Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Nel suo ultimo saggio lo psichiatra Vittorino Andreoli analizza come la tecnologia sta cambiando la famiglia
Ambiente e Benessere Il dottor Alessandro Diana, vaccinologo, pediatra e infettivologo, ci aiuta a fare chiarezza su vaccini e mutazioni del Coronavirus
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 22 febbraio 2021
Azione 08 Politica e Economia La speranza di riformare e rilanciare l’Omc ha un nome: Ngozi Okonjo-Iweala
Cultura e Spettacoli L’avvento dell’orchestra nel ’700 portò con sé un rovesciamento delle gerarchie sociali
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di Giancarlo Dionisio pagina 19
Keystone
Lara super mondiale
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La Svizzera prova a ripartire di Peter Schiesser Avevamo bisogno di prospettive, dopo il lungo autunno-inverno condizionato dal virus. Non bastava più l’obiettivo di una vaccinazione entro l’estate per tener su di morale una società ingabbiata. E il Consiglio federale ce ne ha date alcune, per quanto fragili. Sottolineando che con le prime riaperture previste dal 1. marzo il governo ha deciso di correre «un rischio calcolato». Un rischio che a questo punto, viste le numerose pressioni provenienti dalla società civile e dal mondo economico, il governo non poteva non correre. Con il graduale calo dei contagi in corso, l’opzione «lockdown a oltranza» per timore delle varianti più contagiose del virus non era più sostenibile. Alla fine non è detto che, pur diventando dominanti come ceppo, la britannica, la sudafricana e la brasiliana provochino automaticamente un’esplosione dei casi – perlomeno, non lo si è notato in paesi come l’Irlanda, dove la britannica primeggia. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una «riapertura condizionata»: se a marzo i contagi, le ospedalizzazioni, i decessi, il tasso di riproduzione del virus e quello di positività fra i
tamponi effettuati tornano a salire oltre una certa soglia, verranno ritardate le prime timide riaperture di ristoranti, teatri, cinema, eventi, manifestazioni sportive (pur con limiti di ogni sorta), immaginate dal Consiglio federale dal 1. aprile. Se da parte del Governo a fine estate c’è stata sottovalutazione, al punto da autorizzare i grandi eventi quando l’evoluzione di nuovo esponenziale della curva dei contagi già lo sconsigliava, ora c’è il timore di commettere nuovi errori (e quindi di provocare nuove vittime e danni) ma anche la speranza che le misure di contenimento e la consapevolezza della popolazione evitino che le riaperture promesse ci riportino in breve tempo in un confinamento. Berset lo ha detto: dobbiamo evitare l’effetto jo-jo; non possiamo aprirechiudere-aprire-chiudere. Aggraverebbe uno squilibrio per molti già oggi intollerabile, economicamente e psicologicamente. Ma anche prolungare il lockdown non farebbe che mantenere la società in modalità depressa. Il paradosso è che ogni scelta compiuta porta con sé una potenziale carica di squilibrio, si può al massimo tentare di individuare il male minore (che però tanto minore non è). Un anno dopo l’arrivo del virus, ci troviamo una volta di più in una
fase delicata. Medici, virologi e governanti ci dicono che quanto raggiunto a fatica e al prezzo di enormi sacrifici rischia di essere gettato al vento in poco tempo. E questo timore è forse una delle poche certezze, visto che in questi 12 mesi le evidenze scientifiche hanno suggerito man mano sempre altre risposte ai dubbi che avvolgono questo Coronavirus. Un virus che ci mette pure del suo, con delle varianti che sfidano i vaccini. Anche chi li saluta con favore e speranza non può non prender nota che – per esempio, e per ora soltanto – la variante sudafricana, denominata B.1.351, mette fuori gioco il vaccino di Astra Zeneca, tant’è vero che il Sudafrica, che per la fornitura dipendeva quasi esclusivamente da questo produttore, ha deciso di sospendere la campagna di vaccinazione. Quante altre varianti possono sorgere e far riprendere la lotta dal principio? Sembra un po’ una battaglia contro il tempo: riuscire ad immunizzare al più presto l’umanità, o perché ha superato la malattia o perché si vaccina in tempo, prima che altre varianti del virus rendano vani gli sforzi che stiamo compiendo per domare la pandemia. In conclusione, un’altra certezza: la pandemia un giorno finirà, come tutte nella storia. Ma non ne conosciamo il prezzo finale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Attualità Migros
Una scala per guardare più lontano Formazione La Scuola Club di Migros Ticino e la scommessa sulle competenze di base
Nella transizione storica accelerata dal Covid nella quale ci troviamo, tutto attorno a noi si sta riorganizzando: l’economia globale, la mobilità, la vita urbana, i modelli di lavoro, produzione e consumo, la comunicazione, i sistemi sanitari, l’istruzione. Due grandi driver guidano il cambiamento del mondo che fino ad oggi abbiamo abitato: la digitalizzazione e la sostenibilità. Da un lato, parliamo di un grande salto tecnologico; dall’altro, di un mutamento rispetto ai valori – cioè, rispetto a ciò che è importante per
Scelti per te Italiano Intensivo A1
dal 1. marzo, tutte le mattine 9.00 – 12.30 Fr. 1155.–
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dal 30 marzo, martedì e giovedì 18.00 – 20.00 Fr. 196.– www.scuola-club.ch
noi – che racconta l’affermarsi di una nuova idea di valore. Si tratta di processi che mettono in fibrillazione i grandi sistemi, ma anche la vita delle persone. Basti pensare a come stanno cambiando (e per molti aspetti sono già cambiati) i profili di competenze richiesti da aziende e istituzioni. La direzione di queste trasformazioni è ancora aperta. Sarà un mondo migliore quello che ci aspetta? Difficile rispondere. Ciò che si annuncia potrebbe rivelarsi una grande occasione di sviluppo e prosperità, sempre che si riuscirà a tenere saldo il legame tra crescita economica e sviluppo umano e sociale. Il rischio, infatti, è che le opportunità che questo tempo schiude restino accessibili solo ad alcuni, mentre molti altri resteranno esclusi o solo ai margini del cambiamento. La formazione è sempre stata una leva potente per abilitare le persone. E lo è ancora oggi. Perché la formazione ci rende più consapevoli di noi e del nostro tempo. Ci prepara ad affrontare con maggiore fiducia le sfide che ci attendono, di parlarne i linguaggi, di utilizzarne gli strumenti. Ci consente di partecipare attivamente alla crescita economica e sociale di una comunità, e di interpretare la complessità culturale del mondo. La formazione ci rende più liberi. Semplicemente. Oggi è difficile stare al passo con le trasformazioni in atto, la cui accelerazione sta producendo perfino nuove fragilità, come il crescente divario generazionale creato dalla diffusione del
In tempi di grandi trasformazioni la formazione è lo strumento per affrontare con fiducia le nuove sfide.
digitale. Ed è lì che occorre lavorare. Mantenendo fede alla sua missione, alla Scuola Club di Migros Ticino è per tutti possibile – ora anche online – trovare risposta all’esigenza di accedere alla scala della formazione partendo
Tutto sulla sostenibilità
Ambiente Una rivista tematica, scaricabile dal web, riassume
l’impegno ecologico di Migros Migros è il commerciante al dettaglio più sostenibile al mondo. Gettò le basi di questo primato ben 70 anni fa, quando si impegnò non solo a perseguire la crescita, ma anche a promuovere il bene comune. In questo settore Migros ha già raggiunto molti traguardi. Ad esempio, raddoppiando la vendita sfusa di frutta e verdura bio sono state risparmiate 16 tonnellate di plastica. E dalla fine dell’anno scorso da Migros sono in vendita solo uova da allevamento all’aperto, anche M-Budget. Per illustrare ai suoi clienti i vari settori in cui si articola il proprio impegno per l’ambiente, Migros ha realizzato una pubblicazione specifica, dal titolo Siamo semplicemente sostenibili. La pubblicazione è scaricabile gratuitamente dal web e nelle sue 36 pagine è possibile trovare informazioni precise sul tipo di prodotti a minore impatto ambientale, sui marchi Migros che testimoniano l’impegno ecologico, sulle misure concrete che sono state implementate per il miglioramento di cereali, ortaggi e frutta, sulla lotta contro le emissioni di CO2, sul riciclaggio delle materie prime e su molti altri argomenti. Nelle parole del Responsabile del Dipartimento marketing della Federazione delle cooperative Migros, Matthias Wunderlin, la pubblicazione è
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
dalle competenze di base: sia attraverso le Lingue – che si confermano il settore di punta della scuola – sia con i tanti e vari corsi di Informatica, per arrivare a moduli innovativi sempre più richiesti dai profili professionali emergenti,
come ad esempio l’introduzione alla Comunicazione social. In un tempo di grandi trasformazioni, la formazione è la scala giusta che consente di salire e guardare più lontano.
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e Melectronics permettono ai clienti di ordinare i loro prodotti, che potranno poi essere ritirati nella filiale stessa
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uno dei tanti elementi che mostra la serietà dell’impegno «per trasformare la M arancione in una M verde». La rivista è dunque scaricabi-
le gratuitamente a questo indirizzo: https://generation-m.migros.ch/it/migros-sostenibile/rivista-sulla-sostenibilita.html
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
In attesa della prevista riapertura dei negozi il prossimo primo marzo, dopo la chiusura obbligata decretata nel mese di gennaio dal Consiglio federale, vi ricordiamo che alcuni dei mercati specializzati di Migros Ticino offrono ai propri clienti l’accesso al loro assortimento nella modalità «Click and collect» (il servizio verrà mantenuto anche in futuro). I prodotti dei negozi online Micasa (www.micasa.ch), SportXX (www. sportxx.ch) e Melectronics (www.melectronics.ch) possono quindi essere visionati nel catalogo online e ordinati via web. Le ordinazioni saranno poi avviate al negozio prescelto dal cliente nel momento dell’ordinazione. Il cliente stesso riceverà un sms e un’email a conferma della disponibilità della merce ordinata e dei termini di tempo per il ritiro. Tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Le richieste inoltrate sono evase nel più breve tempo possibile. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Società e Territorio Isole di Brissago Mattia Boggia, capogiardiniere del Giardino Botanico, ci racconta il lavoro della sua squadra durante l’inverno, quando le isole sono chiuse al pubblico
Un importante label per Locarno La città sul Verbano è il primo comune in Ticino ad aver ricevuto la certificazione UNICEF «Comune amico dei bambini» pagina 7
pagina 6
Immersi nel flusso per rigenerarsi La Teoria del Flow formulata negli anni 70 da Mihaly Csikszentmihalyi: una riflessione nell’anno della pandemia pagina 8
L’uso eccessivo delle nuove tecnologie può trasformare una famiglia da un «insieme» a una «somma» dei suoi componenti. (Marka)
Come la tecnologia cambia la famiglia Il caffè delle mamme L’ultimo libro di Vittorino Andreoli è dedicato ai rapporti familiari nell’era del digitale
Simona Ravizza Il caffè delle mamme stavolta inizia con un’autodenuncia: ho letto La famiglia digitale di Vittorino Andreoli (ed. Solferino, 14 gennaio 2021) con la speranza di vedere spazzati via i miei timori, invece ci ho trovato una conferma autorevole. Dunque, d’ora in avanti potrò dire ai miei figli Clotilde ed Enea, 12 e 7 anni, che non lo dice solo la mamma (accusata di essere fuori tempo, romantica e troppo sensibile persino dal marito), ma anche uno psichiatra di fama internazionale, membro della New York Academy of Sciences e autore di numerosi libri di successo. Ovviamente la mia frustrazione è tutta rivolta contro l’uso spasmodico di smartphone e tablet. Una battaglia che voglio vincere a costo di risultare l’ultima dei moicani. Perché, come ben spiega Andreoli, l’incursione incontrollata della tecnologia può trasformare una famiglia da un insieme a una somma dei suoi componenti. Ecco come. Il silenzio. Con il cellulare e l’iPad ormai diventati un’appendice del corpo, lì maledettamente sempre in mano, sulle ginocchia, sul bracciolo del divano, in famiglia piomba il silenzio: «Quando tutto è riversato su ciò che lo smartphone sta dicendo o su ciò che ci
si aspetta di ricevere – scrive Andreoli – c’è un blocco sia dell’espressività verbale che della mimica». Sembra incredibile, ma il fracasso – e perfino i litigi fra fratello e sorella – a questo punto diventano un’opzione migliore! Il mutismo. Il silenzio rischia di trasformarsi in mutismo. Ossia nell’impossibilità di comunicare. «Vi sono i sorrisi, i gesti che sembrano poco significativi, ma che invece sono quelli in grado di trasferire energia e creare un’atmosfera che sa persino di sacralità e di intimità – sottolinea lo psichiatra –. Un ambiente dove ci si sente capiti, perché si capisce l’altro. Per questo servono persone legate affettivamente e non statue che tengono in mano l’ultimo modello di smartphone». La difficoltà di scambiare notizie e racconti. Il passo successivo è «la mancanza di disponibilità a scambiare in famiglia notizie e racconti di quanto è accaduto, la possibilità di dare uno spazio e un tempo ai propri affetti senza essere al contempo collegati al telefonino». Concorrenza sleale. Per Andreoli viene a crearsi una concorrenza tra la rete familiare, ordinaria e persino banale, e quella digitale, che ha la caratteristica di presentare continue novità. Il bisogno che ciascun familiare ha del
telefonino sembra capace di chiudere i canali relazionali con gli altri componenti. Il caffè delle mamme difende, invece, strenuamente il modello di famiglia dove «ognuno deve potersi raccontare, esprimere i propri dubbi, rendere partecipi gli altri della propria gioia e trasmettere talora il proprio dolore». La voglia di abbracci. «Si ha voglia di abbracciare, mentre tutti sono ricurvi sul proprio smartphone, fuori dal mondo»: lo scrive Andreoli, che peraltro è anche un uomo e dunque meno propenso alle smancerie. Finalmente a Il caffè delle mamme posso rivendicare senza vergogna la mia voglia di contatto fisico anche nell’epoca dei contatti virtuali. Del resto, come ben sottolinea lo psichiatra, «è uno sbaglio credere che la famiglia sia un dato scontato e che non abbia bisogno di essere alimentata dalla viva partecipazione dei suoi componenti». Com’è possibile accettare di condividere una stanza con la persona a cui vuoi bene ma che è come non ci fosse? È una situazione che ricorda il supplizio di Tantalo, che non può bere e vede l’acqua a portata di mano. «Soffro e mi indigno di fronte alla possibilità che un ragazzo abbandoni le attenzioni e i sentimenti verso il piccolo mondo in cui si trova per dedicare il proprio tempo alla virtualità
– scrive Andreoli –. Compie un “furto” di funzioni umane necessarie a vivere, riversandosi sulla rappresentazione di un mondo che non esiste. Non è molto diverso da ciò che accade con una droga, con una sostanza cosiddetta stupefacente: una polvere a cui si riduce tutta la ricchezza di un uomo e la bellezza del mondo che abita». Scenario apocalittico. Vittorino Andreoli scrive: «Quando torni a casa e tocchi il mondo concreto, non quello chiuso in un chip, trovi tua madre un po’ stanca, un poco depressa, che ti aspettava perché le raccontassi qualcosa di te, perché ha solo te e i suoi sogni sono fatti di te. E tu, solo a guardarla, vorresti aver sbagliato casa. Allora tiri fuori lo smartphone, vai dai tuoi follower, nella pagina web, e stabilisci relazioni con chi non c’è, in un mondo che non esiste: una fuga allucinata dal luogo dove invece sei necessario, perché lì c’è tua madre che si è prodigata a fare per te l’impossibile anche se non ha potuto prepararti quello che sognava, ma l’ha solo immaginato. In questa macchina dei desideri, del delirio e della finzione non c’era e non trova posto tua madre». A Il caffè delle mamme non ci riconosciamo in questo scenario apocalittico, che pur ha motivo d’essere: siamo mamme realizzate professio-
nalmente e non che devono realizzarsi attraverso i propri figli. Eppure, riunite finalmente a Milano nei tavolini all’aperto di un bar, rivendichiamo con forza il desiderio di non avere una famiglia digitale che sa tanto di requiem degli affetti, ma semplicemente una famiglia. L’obiettivo quotidiano resta quello di convincere i nostri figli che spegnere lo smartphone non vuol dire ritrovarsi staccati dal mondo, chiusi in una sorta di torre, senza finestre sulla vita, bensì iniziare a vivere davvero la famiglia. «Identificarsi nel proprio io oppure nel noi? – riflette Andreoli –. Personalmente, ciò che mi ha sempre affascinato è la terza possibilità, quella di prendere in considerazione gli altri e, di conseguenza, di dedicarmi a loro. Non viene annullato il mio io, ma è coniugato a e per gli altri». È triste, se non drammatica, la tendenza a definire l’assetto della famiglia in cui l’uso dello smartphone è libero come famiglia aperta, tollerante, non autoritaria. Non è la verità: il vero rischio è piuttosto di «una famiglia che si riduce a un luogo occupato da individui che non hanno nulla di comune». E a Il caffè delle mamme faremo di tutto pur di non averla così! Certo, ci vuole un grande impegno. E il rischio di incorrere nell’accusa del marito: «Sei troppo radicale!».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Idee e acquisti per la settimana
Ancora più sostenibilità
Novità Nelle maggiori filiali Migros sono state introdotte le carote e le patate svizzere Demeter
da agricoltura biodinamica
Carote Demeter Svizzera, 1 kg al prezzo del giorno
Accanto ai già molti apprezzati prodotti biologici a marchio Migros Bio e Alnatura, da qualche giorno nei reparti verdura dei principali supermercati Migros sono stati introdotti due ortaggi indigeni certificati Demeter, nella fattispecie le carote e le patate. Il marchio di qualità Demeter è sinonimo di prodotti biodinamici che soddisfano le esigenze più
elevate in fatto di produzione naturale. Chi li acquista sa che dietro ad essi c’è un’agricoltura e un metodo di lavorazione coerente e sostenibile, dove terreno, piante, animali e uomo fanno parte di un grande ciclo e ognuno ne esce rafforzato. Tra i punti cardine di Demeter figurano per esempio l’utilizzo di concime naturale prodotto nella fattoria stessa, il
Patate Demeter Svizzera, 1 kg al prezzo del giorno
divieto di impiegare agenti chimici, priorità alla coltivazione di piante autoctone, un allevamento il più rispettoso possibile degli animali –come il divieto di tagliare loro le corna e l’obbligo di allevare pulcini maschi –, una lavorazione dei prodotti molto delicata e accurata dove sono consentiti soltanto pochissimo additivi naturali. I contadini coltivano i
loro prodotti rispettando il ritmo naturale delle stagioni e del cosmo, tenendo conto anche delle fasi lunari. Demeter è il più vecchio metodo di agricoltura biologica. Il marchio è stato fondato nel 1924 dall’antroposofista austriaco Rudolf Steiner. Gli agricoltori svizzeri che vogliono ricevere questa certificazione devono sottostare alle
severe direttive di Demeter. Tutti i prodotti soddisfano anche i criteri del marchio Bio-Suisse. L’offerta della Migros di prodotti propri Demeter verrà costantemente ampliata a dipendenza della disponibilità. Attualmente sono già ottenibili alcuni articoli nell’assortimento Alnatura. Per saperne di più: demeter.ch
Un taglio tenero e succulento
Attualità Il nodino di vitello è un vero piacere per gli amanti della carne. Ancora meglio se di provenienza svizzera
certificata TerraSuisse. Approfittate questa settimana dell’offerta speciale presso la vostra macelleria Migros di fiducia Il nodino di vitello è un taglio tenerissimo, ideale per la cottura alla griglia oppure in padella. È ottenuto dalla parte della schiena del bovino, e di fatto si tratta di una T-Bone steak di vitello – o bistecca alla fiorentina – anziché di manzo. Anche il gusto è più delicato rispetto a quello dell’animale più adulto. L’osso a forma di T centrale separa il filetto dal controfiletto – o entrecôte –, unendo pertanto due tagli nobili e pregiati. Il nodino di vitello è considerato una vera prelibatezza, povero di grassi e facilmente digeribile. Il modo ideale per gustarne al meglio l’aroma è quello di cuocerlo brevemente a fuoco vivo alla griglia o in padella con un po’ d’olio (ca. 5 minuti), condendolo anche solo con un pizzico di sale e pepe, fino al raggiungimento del grado di cottura al cuore desiderato (ideale 55°C, al sangue). Il nodino di vitello può essere anche cucinato con un buon sughetto: in un tegame con poco burro rosolare la carne condita con un trito di rosmarino e salvia 5 minuti per parte. Salare e pepare, sfumare con del vino bianco e lasciare evaporare. Aggiungere un bicchiere di brodo e continuare la cottura a fuoco
basso per una mezzoretta, coprendo la pentola con il coperchio. Da ultimo, ma non meno importante, questa carne proviene da vitelli allevati secondo i criteri di TerraSuisse. Questo marchio proprio Migros, che si rifà alle norme di IP-Suisse, indica che gli animali provengono da allevamenti particolarmente rispettosi della specie, con la possibilità di trascorrere regolarmente tempo all’aperto. Inoltre essi crescono in gruppo e sono alimentati con latte vaccino e fieno. Nodino di vitello TerraSuisse Svizzera, per 100 g, al banco a servizio Fr. 5.25 invece di 6.60 Azione 20% di sconto dal 23.02 al 1.03
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Idee e acquisti per la settimana
Il Pane Val Morobbia
Pane della settimana Impossibile resistere a questo pane scuro di frumento con segale che rende omaggio
all’affascinante vallata del Bellinzonese 20 anni di successo Alcuni articoli dell’assortimento di Migros Ticino sono diventati nel tempo dei veri e propri prodotti di culto, e uno di questi è sicuramente il Pane Val Morobbia. Introdotto sugli scaffali dei supermercati 20 anni fa, oggi questo aromatico pane è il favorito dalla clientela.
Pane Val Morobbia 550 g Fr. 3.85
Come gustarlo Il Pane Val Morobbia, grazie al suo inconfondibile sapore rustico e alla sua versatilità, si presta ottimamente per accompagnare la cucina di tutti i giorni. È praticamente un must con un bel tagliere di affettati tipici della tradizione ticinese, come prosciutto crudo, carne secca, salame e coppa; è una delizia con i formaggi stagionati e, leggermente tostato, è perfetto per preparare sfiziose bruschette per l’aperitivo.
Lavorazione artigianale Croccante fuori e morbido dentro, il Pane Val Morobbia è fatto con farina di frumento bigia e segale. La lavorazione da parte dei panettieri Jowa è ancora in buona parte artigianale. Dopo un’adeguata lievitazione, viene cotto lentamente in forno. Grazie alla presenza di una buona percentuale di segale nell’impasto, si conserva bene fino a un paio di giorni senza perdere il suo caratteristico sapore. Sostegno al Mulino di Maroggia Attualmente, a causa dell’incendio che ha toccato il Mulino di Maroggia, le farine nostrane non sono ancora disponibili. Le stesse sono state sostituite con farine svizzere di prima qualità, più economiche rispetto a quelle ticinesi. Il prezzo tuttavia non è stato cambiato. La differenza viene interamente devoluta a favore della ricostruzione del mulino. Annuncio pubblicitario
l i è o r e z z i v s o r e h c Lo zuc
. e l i b i n e t s o s u i p % 30
Lo zucchero svizzero contiene soltanto la dolcezza della natura. Inoltre, è molto più sostenibile dello zucchero dell’UE. Due caratteristiche naturalmente convincenti. Radici sostenibili Dalla coltivazione delle barbabietole al prodotto finito, lo zucchero di origini svizzere fatto da radici elvetiche è il 30 percento più sostenibile di quello dell’UE. Questo bilancio ecologico positivo ha molte ragioni: ottimi raccolti grazie a condizioni climatiche ideali, trasporti a corto raggio agli stabilimenti di lavorazione e sfruttamento completo delle barbabietole da zucchero elvetiche. Ad Aarberg e a Frauenfeld, infatti, oltre allo zucchero dalle barbabietole si ottengono anche preziose materie prime come foraggio, biogas e concimi naturali. Per amore della natura. Energia pulita da legno di recupero A partire dalla primavera 2021, inoltre, più del 60 percento dell’energia necessaria per lo zuccherificio di Aarberg sarà ricavato da legno di recupero. A tal fine, nell’area dello stabilimento è stata costruita una centrale a legna modernissima con tecnologie all’avanguardia – si tratta della più grande della Svizzera. Essa fornisce energia elettrica ecologica per la lavorazione delle barbabietole da zucchero ed energia termica sotto forma di vapore bollente per l’ispessimento dello sciroppo di zucchero ottenuto. Le emissioni di CO2, pertanto, vengono ridotte di circa 14 000 tonnellate all’anno. Maggiori informazioni sulla produzione sostenibile dello zucchero sono disponibili sul sito zucker.ch
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Società e Territorio
L’inverno delle Isole
Brissago Sono una squadra di quattro giardinieri: durante la bella stagione
rendono il Giardino Botanico fruibile al meglio per i visitatori, ma è d’inverno che svolgono i lavori più importanti
Sara Rossi-Guidicelli Il mestiere del giardiniere è fatto di occhi, cura e pazienza. Umiltà e solitudine. Me lo racconta Mattia Boggia, capogiardiniere del Giardino Botanico su una delle Isole di Brissago, da vent’anni ormai. La sua squadra è composta da quattro persone, che la mattina si sparpagliano per l’isola e si ritrovano per pranzo. Se d’estate il loro lavoro è più un’opera di manutenzione, svolto con discrezione per non intralciare il visitatore, d’inverno, quando le Isole sono chiuse al pubblico, si fanno i «lavori grossi», come potare, rifare le aiuole, curare, preparare alla nuova stagione.
Notizie in breve I fumetti dedicati ai matematici Sul nostro sito è online da oggi la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie, molto scettica riguardo alla materia, compie grazie agli occhiali virtuali costruiti in laboratorio dal geniale zio Angelo. Ellie incontra così i personaggi che nel passato hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Platone. I fumetti si trovano sul sito www. azione.ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca del sito).
Al Giardino Botanico si fa il giro del mondo attraverso gli ambienti vegetali di cinque regioni con clima mediterraneo «Lo scopo del Giardino è culturale», mi fa notare Mattia, «perché si conservano specie rare e si diffonde la conoscenza delle piante. Come un museo vivente, uno zoo, una riserva naturale dà la possibilità di scoprire e osservare esemplari sconosciuti o di cui conosciamo solo un prodotto lavorato, come la vaniglia, l’agave, l’albero del pepe rosa». La tradizione si deve a Antonietta, figlia illegittima dello zar Alessandro II, che nel 1885 si stabilì sulle Isole di Brissago con il pallino per la botanica e i giardini esotici. Il clima delle Isole di Brissago si rivelò incredibile: quasi subtropicale, cioè temperato e umido, compatibile con la vegetazione del Mediterraneo. La notte infatti la temperatura scende raramente solo di pochi gradi sotto lo zero e anche gli inverni sono miti: le montagne proteggono, l’acqua del lago conserva il calore e lo rilascia piano piano, spesso soffia un’aria mite dal Golfo di Genova. Nel Novecento, le isole divennero poi proprietà e dimora di Max Emden, ricchissimo ebreo in fuga dalla Germania che costruì la splendida villa e si occupò del giardino. Dopo la sua morte, l’isola restò per anni abbandonata e quando fu ritirata da Cantone, Comuni di Ascona, Brissago e Ronco s/Ascona, Lega Svizzera per la difesa del patrimonio nazionale e Pro Natura, gran parte del lavoro botanico fu da rifare. Gli anni sotto la guida scientifica del direttore biologo Guido Maspoli sono stati anni di scambio intenso di semi con i parchi botanici di tutto il mondo. Ora sono presenti circa 2000 specie di piante, da un anno il Parco è gestito dal Dipartimento del Territorio ed è a concorso il posto per la figura del direttore scientifico. «Facciamo il giro del mondo!», invita Boggia. «Abbiamo ricreato gli ambienti vegetali di cinque regioni che hanno un clima mediterraneo, con inverni freschi e umidi e estati calde e secche: bacino del Mediterraneo, Regione del Capo in Sud Africa, costa californiana, coste sudorientali dell’Australia e zona centrale del Cile. Ognuna di queste zone di mondo ha il suo spazio sull’isola, dove secondo la nostra filosofia la pianta deve essere il più libera possibile e coltivata in modo sostenibile. Si riproduce, si propaga, si attornia da ciò che comunemente si chiamano “erbacce”, viene bagnata il meno possibile e d’inverno non viene protetta in modo particolare». Pochissime piante infatti sono trasferite nella serra durante il periodo freddo: alcune di quelle che fanno parte del giardino di piante
Lo scopo del Giardino Botanico è culturale, sono presenti circa 2000 specie di piante. (Stefano Spinelli)
Poche le piante che devono essere trasferite in serra durante l’inverno. (S. Spinelli)
utili, come gli aromi e le erbe di cucina, le spezie, le piante medicinali. La meteo è la prima sfida del giardiniere. «Di fronte a lei siamo impotenti, ma possiamo prevedere alcuni problemi. Altri invece ci arrivano addosso, come l’alzarsi dell’acqua di questo autunno: alcuni metri di isola sono stati sommersi. Avevo appena trapiantato alcune piantine e tutte sono state spazzate via. Quando le acque si sono ritirate hanno lasciato un’immensa quantità di legname che abbiamo dovuto ripulire». Un’altra sfida del giardiniere sono i parassiti. C’è un fungo sull’isola, l’armillaria, contro cui da tempo si batte la squadra di Boggia. Visto che non ci sono cure per debellarlo, durante l’inverno si provvede a ripulire alcu-
ne aree, cambiando la terra, trattando con funghi antagonisti e sostituendo le piante colpite. C’è poi la cura della vegetazione, il suo studio, la vita di ogni esemplare della collezione da valorizzare. Per esempio, un albero vecchio e marcio dentro ha dovuto essere abbattuto («ma poi gli daremo nuova vita, grazie a qualcuno che creerà un’opera d’arte con il materiale rimasto», ci tiene a precisare il giardiniere). Un’altra pianta, del Sud Africa, non sopporta i ristagni d’acqua e allora Mattia ha sostituito la terra sotto di lei con un substrato minerale di lava e pomice drenante. Ma le fatiche si sommano ai regali. In questo periodo ci sono fioriture che possono godersi solo gli addetti ai lavori: vedo una Protea della Regione
Due le sfide principali per team di giardinieri: meteo e parassiti . (Stefano Spinelli)
del Capo che fiorisce proprio in questo periodo, prima della primavera. Oppure un fiore minuscolo immerso fra aghi verdi che mi fa notare il mio accompagnatore: «A volte questi fiori piccoli “da scoprire” sono più belli di quelli sgargianti che si offrono facilmente alla vista». Ecco, perché non mettere qualche pannello informativo oppure perché non creare un’audioguida che racconti la storia dell’isola, la suddivisione in continenti, qualche curiosità, il lavoro che sta dietro a un giardino esotico? Chissà. Magari un giorno. Guido Maspoli a suo tempo sognava un sistema di sfruttamento dell’energia solare per muovere una flotta di catamarani tra la terraferma e le Isole per il trasporto dei visitatori. Tutti progetti che troveranno forse vita nei prossimi anni. Il lato didattico è importante in ogni Giardino Botanico. Qui, oltre all’esperimento di far vivere specie selvatiche dei cinque continenti, si mostrano anche quegli esemplari di piante esotiche che vanno molto di moda ma che pochi sanno come si presentano: avocado, liquirizia, macadamia, curcuma, zenzero, cardamomo, tea tree, canna da zucchero... La vaniglia ha una storia buffa, che fa comprendere come ogni elemento di vita su questa terra faccia parte di un ecosistema: trapiantata qui, è riuscita benissimo a crescere, ma non a riprodursi. Perché? Perché nessun insetto «ticinese» voleva impollinarla. Per far riprodurre la vaniglia, i giardinieri delle Isole la impollinano dunque a mano... Camminiamo. Ascoltiamo il vento, che in ogni fronda suona uno strumento diverso. Mi fa ridere la Tillandsia usneoides, che cresce nella serra, perché penzola dal soffitto come dei capelli turchini di principessa; Mattia ne strappa un pezzetto e lo lancia sulle foglie di vaniglia. «Ecco», dice, «ora qui ricrescerà, si attaccherà alle foglie e da lì riprenderà a penzolare. Non ha bisogno di nulla, si arrangia da sola». Per concludere il giro, e naturalmente per ricominciarlo sognando, c’è il giardino magico. Siamo pur sempre in territorio di misteri, teosofia e balabiott. In questo angolo del Giardino si coltivano piante speciali e segrete: vegetali velenosi, allucinogeni, puzzolenti... Per arrivarci c’è un labirinto e quando ci andrete voi, ci sarà la nebbia. Una nebbia densa che Nicola Colombo, mago di Bellinzona esperto nel riprodurre nubi e lampi, ha creato qui, per ricoprire di mistero l’entrata del giardino magico.
