Azione 12 del 22 marzo 2021

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio I comportamenti considerati tipicamente «femminili» e «maschili» sono definiti da fattori culturali e non dalla «natura».

Ambiente e Benessere I fattori psicosociali condizionano gli interventi di chirurgia spinale, ne parla la neurochirurga Dominique Kuhlen, viceprimario e responsabile Clinica di neurochirurgia ORL

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 22 marzo 2021

Azione 12 Politica e Economia Stati uniti: l’ambizioso piano di Joe Biden per cambiare la ridistribuzione dei redditi

Cultura e Spettacoli A Milano una mostra raccoglie le opere di donne che decisero di dedicare la vita all’arte

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di Amanda Ronzoni pagina 19

Pietro Castelli

Il mare, questo sconosciuto

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Myanmar, nazione incompiuta di Peter Schiesser Sette settimane dopo il colpo di Stato del 1. febbraio, la rivolta nel Myanmar mostra una resistenza inaspettata nonostante la sanguinosa repressione militare. Una popolo pacifico fronteggia un esercito che da 60 anni non ha mai ceduto il potere reale, nonostante il governo civile installatosi nel 2011, e intende difenderlo con le armi. Il presidente americano Biden ha definito la crisi in Myanmar un’emergenza nazionale per gli Stati Uniti e ha ordinato alla sua amministrazione di intraprendere i passi per congelare averi per un miliardo di dollari dei militari birmani negli Stati Uniti. Voci si sono levate anche per chiedere un embargo sulle armi. Nelle proteste per le strade delle città del Myanmar si innalzano striscioni con la scritta R2P (Responsibility to Protect), che invocano un intervento militare dall’esterno per ragioni umanitarie (come previsto dalla risoluzione dell’Assemblea dell’Onu del 2005). Ma la situazione non è facile. Per un intervento militare occorre che tutti i membri del Consiglio di sicurezza con diritto di veto siano d’accordo, e la Cina non lo sarà mai, vista la contiguità geografica con il Myanmar. L’unica eventual-

mente possibile è la via diplomatica. Probabilmente però non sotto guida americana, bensì di un paese del sud-est asiatico (si parla dell’Indonesia). Il problema di fondo è che il Myanmar è uno Stato nazionale incompiuto, perché i militari lo tengono sotto un pugno di ferro da 60 anni e perché i britannici ne hanno disegnato i confini senza tenere conto della miriade di etnie che lo popolano. La maggioranza Bamar popola storicamente la grande piana che da Mandalay scende fino a Yangon lungo il fiume Irrawaddy, attorno c’è una corona di territori montani che confinano con Bangladesh, India, Cina, Laos, Thailandia popolati da etnie con religioni, lingue e legami storici e culturali diversi, anche oltre frontiera. Nel 1947 Aung San, il padre della leader delle Lega nazionale per la democrazia Aung San Su Kyi, aveva raggiunto con i leader delle diverse etnie l’accordo di Panglong, che garantiva una vasta autonomia nelle regioni da loro popolate e la possibilità di diventare indipendenti dieci anni dopo se insoddisfatti con il potere centrale. L’assassinio di Aung San da parte di un rivale poco dopo congelò la situazione e quando i militari presero il potere nel 1962 varie etnie, impaurite, crearono le proprie milizie, confron-

tando l’esercito in una strisciante guerra civile mai veramente risolta (come si è visto anche nel 2017 con i Roinghya musulmani, ma anche nel nord del paese nel 2013 e nel 2015). Quanto delicato sia il rapporto con le minoranze, che rappresentano in totale quasi un terzo della popolazione, lo ha dimostrato anche il rifiuto di Aung San Suu Kyi (Nobel per la pace) di condannare le violenze dell’esercito contro i Rohingya. Quindi, di fronte alle proteste per la democrazia da parte della popolazione Bamar, le altre etnie stanno a guardare. La brutalità con cui l’esercito reprime i manifestanti è in linea con le tattiche adottate da decenni contro le etnie minoritarie: da anni l’Onu constata che i militari uccidono, violentano, saccheggiano, distruggono, restando impuniti. Tutto per mantenere la presa sul potere, che è poi essenzialmente potere economico. Gli alti gradi dell’esercito sono coinvolti in traffici di ogni tipo, e così lo sono le milizie dei vari gruppi etnici. Con alcune di esse sono in combutta nel traffico di oppio (il Myanmar è il secondo produttore mondiale), di giada e altre gemme. I proventi sono reinvestiti in attività legali, intossicando il sistema economico. Opprimendo il paese, i militari difendono le loro ricchezze e per farlo sono pronti a tutto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Attualità Migros

