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Sette previsioni sbagliate
Guerra in Ucraina ◆ Un anno di clamorose smentite dei nostri pregiudizi
La settimana che si è conclusa ha confermato una rappresentazione della guerra in Ucraina come «scontro di civiltà». Lo hanno ribadito i due discorsi simmetrici e contrapposti di Joe Biden e Vladimir Putin. Da una parte: l’Ucraina come simbolo di tutti i valori del mondo libero, per cui il nostro destino si gioca nella sua difesa. Dall’altra: la Russia come baluardo dei valori tradizionali, da difendere contro un Occidente perverso e decadente, oltre che aggressivo e deciso a umiliare Mosca.
La notizia su colloqui tra le due parti in corso in Svizzera, che ha avuto poca risonanza negli Stati Uniti, è stata smorzata dalla precisazione che si tratta di colloqui di basso livello. Quindi forse soltanto un modo per mantenere un canale di comunicazione aperto, in attesa di tempi migliori. Ma migliori per chi? Ciascuno è ancora convinto di poter vincere, o comunque non vuole sedersi a un tavolo di vero negoziato se non dopo aver rafforzato la propria posizione.
Il fantomatico «piano cinese di pace» è destinato a sgonfiarsi come il pallone-spia? Le due vicende sono collegate. Se la Cina volesse davvero mediare, cioè spingere Putin a fare concessioni, non avrebbe reagito in modo così duro dopo essere stata colta in flagranza di spionaggio sui cieli americani.
Un anno di guerra dovrebbe indurci a riflettere anche su come l’abbiamo raccontata e analizzata noi. Perché tante previsioni sull’Ucraina si sono rivelate clamorosamente errate negli ultimi dodici mesi? Provo a elencare, per capitoli, le principali smentite che la realtà ha inflitto ai nostri pregiudizi.
1. Ma quale invasione?
«Putin non invaderà, vuole solo garanzie sulla sicurezza della Russia». Questo diceva la maggioranza degli osservatori e dei leader politici europei, alla vigilia dell’attacco. Putin ha distrutto quel capitale di credibilità, ha sprecato una fase in cui l’Occidente lo considerava un genio strategico. Ha costretto l’Europa a emanciparsi dal suo gas, perdendo così la più formidabile arma di pressione nei nostri confronti.
2. Una vittoria lampo
per cui molti leader occidentali erano pronti a concedere di tutto alla Russia: a cominciare da una neutralità ucraina che la consegnava al destino di Stato-satellite di Mosca. Da che cosa nasceva questa previsione, spazzata via dalla resistenza ucraina? Da una sopravvalutazione delle forze armate russe, legata ad alcuni exploit (Cecenia, Georgia, Siria) studiati poco e male. Da una sottovalutazione del nazionalismo ucraino: in molti hanno creduto alla propaganda di Putin secondo cui l’Ucraina non è mai stata una vera nazione bensì soltanto una costola della Russia. E quindi avrebbe dovuto accogliere a braccia aperte l’armata di Putin, almeno in alcune regioni. Ignoranza storica e pregiudizi filo-russi hanno contribuito. Attenzione al rischio opposto. Un anno pieno di sorprese negative per le forze armate russe, non deve indurci a pensare che i generali di Putin non possano imparare dai propri errori.
3. La crisi energetica
Apocalisse energetica. Per mesi dopo l’inizio dell’invasione, molti descrivevano un’Europa sull’orlo di una terrificante penuria energetica, condannata a un inverno di gelo e stenti. I Paesi europei hanno dimostrato flessibilità nel diversificare le proprie fonti, andando a cercare energia altrove. Il sistema delle imprese ha reagito accelerando i risparmi energetici e l’innovazione. Le fasce sociali più deboli sono state aiutate grazie ai bilanci pubblici. Perché tante previsioni allarmiste e catastrofiste? Tendiamo a sottostimare l’elasticità tipica dell’economia di mercato, che reagisce con prontezza agli aumenti di prezzi o alle scarsità. Infine sottovalutiamo la capacità di risposta dei sistemi politici democratici. Un diffuso pregiudizio dice che le dittature sanno reggere meglio gli sforzi bellici prolungati, ma la storia non conferma questo teorema.
4. La mancanza di cibo
Apocalisse alimentare. Idem come sopra. A un certo punto del 2022 sembrava che ci fosse la carestia alle porte. È bene ricordare questo dato: siamo otto miliardi sul pianeta ma la produzione agricola è in grado di sfarmare dieci miliardi di persone. La povertà, non la scarsità, è la ragione per cui esistono ancora centinaia di milioni di denutriti e sottonutriti. Povertà e diseguaglianze esistevano prima di questa guerra.
5. La forza delle sanzioni
Le sanzioni costringeranno la Russia a sedersi al tavolo di negoziato. È dai tempi di Mussolini in Etiopia che le sanzioni internazionali falliscono. Lo stesso dicasi per Cuba, Corea del Nord, Iran. Tutti questi Paesi hanno trovato anche dei sistemi per aggirare almeno in parte l’embargo, figurarsi se la Russia non si era preparata per fare lo stesso. Peraltro il regime di sanzioni contro la Russia oggi vede schierato tutto l’Occidente insieme con alleati importanti come Giappone e Corea del Sud. Ma gran parte del mondo, inclusa una potenza filo-occidentale come l’India, il Golfo Persico, l’Africa e l’America latina, non partecipa.
6. La buona influenza cinese
La guerra finirà con la mediazione cinese. Xi Jinping sta con Putin a tutti gli effetti. Anche se questa guerra ha procurato delusioni e costi a Pechino, la Cina vede la sua utilità in termini di «distrazione» dell’America dall’Estremo Oriente.