Ambiente: un mestiere da ragazze La Divisione della formazione professionale che fa capo al DECS, il Servizio per le pari opportunità dell’Amministrazione cantonale e la Divisione dell’ambiente del DT organizzano dalla fine di febbraio a metà aprile una serie di incontri e visite legati al progetto «Ambiente: un mestiere da ragazze». Si tratta di appuntamenti che, oltre ad illustrare i diversi mestieri nel settore ambientale, promuovono la parità di genere nelle scelte formative e professionali, con l’intento di contribuire a un futuro sostenibile in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030. Se è vero che da qualche decennio si stanno formando anche ragazze ingegnere, giardiniere, selvicoltrici, riciclatrici e geomatiche e altre figure legate alla valorizzazione del territorio e alla cura dell’ambiente, è altrettanto vero che le percentuali di presenza femminile in queste professioni tecnico-scientifiche sono ancora molto basse. Il primo incontro avrà quindi l’obiettivo di far conoscere al giovane pubblico i diversi percorsi formativi e le possibilità di lavoro legate al settore ambientale. Seguiranno tre appuntamenti che si concentreranno su aree settoriali specifiche: protezione ambientale, edilizia sostenibile, gestione dei rifiuti e gestione delle risorse idriche. Programma
Sabato 27 febbraio ore 10.00-11.45 Territorio, ambiente e risorse naturali: quali possibilità di formazione e lavoro? Mercoledì 3 marzo ore 13.45-14.30 Protezione e risorse: protezione dell’ambiente, della natura e del paesaggio e ingegneria ambientale. Mercoledì 10 marzo ore 13.4514.30 Edilizia sostenibile: efficienza energetica, costruzioni, ristrutturazioni e energie rinnovabili. Mercoledì 14 aprile ore 13.45-14.30 Economia circolare e natura: riciclaggio e gestione dei rifiuti, gestione delle risorse idriche. Gli incontri si terranno via web, tramite la piattaforma online gestita dalla Città dei mestieri della Svizzera italiana, iscrizioni: www.cittadeimestieri.ti.ch.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Società e Territorio
Una città all’ascolto dei giovani
Locarno La città sul Verbano dopo un percorso iniziato nel 2016 è la prima in Ticino ad aver ricevuto
la certificazione UNICEF «Comune amico dei bambini»
Stefania Hubmann Essere amico dei bambini per un Comune non significa solo poterli accogliere con strutture e servizi adeguati. Secondo i principi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, ratificata dalla Svizzera nel 1997 e della cui attuazione si occupa il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) tali diritti implicano la partecipazione di bambini e adolescenti alle decisioni sui temi che li riguardano. È questo uno dei punti salienti nell’attribuzione del label UNICEF «Comune amico dei bambini», che lo scorso primo febbraio per la prima volta è stato assegnato in Ticino. A riceverlo la Città di Locarno, impegnata da alcuni anni in questa iniziativa che comporta un cambio di prospettiva nell’attenzione rivolta alle nuove generazioni. Primo del Ticino e 47° a livello svizzero (compreso il Principato del Liechtenstein) Locarno ha ricevuto la certificazione UNICEF per i prossimi quattro anni. Ciò significa che il label rappresenta sì un traguardo raggiunto, ma soprattutto uno stimolo per concretizzare programmi e misure elaborati lungo il percorso che ha portato al riconoscimento. Alla Città sul Verbano spetterà inoltre un ruolo faro nel permettere a questa distinzione di diffondersi in altri Comuni della Svizzera italiana.
Attraverso dei laboratori bambini e ragazzi di diverse fasce d’età si sono espressi sul proprio ambiente di vita Per Locarno, in particolare per la sua classe politica, l’esperienza della collaborazione con il Comitato per l’UNICEF Svizzera e Liechtenstein è stata contrassegnata da grande entusiasmo unito a un notevole impegno. Lo conferma ad «Azione» Ronnie Moretti, capo del Dicastero socialità. «Chiedere ai bambini la loro opinione su quanto viene messo in atto a livello pubblico nei settori che li riguardano è un concetto conosciuto da decenni, ma realizzarlo alle nostre latitudini rappresenta un passo innovativo che ci procura grande soddisfazione. Attraverso i laboratori organizzati durante il proces-
Con la sua certificazione l’UNICEF incoraggia la partecipazione di bambini e adolescenti alle decisioni che li riguardano, in Svizzera l’hanno ottenuta 47 comuni. (Chris Reist)
so di certificazione le diverse fasce d’età hanno potuto esprimersi sul proprio ambiente di vita, dalla sede scolastica per i più piccoli all’intera Città per gli studenti delle superiori. Siamo stati colpiti dalla pertinenza delle questioni sollevate e dei progetti proposti». Questioni e progetti contenuti nel Piano di azione che impegna il Municipio nella realizzazione di tutta una serie di misure in molteplici settori: edifici scolastici, servizi educativi, luoghi di svago, mobilità, spazi d’incontro. Precisa il nostro interlocutore: «I giovani hanno sollecitato coerenza da parte delle autorità identificando aspetti essenziali sui quali le stesse si erano già chinate senza però giungere a vere e proprie conclusioni. L’ottima collaborazione con UNICEF ed ora questa certificazione ci hanno in un certo senso imposto di affrontare questioni aperte a favore delle giovani generazioni». Come vedono allora bambini e adolescenti la loro Città? Spazi verdi, parchi pubblici per lo svago, sicurezza stradale per pedoni e ciclisti, sono temi trasversali sollevati dalle diverse fasce d’età. Nel Piano d’azione il Municipio esamina necessità e auspici manifestati dai giovani e dalle loro famiglie, evidenziando quanto già attuato, i progetti in fase di realizzazione e quelli che si potrebbero promuovere proprio in sintonia con la visione del label «Comune amico dei bambini». Il conseguimento di questo label è un processo in quattro tappe avviato
nel 2016 ed entrato nel vivo nel 2019. A un questionario allestito e analizzato da UNICEF è seguito nell’autunno 2019 il coinvolgimento di bambini e giovani con i laboratori citati da Ronnie Moretti. Organizzati da Infoclic e dall’allora responsabile del Centro Giovani della Città Patrizia Dresti, hanno visto la partecipazione di 250 tra bambini, ragazzi, genitori e professionisti del settore. Da rilevare, che Locarno su quasi 17mila abitanti conta circa 2400 residenti minorenni, pari al 7%. Terza e quarta tappa sono stati il Piano d’azione presentato nel marzo 2020 e la giornata di valutazione con il supporto di un esperto esterno tenutasi il seguente 16 novembre. Intesa quale strumento di dialogo e riflessione sulla base di esempi concreti, la valutazione – svoltasi in videoconferenza a causa della pandemia – ha confermato ai rappresentanti del Comitato per l’UNICEF Svizzera e Liechtenstein il sostegno e la coordinazione di cui gode il progetto a livello politico e amministrativo. Persona di contatto nel Comune per l’organizzazione è la coordinatrice dei Servizi sociali Giovanna Schmid che da parte sua sottolinea come per stimolare ragazze e ragazzi a partecipare alle decisioni siano indispensabili progetti concreti. Sebbene l’emergenza sanitaria abbia frenato queste attività, il dialogo con i giovani lanciato nel 2019 dal sindaco Alain Scherrer nel discorso di Capo-
danno resta un punto essenziale del programma legato al label. «La principale palestra di prova in questo ambito – spiega Giovanna Schmid – è costituita dalla Rotonda. Permetterà di fornire risposte concrete al desiderio dei giovani di utilizzare questo spazio per attività sportive e ricreative mirate. Le feste già organizzate sono state un’opportunità sfruttata bene e la collaborazione con l’associazione giovanile LOComotiva è destinata a consolidarsi». Un altro progetto sul quale ci si concentrerà nei prossimi mesi è il Centro giovani di cui la coordinatrice è responsabile. Precisa al riguardo: «L’obiettivo è quello di integrare i partecipanti nella conduzione del Centro favorendo l’assunzione di responsabilità, così che in futuro siano eventualmente anche in grado di gestire uno spazio in autonomia. Sempre quest’anno i giovani tra i 18 e i 25 anni saranno non solo oggetto di un’inchiesta sulle loro aspettative, ma anche parte del team che condurrà la medesima. La loro partecipazione si trasforma così in elemento strutturale del progetto, in sintonia con i principi di UNICEF. Un’attitudine che caratterizza anche il più ampio progetto di prossimità al quale stiamo lavorando. Si tratta in questo caso di essere vicino ai giovani nei luoghi dove si ritrovano grazie a operatori che li avvicinano in maniera informale e favorendo un approccio basato su relazioni tra pari. Con il tempo i primi diventano antenne dei
un ratto e una servetta, entrambi caratterizzati da tratti chiaroscuri (non a caso Chiaroscuro è il nome del ratto). Lui è un cattivo «dal cuore spezzato», che a suo modo cerca la luce; lei non è integerrima né troppo acuta, ma anche il suo cuore è stato ferito. Le storie portano luce, ma ne porta anche il perdono, e a volte, per salvarsi, bisogna perdonare i propri padri, e non è certo facile. Questo romanzo è un classico: pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2003, ha subito vinto la prestigiosa Newbery Medal. Era poi uscito in italiano nel 2005, era diventato anche un film nel 2008, ed ora torna in libreria nella nuova edizione Il Castoro. Una preziosa occasione per leggerlo o rileggerlo, e anche per scoprire gli altri capolavori dell’autrice. Senza dimenticare un suo romanzo passato un po’ inosservato ma bellissimo, Little miss Florida (Il Castoro), e sperando che torni presto ad essere pubblicato Il cane più brutto del mondo (Because of Winn-Dixie).
Giulia Binazzi-Chiara Leonardi, Il Club delle Pigiamiste, Giunti. Da 5 anni Nell’epoca attuale, dominata, anche per quanto riguarda i bambini, dal valore dell’efficienza e della prestazione, dove non sembra esserci spazio per la gratuità del tempo «perso» e rivolto a coltivare i giardini interiori del proprio immaginario, ecco che le «pigiamiste», piccole protagoniste di questa serie, assumono una connotazione resistente. Niente judo, calcio, inglese, danza, niente agende scandite da impegni serrati. Solo placide domeniche da trascorrere in pigiama, a casa, giocando a facciamo che eravamo, inventando mondi, insieme. Tra il letto e la scrivania ci può stare un universo fantastico, si può vivere un’impresa da spie segrete, e quelle domeniche saranno placide ma anche avventurosissime. È al tempo «perso» in pigiama che è rivolto l’omaggio di queste bambine (più un bambino, nuovo acquisto del Club), che vivono nello stesso condominio e che s’incontrano ogni domenica mattina. Ma il loro è
secondi permettendo di anticipare situazioni critiche e facilitando la ricerca di soluzioni». Secondo UNICEF è auspicabile che il coinvolgimento di bambini e giovani assuma a lungo termine una forma strutturata. In particolare ribadisce l’importanza di mettere a disposizione canali di partecipazione istituzionalizzati e permanenti come un consiglio, una cassetta delle lettere o un diritto garantito di presentare domande. Dopo aver superato con successo tutte le tappe del processo di certificazione, Locarno continuerà a proseguire sulla via che pone l’infanzia e l’adolescenza al centro dello sviluppo della Città. Mona Meienberg, responsabile a livello nazionale dell’iniziativa «Comune amico dei bambini», sottolinea che «questo impegno è un vantaggio non solo per i diretti interessati, ma anche per le loro famiglie e sovente per le generazioni più anziane. L’adattamento ai più piccoli e ai ragazzi è un compito trasversale che deve essere sostenuto da tutti i settori. A Locarno abbiamo notato un netto cambiamento nella presa di coscienza e nell’impegno di proteggere, promuovere e rendere partecipi dell’avvenire le giovani generazioni». Locarno rappresenta inoltre un esempio stimolante per gli altri enti locali ticinesi nella realizzazione dei diritti dell’infanzia sul piano comunale. «Con la Città di Locarno disponiamo di un primo faro in termini di adattamento ai bambini e ai giovani in Ticino e speriamo che questo carisma motivi i Comuni ticinesi a investire maggiormente in queste fasce di età», dichiara da parte sua la direttrice generale del Comitato per l’UNICEF Svizzera e Liechtenstein Bettina Junker. Un appello già raccolto da Lugano, che ha ultimato la prima fase del progetto, e da altri Comuni in contatto con Locarno per raccogliere informazioni. Considerando l’iniziativa «Comune amico dei bambini» un processo di miglioramento costante a favore delle nuove generazioni, il Comitato per l’UNICEF Svizzera e Liechtenstein e la Città di Locarno auspicano il diffondersi sul territorio cantonale di queste esperienze e la loro messa in rete. Gli scambi costituiscono un arricchimento reciproco, agevolano l’applicazione sistematica dei principi a favore della gioventù e più in generale contribuiscono a promuovere il cambiamento culturale che questi principi sottintendono.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Kate Di Camillo, Le avventure del topino Despereaux, Il Castoro. Da 9 anni Kate Di Camillo è una delle più grandi scrittrici per ragazzi. E non è un’iperbole. Ha la capacità di creare delle trame che ti tengono incollato al libro, raccontate con una cura notevole per le parole. Inoltre i suoi romanzi, sotto uno strato di delicatezza, che è il primo ad apparire – anche perché i suoi personaggi sono spesso topini, coniglietti di peluche, cani brutti e adorabili – hanno un’intensità drammatica fuori dal comune, e parlano di quanto la vita possa infliggere ferite. Ma anche di quanto per queste ferite si possa trovare un balsamo, prima di tutto in noi stessi. E poi nelle storie. «Mi piacerebbe che tu pensassi a me come a un topo che ti bisbiglia una storia, questa storia, mettendoci tutto il cuore; e che te la sussurra all’orecchio per salvarsi, e salvare anche te, dall’oscurità». Sì, le storie sono luce, lo dice l’autrice al lettore, al quale costantemente si rivolge durante la narrazione, per
accompagnarlo e sostenerlo, soprattutto nei transiti dove il male esercita il suo potere più oscuro. E che le storie siano luce lo sa bene il topino Despereaux, eroico protagonista di questa storia. Un eroe assoluto, questo topino di pochi grammi dall’animo puro e cavalleresco, che non esita a scendere nel buio delle segrete del castello, abitate dai terribili ratti e dai laceranti lamenti dei prigionieri, per salvare una principessa ragazzina. Il coraggio di Despereaux domina la vicenda, ma anche altri personaggi campeggiano in queste potenti pagine: ad esempio
un tempo importante, proprio perché non utilitaristico ma vitale, imprescindibile per crescere davvero. Per nutrire il pensiero simbolico, la creatività, per costruire risorse interiori a cui attingere tutta la vita. L’idea del Club delle Pigiamiste era venuta alle autrici già nel 2016, prima dell’isolamento a cui il Covid ci ha costretto, e in un’epoca in cui le agende dei bambini erano forse più piene. Ma oggi acquista un senso ancor più interessante, rivalutando proprio quel tempo da trascorrere in casa, e trasformandolo da «costrizione» a occasione per nuovi orizzonti fantastici di libertà.
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Società e Territorio
Immersi nel flusso per ritrovare l’armonia Psicologia Nell’anno della pandemia una riflessione sulla Teoria
Telelavoro dei genitori e paura del contagio sono le principali cause della diminuzione di richieste di babystting.
del Flow formulata negli anni 70 da Mihaly Csikszentmihalyi
Alessandra Ostini Sutto Sono quelle situazioni, di cui ognuno di noi ha esperienza, in cui ci siamo immersi completamente in un’attività, felici di dedicare ad essa tutta la nostra energia, dimenticandoci dello scorrere del tempo e di ciò che abbiamo attorno. Situazioni in cui mente e corpo si sincronizzano, fondendosi con l’attività stessa. Che si tratti di scrivere, ricamare o fare sport, la sensazione è la stessa. Di questo spazio in cui si è attivi e vitali, motivati e coinvolti, senza ansia né stress, abbiamo tutti bisogno. Alcuni lo definiscono «zona», in psicologia si parla piuttosto di «flow» o «flusso».
Il «flow» è una risorsa: essere assorbiti da qualcosa che dà piacere e soddisfazione è fonte di rigenerazione La Teoria del Flow, o dell’esperienza ottimale, è stata formulata nel 1975, dallo psicologo americano Mihaly Csikszentmihalyi, il quale, a partire dagli anni 70, svolse una serie di ricerche sul «flusso di coscienza» come fenomeno riscontrabile in determinate condizioni di operatività. Questo suo interesse nasce da uno studio effettuato sulla creatività, durante il quale egli rimase colpito dall’osservare come l’artista, quando reputava che la sua creazione procedesse bene, persistesse nel lavoro senza sosta, ignorando fame, fatica e disagio. Da qui la volontà di capire questo aspetto di motivazione intrinseca, o autotelica, dell’attività stessa, dello svolgere lavori che premiano da sé e per sé, a prescindere dal prodotto finale o da rinforzi estrinseci. Parallelamente, il flow teorizzato da Csikszentmihalyi è definito come «uno stato in cui la persona si trova completamente assorta in un’attività per il suo proprio piacere e diletto, durante il quale il tempo vola e le azioni, i pensieri e i movimenti si succedono uno dopo l’altro, senza sosta». La scelta del temine deriva dagli stessi pazienti dello psicologo, i quali, durante i colloqui, descrivevano queste esperienze utilizzando la metafora di una corrente d’acqua che li trascinava. Lo stato di flusso non si limita però ad un’esperienza gratificante. Per entrarvi, occorre sacrificare le risorse che riserviamo all’attenzione periferica rivolgendole ad un’attenzione centrata; un «sacrificio» che si traduce in un benessere emotivo. Un’altra condizione basilare, secondo l’autore, è la percezione di sufficienti e appropriate opportunità per l’azione («sfide») da parte dell’ambiente e, corrispettivamente, di personali adeguate capacità
di agirvi («abilità»). In altre parole, è più probabile che l’esperienza del fluire si manifesti quando le nostre capacità si attestano al livello richiesto dal compito, che non ci deve risultare né troppo facile né troppo complesso; in questo senso si tratta di uno stato ottimale. Vi sono poi altre caratteristiche comuni alle esperienze di flusso, sebbene non debbano necessariamente essere presenti tutte per accedervi. Innanzitutto la presenza di un obiettivo preciso sul quale potersi concentrare. Si crea così un sentimento di controllo sulla situazione, il quale consente di agire senza sforzo né paura del fallimento. In questo stato in cui coscienza e azione si fondono, l’ego svanisce; sparisce la preoccupazione per la personalità e c’è una perdita della consapevolezza di sé. Tutta l’energia fisica e psichica è nella realizzazione del compito. Questo genere di esperienza si può provare in svariati ambiti, anche comuni e quotidiani. Gli esempi sono molteplici: la nonna che lavora a maglia, il base jumper carico di adrenalina, il chirurgo che opera, ecc. Alcuni sono più parlanti di altri: «Tra le attività all’aperto, l’arrampicata richiede sicuramente uno stato della mente di questo tipo. Cercare la presa sulla montagna, dove infilare le dita, i piedi, richiede infatti un’attenzione completamente focalizzata su quello che si sta facendo. Non è una condizione né troppo facile, né troppo difficile, ma include comunque la sfida verso un obiettivo», spiega Angela Andolfo Filippini, psicologa e psicoterapeuta, con studio a Breganzona. Altro esempio che merita di essere citato è quello dei bambini che giocano: «Se stanno, per esempio, costruendo un drago con i Lego e l’adulto chiama perché la cena è pronta, non è che non rispondono perché non sentono o sono distratti, ma proprio perché sono in uno stato di flow, dove tutta l’attenzione, lo sforzo, la consapevolezza sono orientati verso quel gesto che li cattura completamente – aggiunge Angela Andolfo – si tratta di uno stato che tutti possiamo sperimentare se ci dedichiamo ad attività che per noi sono importanti e piacevoli e che richiedono la nostra totale presenza in quello che stiamo facendo». Quando svolgiamo un’attività che ci appassiona, non necessariamente raggiungiamo questo stato di flow; qual è quindi il confine? «Come dice l’autore, il flow corrisponde al momento in cui tutto scorre senza sforzo e in cui si è completamente in quello che sta accadendo. Il confine penso allora che sia proprio il momento in cui tutto il resto scompare – commenta Angela Andolfo Filippini – è lo stesso stato di piena consapevolezza che si raggiunge, per esempio, con la meditazione o con la Mindfulness, di cui oggi si parla tanto».
Il «flusso»è uno stato paragonabile a quello dei bambini quando giocano. (Marka)
La differenza sta nel fatto che nel caso del flow questa condizione sia legata allo svolgimento di un’attività. «Da un certo punto di vista, il flow è uno stato dissociativo della mente, nel senso che è qualcosa che ci separa da tutto il resto – afferma la psicoterapeuta – ma noi con questo resto dobbiamo per forza collegarci. Riprendiamo l’esempio del bambino. È chiaro che non si può lasciare un bambino completamente assorbito dal “suo mondo” per tutta la giornata». Il flusso non è quindi auspicabile come stato duraturo, perché in tal caso non si sarebbe più raggiungibili dagli altri. «Va trovato un corretto equilibrio tra questo benefico stato della mente e un sano rapporto con il mondo circostante», commenta Angela Andolfo. Attualizzando quanto fin qui detto, il flow può essere visto come una risorsa in una situazione quantomeno particolare come quella vissuta, tra alti e bassi, nell’ultimo anno. «Stiamo vivendo una situazione di limitazioni, di ritiro, di frustrazione dovute alla pandemia. L’essere assorbiti da qualcosa che dia piacere e soddisfazione diventa un punto di forza perché fonte di rigenerazione – dice al riguardo la psicoterapeuta – a monte, è necessario prendere coscienza che tutti noi abbiamo una capacità di adattamento straordinaria che ci permette, appunto, di saperci adattare anche a delle situazioni che in certi momenti ci possono apparire soverchianti. E che abbiamo, per la nostra stessa natura, la capacità di accedere a delle risorse tra cui il flow, così come l’abbiamo spiegato». Che ognuno quindi si interroghi per scoprire che cosa in questo momento gli stia dando questa soddisfazione intrinseca. «Spesso non c’è bisogno di andare a cercare chissà dove», aggiunge Angela Andolfo. C’è chi ritiene che la capacità di raggiungere questo stato della mente sia direttamente proporzionale all’età. «Se consideriamo la vecchiaia all’interno del ciclo vitale, ragionando cioè in termini del tempo che resta, appare evidente come lo svolgere attività che portino ad una soddisfazione intrinseca risulti ancora più importante in questa fase – spiega la psicologa – la maturità in fondo è anche questa libertà, il fatto cioè di poter svolgere delle attività che piacciono, senza la necessità di dover dimostrare qualcosa». Oltre a quanto fin qui visto, l’esperienza ottimale teorizzata da Csikszentmihalyi mette in moto le potenzialità dell’individuo: «La totale armonia con quello che si sta facendo offre la possibilità di accrescere le proprie capacità, mettendosi in gioco, testando e imparando nuove competenze, e la propria autostima», scriveva a tal proposito il padre della Teoria del Flow. Quando è nel flusso, l’individuo funziona infatti a pieno delle proprie capacità. Imparare a cogliere opportunità di esperienze ottimali porta quindi numerosi vantaggi. A quelli appena citati va aggiunto il peculiare contributo nel dotare di valore l’esperienza che si sta vivendo. «Da questo punto di vista, lo stato della mente di cui stiamo parlando ha a che fare con una ricerca di senso da dare alla propria vita – commenta Angela Andolfo – a tal proposito, l’autore insiste sul fatto che quando riusciamo a raggiungere uno stato che ci permette di essere delle persone soddisfatte e gioiose, le quali individuano un significato nella loro vita, tutto ciò debba poi venir speso nella relazione con il mondo, per esempio nei rapporti interpersonali, nel lavoro, nella comunità. Così, questa condizione diventa una forma di ingaggio nella vita di tutti i giorni».
