicurezza. Il funzionamento è semplice: selezionate il prodotto richiesto nello shop online di Melectronics, Micasa o SportXX. Verificate la disponibilità dell’articolo nella filiale sotto la sezione «Click & Collect». In caso affermativo compilate il formulario di prenotazione e inoltrate l’ordine. La conferma vi verrà inviata per e-mail o SMS e rimane valida 7 giorni. Quando l’articolo è pronto per il ritiro, riceverete un ulteriore messaggio. Va da sé che la consegna del prodotto avviene rispettando tutte le regole sanitarie emanate dalla Confederazione, ovvero indossando la mascherina e mantenendo la distanza fisica. Infine, se desiderate un supporto all’acquisto, consigliamo di usufruire della nostra videoconsulenza gratuita: chiamando un nostro consulente, vi verrà mostrato il prodotto desiderato e potrete richiedere informazioni sul medesimo. Il servizio è disponibile online sul sito del relativo negozio specializzato.
Gli spinaci non sono solo il cibo preferito dal celebre personaggio dei fumetti per farsi bello con la sua fidanzata Olivia, ma sono particolarmente apprezzati anche per le loro proprietà nutrizionali e culinarie. Questi ortaggi hanno sì un contenuto di ferro relativamente alto, ca. 3 mg per 100 g, ma tuttavia non così alto come è stato per anni erroneamente pubblicizzato attraverso le avventure di Popeye. Tuttavia contengono anche altre sostanze importanti per il nostro sistema immunitario, come la vitamina C, E, il betacarotene e l’acido folico. Inoltre sono tra le verdure più ricche di potassio. Gli spinaci si distinguono a seconda del periodo di semina e raccolta e sono oggi disponibili freschi tutto l’anno. Le va-
rietà con le foglie più tenere, vale a dire quelle primaverili, sono ottime anche in insalata. Come contorno, in insalata, zuppa, come farcitura per una torta salata oppure per conferire un bel colore verde a risotti, paste, gnocchi, gli spinaci si possono preparare in molti modi diversi. A proposito, questa settimana gli spinaci freschi nella confezione da 500 g sono in promozione speciale alla vostra Migros: tanto vale farne una bella scorta se si vuole diventare forti come Braccio di Ferro! Spinaci Italia, sacchetto da 500 g Fr. 1.95 invece di 2.50 Azione 22% di sconto dal 16 al 22.02 Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Società e Territorio
Gli adepti delle acque ghiacciate
Nuoto invernale È nata l’associazione Gelidisti del Ticino. La loro missione è diffondere la bellezza dei bagni
nelle fredde acque di pozze, laghi e laghetti del nostro territorio
Jonas Marti Sarà che le calorose e accoglienti piscine sportive, con la temperatura dell’acqua amorevolmente regolata sopra i 24 gradi, rimarranno chiuse almeno fino a fine febbraio. Sarà che quest’anno, a causa delle restrizioni che hanno colpito i comprensori sciistici, provare l’ebbrezza delle nevi ghiacciate è un po’ più complicato del solito. O sarà semplicemente che il virus ci ha ormai spinti a riscoprire le bellezze naturali del territorio. Fatto sta che quest’inverno pozze, laghi e laghetti ticinesi – meraviglie nostrane letteralmente «mozzafiato» con le loro acque a temperatura da era glaciale – sembrano più affollati del solito. Fino ad oggi conoscevamo le tradizionali nuotate natalizie, come quella di Santo Stefano a Paradiso, o quella del giorno della Befana a Brissago. Ma ecco che ora un gruppo di audacissimi amici sportivi ha deciso di andare ben oltre e ha fondato l’associazione Gelidisti del Ticino. Obiettivo: temprare corpo e mente sfidando le acque di laghi e fiumi ghiacciati. Un nome che dice già tutto. Il gelo trasformato in religione e dottrina, con quel suffisso -ista che indica l’aderenza totale a un’ideologia. Stalinisti dell’acqua polare, suprematisti dell’ebbrezza del freddo pungente che incendia ogni capillare, il loro profeta è l’eccentrico Alessandro Veletta, classe 1979 di Tenero, già noto per le sue ardite imprese acquatiche. Dalla Dirinella-Brissago tutta a delfino, ai 24,5 chilometri del Gran Fondo del Naviglio, storica gara di nuoto nei canali milanesi, alla somma fatica d’Ercole, due anni fa, per una raccolta fondi: una 24 ore di nuoto ininterrotto, avanti e indietro per 47 chilometri nella vasca da 25 metri del Lido di Locarno. Fino all’apparizione miracolosa delle acque ghiacciate, che gli ha svelato un nuovo universo. «Un inverno soffrivo di un raffreddore che non voleva andarsene – spiega Veletta – ma le medicine non facevano nessun effetto. Così, seguendo i consigli di un amico, sono andato alla Pozza di Tenero, ho cominciato gradualmente ad immergermi e da allora non ho mai più avuto il raffreddore». I discepoli finora sono una quindicina. Per rispettare le regole sanitarie però i Gelidisti del Ticino non si ritrovano mai in più di cinque. Il loro santuario è la Pozza di Tenero, ma a volte può
L’olandese Wim Hof, conosciuto in tutto il mondo come The Ice Man. (Keystone)
capitare di vederli anche alla Cascata della Piumogna o, come lo scorso 31 dicembre, per un brindisi di fine anno a base di immersione in acqua ghiacciata, al Pozzón di Osogna con i suoi deliziosi 2 gradi centigradi. L’iniziazione, spiega il guru Veletta, avviene secondo un rituale ben preciso. «Si entra in acqua prestando massima attenzione al respiro, ci si immerge per un minuto, poi si esce e si rientra. Quando si esce non bisogna però frizionare la pelle con l’accappatoio, ma vivere con intensità la sensazione del freddo».
I bagni in acqua gelida sono indicati solo per persone in buona salute, preparate mentalmente e che hanno imparato la giusta tecnica di respirazione Ma i gelidisti (forse) non sono completamente pazzi. I benefici della crioterapia, ovvero delle cure eseguite mediante il raffreddamento del corpo, in realtà
sono noti da tempo. Da millenni numerose popolazioni praticano bagni nel ghiaccio per guarire da infiammazioni, dolori ossei o altre patologie. Si dice che Cristiano Ronaldo e Usain Bolt abbiano addirittura una criosauna in casa, a base di azoto vaporizzato a –170 gradi, mentre i ciclisti, nelle grandi corse a tappe, per recuperare più rapidamente si immergono in apposite vasche riempite di acqua e ghiaccio. Sanela Micic, classe 1982 di Bellinzona, nuova adepta dei Gelidisti del Ticino, è un’entusiasta sostenitrice dei benefici del freddo. Prima di entrare nel gruppo non faceva nemmeno il bagno d’estate. Quando ha deciso di provare per la prima volta a immergersi nell’acqua ghiacciata, credeva di non farcela. Poi anche lei è stata folgorata sulle sponde pietrose della Pozza di Tenero e oggi ripone piena fede nel gelidismo. «Il freddo fa paura – scandisce Sanela Micic – e proprio per questo immergersi nell’acqua gelida, controllando il respiro, permette di imparare a mantenere la calma, ad avere il controllo della mente, delle emozioni e del corpo». Il corpo ghiacciato che, attraverso il respiro, tempra la mente, scaccia le paure, produce sicurezza in sé stessi, spinge ad al-
zare il proprio limite e superarlo. «Dona la pace interiore», sintetizza Alessandro Veletta. Come monaci buddhisti, come asceti meditanti, come i primi alpinisti per cui le irraggiungibili vette erano solo un riflesso della propria interiorità. L’associazione Gelidisti del Ticino è la prima a sud delle Alpi. Ma in Svizzera interna qualche appassionato c’è già da tempo. A Berna esiste il Club Gfrörli, fondato nel 2006 da un gruppo di studenti talmente affezionati al loro fiume, l’Aare, da farci il bagno ogni martedì e venerdì anche d’inverno, in bikini e costume. «Ti scaldi nell’acqua fredda e ti senti come un drago», ha detto una volta uno di loro in un’intervista. Per rendere tutto più interessante, i gelidisti bernesi hanno fatto un patto: ad ogni nuotata ogni membro paga 50 centesimi che vengono messi in un salvadanaio comune, e a fine stagione chi può vantare il maggior numero di presenze vince l’intero malloppo. A Zurigo vent’anni fa è stato invece fondato il Samichlaus-Schwimmen, 111 metri di puro brivido nella Limmat. A Ginevra è la Coupe de Noël a riunire gli appassionati, e lo fa dal lontano 1934. Cento metri nel Lemano a circa 6 gradi, senza muta e senza alcun tipo di aiuto come
pinne o guanti. Nel 1934 i partecipanti erano nove, nel 2019 più di 2500. Ma perché questo boom? Dicono gli esperti: il nuoto invernale può provocare dipendenza. Il freddo stimola, in risposta allo shock termico, la secrezione di endorfine e adrenalina. E Sanela Micic conferma. «Per alcuni di noi è quasi una droga. Non sempre è possibile andare a immergersi in giornata, e allora ogni tanto andiamo addirittura la sera tardi, quando è già sceso il buio, di notte. Ne sentiamo il bisogno. A fine giornata ti rilassa e ti dà una carica di positività pazzesca». Certo ci sono anche alcune controindicazioni. I bagni nell’acqua gelida sono sconsigliati soprattutto alle persone che soffrono di disturbi cardiaci. Per chi è in buona salute è invece importante prepararsi mentalmente, respirare in maniera corretta e concentrarsi sui segnali del corpo. «Immergersi a pochi gradi – puntualizza Sanela Micic – è un grande stress fisico. Bisogna fare attenzione, non è un gioco: se si comincia a provare panico può diventare pericoloso». Per questo la giusta tecnica di respirazione è fondamentale, e si basa sul metodo di uno sportivo olandese, Wim Hof. Soprannominato The Ice Man, Hof è conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di resistere alle basse temperature gelide. Nel 2000 ha stabilito il record mondiale per la nuotata più lunga sotto il ghiaccio, con una distanza di 57,5 metri. Nel 2007 è salito a 7200 metri sul Monte Everest indossando solo pantaloncini e scarpe da ginnastica. La sua tecnica di respirazione, simile a quella indiana del pranayama, ha fatto scuola tra i gelidisti di tutto il mondo e consiste essenzialmente in cicli di respirazioni molto profonde e forti che permettono di controllare meglio il corpo. «Quando finirà l’emergenza sanitaria – dice Alessandro Veletta – vorremmo andare nei fiordi norvegesi e nuotare vicino agli iceberg. Per ora la nostra missione è semplicemente quella di diffondere la bellezza dei bagni invernali». Ma la bella stagione si avvicina, presto le temperature si alzeranno e, come in una fiaba, l’incantesimo di ghiaccio svanirà. Come pensate di riuscire a sopravvivere alla prossima estate? «Nessun problema. Andremo a fare passeggiate in montagna e ci tufferemo nei laghetti alpini. Quelli più in quota hanno una piacevolissima temperatura tra i 7 e i 9 gradi».
Riflessioni sulla non violenza
Pubblicazioni Tradotto in italiano l’ultimo saggio della filosofa americana Judith Butler Laura Di Corcia In seguito all’attacco a Capitol Hill, una delle critiche mosse da media e opinione pubblica si è incentrata attorno alla differenza di trattamento a stampo razziale: perché la polizia, ci si è chiesti, ha tardato ad agire? E soprattutto come mai nella stessa Washington la reazione di fronte a una manifestazione pacifica di Black Lives Matter non si è fatta attendere, portando all’arresto di 14mila persone? Con questa premessa mi approccio all’ultimo libro della filosofa e femminista americana Judith Butler, La forza della non violenza, pubblicato in Italia da Nottetempo. Un libro più che mai attuale, specie alla luce dei fatti avvenuti a inizio anno negli Stati Uniti. La filosofa apre la trattazione con un quesito: che cos’è la violenza? Come definirla? Esiste una violenza giusta, ineludibile? Si capisce che le questioni aperte dalle domande siano enormi e che la risposta non sia facile. Potremmo però cominciare con
il dire, con Benjamin, che è sempre il Potere a stabilire cosa sia la violenza, a dettarne i contenuti e a perimetrarne la circonferenza. E che lo stesso passaggio dallo stato di natura a quello civile sia sempre non un abbandono della violenza, ma una violenza esso stesso, seppur una violenza, forse, necessaria. Se a stabilire cosa sia la violenza è sempre il Potere, ogni atto contro il Potere stesso e le sue basi sarà catalogato come violenza, mentre ci sarà uno sguardo diverso, più accondiscendente di sicuro, verso le forme di violenza compiute dal Potere stesso. È giusto a questo punto aprire una parentesi: una riflessione interessante che il libro porta in luce sin dalle prime pagine è quella sullo stato di natura, un concetto fumoso, anche se dato per assodato, sul quale conviene soffermarsi un attimo. Da Hobbes in avanti, siamo piuttosto predisposti a prendere come certezza inattaccabile che durante questo mitico stato di natura, gli uomini si aggirassero come monadi, esseri egoistici atti a prendere
quanto più possibile per se stessi, pronti a pestare i piedi se non a massacrare il proprio simile, senza mai valutare un orizzonte minimamente comunitario. Siamo proprio sicuri che prima (dello stato di diritto) la vita fra gli esseri umani fosse così orrida? Partendo dal presupposto che l’uomo non inizia il suo percorso nel mondo da adulto, ma da bambino, la sua vita è sin dagli albori caratterizzata dalla dipendenza dagli altri. Perché, quindi, prima dello stato civile queste relazioni di dipendenza reciproca non avrebbero dovuto portare a forme di convivenza pacifiche? Perché si vuole vedere della natura solo il lato egoistico e distruttivo, quando non autodistruttivo? Un altro punto importante che emerge dalla lettura del testo di Butler, è quello che riguarda l’interconnessione della riflessione sulla violenza e quella sull’uguaglianza. E la filosofa per sviscerare questo tema porta alla luce una tematica nuova, quella della dignità di lutto. Cito: «Ciò su cui vorrei insistere è che le persone posso-
no essere piante, o almeno essere degne di lutto, solo se la loro perdita viene riconosciuta come tale; e la perdita, a sua volta, può essere riconosciuta come tale solo se le condizioni del suo riconoscimento vengono stabilite preventivamente all’interno di un linguaggio, di un canale comunicativo, di un qualche tipo di campo culturale e intersoggettivo». Butler vive una realtà sicuramente più complessa e spietata della nostra, europea, una realtà, quella americana, dove la polizia non esita a sparare a un nero o ad una nera anche se avanzano forme di protesta pacifiche. Abbiamo visto, di recente, l’omicidio di George Floyd: la goccia che ha fatto traboccare l’acqua dal vaso e che ha dato origine al movimento dei Black lives matter. Sembrano cose inaudite, alle nostre latitudini, ma sempre in questi casi è facile sentirsi candidi e proiettare psicanaliticamente la violenza su un altro soggetto. Se pensiamo – e il libro affronta questo tema – alle migliaia di morti in mare, non possiamo non ren-
Judith Butler. (Wikimedia)
derci conto che in questo caso la cartina di tornasole suggerita da Butler, ovvero la dignità di lutto, mostra un mondo dove la morte di molte persone vale meno rispetto alla morte di una sola persona che si sente parte della propria comunità. Lasciar morire persone che sperano in un futuro migliore sui fondali marini, non curarsene, addirittura avviare campagne d’odio nei loro confronti, non è una forma di violenza? Perché le nostre vite – e quindi le nostre morti – dovrebbero valere di più? Quesiti su cui è giusto riflettere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Società e Territorio In Ticino si svolge un’intensa e importante attività di ricerca scientifica. (Pxhere)
L’impossibile convergenza
Uomo e robot Responsabilità e principi
morali: la discussione sull’intelligenza artificiale si amplia e si fa delicata
Massimo Negrotti
Raccontare la scienza: un nuovo portale In rete Ticino Scienza risveglia l’attenzione sull’attività di ricerca
pubblica e privata nel nostro cantone Loris Fedele Quante sono e quali sono le realtà scientifiche e le ricerche che si stanno sviluppando nel nostro territorio? In pochi sapremmo rispondere, soprattutto perché come pubblico non riceviamo un’informazione regolare, corretta e sufficientemente attrattiva a questo proposito. La scienza in generale e la ricerca in particolare nell’immaginario collettivo rimangono spesso un oggetto misterioso. Nella propria formazione scolastica di base non tutti hanno avuto la fortuna di poter accedere a un sapere scientifico spiegato in termini facili, arricchiti da riferimenti pratici al mondo in cui viviamo. Per cui la ricerca, che è un fattore di crescita fondamentale per qualsiasi società evoluta, è talvolta vista con distacco, come qualcosa di slegato dalla nostra quotidianità. Però ci accorgiamo dei suoi benefici quando sono tradotti in realizzazioni tecnologiche che migliorano la nostra qualità di vita e che sfruttiamo quotidianamente, inconsapevoli degli sforzi che ci sono voluti per raggiungere quel risultato finale.
La nuova testata online voluta dalla Fondazione IBSA ha lo scopo di spiegare a un pubblico allargato ciò che avviene nei laboratori e nelle strutture di ricerca La Fondazione IBSA per la ricerca scientifica, istituita a Lugano nel 2012, si impegna nella divulgazione della cultura scientifica attraverso vari modelli di comunicazione. Ha organizzato e promosso Forum di alto livello, incontri, dibattiti e meeting con l’obiettivo di portare l’attenzione del pubblico su temi di grande rilevanza scientifica, cercando di renderli di immediata comprensione. In quest’ottica si inserisce il suo programma lanciato all’inizio del dicembre scorso: si chiama Ticino Scienza. Si tratta di un sito giornalistico (www.ticinoscienza.ch) che vuol essere un modo per creare una rete che comprenda quasi tutte le realtà della ricerca scientifica attive nel cantone, rendendole più visibili sia al grande pubblico sia agli specialisti interessati. Ho detto «quasi tutte le
realtà» perché per formazione l’IBSA privilegia le conoscenze biomediche e farmaceutiche. In ogni modo come enunciato nel suo comunicato stampa: «Il sito si presenta come un portale completo con diverse sezioni: articoli e approfondimenti che prendono spunto da notizie di cronaca e dagli studi più importanti dei ricercatori ticinesi, pubblicati sulle riviste scientifiche internazionali; una sezione dedicata alla nuova Facoltà di Scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana; una “finestra” sul progetto “Cultura e Salute” (progetto triennale promosso da Città di Lugano e Fondazione IBSA); l’elenco aggiornato in tempo reale delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori che lavorano in Ticino. Il tutto con l’occhio alle ricadute concrete di queste attività sulla vita quotidiana di tutti noi. Molto spazio è dedicato anche alle fotografie, per far conoscere i volti e i luoghi di chi “fa ricerca” e divulgazione scientifica nel Cantone. Infine, Ticino Scienza ospiterà una serie di editoriali sui temi di attualità, che verranno firmati da studiosi di primo piano». Sono parecchie le istituzioni che praticano la ricerca scientifica nel canton Ticino che, a dispetto delle piccole dimensioni del territorio, racchiude centri di eccellenza riconosciuti a livello nazionale e internazionale: ma forse non così valorizzati nel contesto svizzero e nella percezione del pubblico. Tra i settori trainanti vi è quello biomedico, con strutture pubbliche molto avanzate, come l’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona e, sempre nella capitale, l’Istituto Oncologico di Ricerca (IOR). Entrambi sono affiliati all’Università della Svizzera italiana (USI). Per esempio, a sottolineare il peso scientifico della ricerca ticinese, a fine gennaio di quest’anno l’IRB ha fatto sapere in un comunicato di aver sviluppato un anticorpo «doppio» in grado di proteggerci dal virus della Covid-19 e dalla sua variante inglese. L’immunoterapia basata su anticorpi monoclonali si è già dimostrata efficace contro questo virus, ma sta ancora cercando di poter agire anche contro le varianti che circolano e di impedirne la formazione. Cosa che invece sarebbe già in grado di fare il preparato dell’IRB, che impedisce al virus di cambiare la propria struttura per resistere alla terapia. L’IRB ha unito due anticorpi naturali in una singola molecola artificiale, un «anticorpo bi-
specifico», che attacca contemporaneamente due parti diverse del virus, necessarie per l’infezione. L’autore della ricerca, dopo aver raffinato la progettazione dell’anticorpo bispecifico con simulazioni al supercomputer, lo ha prodotto in laboratorio verificando che il virus non riesce a mutare per sfuggire al duplice attacco del nuovo preparato. Anche i test preclinici lo hanno confermato. Ora ci vogliono finanziamenti per la sperimentazione clinica e la validazione, per poi passare all’eventuale produzione. Il piccolo Ticino non ha certo i mezzi dei colossi farmaceutici mondiali e avrà bisogno del coinvolgimento di terzi. Il direttore dell’Istituto ha dichiarato che con questa scoperta l’IRB consolida la propria posizione tra i leader mondiali nella ricerca e sviluppo di anticorpi, in particolare contro le malattie infettive emergenti. Altri punti di forza del cantone sono lo IOSI (Istituto oncologico della Svizzera italiana) e, all’interno dell’EOC (Ente Ospedaliero Cantonale) il Neurocentro e il Cardiocentro. Sta facendosi largo a vari livelli anche la SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) con ricerche in diversi campi, tra i quali eccellono il settore delle Tecnologie innovative in particolare con l’IDSIA (Istituto Dalle Molle di Studi sull’Intelligenza Artificiale). Per far conoscere le proprie ricerche la SUPSI ha recentemente aperto un nuovo sito (www.supsi.ch/go/podcast). La presenza dell’USI e della SUPSI nel canton Ticino costituisce una spinta molto importante per l’avvicinamento delle strutture cantonali ad altre realtà nazionali come gli ospedali universitari svizzeri e i centri di ricerca dei politecnici federali. Questo anche per poter accedere a dei finanziamenti. Non dimentichiamo che da anni Lugano è sede del Centro svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS), un’unità autonoma dell’ETH di Zurigo che collabora strettamente con l’USI. Il centro dà libero accesso ai ricercatori svizzeri e fornisce con i supercomputer risorse di calcolo dedicate per specifici progetti di ricerca e mandati nazionali. Inoltre Lugano si è candidata per ottenere una sede di rete associata al Parco svizzero dell’Innovazione di Zurigo, cosa che aprirà nuovi orizzonti per ulteriori insediamenti di attività d’avanguardia e reparti di ricerca e sviluppo nazionali e internazionali. Tutte cose che potranno figurare su Ticino Scienza.
Sin da quando, nel 1956 al Dartmouth College di Hanover, New Hampshire, fu coniata l’espressione artificial intelligence, si è avviato un vasto dibattito sulla sua fattibilità e sui criteri che si sarebbero dovuti adottare per decretare il suo eventuale successo. In particolare, al centro della discussione c’era l’intelligenza umana, vista da alcuni come perfettamente riproducibile nella macchina e, da altri, come una qualità ancora largamente sconosciuta e, comunque, prerogativa irriproducibile dell’essere umano. Dopo tanti anni da allora, «intelligenza artificiale» è divenuta un’espressione linguistica di uso comune ma ciò non significa affatto che l’obiettivo sia stato raggiunto. Oggi disponiamo sicuramente di dispositivi elettronici e informatici, di elevata complessità, capaci di svolgere funzioni di notevole efficacia nel riprodurre azioni, comparazioni, deduzioni e valutazioni precedentemente svolte dagli esseri umani. Tuttavia, anche se spesso questi dispositivi, sia hardware sia software, incorporano moduli non strettamente deterministici ma anche fuzzy, cioè, alla fine, probabilistici, essi consistono comunque in macchine in grado di sviluppare calcoli, sia matematici sia logici, implementando uno o più algoritmi ed è assai dubbio che il nostro cervello si limiti a tutto questo. Sul tema è stata prodotta un’ampia letteratura ma sta emergendo una nuova tendenza. I difensori della completa fattibilità dell’intelligenza artificiale insistevano quasi sempre su una formula che suonava così: se sono in grado di scrivere un programma che si comporti come farebbe l’uomo con la sua intelligenza, allora non si vede perché quel programma non possa essere definito intelligente. Naturalmente questa posizione, chiaramente orientata ad un criterio «comportamentistico», non è stata accettata da tutti e molti si sono affrettati ad indicare funzioni dell’intelligenza umana che sfuggono alla possibile formalizzazione nella macchina, come l’intuito, il dubbio, la scoperta di problemi e così via. Personalmente, in numerose pubblicazioni, ho sempre sostenuto la tesi secondo cui, in breve, l’intelligenza artificiale che conosciamo è sicuramente intelligenza ma, appunto, artificiale. Dunque, si tratta di un’intelligenza che non può che presentare più o meno vistose differenze con quella umana così come qualsiasi oggetto o processo artificializzato (di cui la nostra vita quotidiana è piena, dalla cucina alla medicina, per capirci) presenta sempre qualche proprietà diversa dall’oggetto o dal processo naturale da cui ha preso lo spunto, a motivo, fra l’altro, dei materiali e delle
I robot possono possedere uno status morale? (Pixabay)
metodiche adottate per realizzarlo. Inoltre, sotto il profilo logico, se l’artificiale convergesse sul naturale riproducendone tutte le proprietà, e solo quelle, allora non saremmo più di fronte all’artificiale ma al naturale e saremmo quindi rimasti, o saremmo tornati, all’interno della natura, delle cose che essa genera e del modo in cui lo fa. È comunque curioso che, a distanza di alcuni decenni, la definizione che ho chiamato comportamentistica, torni ad essere attuale ma su un fronte, la robotica, che può essere inteso come estensione dell’intelligenza artificiale. Si tratta di un fenomeno che sta assumendo gli stessi contorni sopra descritti ma che, questa volta, ha a che fare con un tema assai più delicato: la morale e la coscienza che la genera. In effetti, sta gradatamente emergendo una discussione che credo diverrà di notevole ampiezza nei prossimi anni, circa la possibilità, o meno, di attribuire ai robot proprietà morali come la responsabilità, nonché diritti e doveri andando molto più in là rispetto alle note e preveggenti leggi di Isaac Asimov. Vediamo un paio di citazioni da parte di studiosi di robotica da cui scaturisce la nuova ondata di antropomorfismo. Secondo D. Levy, «… se una macchina esibisce un comportamento che normalmente viene riconosciuto come un prodotto della coscienza umana, allora dobbiamo accettare che anche la macchina abbia una coscienza». Altrettanto, per J. Danaher «I robot possono possedere un significativo status morale se essi sono in grado di esibire un comportamento in linea di massima equivalente a quello esibito da altre entità alle quali tutti noi attribuiamo uno status morale. Ciò potrebbe accadere molto presto». E ancora, a parere di J.S. Gordon, «Se i robot fossero capaci di sviluppare forme di ragionamento morale (moral-reasoning) e di prendere decisioni ad un livello comparabile con quello umano, allora si dovrebbe guardare ai robot non solo come entità moralmente passive, ma anche come agenti pienamente morali con corrispondenti diritti morali». Inoltre, come era già accaduto per l’intelligenza artificiale diciamo, classica, si pensa addirittura, come sostengono J.A. Reggia, G.E. Katz e G.P. Davis che «…lo sviluppo di sistemi di controllo neurocognitivo per i robot e il loro impiego per scoprire correlazioni computazionali della coscienza, fornisce un importante base per capire in cosa consista la coscienza, e […] mette a disposizione una strada percorribile per sviluppare una macchina cosciente». Come si vede, tutto viene ancora una volta ricondotto alla comparazione con l’uomo: se la macchina, in fatto di questioni morali, appare o si comporta come farebbe l’uomo, allora perché negarle le stesse proprietà morali? A questo punto la discussione si farebbe lunga e complessa, a partire dal fatto che, in ogni caso, la responsabilità e i principi morali che la macchina può certamente esibire vanno però ricondotti agli algoritmi, umani, che la governano. Basterà qui sottolineare che anche per la morale dovrebbe valere, per quel che riguarda la macchina, il principio della sua artificialità, con tutte le differenze che ciò comporta soprattutto in un ambito, come quello etico, nel quale sono in gioco questioni di rilevanza strategica per il genere umano. In definitiva, più che l’intelligenza o la morale dell’uomo, al centro del dibattito andrebbe posto l’artificiale in quanto tale. Le sue straordinarie possibilità ma anche la sua inesorabile alterità rispetto alle cose della natura, uomo incluso.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Nutrire i principi democratici La democrazia non ha più nemici, ma non ha più democratici che la sorreggano. Di questo ha oggi un estremo bisogno. Sono recenti considerazioni del filosofo francese Marcel Gauchet in merito all’ampio dibattito sullo stato di salute delle nostre democrazie, alle prese con molte fragilità e possibili derive. È una visione interessante perché mette in luce un aspetto spesso trascurato nel dibattito politico, ovvero il legame tra etica e politica. Al di là delle forme in cui si esprime, l’organizzazione politica di una società ha un forte significato simbolico in cui gli individui si riconoscono e in cui riconoscono il senso della convivenza. Riflettere sugli aspetti etici delle società a partire dagli individui che le compongono rimanda alla nostra postura nei confronti del vivere e del convivere e al rapporto, a volte conflittuale, tra comportamenti pubblici e privati. Evviva la democrazia, dice il filosofo, peccato che manchino i democratici!
