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Equilibrismi elvetici sulla riesportazione delle armi

Berna ◆ Se il Governo permette di fornire munizioni a un Paese ingiustamente aggredito la nostra neutralità è a rischio?

A volte può capitare che per fare politica occorra metter mano al bilancino del farmacista. Ed è quello che sta succedendo per la riforma della legge sul materiale bellico, con cui si mira ad agevolare la vendita di armi svizzere all’estero. Il tema è delicato, e il momento pure. C’è di mezzo la nostra neutralità, che dall’inizio dell’invasione in Ucraina è costantemente messa a dura prova, in particolare da quando il Consiglio federale ha deciso di riprendere le sanzioni europee volute per mettere alle strette la Russia di Putin. E così ora, a quello delle sanzioni si aggiunge un altro nodo da sciogliere, quello dell’esportazione di armi. Tocca al Parlamento trovare i giusti equilibri per cercare di definire nuove regole per il commercio di materiale bellico. La legge in materia prevede che uno Stato che acquista armi svizzere può rivenderle a terzi solo dopo il via libera del nostro Governo. In buona sostanza c’è bisogno di un’autorizzazione, con il sigillo del Consiglio federale. Di recente tre Paesi europei – Danimarca, Germania e Spagna – hanno chiesto di poter consegnare all’Ucraina armi in loro dotazione ma di origine elvetica. In tutti e tre i casi il Consiglio federale ha negato il proprio nullaosta. In linea generale Berna vuole così garantirsi che il materiale bellico elvetico non finisca in zone di guerra o in contesti in cui vengono violati i diritti umani. Ne va del principio della neutralità, dice e ribadisce il Governo. Ora però le cose potrebbero cambiare.

A Berna c’è molta frenesia tra i partiti alla ricerca di soluzioni capaci di trovare la quadratura del cerchio: permettere la riesportazione – chiesta a gran voce dai Paesi membri della Nato e anche dall’industria bellica svizzera – e al tempo stesso difendere il principio della neutralità elvetica. E, per farlo, in queste settimane si sono escogitate diverse soluzioni da equilibristi, visti i termini, le tempistiche e le formulazioni utilizzate. Queste, riassunte all’osso, le posizioni di partenza. Il PLR vuol far leva sul concetto di «valori». Il materiale bellico rossocrociato può essere rivenduto solo da Paesi che condividono i medesimi valori democratici della Svizzera. In altre parole: di una democrazia ci dobbiamo pur fidare. Il senatore bernese Werner Salzmann – uomo dell’esercito e dell’UDC –ha poi aggiunto una clausola temporale: si può riesportare ma solo dopo cinque anni dall’acquisto, questo per impedire un passaggio diretto dalle fabbriche di armi svizzere ai campi di battaglia. Da par suo il Partito socialista chiama in causa le Nazioni Unite: la riesportazione verso un Paese in guerra è possibile se il Consiglio di Sicurezza o i due terzi dell’Assem- blea generale dell’ONU condannano lo Stato che ha dato il via alle operazioni militari, ed è il caso della Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Il Centro vuole permettere la riesportazione ma solo verso l’Ucraina e per un periodo limitato a due anni. Questo lo scacchiere su cui i quattro partiti di Governo hanno inizialmente messo mano alle loro pedine. Non senza alcune mosse, anche a sorpresa.

Possiamo permettere a Paesi terzi di inviare materiale bellico svizzero in Ucraina?

La prima è stata quella dell’UDC che ha bloccato sul nascere le ambizioni di Werner Salzmann, che con un’alleanza ad hoc in campo borghese era pronto a facilitare le riesportazioni di armi svizzere, anche a sostegno dell’industria bellica elvetica, solitamente protetta e difesa dalla stessa UDC. Il gruppo parlamentare democentrista ha però deciso che questa volta non se ne farà nulla. Sull’argomento si è espresso anche Christoph Blocher. Per il padre padrone del par- tito queste riesportazioni rischiano di mettere a repentaglio la neutralità. La legge sul materiale bellico non si tocca. E questo anche per due ulteriori motivi: questa normativa è stata appena rivista, due anni fa, proprio con l’obiettivo di rendere più difficile la rivendita di armi. E poi anche perché lo stesso Blocher ha appena lanciato un’iniziativa popolare per una «neutralità permanente, armata e globale della Svizzera». Insomma, meglio evitare contraddizioni interne. Internamente anche i socialisti hanno a loro volta qualche mal di pancia, con l’ala pacifista del partito che non ne vuole sapere di queste rivendite facilitate di materiale bellico. Qui si apre un derby tutto a sinistra con i Verdi, compatti su questo tema, e decisi a bocciare qualsiasi apertura in favore del mercato delle armi. Le discussioni in Parlamento si preannunciano infuocate, con i fautori della riforma che daranno battaglia fino all’ultimo per trovare formulazioni capaci di strappare un voto positivo. Incerto al momento il risultato, ma sicuro lo scenario: ci vorranno mesi prima di trovare, semmai, una soluzione di compromesso. L’eco di questo dibattito si farà in ogni caso sentire anche all’estero, visto che la pressione in questo ambito arriva anche dai Paesi a noi vicini. E questo, se ce n’era ancora bisogno, l’hanno provato sulla loro pelle anche i Consiglieri federali Ignazio Cassis e Viola Amherd, alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera. La ministra vallesana lo ha ammesso, si è più volte dovuta confrontare con l’incomprensione dei colleghi europei in merito alla questione della riesportazione di armi, in un momento in cui l’esercito ucraino ne ha urgente bisogno. «Non riusciamo a farci capire», ha dovuto riconoscere la ministra vallesana. A poco è servito ribadire che la Svizzera si sta a suo modo impegnando in favore dell’Ucraina, offrendo i propri buoni uffici, con le sanzioni e nell’ambito dell’aiuto umanitario. Aspri i dissapori espressi in particolare dalla Germania, che minaccia di non acquistare più armi svizzere. Secondo la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, «la neutralità non è un’opzione. Essere neutri significa schierarsi dalla parte dell’aggres- sore». Parole forti, con la Svizzera che si trova sollecitata anche a rafforzare la propria partecipazione alla sicurezza collettiva europea e atlantica. Qui ci sono in particolare da chiarire i nostri futuri rapporti con la Nato. Anche questo sarà tema di dibattito, nel corso della sessione primaverile delle Camere federali, tra chi auspica un aumento delle spese militari e una più stretta collaborazione con l’Alleanza atlantica e chi invece non ne vuole sapere di intensificare questo partenariato militare. Di mezzo c’è, pure qui, sempre lei: la nostra neutralità. E gli aggettivi da affiancarle. Deve essere «armata e perenne», come prefigura l’UDC? «Cooperativa», come immaginava l’anno scorso il ministro degli esteri Ignazio Cassis? Oppure «caso per caso» come ritiene il Consiglio federale? Di certo c’è di che dibattere e anche da metter mano al «bilancino del farmacista». Con all’orizzonte un guaio simile a quello che Berna avverte con l’Unione europea: il rischio di un crescente isolamento del nostro Paese da quello che viene chiamato il «mondo libero», che fatica a capirci. Sempre più.

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