7. Il dittatore sta male
Putin sta per sparire: golpe o malattia terminale. Lo abbiamo visto tutti godersi un bagno di folla nel comizio di pochi giorni fa a Mosca. Non sembrava un uomo malato, né assediato dagli oppositori. Gli unici attacchi visibili contro di lui all’interno della Russia, vengono da falchi della destra nazionalista come il capo della Divisione Wagner. Il fatto che lui li tolleri lascia aperta una supposizione: che sia lui stesso a voler far credere all’Occidente che una sua caduta sarebbe seguita da un regime ancora più aggressivo. In ogni caso dietro questa profezia (morte o golpe) c’è anche la convinzione, o la speranza, che Putin sia l’unico vero problema. Questo significa non fare i conti con la dimensione patologica, paranoica, di un imperialismo russo che ha messo radici anche nella cultura popolare. La Germania nazista dovette «rieducare» se stessa dopo il 1945 per purificarsi di una malattia che era nazionale, non era esclusiva di Hitler ed era già ben visibile nel Primo Reich.
Lahore messa praticamente sotto assedio da migliaia di seguaci dell’ex-premier Imran Khan che protestavano contro le accuse di corruzione e sedizione di cui il suddetto è stato chiamato a rispondere in tribunale. Le migliaia di cui sopra imploravano la polizia di arrestarli, e la polizia si faceva invece grasse risate limitandosi a osservarli. Nessuno degli aspiranti martiri per la libertà è finito in galera, e l’assedio è diventato una gita aziendale. Nel frattempo, il capo della Lashkar-i-Toiba Mohammed Hafiz Saeed (l’organizzazione che ha pianificato l’attacco di Mumbai nel 2008, tanto per capirci), che secondo Islamabad dovrebbe essere in galera da quando il suo arresto è stato adoperato mesi fa per togliere il Pakistan dalla «grey list» della Financial Action Task Force (Fatf), si vanta, libero e bello, in un video di aver recentemente tenuto sermoni talmente buoni da convertire in massa qualche centinaio di hindu che risiedono in Pakistan.
Il Paese in bancarotta continua ad attaccarsi agli integralisti islamici
E il ministro delle Finanze Ishaq Dar si fa fotografare tutto contento con una delegazione di alto profilo della Rotschild & Co., che fornisce servizi finanziari a vari Paesi in tutto il mondo: il Pakistan, ormai di fatto in bancarotta, si prepara a quanto pare a ristrutturare il proprio debito pubblico prima del tracollo definitivo. E lo fa, sghignazzano alcuni analisti, con una finanziaria di origine ebrea mentre continua ad attaccarsi sempre più tenacemente all’integralismo islamico e a rifiutarsi di avere rapporti con Israele. Sempre negli stessi giorni, una delegazione governativa di piccoli dottor Frankenstein si reca a Kabul a implorare i mostri da loro stessi creati di tenere al guinzaglio i «terroristi cattivi» che se la prendono con il governo pakistano. D’altra parte il Paese, il cui nome significa letteralmente «la terra dei puri» è stato fondato su un paradosso (una repubblica islamica per cittadini di tutte le religioni e anche per i laici) e di paradossi continua a vivere minacciando periodicamente di implodere fin dalla sua fondazione nel 1947. Storicamente, le numerose crisi attraversate sono sempre state risolte con una bella ditta- tura militare: che però, al momento, non è più sul menu per diverse ragioni. I generali infatti, sono troppo occupati a litigare tra loro: da quando il burattino Imran, in perfetto stile Pinocchio, si è liberato dei propri fili e ha smesso di dire bugie (o, almeno, di dirne troppe) rivelando ciò che tutti sapevano e cioè di essere stato fin dal principio soltanto un pupazzo da ventriloquo per l’esercito che lo aveva fatto eleggere, l’esercito non se la passa troppo bene e cerca di tenere un profilo bassissimo cercando di far credere alla popolazione che a comandare sia il Governo e che i generali si limitano a seguire le direttive della politica. D’altra parte, con il Paese allo sfascio questa appare, tutto sommato, la linea più conveniente da tenere. Negli ultimi vent’anni il debito pubblico pakistano si è più che raddoppiato ogni cinque anni: e il Governo del buon Imran, sostenuto dai generali, ha messo allegramente la testa nel cappio della «trappola del debito» cinese, vendendo di fatto il Paese a Pechino con accordi ancora più capestri di quelli firmati dai suoi predecessori per diventare protagonisti (o vittime, dipende dai punti di vista) di quella branca della «nuova via della seta» che è il China-Pakistan Economic Corridor Il debito del Pakistan è ormai insostenibile, i generi di prima necessità hanno prezzi da capogiro, l’inflazione è alle stelle, la politica allo sbando, la politica estera continua a seguire le linee guida dettate dalla buonanima dell’ex-dittatore Musharraf: doppi e tripli giochi e menzogne spudorate per ottenere i soldi necessari a tappare di volta in volta i buchi più urgenti. Islamabad, generali e politica, reagisce da par suo ispirandosi a Marie Antoinette e alla versione pakistana delle famigerate brioche: teniamo occupata la popolazione con la minaccia del terrorismo provocato dall’Occidente per avere costretto il Pakistan a sostenere la coalizione internazionale in Afghanistan, con gli islamofobici infedeli che cercano di attaccare Islamabad e coi nemici alle porte del Paese che vogliono distruggere la «terra dei puri» accusandola ingiustamente di aver creato i terroristi islamici e di usarli ancora come strumento privilegiato di politica estera e di ricatto. Qualcosa succederà. E l’Occidente, come da copione, non permetterà che un Paese dotato di bomba atomica si sfasci: il ricatto, Musharraf docet, funziona ancora e sempre.
I sostenitori dell’ex-premier pakistano Imran Khan mercoledì scorso a Lahore. (Keystone)