Meno lavoro per le baby-sitter
Covid Tra gli effetti della pandemia c’è anche
una diminuzione delle richieste di accudimento Guido Grilli Il lavoro femminile appare uno tra gli àmbiti più colpiti dalla pandemia. A dura prova sembrano essere poste soprattutto le donne che si dedicano alla cura degli altri. E dire che nel presente le richieste in questo settore dovrebbero conoscere un’impennata. Invece, pur nel bisogno, per il comprensibile e legittimo timore di essere contagiati dal virus, molte persone rinunciano ad aiuti e collaborazioni ai quali prima facevano riferimento. Ne sa qualcosa Michela Cristinelli, 46 anni, ideatrice e fondatrice di un originale servizio di babysitting, denominato Tata Volante, attivo in tutto il Ticino 7 giorni su 7, 24 ore su 24, in grado di prendersi cura in qualsiasi momento di bambini da 0 a 12 anni. L’associazione, con sede a Lugaggia, in Capriasca, conta una quarantina di baby-sitter – da mamme con esperienza, a semplici appassionate, a infermiere pediatriche, a educatrici. E ha da poco tagliato il traguardo dei dieci anni di attività. Eppure, «con l’arrivo del virus, tante famiglie si sono allontanate per paura. Le chiamate si sono dimezzate, abbiamo conosciuto un calo del 57%» – fa sapere la responsabile, esperienza trentennale dopo una passione sorta sin da adolescente, nutrita da un innato amore per i bambini che Michela Cristinelli ha saputo trasformare in una professione, anzi, in un’impresa. Ma con la pandemia il servizio ha conosciuto un cambio di paradigma, dal momento che prima dei due lockdown il servizio si offriva anche di garantire un po’ di respiro ai genitori per uscite a cena al ristorante o serate al cinema – tutte attività ad oggi impraticabili – oltre naturalmente ad assicurare la cura dei bambini costretti a casa per malattia o per consentire ai genitori di conciliare al meglio lavoro e famiglia. «La pandemia – spiega la responsabile di Tata Volante – ci ha penalizzato sin dal primo lockdown, nel marzo dello scorso anno. Ma noi abbiamo comunque sempre continuato a garantire il nostro servizio. Alcune famiglie, che per forza maggiore dovevano andare al lavoro e dovevano conciliare figli e professione, hanno richiesto comunque il nostro sostegno, che chiaramente abbiamo continuato ad assicurare con le dovute precauzioni – mascherine, disinfettanti, nonché, nel limite del possibile, distanziamenti sociali. Sin dall’arrivo del Covid nessuna di noi ha mai contagiato o è stata contagiata dal virus. Il nostro lavoro ha
conosciuto una ripresa verso maggiogiugno, quando c’è stata la riapertura delle attività. E ora, da autunno, siamo di nuovo nella stessa situazione. Possiamo comunque contare sulle famiglie fedelissime, che hanno ormai piena fiducia e continuano ad appoggiarsi al nostro servizio in modo stabile. Veniamo inoltre contattate per diverse situazioni di emergenza. Collaboriamo pure con Sos Ticino e con i Servizi sociali del Cantone, che in situazioni critiche richiedono il nostro aiuto». Ha mai temuto che il suo progetto di Tata Volante tramontasse a causa del Covid? «No, personalmente cerco sempre di vedere il positivo in tutte le situazioni, anche in quelle brutte». Quali strategie state adottando per attenuare i colpi della crisi? «Certamente gli aiuti elargiti dal Cantone con le indennità per perdita di guadagno e di lavoro ridotto sono stati un toccasana. Inoltre da alcuni mesi stiamo promuovendo l’attività di Tata Volante tramite i social media, segnatamente attraverso Facebook: abbiamo scoperto che è un mezzo potentissimo. Abbiamo infatti ottenuto numerosi feedback positivi, talora anche solo per richieste occasionali, ma stiamo comunque accrescendo la nostra visibilità e abbiamo qualche richiesta in più. Piano, piano. Io sono fiduciosa». Anche la Croce Rossa, che offre da anni un ampio servizio di assistenza a bambini e genitori, ha conosciuto una flessione delle richieste a causa della pandemia. Maria Murta Sassi, responsabile del «Mondo del Bambino»: «Il calo delle richieste d’intervento dei nostri servizi (Mamy Help, Baby Help e Babysitting) è stato molto marcato durante il primo lockdown, dove le richieste erano praticamente nulle. Situazione dovuta soprattutto al fatto che entrambi i genitori erano a casa in telelavoro, ma anche alla paura del contagio. Con le riaperture e un piano di protezione apposito concordato con l’Ufficio del medico Cantonale, abbiamo rilevato che il servizio ha ripreso la sua attività come in precedenza. In particolare, durante i mesi estivi, in quanto le consuete proposte di accudimento durante le vacanze scolastiche sono venute a mancare. Con l’inizio della scuola, notiamo che le richieste per Mamy Help sono abbastanza costanti e le richieste di Baby Help in forte calo: con le nuove norme di distanziamento sociale, igiene e disinfezione delle mani anche i bambini si ammalano molto meno».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Lautaro (non Martìnez) A chi fra gli attenti ed inquisitivi lettori dell’Altropologo si fosse domandato da dove salti fuori il nome «Lautaro» – oggi presente sulle cronache sportive di tutta Europa grazie ai gol di Lautaro Martinez, centravanti di un’Inter risorta dall’oblio e di una nazionale argentina mai entrataci – bisognerebbe suggerire di andare indietro nella storia del continente sudamericano. Lautaro è la forma spagnola di LefTraru, «Falco Veloce» nella lingua Mapudungun parlata dai Mapuche, gli abitanti nativi dell’Araucania, fra il Cile centro-meridionale e l’Argentina. Lautaro gode ancora di fama semileggendaria, una sorta di Guglielmo Tell americano, come leader in vita ed ispiratore delle tattiche di combattimento che videro i Mapuche opporsi all’invasione spagnola durante la Guerra dell’Araucania. Questa si trascinò a varie riprese con esiti alterni fra la metà del ’500 e la metà del secolo successivo, ricordata dagli spagnoli
come «le Fiandre Indiane» a causa dell’elevato numero di perdite. Gli spagnoli erano determinati a ridurre i Mapuche allo stato servile per costringerli a lavorare nelle miniere d’oro e questi naturalmente non ci stavano. Falliti i tentativi di giungere a una qualche mediazione con gli invasori si passò alle vie di fatto: come riporta il cronista Diego de Rosales, il capo dei Mapuche Lientur, leader della fase tarda della guerra «Meglio morire combattendo che vittime di una pace ingiusta». Lautaro nacque probabilmente nel 1534 a Traguaco, in Cile, e morì giovanissimo – si dice sui 22-23 anni nelle regione di Maule. Era stato catturato ad 11 anni durante le prime schermaglie che avrebbero innescato la resistenza secolare dei Mapuche. In quanto figlio di Curiñanco «Falco Nero», un lonko (capo in tempo di pace) Mapuche, Lautaro passò l’adolescenza come servo personale di
Pedro de Valdivia, capo dei conquistadores. Il contatto costante con Don Pedro lo rese famigliare con le tattiche militari degli spagnoli che osservava attentamente mentre seguiva a cavallo il suo padrone, si prendeva cura della scuderia personale del Generale ed imparava a non aver timore di quel carro armato che era il cavallo agli occhi dei Mapuche diventando lui stesso un ottimo cavaliere. Il capitano Marcos Veas, che aveva sviluppato un particolare affetto per quel giovane schiavo che lo seguiva in battaglia col compito di scudiero, gli insegnò ad usare le armi degli spagnoli e le tattiche di cavalleria. Lautaro imparò peraltro anche ad odiare segretamente Pedro de Valdivia per la sua crudeltà. Determinato a dare una lezione ai resistenti questi arrivò ad ordinare di tagliare mani e piedi a tutti i membri della tribù di Curiñanco, compresa sua moglie – atrocità ripetute in altre occasioni anche alla presenza del suo
fedele servo. Una volta persuaso di aver imparato abbastanza, Lautaro fuggì una prima volta del 1550, ed una seconda nel 1553. I Mapuche al tempo erano riusciti per la prima volta a federarsi come nazione. Elessero come toquì (capo in tempo di guerra) Caupolicàn. Questi nominò suo vice Lautaro, col compito di formare una cavalleria Mapuche ed insegnare disciplina e tattiche militari avanzate ai guerrieri. Al comando di 6000 guerrieri Lautaro si impadronì del forte di Tucapel mettendone i fuga la guarnigione. Lautaro era sicuro che Pedro de Valdivia avrebbe provato a riconquistarlo – cosa che regolarmente avvenne il giorno di Natale 1553. Sarebbe stata l’ultima battaglia del conquistador: le sue truppe furono massacrate, il loro comandante catturato e passato per le armi. La più grande vittoria di Lautaro, quella che lo consegnò alla storia non solo come combattente per la libertà
ma anche come brillante stratega militare, fu la Battaglia di Mariehueñu. Qui, il 23 febbraio 1554, annientò le forze di Villagra, successore di Valdivia. Seguirono una serie di altri successi militari che si sarebbero probabilmente conclusi con la cacciata degli spagnoli dal Cile. Ma i Mapuche erano stanchi di guerre. La spedizione decisiva che Lautaro comunque condusse alla liberazione di Santiago contava ormai solo 600 guerrieri. Cadde in un’imboscata istigata da informatori Picunche, nemici dei Mapoche. Lautaro fu ucciso nelle prime fasi della battaglia e la sua armata si dette alla fuga. Poco dopo la sua testa campeggiava nella Plaza Mayor di Santiago. Mezzo millennio più tardi i Mapuche stanno ancora combattendo per vedere i loro diritti riconosciuti da quegli stessi Governi (democratici) che celebrano Lautaro come padre della Nazione. Historia Magistra Vitae?
penso che per parlarne con sua figlia sia preferibile aspettare un momento opportuno, lontano dal giorno «incriminato». La cosa migliore sarebbe trattare il problema nella Scuola, inserendolo nel percorso di formazione, quando ragazze e ragazzi, di fronte alla scelta di un indirizzo di studi, si pongono le domande fondamentali: «chi sono io?», «come immagino il mio futuro?», «come penso di inserirmi nella vita adulta?». In vari modi questi casi di bullismo femminile sono molto più frequenti di quanto non si creda. Se mamme e nonne ci pensano, troveranno nei loro ricordi tanti altri esempi. Anch’io a dieci anni, senza un apparente perché, mi sono trovata abbandonata dalle amiche del cortile e l’assicuro che ho sofferto quel volta faccia come raramente nella vita. Per fortuna la nostra storia prosegue e ci offre nuove occasioni per ricominciare, come è accaduto a Carlotta. L’importante è ritrovare la fiducia in noi stesse e nelle altre, senza farci bloccare dalla paura e dal sospetto. Non si cresce senza
sofferenze e, in un certo senso, queste frustrazioni ci immunizzano dai virus della malevolenza, mai definitivamente debellato. Se siamo riuscite a sopravvivere una volta, dobbiamo dirci, lo faremo ancora. Ma perché, mi chiedo, questa forma di subdola violenza è più femminile che maschile? Perché i ragazzi possono sfogare la naturale aggressività, nella competizione regolata. Nel gioco del calcio, ad esempio, sono i risultati che stabiliscono una gerarchia di valore, non le insinuazioni. Esiste, è vero, il bullismo maschile e sembra più grave perché spesso lascia lividi nel corpo, ma quelli nell’anima sono più dolorosi, anche se meno evidenti. Per secoli le fanciulle hanno avuto, per emergere, una sola competizione: quella del corteggiamento. Una gara particolarmente difficile perché quei meriti sono spesso immeritati: la bellezza, la salute, il fascino costituiscono doni del destino più che conquiste dell’impegno e, come tali, suscitano sentimenti di invidia e gelosia. Che cosa possiamo fare? Sostituirli
con altri valori, quali l’intelligenza, lo studio, la sincerità, la solidarietà femminile. Un cambiamento morale suggerito da libri famosi quali Piccole donne crescono di L.M. Alcott e Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Dobbiamo riconoscere che, col tempo, molte cose sono cambiate. Le donne hanno raggiunto condizioni di autonomia, indipendenza e autorevolezza senza precedenti ma, come dimostra il triste San Valentino di Carlotta, nel profondo di noi sopravvivono residui del passato non ancora smaltiti. Come scrive Freud: «nel nostro Inconscio scorrazzano i (dino) sauri». Stiamo vivendo un «tempo sospeso» che promette un cambiamento radicale. Che sia in meglio dipende soprattutto da noi.
vedimenti, imposti da un’emergenza a loro stessi estranea. Chiusure, aperture, veti assoluti o concessioni parziali, annunciati, a volte, in un linguaggio inappropriato, al limite del ridicolo. Rimarrà negli annali la raccomandazione del capo della polizia cantonale: «Gli anziani è meglio che vadano in letargo». Ma, altrove, le cose vanno anche peggio. Nella vicina Italia, è un incessante alternarsi di zone gialle, arancione, rosse destinate a regioni più o meno colpite dalla pandemia. Mentre Trump minimizza, e Johnson si ricrede, si generalizza la confusione. Dappertutto, si naviga a vista in una burrasca. Dove approdare: cioè, quali sono i focolai del contagio da colpevolizzare: i bar, i negozi, le palestre, i cinema, i teatri, le librerie, i musei? Il fatto di trovarsi tutti a bordo della
stessa barca non ha prodotto, però, una compatta unità di fronte al pericolo. Certo, la lotta al Covid ha mobilitato la comunità scientifica mondiale nella ricerca di rimedi efficaci, i vaccini sinonimo di salvezza e speranza. Strada facendo, però, da competizione fra laboratori farmaceutici, destinata al bene della collettività, si è trasformata in gara fra nazioni, impegnate sul fronte del prestigio e dell’orgoglio. Si deve proprio parlare di un generale rilancio del nazionalismo, tanto da sembrare un effetto secondario del contagio: un virus parallelo che attacca sentimenti e comportamenti. Sono all’ordine del giorno proclami del tipo «Siamo stati i più bravi», «La nostra sanità è un modello invidiabile», «La nostra ricerca vanta eccellenze» e via enumerando esternazioni che, magari in toni meno enfatici, esaltiamo pure
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi San Valentino e bullismo femminile Cara Silvia, quest’anno San Valentino è giunto di domenica, a scuole chiuse. Meno male, mi son detta , perché l’anno scorso per mia figlia Carlotta è stato uno strazio. Non l’ho mai raccontato a nessuno perché mi faceva troppo male ma adesso, a cose passate, sento il desiderio di sfogarmi. Aveva 10 anni quando il 14 febbraio del 2020, il giorno di San Valentino, è arrivata in classe un po’ dopo le altre. Il suo scuolabus era sempre in ritardo. Appena seduta, ha visto sul banco una bella scatola di cioccolatini a forma di cuore e, mentre le compagne l’osservavano in silenzio, l’ha aperta trovandola piena di bigliettini decorati con una pioggia di cuoricini rossi. Per farla breve: tutti i maschi della classe dichiaravano di amarla e le inviavano auguri e baci. Valentina, che non si sentiva accettata dalle compagne e rimaneva spesso isolata , ha avuto – così mi ha raccontato – un momento di felicità. Ma giunta all’ultimo bigliettino, è scoppiato un Buuuu! collettivo. Era uno scherzo ideato da quelle che avrebbero dovuto esserle amiche.
Per fortuna quest’anno, nella nuova scuola, ha trovato un clima migliore e un’amicizia che mi sembra sincera. Ma ha pianto tanto e credo che quella brutta esperienza rimarrà per lei indimenticabile. E anche per me. Dopo di allora non ne abbiamo più parlato ma non so se è giusto tacere e far finta di niente. Lei che cosa mi consiglia? Devo mantenerla sotto silenzio o tirarla fuori? Grazie per le sue risposte che ritaglio e conservo come aiuto a riflettere in tante occasioni. / Tullia Cara Tullia, grazie del suo apprezzamento che estendo a tutti i corrispondenti della «Stanza del dialogo». Se segue questa rubrica, sa già che le risponderò invitandola a non cancellare una esperienza che ritengo traumatica, tanto per Carlotta quanto per lei. Il dolore dei nostri figli, soprattutto quando è ingiusto o immotivato, ci ferisce profondamente ed è difficile dimenticarlo. Lei ha già compiuto, con coraggio, il passo fondamentale di rievocarlo, dargli parole e condividerlo con noi. Ma
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio A caccia del colpevole È una reazione primaria e scatta quando un incidente interrompe la normalità, che sembra spettarci di diritto. Sia un incendio, uno scontro automobilistico, un atto terroristico, una crisi economica, una catastrofe naturale, insomma un evento inatteso, locale o mondiale, suscitano il bisogno di scoprirne le cause, dietro le quali ci dev’essere un colpevole. Da scovare, identificare per fargli pagare il conto. Ora, proprio la pandemia ci fa assistere, in forma addirittura spettacolare, a questa caccia al ladro, cioè al responsabile della nascita e della diffusione di un contagio che, in un anno, ha cambiato, anzi stravolto la faccia del mondo. Ma, alle prese con un imputato inedito, che sfugge alle categorie dei nemici abituali, anche catturarlo diventa difficile. A cominciare dalle sue origini: il mercato cinese con il famigerato
pipistrello, il fantomatico viaggiatore tedesco arrivato nel nord Italia, la partita di calcio dell’Atalanta giocata a Bergamo, il carnevale di Bellinzona del febbraio 2020? E si sprecano gli interrogativi sulla sua diffusione. Qui entra in causa la responsabilità dei politici e delle autorità sanitarie, in primis l’OMS, non all’altezza del suo ruolo istituzionale. E da Ginevra, l’accusa d’inefficienza doveva poi coinvolgere Londra, Washington, Bruxelles e, non da ultimo, Berna e Bellinzona, dove i governanti si sono trovati investiti da un compito più grande di loro. Tanto da giocarsi la poltrona o, comunque, la popolarità. Stando ai sondaggi d’opinione, Alain Berset è il nostro politico più discusso, come dire il colpevole del momento. E sono guai anche per i consiglieri di Stato, i sindaci, i medici cantonali, costretti a emanare prov-
noi le patrie virtù. In questo clima, si riaccendono persino vecchi litigi da confinanti. Cito, in proposito, la gaffe di Walter Ricciardi, consigliere del ministro italiano della sanità Speranza: «La variante inglese ci è arrivata dalla Svizzera, che ha aperto le piste ai turisti del Regno Unito». Inevitabile la replica elvetica,in particolare ticinese: «A portare il virus nelle case per anziani sono infermieri e assistenti frontalieri». Ora, dietro a tutto ciò, c’è un paradosso: cresce il nazionalismo mentre cala la fiducia nei governi. Considerati non soltanto incapaci di governare la pandemia, ma addirittura di esserne, loro, i responsabili. Insomma, ecco il colpevole. Che è sempre l’altro. E, per concludere alla grande, citiamo Seneca: «Inizio della salvezza è la conoscenza delle proprie colpe».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Ambiente e Benessere Fotovoltaico diverso Ulteriori studi e ricerche di adattamenti per i sistemi flottanti o quelli sulle superfici agricole, ma non solo: il Ticino ha grandissime potenzialità
Consigli nutrizionali Si possono bere alcolici con una diagnosi di diabete Tipo 2? Laura Botticelli risponde
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Insalata verde gourmet Con filetti di coniglio avvolti in fette di prosciutto crudo, funghi saltati, noci e pomodori secchi pagina 17
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Contro gli stereotipi La sovrabbondanza di scatti uguali in Instagram spinge a cercare qualcosa di nuovo
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Tra vaccino e mutazioni
Covid-19 Sanità, società ed economia
alla ricerca di un equilibrio per uscire dalla pandemia
Maria Grazia Buletti A inizio mese, l’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) ha indicato che in Svizzera il totale dei contagi da mutazioni di Coronavirus è salito a oltre 4mila, 646 in più rispetto a tre giorni prima. Inoltre: «Gran parte delle mutazioni (ndr: 1621 casi in quel momento) riguarda la variante inglese e 69 quella sudamericana». Altri 2448 casi non hanno potuto essere associati con precisione ad alcuna mutazione specifica e ciò implica una serie di considerazioni di cui tener conto nelle linee di contagio e nella trasmissibilità del virus. La buona notizia è che con il vaccino vediamo la «fine in fondo al tunnel», ma la strada per arrivarci è ancora lunga, conferma il dottor Alessandro Diana che, da vaccinologo, pediatra e infettivologo, ci aiuta a fare conti e chiarezza con una serie di concetti e situazioni che, manco a dirlo, stanno anch’essi mutando strada facendo: «Prima che questa pandemia si trasformi in un’epidemia saranno ancora necessarie misure considerevoli per contenere il virus che continua ad adattarsi alla situazione, anche se grazie alle vaccinazioni, la diffusione della pandemia incontra ogni giorno maggiori ostacoli». Complice una stanchezza generale, abbiamo bisogno di chiarire parecchi concetti: da pandemia a epidemia, il virus e le sue mutazioni per rapporto al vaccino e alla sua efficacia, la strategia vaccinale e l’equilibrio delle aspettative della popolazione in bilico fra esigenze del sistema sanitario, della società e dell’economia, insieme al «fardello virale» che oggi passa il testimone dall’anziano al giovane. «Questo virus è nato come pandemia per la sua diffusione globale, mentre sarà epidemico al momento in cui sarà circoscritto ad aree precise nelle quali tenerlo controllato», esordisce il dottor Diana al quale chiediamo pure lumi sulla strategia vaccinale adottata dalla Confederazione, che oggi fa storcere il naso ad alcuni oramai allo stremo che, senza vaccino, ancora devono fare i conti con chiusure e limitazioni. «È legittimo chiedersi se francamente
valga la pena di vaccinare un ultra novantenne con malattie pregresse, la cui speranza di vita è relativamente bassa, o se non sarebbe meglio vaccinare una persona con una speranza di vita superiore», afferma Diana. Ma spiega che la strategia vaccinale opera scelte diverse dall’idea di base della vaccinazione il cui principio non sta nel salvare la vita alle persone molto anziane a discapito dei più giovani: «Ogni vita ha egual valore, a prescindere dall’età, e poi tutti moriremo prima o poi. Il problema è che proprio queste persone anziane e con malattie complesse sono quelle che, ammalandosi a causa della pandemia, mettono a rischio la capacità del sistema sanitario perché bisognose di cure altamente specialistiche». In soldoni, dunque, la scelta di vaccinare un target di persone molto anziane sta nel dover alleggerire la pressione del sistema sanitario, senza dimenticare che: «Sappiamo che quando i sistemi sanitari sono al collasso, tutta l’economia affonda parallelamente». La strategia vaccinale non mira dunque a salvare il singolo, bensì a fare in modo che siano vaccinate quelle persone «bersaglio» del virus in modo che non finiscano all’ospedale: «A 80 anni abbiamo osservato il 15 per cento di complicazioni e una grande possibilità di morire di Covid; se il sistema sanitario fosse stato gravato dai bambini, avemmo cominciato a vaccinare loro». L’equazione diventa chiara: «La salute pubblica non dà più valore alla vita di un novantenne rispetto al cinquantenne. Ma per uscire da questa pandemia bisogna alleviare la capacità del sistema sanitario, partendo col vaccinare i più a rischio». Questo anche se le continue e numerose mutazioni del virus aprono a nuovi scenari che toccano età dei contagiati, trasmissione, carenza di vaccini e prospettiva di una nuova ondata: «Non possiamo negare che domani i principali obiettivi da vaccinare saranno proprio i giovani e già ora stiamo osservando come i bambini stessi stiano diventando nuovo bersaglio del Coronavirus. Sappiamo che il decorso della malattia è molto meno importante che
Domani le principali categorie da vaccinare saranno i giovani e i più piccoli, nuovi bersagli del Coronavirus. (Pixabay.com)
nell’adulto, ma oggi ci interroghiamo sul potere di trasmissibilità del bambino come vettore del virus». L’analogia con la varicella chiarisce la preoccupazione: «Ad esempio, nel bambino la varicella ha un decorso molto più lieve che per l’adulto. Questi può per contro essere facilmente infettato dal bambino e sviluppare la malattia in modo anche gravissimo». Per il Coronavirus, oggi la sanità va verso una raccolta dati nei bambini, prima sottovalutata e ora al vaglio in un’evoluzione di osservazioni scientifiche a cui ci siamo oramai abituati. Se a giugno assisteremo a una flessione del numero di persone ospedalizzate, allora potremo affermare che saremo riusciti nella missione della strategia vaccinale e potremo proseguire, ad esempio, con una strategia di rafforzamento: «Parliamo di cocooning: si vaccineranno i giovani, la cerchia che sta attorno alla persona a rischio, per proteggere
quest’ultima, anche se vaccinare direttamente le persone a rischio è molto più efficace». Ad ogni modo, gli studi epidemiologici permetteranno pure di dire, entro l’estate, se le persone vaccinate saranno in grado di arrestare la trasmissione del virus, oltre ad essere protette dagli anticorpi del vaccino che però, a causa delle continue mutazioni, dovrebbe essere inoculato con una certa urgenza a più persone possibile: «Se sarà provato che il vaccino evita la trasmissione del virus, non sarà più tema individuale ma un atto di solidarietà: se mi vaccino contribuisco non solo a evitare che altre persone si infettino, ma freno la possibilità del virus di mutare in nuove varianti che potrebbero inficiare l’efficacia vaccinale». Oggi, la momentanea carenza dei vaccini e il virus mutante ci pongono dinanzi a una possibile recrudescenza dei contagi e ci impongono ancora
grandi sacrifici e misure di protezione. Domani dovremo considerare i pesanti effetti a medio e lungo termine: «Parliamo di long covid syndrom per cui il fardello virale sarà declinato su tutta la salute pubblica: contati i deceduti, sollevata la capacità del sistema sanitario, si ridefinirà il nuovo impatto del Coronavirus, che diventerà una nuova malattia». Fra gli scenari ipotizzati dal nostro interlocutore: «Il vaccino non sarà obbligatorio, pur assicurando l’approvvigionamento che permetta di vaccinare anche il diciottenne che lo desideri». Tutti meritano di riceverlo, anche chi presenta un decorso più lieve e un rischio inferiore, dice in sintesi il vaccinologo. In un momento come questo, in cui siamo pronti con la logistica ma mancano ancora le dosi per un piano vaccinale ideale, egli conclude: «Speriamo che le dosi si possano presto avere con maggiore regolarità e giusta frequenza».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Il sole splende anche sull’alternativa
Ambiente e Benessere
Energia Il fotovoltaico non convenzionale, per esempio quello flottante o sulle superfici agricole,
è un’interessante opportunità, ma richiederà adattamenti e ulteriori studi
Elia Stampanoni Una delle grandi sfide per il futuro del nostro pianeta è senz’altro quella relativa ai cambiamenti climatici. In questo contesto la Svizzera s’appresta ad affrontare importanti adeguamenti, conseguenza di due decisioni federali degli ultimi anni: l’abbandono graduale dell’energia nucleare e l’obiettivo di raggiungere la totale decarbonizzazione entro il 2050.
Il potenziale non convenzionale in Ticino trova buone possibilità nel settore agricolo e ortofrutticolo, sulle superfici lacustri artificiali e nelle strutture del traffico e dei trasporti Due sfide che obbligano il paese a incentivare lo sviluppo di fonti d’energia rinnovabili, tra cui l’idroelettrico, il solare, l’eolico o la biomassa. Il primo, secondo i dati pubblicati dall’Ufficio federale dell’energia (UFE) (v. nota n. 1), rappresenta il 56,4% dell’elettricità prodotta nel 2019 in Svizzera, mentre il 35,2% proviene dalle centrali nucleari. Accanto a una piccola produzione da vettori fossili non rinnovabili (2,6%), il restante 5,8% è prodotto dalle «nuove» energie rinnovabili (solare, eolico e biomassa). Tra di queste spicca il fotovoltaico con poco più del 3% della produzione totale di energia elettrica a livello nazionale e, interessante, con quasi un raddoppio nell’arco degli ultimi cinque anni, passando dai 1119 gigawattora (GWh) prodotti nel 2015 ai 2178 del 2019, mentre vent’anni fa, nel 2000, era di soli 11 GWh. Sullo slancio di quest’aumento e abbracciando le sfide del futuro, l’energia solare sta quindi destando sempre più interesse e uno studio (v. nota n. 2) pubblicato lo scorso dicembre ha valutato l’ulteriore capacità del settore, concentrandosi sulle potenzialità della produzione non convenzionale, ossia le strutture installate su superfici già antropizzate ma non sugli edifici. Si tratta per esempio di abbinare il fotovoltaico a opere idroelettriche esistenti, come sulla diga dell’Albigna in Bregaglia dove un impianto è in funzione da settembre 2020, oppure la posa di moduli lungo i tubi delle condotte forzate. Altre alternative, pure valutate
Il progetto «PV diga Muttsee» (GL). (AXPO)
nell’analisi, sondano il fotovoltaico flottante, dove le strutture non sono disposte sulla terraferma ma sull’acqua, per esempio su superfici lacustri non naturali. Attualmente però, come riportato nel documento dello studio, «in Ticino la Legge cantonale sull’energia vieta espressamente l’uso di qualsiasi superficie lacustre, anche artificiale, per la posa di impianti fotovoltaici». Un progetto dimostrativo sostenuto dall’Ufficio federale dell’energia è già stato realizzato nel dicembre 2019 nel canton Vallese, sul lago artificiale «des Toules» a un’altitudine di 1810 metri. Numerose sono poi le possibilità offerte dalle strutture del traffico e dei trasporti per posare dei moduli solari, come la copertura di aree di parcheggio o di tratti stradali, di ripari fonici o delle scarpate lungo autostrade o linee ferroviarie. Altri siti «non convenzionali» sono i paravalanghe o le strutture legate al settore agricolo, quali serre e coperture in frutticoltura o viticoltu-
Impianto fotovoltaico su serre di Lamarche e Bouillac Reignac, Francia. (Urbasolar)
ra, con moduli che si autoregolano e s’inclinano automaticamente in base all’insolazione e alla necessità d’ombreggiamento della coltura. Per le zone agricole va però precisato che al momento l’edificazione è in generale ammessa solo per edifici e impianti che sono necessari alla coltivazione (Legge federale sulla pianificazione del territorio). Ulteriori ambiti potrebbero essere le discariche o le cave dismesse, gli stabilimenti per la depurazione delle acque oppure le pavimentazioni di strade, piazze, piste ciclabili, parcheggi o marciapiedi. Lo studio, promosso dal consigliere nazionale Rocco Cattaneo, è stato realizzato dall’Istituto sostenibilità applicata all’ambiente costruito della SUPSI, assieme a Swissolar Svizzera italiana e alla ditta IngEne, attiva nel ramo. Per ogni settore di fotovoltaico non convenzionale sono state stimate e analizzate le potenzialità, evidenziandone le fattibilità, i limiti o gli ostacoli e pure proponendo delle possibili applicazioni a livello locale. Per gli impianti di depurazione è per esempio stata valutata la potenza realisticamente installabile su nove strutture presenti in Ticino. Lo stesso esercizio è stato fatto per quattro luoghi con una presenza di paravalanghe e anche per una ventina di laghi artificiali o bacini di demodulazione del nostro cantone. Potenzialità e proposte che sono riprese nelle conclusioni, dove si ricorda innanzitutto l’obiettivo dello studio, ossia quello di stimolare un dibattito a più livelli, pubblico e privato, in modo da «sviluppare ulteriormente l’energia solare in un cantone che potrebbe diventare, come nell’idroelettrico, uno dei principali attori a livello nazionale». Come commenta Claudio Caccia, responsabile di Swissolar Svizzera ita-
liana: «È sottinteso che il primo potenziale da sfruttare sin da subito e senza indugi è quello convenzionale su tetti e facciate di edifici, ma in prospettiva è opportuno valutare per tempo anche la parte di potenziale non convenzionale, oggi da noi praticamente ancora sconosciuta e in diversi casi impossibile a causa di divieti o condizioni quadro non adeguate». Infatti, e come già accennato, non trattandosi di applicazioni fotovoltaiche su edifici, per molti dei settori considerati esistono dei vincoli e delle limitazioni a livello normativo che non le rendono al momento attuabili. Per promuoverle sarebbero perciò necessarie delle modifiche di legge e, inoltre, indica lo studio, «per alcuni casi vi sono anche delle incertezze a livello d’accettazione dell’opinione pubblica o a livello tecnico, dubbi che necessitano ancora sperimentazioni, da effettuare preferibilmente alle nostre latitudini». Fatte queste dovute premesse, un riassunto del potenziale non convenzionale in Ticino ravvisa delle buone possibilità nel settore agricolo e ortofrutticolo, sulle superfici lacustri artificiali e nelle strutture del traffico e dei trasporti: «Questi tre ambiti da soli potrebbero raggiungere quasi 1 GW di potenza, ciò che è indicativamente l’obiettivo indicativo della strategia energetica 2050 per il Ticino», indica lo studio. «Da notare – aggiunge Claudio Caccia – che con 1 GW di potenza fotovoltaica si potrebbe produrre circa 1 TWh di energia elettrica all’anno (1 terawattora = 1 miliardo di chilowattora), equivalente grossomodo ad un terzo del consumo elettrico cantonale attuale (3.1 TWh nel 2019)». Per importanza seguono le opere idroelettriche e le infrastrutture tecniche, con un apporto meno importante ma
comunque interessante. Aggiungendo il potenziale «convenzionale», ossia quello installato sui tetti e sulle facciate idonei degli edifici, stimabile a circa 1.2 GW di potenza, in Ticino il totale di fotovoltaico potrebbe pertanto superare i due gigawatt di potenza e i due TWh di energia elettrica prodotta ogni anno. Altri vantaggi del fotovoltaico non convenzionale sono per esempio la capacità, nel caso delle superfici lacustri artificiali, di produrre maggiormente nel periodo invernale, oppure, nel settore agricolo, di apportare dei benefici anche alle coltivazioni stesse, garantendo alle colture un ombreggiamento in caso di necessità. «Per permettere al fotovoltaico non convenzionale di svilupparsi rimangono comunque ancora diverse barriere (normative, tecniche e sociali per esempio), che devono essere eliminate», conclude lo studio prima di presentare delle proposte per i tre settori citati. Note
1. Fonte dati: Statistique globale suisse de l’énergie 2019, l’OFEN (Statistica globale svizzera dell’energia 2019, UFE,) 2. Lo studio: Potenziale di fotovoltaico non convenzionale in Ticino (2020) Autori: Nerio Cereghetti (ingegnere ETHZ, capo progetto) in rappresentanza di SUPSI (ISAAC), Claudio Caccia (ingegnere STS, consulente energetico) in rappresentanza di Swissolar Svizzera Italiana, Daniele Bernasconi (ingegnere STS, titolare di una ditta attiva nel fotovoltaico) in rappresentanza di IngEne Sagl. Promotore dello studio: Rocco Cattaneo. Link allo studio: www.roccocattaneo. ch/solare
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Ambiente e Benessere
Diabete Tipo 2 e alcol
La nutrizionista Sempre meglio chiedere al proprio medico e non prendere iniziative pericolose Laura Botticelli Cara Laura, incuriosito dal suo precedente articolo sulla birra (ndr: v. «Azione» del 21 dicembre 2020, Una pinta contro il diabete?) le pongo un altro quesito che mi sta a cuore poiché mi hanno appena diagnosticato il diabete di tipo 2. Posso ancora bere alcolici in generale? / Mauro Caro Mauro, normalmente, se il diabete è ben gestito e il medico è d’accordo, una bevanda alcolica occasionale da consumarsi durante un pasto di solito non ha grandi controindicazioni. Io purtroppo non posso rispondere con un sì o no assoluto alla sua domanda perché non ho sufficienti elementi per valutare in modo appropriato il quadro clinico della sua situazione. La invito quindi a porre la questione al suo medico di famiglia o al diabetologo, perché sono temi e iniziative delicate che è sempre bene soppesare con accuratezza. In generale posso dire che quantità moderate di alcol possono causare un aumento della glicemia mentre l’eccesso di alcol può effettivamente ridurre il livello di zucchero nel sangue, facendolo tuttavia scendere – certe volte – a livelli pericolosi, specialmente per le persone con diabete di tipo 1. Questo perché il fegato, che normalmente rilascia lo zucchero immagazzinato per contrastare la caduta dei livelli di zucchero nel sangue, è impegnato a metabolizzare l’alcol ingerito e quindi il livello di zucchero nel sangue potrebbe
Forse ci sta una birretta con una bella grigliata o un buon vino durante una cena speciale, ma niente superalcolici. (Pixabay.com)
non ricevere la spinta di cui ha bisogno dal fegato per risalire. L’alcol può provocare un abbassamento dello zucchero nel sangue subito dopo averlo bevuto e fino a 24 ore dopo. È importante quindi non bere bevande alcoliche a stomaco vuoto
soprattutto per chi assume insulina o altri farmaci per il diabete. Meglio mangiare prima di bere o bere durante un pasto per evitare un’ipoglicemia. Per quel che concerne la scelta dell’alcolico bisogna ricordarsi che la birra leggera e il vino secco hanno meno
calorie e carboidrati rispetto ad altre bevande alcoliche. I cocktail misti zuccherini piuttosto che i vini dolci sono invece da evitare. Il consumo moderato di alcol è definito come non più di un drink al giorno per le donne di qualsiasi età e
gli uomini di età superiore ai 65 anni, e due drink al giorno per gli uomini sotto i 65 anni. Un drink equivale a 3dl di birra, 1,4 dl di vino o 40ml di alcolici distillati. Tengo comunque a ricordare che non si deve esagerare con l’alcol perché oltre ad apportare calorie vuote può avere influenza sull’appetito e il giudizio o la forza di volontà, facendoci fare scelte alimentari scadenti o causando un’abbuffata e il tutto può influire sul controllo della glicemia e del peso corporeo. Inoltre occorre tenere ben presente che, poiché l’alcol può abbassare i livelli di zucchero nel sangue molto tempo dopo aver bevuto l’ultimo drink, è buona prassi controllare il livello di zucchero nel sangue prima di andare a dormire. Se il livello di zucchero nel sangue non è compreso tra 5,6 e 7,8 mmol/L è meglio fare uno spuntino prima di andare a letto per contrastare un calo per l’appunto del livello di zucchero nel sangue. Se quindi il suo medico le dà l’ok, potrà sorseggiare una birretta magari durante una bella grigliata o un buon vino durante una cena speciale, ma prima – mi raccomando – verifichi. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Uno spezzatino Filetti di conigliod’agnello su letto d’insalata speciale ai funghi Piatto principale
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 800 8 filetti g didispezzatino coniglio · d’agnello, miscela per adcondire esempio Smookey spalla · sale BBQ· Mix pepe o· 2sale cucchiai e peped’olio · 8 fette di colza di prosciutto HOLL ·crudo 4 spicchi · 150 d’aglio g di funghi · 2 cipolle misti, grosse ad esempio · 8 pomodori shiitake secchie champignon sott’olio · ½ cucchiaio · 5 c d’oliodidifarina girasole · 4· dl 2 cdid’aceto brododidivino manzo bianco · 50· gsale di olive alle erbe nere· 250 snocciolate g d’insalata · 4 fette verde di prosciutto baby leaf ·crudo 1 c di ·noci 2 cipollotti · 2 pomodori · 1 limone. secchi.