Il gusto della sostenibilità Formazione In cucina con consapevolezza alla Scuola Club di Migros Ticino

Si parla tanto di sostenibilità, e a ragione. Poiché è urgente cambiare il nostro modello di sviluppo. Ma da dove partire? È possibile avviare una trasformazione così ambiziosa dalle nostre abitudini quotidiane, dalla cucina, ad esempio? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Guidicelli, cuoco specializzato in dietetica e formatore nel percorso Coach in Nutrizione alla Scuola Club di Migros Ticino. «Certo che è possibile. Occorre prendere coscienza che ognuno di noi ha almeno tre volte al giorno la possibilità di scegliere cosa mangiare. Se educhiamo le giovani generazioni a essere rispettose dell’ambiente attraverso esempi concreti - ad esempio dimostrando che a febbraio è meglio mangiare una mela svizzera piuttosto che fragole provenienti dall’altra parte del globo - diventa più facile diventare consapevoli del problema e agire con convinzione». La cucina è sostenibile quando viene rispettata la piramide alimentare: mangiare tutti gli alimenti nelle giuste proporzioni scegliendoli il più vicino possibile al territorio, così da rafforzare anche la sostenibilità economica del prodotto. Continua Guidicelli: «Se conosciamo la storia del cibo diventa più facile valorizzarlo. Le abitudini non devono cambiare totalmente, ma certamente occorre responsabilizzarsi e definire obiettivi chiari, realizzabili e mantenibili nel tempo. Mangiare è un piacere che viene amplificato quando si rispettano ambiente, animali, territorio senza dimentica-

La nostra proposta «Pasqua a KM 0»

Sostenibilità e ricchezza del nostro territorio senza tralasciare il gusto. Mercoledì 31 marzo

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re gli operatori che lavorano su tutta la filiera!». La sensibilità rispetto a questi temi è crescente. Cosa ci aspetta? Cambierà il modo di pensare e vivere il food e la cucina? Secondo Guidicelli, nella nostra società viviamo una situazione contraddittoria da cui occorre uscire: ogni «capriccio» può essere accontentato, mentre l’obesità è sempre più in aumento. «Per fortuna, dopo l’esasperazione ci può essere un cambiamento e questo lo vediamo nel nostro territorio ticinese dove molti ristoranti fungono da vettori nella cucina sostenibile coinvolgendo anche noi singoli individui. Questo grazie alla dimostrazione che la cucina sana, di stagione, senza sprechi e con prodotti freschi è trendy!».

La preparazione dei cibi include vari comportamenti legati alla salute e all’ecologia tra cui la vicinanza al territorio, la salvaguardia della biodiversità e della stagionalità Con la proposta dei percorsi formativi Coach in Nutrizione e Cucina a Kilometro Zero, la Scuola Club di Migros Ticino fa la sua parte nel promuovere la sostenibilità. Qui Giovanni è protagonista di successo: «Trovo molto importante dimostrare nella pratica l’importanza di non stravolgere il gusto di un alimento, lavorandolo il meno possibile, utilizzando i giusti metodi di cottura, conservandolo nella giusta maniera. Durante i corsi propongo alcune strategie per evitare di assumere troppe calorie ma nel contempo gustarsi un buon piatto senza restrizioni. Per esempio, utilizzando besciamelle senza burro, riducendo il sale e utilizzando le erbe aromatiche. Propongo inoltre alternative alla car-

Un sempre maggior numero di persone vuole imparare a cucinare in modo variato ed equilibrato.

