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Rivali ed eredi della palla a spicchi

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Tra il ludico e il dilettevole ◆ Fra duelli, confronti e rivalità, scopriamo alcuni dei campioni che hanno fatto la storia della pallacanestro a stelle e strisce

Se i campioni di oggi si misurano con i loro contemporanei, d’altra parte non possono sottrarsi all’ascendenza dei loro predecessori. A 38 anni e alla sua ventesima stagione da professionista, di recente LeBron James è diventato il miglior marcatore di tutti i tempi della lega professionistica di basket americana (NBA). Arrivando a quota 38’390 punti nel corso della partita tra Lakers e Oklahoma City Thunder, ha così superato il record, rimasto imbattuto per quasi quarant’anni, detenuto da Kareem Abdul-Jabbar. La notizia è stata accolta con l’attenzione che si riserva ai grandi traguardi sportivi. Dagli anni Ottanta e dal record di Abdul-Jabbar, molti sono stati i duelli che hanno fatto la storia della palla a spicchi americana. Fra scontri, confronti, e rivalità, scopriamo alcuni dei campioni che hanno fatto la storia della pallacanestro a stelle e strisce.

Tutto lo sport, ma non solo, potrebbe essere descritto come una serie di duelli fra rivali, che infine potrebbero passarsi il testimone

Negli anni Ottanta del secolo scorso, il basket americano cresce a braccetto della cultura hip hop diffondendosi nei ghetti delle grandi città, e nei campetti dispersi un po’ ovunque nelle grandi aree metropolitane come New York, Chicago e Los Angeles. Parallelamente, lo sport della palla a spicchi spopola anche presso scuole pubbliche e università, in aree geografiche decisamente più agricole e conservatrici. In Indiana, per esempio, nei licei e nelle università la pallacanestro è quasi una religione, e non mancano figure che vestono i panni del guru: come Bobby Knight, che per tanti anni allenò la squadra dell’Indiana University.

In quegli anni la NBA è dominata da due giocatori: Larry Bird e Earvin «Magic» Johnson, uomini simbolo delle compagini più forti della lega: i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers. Larry è timido, terribilmente serio e riservato, mentre Earvin è estroverso, affabile e sempre pronto allo scherzo. Sembrano fatti apposta per alimentare una rivalità perfetta che, dai tempi del college – dove i due si sfidano nella finale del campionato NCAA –, si prolunga molto naturalmente nel mondo professionistico. Tanto che, sull’arco del decennio, i due fenomeni si contendono ripetutamente il titolo di campioni.

Larry era famoso perché, dall’alto dei suoi 208 centimetri, realizzava con talento e naturalezza tutto ciò che definisce il gioco del basket, dal palleggio al tiro, fino ai movimenti senza palla. Earvin, dal canto suo, faceva del passaggio vincente – l’assist – la sua invidiabile carta da visita. Da gesto secondario e subordinato, con l’asso dei Lakers il passaggio si trasforma, diventa addirittura più spettacolare di una schiacciata. Avete presente il no look pass? Correndo a velocità supersoniche da una parte all’altra del campo, Magic guardava da una parte e mandava la palla dall’altra, senza che nessuno capisse bene cosa stesse succedendo. Poi – questione di centesimi di secondo –, la palla magicamente ricompariva nelle mani di un compagno pronto a finalizzare l’azione.

Negli anni Ottanta, come detto, il basket che contava finiva per coincidere con le grandi sfide fra questi due giocatori e le loro rispettive squadre. Ma sul finire del decennio qualcosa stava cambiando. L’attenzione stava spostandosi altrove, e il nuovo fenomeno si chiamava Michael Jordan. Dopo un titolo vinto con l’università di North Carolina, Jordan entra nell’NBA nella stagione 1984-85 arruolato dai Chicago Bulls, con i quali negli anni Novanta vincerà ben sei titoli (’91-’92-’93 e ’96-’97-’98). Atleta simbolo di un’epoca, Jordan è stato anche una vera e propria icona nell’immaginario e nella cultura popolare degli anni Novanta. Con i suoi movimenti spettacolari ha sedotto gli amanti dello sport un po’ ovunque guadagnandosi, in pochi anni, il soprannome di Air Jordan per la sua capacità di librarsi nell’aria sfidando la forza di gravità.

In quegli anni Michael Jordan cambiò letteralmente il gioco del basket. Alcuni suoi tratti caratteristici, dalla lingua fuori mentre giocava, all’eleganza delle movenze, a quel suo modo di portare i pantaloncini fin quasi sotto il ginocchio, diventarono ben presto i nuovi sintagmi attraverso cui prese forma una nuova estetica del basket e dello streetwear. Forse fu proprio quel suo stare a metà strada fra cielo e terra, mentre gli avversa- ri si arrendevano alla forza di gravità, a renderlo un mito vivente. La stella di Jordan fu così folgorante che, anche a distanza di anni dal suo ritiro, la sua linea di scarpe e di abbigliamento sportivo targata Nike continua a essere fra le più vendute e desiderate dai giovani, che riconoscono nel simbolo iconico dell’uomo che vola le loro aspirazioni e i loro sogni.

Micheal Jordan era così dominante che, per anni, non ebbe praticamente rivali. Quasi a voler riempire un vuoto creato dal suo strapotere, molti avevano cercato, sul campo, il nuovo Jordan, o perlomeno un giocatore in grado di tenergli testa. Harold Miner era stato battezzato Baby Jordan, un soprannome che riduceva a zero la possibilità di essere un vero rivale. Di Grant Hill e Larry Johnson si diceva che potessero raccoglierne lo scettro, ma nessuno dei due ci arrivò veramente vicino. Solo sul finire della carriera di Jordan scese in campo qualcuno che, con il tempo, avrebbe saputo raccoglierne l’eredità. Quel qualcuno era Kobe Bryant.

Vincendo cinque titoli, Kobe fu per gli anni Duemila ciò che Michael Jordan era stato negli anni Novanta. Se la differenza di età – Michael è di quindici anni più vecchio – ha reso difficile un vero e proprio duello ad armi pari (i due si sono incontrati otto volte sul campo), ciò non ha impedito che ci fosse il confronto. È un po’ come se i due atleti si fossero incrociati sul campo per passarsi il testimone. Per tutti i campioni arriva il momento, presto o tardi, di lasciare il passo al proprio erede. Lo sapeva bene Michael Jordan tanto che, poco dopo la prematura scomparsa di Kobe Bryant, in uno dei suoi rari discorsi pubblici affermò: «Quando Kobe Bryant è morto, è morta una parte di me».

Oggi il mondo della palla a spicchi è animato da altre rivalità, e a calcare i campi ci sono altri campioni. Ma il rinnovamento non esclude l’esistenza di alcune costanti. Perché in fondo tutto lo sport, ma non solo, potrebbe essere descritto come una serie di duelli fra rivali, alcuni dei quali si trasformano in veri e propri passaggi di testimone. Come affermano gli autori dell’interessante libro intitolato proprio Rivali. Sfide Leggendarie che hanno fatto lo sport: «Le rivalità esistono per nutrire il pubblico di storie, e il conflitto – lo sappiamo – è il motore della narrazione». Nello sport, e così in altri ambiti, sono le rivalità a fare la storia.

Consiglio di lettura

A cura di «L’ultimo uomo», Rivali, Sfide leggendarie che hanno fatto lo sport, Einaudi, 2022.

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