1. Condite Condite ilafiletti carne di con coniglio sale con e pepe la miscela e rosolatela BBQ bene e avvolgete nell’olio ogni in filetto una padella. in una fetta Dimezzate di prosciutto. l’aglio, tritate grossolanamente le cipolle. Aggiungete aglio, cipolle e 2. pomodori Tagliate alla i funghi carne, a bocconi. spolverizzate con la farina e bagnate con il brodo. Mettete 3. il coperchio Rosolate i efiletti stufate nell’olio a fuoco per medio-basso circa 5 minuti, per poi circaestraeteli 50 minuti. dalla Lasciate padellail ecoperteneteli chioinleggermente caldo. Nellaaperto stessa per padella permettere saltate laalmiscela vapore di fuoriuscire funghi e metteteli dalla padella, da parte. in 4. modo Per ilche condimento il liquido sidell’insalata, riduca. mescolate l’olio rimasto con l’aceto, e poi condite 2. Tagliate con il sale le olive alle eerbe. i cipollotti Mescolate a rondelle l’insalata sottili, e i funghi il prosciutto con la asalsa. dadini. AccomodaRicavate tela dellenei listarelle piatti. dalla scorza del limone. Mescolate tutto. 5. 3. Spremete Tagliate i filetti la metà didel coniglio limone. inCondite due e serviteli lo spezzatino sul lettocon d’insalata. il succo di limone, sale 6. e pepe Tritate e distribuite grossolanamente la gramolata le nocisulla e i pomodori carne. secchi e distribuiteli sull’insalata. Un Preparazione: piatto gustoso circa che25può minuti. essere accompagnato con pasta o semplicemente con fette Per persona: di pane. circa 38 g di proteine, 19 g di grassi, 2 g di carboidrati, 340 kcal/ 1400 kJ. Preparazione: circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati, 520 kcal/2150 kJ.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Ambiente e Benessere
Qualcosa di nuovo
Alla ricerca della notte
foto originali sotto l’hashtag #DoSomethingNewNZ
letture per viaggiare
Viaggiatori d’Occidente L’ufficio turistico neozelandese invita a pubblicare in rete
Bussole Inviti a
Claudio Visentin «Fai qualcosa di nuovo!» («Do something new») suggerisce lo slogan dell’ultima campagna dell’Ufficio del turismo neozelandese. In un divertente video (https://bit.ly/374ex7e) il comico e star tv Tom Sainsbury è un ranger della «Squadra di osservazione sociale» (Social Observation Squad – SOS). Il suo compito è pattugliare i luoghi più conosciuti del Paese e convincere i turisti a non scattare le solite foto per far bella figura su Instagram: la piscina con vista sconfinata, il viaggiatore filosofico che contempla il paesaggio da uno scoglio solitario, quell’altro che salta con braccia e gambe aperte in cima a una montagna o se ne sta immobile al centro di una strada che corre fino all’orizzonte (rischiando oltretutto di essere investito). E ancora: i campi di lavanda, il cappello a larghe tese prediletto dagli influencer, la foto delle gambe abbronzate affiancate come wurstel, l’effetto follow me reso popolare dal fotografo Murad Osmann... Tom impedisce loro l’ennesima replica di uno scatto convenzionale e li ammonisce sconsolato: «Lo abbiamo già fatto tutti!». Perché non visitare invece una cantina pedalando tra i vigneti? In effetti i vini neozelandesi sono ancora poco conosciuti al di fuori della cerchia degli intenditori ma se ne dice ogni bene (Merlot incluso). Oppure si possono esplorare altre possibilità perché «ci sono così tante belle foto oltre i soliti scatti da Instagram».
Contro i campi di lavanda, il cappello a larghe tese da influencer, le gambe affiancate come wurstel in spiaggia... I tempi cambiano, per fortuna. Solo qualche anno fa Turkish Airlines propose un fortunato spot milionario dove due campioni, Lionel Messi e Kobe Bryant, rimbalzavano da un capo all’altro del pianeta sfidandosi a colpi di selfie: l’apoteosi del turismo consumistico, veloce e banale. Ora invece la campagna neozelandese vuole sottolineare la varietà di esperienze a disposizione per quando sarà ancora possibile viaggiare (per il momento anche qui ci si limita al turismo interno e a qualche australiano, nonostante la buona situa-
«Dove possono andare due misantropi curiosi e un cane, con un paio di settimane a disposizione e un furgone per spostarsi agilmente nel cuore dell’Europa? Ovunque, purché lontano dalla folla. Ma se il Vecchio Continente è congestionato come un condominio, come riuscire a garantirsi una solitudine almeno relativa sostando in posti interessanti? (…) L’idea giusta affiora alla vigilia dell’estate 2019: una traversata dalle Alpi marittime fino al Mare del Nord alla ricerca di luoghi dove la notte non è ancora stata del tutto soffocata dalle luci di strade e città, a caccia delle storie che si nascondono sotto gli ultimi cieli neri d’Europa…».
Una delle scene iniziali dello spot dell’Ufficio turistico neozelandese.
zione sanitaria), invitando a pubblicare in rete foto originali sotto l’hashtag #DoSomethingNewNZ. L’ufficio del turismo della Nuova Zelanda è senza dubbio uno dei migliori al mondo. Già in passato ha fatto parlare di sé con campagne azzeccate, per esempio denunciando un presunto complotto internazionale per escludere il Paese dalle carte geografiche. Anche il giovane primo ministro Jacinda Ardern si era prestata al gioco mostrando di avere un discreto senso dell’umorismo oltre alle note qualità politiche: nell’ottobre 2020 è stata confermata per un secondo mandato con una robusta maggioranza, dopo aver ben gestito l’epidemia. Anche i vicini australiani hanno parecchia fantasia. Tre anni fa crearono il finto trailer di un film impiegando vere star di Hollywood (Hugh Jackman, Russel Crowe e Margot Robbie): il protagonista era il figlio del leggendario Crocodile Dundee, di ritorno nella terra dei padri. E alla fine del 2019 Tourism Australia ha nuovamente catturato l’attenzione con un video divertente rivolto ai cugini inglesi, costrui-
to attorno a una canzone originale di Kylie Minogue. Anche in quel caso si giocava con gli stereotipi e si invitava ad andare oltre le immagini convenzionali. Memorabile anche una campagna di qualche tempo fa della compagnia aerea olandese Transavia, rivolta ai viaggiatori più maldestri. Postando una foto venuta malissimo con l’hashtag #verybadpic − immagini sfocate, con dita sull’obbiettivo o imbarazzanti ingerenze (photobombing) – si poteva vincere un biglietto per tornare nella stessa destinazione e riprovarci. Restando in Olanda, quando i visitatori internazionali torneranno ad Amsterdam scopriranno che non possono più entrare nei famigerati cannabis cafè, ora riservati ai residenti. Femke Halsema, il primo sindaco donna di Amsterdam, vuole scoraggiare i turisti interessati solo agli eccessi. Nello stesso spirito saranno ridotti i voli low cost e gli affitti tramite Airbnb nel centro storico. Anche il futuro del celebre quartiere a luci rosse De Wallen è in discussione. Numerosi turisti ubriachi, per lo più del Regno Unito, si affollano davan-
ti alle celebri vetrine dove le prostitute sono in mostra, per scattarsi un selfie. Di nuovo Instagram, ma questa volta la condivisione in rete rende ancora più difficile la vita alle giovani donne che spesso esercitano in incognito e temono di essere riconosciute dai parenti o dai figli lasciati nel Paese d’origine. Molti cittadini della capitale olandese sostengono il loro sindaco e preferirebbero aprire questi spazi a giovani artisti e start up. Una scelta tanto più coraggiosa dopo che l’epidemia ha decurtato i guadagni di una città largamente dipendente dai turisti (oltre venti milioni all’anno a fronte di meno di un milione di residenti). Che cosa accomuna tutte queste storie inevitabilmente diverse tra loro? Per cominciare un atteggiamento creativo, ironico, coraggioso. E poi l’idea che il turismo non debba essere sempre accettato passivamente, appiattendosi sulle richieste della domanda. Sia pure pagando un prezzo, si possono scegliere i propri visitatori, si può rompere la gabbia degli stereotipi e dei luoghi comuni, si può costruire un futuro diverso.
Fuochi d’artificio
Giochi Il concetto di radice numerica è alla base di molti divertenti giochi
di magia matematica
Ennio Peres Anche le persone poco esperte di Matematica dovrebbero conoscere quel caratteristico procedimento (utilizzato nella prova del 9 di scolastica memoria), consistente nel sommare le cifre di un dato numero e nel ripetere la stessa operazione sui risultati successivi, finché non rimane una sola cifra. Ad esempio, da 456’789, si ricava 3, dato che: 4+5+6+7+8+9 = 39; 3+9 = 12; 1+2 = 3. Il risultato di tale operazione viene detto anche radice numerica e con la notazione R[N] si indica, solitamente, la radice numerica di un generico numero intero N. Il concetto di radice numerica è alla base di molti divertenti giochi di magia matematica.
Uno dei più sorprendenti si effettua con le seguenti modalità. 1. Scrivete su un foglio un numero 1 di grandi dimensioni, senza mostrarlo al pubblico; poi, ripiegatelo e inseritelo in una busta. 2. Fornite ai vostri spettatori le seguenti istruzioni collettive, specificando che ognuno di loro dovrà eseguirle in maniera indipendente, senza consultarsi con gli altri (potendo all’occorrenza, avvalersi di una calcolatrice elettronica): a) pensate a un numero naturale qualsiasi (ad esempio: 94) b) moltiplicate questo numero per 3 (94x3 = 282) c) aggiungete 2 al prodotto risultante (282+2 = 284); d) eseguite la radice numerica della
somma ottenuta (2+8+4 = 14; 1+4 = 5); e) elevate al quadrato il valore risultante (52 = 25). f) eseguite la radice numerica di questo risultante (2+5 = 7). g) elevate al cubo il valore risultante (73 = 343) h) infine, eseguite la radice numerica anche di questo risultato (3+4+3 = 10; 1+0 = 1). 3. A questo punto, chiedete che, al vostro via, ogni spettatore dichiari ad alta voce, insieme agli altri, il valore finale che ha ottenuto. 4. Date il via e, con un certo stupore, tutti gli spettatori diranno in coro: «1»! 5. Aprite la vostra busta e fate notare che avevate pronosticato esattamente il risultato finale, nonostante ogni
spettatore fosse stato libero di scegliere il numero che preferiva. Spiegazione del trucco
Per prima cosa, notiamo che, elevare un numero al quadrato e, poi, al cubo la sua radice numerica, equivale a elevare questo valore alla sesta potenza. Di conseguenza, se indichiamo con K l’esponente di una generica potenza e con R la radice numerica della sua base, possiamo tabellare i valori delle possibili radici numeriche di R K, al variare di R, per K compreso tra 1 e 6, nel modo qui di seguito indicato (dove ogni riga si riferisce a un diverso valore di R e ogni colonna ai possibili valori di K). Come si può notare, i numeri della sesta colonna sono tutti uguali a 1,
La Genesi inizia con la separazione tra la luce e le tenebre, tra il giorno e la notte. Oltre un secolo fa però la diffusione delle lampadine ha cancellato questa antica, fondamentale divisione. Oggi l’80 per cento della popolazione mondiale – tra loro la quasi totalità degli europei e degli americani − non sa più cosa sia davvero la notte, per l’inquinamento luminoso di case, strade, insegne, parcheggi, industrie, campi sportivi, centri commerciali, aeroporti… Il buio è diventato l’ultimo lusso, possibile solo in poche aree remote. E proprio per inseguire la meraviglia del cielo stellato sopra di noi, Irene Borgna ha intrapreso un lungo viaggio circolare attraverso l’Europa. Naturalmente le tappe sono soprattutto parchi naturali e riserve, ma c’è spazio anche per strani luoghi, per esempio un’area militare. Il viaggio comincia dal paese di Foroglio in Val Bavona, dove la strada è giunta solo qualche decennio fa e dove tuttora si vive senza corrente elettrica; in compenso è ancora possibile ammirare la Via Lattea in scampoli di cielo stretti fra pareti di rocce… / CV Bibliografia
Irene Borgna, Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, Ponte alle Grazie, pp. 204, € 15.–).
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tranne quelli corrispondenti a dei valori di R, multipli di 3. Di conseguenza, siccome le istruzioni fornite ai punti b) e c) garantiscono che nessuno dei valori da elevare alla 6 sia un multiplo di 3, la radice numerica di ogni potenza risultante sarà sicuramente uguale a 1.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Ambiente e Benessere
Larissima is back
Sport Qualcuno dubitava, ma non aveva fatto i conti con la classe e il carattere di Lara Gut-Behrami
che con due ori e un bronzo si elegge regina dei mondiali
che ha uno sportivo – la critica di sé stesso – per poter puntare sempre più in alto. Come giornalista pagherei per avere un’interlocutrice così lucida, precisa, severa con sé stessa, mai banale. Il mondo dei dopo gara è intriso di formule insulse. Meglio una perfezionista che davanti a un taccuino, un microfono, una telecamera, preferisce mostrare il suo desiderio di migliorare. La signora Gut-Behrami non ha mai messo in piazza la sua vita privata, tuttavia non ha mai nascosto che il matrimonio con Valon sia stato un ulteriore passo verso la maturazione globale. Oggi Lara è una ex ragazza prodigio diventata donna. Una donna di trent’anni che ha ancora tanta voglia di sognare e di porsi obiettivi con o senza sci sotto i piedi. Lara è una campionessa entrata definitivamente nel novero delle grandi interpreti della sua disciplina. Il sorriso e l’esultanza manifestati giovedì quando ha conquistato l’oro anche nel Gigante, ci ha mostrato il lato umano della ticinese. In quel momento, ne sono convinto, non ha pensato ad eventuali errori che le avrebbero precluso il podio. Ha senza dubbio realizzato di aver compiuto un’impresa straordinaria. Inimmaginabile fino a pochi mesi fa per i suoi detrattori. Ma sono altrettanto convinto che già da venerdì, la nostra campionessa sarà tornata a riflettere, analizzare, ritoccare, costruire. Davanti c’è un’altra Coppa del Mondo da conquistare e soprattutto un altro grande, immenso sogno che si chiama Oro olimpico.
Giancarlo Dionisio Se il trionfo nel Super G era atteso, e il bronzo nella discesa libera l’ha sentito un po’ strettino, l’oro nel Gigante ha consentito a Lara di scrivere una delle pagine più belle ed entusiasmanti dello sci svizzero, alla faccia di chi la dava per finita. Il talento, difficilmente lo si smarrisce cammin facendo. Da solo non basta, ma se in aggiunta ci sono grinta e determinazione, presto o tardi, anche la iella più nera e i momenti più bui sono costretti ad arrendersi. Così è stato per Lara Gut-Behrami. Qualche segnale di rinascita lo aveva già fornito la scorsa stagione. Quest’anno, la sua resurrezione è stata completa e fragorosa. Quattro vittorie in Super G, messe lì, una dopo l’altra, in rapida sequenza, e numerosi podi tra libera, gigante e slalom parallelo. Infine, il Mondiale. L’oro era un tabù. Pareva vittima di un sortilegio, anche se prima di Cortina d’Ampezzo, Lara aveva già messo in bacheca tre medaglie d’argento e due di bronzo, oltre al bronzo olimpico di Sochi. Prima e dopo il trionfo iridato in Super G, serenamente, aveva dichiarato: «Non è una medaglia a farmi capire se valgo qualcosa o meno, ma quello che ho costruito con la mia famiglia». Già, la famiglia: mamma Gabriella, papà Pauli, il fratello Ian e tutto il Team. Un Team coeso, solidale, che ha puntato tutto su di lei. Pochi, a 16, 18, 20 anni, sono capaci come ha fatto lei di reggere senza contraccolpi una tale pressione. Ma quando ti rendi conto che le cose funzionano, motivazione
Giochi Cruciverba Bambini di oggi. Il bambino rivolto alla madre: «Mamma ho fame!» – «Non è ancora ora di pranzo caro, inganna la fame con una mela» – «Mamma non so la tua…». Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 2, 3, 4, 3, 1, 4, 7) ORIZZONTALI 1. La sua capitale è La Valletta 6. Ha una zona temperata... 11. Proverbialmente amaro 12. D’appalto e sportive 13. Venduti sciolti... 14. Intanto che... 16. In senso... non letterale 17. Complesso delle facoltà intellettive 18. L’amore di Leandro 19. Sveglio 20. Due lettere di Tiziano 21. Le iniziali del fisico della relatività 22. Ingrandiscono... a vista d’occhio 23. Destinate ai sacrifici 24. Piccola fermata Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
La gioia della campionessa Lara GutBehrami. (Keystone)
ed entusiasmo si centuplicano. La forza interiore ti aiuta a disintegrare la malasorte, a scongiurare il rischio di ripiombare nell’anonimato, a risorgere anche da infortuni capaci di lasciare il segno, nel fisico e nel morale. Con il suo successo nel super G sulla pista delle Tofane, Lara ha acceso la luce. Ha illuminato la via a una Nazionale rossocrociata straordinaria. Ha stappato una bottiglia di champagne millesimato, dalla quale, oltre alle bollicine, sono uscite tutte le altre medaglie, grazie a Corinne, Beat, Loic, Michelle e tutti gli altri e le altre che sono
saliti sul podio o lo hanno sfiorato. Successi che hanno solleticato e ingigantito il nostro orgoglio. Lara ha indubbiamente smentito anni di imbarazzanti attacchi sul piano tecnico e su quello dei risultati. Sono infatti in molti a ricredersi dopo quanto ha mostrato negli ultimi due mesi e in particolar modo ai mondiali di Cortina d’Ampezzo. Tuttavia, la duplice campionessa iridata non fa l’unanimità sul piano del gradimento personale. Sui Social parecchi utenti la ritengono antipatica, arrogante, mai soddisfatta. Mi spiace per lei. Non la conosco abbastan-
za per capirne reazioni, stati d’animo e meccanismi mentali. Credo però che non debba essere facile riuscire ad essere sempre al Top, con la mente sgombra da turbamenti quando sai che a casa c’è anche chi non ti ama. Fa parte della vita di ogni individuo, ma è una situazione che potrebbe scatenare anche reazioni positive, a condizione di avere un carattere granitico come quello di Lara. È vero che dà l’impressione di essere sempre insoddisfatta delle sue prestazioni. A qualcuno questo atteggiamento sembra spocchioso, da «prima della classe». Ma è l’unico modo
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 8 - “... ma la mia fame nondelle è così stupida”) 1
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25. Isola delle Marianne 26. Penisola del mare Adriatico 28. Bellezza 29. Fu maestro di Paganini 30. Importò in Europa l’uso del tabacco 31. Rovinato a Londra 32. Una persona... come un’altra VERTICALI 2. Operazione economica vantaggiosa 3. Antico strumento musicale 4. Un anagramma di oste 5. Mercurio le aveva ai piedi 7. Possono essere anche atmosferici I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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M A L Scoprire i 3 F I numeri corretti da inserire nelle Scolorate. F U caselle L A T E R O A E L S I S T P A M A R Soluzione:
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8. Correlativo di quanto 9. Ispide, fitte 10. Tre volte in latino 13. Privi di onestà e schiettezza 14. Malinconica, triste 15. Dermatosi pruriginosa 17. Pianta aromatica 19. Desiderio inglese... 20. Lineamenti 22. Famosa attrice italiana 23. Antico strumento a fiato greco 24. La vedette degli studios 25. Piccolo rettile 27. Stabilimento termale 28. Si chiede gridando Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Soluzione della settimana precedente
LO SAPEVI CHE… – Il legume più antico è… ed è originario del…: LA LENTICCHIA – SUD DELLA SIRIA.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Politica e Economia Le mafie avanzano In Italia pandemia e crisi economica fiaccano aziende e privati che ricorrono all’usura
Le ombre della Brexit Il successo della campagna vaccinale nel Regno unito mette in ombra il tema della Brexit, ma i problemi restano pagina 23
Wuhan e i suoi misteri La storia della metropoli, il diario dell’intellettuale Fang Fang e le bugie del regime cinese pagina 24
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Alle urne il 7 marzo Fra gli oggetti in votazione federale, la legge sull’identità elettronica e l’accordo di libero scambio con l’Indonesia
pagina 25 La nigeriana Okonjo-Iweala ha lavorato 25 anni per la Banca mondiale. (Keystone)
La possibilità di riscatto dell’Omc
Nomina Ngozi Okonjo-Iweala è la prima donna al vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Sfide colossali la attendono, come la riforma dell’organismo esautorato da Trump e il problema dell’accesso ai vaccini Luisa Betti Dakli Per Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, sarà lei a «sconvolgere» i vertici dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), perché la nigeriana Ngozi OkonjoIweala, nuova direttrice generale dell’Omc, non è una persona comune. Prima donna e prima africana a ricoprire questo ruolo, dove s’insedierà il 1. marzo per rimanere fino al 31 agosto 2025, possiede i requisiti per affrontare le colossali sfide che l’attendono: riformare l’organismo immobilizzato dalla politica di Trump, riprendere le fila del commercio internazionale colpito dalla pandemia, mediare le tensioni tra Usa e Cina, puntare sul rispetto delle regole del commercio globale e facilitare l’accesso ai vaccini contro il Covid nel mondo. Laureata in Economia ad Harvard e con un dottorato di ricerca al Massachusetts institute of technology, questa donna tenace e testarda ha lavorato 25 anni alla Banca mondiale dov’è diventata amministratrice delegata e vice di Robert Zoellick tra il 2007 e il 2011, ma soprattutto è stata la prima donna due
volte ministra delle Finanze nel suo Paese, rispettivamente sotto il presidente Olusegun Obasanjo (2003-2006) e il presidente Goodluck Jonathan (20112015), nonché ministra degli Affari esteri nel 2006. Figlia del professor Chukwuka Okonjo, Obi (re) della famiglia reale Obahai di Ogwashi-Ukw, da adolescente Okonjo-Iweala è stata testimone degli orrori della guerra civile e come ministra delle Finanze è riuscita a cancellare 30 miliardi di dollari di debito del suo Paese e triplicare il tasso di crescita, sconfiggendo i nemici politici e mostrando una notevole forza quando sua madre è stata rapita a 83 anni, dopo che lei aveva denunciato la corruzione dell’industria petrolifera nigeriana. Grazie alla sua tempra si è guadagnata il titolo di «Okonjo-wahala», che significa «piantagrane». «Quello che la rende cara a molte persone è la facilità con cui riesce a identificarsi con i problemi che incontra», ha osservato Vera Songwe, segretaria esecutiva della Commissione economica dell’Onu per l’Africa. «È riuscita ad arrivare lontano grazie all’esperienza vissuta in prima persona». La neo direttrice dell’Omc è
nata nel 1954 e si è sposata con Ikemba Iweala, un neurochirurgo di Washington. È madre di 4 figli tutti laureati ad Harvard, ed è nei consigli d’amministrazione di Standard chartered bank, Twitter e African risk capacity. È stata nominata da Fortune come una delle 50 grandi leader mondiali, da Forbes come una delle 100 donne più potenti, e da Time come una delle 100 persone più influenti del pianeta. A rendere possibile la sua nomina all’Omc è stato l’endorsement del nuovo presidente americano Joe Biden che le ha spianato la strada dopo che Donald Trump si era opposto alla sua candidatura sostenendo invece la ministra del Commercio della Corea del Sud, Yoo Myung-hee (la quale ha abbandonato la partita). Lo stesso Trump durante il suo mandato aveva minacciato di lasciare l’Omc, principale arbitro del commercio internazionale, e aveva bloccato l’azione dell’organizzazione, di fatto gestendo le tensioni con la Cina attraverso protezionismo e guerra di dazi, in un crescendo che avrebbe potuto trasformarsi in un conflitto armato. In particolare l’ex presidente Usa aveva
impedito la nomina dei nuovi membri della Corte d’appello, l’organismo che decide sulle controversie internazionali tra gli Stati dell’Omc, la quale richiede il consenso di tutti i Governi, e aveva criticato l’organizzazione per non aver frenato la Cina nelle sue pratiche sleali dopo la sua entrata nel 2001. Critiche che non sono iniziate con Trump, in quanto gli Usa chiedono da tempo regole nuove per permettere alle loro aziende di competere alla pari con la Cina. Ma se l’Omc è stata fondata per aprire mercati e regolare le relazioni commerciali, per Biden come per l’Ue diventa ora prioritario affrontare il mercato cinese soprattutto con il dialogo. La scelta di Okonjo-Iweala sembra andare in questa direzione, sperando nella sua capacità di operare nello spinoso triangolo Usa-Ue-Cina. A complicare il quadro la pandemia da Covid e la gestione dei vaccini. L’economista nigeriana ha ribadito la necessità di garantire un accesso universale ai preziosi medicamenti, respingendo le restrizioni commerciali e le manovre per mantenere nascoste le scorte anche quando sono necessarie altrove. Fa ben sperare il fatto che
fino a dicembre 2020 Okonjo-Iweala è stata nel consiglio del Global alliance for vaccines and immunization (Gavi) e ha guidato il contrasto all’epidemia di Ebola nella Repubblica democratica del Congo e nell’Africa occidentale, nonché nel primo anno di Covid-19. «Una Omc forte è essenziale se vogliamo riprenderci rapidamente dalla devastazione causata dalla pandemia», ha affermato dopo la nomina. «Insieme possiamo rendere l’organismo più agile e più adatto alle realtà di oggi». Un altro tema caro ad Okonjo-Iweala è il clima. In particolare la riflessione si concentra sui prodotti ad alto contenuto di carbonio provenienti da Paesi senza un programma per il contrasto ai cambiamenti climatici: sia nel modo in cui vengono trasportate le merci, sia per il loro contenuto di carbonio. L’ipotesi dell’economista nigeriana è quella di ragionare con i Paesi membri riguardo la tassa sul carbonio (carbon tax) che «potrebbe essere vista dai ministri delle Finanze come un altro modo per aumentare le entrate, ma al contempo incoraggerebbe un comportamento economico migliore rispetto al cambiamento climatico».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Politica e Economia Milioni di famiglie affogano nei debiti e rischiano di cadere nel tranello dell’usura. A lato: in fila per un pasto (Napoli). (Keystone)
Chi fa tremare Wall Street
Il caso Migliaia di piccoli investitori hanno
messo in difficoltà alcuni grossi fondi d’investimento, utilizzando strumenti innovativi e seguendo i social media
Marzio Minoli
L’assalto della malavita Italia La crisi economica dovuta alla pandemia mette in ginocchio
aziende e privati che si ritrovano in balia della criminalità organizzata
Alfio Caruso Una foto racconta il versante malavitoso e denso di pericoli della pandemia da Covid. È stata scattata dai carabinieri a Palermo a gennaio. Inquadra Giuseppe Cusimano, emergente capomafia di uno dei mandamenti più importanti, quello comprendente i quartieri dello Zen, di Mondello, di Tommaso Natale. Il boss e i suoi guardaspalle caracollano a causa dei troppi sacchetti della spesa: l’hanno fatta per i tanti vicini di casa mandati alla fame dal virus. In una città che vive soprattutto di lavoro nero, lo stop alle attività ha comportato enormi problemi sociali. La risposta dello Stato non è stata sufficiente con i ristori e i redditi di sostentamento spesso finiti nelle mani sbagliate (lo stesso Cusimano figurava tra i percettori). E allora ecco le nuove generazioni di Cosa nostra farsi avanti con il loro welfare teso ad acquisire benemerenze e complicità. Già in aprile Cusimano, un fratello condannato in diversi processi per mafia e droga, si era messo in mostra affermando di voler fare azioni caritatevoli, di voler distribuire pacchi senza nulla chiedere in cambio. Che fosse invece un’operazione di facciata, mirante a imporre la sudditanza al territorio, i carabinieri l’avevano percepito lo scorso settembre allorché due gruppi contrapposti si erano sfidati in pieno giorno con le armi in pugno nelle strade dello Zen. Solo per un caso fortuito non ci sono state vittime, purtroppo non ci sono stati neppure testimoni, malgrado i numerosi passanti finiti in mezzo allo
Segnali inquietanti anche in Svizzera Pandemia e crisi economica creano nuove opportunità per delinquere anche in Svizzera. «In particolare – suggerisce ad «Azione» Christine Caron-Wickli, portavoce del Dipartimento federale di giustizia e polizia – la criminalità organizzata potrebbe sfruttare la difficile situazione finanziaria in cui versano tante aziende per i propri fini. Potrebbe ad esempio reinvestire in modo occulto valori patrimoniali di provenienza illecita, rilevando aziende sull’orlo del fallimento o servendosi di queste ultime per riciclare denaro. È tuttavia ancora presto per poter trarre indicazioni specifiche». Alla tematica è dedicato un rapporto dell’agenzia internazionale di polizia Europol (www.europol.europa. eu/general-terms/covid-19?page=1).