Ecco allora la domanda etica: esiste uno scarto insondabile tra pubblico e privato, tra queste due esperienze del nostro stare al mondo? Tra ciò che di noi è visibile e dicibile, e perciò valutabile, e ciò che invece cerchiamo di custodire nel silenzio della più totale invisibilità? A qualcuno sarà pur capitato di ricevere una visita improvvisa e di sentirsi impresentabile. Qui il disagio è provocato da ragioni esteriori, di apparenza, ragioni limitate ad una preoccupazione puramente estetica: sono in pigiama, spettinata, non un bel vedere insomma, meglio non aprire la porta e mantenere il segreto. L’impresentabilità può però toccare anche aspetti più sostanziali del nostro essere; può riguardare pensieri e comportamenti: qui le sue ragioni si aprono alla dimensione etica. La riflessione sul rapporto tra i comportamenti con cui ci presentiamo in pubblico e ciò che custodiamo nella sfera privata perché ritenuto impre-
sentabile ha radici antichissime, fin dal celebre dibattito su essere e apparire tra Socrate e il sofista Trasimaco, contenuto nella Repubblica di Platone. Si parla del valore dei comportamenti giusti e del loro rapporto con la felicità. Trasimaco sostiene che l’uomo più felice è colui che è intimamente ingiusto ma capace tuttavia di apparire giusto. Ovviamente Socrate contesta: meglio essere uomini giusti, quandanche si corra il rischio di apparire ingiusti. L’etica sembra dunque fondarsi, innanzitutto, sull’autenticità e sulla rinuncia ad apparire diversamente da quello che siamo. Un dibattito interminabile ha poi attraversato i secoli successivi proprio attorno alla capacità della natura umana di essere sempre autentica nel rapporto con gli altri, ma soprattutto attorno alla reale felicità che questo atteggiamento comporterebbe. Il rapporto tra pubblico e privato può mostrare anche altri risvolti, già evidenziati da Platone quando propone
per i governanti la comunità di beni e affetti, proprio per scongiurare possibili conflitti di interesse. Questione attualissima che ci riporta al tema della fragilità delle nostre democrazie. L’interrogativo attorno ai nostri conflitti interiori può allora declinarsi anche così: siamo tutti consapevoli del valore dei principi democratici per una convivenza giusta e possibilmente felice, ma quanto sappiamo, o desideriamo, alimentare questi principi nei nostri piccoli mondi privati? Quanto sappiamo, e desideriamo, coltivare l’equilibrio tra il soddisfacimento dei nostri bisogni di affermazione personale e le esigenze dell’altro? Quanto sappiamo sostenere convintamente le nostre idee pur nel rispetto del pensiero di un altro e del fatto che questo altro possa avere ragioni migliori delle mie? Alla coscienza democratica, insomma, è necessario educarsi, nel senso ampio del termine che significa appunto coltivare il valore intrinseco alla vita e alla convivenza.
D’altra parte, nutrire i principi democratici rimane un compito irrinunciabile delle democrazie stesse. Altrimenti le attuali fragilità possono anche scoppiarci tra le mani e aprire le porte a derive indesiderate. Le parole di Alexis de Tocqueville, nell’opera del 1835 dedicata alla democrazia in America, risuonano come un monito attualissimo. Con incredibile lungimiranza osserva come gli uomini che vivono in tempi democratici abbiano bisogno di essere liberi per potersi procurare i piaceri materiali a cui aspirano senza sosta. Può succedere tuttavia che il gusto eccessivo per questi godimenti materiali li consegni al primo capo che si presenti. «Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla di uomini uguali, intenti solo a procurarsi piccoli piaceri volgari con cui riempire il proprio animo. Ognuno di loro, chiuso in sé stesso, diventa estraneo al destino di tutti gli altri».
basta il pullover. Laggiù alle spalle del Kulm, spuntano le montagne del Maloja avvolte sempre in una speciale luce mutevole. Con la musichetta jazz mi lascio andare a qualche passo di danza. In un angolo c’è lo spazio, vuoto, per il curling, tradizione qui fin dal 1883. Dietro il curling, le montagne di Segantini. Altro che camerieri in frac: da solo mi servo dalla thermos l’earl grey. Poi riprendo a pattinare, per ore. Non riesco a smettere, non mi divertivo così da anni. Sarà l’influsso foxtrot delle magnifiche pinete attorno al lago su verso il Piz Rosatsch. In pista, ammiro al contempo i volteggi di Valentina, la maestra di pattinaggio che si scalda prima delle lezioni. Nel pomeriggio una biondina con una cuffia rossa a pon pon prende lezioni da lei per qualche acrobazia abbordabile, un gruppo di amici si ritrova per una partita di hockey, padri e figli, coppie, altri pattinatori contemplativi, animano quest’angolo di mondo. Dove anche la brigata di sala, catturata con la Leica in vari scatti da Eisenstaedt nel suo memorabile fotoreportage, è rimasta di
sale, nell’inverno del 1928, guardando volteggiare Sonja Henie (1912-1969). All’epoca sedicenne, in un vestitino di velluto e cappellino di moda in quegli anni ruggenti, la pattinatrice norvegese sarà una delle più grandi di tutti i tempi. Nessuno si dedica al curling. Forse aspettano tutti l’appuntamento del giovedì, quando c’è il curling bavarese. Me lo segno in agenda, il mio sogno però è il ghiaccio nero. Fenomeno raro ma ricorrente, in assenza di nevicate recenti, qui in Engadina, per qualche giorno. Momento magico non privo di rischi dove pattinare sui laghetti ghiacciati, la cui superficie traslucida scricchiola – come ho sentito l’anno scorso, in gennaio, passeggiando proprio qui intorno al lago di San Murezzan – riverberando dei suoni tra il richiamo amoroso delle balenottere e la techno anni novanta. Intanto mi accontento di ammirare la superficie del ghiaccio graffiata da un groviglio di tragitti, messi in risalto nella luce engadinese verso le cinque di una domenica pomeriggio di febbraio. Ghiribizzi di una bellezza non minore ai migliori De Kooning, Pollock, Kline.
mente evolutivi. «L’algoritmica non è una scienza statica. E conoscerà uno sviluppo ancora maggiore in futuro con l’avvento di macchine sempre più veloci, ma anche, forse, con la comparsa di nuove logiche, come quella quantistica». Per noi comuni mortali significa rimboccarci le maniche, cercare di capire come funzionano, in che modo impattano sulla società e sulle nostre vite. Resto affascinata quando Aurélie Jean ci dice che i computer, attraverso il potere del calcolo digitale, possono permetterci di capire il mondo o che l’immersione in un mondo virtuale digitalizzato permette di rispondere a domande fino ad oggi rimaste in sospeso. Per usare le sue parole «Il mondo materiale frappone molti ostacoli che ci impediscono di progredire nella comprensione delle cose, e le simulazioni al computer possono aiutare. A formulare previsioni, per esempio. Prendete
la meteo: non è osservando le nuvole a occhio nudo che si può prevedere che tempo farà da qui a tre giorni!». Che poi, per una romantica idealista come me saper leggere che tempo farà osservando le nuvole resta la fantasia più bella. Torniamo all’autrice. Aurélie Jean viene scelta per una posizione di post-doc alla Pennsylvania State University. Utilizzerà gli algoritmi per capire la crescita del muscolo cardiaco in laboratorio. Per lei, esploratrice di materiali sintetici, il mondo della medicina è un’assoluta novità ma anche l’occasione per capire quanto il futuro stia nell’interdisciplinarietà, nella capacità di traslare le proprie competenze e di lavorare con persone profondamente diverse da noi. È il 2009, gli Stati Uniti sono in piena crisi finanziaria, Aurélie Jean scopre la meccanica del cuore e per la prima volta incontra i bias… vi aspetto qui per la prossima punta.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Eispavillon del Kulm a St. Moritz Un cameriere volante sui pattini da ghiaccio, in frac, con sullo sfondo le pinete intorno al sottostante lago ghiacciato di St. Moritz, riemerge, l’altro giorno, dalla memoria. È uno scatto di Alfred Eisenstaedt (1898-1995), fotografo tedesco naturalizzato americano famoso per il bacio appassionato di un marinaio a Times Square appena finita la guerra. Apparso su «Life» il sette dicembre 1936, il luogo è davanti al Grand Hotel svanito in un incendio il trenta giugno 1944. Lì vicino, scopro un altro posto storico, simile a quella pista di ghiaccio naturale dove Eisenstaedt immortala il capocameriere René Breguet che vola sui pattini portando un vassoio con su bicchieri di cristallo e una bottiglia di porto. E così parto presto per «sanmorìz» come si dice alla ticinese. Dove come prima cosa, sulla panchina della piazza con la fontana-statua di San Maurizio, divoro una bütschella (una specie di veneziana con l’uva sultantina) bella bruna presa da Hanselmann qui in faccia, in compagnia di un espresso doppio. E via, alla meta, l’Eispavillon del Kulm (1856
m) risalente al 1905, affiancato dalla nuova pensilina-tribuna firmata Foster e inaugurata in occasione dei campionati mondiali di sci 2017, al quale mi avvicino pattinando su un ghiaccio da sogno. Un mix di heimat e jugendstil, rinnovato fedelmente, per i mondiali, dopo anni di oblìo iniziati alla fine degli anni ottanta. Molto legno, un po’ di pietra, neve in abbondanza, sopra il tetto e tutto attorno. Accanto, dopo un giro di pista, assaporo il larice chiaro curvato del padiglione di Foster + Partners. Studio londinese capitanato da Norman Foster, architetto inglese classe 1935 del quale non sono un gran fan, conosciuto per il grattacielocetriolo high-tech nella City di Londra. Chesa futura, per esempio, una specie di casa-navicella spaziale a forma di fagiolo non lontana da qui, ricoperta di scandole, non mi fa impazzire. Il padiglione-tribuna invece è una costruzione onesta. Non disturba in nessun modo, anzi. Lascia persino lo spazio, al neoromanico della chiesa consacrata al santo martire-toponimo, di affacciarsi sull’incantevole pista di ghiac-
cio naturale del Kulm. Aperta tutti i giorni dalle dieci alle cinque, vanta un icemaster che ne cura la superficie, condivisa adesso, verso l’ora di pranzo, con tre bambini. Sfreccio di nuovo, con più velocità, per un’altra carrellata del padiglione del ghiaccio, noto oggi anche come Kulm country club che ospita un bar e un ristorante. Una raccolta di memorabilia legate alle due olimpiadi invernali, decora gli ambienti. A non molte centinaia di metri da qui, del resto, c’è la mitica pista olimpica di bob visitata tempo fa e il percorso di slittino della leggendaria Cresta Run. Occhiate di sole trasformano il posto in un piccolo paradiso per pattinatori. Il ghiaccio riluce e il paesaggio attorno scintillante lo assorbe del tutto, grazie anche all’aria sopraffina. Fa capolino il campanile pendente e lì accanto, affacciato sul lago, svetta il Kulm Hotel. Mi fa venire in mente una torta a strati, uno dei quali è di un bel color zabaione. Lì dentro davanti al caminetto, si sa, nel 1864, per scommessa, Johannes Badrutt inventa le vacanze invernali sportive. Levo il mongomeri e sciarpa,
La società connessa di Natascha Fioretti L’informatica è anche per le donne Aurélie Jean è una forza, bisognerebbe invitarla a tenere una conferenza all’USI, sarei la prima ad andarci. Sviluppatrice fuori dagli schemi, donna aperta, socievole, molto femminile, non l’hanno mai intrigata i film di fantascienza o di robot, ad appassionarla sono sempre state le conseguenze sociali delle invenzioni tecnologiche e le riflessioni sulla perdita di libertà, sulla selezione degli individui in base a criteri discriminatori o sulla fine annunciata del pianeta a causa di disastri ecologici. In ogni caso, ci dice, il cliché dello sviluppatore informatico asociale, rinchiuso nella sua bolla, indifferente all’abbigliamento e agli aperitivi con gli amici non corrisponde alla maggior parte degli informatici. Nel corso della sua carriera, ha conosciuto sviluppatori raffinati e colti. Ad avvicinarla al mondo dell’informatica sono state la frustrazione e la curiosità per un
mondo che appariva incomprensibile e al tempo stesso importante. (Giovani lettrici, se ci siete drizzate le antenne!). Entrambe, sono state buone consigliere e al secondo anno di Scienze della materia alla Sorbona, Aurélie Jean si iscrive a informatica. L’incontro fatale con l’algoritmica che lei definisce una scienza camaleontica è avvenuto il primo giorno. Camaleontica perché vive all’interno della maggior parte delle altre discipline e delle loro applicazioni. Per alcuni è matematica, per altri è informatica. Intanto oggi tutti associamo gli algoritmi ai social network, al sistema di geolocalizzazione o all’assegnazione dei posti all’università. «Per il grande pubblico – ci dice l’autrice – l’algoritmo è inseparabile dal mondo digitale. Eppure la storia della disciplina risale a molto prima delle applicazioni per smartphone, o anche dei primi microprocessori. Affonda le radici nelle
lezioni di logica di Euclide». Non ci addentriamo nella storia dell’algoritmo, per questa vi rimando al libro, vi dico solo che la parola deriva dal matematico, astronomo e geografo persiano al-Khuwārizmī. Della sua definizione abbiamo detto la volta scorsa, oggi definiamo cos’è un algoritmo digitale: «Si definisce digitale un algoritmo che tramite un codice informatico farà eseguire una simulazione o un calcolo su uno o più microprocessori di un computer». Si tratta dunque di algoritmi sviluppati per essere utilizzati da un computer. Pensiamo agli algoritmi di apprendimento profondo, o deep learning, quelli che – dopo un addestramento su milioni di casi – permettono a un programma di identificare in una foto un cane oppure un’auto. Queste reti a causa della loro complessità non possono essere create a mano. Inoltre gli algoritmi digitali sono intrinseca-
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Ambiente e Benessere Renault in rivoluzione La casa francese cambierà faccia puntando più sul valore che sui volumi, e pure sull’elettrico
Avventura sull’idrovia In canoa sul fiume Ticino dalla fine del lago Maggiore sino a raggiungere la città di Pavia
Vendée Globe non molla La più grande gara di vela attorno al mondo ai tempi del Covid: vince la regata pagina 16
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Schermando da seduti A Lugano si trova il club con il più alto numero di schermidori paralimpici
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Spunti che aiutano a riflettere
Covid-19 L’importanza delle cure palliative
e del loro supporto
Maria Grazia Buletti Un bambino è svegliato dal suo cane che gli lecca delicatamente il naso e chiede che cosa sta facendo Blu (così si chiama il cane). Risponde l’animale: «Non volevamo partire senza salutarti». Il bambino si rende conto che il cane è in compagnia di una signora seduta sul bordo del suo letto: «Non temere, non volevamo spaventarti… io sono la morte». «Per essere la morte non mi fai tanta paura», le dice il bambino al quale lei risponde: «A dire il vero, io non ho mai voluto far paura a nessuno». Dopo il nostro colloquio con la dottoressa Claudia Gamondi (primario di Cure palliative allo IOSI e dal marzo scorso attiva all’Ospedale Covid La Carità di Locarno) e con lo psichiatra Michele Mattia (presidente Asi-Adoc) che lei ha voluto presenziasse, pensiamo all’incipit di questo racconto, ancora incompiuto, che l’autrice scriverà per spiegare la morte ai bambini dal punto di vista filosofico. Complici i dati di contagi, ricoveri, guariti e persone decedute, la pandemia che da un anno ci attanaglia ha portato alla luce una società permeata dal tabù del morire, mettendoci dinanzi a tutte le sue sfumature. A questo punto, tutti conosciamo persone che si sono ammalate e guarite, sappiamo di altri che sono deceduti o amici che hanno perso un loro caro. Torna alla ribalta la nostra concezione della morte, con la dicotomia che oggi la accompagna e che il dottor Mattia spiega così: «Nel pre-pandemia la morte pareva non appartenerci perché era delegata ai curanti: non si partecipava in prima persona all’accompagnamento al lutto. Oggi, la pandemia ci ha messi di fronte all’epilogo della vita di cui abbiamo compreso volerci riappropriare. Prima, la “delega” ci conveniva, mentre ora che vorremmo riappropriarci della morte a casa, la pandemia non ce lo permette: vogliamo sempre ciò che ci viene tolto “quando sono gli altri a togliercelo”, come in questo caso la pandemia». Questa è pure la situazione con cui da mesi si confrontano i curanti negli ospedali Covid. Ne parliamo con la dottoressa Claudia Gamondi che coordina il suo team di Cure palliative prendendosi cura di pazienti che necessitano questo genere di percorso: «È importante ricordare che essere segui-
ti dal team di Cure palliative non vuol dire morire: ad esempio, il 30 per cento dei pazienti con malattia da Covid-19 seguiti da noi durante la prima ondata sono poi guariti». Il concetto di cure palliative è evoluto e va spogliato del pregiudizio di solo accompagnamento alla morte e uso di sostanze come la morfina per condurre alla fine. Non è così: «Durante la fase di ricovero, per ogni paziente viene indicata l’appropriatezza delle cure necessarie in base alla complessità della situazione clinica e ascoltando le volontà (preferenze) del paziente stesso. Perciò, aiutiamo i pazienti nella gestione dei sintomi, delle relazioni con i famigliari, aiutandoli ad esempio a mantenersi sempre in contatto e in relazione tra loro. Li sosteniamo a livello umano e spirituale durante la degenza. Ci siamo per paziente e famigliari anche quando la morte è inevitabile, essendo un momento altrettanto delicato e importante». La dottoressa spiega che il paziente con malattia da Covid-19 è valutato in tutti i suoi bisogni e, quando necessario, vengono coinvolte le Cure palliative che operano in collaborazione con la medicina interna. Nessuna privazione di cure, ma un’integrazione di diverse specialità della medicina che garantiscono quelle appropriate in ogni momento della malattia, con pazienti supportati laddove la necessità lo impone. Questo è l’impegno di chi opera nel reparto Cure palliative, pure confrontato con l’altra faccia della medaglia, quando il paziente purtroppo decede: «Già durante la prima ondata abbiamo compreso l’importanza della vicinanza con i propri cari, a maggior ragione nei momenti critici. Perciò, con protezioni adeguate, accompagnamento, sostegno e le dovute attenzioni, ai parenti che ne manifestavano il desiderio abbiamo permesso di vedere il proprio caro, coscienti del fatto che separazione e isolamento in momenti cruciali della vita (prima di venire intubati o di fronte al rischio concreto di morte) non fossero accettabili dal lato umano». La dottoressa parla in modo accorato: «Dobbiamo far sì che il distanziamento sociale non si traduca in un distanziamento relazionale, soprattutto in momenti emblematici della vita dei pazienti e dei loro famigliari: è la morte a separare, non devono farlo le persone. Lo abbiamo imparato gestendo i rischi nei limiti della ragionevolezza, evitan-
La dottoressa Claudia Gamondi primario di Cure palliative allo IOSI e dal marzo scorso attiva all’Ospedale Covid La Carità di Locarno, qui durante una visita in reparto. (Stefano Spinelli)
do ogni estremizzazione e sostenendo i famigliari che erano pronti a non mancare a quell’importante appuntamento della vita che potrebbe essere un ultimo saluto». A mesi dalla prima ondata speriamo di essere all’epilogo della seconda, ma qualcosa su cui riflettere rimane: «C’è più ponderazione, sì, ma assistiamo a un’influenza nefasta che alimenta i terrori: oggi alcuni sembrano avere più paura di contagiarsi rispetto a prima e purtroppo ci sono famigliari che, in difficoltà su come gestire il rischio, non se la sentono di condividere con il proprio caro questi momenti». Sottolineando la sicurezza delle misure di protezione poste in essere, e che fino a oggi nessun parente si è ammalato venendo a trovare il proprio caro, Gamondi teme che in questi casi il percorso del
lutto possa essere più complesso per aver lasciato qualcosa in sospeso. D’aiuto, le riflessioni dello psichiatra: «Ogni atto merita di essere portato a termine. Pensiamo a una relazione che si spezza con una persona (filiale, coniugale, amica): l’atto terminale fa sì che questa sorta di lutto possa essere elaborato e non resti sospeso dentro di noi. Se cade una telefonata viene naturale richiamare per non lasciare qualcosa in sospeso, no? Tutte le relazioni necessitano del saluto finale. Il non farlo sarebbe un atto mancato perdurante e ci porterebbe nella dimensione di qualcosa rimasto pendente: un atto che non è più ripetibile perché poi l’altro non c’è più». Entrambi riflettono sulla dimensione di «psicosi da Covid»: «Rischiamo di entrare in una dimensione di
ego-sintonia: salvo la mia persona a discapito di quella relazione affettiva che ci è stata tolta dalla malattia e alla quale noi stessi rinunciamo per l’estremo timore del contagio». Questa pandemia ci toglie molto, ma altrettanto ci può insegnare. «Anche non sentirsi in colpa se non si riesce ad andare a salutare il proprio caro», spiega Gamondi, alla quale chiediamo come si sente oggi, dopo mesi di Cure palliative nei reparti Covid: «Abbiamo guarito tante persone, abbiamo assistito a tante morti. Lutti numerosi e ravvicinati mi lasciano un senso di umana tristezza a cui si accompagnano un po’ di stanchezza emotiva e fisica. D’altra parte, ho la sensazione di aver contribuito, assieme al mio team, a portare sollievo nell’inesorabile di ciò che accadeva e ancora accade».
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Ambiente e Benessere
Resurrezione, rinnovamento, rivoluzione
Motori Renault ha elaborato un piano strategico chiamato Renaulution per dare una svolta redditizia
al proprio marchio Mario Alberto Cucchi
Renaulution. Ecco la parola scelta dal brillante Luca de Meo, presidente e amministratore delegato di Renault dal luglio 2020, per spiegare durante un recente incontro il futuro della Casa automobilistica francese. Resurrection, Renovation, Revolution. Sono queste le tre fasi del piano strategico «Renaulution». «Risurrezione», che continuerà sino al 2023, si concentrerà sulla ripresa del margine e sulla generazione di liquidità. «Rinnovamento», che proseguirà sino al 2025 vedrà il rinnovamento e l’arricchimento delle gamme contribuendo alla redditività delle marche. «Rivoluzione» che avrà inizio nel 2025 farà evolvere il modello economico del Gruppo verso la tecnologia, l’energia e la mobilità. Ecco allora che Renault cambierà completamente faccia puntando più sul valore che sui volumi. Tagliando i costi e incrementando la redditività. Un futuro elettrizzante? Forse, sicuramente elettrico. Entro il 2025 saranno infatti presentate 14 nuove automobili, di cui sette completamente elettriche. Apparterranno a tutti i marchi che sono riuniti sotto il logo della losanga. Per fare qualche esempio: la prerogativa del miglior rapporto qualità prezzo resta a Dacia che entro fine
anno dovrebbe far debuttare Spring, il suo primo modello a emissioni zero. La massima espressione della sportività resta ad Alpine, la divisione ad alte prestazioni che nel 2021 scende in pista con la Formula 1. Stretto un accordo con gli ingegneri inglesi di Lotus per sviluppare l’erede della bella 110S a cui si affiancheranno presto tre nuovi modelli tutti alimentati a batterie.
Entro il 2025 saranno presentate quattordici nuove automobili, di cui sette completamente elettriche «Passeremo dall’essere un’azienda automotive che fa uso della tecnologia a un’azienda tecnologica che fa uso delle auto, per cui almeno il 20 per cento dei redditi proverranno dai servizi relativi ai dati e dal trading dell’energia entro il 2030». Spiega il CEO Luca De Meo. «Vi arriveremo progressivamente, avvalendoci delle risorse offerte da questa grande azienda, delle competenze e dell’impegno dei suoi collaboratori. Renaulution è un piano strategico “fatto in casa” che svilupperemo e realizzeremo allo stesso modo: collettivamente». Luca de Meo è un manager prepa-
I principali prototipi di Renault del 2021: Dacia Bigster Concept; Renault 5; Mobilize EZ-1; e l’Alpine A521.
rato ma è anche un vero appassionato di auto. Quando lavorava in Fiat con Sergio Marchionne, di cui era il pupillo prediletto, all’auto blu con autista preferiva una 500 Abarth guidata da lui. E la passione non si perde per strada. Ecco allora che mentre illustrava al mondo le sue nuove strategie ha trovato il tempo per stupire gli appassionati di auto svelando un affascinante prototipo. Immediatamente riconoscibile nel
colore giallo pop si chiama: Renault 5 Prototype. «Il suo design si ispira a un modello cult del nostro patrimonio. Incarna semplicemente la modernità, un veicolo radicato nel suo tempo: urbano, elettrico, affascinante». Spiega Gilles Vidal, Direttore del Design Renault. Molti gli elementi stilistici ispirati alla R5 che oggi celano funzioni moderne: la presa d’aria del cofano nasconde lo sportellino di ricarica, nei
fari posteriori sono integrati i deflettori aerodinamici mentre i fendinebbia presenti nei paraurti sono diventati luci diurne. La griglia laterale, le ruote e il logo posteriore riprendono il «5» originale. La parte anteriore e il tetto in tessuto rimandano al mondo dell’arredamento. Bellissima! Il destino vuole che sia un italiano a comandare la «rivoluzione francese» della mobilità nel gruppo Renault. Almeno per ora.
