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Un fiore dove ogni petalo è una religione
Reportage ◆ Prove di multiculturalità in Malabar, alla ricerca della perduta via delle spezie
Enrico Martino, testo e foto
Ebrei in fuga da Babilonia, fedeli di una chiesa cristiano-siriaca nata nella lontana Mesopotamia, marinai arabi spinti dal vento che gonfiava le vele dei loro dāw, le imbarcazioni tradizionali del Mar Arabico, in molti sono giunti sin qui. Onnipresenti immagini di Madre Teresa, a testimonianza di una forte comunità cristiana, convivono senza problemi con falci e martello di un partito comunista che governa lo Stato indiano del Kerala, da sempre.
Non si è fatta mancare nulla questa striscia di costa affacciata sull’Oceano Indiano per alimentare il suo mito, non si è fatta mancare neanche le reti cinesi dei tempi di Kublai Khan e Marco Polo, navigatori portoghesi, olandesi e inglesi incerti tra l’attrazione per l’altrove e le certezze dello sfruttamento coloniale. È la ricetta di un’inaspettata India cosmopolita, unica eccezione di un subcontinente massicciamente induista con forti minoranze musulmane, indissolubilmente legata ai venti monsonici che da millenni permettono di raggiungere velocemente l’antico Malabar. Un nome che sprigiona esotici profumi di pepe nero, zenzero, cardamomo, curcuma e cannella, non a caso la parola «pepe» viene dal tamil pippali e «zenzero» da singabera, protagonisti di una corsa alle spezie per cui l’Occidente impazzì già dall’antichità. Una competizione senza esclusione di colpi tra potenze europee e mondo islamico perché proprio il monopolio arabo su questi traffici fu la molla di spedizioni navali che segnarono l’inizio della grande espansione dell’Occidente.
Colombo si ritrovò nelle Americhe cercando la via che portava al raro pepe nero del Malabar ma fu Vasco da Gama nel 1498 a garantire al Portogallo il controllo della Via delle Spezie. Da allora portoghesi, spagnoli, olandesi e inglesi incrociarono in queste acque i loro destini, qualche volta pacificamente altre meno. Prima di loro, e degli arabi, era arrivata la flotta romana del Mar Rosso, una storia rivelata solo recentemente dal ritrovamento di una stazione commerciale vicino a Mahè che riforniva Roma di spezie e schiave indiane a prezzi da capogiro, che già all’epoca di Nerone erano una delle principali ragioni di salasso delle casse imperiali.
Il cuore di tutto era la piazzaforte coloniale di Cochin, l’attuale Kochi, la «Regina del Mar Arabico» favoleggiata per secoli da europei e arabi che però se la dovevano vedere con generazioni di navigati mercanti ancora oggi annidati tra botteghe stracolme di spezie dell’antico quartiere di Matancherry. Antri impregnati dell’umidità ossessiva del monsone dove Kirorimal, con la pazienza di chi si trova davanti uno sprovveduto, mi afferra una mano nascondendola sotto un lembo del dhoti, la tunica d’ordinanza, poi modula strette di mano ognuna diversa dall’altra, come un virtuosista. «Ogni stretta un prezzo, e tutto rimane un segreto tra compratore e venditore, un sistema imbattibile» ride trionfante in un andirivieni di portatori carichi di sacchi di iuta.
Trasuda polvere, spezie e storie Matancherry, la più intrigante delle quali nasconde dietro una piccola porta la foresta di lampade a olio della sinagoga Pardesi costruita nel 1568, distrutta nel 1662 dai portoghesi perennemente a caccia di miscredenti e ricostruita dopo l’arrivo dei più tolleranti olandesi nel 1664. Ne aveva- no già viste tante gli ebrei del Malabar, dai tempi in cui il nome biblico dell’India era Odhu e re Salomone flirtava con la regina di Saba: i primi sarebbero arrivati ai tempi della deportazione a Babilonia da parte di Nabucodonosor o alla Diaspora seguita alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 72 dopo Cristo; l’unica certezza storica è l’esistenza di un piccolo principato ebraico tra il quinto e il quindicesimo secolo, così incredibile da far scrivere a Rabbi Nissim, un viaggiatore ebreo del quattordicesimo secolo, «Sono arrivato a vedere un re israelita, l’ho visto con i miei occhi».