scontro a fuoco. Dietro la beneficenza di facciata c’erano le estorsioni agli imprenditori e le rapine. Il denaro ricavato sarebbe poi stato investito rilevando le attività commerciali – bar, ristoranti, supermercati, boutique – con l’acqua alla gola dopo un anno di cattivi affari. Malauguratamente l’assalto della malavita al commercio in crisi viene denunciato in ogni regione. Più le banche hanno chiuso il rubinetto dei crediti e dei fidi, più le organizzazioni criminali hanno festeggiato. A loro i quattrini da investire non mancano: in un anno la ’Ndrangheta guadagna 60 miliardi di euro, Cosa nostra 35, la Camorra 20. I soldi sporchi provenienti soprattutto dal traffico di droga, dall’usura, dal pizzo, dal riciclaggio rappresentano la trappola in cui non pochi sono tentati di cadere per evitare il fallimento d’imprese quasi sempre familiari, spesso frutto del lavoro e dei sacrifici di nonni e di genitori. Eppure le denunce per estorsione e usura sono drasticamente diminuite dall’emanazione della Legge 108 nel 1996: da 1436 dell’epoca alle circa 600 del 2020, secondo una previsione del ministero della Giustizia. I dati a disposizione spiegano che la regione più colpita è la Sicilia, seguita da Puglia, Calabria, Campania, Umbria, Lombardia e Lazio. Un’altra inchiesta dei carabinieri, stavolta nell’hinterland di Roma, racconta la ferocia dispiegata quale abituale modus operandi. Pestaggi, minacce, raid punitivi per incassare le rate delle somme prestate a piccoli artigiani, operai in cassa integrazione, impiegati disoccupati. Poche migliaia di euro a un tasso mensile variabile dal 10 al 40 per cento, che in un anno possono moltiplicarsi per 5, per 6, per 7 volte. Alcune intercettazioni telefoniche, riportate negli ordini di cattura, danno i brividi: a un garagista minacciavano di prelevare il figlioletto all’asilo e di condurlo «a una gita fuori porta», a un idraulico di fargli trovare un muscoloso esattore sotto casa. Avvertimenti quasi sempre coronati da successo. E il denaro incassato serviva per il traffico di cocaina e di armi. La Direzione investigativa antimafia parla addirittura del pericolo di un’autentica colonizzazione del sistema imprenditoriale da parte dei clan. E della loro regia di possibili disordini e sollevazioni di massa nelle periferie delle città più esposte. La crisi economica e finanziaria attanaglia ormai il Paese non meno di quella sanitaria. E se è vero che bisogna essere vivi per poter contribuire al rilancio dell’Italia è altrettanto vero che i tempi di una ripresa paiono dilatarsi. La Consulta nazionale antiusura scrive di «circa 2 milioni di famiglie in sovra-
indebitamento e di altre 5 milioni appena sopra la soglia, cioè in equilibrio precario tra reddito disponibile e debiti ordinari. Di queste, circa 800mila persone o 350mila famiglie sono nell’area dell’usura». Viene stimato che lo choc della pandemia abbia fatto lievitare fino a 6 milioni il numero di famiglie in sofferenza: da quelle pressate da uno stato d’insolvenza finanziaria o creditizia a quelle più esposte in misura crescente alla trappola dell’usura. Non a caso è stato nel 2020 l’unico reato in forte aumento, +9,6 per cento, a fronte di una diminuzione di tutti gli altri. Altrettanto drammatica la denuncia della Confcommercio: almeno 40mila aziende potrebbero finire in mano alla criminalità organizzata. Le cause sono le solite: i debiti provocati dai tanti fermi imposti dalla pandemia; le rate insostenibili dei prestiti usurai. Nella sola Roma la perdita di bar e ristoranti è di un milione al giorno. Le associazioni antimafia segnalano dati, vicende, intercettazioni capaci di tratteggiare un quadro chiaro sulle modalità con cui mafia, in Sicilia, ’Ndrangheta, in Emilia, Lombardia, Veneto, e Camorra, in Campania, hanno ricavato un grande profitto dall’emergenza. Fino ad ora sono stati aperti oltre 3000 fascicoli di indagine riguardo all’assegnazione di appalti legati alla distribuzione di presidi medicali, allo smaltimento di rifiuti sanitari, all’importazione di prodotti farmaceutici. Ma c’è anche un versante estero. Gli emissari della ’Ndrangheta hanno puntato i resort della Costa Azzurra e della Costa del Sol, anch’essi piegati dalla mancanza di turismo; i ristoranti di Berlino e i pub di Londra chiusi per il lockdown; gli appartamenti sfitti nelle capitali europee e acquistabili a cifre irrisorie. Secondo un calcolo dell’Autorità nazionale anticorruzione italiana sono stati spesi più di 3000 miliardi di fondi pubblici per l’acquisto di mascherine, camici, respiratori polmonari, tamponi e altro. Una commessa che fa gola soprattutto alla ’Ndrangheta. L’agenzia delle Dogane è quotidianamente impegnata contro il rischio d’immissione di vaccini pericolosi e farmaci che verrebbero in seguito rivenduti in altre Nazioni a prezzi maggiorati, il doppio o il triplo di quanto sono stati comprati. Le operazioni di riciclaggio sono aumentate di quasi il 5 per cento rispetto agli anni precedenti. Allo stesso tempo sono aumentati anche i reati online: a esempio l’invio di email di phishing in tutto il mondo con sfruttamento di temi correlati al Coronavirus per raggirare persone fisiche e aziende. Triplicato anche il numero di crimini informatici e il traffico di droga.
Cos’è successo tra il 20 e il 27 gennaio scorsi? Che cosa ha messo in allarme il mondo della finanza, Wall Street, ma anche le autorità di vigilanza sui mercati finanziari statunitensi, facendo parlare i giornali di mezzo mondo? Ecco cosa è successo: il titolo GameStop, una grande multinazionale americana che vende videogiochi e tutto quanto relazionato a questo settore, è balzato da 30 a 347 dollari. Solitamente quando si vedono queste forti oscillazioni significa che qualche cosa è successo in seno alla società, in senso buono. È stato così? No, perché GameStop, che ha circa 6’000 negozi sparsi per il mondo, continua a essere un’azienda in forti difficoltà economiche e che annuncia chiusure a destra e a manca. Ma allora cosa ha spinto il titolo a un rialzo di più del 1’000 per cento? Semplice, una miriade di piccoli investitori, gente comune ma soprattutto millennials, ovvero persone tra i 30 e i 40 anni, si sono messi d’accordo per acquistare questo titolo, facendo lievitare le quotazioni. E questo solo per mettere i bastoni tra le ruote ad alcuni hedge funds che avevano scommesso contro GameStop, vendendone le azioni, in quella che tecnicamente si chiama una strategia di short-selling o, in italiano, vendite allo scoperto, cioè vendere le azioni senza possederle con la convinzione che scendano, per poi ricomprarle a un prezzo più basso. Strategia mandata a gambe all’aria da questi piccoli investitori, con miliardi di dollari persi dai fondi. Una piccola parentesi. Come posso vendere qualcosa che non ho? È controintuitivo di primo acchito, ma si può. Basta farsi prestare le azioni da un broker, con la promessa di ridargliele a una certa scadenza. Questo dunque, in estrema sintesi, quanto successo. In quei giorni parecchia narrazione mediatica, con toni discutibilmente entusiastici, ha parlato di Davide contro Golia, di vendetta dei piccoli contro i giganti della finanza, simbolo, secondo alcuni, di ogni male sulla Terra. Rimangono però alcuni punti da chiarire che potrebbero avere degli aspetti poco romantici. Ma andiamo con ordine. Come è stato possibile coordinare migliaia di piccoli investitori e spingerli ad agire in una certa direzione? Quanto visto è stato caratterizzato da due grosse novità, che potrebbero segnare uno spartiacque nel modo di fare investimenti e che preoccupano il mondo della finanza, ma anche chi deve controllare e dare delle regole a questo mondo. La prima è il ruolo fon-
damentale avuto dai social media, in particolare dal sito Reddit.com, il quale ospita un forum di discussione dal nome evocativo, Wallstreetbets, specializzato in discussioni di carattere finanziario. Da qui un utente anonimo ha lanciato un messaggio con il quale si incitava a una sorta di vendetta contro un fondo in particolare che, avrebbe rubato soldi a molti investitori, e quindi era arrivato il momento di vendicarsi, acquistando i titoli che il fondo stava vendendo allo scoperto, facendone salire il corso. E la cosa ha funzionato. Il fondo ha perso miliardi di dollari. Qui entra in gioco la seconda novità. Per effettuare queste operazioni bastava avere una delle tante applicazioni per smartphone che permettono di effettuare investimenti. Sono strumenti facili da usare, gratuiti e soprattutto, sempre a portata di mano. Ecco, è stata la combinazione tra queste app e il social media Reddit. com a scatenare tutto il pandemonio in modo così veloce. E a questo proposito è interessante osservare come alcuni esperti siano concordi nell’affermare che Reddit possa diventare per la finanza quello che Facebook e Twitter sono per la politica. Questo in termini di capacità di influenzare le persone. Si diceva anche di Davide contro Golia. Tutto così romantico? Forse no. Chi c’è dietro quel famoso primo post che incitava alla vendetta? Un novello Robin Hood oppure qualcuno mosso da ideali meno nobili, ma spinto da interessi personali? I dubbi sono leciti. Inoltre, ci si è mossi al limite della legalità o forse oltre, tanto che le autorità stanno indagando su quanto successo. Infatti un conto è discutere di mercati finanziari, un conto è spronare ad effettuare delle operazioni. Si chiama manipolazione del mercato ed è vietato. Aggiungiamo pure che alcuni di questi «rivoluzionari» che hanno seguito i consigli dei social probabilmente si sono fatti male. Chi ha acquistato GameStop a 300 dollari e non le ha ancora vendute dormirà male, viste le condizioni in cui versa la società. Una cosa però è certa. La tecnologia nella finanza, la cosiddetta fintech, è sicuramente il futuro e lo vediamo anche nella nostra quotidianità. È uno strumento utile per ridurre i costi e facilitare le operazioni, ma anche per dare spazio a quella che è stata definita la «democratizzazione della finanza». Ma quanto successo è stato anche un segnale d’allarme. Come spesso accade la Rete, Internet, la tecnologia sono più veloci del diritto. Al legislatore trovare il sistema di stare al passo con i tempi.
GameStop: una catena di videogiochi finita in un gioco più grande di lei. (Keystone)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Politica e Economia
I vaccini rubano la scena alla Brexit
Regno unito Il successo della campagna anti Covid sostiene il morale del Paese nonostante i lockdown infiniti
ma gli effetti dell’uscita dall’Unione europea si fanno sentire: esportazioni complicate e care, troppa burocrazia
Cristina Marconi Boris Johnson è una delle poche persone per le quali il 2021 si sta rivelando ben migliore del 2020: i vaccini vanno a gonfie vele. Questo tiene abbastanza alto il morale del Regno unito nonostante i lockdown infiniti che però, a loro volta, hanno il vantaggio di rubare la scena a quella che in tempi normali sarebbe stata la storia del momento, ossia la vita fuori dall’Unione europea. Non solo, dopo un negoziato in cui l’Ue è stata impeccabile, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha rovinato in pochi giorni il paziente lavoro di anni, sollevando una polemica con AstraZeneca (che ha dimostrato solo che il Regno unito ha negoziato in modo più scaltro) e minacciando quella chiusura delle frontiere dell’Irlanda del Nord che tutti hanno cercato di scongiurare. Lei si è scusata ma a Londra è rimasta la sensazione di non essersi persa niente, uscendo dall’Ue. E la campagna vaccinale, con il Regno unito in testa con oltre 15 milioni di persone che hanno ricevuto la prima dose di vaccino (dato del 14 febbraio), sembra confermare quest’idea. Ma non di soli vaccini è fatto il rapporto tra Ue e Regno Unito. A Downing street, comunque, non dispiace che l’attenzione sia tutta rivolta lì, visto che queste prime settimane fuori dall’Unione europea sono ancora piene di insidie di natura pratica. Il problema più immediato e vistoso è quello delle dogane: spedire un pacco da una parte all’altra del confine europeo è diventato un incubo e questo, oltre a essere sentito dai privati cittadini, è un serio problema per gli esportatori. Questi raccontano che «se non si parla francese è impossibile» riempire tutta la documentazione necessaria per mandare nell’Ue i propri beni, sapendo che l’intero processo sarà comunque più caro.
E quindi niente custard pies (torte alla crema) sugli scaffali del Continente e prelibatezze europee sempre più care e scarse nel Regno unito. Pacchi postali fermi per settimane alle frontiere (le merci deperibili?) e Amazon che davanti a una spedizione transfrontaliera alza le mani e dice: non ce la faccio. Secondo un sondaggio delle Camere di commercio britanniche, il 49% delle imprese sta trovando le esportazioni difficili o molto difficili. In molti sostengono che l’unica via d’uscita sia creare una sede nell’Unione europea, se si vuole sopravvivere. Ma con la pandemia a occupare i giornali, ci sono voluti appelli stentorei perché la questione venisse dibattuta. Il fatto che Johnson abbia nominato David Frost, il falco che ha negoziato la Brexit, responsabile delle relazioni future con l’Ue dimostra che l’intenzione è quella di proseguire con i toni duri delle ultime settimane, senza conciliazioni. Anche il settore della musica e dell’arte è in subbuglio e chiede misure urgenti per permettere alle tournée e alle collaborazioni internazionali di riprendere una volta finito l’incubo della pandemia, mentre i pescatori hanno iniziato a essere scontenti dell’accordo raggiunto già all’alba del 1. gennaio. È stato anche facile attribuire la destabilizzazione della situazione in Irlanda del Nord, dove si sono verificati incidenti spiacevoli ai controlli con la Gran Bretagna, alla malagrazia di Ursula von der Leyen e non a una situazione obiettivamente difficile. I punti di contatto sembrano essere pochi tra i due blocchi, al momento. Gli europei stanno tornando a casa, tra sterlina in calo, Brexit e pandemia, mentre l’opinione pubblica britannica ancora non sembra aver messo a fuoco l’entità del problema, né è destinata a farlo presto visto che l’estate si preannuncia da trascorrere tutta dentro i
Boris Johnson baldanzoso visita un centro di vaccinazione a Cwmbran, città nel Galles sudorientale. (AFP)
confini nazionali. Sullo straordinario successo della campagna vaccinale, con cui si camuffano gli errori del passato e il numero altissimo di vittime nel Paese, oltre 118mila, pesa l’incubo delle varianti e il rischio che rendano vani gli sforzi fatti fino a ora, compreso un lockdown iniziato a novembre e interrotto solo per un pugno di giorni a dicembre. I toni nazionalistici servono e per una volta non sono del tutto inopportuni. La scommessa di tirarsi fuori dallo schema europeo per l’acquisto dei vaccini è stata più che vincente, anche se a luglio scorso sembrava scriteriata e spericolata. E l’anticipo nell’approvazione del vaccino Pfizer, fatta il 2 dicembre con prima iniezione l’8, ha permesso di dare il via a una campagna pianificata da tempo. Il resto lo ha fatto un sistema
sanitario che sa operare meglio in emergenza che nella normalità e che mantiene una presenza capillare e un rapporto molto stretto con la popolazione, anche se per raggiungere certe comunità c’è voluto uno sforzo in più, come ad esempio creare dei centri di vaccinazione nelle moschee. Ma gli sforzi non sono bastati. Tanto che ora si teme che tra gli ultrasettantenni che hanno rifiutato il vaccino si possano creare le condizioni per l’emergere di una nuova variante, facendo crollare l’intera operazione. Anche per questo il Governo sta cercando di controllare il più possibile gli arrivi nel Paese, con un obbligo di quarantena negli alberghi che però fatica a decollare e sembra arrivare sorprendentemente tardi in un Paese in cui la popolazione è ferma in salotto da sette settimane. Il vaccino usato
nel Regno unito, quello di AstraZeneca, è stato criticato per la sua presunta scarsa efficacia nelle persone con più di 65 anni e soprattutto è stato rispedito al mittente dal Sudafrica dopo che si è scoperto che non funziona contro la preoccupante variante locale. Ad ogni modo il Governo è riuscito a scongiurare il senso di impotenza che aveva dominato il 2020 e a distogliere l’attenzione dall’uscita dall’Ue. Non c’era bisogno della Brexit perché Londra agisse da sola, ma certo da un punto di vista diplomatico sarebbe stato molto più difficile da gestire e giustificare. E ora è molto più utile poter dire che con la Brexit il Paese ha segnato un punto, permettendo a Boris Johnson di riemergere dall’oltretomba politico verso il quale sembrava prematuramente avviato.
Indipendentisti divisi e balzo dell’estrema destra Elezioni catalane I secessionisti comunque superano il blocco unionista. Intanto i socialisti diventano il primo
partito e Vox ottiene l’8% dei voti. Madrid può attendere con più tranquillità il nuovo Esecutivo a Barcellona Gabriele Lurati Nemmeno la pandemia ha frenato i secessionisti. Gli elettori pro indipendenza si sono mobilitati in massa per raggiungere un risultato storico, dall’alto valore simbolico. Per la prima volta infatti i 3 partiti indipendentisti hanno ottenuto più della metà dei voti (51%), consolidando inoltre la loro maggioranza al Parlamento regionale (passando da 70 a 74 seggi su un totale di 135). Il sorpasso in numero di voti sul blocco unionista è il dato politico più rilevante di questa tornata elettorale, unito al fatto che la leadership nel campo indipendentista è passata nelle mani di Erc, la Sinistra repubblicana di Catalogna. Questo non è un dettaglio perché chi sta già dirigendo le trattative per la formazione del nuovo Governo regionale è proprio Erc, partito che preferisce il dialogo al separatismo unilaterale, auspicato invece da Junts per Catalunya. Il partito del «leader in carcere» Oriol Junqueras ha in effetti superato di poco quello del «fuggitivo» Carles Puigdemont (33 sono i seggi ottenuti da Erc contro i 32 di JxCat). I due partiti avranno comunque bisogno anche dell’appoggio della sinistra anticapitalista della Cup (9 seggi) per poter governare. La formazione del nuovo Governo non sarà comunque facile perché i tre partiti secessionisti rispondono anche a ideologie politiche completamente
diverse. Si passa da un partito di recente creazione come JxCat (una destra nazionalista di ispirazione borghese, nata sulle ceneri della vecchia Convergència i unió, ma che ingloba una massa molto eterogenea di soggetti) a un partito della sinistra popolare con una struttura dirigenziale ben definita e radicata da 90 anni sul territorio come Esquerra republicana de Catalunya (Erc) per finire con la Cup (un movimento assembleare anti-sistema). L’unica cosa che realmente unisce queste tre formazioni è solo la volontà di creare uno Stato catalano indipendente ma divergono
Pere Aragonès di Erc, la Sinistra repubblicana di Catalogna. (Keystone)
su tutto il resto. In effetti la distanza ideologica, soprattutto quella tra Erc e Junts, si è notata nell’ultima legislatura quando le tensioni sono state piuttosto forti. Sarà dura ricucire questa frattura per formare il nuovo Governo ma le chiavi del gioco questa volta sono in mano a Erc, che dovrebbe esprimere anche il nuovo presidente catalano. Pere Aragonès, il candidato di Esquerra alla presidenza della Generalitat, ha già affermato che cercherà di formare il prima possibile un Governo indipendentista a favore dell’autodeterminazione e dell’amnistia per tutti i condannati separatisti in carcere. Naturalmente Aragonès sa bene che sono dichiarazioni di facciata, dato che queste azioni sono incostituzionali o sono decisioni che spettano solo al Parlamento nazionale (mediante una modifica della legge sull’amnistia) o al Governo (nel caso della concessione di un indulto). Il fatto però che al Governo centrale ci sia un Esecutivo progressista come quello di Pedro Sánchez, che ha puntato sul dialogo e sulla riappacificazione con la Catalogna, dovrebbe comunque essere d’aiuto per tenere basso il livello dello scontro tra Barcellona e Madrid. La scommessa di Sánchez in Catalogna è stata altresì vincente. Il Partito socialista catalano (Psc) è risultato il primo con il 23% dei voti, recuperando il primato nello scacchiere politico catalano dopo 15 anni. Il candidato
del Psc, Salvador Illa, ha detto di volersi presentare anch’egli all’investitura come presidente, pur non avendo i numeri sufficienti per una maggioranza unionista in Parlamento. Illa, con questa mossa, vuole principalmente speculare sulle divisioni tra Erc e JxCat e mettere pressione a Pere Aragonès, convincendolo della possibilità di un Governo «alternativo» non secessionista. Questo Esecutivo potrebbe essere formato dalle tre sinistre: Erc, Psc e En comú podem (la versione catalana di Podemos). Gli incontri tra i vari partiti per sondare possibili accordi di governo sono già cominciati e hanno come limite massimo il 12 marzo, ultimo giorno previsto per la costituzione del nuovo Parlament. Nell’assemblea regionale catalana farà il suo ingresso per la prima volta il partito di estrema destra Vox, che ha ottenuto l’8% dei voti e 11 seggi. Un dato molto preoccupante, in una regione che si credeva immune dal populismo xenofobo e che invece si trova con un movimento che ha saputo intercettare al meglio la rabbia di quella parte di elettorato urbano (soprattutto nell’area periferica di Barcellona) che si è sentito escluso ed è stanco di sentire parlare solo di indipendentismo. Pur disponendo di una classe dirigente palesemente impreparata, a Vox sono bastati pochi slogan contro gli immigrati e avvolgersi nella bandiera del patriottismo spagnolo per diventare la quar-
ta forza nel Parlament. Una specie di trumpismo, già diffuso anche nel resto della Spagna, che nella sua crescita sta rubando voti ai conservatori del Partito popolare, favorendo così indirettamente Pedro Sánchez. La nascita di Vox ha infatti portato alla irrilevanza politica il Pp in Catalogna (tre soli seggi ottenuti) e a un indebolimento della figura del suo leader Pablo Casado, sempre ondivago tra una linea di destra moderata e quella più estremista, nonché alle prese con gravi casi di corruzione del partito. La mancanza di un’opposizione forte nel Parlamento di Madrid dovrebbe perciò consentire al premier una navigazione più serena del Governo centrale per almeno un anno, visto che non sono previsti altri appuntamenti elettorali fino al 2022. Inoltre per il primo ministro la minaccia indipendentista per il momento sembra più lontana, dato che Erc ha vinto la battaglia interna al secessionismo e, storicamente, ha sempre avuto un atteggiamento abbastanza pragmatico nelle richieste al Governo centrale. In ogni caso il governo Sánchez ha già messo le mani avanti, affermando che la possibilità di celebrare un referendum non viene presa in considerazione in quanto illegale. Insomma, nel breve periodo, il movimento secessionista può aspirare al massimo a ottenere la liberazione dei suoi leader in carcere, ma di autodeterminazione non se ne parla proprio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Politica e Economia
I segreti che Wuhan nasconderà per sempre
Cina Il diario dell’intellettuale Fang Fang dalla metropoli dove sono stati scoperti i primi focolai di Coronavirus
è un documento essenziale per capire il Paese e un implacabile atto d’accusa contro il regime e le sue bugie Federico Rampini L’evento che ha cambiato la storia del mondo ebbe inizio in una città di cui la stragrande maggioranza degli occidentali ignorava l’esistenza. Capi di Stato stranieri, giornalisti americani o europei, medici e opinionisti dovettero cercare sulle carte geografiche questa sconosciuta: Wuhan. Salvo scoprire che con 11 milioni di abitanti è più grossa di New York.
È uno dei centri su cui punta Xi Jinping per la transizione dall’industria pesante alle tecnologie avanzate Per i cinesi non è una delle megalopoli più importanti come Pechino o Shanghai, appartiene alla «seconda fila» delle loro grandi città. Ma ha un profilo storico importante. Le prime tracce di civiltà in quell’area risalgono a 3’500 anni fa, quando da noi al posto dell’antica Roma c’era una palude selvaggia, disabitata, infestata di zanzare da malaria. Nell’VIII secolo prima di Cristo, quando nasce Roma, Wuhan è già una delle città importanti del Regno di Chu. Con un balzo di due millenni, nell’era contemporanea è celebre in Cina per la rivolta del 1911 che fa crollare l’ultima dinastia imperiale, i Qing. Nel 1927 e di nuovo nel 1937, per brevi periodi, Wuhan diventa la capitale provvisoria della Cina sotto il Governo nazionalista del Kuomintang. Come ricco centro industriale e sede di una delle più grandi case automobilistiche nazionali viene chiamata la «Chicago d’Oriente». In quella regione – lungo il fiume Yangze a metà strada tra Wuhan e Chongqing – sorge uno dei simboli più mostruosi e controversi del decollo economico, un’opera titanica, la Diga delle tre gole che ha sconvolto l’habitat per generare elettricità. Perché Wuhan è una città lontana dal mare ma immersa nelle acque: al crocevia tra due grandi fiumi, lo Yangtze e il suo maggiore affluente, lo Han. Più un’infinità di specchi lacustri. La chiamano anche «la provincia dai mille laghi». Di questi tempi la bellezza naturale è in secondo piano rispetto alla
Wuhan ha 11 milioni di abitanti e viene anche chiamata «Chicago d’Oriente». (AFP)
modernità, allo sviluppo, ai grattacieli, all’inquinamento. Un groviglio di linee ferroviarie ad alta velocità fa sì che da Wuhan si possa raggiungere qualsiasi altra megalopoli cinese in meno di 4 ore. La «Chicago d’Oriente» è uno dei centri su cui punta Xi Jinping per la transizione dall’industria pesante alle tecnologie avanzate. A Wuhan ci sono Politecnici d’eccellenza, centri di ricerca scientifica, tra cui un laboratorio biologico che fa esperimenti sui virus, del quale ormai abbiamo tutti sentito parlare. Quel laboratorio ricevette fino a tempi recenti finanziamenti anche dagli Stati uniti e dalla Francia, sicché il nome di Wuhan non era affatto sconosciuto per i virologi occidentali. Ancora all’inizio della pandemia continuava a esserci un volo nonstop, regolare e quotidiano, da Wuhan a San Francisco. Con la sua storia antichissima, sede di tante università, Wuhan ha sempre avuto una vita culturale intensa. Oggi la sua intellettuale più famosa
Le testimonianze e la missione insoluta Wuhan. Diari da una città chiusa di Fang Fang è una delle tante opere che raccontano cos’è accaduto dall’interno. Ce ne sono altre che lo hanno fatto con le immagini. Ricordiamo Coronation dell’artista dissidente Ai Weiwei (recluso per quasi tre mesi nel 2011 a causa del suo attivismo), un documentario istantaneo della pandemia, 115 minuti di fatti di cronaca dei giorni più drammatici e intensi della prima ondata. Che dire poi di 76 days di Hao Wu? È incentrato sui mesi di severissimo lockdown di Wuhan, la città dove come detto tutto è cominciato e dove di recente si è conclusa la missione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per il tracciamento dell’origine del virus. Missione che, lo ricordiamo, non ha portato a grandi risultati: non è stata individuata l’origine del virus, non è stato chiarito
come la Covid-19 si sia trasmessa dagli animali all’uomo (non è nemmeno tanto chiaro quale sia l’animale «incriminato») e come abbia raggiunto il capoluogo dell’Hubei, dove è emerso per la prima volta in tutta la sua potenza pandemica. Mentre l’ipotesi che si sia trattato di un errore umano, o meglio di una fuga da un laboratorio, è «estremamente improbabile» (tanto che il team di esperti ha raccomandato «di non continuare la ricerca in quella direzione».). Segnaliamo infine In the Same Breath (Nello stesso respiro), coraggioso documentario del 2021 diretto e prodotto da Nanfu Wang, regista americana di origine cinese che è riuscita a filmare il caos di Wuhan ma che d’altro canto evidenzia le bugie raccontate anche dall’amministrazione del suo Paese, gli Stati uniti, con Trump e le sue teorie in testa.