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Ambiente e Benessere
Il ritorno di Huckleberry Finn
Reportage Un viaggio avventuroso in Lombardia lungo il fiume Ticino tra isole selvagge e personaggi curiosi
Valentina Scaglia Quattro giorni liberi a inizio estate e una vecchia canoa. È quello che ci serve per discendere il Ticino tra il Lago Maggiore e il Po: cento chilometri da esploratori, notti su isole disabitate, incontri con cercatori d’oro, case galleggianti, pescatori, caprioli e barcé… Insomma, l’avventura alle porte di casa. Il Ticino lombardo, credetemi, non è quel placido rio che si scorge per un istante dai ponti dell’autostrada. È un mondo a parte, con leggi e regole tutte sue, una repubblica lineare che attraversa la geometria della pianura in una felice anarchia di curve, sabbie mobili, isole ballerine che appaiono e scompaiono. La cartografia non riesce a star dietro alle iniziative del fiume. Ancora oggi non esiste una buona mappa del Ticino, o un manuale di navigazione; il segreto dei rami migliori e senza ostacoli è affidato alla tradizione orale. Mio marito e io siamo i nuovi, orgogliosi proprietari di una vetusta canoa gialla in vetroresina. Era in una vetrina, in una presentazione alla Jack London con manichini in abiti da trapper. Finita la stagione, al negozio non serve più: prezzo da saldo. Servirà a noi per tradurre in realtà un sogno di libero nomadismo. Il Ticino sarà il nostro Mississippi, lo sfondo di mille storie che Mark Twain ha raccontato così bene in Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Per mia figlia Anna Clelia, ragazzina proprio come Huckleberry, sarà il primo viaggio fluviale. Pregustiamo notti sotto le stelle, cuocendo patate sul fuoco. Abbiamo anche un mezzo di appoggio, un kayak gonfiabile che pesa solo sette chili; lo useremo a turno. Partendo dal Lago Maggiore ci aspettano oltre cento chilometri di pagaia fino al Po. La prima giornata mette alla prova la nostra piccola spedizione, bisogna superare le Colonne d’Ercole delle tre dighe della Miorina, di Porto della Torre e del Panperduto, che separano le acque lacustri dal fiume vero e proprio. Sono fatiche bibliche per portare lo scafo (cinque metri, una quarantina di chili), i viveri e le sacche per centinaia di metri attorno alle grandi infrastrutture. Prima della costruzione degli sbarramenti, barche cariche di merci scendevano lungo le rapide dei primi chilometri del Ticino; adesso tutto è cambiato. Ad ogni modo, in attesa che vengano completate le opere dell’idrovia Locarno-Venezia, la canoa consente con molta buona volontà di oltrepassare questi paesaggi artificiali. Alla diga del Panperduto si incrociano vari canali, destinati a mulini, centrali, irrigazione… siamo in un complesso nodo idraulico. Una piccola imbarcazione come la nostra può riuscire a passare per la conca per la navigazione. E quando la porta a valle si apre, ci schiude il corso inferiore del fiume. È l’ingresso a un mondo perduto. Da qui in avanti, tra
Foresta allagata nella zona di Besate; su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Valentina Scaglia)
rapide, curve e ripe boscose, il Ticino ci porterà lontano dagli abitati. Rivedremo il primo condominio solo a Pavia. A valle di La Maddalena − ultima spiaggia raggiungibile dai bagnanti − entriamo nel regno dei cercatori d’oro. Le loro solitarie figure si stagliano da lontano nel mare di ghiaie. Sono appassionati che trascorrono lunghe ore a smuovere impressionanti quantità di sabbia. Sono loquaci, disponibili a una pausa, e accolgono il rematore mostrando le pagliuzze lucenti sul fondo della batea, il setaccio dei cercatori d’oro. Mio marito Pierluigi vorrebbe fermarsi e provare questa vita fuori dagli schemi; invece bisogna andare. Il livello delle acque è basso per l’eccessivo prelievo dei canali d’irrigazione ma non ci preoccupiamo di finire in secca. Man mano che si procede nuova linfa alimenta il corso, preziose acque di falda che ristabiliscono la portata perduta. Alle grandi anse di Castelnovate già bisogna fare attenzione a correnti e controcorrenti. L’acqua fila veloce e richiede manovre continue, basta un errore minimo per rovesciarsi e nuotare fino a riva; ma non è un dramma, anzi normale amministrazione per un frequentatore dei fiumi. Cosa direbbe Huckleberry? Lui si muoveva su una zattera di legno, ma ci sentiamo in sintonia con la sua ricerca di libertà. Le rapide si acquietano dalle parti di Oleggio, dove appare il grande ponte di ferro, uno degli ultimi di questo
Un campo per la notte senza tende fisse. (Valentina Scaglia)
L’incontro con un cercatore d’oro nella zona di Castelnovate. (Valentina Scaglia)
tipo. Siamo a un grande bivio idraulico e s’impone una sosta: qui i barconi con le merci viravano verso Milano, imboccando l’ingresso del Naviglio Grande. Da molti anni questo tratto dell’antico
canale ha perso la sua funzione, ma resta una piacevole passeggiata tra canti di uccelli ed erbe acquatiche. A valle, il Ticino inizia a inanellare la serie delle isole: le più vaste hanno un nome e
Amaca un’isola prima di Bereguardo. (Valentina Scaglia)
una di esse, Turbigaccio, sarà la nostra casa per la notte. È lunga sei chilometri, proprio come Jackson Island, uno dei luoghi più importanti nel romanzo fluviale di Mark Twain. Ci accampiamo tranquilli, di notte qui non arriva nessuno. Anna Clelia e io sistemiamo le amache tra i pioppi, di fronte al tramonto. Ci sentiamo dei privilegiati. Il viaggio prosegue. A Bosco Vedro sfiliamo lungo la riva destra, quella piemontese, e incontriamo gli Amici del Ticino, intenti a sistemare un sentiero che si addentra per chilometri nei boschi selvaggi attraverso una delle poche riserve integrali della Pianura padana. Il fiume continua a sorprenderci. Da qui in avanti, la fantasia delle casotte non conosce limiti; ne vedremo di ogni tipo. Ci sono case galleggianti ricavate da chiatte dei ponti di barche demoliti, oppure romantiche costruzioni in legno con giardini curati, accanto a strutture effimere fatte di legna di piena e tela. Batte tutti la casa-tram: la cucina è ricavata dalla postazione di guida e il salotto dai posti dei passeggeri. Quando il livello sale le baracche vengono invase dall’acqua che si porta via tavoli, sedie, brande, frigoriferi, bottiglie di vino… Il secondo campo è in una di queste strutture spontanee (pochi mesi dopo, in novembre, puntualmente verrà spazzata via). Tra Vigevano e Pavia s’incrociano i barcé, barche lunghe e sottili, con le canne da pesca e l’immancabile cagnolino a prua. Avvicinandosi all’antica capitale longobarda si moltiplicano le tane dei fiumaroli, dove si gioca a carte e si coltivano piccoli orti. Nei fitti boschi che fiancheggiano il fiume vagano cinghiali e caprioli, sono confidenti e facili da avvistare dalla canoa anche perché sono zone di difficile accesso in altro modo. Lanche, fitte boscaglie e vecchi alvei formano un dedalo dove ci si perde. La ragazza si dedica con passione all’avvistamento dei selvatici; anche Huckleberry lo faceva, ma da pescatore e cacciatore. In questa zona, ricca di sabbie, poniamo il terzo campo. Stappiamo una bottiglia, pensando alla meta finale della nostra traversata, oltre Pavia, una tana di musicisti erranti, una mitica casa galleggiante al Ponte della Becca, dove si riuniscono nottetempo seguaci del blues. Come sul Mississippi, appunto.
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Ambiente e Benessere
Gli Etruschi, abili commercianti
Scelto per voi
Vino nella storia La via della cultura enologica parte dalla Toscana per arrivare
ai confini del Ticino e oltre
Davide Comoli Il popolo degli Etruschi sviluppò la sua civiltà fra il IX secolo a.C. e il secolo I d.C. Durante questi secoli ha avuto, a proposito di vino, un ruolo particolare. I frequenti contatti con i commerciati Fenici e Micenei, furono molto importanti per lo sviluppo delle loro conoscenze nel campo dell’enologia. L’attuale Toscana era il centro della società etrusca, una civiltà di persone intraprendenti tanto da fortemente espandere la propria influenza, fondando molte città sia al sud, sia nella pianura padana, sino a raggiungere le Alpi. Testimonianze storiche e archeologiche attestano che furono gli Etruschi a far conoscere il vino e la viticoltura alle popolazioni dei Celti e a quelle del nord Italia. Peraltro, come dimostrano gli studi di Emilio Sereni, la vite selvatica era attestata un po’ ovunque, nella Cisalpina, come dimostrano parecchi ritrovamenti dal Neolitico all’età del Bronzo, ma che di certo non poteva elevarsi nella produzione di una bevanda fermentata, come molto probabilmente lo erano le bacche di corniolo, le more di rovo e il sambuco. È in ogni caso possibile, grazie ai vari ritrovamenti, pensare che nel-
Anfora giunta fino a noi tramite gli Etruschi su cui campeggia Dionisio tra due menadi danzanti tra i rami contorti di una vigna. Realizzata circa nel 510 a.C. in ceramica (argilla) ed esposta al Museo di Monaco. (ArchaiOptix)
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le zone dell’alto Adriatico, grazie ai commerci con i Greci in tarda età del Bronzo, sia stato incoraggiato l’utilizzo, per quanto marginale, di una selezione di uve selvatiche locali a scopo alimentare. Con l’inizio dell’età del Ferro, soprattutto dopo l’VIII secolo a.C., ci fu come dicono i climatologi, il passaggio dal periodo climatico subboreale a quello subatlantico. Il conseguente miglioramento della temperatura ha favorito la diffusione della viticoltura, l’ingentilimento dei vitigni, la scoperta di nuove metodologie della coltura della vite, evoluzione il cui merito è assegnato da tutti gli studiosi concordi agli Etruschi. La forma di coltivazione della vite, caratteristica dell’area sotto l’influenza etrusca, era quella delle viti maritate agli alberi, ovvero all’arbustum gallicum, come scrivono Plinio (nella sua opera Naturalis Historia) e Varrone (nella sua De Re Rustica), in modo che il sostegno vivo non mortificava il vigore vegetativo della pianta. L’importanza dell’arbustum gallicum e il suo ruolo nella costruzione del sistema viticolo Cisalpino sopravvivono nella toponomastica in denominazioni moderne, vedi: Narbosto nell’Oltrepò presso Casteggio e in Arbostora, il monte che dall’Alpe Vicania scende verso Morcote. Nell’Italia Cisalpina, Plinio (N.H. XVII 212,23) segnalava la diffusione di un albero chiamato Opulus o Rumpotinus sul quale la vite si appoggiava. L’etimologia di Rumpotinus porta a «rumpus», tralcio, e «teneo», verbo che significa sostegno. L’albero più usato come «marito» sostegno della vite, soprattutto nella Padana centrale era il Populus nigra (pioppo nero). Questo ci ricorda che il nome della divinità etrusca corrispondente al greco Dioniso, era Fufluns/Fufluna da cui Pupluna (Populonia), era connessa in modo stretto al nome latino del pioppo (populus). Il richiamo a Populonia non è quindi accidentale se consideriamo il grande rapporto del popolo etrusco con l’area padana e l’area golasecchiana, situata all’uscita del fiume Ticino dal lago Maggiore, come attestano le grandi anfore vinarie etrusche ritrovate a Castelletto Ticino, dove viene confermato l’uso delle vie fluviali per il trasporto del vino. La presenza etrusca nell’area del Ticino è quindi fortemente comprovata sul nostro territorio. O come scrive il professor Filippo Maria Gambari nelle sue imperdibili riflessioni racchiuse nel testo intitolato Le origini della viticoltura in Piemonte: la Protostoria (in Vigne e vini nel Piemonte Antico, a cura di Rinaldo Comba, di cui consigliamo la lettura a tutti gli appassionati) – dalle cui fonti storiche abbiamo attinto – la diffusione della viticoltura intorno al lago Maggiore, avvenne all’incirca mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, re etrusco. Di certo è che il commercio del vino era una delle principali fonti di reddito delle città etrusche. Il commercio, per via marittima o fluviale, si estendeva nella Gallia Meridionale, lungo il Rodano, nella Renania, in Austria. Il vino era parte integrante della vita sociale degli Etruschi, ne sono testimoni i loro usi conviviali e le loro espressioni artistiche. Dai loro commerci nel sud della Francia, luogo dove l’irradiazione greca era molto forte, gli Etruschi portarono anche un nuovo sistema d’allevamento della vite, quello della vinea cioè con il sostegno morto, che portò a un graduale arretramento dell’ar-
Marc Hebrart Rosé
I terreni dello Champagne sono una specie di cocktail geologico che si è creato in seguito a una serie di movimenti tellurici risalenti a circa 70mila anni or sono. Risalendo la Marna da Épernay, dopo circa una decina di chilometri vi troverete a Mareuil-sur-Aÿ, dove ha sede la maison Marc Hebrart nel cuore di quel territorio vocato per la produzione dei grandi cru. Terreni che danno vini di grande impatto e struttura, vini longevi, che con l’affinamento esprimono una vasta gamma di profumi maturi ed evoluti. Il Marc Hebrart da noi provato è uno champagne molto elegante, dai delicati profumi di frutta rossa e sentori floreali. Ci ha quindi piacevolmente stupito per la sua complessità e il suo equilibrio dato dal 55% di Chardonnay (eleganza), 38,5% Pinot Nero (forza) e mai provato prima, dal 6,5% di Mareuil Rouge, un rosso prodotto con Cabernet Franc, Négrette, Pinot Nero e Gamay, che dona freschezza e vivacità a questo prodotto: ve lo consigliamo come accompagnamento a tutto pasto per festeggiare San Valentino. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 43.–. bustum stesso, favorendo una coltura specializzata. Ma per molti secoli il sistema arbustum per la coltivazione della Vitis labrusca o meglio la vitis agrestis continuò, allevata come scrive Virgilio «in labris et extremitatibus terrae» cioè ai margini dei campi, maritata a pioppi e olmi, che ancora oggi danno un’impronta speciale al paesaggio agricolo di parte della vicina Penisola. Agli Etruschi inoltre viene attribuita l’introduzione di alcuni vitigni a bacca nera, oggi presenti sui nostri territori. La raetica, che potrebbe essere uno di quei vitigni esclusivi che vanno dal centro-orientale delle Alpi al Vallese, e quello che Plinio, in seguito, chiamerà «gallica» o «spioria», di cui lo spazio tiranno ci impedisce di raccontarvi la storia, ma che «quasi» sicuramente s’identifica con il Nebbiolo. Fu sempre il vino, forse l’antenato del Sangiovese, contenuto nelle anfore a far muovere dalle nebbie padane i Galli che avrebbero «più tardi» causato la terribile «Clades Gallica» e cioè il crollo dell’Urbe. Su questo argomento però si apre un giallo storico: secondo Plinio (23-79 d.C.), fu un Elicone fabbro degli Elvezi emigrato a Roma, che tornando in patria avrebbe fatto conoscere al suo popolo il vino e le ricchezze mediterranee; secondo Livio (59 a.C.-17 d.C.), invece, fu un certo Arrunte cittadino di Chiusi (l’antica Chamars etrusca) che per vendicare l’oltraggio subito dalla moglie di Lucumone agendo contro la sua città, attrasse con il vino le popolazioni Cisalpine. Comunque, al di là della marcata tendenza anti-etrusca che qualcuno può avere, noi da bravi insubri, siamo grati a questo popolo per il bel dono che ci ha fatto conoscere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Ambiente e Benessere
Un tris d’entrata Continua la saga della cottura a vapore. La volta scorsa ho parlato di tre antipasti e due primi, oggi di tre primi. Spaghetti cinesi con polpette di manzo. Ammollate 280 g di spaghetti cinesi in una ciotola colma di acqua fredda per 10 minuti. Nel frattempo, mondate e tritate 1 spicchio di aglio, 1 mazzetto di prezzemolo e 1 mazzetto di mentuccia. Tostate 40 g di anacardi e altrettanti pinoli in una padellina. Frullate 300 g di carne di manzo tritata con 80 g di ceci cotti, la mentuccia, l’aglio e gli scalogni. Unite 1 uovo e frullate ancora fino a ottenere un composto omogeneo. Regolate di sale. Con le mani umide formate delle polpettine della grandezza di una noce e cuocetele a vapore per 8 minuti su un letto di foglie di verza ben lavate. In un cestello a parte, cuocete gli spaghetti per 5 minuti. Distribuite gli spaghetti in 4 ciotole. Unite le polpette, gli anacardi, i pinoli e una mestolata di brodo bollente. Condite con un filo di olio e mescolate. Cospargete col prezzemolo prima di servire.
Dagli spaghetti cinesi con le polpette di manzo, alla zuppa di vongole veraci, passando per i ravioli ai gamberi, ce n’è per ogni gusto ma anche per ogni preparazione Ravioli ai gamberi, per 12 ravioli. Per la pasta: disponete 500 g di farina di riso a fontana in una ciotola e aggiungete 2 g di sale. Incorporate 2 cucchiai di olio di soia o di mais e circa 2,7 dl di acqua calda poco alla volta. Lavorate l’impasto con le mani finché non sarà elastico e omogeneo. Avvolgetelo in un panno e lasciatelo riposare un’ora in un luogo fresco e asciutto. Per il ripieno: private 250 g
di code di gamberi del budellino nero aiutandovi con uno stuzzicadenti e tritatele finemente. Grattugiatevi sopra 1 pezzetto di radice di zenzero fresco, profumate con 20 g di vino (se di riso è meglio, altrimenti bianco secco), un pizzico di zucchero e uno di sale. Aggiungete 1 mazzetto di erba cipollina tritata e amalgamate il tutto. Lasciate riposare per 10 minuti. Stendete la pasta su una spianatoia infarinata e ricavate dei dischi di circa 7 cm, aiutandovi con un bicchiere (o un coppapasta). Con un piccolo mattarello spianate ulteriormente i dischi di pasta per renderli ancora più sottili e fini. Disponete un cucchiaio di ripieno al centro di ogni raviolo e chiudetelo a mo’ di sacchettino, premendo sui bordi per fare aderire la pasta. Mettete i ravioli in un cesto di bambù foderato con una foglia di verza (o con il classico disco di carta da forno) e cuocete a vapore per circa 7 minuti. Zuppa di vongole veraci. Sciacquate 1 kg di vongole veraci sotto acqua fredda e mettetele poi a spurgare per 45 minuti in una ciotola colma di acqua fredda con un pugno di sale. Nel frattempo, mondate e tritate separatamente 1 mazzetto di prezzemolo e 1 ciuffo di timo. Sbucciate una patata, tagliatela a cubetti e cuoceteli a vapore per 15 minuti assieme a 1 cipolla e a 1 gambo di sedano mondati e tagliati a rondelle. Trascorso il tempo necessario, sgocciolate le vongole e mettetele nel cestello della vaporiera coperto con un disco di carta da forno assieme alla patata a cubetti, al sedano, alla cipolla, alla pancetta e al timo. Sbriciolate sopra un pezzetto di peperoncino. Cuocete a vapore per 5 minuti, giusto il tempo di far aprire le vongole. Trasferite in una zuppiera, aggiungete una mestolata di brodo di pesce bollente e insaporite con uno schizzo di Tabasco e uno di salsa Worcester. Cospargete col prezzemolo, condite con un filo di buon olio di oliva e regolate eventualmente di sale prima di servire.
CSF (come si fa)
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Allan Bay
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Gastronomia Tre primi gustosi dai sapori esotici preparati con la cottura a vapore
Ma anche i dolci si possono cuocere a vapore! Vediamo due esempi di come si fa. Crema alla vaniglia e amarene sciroppate. Con un coltellino affilato tagliate 1 baccello di vaniglia a metà ed estraetene i semini interni con la punta. Metteteli in un pentolino con 3 dl di latte e portate al bollore. Spegnete e fate raffreddare. Nel frattempo, me-
scolate 4 uova e 1 tuorlo con 100 g di zucchero semolato aiutandovi con una frusta. Sempre mescolando, incorporate il latte intiepidito. Distribuite 40 g di amarene sciroppate sul fondo di 4 cocottine e versate sopra il composto di latte e uova – se in stagione trovate delle ciliegie, denocciolatele, mettetele nelle cocottine e distribuite sopra 40 g di zucchero di canna. Cuocete a vapore gli stampini per 15 minuti, fate raffreddare e servite. Torta di ananas. Sgocciolate 400 g di ananas sciroppato dallo sciroppo di conserva. Estraete 60 g di burro dal frigorifero e tagliatelo a cubetti. Mescolate 3 uova con 100 g di zucchero in una ciotola. Unite 50 g di burro e quando sarà ben amalgamato, versate 125 g di farina setacciata con 1 bustina di lievito per dolci e 50 g di maizena.
Per ammorbidire il composto aggiungete 2 cucchiai di sciroppo di ananas. Rimestate ancora rapidamente. Impastate lo zucchero rimasto con 10 g di burro e disponetelo sul fondo cestello della vaporiera ricoperto con carta da forno oppure in una o più tortiere imburrate. Aggiungete 2 o 3 fette di ananas intere ma tagliate sottili o tagliate a pezzetti e versate il composto di farina e uova. Cuocete la torta al vapore per 35 minuti. A cottura ultimata rovesciate la torta su una teglia, sformatela e passatela sotto il grill per pochi minuti. Servite tiepida, decorando a piacere con ananas o panna montata. Se preferite, invece di passarla sotto il grill, spalmate la torta con un velo di confettura di albicocche (esiste per questo il verbo: apricottare… ma non si usa mai…).
Ballando coi gusti Oggi, due saporiti e robusti spezzatini. Molto classici, molto invernali, molto facili da fare.
Spezzatino di manzo con funghi e cipolline
Spezzatino di tacchino alle castagne con panna
Ingredienti per 4 persone: 700 g di polpa di manzo tagliata a cubotti · 100 g di funghi a piacere · 100 g di cipolline mondate · 100 g di pancetta tagliata a cubetti · 1 mazzetto guarnito con anche buccia di arancia · concentrato di pomodoro · zucchero · brodo di carne · farina · burro · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 600 g di polpa di tacchino tagliato a cubotti · 150 g di castagne secche · 100 g di pancetta a cubetti · 1 spicchio di aglio pelato e schiacciato · 2 foglie di alloro · 1 rametto di rosmarino · 300 g di latte · 100 g di panna · burro · sale e pepe.
Infarinate la carne e rosolatela nel burro con la pancetta per 5 minuti. Aggiungete 2 bicchieri di brodo caldo, poco concentrato di pomodoro stemperato e il mazzetto. Cuocete coperto per 2 ore e 30 minuti, unendo poco brodo se necessario. Nel frattempo, saltate i funghi in una padella con burro finché perdano tutta l’acqua, levateli; rosolate le cipolline nella stessa padella con burro e 2 cucchiai di zucchero per 15 minuti. Scolate la carne, eliminate il mazzetto e passate il fondo al setaccio. Rimettete la carne, le cipolline e i funghi e cuocete ancora per 5 minuti, mescolando. Regolate di sale e di pepe e servite.
Sciacquate le castagne e mettetele in ammollo per una notte in acqua fredda, poi lessatele in acqua salata con l’alloro e il latte per 20 minuti dall’ebollizione, scolatele e tenete da parte, conservando l’acqua di cottura. Rosolate con burro i cubetti di tacchino con la pancetta e l’aglio, unite le castagne, il rosmarino, l’alloro e qualche cucchiaio dell’acqua di cottura delle castagne. Cuocete per 30 minuti a fuoco dolce versando altro latte di cottura delle castagne se necessario. 2 minuti prima del termine unite la panna e fate addensare. Regolate di sale e di pepe.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Ambiente e Benessere
Alla conquista dell’Everest dei mari
PRO SENECTUTE
informa
Vela d’altura Si è conclusa la nona edizione della mitica
Vendée Globe, regata oceanica su barca in solitaria
Novità Pro Senectute sostiene la strategia di vaccinazione della Confederazione e dei Cantoni, finalizzata a ridurre il numero di decessi e il numero di nuovi contagi e parallelamente a togliere la pressione sul sistema sanitario. La vaccinazione rappresenta l’unica via di uscita da questa pandemia che ha segnato il nostro paese e che ha causato il decesso di un importante numero di persone prevalentemente anziane. La Fondazione invita tutte le persone «over 65» a farsi vaccinare non appena sarà possibile, rivolgendosi ai centri di prossimità che verranno organizzati dal Cantone oppure ai comuni e presso studi medici. Ricordiamo tuttavia come sia essenziale continuare a rispettare tutte le misure accresciute di igiene e protezione. Occorre agire insieme e con responsabilità per il bene comune.
Giorgio Thoeni Un finale pazzesco, sul filo di lana. Una metafora centometrista che si addice a una gara sull’acqua ma che dà il senso della fase finale di una competizione che è rimasta in sospeso fino all’ultimo giorno della nona edizione della Vendée Globe, regata oceanica su barca a vela, in solitaria, senza scalo né assistenza, la più grande gara di vela attorno al mondo che ha luogo ogni quattro anni e che prende il nome dalla regione di partenza, il porto delle Sables d’Olonne in Vandea. La gara è nata sulla scia della Golden Globe Race indetta nel 1968 dal «Sunday Times», la prima circumnavigazione con il passaggio dei tre capi: Buona Speranza, Leewin e Horn. Quella che tutti considerano come l’Everest dei mari, fino a oggi la Vendée Globe ha permesso a 167 concorrenti di prendere il via lungo una rotta che non risparmia nulla nell’attraversamento degli oceani, dall’Atlantico al Pacifico all’Indiano passando per il grande Sud con i suoi venti fortissimi e un mare da cardiopalmo. Concorrenti chiamati a dar prova di resistenza, coraggio e bravura. Oggi, a far gola, oltre a 200mila euro di premio per il primo arrivato (senza contare le ricadute economiche), 140mila per il secondo, 100mila per il terzo fino ai 15mila per il decimo, c’è soprattutto un prestigioso alloro a testimonianza di un’avventura incredibile, una contesa che a ogni edizione apre le porte a nuove frontiere tecnologiche. Una prova dove, oltre all’agonismo e alla bravura dei marinai di altura sottoposti a prove incredibili, molto è anche affidato a strumentazioni sofisticate, a barche dalle strutture innovative, più leggere ma robuste, abbastanza da sopportare quasi tre mesi di logoranti sforzi.
Attività e prestazioni – Servizio di aiuto alla spesa È stato riattivato il servizio di aiuto alla spesa. In questa seconda ondata, esso è a disposizione unicamente di persone anziane in difficoltà che non possono contare su nessun aiuto esterno e si avvale del supporto prezioso da parte di volontari. Maggiori informazioni sul nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Pasti a domicilio Durante la crisi sanitaria i beneficiari del servizio sono aumentati notevolmente. Possono richiedere un pasto a domicilio le persone in età AVS o AI e le persone in malattia con certificato medico. Maggiori informazioni sul nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Gambe forti per camminare sicuri Pro Senectute con il team di formatori di Gambe forti per camminare sicuri raccomanda a tutte le persone di fare movimento in maniera regolare anche in questo periodo in cui le strutture sportive e i corsi sono sospesi. Muoversi almeno mezz’ora al giorno è importante per il benessere fisico e psichico in questo delicato periodo. È possibile richiedere l’opuscolo «I vostri esercizi per tutti i giorni» all’Associazione PIPA (pipa@ticino.com o Tel. 079 357 31 24)
Nemmeno la pandemia è riuscita a spaventare i 167 navigatori salpati per il loro giro del mondo in 80 giorni in barca a vela
– Volontariato Cerchiamo sempre volontari per i diversi ambiti della nostra Fondazione, in particolare cerchiamo persone disponibili per il servizio fiduciario.