ne con i giusti abbinamenti che soddisfino il palato e il corpo. Vedo una crescente curiosità verso la sana alimentazione e nei miei corsi è forte la volontà di imparare divertendosi con un gruppo di amici o colleghi. Mi capita di incontrare persone rimaste sole che vogliono imparare a cucinare in

modo maggiormente variato ed equilibrato». Ogni cambiamento non è mai semplice, ma scegliere un’alimentazione sostenibile ha tante e buone motivazioni. Giovanni lo conferma: «Quando ci rendiamo conto che alimentarsi in modo sostenibile non ci

toglie nulla ma, anzi, consumiamo alimenti vicini a casa nostra, partecipiamo al rilancio dell’economia locale, risparmiamo soldi da poter utilizzare per prodotti di qualità, evitiamo trasporti inutili e aiutiamo a salvaguardare la biodiversità, allora tutto diventa più facile». Parola di cuoco.

102’233 volte grazie

Cooperativa Per la prima volta nella storia di Migros Ticino i suoi soci hanno superato

la ragguardevole soglia delle 100mila unità Migros è strutturata secondo un modello federativo: l’insieme dei soci delle cooperative regionali sono comproprietari dell’azienda e rappresentano l’organo supremo della stessa; a loro volta, le dieci cooperative regionali sono riunite nel formare la Federazione delle cooperative Migros. I membri del Consiglio di cooperativa, del Consiglio di amministrazione e del Comitato di direzione sono persone residenti nella regione d’attività della Cooperativa, in massima parte nella Svizzera italiana, così come lo sono i possessori di una quota sociale di Migros Ticino, iscritti al registro dei cooperatori e proprietari dell’azienda, che sono in continua crescita e ad oggi superano quota 102mila.

Passano i decenni e aumentano esponenzialmente i proprietari di Migros Ticino ma il DNA e la struttura aziendale rimangono invariati nel tempo: l’azienda presuppone come premessa di successo una schiera sempre più ampia e sempre più solidale di persone, che con partecipazione e attaccamento condividono le finalità sociali ed economiche che Migros Ticino vuole raggruppare nella nostra regione. La Cooperativa rappresenta un’azienda al 100% ticinese, da sempre interessata allo sviluppo economico, sociale e culturale della regione in cui opera, che contribuisce concretamente alla qualità della vita dei ticinesi. Il mandato della Cooperativa non consiste nel generare utili e versare divi-

dendi, bensì nel mettere a disposizione della popolazione della Svizzera italiana merci e servizi di qualità a condizio-

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Le cifre L’evoluzione del numero di soci dagli anni Cinquanta a oggi

31.12.1950: 31.12.1960: 31.12.1970: 31.12.1980: 31.12.1990: 31.12.2000: 31.12.2010: 31.12.2020:

no. soci no. soci no. soci no. soci no. soci no. soci no. soci no. soci

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

4771 21’431 33’491 47’361 62’250 80’898 85’773 102’233

ni vantaggiose, nei suoi diversi ambiti di attività. In tutto questo i nostri soci hanno un ruolo fondamentale, poiché hanno il diritto d’influenzare le scelte dell’azienda, partecipando alle votazioni o ancora – con un ruolo più attivo – candidandosi quale membro di un suo organo statutario, tra i quali il Consiglio di cooperativa e il Consiglio di amministrazione. Ai soci competono importanti decisioni circa le modifiche dello Statuto, così come l’elezione dei suoi organi statutari, tra cui il Consiglio di cooperativa e il Consiglio di amministrazione. Considerando la totalità della popolazione residente, è quindi con enorme soddisfazione che Migros Ticino registra questo importante dato e rinTiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Quota di partecipazione degli anni 70.

grazia di cuore per la fiducia tutti i suoi soci comproprietari e l’insieme della sua numerosa e fedele clientela. Per diventare soci

www.migrosticino/Soci/Diventare soci Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Società e Territorio Maturità bilingue Alcuni ragazzi provenienti da istituti di Berna frequentano i licei di Bellinzona e Mendrisio: un progetto sperimentale per il quale in futuro si prevede la reciprocità pagina 6

Storie di donne Il collettivo Controparola, un gruppo di scrittrici e giornaliste italiane nato su iniziativa di Dacia Maraini, ha da poco pubblicato il libro Donne al futuro pagina 8