è Fang Fang, 65 anni, autrice di romanzi importanti. È una scrittrice autorevole, circondata dal rispetto degli ambienti intellettuali e dei suoi lettori, ma si muove su una frontiera pericolosa: il dissenso moderato, quasi tollerato. In realtà sempre meno tollerato da quando al vertice c’è Xi Jinping. Il regime si accontenta di scatenarle addosso i troll dei social media, un esercito di custodi dell’ortodossia ideologica, a volte giovanissimi, che offendono insultano minacciano. Per la fortuna dei cinesi e del mondo intero, quello che è accaduto a Wuhan dal gennaio all’aprile 2020 ha avuto Fang Fang come testimone d’eccezione. Segregata in casa come tutti i suoi concittadini nella metropoli-focolaio della Covid, la scrittrice ha tenuto un diario quotidiano. Lo ha pubblicato in tempo reale su uno dei più popolari social media cinesi, la piattaforma Weibo. Ci ha messo tutto: l’orrore per le bugie iniziali del regime che hanno consegnato una città di 11 milioni all’ecatombe, poi il racconto del lockdown severissimo, di fatto una super-quarantena con restrizioni feroci, la reazione della gente, il bilancio finale. I testi che Fang Fang diffondeva ogni giorno su Weibo sono stati spesso censurati, fino a diventare invisibili. Oggi la strage di Wuhan può sembrare un micro-episodio che si perde nelle nebbie della memoria, un preambolo breve a una vicenda che si è allargata dalla Cina all’Europa alle Americhe. Qualcuno di noi può credere di aver vissuto a Milano o a Bergamo, a Londra o a Parigi, a New York o a Los Angeles, la sua variante locale della storia di Wuhan, perché i lutti e le sofferenze si sono allargati a dismisura nel mondo intero, e tutti quanti abbiamo dovuto sopportare la nostra parte di sacrifici, rinunce, perdite. Ma non è la stessa cosa. Proprio perché la Covid ebbe inizio in quella metropoli, proprio perché tanti misteri forse avvolgeranno per sempre la genesi della pandemia, proprio perché il regime cinese ha ribaltato in modo spettacolare la situazione, quel che ha scritto Fang Fang rimane un docu-
mento storico unico, irripetibile. Ed è certamente una lettura indispensabile per capire la Cina di oggi. Wuhan. Diari da una città chiusa è stato tradotto in diverse lingue e anche in italiano. Fin dalle prime pagine il diario di Fang Fang è un implacabile atto d’accusa verso i governanti cinesi: prima di tutto contro i politici locali, ma via via la sua requisitoria si allarga a livello nazionale. Non risparmia gli scienziati, i medici, alcuni dei quali sottovalutarono il pericolo, sbagliarono le diagnosi, tranquillizzarono la popolazione. Il discorso si allarga a tutto il regime. Fu perso tempo prezioso, nascondendo la verità. Si potevano salvare tante vite a Wuhan, poi nel resto della Cina e nel mondo, se le autorità non avessero insabbiato i primi allarmi, perseguitando anche con gli arresti medici e giornalisti che osavano dire la verità.
Il libro documenta bugie ed errori commessi dai vertici cinesi. «Nessuno si è assunto la responsabilità» «Il virus apparso non è contagioso per le persone». Uno dei protagonisti della menzogna iniziale è un luminare della scienza, il dottor Wang Guangfa, inviato a Wuhan da Pechino, alla guida di una delegazione di medici designati dal Governo. «Sotto controllo», continua a ripetere nei giorni in cui la Covid sta esplodendo. Con il passare del tempo, che sbiadisce i ricordi, si rischia di sottovalutare la differenza tra la Cina e le democrazie, occidentali o asiatiche. Di fronte al Coronavirus sono stati fatti errori gravi ovunque, a prescindere dal sistema politico o dal partito al Governo. Gli statisti «rispettosi della scienza» come Emmanuel Macron non hanno avuto risultati migliori dei populisti come Donald Trump e Boris Johnson. Alla prova dei vaccini, perfino Angela Merkel e Ursula von der Leyen inizialmente hanno fallito. Ma è Fang Fang a
ricordarci la differenza fondamentale che distingue la Cina dagli altri: l’assenza di una libera informazione e di una magistratura indipendente impedisce di mettere a fuoco le responsabilità dei dirigenti comunisti, da Xi Jinping ai suoi emissari locali di Wuhan. L’assenza di libere elezioni toglie ai cittadini cinesi la possibilità di cacciare gli incapaci. «Non ho mai visto – scrive Fang Fang – una sola persona che si sia presa una responsabilità e abbia presentato le sue scuse». Insieme alla mancanza di una democrazia elettiva, è latitante un’etica della responsabilità. «Vedo solo leader che scaricano le colpe su altri. Ma che razza di società siamo, se chi ha le massime responsabilità di governo non risponde mai dei suoi errori?». Fang Fang non esita a chiamarli «criminali, colpevoli di una catastrofe umana». Dà voce ai sospetti, molto diffusi anche in Cina, secondo cui le cifre ufficiali sul numero di vittime sarebbero ancora oggi inattendibili, truccate, forse molto inferiori alla realtà. Chiede più volte che sia avviata un’inchiesta ufficiale sulle colpe, le menzogne iniziali, le voci zittite con violenza, l’insabbiamento di notizie preziose. La requisitoria dall’interno di Fang Fang è imbarazzante perché smonta il teorema di Xi Jinping sulla superiore efficienza del sistema autoritario cinese. Xi è convinto che le nostre liberaldemocrazie siano incapaci di rispondere ai bisogni dei cittadini. Il suo modello è un misto di comunismo (nel senso del primato del partito comunista), di paternalismo confuciano (il rispetto delle gerarchie, dell’autorità, l’imperatore come un padre di famiglia), di meritocrazia e di tecnocrazia (fiducia negli esperti al governo). Mentre noi ci illudiamo di selezionare governanti migliori andando in continuazione alle urne, e così creiamo instabilità, Xi è convinto che i suoi governanti siano selezionati attraverso la performance, il risultato. Ma un sistema come quello messo a nudo da Fang Fang, dove gli errori vengono nascosti, i colpevoli assolti, non è affatto una garanzia di performance.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Identità elettronica: un progetto rischioso?
Politica e Economia
Votazioni federali 7 marzo Alle Organizzazioni contrarie alla nuova legge non piace che siano degli operatori
privati e non lo Stato a fornire questo nuovo servizio Alessandro Carli Introdurre in Svizzera un’identità elettronica univoca, sicura e semplice. È quanto propone la Legge federale sui servizi d’identificazione elettronica, che Consiglio federale e Parlamento chiedono ai cittadini di approvare il 7 marzo prossimo. Si vota perché contro questo progetto è stato lanciato il referendum. Gli oppositori contestano il fatto che per avere un’identità digitale si debba passare attraverso operatori privati. Ed è appunto il ruolo che lo Stato assegna a questi fornitori di identità riconosciuti dalla Confederazione, come banche e compagnie assicurative, a sollevare più di un interrogativo, tanto che il progetto potrebbe anche naufragare. Secondo i sondaggi, infatti, i contrari continuano a guadagnare terreno, attestandosi al 55%. I favorevoli scendono al 40%. Per i promotori del referendum, «i dati sensibili non devono essere gestiti da privati e il rilascio dell’identità elettronica spetta solo alla Confederazione». Attualmente, per acquistare un biglietto ferroviario, pagare una fattura, leggere il giornale o fare shopping in Internet ci si deve sovente identificare con un nome di utente e una password. Ma queste procedure non sono sempre sicure, anche perché non sono disciplinate da una legge. Non si può dunque contare sul fatto che lo Stato ne garantisca l’affidabilità. Perciò, con la legge sottoposta al popolo, Berna vuole introdurre un’unica identità elettronica (la cosiddetta «Ie»), certificata dallo Stato, in risposta a quella fornita da reti sociali e grandi piattaforme online. L’identificazione elettronica permette di stabilire con certezza che una persona è realmente quella che afferma di essere in Internet. Grazie all’Ie sarà anche possibile compiere operazioni che solitamente comportano la necessità di recarsi sul posto, come aprire un conto in banca o richiedere un documento ufficiale, per esempio l’estratto del casellario giudiziale. In un mondo sempre più digitalizzato, che ha modificato le abitudini e le esigenze delle persone, l’idea proposta
Infografica sul funzionamento dell’identità elettronica: secondo i sondaggi la soluzione proposta non trova i favori della maggioranza della popolazione. (Keystone)
dovrebbe avere tutto per piacere. Il problema – come detto – risiede nel rischio legato alla partecipazione del settore privato. Per gli oppositori, l’«Ie» permetterà infatti di identificarsi nel mondo digitale, come lo si fa con la carta d’identità o il passaporto nel mondo reale. Per loro si tratta di un nuovo documento d’identità, una sorta di «passaporto digitale» svizzero. Al posto dell’Ufficio passaporti, saranno così imprese private ad amministrare i dati sensibili dei cittadini. Il rilascio di un documento d’identità e la sua protezione – sottolineano – deve invece essere una competenza esclusiva dello Stato. Con la nuova Legge sull’identificazione elettronica, approvata dalle Camere nel settembre del 2019, la Confederazione sarà relegata al rango di mero fornitore di dati, rilevano la ONG «Di-
gitale Gesellschaft» (Società digitale), l’organizzazione svizzera Campax, la piattaforma WeCollect e l’associazione Public Beta, all’origine del referendum, che hanno raccolto 65’000 firme. Esse sono sostenute anche da PS, Verdi, Verdi liberali, UDF, sindacati e associazioni degli anziani. Vi si oppongono pure otto cantoni, a loro volta convinti che il rilascio dei documenti d’identità sia una prerogativa essenziale dello Stato. «I privati non devono quindi impossessarsi di questo compito sovrano e per di più approfittarne». Secondo Daniel Graf, cofondatore di Public Beta, «ogni operazione effettuata online verrà registrata in una base di dati centralizzata. Anche se quest’ultimi dovranno essere cancellati ogni sei mesi (come previsto dall’art. 15, sugli obblighi del fornitore), la loro esistenza è un rischio per ogni
utente». Basti pensare ai vari attacchi informatici, tra cui contro Swisscom. Si tratta di argomenti che Governo e partiti borghesi respingono. Con questa soluzione moderna, la Confederazione conserva i propri compiti sovrani: verifica l’identità delle persone ed esercita la sorveglianza sui fornitori di identità, offrendo le necessarie garanzie in fatto di sicurezza e di affidabilità del sistema. Gli aspetti tecnici sono invece affidati ad aziende, cantoni e comuni. Per la ministra di giustizia e polizia Karin Keller-Sutter, incaricata del dossier, i ruoli sono chiari e il progetto è sicuro. L’«Ie» non è affatto un «passaporto digitale» e non consentirà a chi ne è in possesso di superare le frontiere. È semplicemente un «login qualificato» facoltativo. Nessuno sarà infatti obbligato a utilizzarlo. Gli acquisti online resteran-
brano avere un leggero vantaggio. Le disposizioni concernenti l’olio di palma, di cui l’Indonesia è il maggiore produttore mondiale, non convincono. Durante i negoziati con l’Indonesia, una coalizione di ONG e di organizzazioni contadine aveva chiesto invano che il prodotto fosse totalmente ritirato dal progetto. Anche interventi parlamentari in questo senso non hanno avuto successo. Così, il bio-viticoltore ginevrino Willy Cretegny, il sindacato agricolo Uniterre, i Giovani socialisti, associazioni in favore del clima e dei diritti umani hanno lanciato il referendum, con lo slogan «Stop all’olio di palma», con l’appoggio dei Verdi. Essi temono un aumento della deforestazione (ogni ora la foresta pluviale perde un’area pari a 100 campi di calcio in favore delle piantagioni di palma da olio), un peggioramento delle condizioni di lavoro (anche minorile) e una concorrenza sleale verso i produttori di oli vegetali (colza e girasole) in Svizzera. Nonostante l’introduzione di contingenti sulle importazioni di olio di palma e le concessioni fatte nel frattempo dal Consiglio federale, nonché le limitazioni contenute nell’ordinanza d’ap-
plicazione (che regola gli aspetti legati alla tracciabilità e alla certificazione), in consultazione fino al 1° aprile, i fautori del referendum sono convinti che i controlli e le sanzioni previste saranno inefficaci. L’accordo non porrà fine alla distruzione delle foreste tropicali, agli impatti sulla biodiversità e ai pericoli per le popolazioni locali. Non fornisce garanzie sulla sostenibilità. Per UDC, PLR, PPD, Verdi liberali, UDF e associazioni economiche, l’accordo offre invece un’opportunità per promuovere una produzione sostenibile. Definisce regole per un commercio rispettoso dell’essere umano e dell’ambiente. L’olio di palma rappresenta soltanto una minima parte nello scambio commerciale svizzero-indonesiano. Varie organizzazioni che ne avevano chiesto il ritiro (Greenpeace, Public Eye, Alleanza Sud) approvano ora i progressi introdotti in materia di ambiente e di diritti dell’uomo. Il PS, pronunciatosi contro in Parlamento, sostiene pure il trattato. Lo stesso dicasi per l’Unione svizzera dei contadini. In caso di approvazione il 7 marzo, l’accordo entrerà in vigore tre mesi dopo la ratifica da parte dell’ultimo contraente. /AC
Olio di palma indigesto Il 7 marzo prossimo, gli Svizzeri saranno chiamati alle urne per esprimersi anche su un terzo oggetto in votazione: l’Accordo di libero scambio tra gli Stati dell’AELS (Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Norvegia) e l’Indonesia, firmato a Giacarta il 16 dicembre 2018, dopo otto anni di negoziati. Le Camere lo hanno approvato a larga maggioranza nel 2019. Dal rifiuto dell’adesione della Svizzera allo Spazio economico europeo (SEE), nel 1992, è la prima volta che un accordo commerciale viene sottoposto al popolo. Pomo della discordia: l’olio di palma, perché la sua produzione distrugge la foresta vergine e l’importazione fa concorrenza alla produzione indigena di olio di girasole e di colza. Comunque, la posta in gioco è importante. L’accordo deve consentire alle imprese svizzere di accedere senza ostacoli a un mercato di 271 milioni di abitanti. Quarto paese più popolato del mondo, l’Indonesia registra una crescita folgorante. Secondo gli esperti, entro il 2050 dovrebbe figurare tra le quattro maggiori economie mondiali. L’accordo riduce i diritti doganali e gli ostacoli al commercio per facilitare gli scambi tra Svizzera e Indonesia.
Aprendo nuove prospettive economiche, i principali settori d’esportazione elvetici dovrebbero trarne profitto. Governo e Parlamento ne sono più che convinti, in un momento di difficoltà dovute al Coronavirus. In futuro, i prodotti industriali non saranno più sottoposti a dazi, contrariamente a quelli agricoli. I dazi sull’olio di palma saranno ridotti del 20-40%. Queste riduzioni tariffarie sono concesse per un massimo di 12’500 tonnellate annue. Dal 2012 al 2019, la Svizzera ha importato mediamente da tutto il mondo 32’000 mila tonnellate all’anno di olio di palma. Soltanto dall’Indonesia, nel 2019 ne ha importate 35 tonnellate, pari solo allo 0,1%, contro il 2,5% negli anni prima. La tendenza è al ribasso. Le imprese potranno produrre in modo meno caro, rafforzare la competitività ed evitare ai loro prodotti d’essere discriminati in Indonesia, ha sottolineato il ministro dell’economia Guy Parmelin. La Svizzera – ha aggiunto – non può restare ai margini di un mercato che stuzzica gli appetiti dei suoi concorrenti. A due settimane dal voto, i giochi non sono ancora fatti, anche se i «sì» sem-
no possibili senza questa identificazione elettronica. Responsabile per il riconoscimento e la supervisione del rilascio della «Ie» sarà una commissione federale ad hoc che dovrà vigilare che non vi siano abusi di dati personali. Avrà pure la competenza esclusiva di certificare i fornitori pubblici e privati autorizzati al rilascio delle identità elettroniche. La società emittente dovrebbe essere Swiss Sign Group, che riunisce Posta, FFS, Swisscom, Six, grandi banche e assicurazioni. In base alla legge, i dati possono essere trasmessi solo con il consenso esplicito della persona che usa l’identificazione elettronica, mentre i fornitori possono usare i dati soltanto per l’identificazione. È vietato utilizzarli per altri scopi o trasmetterli a terzi. L’«Ie» conterrà i seguenti dati d’identificazione: cognome, nome, data e luogo di nascita, sesso, nazionalità e una fotografia. L’utente potrà pure decidere di aggiungervi l’indirizzo postale, email o il numero di telefono. Non tutti i dati saranno sistematicamente trasmessi. Sono stati determinati tre livelli di sicurezza: «basso», «significativo» ed «elevato». L’acquisto di una bottiglia di whisky rientra nella prima categoria; per un estratto del casellario giudiziale saranno invece forniti tutti i dati. L’aspetto concreto dell’«Ie» non è ancora noto e anche il suo prezzo non è stato determinato. Il Consiglio federale intende incoraggiare i fornitori a metterla a disposizione dei cittadini gratuitamente. Dunque, due le opzioni: lasciare l’identificazione elettronica in mano a privati, con le sue insidie e incognite (inesistenti, secondo governo e parlamento), oppure affidare il rilascio dei documenti allo Stato, come chiede il comitato referendario. I fautori avvertono che un «no» al progetto non sarebbe automaticamente un «sì» a una soluzione solo statale. Non essendo quest’ultima politicamente o tecnicamente scontata, essa richiederebbe anni supplementari prima di entrare in vigore. Per stare al passo coi tempi, la Svizzera non può fare a meno di adottare una legge che garantisca sia la correttezza dell’identificazione, che la protezione dei dati. A pretendere l’esclusività dello Stato, si corre il rischio di perdere il treno.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Politica e Economia
Risparmiare resta indispensabile
Assicurazioni sociali Gli enti previdenziali sono in difficoltà finanziaria. Le riforme segnano il passo e la crisi
del Coronavirus peggiora la situazione. Jeannette Schaller, di Banca Migros, spiega a cosa dobbiamo prestare attenzione Benita Vogel In che misura gli enti previdenziali sono stati colpiti dalla pandemia?
Molto è ancora in sospeso. Di sicuro c’è che gli attuali problemi di finanziamento si aggraveranno. Soprattutto per quanto riguarda l’AVS, che è finanziata con i contributi salariali. Se gli stipendi diminuiscono a causa del lavoro ridotto o della maggiore disoccupazione, come sta succedendo adesso, diminuiscono anche i versamenti. E siccome è probabile che a causa della crisi i consumatori spenderanno meno, scenderanno anche le entrate dell’imposta sul valore aggiunto, che in parte vanno a finire nell’AVS.
La situazione è così drammatica anche per il secondo pilastro?
Le casse pensioni stanno un po’ meglio. Infatti, sono obbligate a creare accantonamenti per le situazioni di crisi, ad esempio per compensare eventuali perdite in borsa. Ad ogni modo, il 2020 è stato un buon anno per gli investimenti e il lavoro ridotto ha un impatto meno grave sulle casse pensioni, perché i contributi vengono pagati comunque interamente. Non va però dimenticato che abbiamo gravi problemi di finanziamento anche per il secondo pilastro. I soldi che i pensionati hanno risparmiato durante la loro vita lavorativa non bastano a coprire le loro rendite. Già ora, ogni anno finiscono nel secondo pilastro dei pensionati 7 miliardi di franchi provenienti dai lavoratori attivi.
Attualmente al centro del dibattito c’è l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne e un’ulteriore diminuzione dell’aliquota di conversione del secondo pilastro. Queste riforme sono sufficienti?
No, sono addirittura troppo deboli. Quanto è in discussione oggi assicura appena il finanziamento a corto termine. Sarebbe stato necessario farlo già tanto tempo fa. Adesso il sistema va cambiato radicalmente. Per le innovazioni radicali manca, però, il consenso politico e probabilmente anche il coraggio. La questione è delicata, perché ai comandi ci sono proprio quelli che presto andranno in pensione. Le due misure auspicate porterebbero già a una riduzione delle
Mettere da parte per la vecchiaia
Sì, questi provvedimenti sono attesi da tempo, perché i mezzi dell’AVS bastano ancora solamente per qualche anno e presto andrà in pensione la generazione del baby boom, il che costerà davvero caro. Molte casse pensioni hanno già ridotto l’aliquota di conversione per le rendite calcolate sui contributi che superano gli obblighi di legge. Le riforme colpiscono quindi i salari bassi, che sono assicurati solo per il minimo obbligatorio, e le donne, già penalizzate dal sistema.
Sì, è spiacevole. Tuttavia, per questi due casi si prevedono misure di compensazione e, rispettivamente, di ammortizzazione. E se parliamo di giustizia nei confronti delle donne, ritengo che bisogna agire in un altro ambito: va garantita la parità dei salari e pari opportunità di carriera durante tutta la vita lavorativa.
I più giovani sarebbero favorevoli a riforme più profonde, come ad esempio che i versamenti del secondo pilastro non inizino solo a 25 anni e che il lavoro parziale o a progetto venga tutelato meglio.
Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria di Banca Migros.
MFUTURO Con MiFuturo la Banca Migros propone una soluzione facile e sostenibile per il terzo pilastro: ■ Potete scegliere tra quattro fondi previdenziali, con quote in azioni di 25, 45, 65 e 85%. A seconda della vostra predisposizione personale al rischio, approfittate della possibilità di vedere aumentare a lungo termine il valore dei mercati finanziari.
rendite pensionistiche. Eppure Lei afferma che questi adeguamenti sono di gran lunga insufficienti.
■ Investite in aziende che sono esemplari in fatto di ecologia, socialità e gestione aziendale, e che sono anche attraenti dal punto di vista finanziario. ■ Aprite facilmente il vostro conto MiFuturo online: senza dovervi recare in una filiale, 24 ore su 24 e comodamente da casa. Informazioni e apertura del conto su bancamigros.ch/mifuturo
Si sta andando nella direzione giusta. L’insieme della società è cambiato e il modello del capofamiglia, sul quale sono state ritagliate le misure previdenziali, è superato ormai da tempo. Quali altre misure strutturali ci vogliono?
Per esempio, sarebbe utile che il tasso di conversione, che determina l’importo della rendita del secondo pilastro, non fosse fisso e stabilito per legge, ma che potesse essere adattato in modo flessibile alla speranza di vita. Ciò farebbe sì che gli odierni pensionati, le cui rendite non sono penalizzate dal sistema attuale, forniscano un contributo. Oggi si discute anche di un quarto pilastro. Di cosa si tratta?
Si tratta dei cosiddetti crediti di tempo, che si possono accumulare da giovani o anche più avanti negli anni con il lavoro di volontariato, ad esempio cucinando per la vicina anziana o dandole una mano con le faccende amministrative. Raggiunta l’età della pensione,
Per avere una pensione serena, occorre pianificarla dai 45 anni. (Keystone)
potremmo riscattare questo credito acquistando a nostra volta quei servizi. È un approccio molto avvincente.
Ma cambierebbe qualcosa per quanto riguarda la penuria finanziaria degli enti previdenziali?
Non su vasta scala, ma si alleggerirebbe il lavoro degli assistenti sociali o dei familiari e si incentiverebbe la solidarietà tra generazioni. Prendiamo l’esempio di una signora attempata, che mentalmente è ancora in forma ma che per certe attività dipende da un aiuto esterno. Con l’ausilio di una vicina di casa nelle faccende quotidiane potrebbe posticipare il ricovero in una costosa casa di cura. E ciò non solo sgrava il nostro sistema sanitario, ma riduce anche le probabilità di dipendere dalle prestazioni complementari. Che cosa possono fare i futuri pensionati per migliorare la loro situazione?
Non dovrebbero lasciare nulla al caso. La promessa che con il primo e secondo pilastro ci si garantisce il 60% dell’ultimo reddito, non può più essere mantenuta. La previdenza individuale è quindi indispensabile. Risparmiate! Tramite il terzo pilastro o in forma autonoma, anche se si tratta solo di piccoli importi. Cosa suggerisce ai Suoi clienti durante le consulenze sulla previdenza?
A molti viene in mente di occuparsi della propria pensione solo attorno ai 55 anni. Spesso è troppo tardi per colmare le lacune previdenziali in modo adeguato. È importante iniziare a pensare a pianificare già a partire dai 45 anni. Le principali domande da porsi sono: quale tenore di vita desidero avere in vecchiaia? Sono disposto a cavarmela con meno soldi? Quindi bisogna essere previdenti?
Assolutamente, molta gente non ha la minima idea in materia di previdenza pensionistica. Mi auguro che l’argomento venga affrontato già a scuola, in modo che i giovani siano più sensibilizzati in merito. Ma un sistema del genere, in cui alla fine ognuno deve risparmiare per la vecchiaia, è ancora sociale?
Nonostante tutte le difficoltà, non bisogna dimenticare che il nostro sistema è buono e molto prezioso. La solidarietà continua a funzionare. La compensazione è presente, ad esempio, quando i lavoratori ad alto reddito versano l’AVS per i dipendenti che guadagnano meno. Inoltre, sono assicurati i rischi come l’invalidità o la morte. L’AVS paga pure le prestazioni complementari e gli assegni per i grandi invalidi. La compensazione avviene su più livelli. Dobbiamo avere cura di un sistema previdenziale del genere. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I partitini: cartine di tornasole della democrazia diretta Il caso, che molte volte conduce alle combinazioni più sagge, ha voluto che, nel giro di pochi mesi siano apparsi in Ticino due pubblicazioni sulla storia di due tra i partiti più piccoli dell’arco parlamentare. Si tratta di Da Oriente viene la luce del sole, Storia del partito operaio e contadino ticinese(1944-1959) di Tobia Bernardi e di Un secolo di storia politica, dal partito agrario all’UDC (1920-2020) di Carolina Ferrari-Rossini, Marco Marcacci, Oscar Mazzoleni e Fabrizio Mena. Sono due partiti che hanno origini storiche completamente diverse. Il primo è una compagine politica importata praticamente da oltre San Gottardo, se non addirittura dall’estero, che ha cercato con molta fatica di installarsi nel Cantone realizzando qualche successo a livello di iniziative e referendum, ma senza mai ottene-
re un consenso elettorale di peso. Il secondo è invece un partito fatto in casa, nato dalla defezione di personalità politiche dei partiti maggiori che avevano particolarmente a cuore la causa della popolazione agricola e dell’agricoltura. Anche gli agrari non hanno incontrato, per molto tempo, successi elettorali rilevanti marcando invece, come l’altro partitino, più di un punto in occasione di votazioni su iniziative e referendum. Si può così affermare che le due formazioni politiche abbiano avuto più successo fuori che dentro il parlamento. Per questa ragione si possono considerare come le cartine di tornasole della democrazia diretta. Un altro aspetto che i due partiti hanno avuto in comune è la matrice classista. Il primo partito ha sempre rappresentato gli interessi dei lavoratori, ossia dei dipendenti, men-
tre il secondo si è sempre definito come il rappresentante degli indipendenti, in particolare, almeno nei primi suoi cinque decenni di vita, dei contadini. Comune a queste due formazioni è anche la presenza di poche persone al vertice, coraggiosi idealisti, che, con ostinata volontà di successo, ne hanno guidato le sorti, passandosi talvolta le redini del comando di padre in figlio. Della storia di questi partiti fa parte la tenacia con la quale i loro dirigenti sono riusciti, dopo aver incassato le delusioni di molte sconfitte elettorali, a continuare ad impegnarsi in favore di una causa che la maggioranza del loro elettorato potenziale non sembrava in grado di intendere. Di questa storia fanno parte anche le lotte per superare le frequenti crisi di fiducia e finanziarie, le discussioni sui cambiamenti di nome e i conflitti generati dalle
divisioni interne che non mancarono di scuotere questi partitini quando scelsero di cambiare rotta. A proposito di divisioni ci pare necessario ricordare, in particolare, quelle manifestatesi nel partito operaio e contadino dopo la morte di Stalin. Altrettanto importanti, poi, quelle conosciute dall’UDC per i contrasti tra l’ala agraria e l’ala blocheriana, durante gli anni Novanta dello scorso secolo. La storia delle due formazioni politiche, nate quasi contemporaneamente (la data di nascita dell’UDC è il 1920, quella del partito operaio e contadino il 1925), è anche largamente influenzata dalle posizioni ideologiche suggerite dall’internazionalismo e dal nazionalismo. Fino al 1943 il partito operaio e contadino militò nell’orbita dell’internazionale comunista e i riferimenti al mondo sovietico continuarono a
dominare nella sua propaganda anche dopo l’abbandono dello stalinismo. Il partito agrario, che, come si è già ricordato, iniziò la sua attività come partito dei contadini, operò, almeno a partire dalla seconda guerra mondiale, per diventare un partito aperto anche ad altri ceti sociali diventando, da ultimo, un partito nazionalista, con un motto esclusivista «Gli svizzeri votano UDC». Purtroppo, per esso, in Ticino, il suo nazionalismo si è, fin qui, urtato al regionalismo della Lega che, in una certa misura, ha condizionato le sue possibilità di successo. Leggere la storia di questi due piccoli partiti è, per finire, come leggere la storia del Cantone degli ultimi cento anni. Da un punto di osservazione particolare, tuttavia: quello del calciatore, idolo della curva, costretto a seguire la partita dalla panchina.
il presidente Alexander Lukashenko pretende di aver vinto elezioni che il suo popolo non gli riconosce. Da sei mesi mette in atto una repressione costante e brutale, silenziando le voci che possono raccontarla una alla volta, con questi furgoncini neri da cui escono le guardie e che diventano carceri ambulanti, strumenti principe della strategia del silenzio. Si può controbattere che in realtà la Bielorussia non ha mai sperimentato la democrazia. Tecnicamente è vero, ma a guardare la forza tranquilla e pacifica delle persone che ogni fine settimana, dal 9 agosto 2019, protesta e appende fiocchetti rossi e bianchi ai cancelli e alle maniglie dei portoni perché non ci si dimentichi loro, ecco a guardarli, questi bielorussi, viene da pensare che la democrazia sanno benissimo cosa sia. Non l’hanno sperimentata ma la cercano in ogni caso. In Ungheria e Polonia, Paesi alleati che pure hanno una posizione molto differente proprio nei confronti della Russia (aperta e dialogante la
prima, ostile la seconda), il silenzio è notizia recente. Non che qualche mese fa i media di opposizione potessero fare chiasso: l’illiberalismo del premier ungherese Viktor Orban e del vicepremier Jaroslaw Kaczynski (la carica è soltanto una formalità, comanda lui) va avanti da molti anni, ma ora il silenzio è ancora più concreto e in sincrono. Questa settimana è stata silenziata Klubradio, emittente radiofonica indipendente di Budapest che tutti riconoscono per il suo simbolo: una zebra. Già nel 2012 Orban le aveva tolto la licenza di trasmissione, prendendo come scusa delle irregolarità nella consegna di documenti (in pratica la radio non aveva notificato in tempo i contenuti trasmessi). Altrettanto pretestuosa è la motivazione di oggi, così come accade sempre: il trasloco a Vienna dell’Università CEU di George Soros è lì a dimostrarlo. Da qualche giorno la frequenza di Klubradio è muta, ora la redazione lavora online ma sa che è una situazione transitoria. Negli stes-
si giorni i media polacchi dell’opposizione sono usciti con una pagina nera con la scritta «Media senza scelta». Il Governo ha presentato un progetto di legge che impone una tassa sulla vendita della pubblicità, non a tutti i media ovviamente, solo a quelli indipendenti. Così è stato organizzato lo sciopero, che dovrebbe ripetersi con frequenza nel tentativo di fermare l’iniziativa liberticida. L’opposizione in Polonia è più vivace e unita rispetto a quella ungherese e così molti commentatori che si occupano di questa regione scrivono dei «vademecum» confrontando le due situazioni, affermando: il silenzio non è un destino. Questo vale anche negli altri Paesi europei e a Bruxelles, dove si alzano voci di protesta e minacce di procedure di infrazione ma poi prevale l’approccio più accomodante. Le priorità sono altre, come è evidente, ma se alla strategia del silenzio degli illiberali i liberali rispondono con un sostanziale silenzio, un po’ distratto anche, non c’è scampo.
greggi di utilizzatori dei social-media più diffusi. Funziona dal 1971, cioè da quando venne inventata da Ray Tomlinson, programmatore statunitense assunto dal Pentagono per facilitare le trasmissioni delle forze armate e successivamente passato allo sviluppo di Arpanet, una rete che collegava i giganteschi computer delle università statunitensi. Poiché gli utenti potevano scrivere messaggi, ma per scambiarseli tra loro dovevano stamparseli e inviarli per fax o per posta, Tomlinson modificò Arpanet in modo da poter trasmettere il testo digitale anche da un nodo all’altro della rete di computer dislocati nelle principali sedi universitarie americane: era la posta elettronica. Tomlinson scelse addirittura anche il segno @ per dividere il nome del destinatario da quello della macchina. Eppure, pur avendo realizzato un prototipo che doveva rivoluzionare il sistema delle comunicazioni, non guadagnò neppure un dollaro dalla sua scoperta: un pozzo tecnologico in cui oggi
sguazzano decine di multinazionali e pochi miliardari americani e cinesi. L’ultima tessera del mio trittico sull’informazione nasce da una notizia apparsa su giornali e media online, ma relegata un po’ da tutti fra quelle poco importanti. Di fronte ai collegamenti del web si è portati a credere che le meraviglie digitali arrivino solo dai satelliti. Invece la via prediletta, stranamente e anche paradossalmente, è ancora quella dei più sicuri fondali marini, proprio come nel secolo scorso. La conferma giunge dalla Francia dove in questi giorni sta entrando in funzione il collegamento del cavo sottomarino voluto da Orange (ex France Telecom) e Google per trasmissioni di dati tra Virginia Beach negli Stati Uniti e Saint-Hilaire-de-Riez, in Bretagna nei pressi di Nantes. Quest’opera (porta il nome di «Dunant»: solo omaggio al fondatore della Croce Rossa o anche simbolo per fugare future guerre geopolitiche?) sarà presto affiancata – ulteriore prova della posizione dominante in
questo campo della Francia in Europa – da un secondo cavo transatlantico ancora più potente (consentirà di trasmettere 368 Tbps, cioè 368’000 miliardi di bit al secondo). Denominato «Amitié» è stato voluto e realizzato da un consorzio composto sempre da Orange, ma per la parte statunitense da Facebook e Microsoft: collegherà il traffico di dati internet dagli Stati Uniti a due terminali europei a Bude, nel sud dell’Inghilterra (primo omaggio alla Brexit?), e a Le Porge, vicino a Bordeaux. Il fatto che entrambi i cavi garantiranno soprattutto il traffico di dati dei giganti della «Big Tech» – ci sono Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft – lascia credere che l’investimento non riguarderà solo la tecnologia dell’informazione o del «cloud gaming» (il mercato dei videogiochi) già attivi, ma punterebbe anche all’organizzazione e gestione di un futuro «cloud working» per servizi, logistica, commerci, formazione, guida autonoma ecc. ecc., cioè quella che sarà l’economia digitale/virtuale.