Contatto: Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto
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Per i primi arrivati è stato un temerario giro del mondo in 80 giorni, parafrasando Jules Verne, fra tempeste, naufragi, pericolose avarìe, l’insidia di temutissime collisioni con affioranti container. Quella che viene considerata come l’Everest dei mari ha registrato il primo arrivo con il normando Charlie Dalin dopo 80 giorni, 6 ore, 15 minuti e 47 secondi ma la vittoria è andata a Yannick Bestaven, navigatore di Saint Nazaire che, sebbene giunto dopo Dalin è risultato primo in classifica dopo il calcolo dei tempi di compensazione accumulati per aver partecipato al salvataggio di un collega naufragato. Ingegnere di formazione, 48 anni, Bestaven è l’inventore degli idrogeneratori applicati sulle barche della Vandée Globe ed è stato quello che è rimasto in testa più a lungo di tutti, dal passaggio del Capo di Buona Speranza all’attraversamento dell’Oceano Pacifico fino al passaggio di Capo Horn. L’8 novembre scorso, sulla linea di partenza erano schierate 33 barche per altrettanti skipper fra cui 10 atleti non francesi e 6 donne. Tra tutti anche 18 bizuths, così vengono chiamati i velisti che partecipano per la prima volta alla gara. Una squadra di temerari accomunati dall’obiettivo di completare la regata e oltrepassare la Nouche Sud, boa
d’ingresso del canale delle Sables d’Olonne, dopo aver percorso quasi 25mila miglia nautiche di pericolose cavalcate a tutta velocità su barche costruite per potercela fare. Lunghe 60 piedi, oltre 18 metri, le IMOCA (dall’acronimo di International Monohull Open Classes Association) sono dotate di innovazioni tecnologiche all’avanguardia. Molte di esse con l’aggiunta di foils, strutture poste lateralmente simili ad ali che immerse in alcune andature permettono alle barche in velocità di sorvolare sulla superficie dell’acqua. Un’ardita soluzione che fa però arricciare il naso ai cultori della navigazione che considerano i foils addirittura pericolosi per la sicurezza delle barche. Eppure, molte di loro sono già sul mercato e le cifre parlano chiaro: alcune hanno raggiunto quote stratosferiche, fino a 5 milioni di euro e per acquistarle occorre almeno una cordata di sponsor. Prezzi non proprio alla portata di tutti, non per quei giovani atleti cui la regata sembrerebbe ispirarsi. La barca che apparentemente costa meno appartiene al tedesco Boris Hermann: per comprare il suo IMOCA occorrono solo 2,7 milioni di euro. Forse perché l’imbarcazione è del 2015 e viene considerata più vecchia delle altre. E chi l’avrebbe detto che la barca supertecnologica dell’intrepido skipper gallese Alex Thompson, dato per favorito alla partenza e costretto all’abbandono, vale 4,7 milioni? È costruita in modo tale da permettere una navigazione quasi senza mettere il naso fuori dal quadrato di comando… Ma c’è anche chi ha ottenuto un ottimo risultato navigando su una barca di stampo tradizionale, magari acquistata da chi la regata l’aveva già fatta. Come Louis Bourton che nel 2016 aveva visto giusto nel comprare quella appartenuta ad Armel Le Cléac’h reduce dall’alloro appena conquistato. Per oltre ottanta giorni gli appassionati della vela hanno seguito le avventure dei navigatori soprattutto grazie ai puntuali aggiornamenti del sito ufficiale vendeeglobe.org: foto, filmati, tracciamento e classifica per un quadro complessivo che dava l’idea degli scarti fra un concorrente e l’altro, velocità, miglia percorse e distanza dall’arrivo. Impossibile non ritagliarsi ogni giorno il tempo necessario per lasciarsi coinvolgere confinati in casa. Decine di migliaia di visite al sito e al canale YouTube della corsa senza dimenticare la Virtual Regatta, la piattaforma di gioco digitale online più grande del mondo con oltre un milione di iscritti. Anche se a tavolino, è una
partecipazione che impone disciplina e stress quasi pari a quella dei veri skipper, con tanto di levatacce e tensione al limite della nevrosi… Ogni concorrente della Vandée Globe meriterebbe un racconto a sé, sono infatti tutti protagonisti di storie avvincenti per umanità, entusiasmi e scoramenti, gioie e dolori vissuti verso l’agognato Pantheon. Dalla muscolosa ma breve prova del già citato Alex Thompson, velista spericolato, sempre al limite delle sue possibilità e costretto al ritiro, una sorte condivisa a poca distanza dalla velista britannica Samantha Davies dopo l’abbandono per collisione, che ha richiesto una sosta per riparare i danni prima di riprendere il mare fuori gara per concludere il suo giro del mondo. Fra tutti gli episodi verrà però ricordato il salvataggio del bretone Kevin Escoffier da parte di Jean Le Cam, il sessantunenne navigatore di Quimper, il più anziano dei partecipanti e alla sua quinta partecipazione alla Vandée Globe. Soprannominato Roi Jean per l’impressionante Palmares di vittorie, Le Cam rimarrà senza dubbio l’eroe di questa corsa con un’impresa che ricorda quella di Renato Soldini del 1999 quando aveva tratto in salvo Isabelle Autissier affrontando una tempesta nel Pacifico durante la Round Alone e giungendo ugualmente primo. Le Cam, nonostante i forti venti e le difficili condizioni del mare, a 840 miglia a sud ovest di Cape Town, è riuscito a ripescare lo sfortunato collega dalla zattera di salvataggio trasbordandolo successivamente su una nave militare. Ha poi continuato la gara sulla sua barca, un IMOCA dall’impianto tradizionale dal nome suggestivo Yes We Cam ma che lui chiama simpaticamente Hubert. Giunto all’ottavo rango, grazie al tempo di compensazione impiegato nel salvataggio lo skipper francese si è guadagnato il quarto posto in classifica. Ma anche Giancarlo Pedote, unico italiano in gara, tenace navigatore fiorentino che ha concluso la regata all’ottavo posto dimostrando qualità straordinarie. O il francese Damien Séguin, plurimedagliato ai giochi paralimpici, che ha portato a termine la corsa condotta in gran parte nel gruppo di testa e performante ai massimi livelli nonostante privo dalla nascita della mano sinistra. E a tenere alta la nostra bandiera nazionale non possiamo dimenticare il ginevrino Alain Roura, 24 anni, il più giovane concorrente di questa incredibile impresa che oltre a far sognare, rende liberi e salva l’anima… come sosteneva un’icona della vela quale Bernard Moitissier.
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Ambiente e Benessere
In carrozzella a colpi di spada
Sport A Lugano viene lanciato un progetto di scherma paralimpica, ce ne parla Christian Barozzi Davide Bogiani Promotore del progetto è Christian Barozzi, fondatore, vice-presidente e responsabile agonistico di Lugano Scherma. Lo abbiamo incontrato nella sala di Lugano Scherma per capire di più su questo interessante tema. Parliamo di scherma paralimpica. Di cosa si tratta?
La scherma paralimpica è una disciplina sportiva adatta a persone disabili, nata dalla scherma classica nell’Inghilterra del secondo dopoguerra per il recupero dei reduci del conflitto mondiale. Si tratta quindi di una scherma praticata restando seduti, anziché in piedi come avviene nella disciplina olimpica, e utilizzando le stesse armi: fioretto, spada e sciabola. Chi può mettersi in gioco con la scherma paralimpica?
È adatta a tutte le persone con disabilità, di qualsiasi età. Gli schermidori paralimpici vengono suddivisi in tre categorie, in base al tipo e alla portata della propria disabilità, affinché possano competere con avversari con pari livello di funzionalità: si va quindi da atleti con il movimento del tronco pieno e un buon equilibrio, ad atleti senza movimento delle gambe, ridotta funzionalità del tronco e scarso equilibrio, fino ad atleti con disabilità in tutti e quattro gli arti. Lo schermidore paralimpico siede su una sedia a rotelle saldamente ancorata alla pedana, e affronta l’avversario colpendolo unicamente dalla vita in su, attraverso rapidi movimenti del tronco e del braccio armato. Dove e quando ci si allena in Ticino, Covid permettendo?
Già da due anni il Club Lugano Scherma ha istituito, in collaborazione con l’Associazione InSuperAbili il corso di Scherma Paralimpica rivolto a bambini e adulti con disabilità presso la propria sala all’interno dell’Istituto Elvetico di via Balestra, a Lugano appunto. Ogni martedì e giovedì pomeriggio, gli atleti possono effettuare lezioni individuali con maestri specializzati, e fare poi veri e propri assalti, sulla base delle proprie possibilità e capacità, in tutta sicurezza e con l’attrezzatura adeguata. La soddisfazione e il divertimento sono assicurati, così come una giusta dose di fatica e di impegno fisico!
Nella scherma «in piedi» gli allenamenti si concentrano molto sulla reazione e sul movimento degli arti inferiori, necessari a spostarsi sulla pedana su cui si svolgono gli assalti. Anche la lezione individuale con il maestro verte sul coordinamento gambe/braccia, e sui movimenti mediante i quali l’atleta può indietreggiare per parare o schivare i colpi dell’avversario e per affondare la propria arma e mettere quindi a segno il punto. Nella scherma in carrozzina, dove chiaramente questo non è possibile, l’atleta deve invece avere un’enorme prontezza di riflessi per parare e portare a segno il colpo, non potendo indietreggiare. La preparazione fisica e l’allenamento, si concentreranno quindi sulla parte superiore del corpo e sulla parte addominale. Rispetto a uno schermidore «in piedi», per chi è in carrozzella è più facile raggiungere l’obiettivo dei giochi paralimpici?
Cruciverba Qual è il legume più antico e di dove è originario? Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 10 – 3, 5, 5)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
La scherma in carrozzella può essere indicata anche per le persone in fase di riabilitazione?
Che differenza c’è tra un allenamento di scherma per persone che camminano e persone in carrozzella?
Giochi
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pici: ben sei. Berna da anni ha un atleta di alto livello ma non ha sviluppato il progetto con i bambini e gli adulti; analogo discorso vale per Baden. Nel corso degli ultimi mesi è stato creato un gruppo di lavoro a livello svizzero per cercare di sviluppare la scherma in carrozzina. Il nuovo progetto, che si ispira sul modello di Lugano Scherma, prevede di avere dei centri regionali. Attualmente hanno aderito Berna, Zurigo, Ginevra e Losanna oltre a Lugano, ben inteso.
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Guido, giovane schermidore in forza al club di Lugano.
La scherma sta conoscendo in questi ultimi anni un successo e una diffusione a livello mondiale veramente importante. Gli schermidori professionisti godono di sempre maggiore visibilità, e costituiscono un modello di riferimento per i milioni di piccoli atleti dei Club di scherma sparsi nel mondo. Le possibilità di accedere ai Giochi Olimpici si riducono esponenzialmente, via via che il livello sale. Nella scherma per disabili, invece, essendo in numero inferiore i Club che offrono anche questa disciplina, sarà più facile trovare in ciascuno di essi un atleta paralimpico pronto per affrontare una gara internazionale. Ci sono schermidori paralimpici in Svizzera? E in Ticino?
A Berna si allena da diversi anni Fred
De Oliveira, 20 anni, che oggi punta alla prossima Paralimpiade. In Ticino abbiamo due ragazzini di 13 anni, Alessandra (nella foto a pag. 11) e Guido, che hanno aperto con Lugano Scherma il progetto paralimpico e che in breve tempo, con il loro entusiasmo e la loro perseveranza, sono riusciti a incuriosire altre persone che hanno cominciato gli allenamenti con3 ottimi2 risultati, e altre che vorrebbero provare. Si punterà in alto con loro, per aprire anche la Svizzera alla scherma per disabili e aiutarla ad accedere a gare di7 livello internazionale. In quali altri posti della Svizzera si pratica la scherma in carrozzella?
Lugano Scherma attualmente è il club 1 con il più alto numero di atleti paralim-
È ormai assodato che la scherma paralimpica migliori il tono dei distretti muscolari illesi, o lo ristabilisca, per quanto possibile, nei distretti colpiti, che contribuisca a riorganizzare gli schemi motori, a migliorare la coordinazione, l’equilibrio e le funzioni cardio-vascolari e respiratorie. Infine, ma non per ultimo, favorisce sicuramente la socializzazione e permette di migliorare la fiducia in sé stessi. Qual è l’obiettivo della Lugano Schema paralimpica?
Poiché crediamo fermamente nel nostro e ne vediamo 5 progetto, 8 3i benefici ogni giorno negli occhi dei nostri ragazzi, sicuramente uno dei 4 di portare 9 più nostri obiettivi è quello persone possibili a provare la scherma 2 obiettivo è su sedia a rotelle. Il primo sicuramente creare una vera scuola di2scherma in carrozzina Lugano e 9 lanciare un movimento. Chissà che in un lontano anche la 8futuro 7 non molto3 Svizzera, o il Ticino, non riesca ad avere un campione del mondo o paralimpico 3 7 di scherma.
4 1 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 5 7 9 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1 6 8 5 ORIZZONTALI Sudoku
1.Ondaall’asciutto... 3.Malattiachenonsimanifesta 9.Leinizialidell’attriceAutieri 10.Inluogodi... 11.LalinguadeiTrovieri 12.Strutturepercruciverba 14.Lostratopiùesternodella terra 15.EpochedellaTerra 16.Viveconlesorelle 17.Acerbi 18.Corposa 19.Letteradell’alfabetogreco 21.MiticorediTegeaeArcadia 22.Ultimadiunafamosascala 23.IlcantanteRosalinoCellamare 24.Vifumanoicappuccini... 25.Grassa,pingue VERTICALI 1. Introduceunchiarimento 2.Lagofrancese 3.Utensiliperlevigare 4.LouccisePolifemo 5.Pronomepersonale 6.Fastidiosa,inopportuna 7.Copricapopapale 8.Pronome 10.Reali,effettivi 13.Pronomeinglese 14.Riassunto...delriassunto 16.Primoelementodiparole conrelazioneallaLuna 18.LaminoredelleisoleCicladi 19.Verbogeneroso 20.Costellazionedell’emisfero boreale 22.Loziocon50stelle 24.Ungruppodivitamine
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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PAESE CHE VAI… – In Giappone l’inclinazione degli inchini dipende dalle…: CIRCOSTANZE E DA CHI SI SALUTA.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Politica e Economia Un test per le democrazie Diversi Paesi africani sono chiamati al voto: è lotta tra giovani e tenaci gerontocrati pagina 20
Stati Uniti tra vecchio e nuovo Trump sotto impeachment è ancora protagonista della scena mentre Biden delinea la linea americana con la Cina
Gli «invisibili» restano tali Ancora nessuna speranza di regolarizzare sul piano nazionale i «sans-papiers»
Contro l’islamismo Il 7 marzo in Svizzera si vota sull’iniziativa per proibire burqa e niqab nei luoghi pubblici
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pagina 23 La Francia conserva interessi strategici, economici e culturali nel Sahel. Una veduta aerea di Gao, in Mali. (Keystone)
La resa francese all’instabilità africana Strategia L’Esagono ritira i suoi contingenti dal Sahel e nella zona avanza l’influenza di cinesi, turchi, russi.
Evidente crisi di Parigi anche in Nordafrica mentre prende sempre più corpo la minaccia del «separatismo islamista»
Lucio Caracciolo La frontiera meridionale della Francia è sempre stata il Sahel, vasta area africana posta immediatamente a sud del Sahara. Chiave del suo non troppo ex impero. Oggi infestata dal terrorismo jihadista, destabilizzata dalla fragilità degli pseudo-Stati e staterelli più o meno falliti che disegnano la geopolitica africana in genere e saheliana in particolare. Impegnati in diverse operazioni «anti-terrorismo» tra Nordafrica e Sahel, i francesi vi hanno scoperto il loro piccolo Afghanistan. Piccolo in rapporto a quello dei sovietici o degli americani, stante la disparità di mezzi e di potenza. Ma allo stesso tempo troppo vasto per l’Esagono, che pensava di potervi schierare risorse militari senza troppo rischiare la vita dei soldati e il prestigio della Nazione.
Non è andata e non sta andando così. Di qui la decisione di cominciare a riportare a casa una quota rilevante dei contingenti francesi in teatro. Dopo aver scoperto che la solidarietà degli alleati europei e atlantici era più retorica che effettiva. Uniamo questo ripiegamento alla permanente instabilità nordafricana e alla penetrazione islamista nel territorio metropolitano francese, e abbiamo il senso della gravità della crisi strategica con cui il presidente Emmanuel Macron deve confrontarsi. Perché come sempre quando si apre un vuoto qualcuno cerca di riempirlo. E in quella che una volta si chiamava Françafrique – l’impero africano della Francia – e in cui oggi Parigi conserva interessi strategici, economici e culturali di primo livello, stanno penetrando da tempo nemici e competitori ambiziosi. Dai cinesi ai turchi e ai russi, quello che una
volta era il pré carré tricolore è oggi un campo di gioco estremamente frastagliato e instabile. Se a questa crisi interna al Continente aggiungiamo i problemi della fascia mediterranea tra Marocco e Libia, il quadro si complica ulteriormente. Nell’Algeria un tempo parte dello spazio metropolitano si stanno installando, senza farsi troppo notare, i cinesi. Tanto che il Governo algerino consiglia ai giovani di imparare il mandarino, lingua del futuro. Insulto palese alla Francia e alla sua geopolitica della francofonia. ll pouvoir, il potere dei militari ha domato per ora la grande rivolta di piazza (Hirak) che sembrava sul punto di scalzarlo, destabilizzando completamente tutta la fronte mediterranea dell’Africa. Grazie soprattutto alla epidemia di Covid-19, che ha reso improponibili i grandi raduni di massa, e alle divisioni interne ai gruppi di protesta
anti-regime, il pericolo di una crisi algerina – dal punto di vista francese – è provvisoriamente sventato. Quanto alla Tunisia, un tempo cantata come modello di democrazia nascente per tutto il Nordafrica, il grado di caos politico misto a un’inguaribile crisi economica rendono possibile la congiunzione con la limitrofa crisi libica. Infine, appunto, la Libia, o meglio le Libie frammentate, da cui filtrano minacce effettive o potenziali alla stessa sicurezza francese. E che nella fascia meridionale, specie nel Fezzan tradizionalmente essenziale per Parigi, avvicina il Sahel. La crisi del sistema francese in Nordafrica e nel Sahel riflette quella dell’Esagono, dove si materializza sempre più concretamente la minaccia del «separatismo», strettamente connessa allo spazio africano. Grande Paese di immigrazione araba e nera provenien-
te da sud, la Francia fatica sempre più a integrare, non diciamo assimilare, i migranti che via Mediterraneo (Italia) puntano verso l’Esagono. Il «separatismo» denunciato da Macron altro non è che l’installazione nel cuore della società francese di gruppi islamisti, tra cui non mancano i terroristi, capaci di riportare il caos nel Paese. La prima priorità geopolitica della Francia è dunque frenare il processo di infiltrazione in corso, specie per quanto riguarda le moschee e la qualità degli imam che vi predicano, non sempre allineati con l’islam inclusivo tollerato dalle autorità francesi. La decisione del graduale ritiro dei militari francesi da Sahel e Africa nordoccidentale non è altro che l’ammissione di una seria crisi strategica e infine identitaria che minaccia una grande potenza europea. Un segnale anche per i vicini, Italia e Germania su tutti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Politica e Economia Il presidente ugandese Museveni è stato riconfermato per la sesta volta lo scorso 14 gennaio. (Keystone)
Rio senza Carnevale teme disordini Brasile Feste e cortei annullati per la Covid
mentre monta la frustrazione dei negazionisti Angela Nocioni
Rincorrendo la democrazia
Africa Oltre venti Paesi del Continente più giovane del pianeta
sono chiamati alle urne. Gli anziani intanto si aggrappano al potere
Pietro Veronese Il 2021 è per l’Africa, considerata nel suo insieme, un importante anno elettorale. Oltre venti Paesi del Continente, da nord a sud, da est a ovest, dal piccolissimo all’enormemente vasto, sono chiamati alle urne per scegliere un nuovo presidente, un nuovo Parlamento o anche solo per rinnovare le Amministrazioni comunali. Un esercizio democratico diffuso che da una parte induce a un certo ottimismo politico, ma desta anche preoccupazione perché molte di queste elezioni appaiono fragili dighe contro le tendenze autoritarie che si affermano in più Paesi. Sono passati 30 anni da quando, nel celebre discorso pronunciato a La Baule il 20 giugno 1990, l’allora presidente francese François Mitterrand invitò i capi di Stato africani a «compiere con coraggio un passo verso la democratizzazione», indicandone anche gli elementi irrinunciabili: «Sistema rappresentativo, libere elezioni, multipartitismo, libertà di stampa, magistratura indipendente e rifiuto della censura». Il Muro di Berlino era crollato l’anno prima e quelle parole segnarono la fine della Guerra fredda in Africa. Le democrazie occidentali non erano più disposte ad accettare – a favorire – i regimi dittatoriali più efferati purché aderissero al loro campo, contro quello sovietico. Da allora l’evoluzione democratica del Continente è stata indubbia, dal Sudafrica alla Repubblica democratica del Congo, dal Kenya al Senegal. In alcuni (rari) Paesi l’alternanza di maggioranza e opposizione è diventata un fatto acquisito.
Molte di queste elezioni appaiono fragili dighe contro le tendenze autoritarie che si affermano in più Paesi Tuttavia forti controtendenze hanno preso ad operare, nel logorante tentativo di favorire le tentazioni autoritarie. La più ricorrente di queste è stata l’introduzione di modifiche costituzionali per aumentare il numero di mandati presidenziali, da 2 a 3 o più. È accaduto un po’ ovunque, dal Camerun al Rwanda, dall’Uganda al Ciad, da Gibuti al Congo Brazzaville. Molti capi di Stato invecchiano al potere e fanno di tutto per non lasciarlo. Il che ci porta a quella che appare la questione più ricorrente su cui
sono chiamati a pronunciarsi gli elettori africani. Non si discute tanto di programmi, di modelli di sviluppo, di appartenenze ideologiche o schieramenti politici; quanto del fatto se leader anziani siano disposti a lasciare il campo alle nuove generazioni. La risposta è quasi sempre la stessa: non lo sono affatto. L’Africa ha un primato: dal punto di vista anagrafico è il Continente più giovane del pianeta. L’età media del suo miliardo e 300 milioni di abitanti non raggiunge i 20 anni, 19,4 per la precisione. Quella della sua classe dirigente è viceversa la più alta. Supera generosamente i 60 anni, anche se negli anni recenti si è un po’ abbassata con l’allontanamento dal potere di leader come lo zimbabweano Mugabe (95 anni), l’algerino Bouteflika (82), l’angolano Dos Santos (76) o il sudanese al Bashir (75). Quella che da noi è la «Generazione Z», i cosiddetti «post Millennials», lì sono il cittadino medio, l’elettore tipo. E quello che a noi può apparire come un arido dato statistico – l’età media – lì costituisce la linfa delle società, una condizione esistenziale che dà alla visione collettiva una straordinaria energia e la proietta verso il futuro. Lo stesso fenomeno migratorio sarebbe difficile da capire, fatto com’è di incognite, di pericoli mortali, di sradicamento e di incertezza a venire, senza la carica inarrestabile della giovinezza. Così la permanenza al potere dei vecchi e la domanda di cambiamento dei giovani diventano il tema dominante dello scontro politico, facendo delle nuove generazioni gli alfieri della partecipazione democratica. Un’identificazione, quella dei giovani africani con la democrazia, perfettamente sintetizzata nello slogan della vittoriosa rivolta sudanese del 2019: «No more old men in uniform». L’essere avanti con gli anni e il fatto di indossare l’uniforme da generale venivano accomunati nella stessa condanna. Anche le prime elezioni del 2021, quelle ugandesi, hanno avuto per tema lo scontro giovani contro anziani: purtroppo non sono andate bene. Il presidente Yoweri Museveni, 76 anni, al potere dal 1986, è riuscito a farsi rieleggere per la sesta volta consecutiva. Tra le riforme costituzionali che ha dovuto far approvare perché questo fosse possibile, c’è stata l’abolizione del limite di 75 anni di età per i candidati presidenziali. Il suo principale avversario era Bobi Wine, 38 anni, cantante diventato uomo politico, molto popolare nei quartieri più poveri di Kampala e considerato un candidato credibile anche
da molti osservatori internazionali. Museveni ha usato tutte le leve che il potere metteva a sua disposizione, bloccando l’accesso a Internet nei giorni cruciali della campagna, facendo intervenire le forze dell’ordine per disperdere le manifestazioni dell’opposizione, fino a mettere Bobi Wine agli arresti domiciliari dal giorno del voto fin quando l’Alta Corte ugandese non ne ha ordinato la liberazione. Vedremo come andranno le cose in altri Paesi dove dei presidenti-padroni si preparano a chiedere la riconferma al potere nel corso di quest’anno. È il caso della Repubblica del Congo, dove il 21 marzo Denis Sassou Nguesso, 77 anni, briga il quarto mandato; del Ciad (6 aprile, sesto mandato per Idriss Déby); di Gibuti (sempre in aprile, quinto mandato per Ismail Omar Guelleh, 73 anni). In tutti e tre i casi non ci sono particolari motivi di ottimismo. Dei tanti altri appuntamenti alle urne in calendario per il 2021 in Africa, ne segnaliamo tre. Il primo è quello della Somalia, dove la vera sfida è riuscire a tenere effettivamente le elezioni. Già due volte tra gennaio e febbraio la data ha dovuto essere rinviata. Il sistema è davvero complesso, in ragione delle ferite della guerra civile da cui il Paese è ancora convalescente, anzi non è del tutto uscito. I membri di Camera e Senato vengono nominati da collegi elettorali ristretti, nei quali anche i clan hanno un diritto riconosciuto di parola; poi a loro volta dovranno eleggere un presidente. Finora nessun accordo è stato raggiunto e il Parlamento non è riuscito a riunirsi. In Etiopia le elezioni parlamentari dovrebbero tenersi il 5 giugno. Erano in programma l’anno scorso, ma sono state rinviate causa Covid e questa decisione è stata il casus belli che ha messo la provincia settentrionale del Tigray in rotta di collisione con il Governo federale, fino all’invasione militare ordinata dal premier Abiy Ahmed in novembre. L’Etiopia è un gigante che conta oltre 100 milioni di abitanti e la sua instabilità potrebbe avere conseguenze devastanti per l’intero Corno d’Africa. Infine il Sudafrica. Qui l’appuntamento sembra di importanza relativa: si tratta di consultazioni amministrative. Ma da sempre valgono un po’ come quelle di Midterm negli Stati uniti: un termometro politico tra due elezioni presidenziali. Con il Paese paralizzato nella morsa di un’epidemia di Coronavirus fuori controllo, sarà un referendum sulla difficile gestione del presidente Cyril Ramaphosa.