Video creativi Il LernFilm Festival è un concorso aperto a tutti gli ordini di scuola che intende promuovere l’apprendimento mediante l’utilizzo dei media

pagina 9 Faccende domestiche e accudimento dei bambini non sono occupazioni tipicamente femminili, gli uomini se la cavano benissimo. (Shutterstock)

Il disordine non è biologico

Ruoli di genere Non esiste una «natura» che rende gli uomini incapaci di prendersi cura della casa. Molte ricerche

indicano che i comportamenti considerati tipicamente «femminili» e «maschili» sono definiti da fattori culturali Stefania Prandi Non esiste una «natura» che rende le donne predisposte a occuparsi delle faccende domestiche e gli uomini incapaci di vedere i dettagli e prendersi cura della casa e dei figli. Sempre più ricerche indicano che i comportamenti considerati tipicamente «femminili» e «maschili», come fare i mestieri di casa e accudire i bambini, sono definiti da fattori culturali. Un articolo appena pubblicato sulla rivista statunitense «The Atlantic», scritto dal giornalista Joe Pinsker, intitolato The Myth That Gets Men Out of Doing Chores (Il mito che dispensa gli uomini dalle faccende domestiche), cita una serie di studi che spiegano che «i maschi sono bravi a riconoscere il disordine tanto quanto le femmine, semplicemente non sentono la stessa pressione per sistemare». Pinsker cita Susan McHale, professoressa di Studi sulla famiglia alla Penn State University, secondo la quale «non ci sono prove di differenze sessuali intrinseche e biologiche nella pulizia o nella confusione». Le ricercatrici Sarah Thébaud, Sabino Kornrich e Leah Ruppanner hanno chiesto a un campione di seicento persone di valutare se una stanza mostrata in foto fosse ordinata o disor-

dinata. La percezione del disordine, da parte di uomini e donne, è risultata la stessa. Quando però si specificava agli intervistati di chi fosse la camera, tendevano a giudicarla più sporca se era di una donna. Un doppio standard sociale: ci si aspetta che l’ordine sia femminile. Inoltre, Allison Daminger, dottoranda alla Harvard University, ha rilevato, attraverso una serie di interviste, che la noncuranza che gli uomini in genere riservano alla casa non è la stessa che hanno sul lavoro. Per loro stessa ammissione, hanno comportamenti diversi, nella vita privata e pubblica, per l’ambiente in cui si trovano. Per Camilla Gaiaschi, ricercatrice all’Università statale di Milano al centro Genders e visiting fellow all’Università di Losanna, si continua a credere che gli uomini non siano adatti alle faccende domestiche a causa degli schemi di genere. «Tendiamo ad attribuire alle donne, con maggiore facilità, la predisposizione per la pulizia e l’attenzione all’ordine» dice Gaiaschi ad «Azione». «Si tratta di una questione di aspettative di genere e socializzazione. Le donne sono socializzate a fare le pulizie da quando sono bambine mentre gli uomini sono socializzati a essere dei geni disordinati fin dall’infanzia. Non è un caso che la parola genio, per

la maggior parte delle persone, sia riconducibile a una figura maschile. Uno stereotipo che condiziona i genitori e porta i bambini a imparare a non mettere via i giochi e non togliere i piatti dalla tavola». Le aspettative di genere diventano uno schema, aggiunge la ricercatrice – relatrice, lo scorso gennaio, in un Ted talk su stereotipi e disuguaglianza – che contribuisce a una sperequazione del tempo che le donne devono dedicare alla casa e alla famiglia, rispetto ai mariti o ai partner. «Le donne, socializzate alla cura e alle pulizie, devono dare un senso al carico che si trovano sulle spalle, riaggiornando così desideri e preferenze. Si abituano a svolgere compiti ripetitivi e poco appaganti e smettono di pensare che sia ingiusto. Sappiamo che le bambine, quando nascono, non hanno una propensione innata per passare l’aspirapolvere, non esiste una differenza biologica per queste inclinazioni. La dimostrazione che non ci sia nulla di “naturale” sta nel fatto che le preferenze cambiano in base ai periodi storici e ai luoghi». Julia Cordero‐Coma e Gøsta Esping‐Andersen hanno analizzato come in Germania il coinvolgimento di bambine e bambini nelle faccende domestiche sia condizionato dal modo