Affari Esteri di Paola Peduzzi La strategia del silenzio Nei tanti libri pubblicati negli ultimi anni sul filone «così muoiono le democrazie» c’è un elemento comune: difficilmente si vedono i carri armati (anche se in Birmania li stiamo vedendo). Molto più facilmente si percepisce il silenzio. Non subito, non in modo netto e preciso, ma lentamente arriva il silenzio del dissenso, dei media, dei colleghi, dei vicini di casa. Nell’est Europa, dove gli esperimenti cosiddetti di democrazia illiberale si sono sviluppati in modo solido, si è intensificato il silenzio. Era inevitabile, perché già nella definizione di «democrazia illiberale» sta l’inganno. Sappiamo fin troppo bene che tra le due parole, la parte più grande e rilevante la esercita la seconda, l’aggettivo «illiberale». Anche perché lì appresso c’è la Russia, che con Vladimir Putin ha iniziato a teorizzare e praticare questa deriva illiberale che sul lato est del Continente europeo ha una presa molto forte. È sempre stato un territorio in bilico, quest’ultimo. L’Europa ha esercitato
la sua attrazione forte in passato, ha governato l’adesione al progetto comunitario e ora che la convivenza e soprattutto i fondi sono navigati, la tentazione illiberale è tornata forte. Anche perché è alimentata con un certo successo – di potere e di sfere di influenza – dalla Russia, la prima ad aver fatto del silenzio interno un programma serrato che ha colpito media, giornalisti e animatori del dissenso anche ricchissimi, come gli oligarchi, ma ridotti al nulla con accuse false e prigionie eterne. Alexei Navalny, il più grande oppositore di Putin, sta subendo la stessa sorte, nonostante le proteste e i flash mob a forma di cuore. Nonostante la sua storia, tra l’avvelenamento e la prigionia, sia molto vista e molto raccontata fuori dalla Russia. Per il regime Navalny non ha nemmeno un nome: è il paziente di Berlino. Il silenzio comincia così, senza dare il legittimo nome alle cose. Ai confini est dell’Europa sta accadendo la stessa cosa. In Bielorussia
Zig-Zag di Ovidio Biffi Trittico tecnologico Ho già ospitato il regista Pupi Avati in questo spazio per dire di una sua magnifica lettera in cui invitava i dirigenti della Rai ad approfittare del primo lockdown in corso «affinché il virus si porti via anche la Tv trash» offerta dai millanta canali televisivi italiani (ma, stando a indici di ascolto e preferenze del pubblico ticinese, un po’ anche «nostri»). Oggi torno a parlare di Avati e di un altro suo aneddoto. Un giorno, mentre era a diretto colloquio con un giornalista, poiché il suo telefonino continuava a squillare gli disse che poteva anche rispondere. Avati, con un candore pari alla bellissima storia che stava per rivelare, lo tranquillizzò dicendogli di non preoccuparsi: era una chiamata che poteva benissimo attendere. Ed ha spiegato anche il perché: «Vede, la mia rubrica telefonica per il 70% è fatta di persone con disturbi mentali. Questo signore che mi chiama, ad esempio, si chiama Giovanni e da dieci anni mi chiama tutti i giorni della mia vita da Ca-
vallino Treporti per chiedermi se a Roma piove o c’è il sole. Io gli chiedo com’è il tempo da lui e poi ci salutiamo. Non ha mai saltato un giorno e io gli rispondo, sempre. Sono persone buonissime, gli ho anche dato qualche piccola parte come comparsa. Lui ha bisogno di questa telefonata quotidiana e a me non costa niente». Applausi ad Avati, in attesa di continuarli quando arriverà il suo ultimo film Lei mi parla ancora, con uno strepitoso Renato Pozzetto in un ruolo drammatico. Dai telefonini passo alla messaggistica istantanea. Non so come siete messi voi con le applicazioni dei telefonini, da WhatsApp a Twitter, da Facebook alla famigerata Tik Tok sotto accusa per orribili impieghi. Io continuo a ignorarle, concedendo qualche approccio solo quando figli o nipoti mi interpellano. In definitiva: dipendesse da me terrei su internet solo la cara, vecchia posta elettronica, cioè l’e-mail a cui resto fedele, anche per sfuggire ai pericoli che corrono le
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Cultura e Spettacoli Goodbye, Chick Ha incantato le platee del mondo facendo vibrare generazioni di ammiratori: se ne è andato il pianista Chick Corea
Uno scrittore germanico a Zurigo Georg Büchner, morto nella città sulla Limmat a 24 anni, è sicuramente uno dei maggiori autori della letteratura tedesca pagina 36
Quegli ultimi giorni Ne Il grande me la brava Anna Giurickovic Dato racconta il toccante commiato da un padre pagina 37
pagina 35 A Mannheim nel ’700 avvenne uno sviluppo culturale senza precedenti; qui raffigurato, Schloss Mannheim. (Wikipedia)
L’orchestra e la città
Musica L’orchestra rappresenta un importante elemento di continuità con il passato
Carlo Piccardi Uno dei luoghi importanti che segnarono la formazione di Mozart fu Mannheim, sede di una corte il cui principe elettore è ricordato come protagonista di uno sviluppo culturale senza precedenti: per quanto riguarda il teatro nazionale tedesco, il Singspiel (cioè l’opera in lingua tedesca) e soprattutto la sinfonia grazie all’azione di Johann Stamitz e di Carl Cannabich. L’elevato professionismo di quell’orchestra strabiliava i visitatori per le innovazioni e le finezze registrate dal musicografo Charles Burney, il quale ne testimoniò «ogni possibile effetto che un insieme di suoni può produrre». Mozart ne fu conquistato al punto che nel 1778 vi si trattenne più del necessario, facendo spallucce all’incitamento del padre Leopold il quale, intenzionato a spingerlo verso Parigi alla conquista della grande capitale, cercava di dissuaderlo dall’interessarsi alle sinfonie di Stamitz giudicandola «musica rumorosa». Per quanto spregiativo, tale giudi-
zio rilevava l’emergere di un nuovo gusto che abbandonava la compassatezza dei toni cerimoniosi di fronte all’incalzare di una realtà, la cui vasta articolazione non poteva più essere servita da espressioni misurate a senso unico. La musica dei Mannheimer era nata come musica borghese nel senso «cittadino» del termine, e, ispirandovisi, Mozart dimostrava di valorizzare gli aspetti che stavano irrimediabilmente rovesciando le gerarchie sociali. Alla stessa epoca la musica, uscita dalle corti regali e principesche, si confrontava con il nuovo pubblico borghese, costituente ormai una categoria dinamica da catturare ogni volta attraverso la rete tesa del diretto coinvolgimento psicologico. Il pubblico, prima situabile al di dentro (quello cortigiano, implicato a volte come esecutore) da quel momento in poi veniva considerato al di fuori dell’opera, come spettatore in senso proprio, non più da assecondare nel gusto statico ma da affrontare con sorprendenti capacità di scrittura. È il principio della «sorpresa» af-
fermato da Haydn anche nel titolo di una sua sinfonia, che invitava l’ascoltatore a reagire all’impatto diretto della sua varietà e potenza sonora, all’«effetto», parola nuova che identificava la dimensione di spettacolo che l’orchestra era venuta ad assumere. È l’elogio che nel 1787 il «Mercure de France» riservava alle «sinfonie parigine» di Haydn, «sempre sicure del loro effetto, che ne produrrebbero ancora di più se la sala fosse più sonora». Effettivamente le sale per concerto con le relative orchestre sorsero a Londra, a Parigi, a Vienna come spazi più ampi per accogliere il nuovo pubblico identificato con la città, rispecchiandone (nell’«effetto» e spingendo il suono fino a ciò che all’orecchio tradizionale appariva «musica rumorosa») la prorompente velocizzazione del ritmo imposta dall’indaffarata condizione cittadina. L’orchestra moderna, lasciando le ovattate pareti delle residenze principesche, si impose quindi come riflesso di una società in movimento, in un processo parallelo al teatro musicale che, con
la commedia di situazione affermata nell’opera mozartiana, vide il ritmo degli avvenimenti prendere il sopravvento sui personaggi. I nuovi teatri e le nuove sale per concerto nell’Ottocento nacquero come edifici imponenti paragonabili a nuovi templi proprio per il significato di rappresentanza della nuova classe sociale assunto dalla stessa musica che vi risuonava. Nel passaggio alla società di massa nel Novecento sono cambiati anche i valori sonori. Con l’avvento del suono elettrico, ben più «rumoroso» rispetto ai suoni dell’orchestra di Mannheim che offendevano l’orecchio di Leopold Mozart, si è fatta largo una dimensione alternativa che possiamo considerare espressione della moderna indifferenziata espressione metropolitana (del pop, del rock, ecc.). Con ciò l’orchestra col suo repertorio si è trovata a essere circoscritta in una cittadella trasformata in museo, per la funzione conservativa del grande repertorio sette-ottocentesco. Ma, attenzione, come mai i compositori del 900 profilatisi come
artisti d’avanguardia hanno rivoluzionato sì assai le forme, ma non certo la sonorità? L’orchestra di Stravinsky, di Bartók, di Schoenberg stesso e persino dei più vicini a noi (Stockhausen, Boulez) è infatti ancora quella di Brahms e di Ciaikovskij, concedendo ben poco alla dimensione del suono elettrico. A questo livello l’orchestra rappresenta l’elemento essenziale di continuità con il passato (come la tela e la cornice in pittura), fondamentale per garantire la ricchezza del messaggio, la vastità di senso che emerge sull’arco delle relazioni che si stabiliscono con i precedenti storici. Non per niente non sono mancati gli esempi di qualche esponente della musica pop e rock (i Deep Purple, i Pink Floyd, ecc.) che, trasferendo le proprie forme semplificate nell’apparato acustico orchestrale tradizionale (proporzionalmente articolato tra archi, legni e ottoni), si sono compiaciuti di ottenere un effetto di elevazione, con l’ambizione di porsi al livello degli autori consacrati della storia della musica.
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Cultura e Spettacoli
Omaggio al Cappellaio matto In Memoriam Un ricordo del grande pianista jazz Chick Corea
Auguri Il popolare
attore compie ottant’anni
Alessandro Zanoli Alla voce «Chick Corea (Armando Anthony Corea), b. Juni 12, 1941, Chelsea, MA», la All Music Guide to Jazz, edizione di una quindicina d’anni fa, suggerisce ai suoi lettori tre pagine fitte fitte di referenze discografiche (Ella Fitzgerald, per dire, ne ha solo due e mezzo). La proposta d’ascolto è solo una scelta, un «best of», ma vista l’importanza dell’opera di Corea, finisce per apparire come una semplice discografia cronologica, dal 1966 ai primi anni 2000. Una scelta di oltre 50 album. Scorrendola ci si rende conto che più della metà sono dischi indimenticabili, indispensabili, ineludibili. Quello che stupisce in questo variegato panorama è quanto tanta ricchezza rispecchi, nella sua multiforme fisionomia, la personalità del pianista americano, scomparso nelle scorse settimane. Corea è stato un unicum, un artista dalla varietà di interessi e dalla facilità musicale che possiamo forse paragonare a quella di Mozart. Corea non sembra aver sbagliato nulla, non sembra aver compromesso in alcun modo il suo genio in ognuna delle imprese in cui si è cimentato. Niente è al di sotto del massimo, apparentemente, in ogni cosa che ha fatto. Eppure i campi su cui ha «giocato» sono i più vari: dalla classica al jazz-rock elettrico, dal piano solo alla grande orchestra sinfonica. Corea è stato uno stilista eccelso. La dote che spiccava di più, in lui, era comunque la grande carica umana, la simpatia, la vivacità. Nei post su Facebook, di questi giorni, spiccano i molti selfie che gli appassionati e gli addetti ai lavori si sono scattati vicino a lui e che tutti tengono oggi a mostrare con comprensibile e anche commovente fierezza.
Giorgio Thoeni
Particolare dalla copertina dell’album Mad Hatter, del 1978.
Noi lo ricordiamo semplicemente in uno degli Estival di qualche anno fa quando dopo il concerto con una delle sue strabilianti band elettriche, si era fermato a chiacchierare alla transenna, di fianco al palco, con il pubblico. Ricordiamo proprio quel suo fare sorridente e simpatico. Una situazione dalla naturalezza straordinaria, che forse proprio solo i fan di questa musica possono capire in tutta la sua esemplarità. Corea aveva il dono, indubbio, della musicalità e poi, una grande capacità di comunicarla al pubblico. Pare che dopo l’esperienza vissuta alla fine degli anni 60 con il suo gruppo Circle, con Dave Holland, Anthony Braxton e Barry Altschul, una delle formazioni più avanzate nel jazz sperimentale di allora, avesse sentito il bisogno di tornare a una musica più abbordabile: «Quando vedo un artista usare le sue
energie e la sua tecnica andando oltre l’abilità del suo pubblico di mettersi in relazione con lui, vedo queste abilità andare sprecate» aveva affermato, per giustificarsi, in un’intervista. Il fatto è che una considerazione di questo tipo non l’ha spinto certo a cercare soluzioni meno valide dal punto di vista artistico, anzi. Proprio da quella scelta era nata l’esperienza dei Return to forever, forse una delle più riuscite fusioni di rock e jazz mai architettate. A quell’epoca risale anche la sua adesione a Scientology. Una scelta che ha fatto discutere tutto sommato molto meno di quelle analoghe di un Tom Cruise o un John Travolta. Onestamente non se ne è mai capita la necessità, ecco, ma tant’è. La solarità, l’intelligenza positiva di Corea sembravano connaturate con il suo carattere. Torna alla memoria un
concerto di qualche anno fa al KKL di Lucerna, in cui il pianista si era esibito in duo con Bobby McFerrin. Tanto istrionico e sconclusionato quest’ultimo, nella sua verve da mattatore (in certi momenti anche un po’ fuori luogo) quanto serio, amichevole e accondiscendente l’altro. E quando McFerrin si è allontanato dal palco per lasciare spazio a un intermezzo di piano solo, ecco scendere dal cielo una versione di Walz for Debby giocata con una maestria e una compiutezza miracolose. Ironia della sorte, quest’anno il lettori di «Downbeat» avevano eletto il suo gruppo Chick Corea Trilogy come migliore band del 2020. Non avremo più modo di ascoltarla live. Si tratterà, per i posteri, solo dell’ultimo tassello di un mosaico strabiliante, di un’eredità che ha avuto davvero un posto unico nella storia della musica.
Restituzioni delle opere: urge riflettere
Politiche museali/2 Le recenti richieste di restituzione di alcuni reperti da parte dei paesi
di origine, gettano una luce incerta sul futuro di molte istituzioni Marco Horat
Abbiamo iniziato ad affrontare settimana scorsa la questione della richiesta di alcuni governi e istituzioni culturali di restituire i tesori trafugati nei secoli dai loro paesi di origine. Un tema che interessa l’arte (spoliazioni durante la Seconda guerra mondiale), l’archeologia e l’etnografia (con riferimento soprattutto al periodo coloniale) dai risvolti storici, etici e giuridici. Dopo averne parlato con l’archeologo Andrea Bignasca, direttore dell’Antikenmuseum di Basilea, è il turno questa volta di Grégoire Mayor, codirettore del Musée d’Ethnographie di Neuchâtel. Sempre tenendo sott’occhio l’articolo di Louis Godart, docente alle Università di Napoli e in Belgio, pubblicato dalla rivista «Archeo». Francesi e tedeschi hanno avviato il discorso della restituzione a paesi africani e asiatici di tesori trafugati durante il periodo coloniale. E gli inglesi? Il British Museum, per bocca del suo direttore espressosi durante un recente convegno, ha categoricamente respinto la richiesta di restituzione dei marmi del Partenone, affermando che le sculture di Fidia sono Patrimonio dell’umanità, non proprietà privata della Grecia. Ha anche ricordato che Lord Elgin, trasferendoli a Londra nei primi anni dell’800, li ha salvati dal degrado e da possibili distruzioni; come già era accaduto quando i Turchi, a metà del ’600, avevano trasformato l’Acropoli in una polveriera, poi esplosa. Argomentazioni capziose.
Ballerio, gentiluomo del teatro
Il British Museum rifiuta la restituzione dei marmi del Partenone. (Wikipedia)
In Svizzera, con l’occhio rivolto principalmente all’etnografia, come si affronta la tematica? «Il problema, dice Grégoire Mayor, non è semplicemente se rendere o non rendere i reperti ai paesi di origine. Una riflessione del resto che abbiamo avviato da anni con le esposizioni temporanee al Musée d’Ethnographie. Proprio all’inizio di questo 2021 i musei svizzeri di etnografia hanno sottoscritto un programma di ricerca, finanziato dalla Confederazione, che vuole fare chiarezza sulla provenienza degli oggetti presenti nei nostri magazzini e nelle nostre vetrine». Neuchâtel, Rietberg e Università a Zurigo, Museo delle culture di Basilea, Etnografico di Ginevra, San Gallo, Schloss Burgdorf e Museo storico di Berna si mettono in gioco.
In particolare nei confronti di reperti dell’antico Regno di Benin, territorio situato oggi in Nigeria. In Svizzera ne sono stati censiti un centinaio, il 40 per cento giunti agli inizi del ’900 in seguito alla spedizione punitiva inglese del 1897 che, letteralmente, saccheggiò la capitale Benin City, rubando tesori e capolavori finiti in tutte le collezioni del mondo occidentale. «Vogliamo ricostruire la storia dei reperti arrivati tra il 1904 e il 1960, anno dell’indipendenza della Nigeria», afferma Grégoire Mayor. Seguendo quali strade sono finiti qui? Sono in relazione con la citata spedizione militare inglese o invece frutto di traffici successivi? Certi pezzi si sa che sono stati creati espressamente per il nostro mercato d’arte e con la partecipazione di attori africani. Sarà compito dei ricercatori indagare negli archivi dei paesi coloniali, in quelli dei paesi colonizzati, tra commercianti d’arte e collezionisti. Un compito (reso più difficile dalla pandemia) che dovrebbe dare i primi frutti il prossimo anno. «Noi siamo naturalmente aperti alle domande di restituzione che però devono essere solo uno dei punti della discussione con i colleghi nigerani», afferma ancora il codirettore del museo di Neuchâtel. Come dice il comunicato sottoscritto dai responsabili svizzeri «è importante aprire un dibattito con la Nigeria sul futuro di questi oggetti una volta restituiti. L’analisi critica della dolorosa storia coloniale iscritta nella biografia delle opere deve diventare un’opportunità per trovare nuove forme di
memoria in un dialogo stretto con gli africani. La collaborazione dovrebbe portare a conoscersi meglio, a moltiplicare i punti di vista sugli oggetti, a riflettere sul modo occidentale di presentare le culture altre dalla nostra. Un progetto funzionale all’arricchimento e alla crescita comune». Discorso a parte quello dei reperti umani provenienti dai paesi colonizzati, presenti in molte collezioni dei nostri musei, «trasformati in oggetti da mostrare accanto a manufatti artistici, animali e altre curiosità», scrive Louis Godart nell’articolo di «Archeo» dedicato al tema delle restituzioni. Si pensi solo alle teste rimpicciolite della Papuasia. Quando in passato non venivano esposti, come fenomeni da baraccone, esseri umani viventi! Godart ricorda in particolare il caso della «Piccola Sara» (era alta 1 metro e 35 centimetri), nata schiava in Sud Africa e portata in Inghilterra nel 1810 per mostrare agli inglesi le sue insolite fattezze (era afflitta da steatopigia). Fu poi trasferita in Francia, racconta Godart, e venduta a un domatore di animali che continuò a farne un fenomeno da baraccone. Passata la moda delle esibizioni la «Piccola Sara» iniziò a bere, mantenendosi con la prostituzione. Morì a 25 anni. E la conclusione agghiacciante: «Il suo scheletro, i suoi genitali e il suo cervello sono rimasti in esposizione al Musée de l’Homme fino al 1974». Argomenti per riflettere sulla nostra storia museale non mancano, di sicuro a direttrici e direttori, ma anche a tutti noi. (Fine)
Poteva trasformarsi in una buona occasione per brindare con gli amici e riunire festosamente buona parte, se non la totalità, della nostra scena. Ma non è andata così. O meglio, certamente il brindisi ci sarà stato, ma in versione più intima, vista la pandemia. L’occasione meritava comunque di essere sottolineata. Stiamo parlando degli ottant’anni compiuti da Antonio Ballerio, protagonista fra i più significativi e testimone dell’evoluzione della nostra realtà teatrale. Sebbene in questi giorni lo abbiano già ricordato affettuosamente in molti, ci sembrava giusto non mancare, soprattutto perché gli inizi dell’avventura professionale di Ballerio sul nostro territorio hanno in larga parte corrisposto all’avvio dell’avvincente toboga del nostro teatro indipendente, costellato da una crescita di professionalità esponenziale, da coraggiosi progetti, polemiche e battaglie fino a inevitabili quanto cocenti delusioni. Ballerio ha vissuto gli anni del suo volontario esilio elvetico negli anni in cui la realtà ticinese, per un certo tipo di teatro, poteva rappresentare una sorta di Eldorado dove radio, televisione e scena viva andavano a braccetto garantendo a molti una carriera economicamente dignitosa, visibilità e, soprattutto, occasioni di lavoro. Oggi non è più così. Anche per Ballerio che anche nei momenti più difficili ha sempre conservato un signorile aplomb, ciò che ai nostri occhi lo potrebbe fare apparire un personaggio educatamente in sordina, un ritratto non del tutto fedele se pensiamo al successo delle sue interpretazioni. I molteplici personaggi che ha portato in scena questo distinto signore, protagonista di un teatro non urlato, hanno punteggiato periodi luminosi, ricchi di aspettative, ma anche incertezze dettate da nuove e più complesse regole del mondo artistico. Di lui, attore e regista, ci piace ricordare le tappe condivise con la compagnia del Teatro la Maschera di Alberto Canetta, senza dimenticarlo come creatore di Luganoteatro e Labyrinthos, progetti che hanno radunato nomi che hanno sempre voluto tenere alto il prestigio di un teatro di repertorio e di parola: una parola attentamente meditata, dalla studiata articolazione, frutto di preziose lezioni apprese alla corte di maestri come Giancarlo Sbragia, Franco Parenti, Giorgio Albertazzi... Ci fa piacere sapere che nonostante il prestigioso traguardo Ballerio stia mordendo il freno per tornare in scena. Noi aspettiamo che il sipario si riapra, su di lui e su tutta la nostra scena, per ridarci quell’indispensabile linfa culturale, nutrimento dell’anima, che ci fa sentire vivi anche perché, come diceva quel tale, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Auguri Antonio, ad maiora!
Nato a Milano nel 1941, da anni è colonna portante delle nostre scene.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Una vita breve e intensa
Il concerto si ascolta online
Ritratti Georg Büchner, uno dei maggiori autori della letteratura tedesca,
è stato esule in Svizzera durante i tumulti repubblicani europei dell’Ottocento
Classica Nuove
modalità esecutive in tempo di pandemia
Benedicta Froelich Se è vero, come si diceva un tempo, che «muore giovane chi è caro agli dei», allora si può tranquillamente affermare che vi siano pochi casi, nel campo della letteratura mondiale, struggenti quanto quello del drammaturgo tedesco Georg Büchner – il quale, appena ventitreenne, trovò la morte proprio in territorio svizzero, a Zurigo per la precisione, dove si era distinto quale docente più giovane dell’intera università cittadina. Come sia avvenuto che un brillante accademico, peraltro dedito a discipline non propriamente umanistiche, abbia finito per divenire uno dei più importanti commediografi ottocenteschi, è uno dei maggiori quesiti nella storia personale di Büchner: per quanto nella sua breve vita abbia completato soltanto tre commedie, la modernità e rilevanza del suo lavoro – ancor oggi incredibilmente attuale, nelle tematiche come nel linguaggio – ha fatto sì che, nell’arco del Ventesimo e Ventunesimo secolo, i suoi drammi siano stati rivisitati in innumerevoli versioni non solo teatrali, ma anche cinematografiche e perfino musicali (un esempio su tutti, l’avanguardistica opera atonale Wozzek del compositore Alban Berg, del 1925).
Le sue opere La morte di Danton, Woyzeck e Leonce und Lena sono considerati ancora oggi dei capolavori Forse parte del segreto di tale attualità è da ricercarsi nell’innata irrequietezza del giovane Georg, il quale non tardò a mettersi nei guai con le autorità, attratto com’era dagli ideali giacobini e dai fermenti popolari dell’800 europeo – nonché dall’idea che l’aristocrazia, ormai obsoleta, dovesse lasciare il posto all’autodeterminazione del popolo: un tema che avrebbe fatto da fil rouge della sua produzione artistica, affondando le radici nel background culturale dell’autore. Nato nel 1813 a Goddelau, cittadina della Germania meridionale all’epoca facente parte del Ducato d’Assia-Darmstadt, Büchner proveniva infatti da una famiglia dalla forte impronta intellettuale, in cui scienza e umanesimo si univano abi-
Monumento funebre per lo scrittore in Germaniastrasse a Zurigo. (Wikipedia, Roland zh)
tualmente tra loro (il fratello Ludwig, medico, si sarebbe distinto come influente filosofo). Anche Georg venne avviato agli studi in medicina dal padre (ex medico militare, chimico e inventore), e si formò nelle università di Strasburgo e Giessen; tuttavia, finì presto per subire il fascino dei nascenti moti repubblicani dell’epoca, soprattutto grazie agli effetti dell’insurrezione parigina del luglio 1830. Tale interesse lo portò a partecipare ai locali disordini popolari del maggio 1832 e a fondare una società segreta, la Gesellschaft für Menschenrechte («Società per i diritti umani»), dedita all’ideale di rivoluzione popolare – nonché, infine, a pubblicare un incendiario pamphlet dalle chiare simpatie proletarie, l’Hessischer Landbote (1834). Ma non era solo la politica a infiammare l’animo inquieto del giovane Büchner: nel 1835 egli avrebbe infatti completato la più apprezzata delle sue opere teatrali, Dantons Tod («La morte di Danton»), che, prendendo spunto dalla sorte di uno dei martiri della Rivoluzione Francese, offriva un’aspra riflessione sui pericoli del potere assoluto e della giustizia sommaria. Nel frattempo, le passioni politiche di Georg finirono per costringere il brillante studente a una fortunosa fuga: le poco velate incitazioni alla ribellione contenute nell’Hessischer Landbote (su tutte, lo slogan «pace alle capanne,
guerra ai palazzi!») portarono le autorità ad accusare di tradimento i responsabili di un simile affronto allo status quo, e tra i vari dissidenti subito arrestati vi fu anche il pastore protestante Friedrich Ludwig Weidig, coautore del pamphlet, imprigionato e sottoposto a torture d’ogni tipo. Büchner, ricercato dalla polizia, riuscì a passare la frontiera francese e a riparare a Strasburgo; qui completò il suo dottorato in medicina, pubblicando una rivoluzionaria dissertazione medica che, a poco più di vent’anni, gli valse una cattedra come professore di anatomia e storia naturale presso l’università di Zurigo. Nell’ottobre del 1836, Georg si ritrovò così in Svizzera – dove, come molti altri dissidenti e rifugiati politici prima e dopo di lui, avrebbe trovato un accogliente rifugio. A Zurigo si stabilì al nr. 12 della Spiegelgasse (poco lontano dalla casa in cui Lenin avrebbe in seguito trascorso il proprio esilio), e qui intraprese la stesura della sua opera oggi più nota: la tragedia Woyzeck, che, ispirandosi a un fatto di cronaca, riproponeva il tema del dramma dell’uomo comune – in questo caso un soldato semplice, portato alla follia dal cinico sfruttamento a cui la società lo sottopone. Purtroppo, Woyzeck era destinato a rimanere incompiuto; come per un crudele scherzo del destino, quella morte prematura a cui Büchner era scampato per un soffio con la fuga ol-
treconfine lo avrebbe raggiunto sotto le spoglie di una banale quanto letale malattia – un attacco di tifo, che se lo portò via il 19 febbraio del 1837; in quello stesso anno, si spegneva in prigione (in circostanze mai del tutto chiarite) anche il suo compagno di cospirazioni, Friedrich Ludwig Weidig. Con la morte di Georg sarebbero andati perduti per sempre i lavori ancora in corso di redazione, tra cui un’opera teatrale su Pietro Aretino; fortunatamente, sono giunti fino a noi la commedia satirica Leonce und Lena e un frammento del romanzo breve Lenz, ispirato alla vita tormentata del poeta Jacob Lenz. Oggi considerato un geniale precursore dell’espressionismo tedesco, Büchner ha conosciuto una notevole riscoperta critica nell’arco del ventesimo secolo (basti citare, tra gli altri, l’adattamento cinematografico del Woyzeck realizzato da Werner Herzog nel 1979); e sono in molti a ritenere che, se solo la sua vita non si fosse interrotta tanto presto, egli godrebbe ora della stessa considerazione riservata a colleghi quali Schiller e Goethe. Tuttavia, la sua tomba-memoriale, collocata sulla Germaniahügel, a Zurigo-Oberstrass, rimane duraturo simbolo dell’effimera e impermanente natura della vita umana, a cui nessuno può sottrarsi – ma dalla quale il vero genio può sempre e comunque emergere per rivelarsi a noi come entità, nonostante tutto, immortale.