Rio de Janeiro senza Carnevale, causa Coronavirus. Lo spettacolo di strada più grande del mondo quest’anno non si terrà. Cancellato lo show della sfilata dei carri al Sambodromo, ma anche i balli dietro a carri improvvisati, i «blocos de rua», che spuntano ovunque in città fino al martedì grasso. Troppo pericoloso per il livello raggiunto dalla pandemia in Brasile, il più grave di tutta l’America latina. Il sindaco Eduardo da Costa Paes, di area progressista, ha scelto contro la Covid una strada opposta a quella del Governo centrale, che continua a minimizzare l’emergenza. Il politico ha ordinato fino al 22 febbraio il divieto assoluto di sfilate delle famose scuole di samba e di «blocos de rua». Chi viola la norma potrà essere accusato di crimine contro la salute pubblica. Vietata anche l’attività dei commercianti ambulanti. Il sindaco assicura: «Guai seri per chi disobbedisce. Sarà una guerra di gatti contro il topo».
Nel 1904 in città esplose una rivolta contro la vaccinazione di massa voluta dal Governo per contrastare il vaiolo Le grandi scuole di samba hanno già fatto sapere che rispetteranno i divieti. Per limitare le sorprese è comunque in corso un grosso lavoro di monitoraggio di Internet per intercettare la vendita di biglietti online. Ed è stato proibito pure l’accesso in città ad autobus non di linea. Le restrizioni a causa della pandemia promettono di avere maggiore successo di quelle tentate 3 anni fa, però subito ritirate per evitare l’insurrezione popolare, dall’ex sindaco evangelico Marcelo Crivella. Lui – vescovo di una chiesa pentecostale benedetto dal boom elettorale dei candidati evangelici nelle penultime elezioni amministrative – nel 2018 aveva deciso che il megashow del Sambodromo andasse cancellato per offesa al pudore. Troppo edonismo, secondo lui, troppi corpi esposti per strada. Poiché i fondi per le scuole di samba, cellule fondamentali dello spettacolo carioca, sono in mano al sindaco, lo strumento per cancellare la festa Crivella ce l’aveva davvero. Gli sarebbe bastato negare il finanziamento di due milioni di reais alle suddette scuole. Minacciò infatti di farlo ma poi, dopo che gli spiegarono il rischio di barricate, capì l’antifona e cambiò idea.
Quest’anno si rischia invece la disobbedienza organizzata per tutt’altra ragione. Il presidente Jair Bolsonaro ha un discreto zoccolo duro di sostenitori a Rio de Janeiro e suo figlio Eduardo ha molto potere in città. Bolsonaro è negazionista rispetto alla Covid: ha sostenuto a lungo si trattasse di una banalissima influenza. Da quando è stato lui stesso contagiato ha attenuato i toni polemici, ma ogni tanto la carta della negazione della pandemia se la gioca ancora perché pare avere un ritorno in termini di consenso. La sua teoria è che il virus sia l’occasione colta da un non individuato potere occulto planetario per controllare i comportamenti individuali. Questa teoria rischia di attecchire in certi ambienti, in un Paese in cui 3 persone su 4 si informano esclusivamente attraverso i social network. Dei vaccini contro la Covid Bolsonaro ha detto: «Volete vaccinarvi? Poi non lamentatevi se vi spuntano squame da camaleonte!». Se alla diffidenza contro la vaccinazione di massa si aggiunge la frustrazione collettiva per la festa cancellata, non sorprende che il sindaco Paes sia preoccupato per possibili proteste organizzate. Una vera rivolta contro una vaccinazione di massa a Rio c’è stata, più di un secolo fa. Era il 1904. La città era allora ancora capitale. Una terribile epidemia di vaiolo sembrava inarrestabile. Il Governo in quel periodo stava ridisegnando il centro storico, vicino al porto, aprendo grandi viali ispirati allo stile francese e quindi sventrando agglomerati di case popolari in cui vivevano in condizioni assai precarie migliaia di persone. Queste ultime furono costrette a spostarsi altrove. La riforma sanitaria e la campagna di vaccinazione contro il vaiolo furono affidate a un giovane medico, Oswaldo Cruz, che, consapevole della dimensione sociale del problema, pensò di poterlo affrontare creando dei veri e propri «battaglioni sanitari». Questi furono però percepiti dalla popolazione, estenuata dal trasferimento coatto in favela a causa dei lavori, come un esercito d’occupazione armato di siringhe. Fu così che alla sacrosanta vaccinazione contro il vaiolo si opposero barricate di gente rabbiosa, intossicate da una propaganda messa a punto dall’opposizione al Governo riunita nella «Lega contro il vaccino obbligatorio». Si parlava allora del pericolo di trasformazione in mucca di chi si fosse lasciato inoculare un vaccino di origine animale. Il 13 febbraio 1904, raccontano le cronache dell’epoca, dopo una rivolta studentesca soffocata dalla polizia, Rio sembrava una zona di guerra.
Desolazione nella Scuola di samba Unidos de Bangu a Rio de Janeiro. (Keystone)
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Politica e Economia
Repubblicani, una scissione in vista? Stati uniti Donald Trump sotto impeachment sceglie il silenzio e riacquista punti in seno al partito.
Biden intanto se la vede con la Cina: l’ostilità rimane alta discutendo di economia, industria e diritti umani
Federico Rampini Washington vive di nuovo giornate storiche. Il primo presidente che subisce due impeachment. Il primo presidente che viene messo in stato di accusa dopo avere concluso il suo mandato. E sullo sfondo l’antefatto: il primo attacco al Campidoglio dalla guerra con gli inglesi del 1812. «Fight!», combattete per me «contro gente cattiva», «mostrate la vostra forza al Congresso». Il video con il fatidico comizio di Donald Trump del 6 gennaio, seguito poco dopo dall’assalto violento dei suoi seguaci, per l’accusa è la pistola fumante, la prova del reato. Il secondo impeachment è dominato da quelle immagini. Così Trump è tornato a occupare il centro della scena politica americana. Sia pure da grande assente (non si è lasciato interrogare dal Senato) per una settimana è tornato protagonista, come negli ultimi 4 anni. Joe Biden è costretto a chiedersi se alla fine non sarà lui a pagare un prezzo politico di questo processo pubblico al suo predecessore. L’accusa è «incitazione alla violenza contro le istituzioni degli Stati Uniti». I fatti sono freschi nella memoria del mondo intero: l’assalto alla sede del Congresso ispirato dalle parole infuocate di un presidente che fino all’ultimo rifiutava di riconoscere la legittimità dell’elezione. Tra le prove dell’accusa c’è l’intero comizio tenuto da Trump ai suoi sostenitori radunati quel mattino davanti alla Casa Bianca, i filmati dell’aggressione alle forze dell’ordine e ai parlamentari, l’irruzione a Capitol Hill, il bilancio di 5 morti, la fuga precipitosa delle massime autorità dello Stato, il bivacco degli assalitori dentro il Congresso. I democratici sono convinti di avere un obbligo costituzionale, politico e morale: non lasciare impunito un comportamento sovversivo, con cui Trump attentò alla pacifica transizione dei poteri, un precedente pericoloso se dovesse restare senza sanzioni. «Trump
non si è mai pentito. Lo rifarebbe, metterebbe in pericolo altre vite umane, se gli consentiamo di ripresentarsi». Per la difesa, Trump dovrebbe essere protetto dal Primo emendamento e nessuna delle sue parole in quel comizio era un esplicito invito alla violenza. La difesa parla di «teatro politico» che vuole stabilire una presunta connessione tra le parole dell’allora presidente e le azioni «di un piccolo gruppo di criminali». Gli avvocati di Trump ricordano gli attacchi insurrezionali della sinistra radicale contro le istituzioni, i palazzi governativi assaltati da Black lives matter nell’estate scorsa sotto gli applausi dei media. Le votazioni finali si svolgono questa settimana. Alla difesa di Trump basta convincere 34 senatori repubblicani per far mancare la maggioranza qualificata dei due terzi. I democratici sono in difficoltà: secondo le ultime stime manca all’appello una decina di voti per condannare Trump. Qualche repubblicano forse sta vacillando sotto l’impatto di quelle immagini tremende. Però è significativo che ora si parli di una scissione dei repubblicani anti-Trump per creare un partito indipendente, mentre poche settimane fa lo scenario era l’uscita di Trump dal partito. Il silenzio sorprendente dell’ex presidente forse gli è servito. L’esito più probabile rimane una seconda assoluzione. Anche questa unica nella storia. Ma intanto Biden fa le prove generali della sua nuova politica estera con la prima telefonata a Xi Jinping. Si preannuncia una relazione difficile. La prima conversazione tra i leader delle due superpotenze da quando Biden è presidente, è un riassunto di come i due intendono impostare il rapporto: più «ordinato», senza le improvvisazioni estemporanee o i personalismi di Trump, ma con un carico di ostilità e pendenze tutt’altro che diminuito. Anzitutto l’ordine protocollare contiene già un messaggio: Biden ha voluto fare aspettare Xi Jinping, lo ha sentito solo
Quello del 6 gennaio è stato il primo attacco al Campidoglio dalla guerra con gli inglesi nel 1812. (Schutterstock)
dopo aver consultato tutti i maggiori alleati. Biden ha messo sullo stesso piano tre ordini di preoccupazioni: per «i comportamenti economici sleali e coercitivi», per gli abusi contro i diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang, per l’espansionismo strategico che minaccia Taiwan. In positivo, come terreni d’intesa, Biden ha indicato la lotta alla crisi climatica, alla pandemia e la cooperazione contro la proliferazione degli armamenti. Xi Jinping non ha concesso un millimetro. Ha respinto come di consueto le accuse su Hong Kong, Xinjiang e Taiwan come «ingerenze negli affari interni». Ha ribadito la minaccia abituale: o Cina e Stati Uniti cooperano oppure saranno guai per tutti. Ha proposto di riattivare consultazioni e negoziati sui vari tavoli. Ma siamo alle avvisaglie iniziali, perché nel frattempo Biden ha lanciato un riesame completo di tutte le politiche verso la Cina, coinvolgendo anche il Pentagono: l’idea non è quella
di smontare le sanzioni di Trump, l’embargo contro Huawei, i dazi, bensì di definire un approccio molto più «olistico», coerente, che coinvolga tutti i rami del Governo e al tempo stesso costruisca una coalizione di alleati. Il confronto diretto Usa-Cina si giocherà su terreni che vanno dalle nuove politiche industriali americane (ad esempio per recuperare terreno sul 5G o rafforzare la leadership nei semiconduttori), alla ricucitura con gli europei. Quest’ultima è la missione più difficile dopo l’accordo Ue-Cina sugli investimenti e con una Germania sempre più trainata dall’export verso i mercati asiatici. In parallelo con la telefonata Biden-Xi c’è stata una reazione gelida del Dipartimento di Stato americano di fronte alla cosiddetta ispezione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a Wuhan. Rinviata per 12 mesi dalle autorità cinesi, l’ispezione rischia di confermare i sospetti dell’Amministrazione Trump sul servilismo
dell’Oms verso Pechino. Alcuni membri della delegazione hanno adottato tutte le versioni ufficiali della Cina: hanno escluso qualsiasi collegamento fra il laboratorio virologico di Wuhan e l’origine dell’epidemia, hanno perfino avallato la teoria del complotto sull’origine straniera, collegata a cibo surgelato importato. Tutto questo in un contesto poco affidabile, visto che le autorità cinesi hanno avuto un anno per «ripulire» la scena del delitto. Va ricordato inoltre che l’Australia è sotto il tiro di pesanti sanzioni commerciali cinesi solo per aver osato pretendere un’indagine internazionale sulle origini del virus. Il Dipartimento di Stato americano ha ribadito che «mancano i requisiti di trasparenza» perché la missione Oms dia risultati credibili, e ha detto che il governo di Washington non accetterà le conclusioni di questa missione «senza averle verificate in modo autonomo e d’intesa con gli alleati».
L’incerto futuro del Myanmar
Sudest asiatico Il golpe ha svelato il vero volto della giunta militare, il popolo non ci sta e continua a manifestare.
Le lotte all’interno delle forze di sicurezza potrebbero favorire il cambiamento ma la strada è tutta in salita Fabio Polese L’esperimento di un Myanmar democratico si è concluso, come noto, con un colpo di Stato andato in scena il primo febbraio. Tutti i poteri sono stati trasferiti al generale Min Aung Hlaing, capo del Tatmadaw – l’esercito birmano – mentre il generale Myint Swe è stato nominato presidente a interim. Aung San Suu Kyi e molti altri esponenti di spicco della Lega nazionale per la democrazia, il partito vincitore delle elezioni dello scorso novembre, sono stati arrestati in un raid delle forze armate, a poche ore dall’inaugurazione del nuovo Parlamento. Cosa succederà adesso? «Il futuro – afferma Penny Green, professoressa alla Queen Mary University di Londra e attivista per i diritti umani – dipenderà dalla forza e dalla persistenza della resistenza civile, dalla risposta dei gruppi ribelli nelle zone di confine e dalle lotte di potere all’interno delle forze di sicurezza. Se la polizia o i ranghi più bassi dell’esercito sfideranno i leader del colpo di Stato e si uniranno alle proteste, allora un cambiamento radicale verso una vera democrazia sarà possibile». In ogni caso i militari non molleranno la presa facilmente, sostenuti anche da Pechino e Mosca. Secondo diversi analisti, nonostante ab-
biano promesso nuove elezioni, non si cureranno più di tanto delle eventuali sanzioni provenienti dall’estero. Forse allungheranno lo stato di emergenza, sfruttando il tempo per organizzarsi ancora meglio nel controllare il Paese. Un po’ quello che è successo nella vicina Thailandia, dove le forze armate dopo il golpe del 2014 sono ancora al potere. In questi anni infatti il premier ed ex generale Prayut Chan-o-cha ha esautorato i partiti e consolidato l’autorità nelle mani di organismi non eletti e controllati dall’esercito.
Tutto dipende dalla resistenza civile, dai ribelli ai confini e dai militari che osano sfidare i leader del golpe I militari birmani non hanno mai celato la loro vocazione autoritaria. Nelle settimane precedenti al colpo di Stato avevano denunciato delle irregolarità nelle votazioni e avevano minacciato di «passare all’azione» se le accuse di brogli non fossero state considerate dal Governo. E così è stato. Ma il popolo non è rimasto a guardare. Nei giorni successivi, infatti, centinaia di miglia-
ia di persone sono scese nelle strade per chiedere la liberazione dei detenuti politici e il rispetto dell’esito delle elezioni. Con le proteste, è iniziata anche la repressione. L’esercito ha imposto la legge marziale in varie parti del Paese e ha dato l’ordine alle forze di sicurezza di usare il pugno duro contro i manifestanti. «Quanto è accaduto il primo febbraio conferma ciò che gli attivisti politici affermano da tempo», spiega Green. «Il Tatmadaw non ha mai avuto intenzione di promuovere vere riforme democratiche». Infatti, nonostante si sia spesso parlato di un nuovo corso del Myanmar, aperto agli interessi dell’Occidente, i militari hanno continuato ad avere un enorme peso, controllando la vita politica, economica e sociale del Paese. Basti pensare che il 25 per cento del Parlamento è riservato a loro, indipendentemente dall’esito delle elezioni. L’esercito controlla i ministeri degli Interni, della Difesa e degli Affari di confine, oltre a gestire una buona fetta delle risorse naturali. Inoltre la giunta militare che ha comandato il Myanmar per decenni è parte del Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale, il quale in ogni momento le dà il permesso di modificare le leggi e di assumere il controllo della Nazione qualora, secondo il suo giudizio, l’integrità della stessa venisse in qualche modo minacciata.
Cosa che ha fatto proprio il 1. febbraio. Min Aung Hlaing è il numero uno delle forze armate birmane dal 2011, dall’inizio quindi della transizione «democratica» del Myanmar. Da soldato si è trasformato anche in un politico molto attivo e in poco tempo è diventato l’uomo più potente del Paese. Nominato capo dell’esercito al posto del generale Than Shwe, padre-padrone della Nazione dal 1992 al 2011 e tuttora «padrino» del Tatmadaw, è ritenuto la persona giusta per garantire la continuità del potere militare nella vita politica birmana. Lo stesso Min Aung Hlaing ha ricevuto condanne e sanzioni internazionali per il suo ruolo nelle atroci violenze contro la minoranza musulmana Rohingya, costretta nel 2017 all’esodo di massa in Bangladesh. Nel 2018 una missione indipendente istituita dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu lo aveva accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra insieme a diversi alti funzionari militari. «Non bisogna dimenticare che anche Aung San Suu Kyi, con il suo assordante silenzio, è stata complice di queste atrocità», osserva Green. «Credo che le sue ambizioni politiche e il desiderio di guidare il Myanmar l’hanno resa cieca alle potenziali conseguenze di quello che ora è diventata una triste realtà».
Il generale Min Aung Hlaing sarebbe stato costretto ad andare in pensione a luglio, quando avrebbe compiuto 65 anni, perdendo tutto il suo potere, anche quello economico. «Il numero uno del Tatmadaw – dice l’esperta e attivista – detiene il controllo sui due più importanti gruppi del Paese, il Myanmar economic corporation e il Myanmar economic holdings limited, che gli hanno fruttato enormi ricchezze, anche grazie alla corruzione e al clientelismo. È chiaro che con questo golpe si è assicurato il potere e la ricchezza per sé e la sua famiglia». Le proteste di queste settimane sono le più grandi in Myanmar dopo la «Rivoluzione dello zafferano» scoppiata nel settembre del 2007, che si era conclusa con l’uccisione di decine di persone e centinaia di arresti. Sostiene Green: «Credo che la coraggiosa resistenza del personale medico birmano e di altri attori della società civile, insieme alle invocate azioni di boicottaggio delle aziende controllate dall’esercito, potranno avere un impatto maggiore delle condanne arrivate dall’Occidente». Ma ci vuole di più. «Le potenze dovrebbero sospendere il sostegno politico e finanziario al regime militare». Ma non sarà facile, visti gli interessi strategici ed economici che ci sono in ballo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Politica e Economia
Esercizi di equilibrismo politico
Sans-papiers La pandemia ha riacceso il dibattito intorno a chi vive in Svizzera senza permesso. Il Consiglio
federale respinge sia la regolarizzazione parziale sia l’esclusione generale dalle assicurazioni sociali degli immigrati che soggiornano illegalmente in Svizzera. Si rimane allo status quo
Luca Beti La crisi provocata dal nuovo coronavirus ha fatto emergere gli invisibili, così come fa la risacca con gli oggetti finiti in mare. Alla mattina, li ritrovi sul bagnasciuga se prima non è passato qualcuno a raccoglierli per regalare al turista l’idea di una natura incontaminata. È un inganno a cui ci piace credere. Come ci piace credere che nella prosperosa e ricca Svizzera non esista la povertà e che tutti abbiano la possibilità di vivere un’esistenza degna di questo nome. Infatti, ciò che non si vede, non esiste. In questi mesi, la pandemia quella realtà ce l’ha sbattuta in faccia. A Ginevra, era l’immagine di una chilometrica coda di persone in attesa di ricevere un pacco del valore di venti franchi con generi di base: riso, pasta, olio, tonno, sapone, pannolini per i bebè. In fila, c’erano soprattutto i sans-papiers, come ha evidenziato un sondaggio svolto nei primi giorni dell’iniziativa promossa tra maggio e giugno 2020 dalla Caravane de Solidarieté, in collaborazione con altre organizzazioni e attori statali. Il 52% erano migranti illegali, il 3,4% svizzeri, il 28,3% stranieri con un permesso di soggiorno, il 4,3% richiedenti l’asilo e il 12% non ha indicato alcuno statuto. Improvvisamente, quelli che per natura rimangono nell’ombra sono usciti alla luce del sole. La crisi sanitaria li ha privati di quel poco che permetteva loro di sbarcare il lunario. Da un giorno all’altro si sono trovati sul lastrico, senza lavoro, senza più un reddito.
Fra il 2017 e il 2018 Ginevra ha regolarizzato il soggiorno di 2900 persone, ma l’esempio non ha fatto scuola E in quelle settimane il mondo politico non è rimasto a guardare. Durante la sessione straordinaria, tenutasi dal 4 all’8 maggio a Bernexpo, sono stati inoltrati numerosi interventi parlamentari che chiedevano di aiutare chi passa attraverso le maglie del sistema sociale, per esempio tramite una regolarizzazione collettiva dei sans-papiers o la creazione di un fondo nazionale
gestito dalle associazioni che si occupano di loro. La pandemia, per ironia della sorte, ha posto per alcuni giorni la questione dei sans-papiers in cima all’agenda della politica federale. La ridda di interventi per ora non ha però migliorato la loro situazione. Come non ha promosso alcun cambiamento il rapporto «Per un’ampia analisi della problematica dei sans-papiers» adottato nel dicembre scorso dal Consiglio federale. Il governo ha deciso di mantenere lo status quo, respingendo sia la richiesta di regolarizzazione parziale dei sans-papiers sia quella di escluderli dalle assicurazioni sociali. Nel documento di quasi 130 pagine viene stilato un inventario dei diritti di affiliazione alle diverse assicurazioni sociali, vengono valutate le conseguenze di un’eventuale revoca di questi diritti e presentate possibili soluzioni. È il classico esercizio di funambolismo politico tra forze contrapposte. Da una parte, la destra che esige l’osservanza della legge e l’espulsione di chi soggiorna illegalmente in Svizzera, dall’altra la sinistra che chiede il rispetto dei diritti fondamentali di ogni essere umano. E in mezzo ai due campi, i «sans-papiers». Ma chi sono? E quanti sono? Sono stranieri che vivono illegalmente in Svizzera, non necessariamente senza un documento d’identità. La maggior parte (circa il 63%) sono giunti nel nostro Paese senza permesso in cerca di un lavoro e di un futuro. Poi ci sono quelli che allo scadere del permesso di soggiorno non hanno lasciato la Confederazione. Infine, i richiedenti l’asilo che si sono dati alla macchia dopo essersi vista negata la domanda. Quattro su dieci sono originari dell’America latina, gli altri provengono da Africa e Asia o da Stati europei non membri dell’UE e dell’AELS. Difficile conoscerne il numero esatto visto che vogliono passare inosservati, tentano di non dare nell’occhio e di condurre una vita «normale». Stando all’ultima stima risalente a sei anni fa, i sans-papiers sono 76mila, residenti soprattutto nei cantoni densamente popolati e nei centri urbani, ambiente che permette loro di uscire dal radar delle autorità. Il tasso più elevato viene registrato a Ginevra con 27 sans-papiers su 1000 abitanti, a Basilea-Città con 22 e a Zurigo con 20. In Ticino, si
6 giugno 2020 a Ginevra: molti sans-papiers in coda per ottenere generi di prima necessità durante la pandemia. (Keystone)
calcola siano il 2 per mille della popolazione residente, nei Grigioni uno su mille. Buona parte trova un impiego nei settori dell’albergheria, della ristorazione, dell’edilizia, dell’agricoltura e dell’assistenza sanitaria. Uno su due lavora in un’economia domestica privata: puliscono casa, si occupano dei figli o di una persona anziana. Poiché molti lavorano in «nero», le loro condizioni lavorative sono precarie. Come «illegali» sono alla mercé dei datori di lavoro che non sono tenuti a rispettare il salario minimo, che decidono se versare i contributi sociali e le detrazioni fiscali. I sans-papiers non lo denunciano certo alle autorità. Proprio per lottare contro il lavoro nero e regolarizzare lo statuto di chi da anni vive illegalmente in Svizzera, Ginevra ha lanciato l’«operazione Papyrus». Nel cantone-città dove si stima vivano e lavorino circa 13mila sans-papiers. Il progetto ha avuto inizio nel febbraio 2017 e si è concluso alla fine del 2018 ed è stato accompagnato dalla Segreteria di Stato della migrazione
(SEM) che ha avuto il compito di esaminare i dossier. Non si è trattato quindi né di un’amnistia né di una regolarizzazione collettiva. Infatti, potevano fare richiesta di regolarizzazione i migranti senza permesso di soggiorno che vivevano in Svizzera da almeno dieci anni (cinque per le famiglie con bambini in età scolastica), integrati, senza precedenti penali ed economicamente indipendenti. Nell’ambito dell’iniziativa è stato legalizzato il soggiorno di quasi 2900 sans-papiers: famiglie con bambini, coppie o persone singole. Inoltre, il cantone ha promosso campagne di sensibilizzazione, ha istituito un servizio di consulenza per chi intende regolarizzare la sua situazione e ha creato un portale dei posti di lavoro vacanti nel settore dell’economia domestica. Nel contempo, ha attuato misure volte a intensificare i controlli nei settori economici particolarmente toccati dal lavoro nero e dal dumping salariale. A operazione conclusa è stato stilato un rapporto di valutazione. Quest’ultimo aveva il compito di ri-
spondere a due interrogativi: la legalizzazione attrae nuovi sans-papiers nei settori economici in cui il lavoro nero è diffuso? I migranti rimangono economicamente indipendenti anche dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno? Gli esperti hanno evidenziato che il progetto non ha richiamato nuovi sanspapiers a Ginevra. Grazie alla legalizzazione si è anzi registrato un aumento delle iscrizioni presso le assicurazioni sociali e delle regolarizzazioni dei rapporti di lavoro. Inoltre, chi temeva che il progetto favorisse il ricorso all’aiuto sociale è stato smentito. Nonostante la maggior parte viva col minimo esistenziale, quasi il 90% è rimasto indipendente economicamente. Alla luce del successo conseguito, l’«operazione Papyrus» è quindi un modello per tutta la Svizzera? Visto che i partiti si sono arroccati su posizioni inconciliabili, il Consiglio federale ha scelto un «approccio pragmatico» e di lasciare tutto com’è. Le lunghe file di indigenti sono sparite a Ginevra e con loro gli «invisibili» e il problema dei sans-papiers. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Quel velo della discordia
Politica e Economia
Votazioni federali Alle urne il 7 marzo per l’iniziativa che chiede il divieto di indossare burqa e niqab in pubblico –
Consiglio federale e parlamento puntano su un controprogetto indiretto, che lascerebbe la competenza ai cantoni Alessandro Carli Un fenomeno marginale, accettabile per Consiglio federale e parlamento; un fatto inammissibile per i contrari all’occultamento del viso. Il velo che nasconde integralmente il volto delle donne è da tempo motivo di discordia tra due diverse correnti di pensiero: quella che le costringe a nascondere la faccia e quella invece che difende la parità dei diritti, in una società occidentale aperta e libera. Anche in Svizzera popolo e cantoni potrebbero vietare il velo, approvando il 7 marzo prossimo l’iniziativa popolare «Sì al divieto di dissimulare il proprio viso», che Berna propone invece di respingere. Infatti, stando all’ultimo sondaggio di Tamedia, questo progetto verrebbe accolto da una chiara maggioranza, ossia dal 65% dei votanti (il 70% in Ticino). I consensi aumentano anche nelle fila del PS e dei Verdi. Comunque vadano le cose, il divieto o meno del burqa e del niqab sul territorio della Confederazione non è destinato a stravolgere le nostre condizioni di vita, anche se per gli avversari l’approvazione dell’iniziativa è un «passo verso la cultura del proibizionismo». Interrogata su un eventuale danno d’immagine per la Svizzera se il progetto fosse accolto, la responsabile del Dipartimento federale di giustizia e polizia, Karin Keller-Sutter, non ha timori: «Ciò non cambierebbe né i destini del nostro Paese, né quelli del mondo». Il tema in discussione non è nuovo: l’iniziativa «anti-burqa» è stata lanciata dal comitato di Egerkingen (SO), presieduto dal consigliere nazionale Walter Wobmann (UDC/SO), e da esponenti di diverse forze politiche come UDC, Giovani UDC, PLR e Unione democratica federale (Udf). Il progetto chiede sostanzialmente di vietare la dissimulazione del viso nello spazio pubblico. Per il comitato – all’origine anche dell’iniziativa sul divieto dei minareti, accolta da popolo e cantoni nel 2009 con il 57,5% di sì – il velo integrale è un simbolo dell’islam fondamentalista che non ha ragione di sussistere in Svizzera ed è l’emblema dell’oppressione delle donne musulmane.