A far piazza pulita ci pensarono mori e portoghesi costringendo i po- chi sopravvissuti a chiedere protezione ai maharaja locali. Dopo la caduta di Granada, però, alcuni ebrei sefarditi spagnoli raggiunsero Cochìn alimentando un’intrigante leggenda ripresa da Salman Rushdie nell’Ultimo sospiro del Moro. Leggenda che aveva che fare con la corona di Boabdìl, ultimo sovrano dell’Andalusia musulmana, che sarebbe stata nascosta qui dai discendenti dell’amante ebrea del re.
Gli ultimi eredi di quel mondo se ne sono andati per sempre, in Israele o dietro il cancello arrugginito con la Stella di Davide del vecchio cimitero, e i pochi sopravvissuti sono solo evanescenti presenze.
L’inestricabile gioco di rimandi culturali di Matancherry continua davanti agli affreschi erotico-divini della cosmogonia induista nella residenza degli ultimi maharaja, dove la prosperosa Mohini seduce Shiva e un indaffaratissimo Khrisna è impegnato a titillare con sei mani e due piedi otto gopis, le sue amanti, in rappresentanza del mirabolante numero di oltre sedicimila concubine. Le radici induiste si materializzano soprattutto nella luce fioca dei templi, lontano dai turisti, quando le rappresentazioni del Kathakali trasformano gli uomini in dei e demoni di poemi epici come il Mahabaratha e il Ramayana
Nel frattempo gigantesche portacontainer che non trasportano più spezie ma Made in India sfilano davanti alle ultime reti cinesi e i camion frigorifero caricano il pesce al ritmo di jingles elettronici che si liquefanno nell’aria immobile. Dietro le ultime case olandesi resta la tomba vuota di Vasco da Gama nella cattedrale portoghese di Saint Francis (dopo quattordici anni di piogge monsoniche, il poco che ne restava fu riportato con tutti gli onori a Lisbona) e i risentimenti di padre Yohamman, della chiesa siro-caldea di Marth Mariam.
«Da quando hanno ucciso Arius le cose sono cambiate anche qui, parlo del vescovo ovviamente» aggiunge con un’aria vagamente infastidita, indifferente al fatto di farmi precipi- tare in un vorticoso abisso temporale di eresie come quella ariana che risale a sedici secoli. I cristiani siriaci locali non hanno dubbi sul fatto che la loro presenza risalga a San Tommaso in persona, che avrebbe fondato sette comunità in Malabar per poi finire martirizzato nel vicino Tamil Nadu. Una leggenda che la scoperta della facilità di comunicazioni tra Medio Oriente e Malabar ha trasformato in un’ipotesi plausibile, rafforzata anche dai Rampan Pattu, antichi poemi orali che parlano dell’apostolo con indicazioni storiche sconosciute alla cultura locale.
«Il Kerala è un fiore dove ogni petalo è una religione» spiega serafico padre Josep nella Miracle Church di Kokkamangalam, eretta sul luogo dove sarebbe sbarcato San Tommaso. «Per questo qui vengono anche pellegrini indù e musulmani» conclude trionfante, tacendo pudicamente quello che mi confessa uno di loro, «molti pensano che uno straniero come San Tommaso sappia cavarsela meglio con le faccende che riguardano l’estero». Storie arrivate con i monsoni che toccano terra proprio in Kerala, «il luogo dove nasce la pioggia» e il profumo delle spezie impregna sottili melanconie che sanno d’Arabia e Occidente.
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