La musica non si ferma. La situazione epidemiologica impone di trovare soluzioni creative ed ecco che le nuove tecnologie vengono in soccorso al bisogno di proposte culturali di qualità. Il Teatro di Chiasso, ad esempio, come molte altre istituzioni, ha temporaneamente trasferito sul web la propria programmazione concertistica, con risultati assolutamente sorprendenti. Dopo il riuscitissimo concerto con il pianista Giuseppe Albanese, lo scorso novembre, la nuova iniziativa «Le stanze dell’arte» propone al pubblico una serie di esibizioni in streaming i cui protagonisti sono giovani strumentisti di casa nostra. Dopo il concerto con il pianista Andrea Jermini e quello con il duo di violoncellisti Milo Ferrazzini – Claude Hauri (quest’ultimo spettacolo è visibile online nel sito www.centroculturalechiasso.ch fino al prossimo 23 febbraio) martedì 23 febbraio, ore 20.30, è previsto il concerto di Emanuele Zanforlin, violino, e Silvia Pellegrini, pianoforte. In programma musiche di A. Dvorák, L. van Beethoven, B. Smetana. Il prossimo martedì 2 marzo, ore 20.30, è previsto infine, quale ultimo appuntamento della serie, il recital dell’arpista Elisa Netzer, con musiche di G.F. Händel, J.B. Krumpholtz, S. Natra, H. Renié. Da segnalare, in questo contesto che anche l’associazione Musica nel Mendrisiotto ha spostato sul proprio canale di Youtube l’attività concertistica di questa prima parte del 2021.
Il giovane violoncellista Milo Ferrazzini. (www.centroculturalechiasso.ch) Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Con il corpo
Parole di ieri
raccontati da Anna Giurickovic Dato
attualità, in un bel libro sulla storia del lessico e sul rapporto tra lingua e cultura
Laura Marzi
Stefano Vassere
Capita, scegliendo un nuovo libro da leggere, che a frenarci sia la drammaticità della trama. Può succedere che si tratti di una autrice o di uno scrittore che apprezziamo, di una casa editrice di cui tendenzialmente ci fidiamo, solo che abbiamo paura della storia tratteggiata nelle poche righe della quarta di copertina. Temiamo che quel racconto ci farà soffrire, che ci toccherà, tanto che evitiamo quel romanzo, anche se potrebbe essere un buon testo. Il grande me (Fazi Editore) racconta della morte di un padre molto amato, a partire dalla diagnosi di incurabilità di un cancro al pancreas, è il secondo romanzo di Anna Giurickovic Dato, che dopo l’esordio con La figlia femmina, riafferma in questa seconda prova il suo spessore. Carla, la narratrice, Laura e Mario sono i tre figli di Simone. Lui è il loro padre cantante, senatore, archeologo, musicista: un eroe dolcissimo che vive a Milano da quando si è separato dalla sua famiglia rimasta a Roma. Loro lo raggiungono e si trasferiscono a casa sua quando capiscono che Simone non ha più molto tempo: la diagnosi non lascia nessuno scampo e di fronte a lui ci sono i mesi di tentativi falliti con la chemioterapia e le settimane di agonia sotto morfina.
Il rapporto tra lingua e storia, tra lingua e società, in buona sostanza tra lingua e cultura corre spesso in due direzioni praticamente opposte: da una parte, dalla parte maggioritaria, si sostiene che la società condizioni la lingua e le parole, le plasmi e le carichi di attualità, diminuendole del superfluo, dell’anacronistico e dello stantio. Sull’altro fronte c’è una serie di teorie affascinanti, secondo le quali sarebbe la lingua ad agire sulla società, informandola di proprie caratteristiche e in un qualche modo piegandola. È la vecchia teoria della relatività linguistica, che ebbe ispiratori importanti poco prima della Seconda guerra mondiale. Va letto più sulla prospettiva «parole che fanno la storia», anche se le due dimensioni vi sono spesso mescolate, questo Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda del grecista Giorgio Ieranò. Il libro entra solo apparentemente nella recente popolare vague di novità editoriali dedicate al profitto che si ricava dallo studio delle lingue antiche; quella serie, ormai numerosa, di testimonianze divulgative dedicate alla loro riscoperta, del tipo «come è bello il latino», «il greco è fantastico», che quasi sovrabbondano nel panorama italiano. Il giovane canone è ripreso solo in parte, perché in questa occasione sono almeno due gli elementi di novità che rendono la lettura decisamente originale. Uno è il riconoscimento del greco come lingua viva, che senza soluzione di continuità attraversa i millenni e giunge ai nostri giorni con le proprie parole e i loro significati, stravolti ma evocativi di quel mondo e di quei valori tanto da farci assistere ancora oggi a una ben viva fabbrica lessicale (utopia, nostalgia, eco-
Letteratura Gli struggenti ultimi mesi del padre malato
La storia si articola attorno al contrasto tra l’aspirazione alla vita e al piacere della protagonista e la situazione di malattia e decadimento fisico del suo genitore Nel racconto di questa procedura medica generalmente condivisa è interessante come Giurickovic Dato sia riuscita a mostrarne la fragilità senza che nessuno dei personaggi la nomini mai. Simone, finché è in grado di farlo, sceglie di sottoporsi a ogni possibile sperimentazione esistente e i suoi figli lo seguono e lo accompagnano: nessuno di loro si sofferma mai sul fatto che sia impossibile con le settimane che passano comprendere che cosa lo stia ammalando di più, tra la cura e il cancro. Eppure, questa combinazione, il fatto che la morte si combatta con la morte, affiora pagina dopo pa-
La scrittrice è nata a Catania nel 1989 (dettaglio della copertina).
gina, nel racconto delicato ma feroce del deperimento del corpo di Simone: la perdita dei capelli e poi la nausea, fino all’incapacità di parlare. L’autrice è estremamente attenta a rispettare la massima che ogni aspirante narratore dovrebbe conoscere e che infatti viene recitata come un mantra nelle scuole di scrittura creativa: «show, don’t tell», mostra senza dirlo. Non a caso, poi, Giurickovic Dato è anche una sceneggiatrice: fin dalle prime pagine la sensazione durante la lettura è prima di tutto fisica, spaziale. Il testo conduce immediatamente nella casa di Simone, nella cucina dove Laura cerca di preparare il pranzo, ma il padre non desidera mangiare, non è già più molto lucido e continua a contraddirsi su quello che vorrebbe, rifiutando ogni proposta della figlia minore. Siamo spesso sul divano con loro mentre guardano dei film se lui ne ha voglia, o nel corridoio, quando Carla guarda dal buco della serratura della porta del bagno per capire se il padre ce la fa da solo e lo vede a terra. La vita è il tempo, o quanto meno si compone anche dei secondi e dei minuti che trascorrono. Ed è forse questa la materia del romanzo: nel giro di un libro, di qualche pagina, Simone, che Carla adora, scompare. Si trasforma e se ne va: non c’è niente di davvero accettabile in questo e soprattutto i conti non tornano. Nonostante la scelta meravigliosa e fortunata anche, perché possibile, dei tre fratelli di lasciare Roma e andare a trascorrere tutto il tempo rimasto col padre, quando sarà finito non solo non sarà
stato abbastanza, non era neanche l’inizio. Tutto poteva ricominciare fra di loro: un’altra vita in cui Carla, Laura e Mario avrebbero inaugurato un nuovo rapporto con il loro padre. Il grande me è proprio uno di quei romanzi che si vorrebbe lasciare da parte, consapevoli che non si resterà indenni dopo averlo letto. Quello che non si può immaginare prima di finirlo è quanto forti e ben strutturati siano il testo e la voce della sua autrice, nonché la personalità della narratrice. Ogni tanto Carla si astrae dalla quotidianità in casa col padre, esce: una volta va a una festa, un’altra volta si mette una minigonna e va alla ricerca di un incontro sessuale. Alla fine, negli ultimi giorni, decide di prendere una stanza in albergo: di fronte al fatto che ancora le piace il caffellatte, non si stupisce come ci si potrebbe aspettare. In questo romanzo sulla morte Giurickovic Dato sa dire che il piacere non finisce. Nel dolore incontenibile che Carla prova per la fine di suo padre, sussistono, senza che lei ne possa nulla, la sua capacità e la sua spinta al godimento. Non si tratta di una perversione della ragazza, di una reazione, neanche dell’istinto di sopravvivenza: si tratta del corpo. Quello di suo padre perde le funzioni fondamentali una dopo l’altra, con una rapidità impensabile. Quello di Carla è un corpo sano, che non conta i minuti, ma vive.
Editoria Le voci del greco antico e la loro
logia, xenofobia, psichedelia sono parole moderne ma forgiate da quell’elemento linguistico). L’altro è una benvenuta relativizzazione del valore dell’etimologia, della ricerca del significato primigenio delle parole. L’invenzione delle parole nuove, l’adattarsi della lingua al tempo e alle culture che passano, «ha portato ad attribuire un senso nuovo a parole antiche. Per questo anche le etimologie servono fino a un certo punto». Il greco antico ci fornisce parole o pezzi di parole per i concetti centrali della nostra stessa esistenza umana; e se non con parole che la sua lunga onda linguistica ha portato fino a noi è adattando quelle forme e quelle strutture che continuiamo a nominarne di nuovi. È per questo che il libro di Ieranò denomina i suoi capitoli all’insegna di nozioni chiave: l’anima (psiche, eros), il sacro (mistero, mito, chiesa), la cultura (poesia, teatro, scuola), la politica (democrazia, economia), con uno spazio illuminante per la parola che chiude le ultime pagine: epidemia. Ecco, tra le molte altre, appunto epidemia. La parola non c’è né in Omero, né in Sofocle, né in Tucidide. Il primo usa l’aggettivo epidèmios, nel senso di «indigeno», «circoscritto a un solo luogo», «domestico». Epidemìa è usato per la prima volta tra il quinto e il quarto secolo prima di Cristo con il significato di «malattia di un determinato posto», perché «quando una malattia colpisce un gran numero di individui nello stesso momento bisogna attribuirne la causa a ciò che è più comune, a ciò che utilizziamo di più: quello che respiriamo», si potrebbe aggiungere «quello che respiriamo nel posto dove abitiamo». Poi, molti secoli dopo, nel Settecento, la parola assume finalmente, dopo piccole e successive evoluzioni dell’uso, il significato di «malattia che si diffonde con facilità», per poi approdare, ulteriore tempo dopo, al lessico della medicina. Non sarà infine meno importante alludere al fatto che la stessa pandemia è parola che è stata a lungo estranea a fatti medici. Insomma, per quali vie le parole si trasformino con il crescere del mondo e, soprattutto, quanto sia spesso sbagliata la diffusa tentazione di trovarne il senso nel significato nucleare, è storia miracolosa. Pregio delle vicende raccontate in questo libro certamente molto bello. Bibliografia
Giorgio Ieranò, Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda, Venezia, Marsilio, 2020.
Bibliografia
Anna Giurickovic Dato, Il grande me, Fazi Editore, 2020, pp. 230.
Una galassia di buonumore
TV Disney Plus festeggia un anno dalla sua entrata sul mercato e si va profilando come piattaforma
dalle proposte interessanti, che completano l’offerta globale degli altri operatori digitali Nel panorama delle recensioni televisive che capita di trovare sui media (il nostro incluso) il canale web «Disney plus» sembra un po’ trascurato. Ritenuto forse una piattaforma tv dedicata solo all’intrattenimento infantile, raramente viene preso in considerazione per i suoi contenuti più «seri». Molti gli hanno rivolto l’attenzione forse solo per la recente serie di fantascienza Il Mandalorian, un riuscitissimo spin-off della saga di Guerre Stellari. Per il resto, è vero che nel catalogo offerto al pubblico la parte del leone la fanno i fortunati film del passato, quelli che hanno costituito la videoteca minima indispensabile di ogni famiglia con figli da tenere tranquilli. Disney Plus, infatti, può apparire
per molti aspetti una iniziativa «nostalgia», in cui andare a recuperare vecchi ricordi d’infanzia e vecchie emozioni cinematografiche. Il salto nella «macchina del tempo Disney» riporta persino agli albori della produzione: chi volesse può ritrovare versioni restaurate e smaglianti di vecchi classici come Steamboat Willie, del 1928, oppure The Band Concert del 1935. Ma rilsalendo nel corso del 900 molti di noi «boomer» potranno trovarci quelle pellicole divertenti e sempre un po’ bizzarre come FBI Operazione gatto, Il fantasma del pirata Barbanera, oppure il curioso Darby O’Gill Re dei folletti (questo proprio da non perdere, con un divertente Sean Connery ad inizio carriera) che allieta-
Soul della Pixar ha buone probabilità di vincere l’Oscar per l’animazione.
vano i nostri pomeriggi domenicali nei favolosi Sixties (si fa per dire). Naturalmente Disney Plus non è solo questo: oltre a raccogliere le numerose serie per adolescenti proposte nel corso degli anni da Disney Channel, Hanna Montana e Duck Tales su tutti, propone bei documentari, e, per la gioia dei molti, il catalogo quasi completo della produzione Marvel: se vi piacciono i supereroi qui ne avete fino allo stordimento. Detto ciò, vale la pena di segnalare un’iniziativa interessante e molto importante: Disney Plus dedica uno dei suoi settori alla creatività neroamericana, con una serie di film che vanno sotto la categoria di «Celebriamo le Black Stories». Si tratta di lungometraggi e
serie che raccontano il mondo visto con gli occhi della cultura «black». Capofila in questo settore è naturalmente Black is King, di Beyoncé, una storia musicale e, diremmo, antropologica che vuole insegnare ai giovani a riappropriarsi con fierezza delle loro origini. Per noi comunque la miglior pellicola in questo settore (e forse di tutto il canale, senza esagerazione) è l’ultimo lungometraggio animato della Pixar, intitolato Soul. Si tratta di un’opera assolutamente stupenda per realizzazione e ideazione: racconta la storia di un giovane jazzista che sta per raggiungere il successo ma... La trama non è forse molto originale ma il racconto tiene col fiato sospeso e insegna molto, a tutti noi. /AZ
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 febbraio 2021 • N. 08
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta La condanna del Carosello Cosa mostrare ai ragazzi di oggi perché si facciano un’idea di com’era l’Italia negli anni ’60, quelli del boom? Non ho dubbi: gli spot di Carosello, l’unica pubblicità ammessa dalla Rai Tv, quando era un monopolio. Il primo andò in onda il 4 febbraio del 1957 e per molti anni le agenzie pubblicitarie si affidarono ai testimonial per il lancio di un prodotto. Si è scritto molto su Carosello e non è il caso di tornare su cose risapute. Parliamo piuttosto di retroscena, prendendo spunto dal libro di Katia Ferri, Spot Babilonia, pubblicato da Lupetti&Co. nel 1988. La televisione, nata tre anni prima di Carosello, era una novità presa tremendamente sul serio dagli italiani. In uno spot per la China Martini Franco Volpi recitava nel ruolo di un colonnello rimbambito e un vero colonnello fece causa per diffamazione. Pesco dai miei ricordi di programmista. Nello sceneggiato che rievocava un processo storico, al termine di un dibattito il cancelliere aiutava il giudice a
indossare il soprabito. Vibrate proteste del sindacato cancellieri: siamo anche noi laureati in giurisprudenza come i giudici e non facciamo i loro lacchè. Altro sceneggiato: stazione di polizia. In piena notte un poliziotto è seduto accanto al telefono pronto a raccogliere la segnalazione dell’incidente stradale che darà il via a tutta la vicenda. Per non lasciarlo imbambolato la regista Giuliana Berlinguer lo mette a compilare una schedina del totocalcio. Non conta che il giovane scatti come una molla al primo squillo: un poliziotto in servizio non compila schedine, la scena è da rifare. Per gli attori di teatro e di cinema, comici da rivista, cantanti, soubrette, da soli o in coppia, in quegli anni Carosello fu una benedizione dal punto di vista economico, senza contare il grande balzo di notorietà che procurava. Possiamo rivedere il futuro premio Nobel Dario Fo mentre, in coppia con Franca Rame, interpreta il ruolo di Jack il biondo che insegue i ladri e li raggiun-
ge con un macinino, grazie al pieno di Supercortemaggiore. La partecipazione a Carosello aveva talvolta un risvolto negativo per quei testimonial che finivano per essere identificati dal pubblico con il prodotto reclamizzato. Paolo Ferrari era stato, in coppia con Tino Buazzelli, il protagonista della serie dedicata a Nero Wolfe. Poi, con enorme successo, era stato messo vicino alla cassa di un grande magazzino e lì, con la tecnica di Specchio segreto, cioè con cinepresa e microfono nascosti, interpellava le signore che uscivano con un carrello nel quale c’era anche un fustino di Dash. Lo afferrava con una mano mentre nell’altra teneva due fustini della stessa dimensione senza marchio: proponeva lo scambio, due al posto di uno, con la signora che senza esitare rifiutava la proposta. Da allora il povero Ferrari non ha più lavorato in tivù. In preparazione di un nuovo sceneggiato si svolgeva in viale Mazzini una riunione per decidere la distribuzione,
assegnando a ogni ruolo il nome di uno o una interprete. Ricordo che quando qualcuno dei presenti proponeva il suo nome, c’era sempre la replica: qualunque cosa faccia, gli spettatori lo vedono con un fustino di detersivo in mano. Altri testimonial hanno trovato rifugio nel teatro, come Ernesto Calindri che gustava un Cynar beatamente seduto a un tavolino collocato in mezzo al traffico romano. Nel 1959 Cesare Polacco è l’ispettore Rock che risolve tutti i casi. Alla lode del suo vice: «Lei non sbaglia mai» replica, inchinandosi e togliendosi il copricapo in modo da mostrare la calvizie: «Anch’io ho commesso un errore, non ho usato la brillantina Linetti». La battuta ha un successo che ora diremmo virale. Un ricordo: Milano, teatro di via Rovello, replica pomeridiana del Galileo di Bertolt Brecht, regia di Giorgio Strehler. Cesare Polacco entra in scena nel ruolo di un cardinale, con un grande copricapo di pelliccia, ma purtroppo per lui ha una voce incon-
fondibile. Così, alla prima battuta, ogni spettatore si rivolge al proprio vicino dicendo «È l’ispettore Rock». Qualcuno la scampa anche se continua a essere inseguito dal fantasma del suo Carosello. Nino Castelnuovo è stato Renzo Tramaglino nei Promessi sposi diretti da Sandro Bolchi. Anni dopo ha fatto il testimonial per l’olio Sasso nel quale saltava con estrema disinvoltura una staccionata. Passa un altro po’ di anni, sono con lui a Volterra, dove giriamo gli esterni di Ritratto di donna velata. Sono in molti a riconoscerlo: indovinate cosa gli chiedono di ripetere? I direttori della Rai accettarono i primi gialli a condizione che fossero ambientati all’estero. Nasce il tenente Sheridan. Ubaldo Lay entra così bene nei suoi panni da portarli anche nella vita. Fece l’errore di portare il personaggio dentro gli spot. Tornò a recitare in teatro e a Roma ogni volta dalla platea partiva una pernacchia seguita dall’invito: «A’ Sheridan, scopri chi è stato!»
notte seguente comparirà il gioielliere cadaverico con la figlia in braccio che dice: papà. Prevedendo questa possibilità con la relativa insonnia, il rapinatore opterà per la seconda alternativa. Andrà dal delinquente suo rivale, farà finta di essergli amico, i proventi del rivale sono sfruttamento della prostituzione, droga ed estorsioni, quindi il rapinatore si sente legittimato a fare giustizia e a togliere dalla circolazione un essere immondo, che tra l’altro guarda già con interesse la sua bellissima donna per farne l’amante e poi avviare come le altre alla prostituzione. Il rapinatore gli propone di associarsi in affari, l’altro dice: va bene! pensando però di eliminarlo; ma prima apre la cassaforte per mostrare i suoi soldi alla donna che è venuta anche lei. Alla donna luccicano gli occhi. Questo il rapinatore non può sopportarlo, anticipa i tempi, spinge dentro la donna e il rivale e chiude la cassaforte gridando: godetevi i soldi! Torna a casa affranto e senza una lira,
è mezzanotte passata, si butta sul letto, ma dopo un po’, assieme al gioielliere che non aveva smesso di comparire una volta ogni 15 giorni, gli compare anche la cassaforte da cui escono mugolii di piacere, tutta notte sente la sua donna godere, e la voce rauca del rivale pure lui in godimento, e il tintinnio dei soldi in mezzo a cui giacciono. Naturalmente è una messinscena, ma si ripete ogni notte, cui si aggiunge per un errore della regia, la figlia morta del gioielliere che piange sangue. Dopo 20 giorni ha capito che non deve più uccidere, né rapinare, né mettersi con donne che non si può permettere. Aspira a una vita lineare d’ufficio, e a casa una brava casalinga che non gli dia sorprese. È pronto cioè alla vita vera, che sarà morigerata, contraria alle armi, con affetti duraturi e modesti, sarà cioè esemplare, come i legislatori in genere s’augurano. E se ci fosse un paradiso come premio, tutti ci andrebbero, e l’inferno sarebbe vuoto. Invece nel sistema attuale, uno è gettato
nel mondo senza esperienza o manuale di istruzioni, in mezzo ai pericoli, alle tentazioni e alle insidie, tra sconosciuti, un po’ come se da un elicottero ti calassero nel centro della foresta amazzonica e tu dovessi cavartela, nudo, solo, e attorno animali velenosi e cannibali. Cosa faresti? ruberesti, uccideresti, diventeresti a tua volta cannibale. Io dico che questa vita è stata mal concepita fin dalle origini. Dovevano metterne una di prova. Non so di chi è la colpa. L’uomo commette il male per inesperienza. L’unica cosa che si può aggiungere è che siamo tanti, e una vita in prova per ciascuno su qualche pianeta con scenografia equivalente alla terra sarebbe molto costosa. Siamo 7 miliardi, e a ogni generazione altri 7, dopo 10 generazioni non basterebbero i sistemi solari della nostra galassia. Ci si potrà spostare sulle Nubi di Magellano. Ma sono distanti, scomode. Dev’essere per una mancanza di finanziamenti che la vita è così, tutta una casualità e un’improvvisazione.
passo sull’immigrazione clandestina, serve un cambio di passo sulla politica anti-Covid, serve un cambio di passo sul vaccino e serve un cambio di passo sul turismo… E il clima? Anche sul clima, perché tutto rimanga com’è, occorre un cambio di passo. E un cambio di paradigma. Si impone una valutazione del perimetro del nuovo paradigma. Ogni crisi di governo è accompagnata da una crisi del linguaggio. «Ognuno deve fare la sua parte» è un pensierino ricorrente pronunciato a reti unificate con espressione assorta e meditabonda. Chi fa la sua parte deve sempre mostrare un’espressione assorta e meditabonda. Del resto, siamo o non siamo personalità di «alto profilo»? Anche questa è una soluzione buona per ogni palato: auspicare sempre un «alto profilo». Per questo molti ridono del ministro Renato Brunetta, della sua modesta statura fisica, 1 metro e 43 centimetri: un governo di alto profilo con Brunetta? Ah ah ah. Il peggio (1 senza 43) è piuttosto la prostrazione
generale ai piedi del Salvatore della Patria. Genuflessioni e bacio dell’anello. Uno spettacolo, tanto ripetitivo quanto esilarante, non solo della politica ma anche del giornalismo. Ognuno ha fatto la sua parte, cioè la stessa parte che hanno fatto gli altri, e non dico qual è (ribadisco solo il voto: 1). Fatto sta che c’è attesa: e nell’attesa si sprecano le ovvietà, facendo appello all’unità, rilanciando il dialogo, rafforzando la coesione, mettendo in sicurezza il paese, tenendo il punto (e la virgola?), chiedendo senza se e senza ma un cambio di passo e di paradigma… Saper creare l’attesa è un’arte. Lo sosteneva anche il teologo gesuita spagnolo Baltasar Gracián, che nel 1647 scrisse un libro di pensieri brevi destinato a diventare un prontuario dell’educazione in Europa: Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza (6–), che Adelphi ha appena mandato in libreria (accompagnato da un lungo saggio di Marc Fumaroli), propone trecento riflessioni e aforismi utili a chi voglia recuperare
la saggezza antica per affrontare una fase difficile della vita: quello di Gracián era un mondo quasi impossibile e lui offriva delle chiavi per liberarsi delle catene del rigore giansenista. Una considerazione delle più attuali: «Vi sono uomini dell’ultima ora, ché l’insipienza va sempre da un estremo all’altro. Hanno la volontà e le opinioni di cera. L’ultima sigilla e cancella tutte le altre». C’è bisogno di fare dei nomi? «La lingua è come una belva che, una volta sciolta, difficilmente può essere ricondotta in catene». C’è bisogno di fare nomi? «Occorre parlare come dovessimo far testamento»: scolpire questa frase in tutti i Parlamenti e magari anche nei tribunali accanto a «La legge è uguale per tutti». Riferire a qualche giovane rottamatore rampante: «Quanto più splende una torcia, tanto più in fretta si consuma e meno dura». Riferire ai presenzialisti televisivi, politici giornalisti e naturalmente virologi: «I vuoti di presenza sono compensati con l’acquisto di stima».
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Vita in prova In fondo quello che manca a noi umani è una vita in prova; prima della vera vita, manca una prima vita di addestramento, in cui si possano compiere errori senza conseguenze, che però insegnano. Faccio un esempio: uno durante la prima vita compie una rapina e uccide il titolare della gioielleria. Se tutto filasse liscio, come nella vita vera spesso succede, costui si abituerebbe a rapinare, uccidere e fare la bella vita col frutto delle rapine. Invece, supponendo che la vita in prova sia una vita allestita solo per lui e tutti gli altri siano attori che recitano, il morto ucciso, che avrà fatto finta di cadere morto per terra, gli comparirà ogni notte con la faccia esangue, in silenzio, dentro una leggera luminosità spettrale, tanto che all’assassino si arriccerà ogni pelo e non riuscirà più a dormire. Questo per mesi. E anche l’oro rubato sarà fatto in modo da sembrare oro, in realtà sarà stagnola dorata, vuota dentro e piena di vernice rossa indelebile; l’assassino,
una volta rifugiatosi nel garage di casa, con l’adrenalina a mille, aprirà il sacco con la refurtiva per contemplarla, la stringerà in mano e colerà fuori sangue, come nei peggiori incubi, si imbratterà tutto e le mani resteranno rosse, dovrà tenere i guanti anche se è estate, mentre l’oro sarà diventato un foglietto stropicciato di stagno. Dopo 20 giorni d’insonnia e terrore, il rapinatore giurerà di non uccidere più. Ma supponiamo sia un rapinatore incallito, per via che ha una donna (attrice che recita nella finzione, ma che lui crede vera) bellissima e amante del lusso e della vita senza restrizioni, la quale fa capire che se non ci sono soldi da spendere si mette con un altro delinquente più facoltoso. I casi sono due: il rapinatore fa un’altra rapina, cerca di non uccidere per non avere un secondo fantasma che lo perseguita, ma tutto è disposto in modo che assieme al gioielliere c’è la figlia di 7 anni, il gioielliere reagisce e lui uccide sia il padre che la figlia. Dalla
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il perimetro del paradigma È stupefacente come nei momenti chiave della vita civile, quando la confusione (soprattutto mentale) è massima, saltino fuori metafore geometriche: vi ricordate la politica a geometria variabile? E le convergenze parallele di Aldo Moro? Il cerchio magico di Berlusconi è più recente. E ora trionfa il perimetro, proprio quando i confini tra i partiti sembrano aprirsi. Dunque, usato in contrapposizione rispetto alla tendenza approssimativa delle cose: Salvini invita gli alleati a tracciare un perimetro comune, Meloni decide di uscire dal perimetro della coalizione, Conte lancia un allarme sul perimetro della maggioranza, quasi tutti guardano al perimetro europeo, Zingaretti dice che sul perimetro del governo decide Draghi. E non sarà un caso se nelle scorse settimane è nata (a Milano) una nuova rivista fotografica intitolata «Perimetro»… Per non dire del paradigma. Tutti a dire che la ricostruzione del Ponte di Genova deve essere il paradigma dello
sviluppo. Sugli anziani è indispensabile un nuovo paradigma della cura, esorta l’arcivescovo Vincenzo Paglia. Auschwitz è il paradigma del male, ha avvertito Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma. Il Covid impone un cambio di paradigma sulla politica sanitaria. Provate a battere in un motore di ricerca «cambio di paradigma» o «changement de paradigme» o «change of paradigm» e vi si apriranno innumerevoli scenari. È il mondo intero che vuol cambiare paradigma. Il che fa tornare alla mente la famosa frase di Tancredi nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, secondo cui «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Perché tutto resti com’è, serve un cambio di paradigma ma anche un cambio di passo. Dunque, tutti ad auspicare un cambio di passo, come se dal tango si dovesse passare al valzer o al merengue. Contro il cyberbullismo serve un cambio di paradigma, ma anche un cambio di passo. Serve un cambio di
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