Accettando l’iniziativa, la Svizzera si aggiungerebbe a Francia, Belgio, Austria, Bulgaria e Danimarca Secondo la consigliera nazionale Barbara Steinemann (UDC/ZH), quest’ultime ne soffrono, dato che il velo che copre l’intero corpo le priva di ogni individualità e ostacola la loro libertà di movimento. Il testo dell’iniziativa, oltre al velo integrale, mira anche a proibire in modo esplicito la dissimulazione del viso da parte di teppisti e hooligans. Walter Wobmann ricorda che «la nostra cultura vuole che si mostri il viso nello spazio pubblico. Nasconderlo è contrario all’ordine sociale». Sempre secondo Wobmann, l’iniziativa non è minimamente in conflitto con la libertà religiosa. Del resto, persino la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), in una sentenza del luglio 2014, ha stabilito che la legge francese che vieta di portare il burqa e il niqab in pubblico, in vigore dal 2010, è compatibile con la Convenzione dei diritti umani e non viola la libertà di religione o di opinione. Per la CEDU, il divieto di portare il velo non si basa esplicitamente sulla connotazione religiosa dei vestiti, ma sul solo fatto che nasconde il viso. La Confederazione potrebbe dun-
A portare burka o niqab in Svizzera sono soprattutto turiste. (Keystone)
que presto unirsi agli altri cinque Paesi europei – Francia, Belgio, Austria, Bulgaria e Danimarca – che hanno vietato l’uso del burqa e del niqab. In Svizzera, solo due cantoni hanno adottato disposizioni legislative per vietare il velo integrale in pubblico. Si tratta del Ticino e di San Gallo. Nel nostro cantone, una legge vieta di dissimulare il viso in pubblico dal 1° luglio 2016. È frutto di un’iniziativa popolare accolta nel settembre del 2013 dal 65,4% dei votanti. Prende di mira due categorie di persone: da un canto, i manifestanti che si coprono il viso e, dall’altro, le persone che portano un velo per motivi di appartenenza religiosa. L’iniziativa federale riprende in buona parte il tenore dell’iniziativa cantonale ticinese sul divieto di burqa e niqab. Nel novembre 2014, il Consiglio federale ha giudicato la modifica costituzionale ticinese inopportuna, sebbene conforme al diritto federale. Nel cantone di San Gallo, nel settembre del 2018, il popolo ha confermato con oltre il 66% dei voti la modifica della legge sulle contravvenzioni, modifica che il parlamento cantonale aveva approvato con una maggioranza risicata (57 voti contro 55). Questo testo, entrato in vigore nel 2019, prevede di chiarire di caso in caso se una persona che dissimula il viso minaccia o mette in pericolo la sicurezza pubblica. Infine, il popolo ginevrino ha votato nel febbraio 2019 una legge sulla laicità dello Stato. Essa non sancisce il divieto generale di dissimulare il viso nello spazio pubblico, ma lascia al Consiglio di Stato la facoltà di limitare o vietare di portare segni religiosi ostentatori, onde prevenire disordini gravi dell’ordine pubblico. Inoltre, nelle amministrazioni pubbliche il volto dev’essere visibile. Quest’ultimo aspetto è in linea con il controprogetto indiretto che Consiglio federale e Parlamento hanno adottato per contrastare l’iniziativa
anti-burqa del comitato di Egerkingen, nella consapevolezza – affermano – che la dissimulazione del viso possa talvolta creare problemi concreti. Per il Governo, questa legge federale è intesa a risolvere i problemi in modo mirato: ogni persona è tenuta a mostrare il proprio viso al rappresentante di un’autorità ai fini dell’identificazione, come per esempio negli uffici amministrativi e nei trasporti pubblici. Chi si rifiuta è punito con una multa. Questo controprogetto entrerà in vigore soltanto in caso di bocciatura dell’iniziativa e sempre che non sia contestato da un referendum. A ogni modo, i cantoni restano liberi di spingersi oltre il controprogetto, dato che, dal punto di vista istituzionale, spetta a loro la competenza di regolamentare l’utilizzo dello spazio pubblico. I cantoni possono emanare disposizioni specifiche se ritengono necessario intervenire. Come detto, Ticino e San Gallo hanno già legiferato sul velo integrale. Altri 15 cantoni (GE, VD, FR, NE, JU, BE, LU, SO, BS, AG, ZH, ZG, SH, TG, AR) hanno introdotto disposizioni sulla dissimulazione del viso in occasione di manifestazioni o di avvenimenti sportivi. Di fronte a tante norme che creano incertezza, probabilmente una sola direttiva federale sarebbe più opportuna.
Tra i favorevoli c’è anche una parte della sinistra, in nome della dignità e dell’uguaglianza delle donne Il Consiglio federale ritiene invece che si debba dare la precedenza a un approccio federalista, poiché i cantoni conoscono meglio le attese della popolazione. Per l’Esecutivo, l’iniziativa
è un’ingerenza nella competenza dei cantoni. Anche se il velo integrale può causare un certo disagio, vietarlo a livello nazionale è eccessivo. La Svizzera – ha ricordato la consigliera federale Karin Keller-Sutter – non registra problemi a causa della dissimulazione del viso, anche perché le donne che coprono interamente il loro corpo «da noi non si vedono quasi mai». Stando a uno studio dell’Università di Lucerna, solo 20-30 donne portano in Svizzera il burqa, in voga soprattutto in Afghanistan e Pakistan. Inoltre, chi indossa il burqa o il niqab (lascia scoperti solo gli occhi), lo farebbe di sua spontanea volontà. Una stima del governo parla invece di un numero di casi di velo integrale che oscilla tra 95 e 130. Per Karin Keller-Sutter, l’iniziativa è quindi inutile e non occorre modificare la Costituzione per così poco. Su questo aspetto, i fautori dell’iniziativa fanno però notare che anche il Codice penale annovera reati che si riscontrano raramente, ma non per questo lo si mette in discussione. Il governo rileva ancora che un divieto non migliorerebbe la situazione delle donne, visto che la maggior parte di quelle che portano il velo si trova in Svizzera per motivi turistici e non ha quindi bisogno di integrarsi. Infine, il Consiglio federale non crede al rischio di radicalizzazione legato al porto del burqa o del niqab in Svizzera. L’islam radicale si esprime attraverso altri canali. La sicurezza non risulterebbe rafforzata da questa iniziativa. Per combattere il terrorismo, le Camere hanno recentemente inasprito il diritto penale e le misure di polizia. Ma un’iniziativa che vuole vietare l’occultamento del viso non è anacronistica quando tutti se ne vanno in giro indossando mascherine per proteggersi dal coronavirus? Orbene, i suoi fautori sottolineano che tra chi indossa il burqa o il niqab oppure una
mascherina protettiva ce ne corre. È dunque facile capire che non sono queste protezioni sanitarie a essere prese di mira dal testo. L’iniziativa stabilisce in modo esaustivo una serie di eccezioni al divieto di portare il velo su scala nazionale. È così possibile dissimulare il proprio viso nei luoghi di culto, per motivi inerenti alla sicurezza e alla salute (per esempio il casco integrale da motociclista o la mascherina igienica), alle condizioni climatiche (portare la sciarpa) o alle usanze locali (costume di carnevale). Sebbene non si tratti di un fenomeno molto diffuso, il divieto di portare il velo integrale potrebbe raccogliere i favori popolari, come avvenne nel 2009, appunto con l’iniziativa contro i minareti, allora ritenuti un «simbolo di potere politico-religioso per mettere in atto la legge islamica». Per i sostenitori dell’iniziativa, «il burqa rispecchia correnti fondamentaliste dell’Islam, incompatibili con i valori democratici svizzeri». Jean-Luc Addor (UDC/ VS) sottolinea che questo progetto ha pure un chiaro obiettivo preventivo, visto che «ci troviamo in uno scontro di civiltà e quindi anche in uno stato di autodifesa contro l’islamizzazione dell’Europa e soprattutto del nostro Paese». Ancora i fautori rilevano che «bocciare l’iniziativa equivale a legittimare l’aumento dei casi di donne e ragazze costrette a indossare abiti che simboleggiano l’oppressione e l’alienazione delle donne». Una posizione condivisa anche da personalità di spicco di altre correnti politiche, come l’ex consigliera agli Stati Géraldine Savary (PS/VD) o la consigliera nazionale Marianne Binder (PPD/AG), intenzionate a promuovere la dignità e l’uguaglianza delle donne. Hanno capito che non è credibile affermare principi e dimenticarli con il pretesto che l’iniziativa è frutto della destra conservatrice.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Politica e Economia
In arrivo interessi negativi anche per il risparmiatore medio
Politiche bancarie Il panorama svizzero è molto variegato, ma in genere si tende a penalizzare chi ha più
di 250’000 franchi e non ha altre relazioni con la sua banca
Ignazio Bonoli Annunciando la riduzione di 44 delle sue succursali (3 in Ticino), la maggiore banca svizzera, l’UBS, ha dato il la anche a un’altra operazione importante: l’estensione della deduzione ai clienti degli interessi negativi anche per importi minori di quelli finora praticati. In sostanza, a partire dal 1. luglio, UBS ridurrà l’ammontare dei depositi dei clienti esenti da interessi negativi dagli attuali 2 milioni a 250’000 franchi. Il motivo di tale decisione sta nella previsione che il livello basso dei tassi di interesse in Svizzera si protrarrà per lungo tempo ancora. La deduzione avviene anche presso altri istituti, generalmente per depositi in conto corrente o in conti a risparmio, in assenza di altre forme di investimento presso la propria banca. Data l’importanza di UBS nel settore bancario svizzero, si può ritenere che anche altre banche seguiranno l’esempio, pur applicando norme leggermente diverse. Quasi tutte le banche esonerano da questa deduzione quei clienti che hanno contratto un’ipoteca presso la stessa banca. Tenendo conto di un eventuale debito ipotecario e di investimenti del cliente sotto altre forme, UBS applica un tasso di interesse negativo dello 0,75% sui depositi in franchi e dello 0,6% su quelli in euro, a partire da 250’000 franchi.
L’altra grande banca, il Credit Suisse, finora applicava ancora un tasso di interesse negativo dello 0,75%, a partire dai 2 milioni di franchi di depositi sui conti a risparmio , oppure dello 0,4% su conti correnti a partire da un milione di franchi. La più severa in questo settore sembra essere Postfinance, che applica un interesse negativo dello 0,75% sui depositi a partire da 100’000 franchi, qualora il cliente non abbia altre relazioni con essa. Le banche cantonali, di regola, seguono le linee tracciate dalle altre banche, con variazioni in casi particolari. La banca cantonale di Zugo – ad esempio – applicava in ogni caso interessi negativi a seconda del cliente. Raiffeisen Svizzera non ha preso decisioni particolari al riguardo, ma lascia la facoltà di decidere a ogni singola banca regionale. La mossa della maggior parte delle banche è dovuta all’intenzione di diminuire l’attuale attrattività dei conti a risparmio, sui quali si riesce a ottenere ancora un minimo di rimunerazione. Sui conti correnti, infatti, il livello degli interessi è ormai a zero, mentre sono aumentate le spese. In queste condizioni ci si chiede quali alternative si possano trovare, almeno per non intaccare il capitale. Tra i suggerimenti avanzati dalla stampa specializzata (e non), per i piccoli e medi risparmiatori, vi è quello di
Il semplice conto in banca è sempre meno benvenuto. (Keystone)
distribuire il risparmio su più banche, in modo da non superare il limite per ogni deposito. Oppure versare una parte dei soldi a famigliari. Al limite si può anche trattare con i responsabili della banca. Di regola, chi ha altri rapporti con la banca (deposito titoli o ipoteche) viene esentato da interessi negativi. Un’alternativa può essere quella di versare soldi al terzo pilastro dell’assicurazione vecchiaia. Il 3a è anche favorito fiscalmente e per chi non è assicurato presso una cassa pensione,
la possibilità di risparmio è notevole (34’416 franchi, rispettivamente il 20% del reddito netto). Gli interessi sono pure bassi o negativi, ma si può optare per un conto «3a titoli». Infine, si possono anche fare versamenti volontari alla propria cassa pensione (i cosiddetti acquisti). Resta poi aperta la possibilità di acquistare immobili o di accelerare un ammortamento. Oppure si può conservare denaro contante in una cassetta di sicurezza, magari anche sotto forma di
oro. Quest’ultimo è però soggetto alle oscillazioni del mercato e bisogna anche considerare i costi della custodia. Infine, vi sono altre forme di investimenti sicuri, tra cui le obbligazioni di cassa; rendono anch’esse poco, ma si può operare sulle scadenze, meglio che su un conto corrente. La chiusura di succursali e gli interessi negativi sono comunque segnali di un forte mutamento del settore bancario. La banca tradizionale, vicina anche al piccolo cliente e con servizi praticamente gratis, sta scomparendo. La stessa UBS constata che le operazioni allo sportello diminuiscono ogni anno del 10%, mentre aumentano costantemente le transazioni digitali. Anche la pandemia ha forse dato una mano a questa evoluzione. Se da un lato è fatale che le grandi banche si concentrino sempre più sulla gestione patrimoniale a livello internazionale, pur mantenendo contatti anche con la clientela nazionale, è pure probabile che si aprano possibilità di mercato per un altro tipo di banca, come possono essere le banche cantonali o regionali o il grande gruppo delle Raiffeisen. Anche queste costrette a ristrutturare e concentrare, ma pur sempre con una presenza fisica importante nelle singoli regioni di competenza e, quindi, con il vantaggio di un contatto umano più chiaro con i loro clienti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La meteora Vincenz Due settimane fa, dopo anni di inchiesta e di preparazione, e molte esitazioni per non compromettere l’esito del processo con fughe di notizie intempestive, è stata reso noto l’atto di accusa contro Pierin Vincenz, l’ex CEO della Banca Raiffeisen, un uomo che, come una meteora, ha attraversato, nello spazio di un decennio o poco più, il firmamento bancario svizzero. Andrà così sotto processo quello che, dal popolino, per anni, venne considerato come il solo il banchiere a cui si poteva ancora prestare fiducia. Dagli altari alla polvere! Con Vincenz sul banco degli imputati ci sarà anche il suo socio in affari, Beat Stocker. I due sono accusati di truffa, appropriazione indebita, falsificazione di atti e corruzione passiva ai danni delle società Aduno e Raiffeisen. Rischiano, se condannati, diversi anni di galera.
Vincenz era il CEO della Raiffeisen e Stocker era un consulente del gruppo Aduno, una società che si occupa del commercio con le carte di credito. Essi avevano però anche interessi in altre società che, tra il 2005 e il 2014, con l’intermediazione di Vincenz e Stocker sono state vendute alla Raiffeisen o al gruppo Aduno. Pare che, durante queste operazioni, i due soci maggioravano il prezzo delle società acquistate per poter intascarne una parte. Si sono così indebitamente arricchiti a spese dei compratori. Lo scandalo è venuto alla luce nel 2017, dopo che Vincenz si era appena ritirato dalla banca, quando la Finma, dando seguito a notizie che circolavano negli ambienti finanziari, avviò un’inchiesta contro la Raiffeisen. La stessa venne però lasciata cadere quando Vincenz dimissionò come
presidente del consiglio di amministrazione dell’assicurazione Helvetia e assicurò di non voler più assumere responsabilità nel mondo della finanza. In seguito però egli venne denunciato sia dalla Aduno che dalla Raiffeisen. Finalmente, nel febbraio 2018, si muoveva anche la procura zurighese. Vincenz e Stocker vennero arrestati e passarono diversi mesi in prigione durante la fase degli accertamenti. La preparazione dell’atto d’accusa impegnò le autorità giudiziarie zurighesi per più di due anni e mezzo. Come succede sempre in casi come questo, l’accertamento dei fatti e, soprattutto delle colpe, non è mai semplice. Nelle transazioni incriminate, infatti, i due soci si trovavano spesso sia dalla parte del compratore, sia da quella del venditore, ragione per cui è stato difficile districare la
matassa e chiarire, in modo preciso e con prove, come e chi si era arricchito indebitamente. Aspettando che il processo faccia finalmente chiarezza in questa materia ci si può chiedere perché Pierin Vincenz, che godeva di una retribuzione annuale di milioni, come CEO della Raiffeisen, si sia abbassato a fare operazioni delittuose di questo genere. I giornali delle ultime due settimane abbondano di resoconti sulla mania di spendere e la brama di lusso del banchiere grigionese. E non mancano di illustrarne anche gli eccessi. Per limitarci a un esempio ricorderemo che, a conclusione di ogni tappa della sua carriera, egli comperava una nuova casa, naturalmente sempre più costosa. Dell’ultima, una villa a Morcote che costava 10,5 milioni, nella quale intendeva probabilmente passare gli anni della
pensione, si parlerà anche al processo perché per poterla acquistare Vincenz dovette chiedere aiuto all’amico Stocker. Nel processo si cercherà in particolare di appurare a quale titolo Stocker gli avanzò 2,9 milioni per questo acquisto. Osserviamo da ultimo che nello scandalo troviamo coinvolta, suo malgrado, una banca ticinese. Vincenz, alla ricerca dei soldi necessari per comperare la villa morcotese, si era infatti rivolto anche alla filiale luganese della sua banca. La richiesta deve aver suscitato qualche perplessità tra gli impiegati della filiale perché la stessa la segnalò alla centrale di S. Gallo probabilmente per sapere che cosa fare. Si può sapere quale fu la risposta dei controllori della sede pensando che, a San Gallo, il padrone di casa era proprio colui che aveva sollecitato il prestito.
nessuno conosceva il nome, il volto, la storia. Questo non significa che abbia avuto solo demeriti, anzi: ha chiuso il Paese ai tempi del primo coraggioso lockdown. Ha ottenuto dall’Europa risorse da spendere in Italia. Gli elettori italiani e un domani gli storici daranno il loro giudizio. C’è però un punto da chiarire. Spesso, e anche adesso a proposito di Draghi, si sente dire che da troppo tempo l’Italia non ha un premier o un Governo «eletto dal popolo». Vale la pena ribadire che il concetto di premier o Governo eletto non esiste nella Costituzione, e ogni volta che si è provato a modificarla, le riforme non hanno retto alla prova del referendum. Il popolo non elegge un Governo ma un Parlamento, dove si delinea una maggioranza. Ovviamente un sistema maggioritario consegna agli elettori un potere più grande, che il sistema proporzionale – di fatto vigente – riserva ai partiti. Quindi o si cambiano le regole costituzionali e la legge elettorale (che è legge ordinaria) oppure non ci si può lamentare del premier «chiamato» o «non eletto».
Del resto non si può liquidare Mario Draghi come un «tecnico». L’esperienza fatta in Europa è stata un’esperienza politica. Vissuta nonostante l’ostilità della Bundesbank e con il crescente appoggio di Angela Merkel, la quale con la pandemia si è convinta della necessità di condividere parte del debito con i partner europei. È questa la chiave che consente a Draghi di insediarsi e di fare una politica espansiva, anche se i ceti medio-alti guardano con una certa preoccupazione la riforma «progressiva» del fisco che rischia di inasprire ulteriormente aliquote che già ora sono tra le più alte d’Europa. Draghi però, a differenza di Monti, non ha da Bruxelles il mandato di tagliare, ma di spendere bene, distinguendo tra debito buono, che porta investimenti e posti di lavoro, e debito cattivo, che produce solo assistenzialismo. Dalla crisi escono ulteriormente ridimensionati i partiti. Un po’ tutti hanno cambiato idea repentinamente. Il Partito democratico è passato dalla linea «o Conte o morte» all’appoggio
a Draghi. La Lega ha ripudiato anni di euroscetticismo. Lo spettacolo di questi giorni rivela cosa era ormai diventata la propaganda, alimentata dalle varie macchine social: un cumulo di sciocchezze. Ora destra e sinistra all’apparenza vanno al Governo insieme. In realtà, entrambe sostengono il Governo Draghi. Dovranno smettere, almeno per qualche mese, di considerare l’avversario un nazista oppure uno stalinista. Resta il merito dei problemi. Se arriva un barcone davanti a Lampedusa, che si fa? Lo si accoglie o lo si rimanda indietro? E sulla giustizia come faranno a convivere grillini e berlusconiani? Per Draghi non sarà semplice. Anche lui, più che di una claque, avrà bisogno di un sistema mediatico e di un’opinione pubblica critici. Perché l’importante non è non commettere errori, ma saperli riconoscere. E l’atmosfera di melassa che quasi tutti i giornali e le televisioni stanno costruendo attorno a lui rischia di non aiutarlo, anche perché magari gli stessi opinionisti sono pronti ad azzannarlo alla prima difficoltà.
giunto, tra le rivendicazioni dell’UDC e le ragioni dell’economia. Solo l’anno scorso, con la seconda consultazione (27 settembre), è stato possibile svincolarsi da questa camicia di forza. Si è detto che l’immigrazione è un fenomeno complesso, le cui ramificazioni – scavalcando il perimetro lavorativo – investono l’intera società, le sue istituzioni scolastiche, il sistema previdenziale, la politica degli alloggi, l’associazionismo, l’organizzazione del tempo libero. Anche la «figura» dello straniero è cambiata negli ultimi anni, osservano gli autori di un volume appena uscito nelle edizioni Dadò curato da Rosita Fibbi e Philippe Wanner (Gli italiani nelle migrazioni in Svizzera). Le migrazioni non sono più unicamente unidirezionali, un flusso che in passato aveva origine nelle regioni arretrate della fascia mediterranea per poi dirigersi verso i centri industriali del Nord Europa: l’area di Zurigo, il bacino tedesco della Ruhr, le miniere
del Belgio. I movimenti sono oggi molto più intricati, sia in entrata che in uscita, e non riguardano più soltanto i meno qualificati, le «braccia», tant’è vero che in sociologia la nozione di «straniero» è stata sostituita da quella di «migrante». L’esercito dei migranti è infatti sempre più folto, mobile e diversificato: è formato da coloro che, stanchi di vivacchiare nella precarietà e nell’assenza di prospettive, decidono sia meglio cercar fortuna altrove. Molti di questi appartengono ancora alla forza-lavoro tradizionale, scarsamente scolarizzata, ma negli ultimi tempi sono sempre più numerosi i cosiddetti «expat», neolaureati alla ricerca di sbocchi professionali finalmente appaganti. Sono ragazzi e ragazzi reclutati dai politecnici, dagli atenei, dagli istituti più prestigiosi attivi nel campo delle tecnologie di punta (informatica, ingegneria), della chimica e della medicina. Questi «nuovi italiani» portano con sé un bagaglio ben diverso
da quello che i loro avi infilavano nelle valigie chiuse con cinghie e spago. Anche la lingua rappresenta sempre meno un ostacolo, data l’onnipresenza dell’inglese nel ruolo di esperanto nell’insegnamento e nella ricerca. Siamo dunque in presenza di una mobilità diffusa e continua, che non riguarda solo il Meridione d’Italia, da secoli serbatoio di forza-lavoro da esportazione. Anche il Ticino vede all’opera un movimento simile, seppur numericamente limitato e sulle prime poco appariscente. Sono i giovani che attratti da salari più elevati e da migliori opportunità di carriera decidono di stabilirsi oltralpe una volta conclusi gli studi. Anche questa è «migrazione», micro-capitolo interno della grande storia degli esodi; addii che comunque costringono – per citare il sommo poeta – «a provare come sa di sale lo pane altrui». Anche nell’epoca dei treni superveloci e delle videochiamate.
In&outlet di Aldo Cazzullo Quel Draghi che quasi nessuno voleva Nei giorni del voto di fiducia al Governo di Giuseppe Conte, a Palazzo Madama non ho trovato nessun senatore, tranne un paio più lungimiranti dei colleghi, disposto a fare oppure sostenere il nome di Mario Draghi. E questo nonostante apparisse già allora ben chiaro che fosse la soluzione migliore. Invece appena un mese fa nei palazzi del potere ci si accapigliava per stabilire se un numero sufficiente di «responsabili», «costruttori» o addirittura «patrioti» fosse disposto a puntellare un Governo traballante ma ancora in piedi. La verità è che Draghi tra i parlamentari non lo voleva quasi nessuno, anche se alla fine magari lo voteranno quasi tutti. Il motivo è semplice: i partiti non toccheranno palla o comunque i capi corrente conteranno meno di prima, proprio nel momento in cui ci sono 209 miliardi da spendere. Ma i tecnici arrivano quando i politici falliscono. I precedenti non mancano. Fu così per Carlo Azeglio Ciampi, quando nel 1993 il sistema si stava sgretolando sotto i colpi di «Mani pulite» (una serie di inchieste giudiziarie
che rivelarono un sistema fraudolento e corrotto che coinvolgeva la politica e l’imprenditoria italiana, nota anche come «Tangentopoli); per Lamberto Dini, quando a fine 1994 andò precocemente in pezzi l’alleanza tra Silvio Berlusconi e la Lega che aveva vinto le elezioni a marzo; per Mario Monti, dopo la caduta del Cavaliere nell’autunno 2011. E così sarà adesso per Draghi. Tra i «chiamati», vale a dire tra i tecnici approdati alla guida del Governo per una convocazione dall’alto, non va dimenticato Giuseppe Conte. Se non altro Ciampi quando divenne presidente del Consiglio era da quattordici anni il governatore della Banca d’Italia. Dini era stato direttore generale della Banca d’Italia e ministro del Tesoro. Monti era stato rettore dell’Università Bocconi e il commissario alla concorrenza che aveva schierato l’Unione contro i monopolisti dell’informatica e in prospettiva i padroni della Rete. Draghi è stato direttore generale del Tesoro, governatore della Banca d’Italia, presidente della Banca centrale europea. Di Conte
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Siamo tutti migranti La «questione degli stranieri», nelle sue varie implicazioni e manifestazioni, occupa l’agenda politica elvetica fin dall’Ottocento. La gestione dell’immigrazione ha dato luogo a reazioni che hanno sempre travalicato il contesto produttivo, per allargarsi alla sfera legislativa, sociale, culturale. Per questo Max Frisch non amava l’espressione «Gastarbeiter»; non erano ospiti, serviti e riveriti, gli immigrati italiani, spagnoli e portoghesi che affluivano nel paese, bensì «Fremdarbeiter», lavoratori stranieri assoldati nelle industrie e nei cantieri, negli ospedali e nel settore alberghiero. Una presenza gerarchizzata dalla scala degli statuti giuridici rilasciati dalle autorità in base alle esigenze dell’economia e dei cantoni. Quindi un regime che aveva al suo apice il permesso di domicilio (il più ambìto, sebbene presupponesse un soggiorno regolare e ininterrotto di almeno dieci anni), seguito dal permesso di dimora (annuale), dal
permesso stagionale e dal permesso frontaliero. Era questo un congegno ben oliato, la cui segmentazione rendeva la vita difficile ai sindacati, alle prese con richieste divergenti e che spesso mettevano gli uni contro gli altri autoctoni e stranieri. Accadeva che le parole d’ordine inneggianti alla solidarietà urlate durante il Primo maggio finissero poi, nella quotidianità di fabbrica, per farsi inghiottire da risentimenti xenofobi. La gerarchia dei permessi ha cambiato volto con l’adesione agli Accordi bilaterali 1, rendendo più fluida la libera circolazione delle persone e di conseguenza della manodopera. Questo cammino è stato tuttavia aspramente contrastato, soprattutto in occasione della prima votazione sull’«immigrazione di massa». Il 9 febbraio 2014, come si ricorderà, l’iniziativa spaccò in due il paese, obbligando il parlamento a ricercare un possibile punto di equilibrio, mai del tutto rag-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Cultura e Spettacoli Diritti musicali e business Sono molti i cantanti e i gruppi che hanno venduto i diritti delle proprie canzoni pagina 30
Antigel online Il grande festival multidisciplinare ginevrino ha dovuto reinventarsi per creare un’edizione in streaming
Tra fratello e sorella Nel romanzo di Bruno Pellegrino il rapporto di Gustave Roud con la sorella Madeleine
Lindenberg vs. Clivio Al Museo Villa Pia di Porza Manifolds presenta le opere di Franco Clivio
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Quando nel cuore non c’è nulla
Narrativa Nel nuovo romanzo di Juli Zeh
un mondo ancor più distopico di quello che stiamo vivendo
Luigi Forte Che ne sarà politicamente della Germania dopo l’uscita di scena di Angela Merkel? A raccontarcelo ci prova Juli Zeh nel suo ultimo romanzo Cuori vuoti tradotto per Fazi da Madeira Giacci con un balzo nel futuro e una buona dose di suspence. Con l’aria che tira un po’ dovunque in Europa, fra populismi di vario genere e destre baldanzose, la nascita di un «Movimento dei cittadini preoccupati» (BBB suona l’acronimo tedesco) pronto a smantellare uno dopo l’altro i diritti democratici sotto la guida della nuova cancelliera Regula Freyer, getta molte ombre sul futuro del paese. Eppure la gente sta bene, forse meglio di prima; vive con la testa sotto la sabbia e pensa «che la morale sia un dovere per i deboli, i forti detengono la cura». Situazioni e frasi che proiettano il lettore sulla scena tedesca del 2025 in un thriller politico che richiama le distopie di Orwell e, più recentemente, del francese Michel Houllebecq con il romanzo Sottomissione (Bompiani, 2015) e dell’algerino Boualem Sansal con 2084. La fine del mondo (Neri Pozza 2016), dove un terribile regime totalitario controlla pensieri e azioni di ogni singolo cittadino. La giurista e scrittrice Juli Zeh, nata a Bonn nel 1974, una delle figure più significative della narrativa tedesca di questi anni, usa da sempre il genere noir – come in Un semplice caso crudele – per riflettere su grandi temi come libero arbitrio e responsabilità individuale, giustizia e morale, aprendo non di rado drammatici spiragli sui disastri della storia e le contraddizioni del mondo. Altrove, come in Corpus delicti, una sorta di legal thriller alla maniera di Carofiglio, evoca un regime salutista, uno Stato in cui tabacco e alcol sono tabù, e dove la gente vive in case predisposte contro i microbi. Una vita all’insegna della sicurezza e dell’igiene, apparentemente sana e felice, senza rischi ma anche senza libertà. Nel mondo di Cuori vuoti regna invece una sorta di indifferenza, forse anche di cinica strategia, se si pensa all’attività professionale della protagonista Britta e del suo collega iracheno
Babek, conosciuto casualmente dodici anni prima su un ponte della ferrovia urbana di Lipsia mentre stava forse per mettere fine alla propria vita. Allora era un giovane gay in rotta con la propria famiglia, solitario e poco socievole, e con una sfrenata passione per la tecnologia e l’informatica. Ne approfitta Britta che lo coinvolge in un originale progetto: un servizio di prevenzione suicidi con uno studio a Braunschweig che Babak decide di chiamare il Ponte. Si dividono i compiti: lui sviluppa un algoritmo che riesce a pescare dalla rete gli individui più a rischio, mentre Britta mette a punto una serie di test psicologici e comportamentali per misurare scientificamente la determinazione dei soggetti che vengono inseriti in un programma che prevede dodici fasi. Già a metà strada la maggior parte dei candidati abbandona l’idea del suicidio e torna con coraggio alla vita. I pochi che proseguono sono merce preziosa e redditizia da proporre come attentatori suicidi a organizzazioni internazionali: l’ISIS, ad esempio, o il PKK e l’ecologista Green Power che ritiene che il pianeta sarebbe migliore senza esseri umani. Una strategia che Babek difende con una buona dose di cinismo: «Noi ci limitiamo a fare da intermediari – asserisce –. Siamo fornitori di servizi, non terroristi». Del resto sia lui che Britta ritengono che il Ponte abbia messo fine all’anarchismo terrorista, creando i presupposti per un equilibrio tra le forze, «un bilanciamento fra caos e ordine, tra pulizia e sporcizia». Ottimi propositi e splendidi guadagni. Ma qualcosa sembra andare storto, quando arriva la notizia di un attacco terroristico all’aeroporto di Lipsia sventato all’ultimo minuto. Uno degli attentatori è morto, l’altro è stato catturato. Com’è possibile, se il settore è del tutto sotto il controllo dei nostri due anomali imprenditori all’oscuro di tale iniziativa? Forse c’è qualche altra organizzazione che fa loro concorrenza? Sullo sfondo di una società sempre più manipolabile grazie alle nuove tecnologie comunicative e magari disposta a svendere la propria libertà in cambio di un’apparente sicurezza e di un certo benessere, Juli Zeh trasfor-
La giurista e scrittrice Juli Zeh è nata a Bonn nel 1974. (Keystone)
ma una riflessione politica in un vero e proprio giallo. Ancora una volta riesce a coinvolgere il lettore in un plot che va ben oltre i colpi di scena, perché – futuro a parte – il suo scopo ultimo è riflettere sulle contraddizioni del presente. Quello di Britta scorre alla perfezione fra la sua apparente attività di analista e la vita familiare, l’affetto per il marito Richard e la figlioletta Vera e gli amici Knut e Janina con la loro bambina Cora. Si ritrovano spesso insieme a festeggiare, ma Britta, specie dopo gli ultimi eventi, sembra sempre più aliena, bloccata in un ruolo professionale che annebbia la sua coscienza in bilico fra terapia e iniziazione al suicidio. Forse in questo ruolo e nell’attività stessa del Ponte la scrittrice proietta quell’indifferenza umana che a livello sociale rende sempre più fragile una democrazia.
Certo gli eventi incalzano e nuove figure si affacciano sulla scena. Come la bella e affascinante Julietta che crea nuove dinamiche all’interno del Ponte. E soprattutto il misterioso e ricco Guido Hatz che vorrebbe investire molto denaro nella ditta di Richard, ma in realtà intende mettere il naso negli affari di Britta. Ne segue i movimenti a più riprese fino a scoprire il luogo dove lei, Babek e la giovane Julietta si sono rifugiati temendo di essere inseguiti da una sedicente organizzazione rivale, gli Empty Hearts, i cuori vuoti, come suona il testo di una canzone della stessa Zeh, da lei attribuito alla giovane cantante del 2025 Molly Richter. Parole che in questo inquietante psicothriller, in cui anche il destino di Julietta sarà sacrificato invano, rimandano a una generazione che nel proprio cuore non
racchiude né fede né idee o convinzioni. Britta, che prosegue per la sua strada come un automa, ne ha alcune, che non portano però da nessuna parte se non in un futuro senza speranza. Juli Zeh ci ricorda ancora una volta, in una tesa e serrata narrazione, quanto fragile sia la democrazia e sempre più scarsa l’attenzione verso i veri, profondi valori della convivenza umana. Mentre sullo sfondo risuonano incalzanti e provocatori gli interrogativi della sua canzone: «Che cosa hai fatto allorché tutto questo succedeva? Sei fuggito o sei rimasto?». Bibliografia
Juli Zeh, Cuori vuoti, traduzione di Madeira Giacci, Fazi editore, p. 270, € 18,50.
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Cultura e Spettacoli
Soldi in musica
Diritti musicali Molti cantanti famosi hanno venduto il loro catalogo
a grossi gruppi o fondi d’investimento: una scelta curiosa, ma che ha le sue solide ragioni
Una pietra miliare del noir Fumetti La serie di culto Alack Sinner,
nata dal genio del duo Munoz-Sampayo, ora in versione integrale
Marzio Minoli Ci sono cose che sono talmente belle o romantiche o profonde che spesso sfuggono, nel pensiero comune, alle logiche commerciali, pur essendo parte integrante di un sistema economico che tratta queste creazioni come semplice merce, da comperare e vendere. La musica non fa eccezione. Canzoni che hanno fatto la storia, scritte nell’intimità dei pensieri di molti artisti non sarebbero mai state conosciute se non ci fosse stato qualcuno a metterci dei soldi per inciderle, qualcuno che fosse stato disposto a vendere i dischi di artisti sconosciuti o case discografiche disposte a mettere a disposizione studi e canali di distribuzione. Un sistema complesso e che ci fa chiedere: dopo tutto questo, la canzone, l’opera d’arte, a chi appartiene? O meglio, a chi appartengono i diritti economici? La domanda non è delle più facili e necessiterebbe pagine di concetti tecnici di carattere giuridico per capire come i 30 franchi spesi per un disco, vengano suddivisi tra i vari attori che abbiamo citato in precedenza. Certo l’esempio del disco è anacronistico. Oggi la musica la si scarica sulle varie piattaforme che per pochi franchi mettono a disposizione migliaia di canzoni, ma il disco rimane la quintessenza della musica. Perdonerete questo piccolo vezzo nostalgico. Anche se a dire il vero, il vinile sta tornando di moda. Ma questo è un altro discorso.
La vendita dei diritti sulle canzoni è diventato un fenomeno che fa sempre più gola Diritti su quanto scritto e prodotto dicevamo. Prima di arrivare ai giorni nostri, forse è utile capire che questo tema non è frutto del tempo in cui viviamo. Vediamo velocemente un esempio concreto. Nel 1963 i Beatles hanno finito il loro primo album Please, Please Me. Chi lo pubblicherà? Ecco la Northern Song, società della quale prendono una partecipazione anche John Lennon e Paul McCartney. Nel 1969 uno dei maggiori azionisti vende la sua quota alla britannica ATV Music, la quale acquista il controllo del catalogo dei Fab Four. Anche Lennon e McCartney vendono la loro quota della Northern Song
Yari Bernasconi
I Beatles in un’immagine del 1970. (Keystone)
ad ATV. Da questo momento i Beatles non avrebbero più avuto il controllo delle loro canzoni. Nel 1985 i diritti dei Beatles, assieme a quelli di altri musicisti, vengono acquistati da Michael Jackson, per 50 milioni di dollari. A seguito dei guai finanziari di Jackson, nel 2016 i diritti, valutati a un miliardo di dollari, passano definitivamente a quello che oggi è il Sony Music Group. Ora però Paul McCartney sta tentando di riavere il controllo dei suoi capolavori. Ma come già detto in precedenza, ci sono mille considerazioni giuridiche da fare. Tutto questo per dire cosa? Oggi la vendita dei diritti sulle canzoni è diventato un vero e proprio fenomeno. Ultimo grande nome in ordine cronologico, Bob Dylan, che nel dicembre del 2020 ha annunciato di aver venduto il suo catalogo alla Universal Music Publishing Group, per una cifra tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Prima di lui altri grandi hanno ceduto parte o la totalità dei loro cataloghi. Tra questi Neil Young, Shakira, Bob Marley o Whitney Houston. La domanda sorge quasi spontanea. Perché vendere i diritti su canzoni che sono immortali, che vengono suonate e sentite in ogni angolo del mondo, garantendo un’entrata sicura? Ci sono diversi motivi. Citiamo i più importanti. Il valore di questi cataloghi è cresciuto a dismisura. La musica oggi si ascolta in streaming. Costa poco, è facile da scaricare e nel 2019 questa industria ha raggiunto i 10 miliardi di dollari di ricavi. Il 21% in più rispetto a un anno prima. La piattaforma più famosa, Spotify, oggi conta circa 150 milioni di clien-
ti paganti. Secondo un’analisi del «Wall Street Journal» un catalogo che normalmente genera 500’000 dollari, oggi ne vale 5 milioni. E questo anche perché oggi, una canzone vecchia di 50 anni può essere riproposta facilmente sui social media, facendola tornare in auge e scalare le classifiche. La pandemia ha ridotto le entrate degli artisti. Oggi, come detto, con pochi franchi al mese si possono avere migliaia di canzoni sul proprio telefonino. Quindi una fonte importante di guadagno sono i concerti, dove oltre al compenso, i ricavi maggiori arrivano dalla vendita di magliette e affini oppure pacchetti VIP per assistere all’evento. Tutto questo è fermo da molto tempo. Benefici fiscali. I musicisti, come tutti i lavoratori, vengono tassati su quanto guadagnano. Ma il catalogo è considerato un bene patrimoniale, non un’entrata corrente, e quindi è tassato meno. Vendendo il catalogo, negli Stati Uniti, Bob Dylan pagherà il 20% di tasse. Se avesse dovuto continuare a vivere con i proventi della messa in onda delle sue canzoni, avrebbe pagato il 37%. Ma sembra che il neopresidente USA, Joe Biden, voglia porre fine a questa differenza. Quindi meglio vendere adesso. Ma chi compera questi diritti? Niente di romantico, niente di ideologico. Oltre ai giganti del settore, come i citati Universal Music o Sony Group, ci sono molti grossi fondi d’investimento sempre in cerca di opportunità di guadagno, visto che i tassi d’interesse si situano a livelli talmente bassi che le alternative d’investimento rimangono poche. Sempre la solita musica, insomma.
Per quanto la nostra società (affetta da crescente megalomania) ci suggerisca di diffidare dei superlativi, penso di poter affermare senza imbarazzo che il sodalizio fra gli argentini José Muñoz e Carlos Sampayo è uno dei più importanti della storia del fumetto contemporaneo. Disegnatore classe 1942 il primo, sceneggiatore e scrittore classe 1943 il secondo, Muñoz-Sampayo sono tornati l’anno scorso in libreria con la nuova edizione integrale della serie di culto Alack Sinner, pubblicata da Oblomov Edizioni: oltre 800 pagine divise in L’età dell’innocenza (vol. 1) e L’età del disincanto (vol. 2). Una serie ideata nel 1974 – stesso anno in cui i due autori si conobbero in Spagna – e inaugurata in Italia nel gennaio del 1975 con la pubblicazione de Il caso Webster, su «alterlinus», l’allora neonato supplemento della storica (e tutt’oggi attiva) rivista «linus». Il titolo altro non è che il nome del protagonista, l’investigatore privato disilluso e pessimista Alack Sinner: un nome di una certa significanza, se si considera che sinner corrisponde a «peccatore» o persino «delinquente», e alack potrebbe essere tradotto in «ahimè». Figura comunque memorabile, quella di Alack Sinner, che entra di diritto nel pantheon dei grandi personaggi dei romanzi noir e hard boiled, accanto per esempio a Philip Marlowe. D’altra parte, se la serie di Muñoz e Sampayo è considerata come un piccolo classico è soprattutto perché funge da spartiacque per il genere noir, di cui rivoluziona la narra-
zione attraverso una cura maniacale delle atmosfere – lo sfondo metropolitano è newyorchese – e la formidabile capacità di penetrare nella psicologia dei personaggi, con una prossimità a tratti disturbante (celebre la prima tavola de Il caso Fillmore, uscito nel febbraio del 1975, dove il protagonista è ritratto mentre orina). Alle qualità della scrittura va però ancora affiancato il lavoro grafico di José Muñoz, non a caso considerato come uno dei grandi maestri del fumetto, vincitore nel 2007 del prestigioso Grand Prix de la Ville d’Angoulême. Il suo marchio è l’inconfondibile bianco e nero, forte, marcato, che prende vita dando ai disegni uno spessore e un’emotività davvero inabituali. Uno stile che aveva colpito anche Hugo Pratt, nei suoi anni argentini: quando Muñoz, nel 1972, dopo un periodo difficile (prima economicamente, poi artisticamente), lasciò il Sud America per approdare in Europa, raggiunse un anno dopo – come racconta in un’intervista apparsa su Fumettologica – proprio il grande fumettista italiano, che allora viveva a Parigi: «Gli portai i miei disegni. Gli feci vedere le cose che stavo facendo. “Mugnò! – mi chiamava così – queste tavole non sono male però non ti rappresentano, non c’è personalità! Ti ricordi quello che facevi quando dirigevo Misterix? Lì eri te. Stavi trovando una tua sintesi. Dov’è finito quel segno?”». Ora sappiamo bene che quel «segno» non era andato perso. E che quella «sintesi» avrebbe presto segnato la storia della nona arte. Leggere Alack Sinner per credere (e poi non fermarsi più).
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Cultura e Spettacoli
Antigel 2021lotta per esistere
Festival Pur sperando fino all’ultimo di riuscire a portare in scena almeno qualche
appuntamento, anche Antigel si è visto costretto a inventarsi online Giorgia Del Don All’interno del panorama culturale ginevrino, il festival pluridisciplinare Antigel è sempre molto atteso. Sono infatti nientemeno che venti coraggiosi comuni, dallo storico Carouge fino all’urbanissimo Vernier, passando per il più posh Chêne-Bourg, a partecipare ogni anno alla costruzione di un sogno invernale fatto di beat inquietanti e rigeneranti, come un bagno in un lago ghiacciato, e spettacoli di danza che giocano abilmente con i limiti del genere per dare vita a creazioni inedite e destabilizzanti. A digiuno delle notti senza fine del mitico Grand Central, che ogni anno colonizza emblematici luoghi effimeri pronti a essere demoliti, impazienti di lasciarsi stupire dalla magia dell’arte, dal suo potere catartico e federativo, gli adepti dell’Antigel hanno sperato quest’anno in un miracolo. Malgrado i suoi organizzatori (in primis i suoi co-direttori: Eric Linder e Thuy-San Dinh) abbiano lottato con tutte le loro forze per mantenere vivo un appuntamento immancabile, la situazione sanitaria attuale li ha quasi messi in ginocchio. Diciamo bene «quasi» perché, malgrado tutto, Antigel ha sempre rifiutato fermamente di rinunciare allo spazio che merita all’interno di una società che, privata dei suoi sogni, rischia d’inaridirsi, di restringere pericolosamente i suoi già molto ridotti orizzonti. È quindi all’interno di un labirinto di regole senza fine che il festival ginevrino si è costruito, riuscendo a ritagliarsi uno spazio minuscolo ma importante. Quello che è certo, è che quest’anno la più grande performance di Antigel è Antigel stesso, pensato e ripensato, trasformato e amputato, sofferto ma comunque sempre grandioso. Per la sua XI edizione, il festival ginevrino ha costantemente cambiato pelle tra-
sformandosi in una sorta di manifesto. Senza mai rinunciare alle sue ambizioni artistiche, Antigel si è reinventato senza sosta fino a trasformarsi esso stesso in vera e propria performance. Se in un primo momento gli organizzatori hanno sperato di poter mantenere fisicamente gli spettacoli in luoghi completamente ripensati, è infine in forma virtuale che il festival è stato costretto a esistere, evidenziando paradossi non sempre facili da accettare (perché impedire lo svolgersi di uno spettacolo in un bus itinerante con pochi passeggeri mascherati quando i trasporti pubblici continuano a funzionare normalmente nelle nostre città?). Decisi a non gettare la spugna per dimostrare che la cultura può e deve continuare a lottare anche se attraverso formati inediti e inaspettati, gli organizzatori di Antigel hanno fatto il lutto di spettacoli attesissimi come L’Étang della straordinaria Gisèle Vienne che mette in scena l’opera omonima di Robert Walser con l’attrice francese Adèle Haenel, A Dance Climax della coreografa francese Mathilde Monnier, con gli allievi della Manufacture, o la creazione inedita e inaspettata di Marie-Caroline Hominal e François Chaignaud Duchesses, per concentrarsi sul programma del Grand Central, escogitato dai geniali Motel Campo e SHAP SHAP, in partenariato con Couleur 3, entrato nei salotti in streaming. Dal 5 al 27 febbraio, il Grand Central, mecca delle serate festive di Antigel, che in passato ha invaso luoghi emblematici quali la Halle delle FFS di Pont Rouge o la Caserma des Vernets, si sveste reincarnandosi in forma virtuale. Ogni fine settimana, la crème de la crème dei DJs svizzeri e internazionali entra nelle case degli amanti di sensazioni forti che non temono suoni inediti e potenti, un vero e proprio balsamo miracoloso in un periodo d’aridità culturale sempre più pesante.
Ogni famiglia è infelice a modo suo Netflix Il dramma
alimentato dal sole cocente di Taipei
Alessandro Panelli
La ricercatrice e performer i-vye. (Antigel.ch)
SHAP SHAP, partner storico del festival, ci invita ancora una volta, attraverso le sue serate CENTRAL AMERICA e SOUTH AFRICA, WHAT’S UP? a scoprire artisti decisamente di nicchia come la piattaforma multidisciplinare salvadoregna Ghetto Witchez e il suo universo underground e disinibito o il provocatorio e ultra underground DJ messicano El Irreal Veintiuno. Sul versante sudafricano, è il collettivo Cuss a proporre una selezione altamente coinvolgente del meglio della scena emergente electro-hiphop composta dall’artista e produttrice basata a Cape Town Rosa Bonica e la sua eclettica musica elettronica fatta tanto di suoni solari quanto di aggressioni techno, e dalle gemme musicali di X14, considerato come una delle voci più importanti del panorama della musica elettronica sudafricana. Per quanto riguarda la Svizzera, immancabile il weekend dedicato alla scena ginevrina (GENEVA, WHAT’S UP?) capitanato dall* straordinari* DJ afrofuturista Maïté Chenière aka
Mighty, fondatore/trice di House of Butch Extravaganza. Sotto la sua supervisione, il dancefloor (o il salone di casa) si trasforma in santuario dove emanciparsi e celebrare la ricchezza di corpi multipli e atipici. Artista a tutto tondo, Mighty associa ricerche teoriche sui generi e sulle discriminazioni razziali, musica, performance e video per dare vita a esperienze ibride e liberatorie insieme all’artista e performer ginevrina Ves3mo e alla ricercatrice basata a Zurigo i-vye che, mescolando musica da club e cultural studies dà vita a un mondo transdisciplinare. Tante le proposte musicali che aprono uno spazio di riflessione su quello che la cultura può portare alla nostra società, indipendentemente dal formato in cui si esprime. E se il video si è trasformato in unica arma a disposizione di un settore culturale ridotto ai minimi termini (con risultati a volte davvero sorprendenti), le sale da spettacolo continuano a scalpitare dietro le quinte con la speranza di riprendere presto il posto che da troppo a lungo gli è stato rubato.
A Sun è un film drammatico taiwanese del 2019 diretto da Chung Munghong. Il regista è tra gli autori più apprezzati della nuova generazione di cineasti taiwanesi. Giunto al suo quinto lungometraggio, è riuscito a dar prova di grande versatilità di genere spaziando dall’horror alla black comedy fino al dramma famigliare che caratterizza la sua ultima opera e che lo consacra tra i grandi registi orientali contemporanei. Ispirandosi ai grandi predecessori che hanno portato alla fama mondiale il cinema dell’isola, come il compianto Edward Yang (Yi Yi, Brighter Summer Day), e servendosi di attori di pregevolissimo livello come Yi-Wen Chen (Yi Yi, Brighter Summer Day) Chung Mung-hong mette in scena un’opera dall’indiscutibile potenza artistica in grado di emozionare e intrattenere lo spettatore per tutta la durata del viaggio che trova i titoli di coda dopo ben due ore e quaranta minuti. Protagonista del film è un’ordinaria famiglia che vive nel cuore della città di Taipei. Il padre (Yi-Wen Chen) e la madre (Shu-qin Ke) dovranno fare i conti con l’incarcerazione del figlio minore (Chien-Ho Wu) provocata da un atto intimidatorio esercitato su un coetaneo. Durante la detenzione del figlio, i genitori si troveranno confrontati con una tragedia ancora più grande che li porterà a riflettere sui propri errori.
A chi appartengono le opere d’arte? Politiche museali/1 Sulla scia di un recente fenomeno globale i musei si chinano
sulla legittimità della presenza di alcune opere nelle loro collezioni Marco Horat La questione è complessa e, diciamolo subito, di difficile soluzione: a chi appartengono gli innumerevoli reperti archeologici, etnografici e artistici che costituiscono oggi la ricchezza dei nostri musei occidentali, Svizzera compresa? Del problema nei suoi termini generali, delle implicazioni e delle possibili soluzioni abbiamo parlato con due responsabili di altrettante istituzioni del nostro Paese: Andrea Bignasca, direttore dell’Antikenmuseum di Basilea e Grégoire Mayor, codirettore del Musée d’Ethnographie di Neuchâtel. Tenendo presente anche l’intervento sulla rivista «Archeo» di Louis Godart, accademico e Consigliere per i beni culturali del Presidente della Repubblica italiana. Nefertiti lascia Berlino, da Londra la Stele di Rosetta torna, in compagnia del più celebre busto al mondo, sulle rive del Nilo; la Nike di Samotracia abbandona il Louvre per riguadagnare casa sua. E sarà forse rimossa dal cofano della Rolls-Royce la sua copia in miniatura. Uno scenario di fantasia? Non poi così tanto. Il patrimonio accumulato per secoli nei nostri musei (da papi, prìncipi e umanisti che dal Rinascimento hanno iniziato a raccogliere testimonianze delle civiltà del passato; in seguito oggetti provenienti da paesi con culture altre dalla nostra, esposti nei Cabinets
de curiosités o Wunderkammern), viene oggi messo in discussione. Nel giugno del 1982 Melina Mercouri, ministro della cultura di Grecia, aveva chiesto al British Museum di rendere al paese di origine i fregi del Partenone esposti nelle sue sale e quindi, come scrive Louis Godart nell’articolo sull’ultimo numero di «Archeo», di infine «consentire la riunificazione delle sculture di Fidia al tempio della dea Atena». Apriti cielo. Eppure c’era stato il precedente dei furti di opere d’arte perpetrati dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale principalmente ai danni degli ebrei tedeschi da cui George Clooney trasse il film Monuments Men. In que-
La Nike di Samotracia riprodotta in miniatura sulla Rolls Royce. (Wikipedia)
gli anni si è anche cominciato a discutere sulla provenienza di opere esposte in musei di primo piano d’Europa e America, frutto di acquisti incauti, di furti e saccheggio oppure trafugati da scavi clandestini. Gli Stati e gli organismi internazionali preposti alla cultura non potevano ignorare il problema e hanno messo a punto, con un certo ritardo, una serie di princìpi per controllare questa deriva. La Svizzera, pure coinvolta nei traffici di beni culturali, e indicata anzi da molti come una delle piattaforme più importanti di questo commercio grigio, vi ha aderito solo nel 2005. Negli ultimi decenni le richieste di restituzione a Stati e musei da parte di governi e associazioni varie si sono moltiplicate, ponendo agli addetti ai lavori quesiti importanti. «Alla base di questa situazione c’è senza dubbio un’ingiustizia – afferma Andrea Bignasca – che riguarda l’arte, l’archeologia e l’etnografia. La discussione deve avvenire su tre piani diversi: storico per definire innanzitutto il contesto generale e analizzare le varie modalità di acquisizione dei reperti da parte dei musei stessi. C’è poi un piano giuridico; se parliamo di restituzioni, dobbiamo tener presente che ci sono sì regole internazionali, ma che le leggi cambiano da paese a paese. Infine, ma non da ultimo, c’è da tener presente il piano etico». Si è detto della Seconda guerra mondiale e della Germania. Alla fine
del 2020 a Berlino è stato inaugurato l’Humboldt Forum, enorme centro culturale europeo di 30’000 mq di superficie, situato nella celebre Isola dei musei. Le grandi collezioni in esposizione hanno attirato critiche da parte francese con l’accusa di trascurare il problema della provenienza dei reperti. Macron infatti nel 2017 aveva annunciato che nel giro di cinque anni avrebbe provveduto alla restituzione dei beni culturali trafugati durante il periodo coloniale, cominciando da Benin e Senegal (poche decine di reperti etnografici esposti al Musée du Quai de Branly, finora rimasti al loro posto). Nel Paese non tutti concordano con questa scelta politica, nel timore che la corsa alla restituzione, se altri paesi africani si faranno avanti, finisca per portare alla chiusura di molti musei francesi. E «come la mettiamo con le razzie napoleoniche»? si chiede anche Louis Godart. Perché allora non andare ancora più indietro nel tempo, ribatte Bignasca, fino all’antica Roma, per tracciare la deadline che darebbe diritto alla restituzione dei reperti? «I romani hanno conquistato la Grecia che hanno poi ampiamente saccheggiato, portando nell’Urbe decine e decine di capolavori di scultura classica sottratte ai templi, e solo in base alla legge del più forte». La domanda è: dove vogliamo far arretrare questa linea? Continua
A Sun, una perla di cinema autoriale.
Per quanto la struttura narrativa possa risultare scontata e tediosamente moralista, Chung Mung-hong riesce a mettere in scena tematiche semplici con raffinatezza e delicatezza rare, sequenza dopo sequenza, immergendo lo spettatore in una Taipei pericolosa e spietata che entra esteticamente in dicotomia con la bellezza delle sue campagne e con quel sole cocente che colora gli avvenimenti tragici. A livello di fotografia infatti il film è strepitoso. La scelta di una gamma cromatica molto saturata negli esterni, più scura e monocromatica negli interni, dà vita a quadri viventi mozzafiato che, accompagnati a sontuosi e ben ritmati movimenti di camera, lasciano spazio allo spettatore per concentrarsi su ogni dettaglio mostrato in campo. La colonna sonora condisce perfettamente il minuzioso lavoro di regia, con delle tracce che regalano brividi. A Sun è passato in sordina, divorato dagli algoritmi che prediligono il mainstream. Il film tuttavia affascina e appassiona grazie a una sceneggiatura solida che si riserva lunghi monologhi per trasmettere delle tematiche fondamentali in modo originale, sottile, senza mai dire troppo e senza cadere nel moralismo scontato.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Cultura e Spettacoli
Poesia come staffetta generazionale Poesia La raccolta 1980-2014 è una sorta di «auto-antologia»
in cui è stato l’autore stesso a selezionare i testi
Guido Monti Per fare davvero un punto sulla poesia di Alberto Bertoni, non si può prescindere dal libro Poesie 1980-2014 (pp. 195, euro 12) uscito per l’editore Aragno qualche tempo fa e che ora rileggendolo, passato il momento fluido ed enigmatico di ogni uscita, si va fissando in una precisa fisionomia estetico-contenutistica, che molto dice sulla formazione intellettuale dell’autore.
Alberto Bertoni, rispondendo ai «battiti della sua esistenza», ha fatto della sua vita una vita in versi Poesie formalmente è una auto-antologia poiché lo stesso Bertoni ne ha selezionato i testi ma al tempo, se si osserva bene, il libro ha una sua identità rispetto alle precedenti raccolte, proprio perché non è una mera giustapposizione di materiali, ma selezione attenta degli stessi e loro riposizionamento, si dice in nota: «…secondo un ordine ricreato per questa occasione, dunque non strettamente cronologico, nei singoli capitoli, mentre cronologica rimane la sequenza dei capitoli»; non sono altresì contenute le poesie più volte rieditate negli anni di Ricordi di Alzheimer perché non suddivisibili in parti e quindi non antologizzabili. E nel volume è chiara la traccia a una fedeltà poeticonarrativa che non verrà mai meno, dai primi versi di Lettere stagionali (1996), agli ultimi di Traversate (2014) a visioni illuminate e circonfuse dal solo dato d’esperienza da cui tutto sembra derivare, così lontane quindi dalle inutili astrazioni figurative di tanta scrittura contemporanea. E allora dovremmo chiederci: poesia come destino? E perché il vissuto, di cui tutti gli scrittori appunto vorrebbero cibarsi per poter creare, vira su un individuo anziché su un altro? Possiamo certamente accostare questa riflessione all’uomo Alberto Bertoni, il quale non ha fatto altro per decenni che rispondere ai battiti dell’esistenza, alle sue varie accensioni, reimmettendola sempre con talento nella pagina del binario poetico: «Quel quarto d’ora prima del caffè / e della lezione su Sere-
ni / il quarto d’ora tutto scatti e freni / che chiude in zona Fiera ogni spiraglio / […] / questo quarto d’ora lo trascrivo / dal portico dove il tuo nome / pronuncio al telefono per primo». E il libro ci dice molte cose sull’idea di narrazione per frammenti che dentro vi si va costruendo, ecco difatti esondare tra le pagine anche la passione per la lettura come elemento di fisiologica sopravvivenza, di là delle didattiche, dei magisteri; affiora in molti versi, dove sembra risuonino i grandi del Novecento letterario e poetico quali Saba, Montale, Sereni, Giudici, Gadda. In punta di penna dunque, Bertoni ci fa intendere quanto importante sia la traditio, intesa come passaggio di testimonianza artistica tra generazioni, che certamente tiene su di sé assonanze, echi ma non rinuncia altresì ad assumere, se portata responsabilmente nella traversata dei tempi, nuove significazioni tutte da decifrare: «Non avevamo studiato nessun segno / per riconoscerci, non era necessario / così, al tuo fischio, mi giro e / – Ciao, Mario, com’è / che solo adesso ti fai vivo? / …». E tornando al dato d’esperienza, il suono-tono di Bertoni non è mai solipsistico ma comunitario, si affacciano appunto nella pagina e subito in Lettere stagionali, è chiaro, visi per lo più anonimi, taluni sì conosciuti da cerchie più ampie di persone ma tutti efficacemente parificati nella pagina, in una istantanea vitale e irriducibile del proprio esserci; parificati equamente nella forza enigmatica di un detto, un tic, una gestualità. A capo d’ogni poesia ecco affiorare un mese, un nome, un luogo, e una M con triplo asterisco, invenzione del grande poeta Delfini, a indicare Modena. Nella folta genealogia di conosciuti e sconosciuti, sfilano quindi i nomi di Pier Vittorio Tondelli, Claudio Lolli, Edmondo Berselli ma anche di tal Corradini Vittorio: «… // Parlava roco / e soprattutto poco/il labbro inferiore appena sporto, / … / a raccontare se stesso come uomo / di due guerre, un armistizio / e subito il caos, la catastrofe, il fuoco». E certo l’ulteriore fulcro di questo libro-antologia, è quello del dolore senza scampo patito da alcune figure fondative per la vita dell’autore: la madre ad esempio, condannata da una malattia degenerativa, ma questo trauma-dolore così aperto, dice nel verso sempre oltre il suo mero consistere; si colora magari della tinta tetra
Fratello, sorella e il Mondo
Narrativa Nel romanzo di Pellegrino
il rapporto di Gustave Roud con la sorella del disfacimento organico, ma anche di quella azzurrognola-metafisica affiorante nella sensorialità olfattiva e visiva che gira in certi luoghi-stanze del vissuto. Ecco allora che remote relazioni, riconquistano un nuovo spazio di azione e comprensione per il lettore stesso: «Ma com’è, a mezzanotte passata / cogliere un lampo, / vedere le sorelle Barbolini / far decollare tutti i mobili di casa / … / il tavolo sembrare un’astronave // E poi le piante, la marea di tavolini / ricomposte nell’ordine perfetto /… // Tu lì fermo, circospetto / a presidiare l’angolo segreto / fai l’infermo, inerme, inetto / suscitando il disprezzo / corale, unisonante, tedesco / della sorelle Barbolini / …». E così anche Stefano Tassinari scrittore ferrarese deceduto nel 2011, nel capitolo a lui dedicato ed intitolato Via Crucis è come se tornasse con l’autore a quel dialogo interrotto prematuramente. Ecco nei versi i due amici rimisurarsi in una rinnovata dimensione parallela alla precedente, nell’unico campo di battaglia autentico e degno per ogni donna e uomo: l’amicizia: «Durano poco / sono fatte di cera scadente / le candele della cattedrale / russo-ortodossa di Parigi / Aleksandr Nevskij, il Santo Generale / che nel film di Ejzenštein per esaltare Lenin / è il tuo ritratto uguale // Così te ne accendo una / e ti ripenso, / osservandola il pochissimo che dura / goccia su goccia si consuma / …». Alberto Bertoni ha sicuramente fatto della sua vita, parafrasando il suo grande maestro, Giovanni Giudici, una vita in versi. Questa fedeltà quasi quarantennale oramai alla poesia, è un evento da non sottovalutare, poiché la vita con le sue tragedie, le tante giravolte infelici, potrebbe allontanarci da essa, ma è chiaro che l’autore ha fatto di questa arte una pellicola sottocutanea alla sua vita organica e psichica; cucendola punto su punto tra i suoi indicibili dolori, le passioni travolgenti, le stupende aperture amicali, divenute versi al calor bianco; eccoli in questa antologia, stupefatti e sensibili tutti dentro un senso di precarietà e proprio per questo pieni di identità, vivi. Bibliografia
Alberto Bertoni, Poesie 1980-2014, Torino, Nino Aragno Editore.
Roberto Falconi Gustave oggi pranzerà da solo. Sua sorella Madeleine, prima di uscire, gli ha però lasciato tutto pronto, con un biglietto che riporta le istruzioni per cuocere le patate. Gustave nota che, «con un alessandrino in cui la cesura cade correttamente a metà», Madeleine ha aggiunto che può prendere tre uova se gliene lascia due. Basterebbe questo frammento di piccola quotidianità domestica per cogliere la bellezza del rapporto tra il poeta Gustave Roud (1897-1976) e sua sorella Madeleine, le cui vite sono state raccontate dallo scrittore losannese Bruno Pellegrino in un romanzo giustamente celebrato, e ora disponibile anche in italiano grazie all’eccellente traduzione di Luigi Colombo, con la prefazione di Alberto Nessi. L’autore, che convince soprattutto nelle strategie adottate per rendere opaco il rapporto tra verità storica e manipolazione letteraria, segue i due fratelli per un decennio, dal 1962 al 1972, mettendone in evidenza la comunanza dei tratti, benché declinati nelle diverse sensibilità dei caratteri. A partire dal loro modo di relazionarsi allo spazio, in particolare alla casa, nella quale i due giungono da adolescenti e trascorreranno insieme tutta la loro esistenza. Una casa e un giardino di cui Madeleine si occuperà alacremente e in cui sarà ambientato il film dedicato a Gustave. Uno spazio progressivamente investito dai lutti (la madre, le zie) e che non vedrà nascere (più) nessuno; ma aperto al Mondo soprattutto grazie alle amatissime piante (anche) esotiche che giungono ai due fratelli: le orchidee da Singapore, le mimose e viole di Nizza. Alla scarsità dei toponimi fa infatti da contraltare la precisione della nomenclatura botanica, tanto che si può dire che il romanzo sia costruito su una geografia delle piante, più che dei luoghi. Sulla casa soffia il vento della Storia, che vi entra attraverso le notizie che Madeleine assiduamente legge sul giornale (da Valentina Tereškova, prima donna nello spazio, all’assassinio di Kennedy) e che si mescola alle vicende dei protagonisti. A sottolineare la complementarità tra i due fratelli concorre proprio la dialettica tra vicino e lontano. Madeleine si muove in uno spazio limitato (la casa, le brevi incursioni in città) e giunge solo con la mente a quello (infinitamente) distante (l’interesse per le missioni spaziali); mentre Gustave occupa una spazialità più ampia (i viaggi in Italia della sua giovinezza), ma si concentra ossessivamente sul dettaglio (un germoglio appena spuntato).
Pellegrino segue la quotidianità del poeta Gustave Roud e di sua sorella per un arco temporale di dieci anni
Il poeta italiano Alberto Bertoni. (poesiadelnostrotempo.it)
I due fratelli trovano un altro punto di contatto nell’estraneità a qualunque posa e nella capacità di leggere il Mondo attraverso quello sguardo che sa riconoscere i legami intimi tra le cose, fissandole nel tempo eterno della memoria dell’uomo. Gustave lo mostra nella sua solitudine di poeta lontanissimo dal mondo delle lettere e nella sua programmatica fede a una poetica «rasoterra», per dirla proprio
La prefazione del libro di Pellegrino è stata affidata ad Alberto Nessi.
con Alberto Nessi. Pellegrino insiste, piuttosto, sulla materialità dell’atto della scrittura: la fatica, le procrastinazioni, ma anche l’attenzione con cui il poeta guarda ai supporti e agli strumenti, come l’inchiostro che si allarga tra le fibre della carta o la decomposizione della copertina in pelle di un libro. Ma anche per Madeleine, sin dall’adolescenza, «tradurre le Metamorfosi di Ovidio aveva senso solo se portava ad applicazioni pratiche, curare e guarire». I due sono infatti guidati da un’etica che mi pare si concretizzi prima di tutto nell’infaticabile impegno con cui prendersi cura del Mondo, a cominciare dai piccoli gesti domestici e dalla capacità di accettare la vita assecondandone il fluire. Un’attitudine peraltro già iscritta nella doppia temporalità su cui sono costruiti i nove capitoli che compongono il romanzo: quella della ciclicità dei mesi che tornano e quella della linearità degli anni che passano. Alieno da ogni tentazione reazionaria, Gustave non osserva le stagioni e le piccole variazioni che esse portano per esorcizzare lo scorrere del tempo, ma perché è l’unico modo per accettarne l’ineluttabilità. Anche gli umanissimi rimpianti (le storie di cui Madeleine può solo leggere sul giornale; i corpi nudi degli uomini al lavoro ormai solo fotografati dal fratello) sono sublimati attraverso la loro riduzione alla bidimensionalità della carta (il giornale, la fotografia). Un legame, quello tra Gustave e Madeleine, suggellato nel momento della morte della donna, quando i gesti rimasti incompiuti armoniosamente si ricompongono. Gustave pensa di sostituire la lapide con una fontana che capti l’acqua dalle profondità della faglia che Madeleine (pre) sentiva sotto di sé; Madeleine illumina e sblocca la scrittura di Gustave, di cui finalmente abbiamo anche qualche traccia effettiva. Ora al poeta Gustave Roud non resta che andarsene. E il Mondo, nel momento del trapasso, non può che essere riconoscente verso chi l’ha curato con tanta premura: in quella casa di campagna, ormai disabitata, è rimasta una luce accesa. Bibliografia
Bruno Pellegrino, Laggiù, agosto è già autunno, Armando Dadò, 2020.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 febbraio 2021 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
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Cultura e Spettacoli
Riflessioni intorno allo spazio
Mostre Al Museo Villa Pia a Porza le opere di Erich Lindenberg e di Franco Clivio in dialogo
Alessia Brughera La nascita della fondazione intitolata a Erich Lindenberg si deve alla pittrice Mareen Koch: prestando fede a una promessa fatta all’amico negli anni Sessanta, quando entrambi studiavano all’Accademia di Belle Arti di Monaco, ha deciso infatti di occuparsi del suo lascito artistico. A due anni dalla morte di Lindenberg, vede quindi la luce nel 2008, a Porza, questa istituzione il cui obiettivo principale è custodire e far conoscere al pubblico la produzione del maestro tedesco. Che la fondazione dedicata a un artista nato in Vestfalia e attivo principalmente tra Monaco e Berlino abbia sede in Ticino, è presto spiegato dal fatto che la Koch risiede da sempre nel nostro cantone e per poter svolgere con dedizione il suo incarico di presidente ha fatto confluire qui la nutrita raccolta di dipinti di Lindenberg. Quando nel 2012, poi, in stretto rapporto con la fondazione stessa, è stato creato il Museo Villa Pia, al lavoro di conservazione e di studio dell’opera del pittore si è affiancata l’organizzazione di eventi espositivi che, proprio partendo dai pezzi che costituiscono la collezione, innescano stimolanti dialoghi tra Lindenberg e figure del panorama artistico contemporaneo. D’altra parte l’essenzialità che caratterizza il linguaggio dell’artista non rende difficile dar vita ad accostamenti interessanti in cui la pittura, seppur oggi considerata da molti una tecnica desueta e convenzionale, si confronta in maniera proficua con diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alle arti applicate, dalla grafica alle installazioni. Nella mostra ospitata fino alla fine di marzo nelle sale del museo di Porza, sospesa fino alla fine di febbraio a causa della pandemia, l’abbrivio è dato da un nucleo di lavori di Lindenberg dal titolo Piccoli quadri spaziali, otto serie di dipinti realizzati nel 1999 (presentati per la prima volta al pubblico nella
loro totalità) in cui l’artista medita sul concetto di spazio. In queste opere l’armoniosa scansione delle campiture geometriche e gli accurati accostamenti cromatici generano nitide composizioni astratte dall’impeccabile equilibrio formale che tradiscono la sintesi grafica appresa da Lindenberg negli anni di studio alla scuola di arti applicate di Essen. Di particolare interesse sono le sequenze in cui l’artista celebra alcuni grandi maestri dell’arte catturandone le suggestioni coloristiche e spaziali per poi rielaborarle nel suo peculiare linguaggio capace di compendiare sulla superficie tutti gli elementi in gioco. Ecco allora che nelle opere dedicate a Jan Vermeer si ritrovano le tinte e i tagli di luce dei suoi mirabili interni domestici, in quelle che omaggiano Francis Bacon emergono in primo piano le ambientazioni architettoniche dei suoi potenti ritratti, e, infine, in quelle intitolate a Edward Hopper affiorano gli azzurri delicati e le vedute inerti dei suoi quadri intrisi di solitudine. Così come accade nei dipinti di Lindenberg, lo spazio è protagonista anche nell’indagine dell’artista svizzero Franco Clivio, i cui lavori sono stati accostati nella rassegna di Porza a quelli del pittore tedesco proprio per offrire un valido spunto di riflessione su questo tema fondamentale. Clivio, classe 1942, si forma alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, istituto di progettazione grafica e di disegno industriale che raccoglie, nel secondo dopoguerra, l’eredità di scuole quali il Bauhaus. È qui che l’artista impara a concepire il progetto come un’attività razionale con una precisa finalità, sviluppando quelle abilità che lo hanno fatto diventare un apprezzato designer. Nella sua lunga carriera ha ideato prodotti per numerose aziende, e basta forse citare una delle sue invenzioni più note, la penna a sfera Pico (corta quando deve essere riposta in tasca e lunga quando deve essere impugnata), per capire quanto Clivio riesca
Franco Clivio con uno dei suoi Manifolds. (Lauren Burst)
ad abbinare una solida conoscenza tecnica a una brillante creatività. Lontani dalla funzionalità pratica che contraddistingue la sua produzione nell’ambito del design, i lavori di Clivio esposti in mostra sono ogget-
Si tratta di strutture filiformi, costituite da sottilissimi tubi color oro, che si dispiegano nello spazio originando forme transitorie ogni volta uniche e irripetibili. Frutto di una mente audace e al tempo stesso sistematica, queste composizioni leggere, quasi immateriali, dall’estetica accattivante richiamano da una parte le ricerche dell’arte concreta, finalizzate al concepimento di puri giochi di forma-colore liberi da qualsiasi riferimento figurativo, dall’altra le indagini attuate nel campo dell’arte cinetica, fondate sulla sperimentazione dei fenomeni della percezione visiva e del movimento. L’artista ha emblematicamente denominato questi lavori Manifolds, nel senso di «molteplici», «variegati», proprio perché dal loro dinamismo scaturiscono geometrie che sollecitano l’occhio e la mente dello spettatore, chiamato ludicamente a interagire con l’opera stessa nella creazione di illimitate configurazioni. Con i suoi oggetti dagli effetti metamorfici inattesi, Clivio ci permette di vivere lo spazio in maniera sorprendente, divertendosi a interpellare la nostra capacità di comprensione del suo multiforme e raffinato universo inventivo. Nella saletta che occupa il piano terra del museo, al visitatore curioso è offerta anche la possibilità di visitare una piccola mostra dedicata ad Adriana Beretta. Sono qui radunate alcune opere eseguite durante il lockdown in cui l’artista ticinese, attraverso la scomposizione e la ricostituzione iconica di una casa, medita sulla modulazione dello spazio domestico, un luogo mai come in questo periodo così carico di significati. Dove e quando
ti di recente realizzazione (anche se, come ben documentato a Porza, occupano la mente dell’artista già da diversi anni) destinati a essere del tutto autonomi, raggiungendo così lo status di vere e proprie opere d’arte.
Franco Clivio. Manifolds. Museo Villa Pia, Porza. Fino al 28 marzo 2021. L’orario di apertura è consultabile sul sito del museo: www.fondazionelindenberg.org
Ed è proprio a quest’ultimo che si rifà riprendendo il suo concetto di «idea». Platone ritiene che ci sia una separazione fra due mondi: quello ideale, eterno, invariante, e quello empirico, instabile mutevole. Le idee sono per Platone enti ideali, soggetti autonomi e i «predicati universali, del tipo giusto e bello, costituiscono nuclei di significato unitari e invarianti», scrive Mario Vegetti. Per Bellori l’arte deve tendere all’Idea e non copiare la natura. Cita Cicerone il quale afferma che Fidia scolpendo Giove e Minerva non contemplava nessuna figura ma la bellezza che vedeva nella sua mente. Zeusi ha bisogno di cinque vergini per rappresentare Elena. Leon Battista Alberti sceglie da diversi corpi bellissimi le parti migliori. Per Raffaello dipingere una bellezza richiede vedere molte belle. Far «gli uomini più belli di quello che sono comunemente ed eleggere il perfetto conviene all’idea», chiosa Bellori, «ben può dunque chiamarsi quest’idea perfezione della natura, miracolo dell’arte, providenza dell’intelletto, esempio della mente, luce della fantasia, Sole…». Le Vite contengono una scelta ristretta di artisti: solo dodici, contrariamente a quelle più numerose del Vasari, e un’elaborata descrizione delle loro opere. Sono Annibale e Agostino Carracci, l’architetto Domenico Fontana, Federico Barocci, Caravaggio,
Pieter Paul Rubens, Antoon Van Dyck, François Duquesnoy (il fiammingo), Domenichino, Giovanni Lanfranco, lo scultore Alessandro Algardi e Nicolas Poussin. Le Vite, lunghe e dettagliate, contengono una summa del suo pensiero che mette in contrapposizione il manierismo, col suo lavorar di pratica e il naturalismo, con la sua servile imitazione della natura impersonificato dal Caravaggio, agli artisti che perseguono l’ideale classicista: i Carracci. Colui che perfeziona i concetti di Annibale Carracci e incarna l’idea del Bellori è il suo amico pictor philosophus Nicolas Poussin, francese, amante di Roma e dell’antico. Ed è proprio a Parigi il centro del classicismo che diventa la teoria ufficiale dell’Académie Royale de Peinture et de Sculpture fondata nel 1648 e diretta per un ventennio da Charles Le Brun. La dottrina del grand goût, il gusto ideale, che viene promossa dalla monarchia e dal potente ministro Jean-Baptiste Colbert al quale sono dedicate Le Vite. Poussin incarna questo gusto.
Per un’arte che tenda all’idea Trattati Pietro Bellori fu antiquario, bibliotecario, erudito e pittore Gianluigi Bellei Giovanni Pietro Bellori (Roma 16131696), figlio di un piccolo agricoltore, viene allevato dallo scrittore, collezionista e antiquario Francesco Angeloni. Probabilmente studia pittura con il Domenichino intorno al 1635 e nella sua bottega diventa amico di Giovanni Angelo Canini. L’unica sua opera d’arte che si conosce è una piccola incisione della serie Scherzo dei paesi dello stesso Canini. Alla morte dell’Angeloni eredita la sua grande casa e tutti i suoi beni. Testamento contestato dagli eredi. Inizia quindi a collezionare arte con opere di Tiziano, Tintoretto, van Dyck, Annibale Carracci e Carlo Maratta. È attivo nell’Accademia di San Luca e tiene stretti legami con l’Académie de France a Roma aperta nel 1666. Nel 1689 diventa Membro onorario dell’Académie Royale de Peinture et Sculpture di Parigi come «peintre, conseillerarnateur». È pure antiquario del Papa e dal 1670 commissario delle antichità di Roma e infine bibliotecario e antiquario di Cristina di Svezia. Il suo libro più importante – oltre alla Descrizione delle immagini dipinte da Raffäelle d’Urbino nelle camere del Palazzo Apostolico Vaticano pubblicato nel 1695 – è Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672. Nella prefazione è annunciato un secondo volume
con, tra le altre, le vite di Francesco Albani, di Guido Reni e dell’amico Carlo Maratta, che purtroppo non viene pubblicato. Il manoscritto si trova nella Biblioteca municipale di Rouen ed è stato stampato solo nel 1942. Le Vite si aprono con il suo discorso pronunciato
Pietro Bellori in un ritratto di Carlo Maratta (16251713). (Wikipedia)
all’Accademia romana di San Luca la terza domenica di maggio del 1664 intitolato L’idea del pittore, dello scultore e dell’architetto scelta dalle bellezze naturali superiore alla natura. Testo di riferimento per le future generazioni con citazioni da Plinio, Vitruvio, Platone…
Bibliografia
Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Bologna, Forni editore, 2000.
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Pancetta a dadini TerraSuisse in conf. speciale, 240 g, offerta valida dal 18.2 al 21.2.2021
43 g
20% Sashimi con quinoa e semi di papavero Sélection, ASC
Pomodori a grappolo
Tutti i sushi e tutte le specialità giapponesi per es. Maki Mix, tonno: pesca, Oceano Pacifico occidentale; salmone: d'allevamento, Norvegia, 200 g, 6.95 invece di 8.95, in self-service
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Chips Zweifel alla paprica e al naturale in conf. XXL Big Pack, per es. alla paprica, 380 g, offerta valida dal 18.2 al 21.2.2021
Offerta valida solo dal 16.2 al 22.2.2021, fino a esaurimento dello stock. Alcuni prodotti sono in vendita solo nelle maggiori filiali.
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