in cui i genitori concepiscono i ruoli. È emerso che le abitudini apprese tra gli otto e gli undici anni si riflettono nel corso della crescita. I bambini che hanno padri che contribuiscono alle pulizie tendono a fare lo stesso da grandi. Per le bambine, invece, non ci sono cambiamenti significativi perché fin da piccole imparano ad aiutare in casa. A conclusioni simili è arrivata una ricerca pubblicata negli Stati Uniti che analizza il modo in cui gli adolescenti passano il loro tempo rispetto ai coetanei dei decenni passati. Le ragazze trascorrono circa il doppio del tempo dei ragazzi ad aiutare in casa, pulendo e preparando da mangiare, e facendo la spesa. Anche le organizzazioni internazionali per i diritti umani si occupano di monitorare quanto i ruoli di genere incidano fin dall’infanzia. In uno dei rapporti di Save the Children si legge: sebbene le norme di genere possano influenzare tutti i bambini, è stato dimostrato che pesano in modo sproporzionato sulle bambine. In certe aree del mondo, le bambine rappresentano i due terzi di tutti i minori che svolgono le faccende domestiche per almeno ventun ore a settimana, una quantità di tempo che può avere un impatto negativo sulla scolarizzazione. Allo stes-

so modo, le donne impegnano da due a dieci volte di più del loro tempo per l’assistenza non retribuita e il lavoro domestico rispetto agli uomini. Come dice Gaiaschi, non essendoci una predisposizione naturale per certi compiti, le abitudini possono cambiare. In alcuni contesti ci sono già dei segnali in questo senso. Un articolo di «The Guardian» riporta che, nel Regno Unito, le donne impiegate nel settore sanitario (rappresentano la maggior parte della forza lavoro), nel corso dell’ultimo anno, a causa della pandemia, sono state costrette a stare lontane dalle loro famiglie. Questa situazione ha obbligato i loro partner a farsi avanti in casa. Un cambiamento che potrebbe diventare duraturo, anche dopo l’emergenza. Secondo Dan Carlson, sociologo dell’Università dello Utah, in Canada, Germania, Turchia e Olanda gli uomini stanno contribuendo il doppio di prima alla cura della casa e della famiglia. Le scuole chiuse e lo smart working, hanno portato i padri a rendersi conto del «lavoro nascosto». Hanno stabilito relazioni più profonde con i figli, in modi diversi da prima, quando sembravano mancare le possibilità. Stando al parere di vari esperti, c’è chi non vorrà tornare indietro alla divisione stereotipata dei ruoli di genere.


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Idee e acquisti per la settimana

Colomba artigianale al burro d’alta montagna

Attualità 100% naturale, senza emulsionanti e conservanti: la colomba pasquale della Pasticceria Buletti di Airolo

è un’autentica specialità per buongustai. Abbiamo sentito uno dei due titolari, Bruno Buletti Quali sono i suoi prodotti «cavalli di battaglia»?

Non ho dei veri e propri prodotti specifici, amo realizzare tutte le specialità del nostro assortimento e mi piace svilupparne sempre di nuovi. Ma se proprio devo menzionare qualcosa, direi i dolci legati alle festività più importanti dell’anno, come la colomba, il panettone, il pandoro e le creazioni a base di cioccolato. A proposito di colomba, come si ottiene un prodotto di qualità?

Lavorando con passione, scrupolo e creatività, selezionando ingredienti genuini di primissima scelta. L’esperto pasticciere-panettiereconfettiere Bruno Buletti. Signor Buletti, quando è nata la sua pasticceria?

Nel lontano 1992. Il prossimo anno ricorre il 30° anniversario di attività e speriamo di poterlo festeggiare al meglio con i nostri cari clienti. Perché ha scelto questa professione?

Mi sono avvicinato al mondo della panetteria fin da ragazzino, aiutando come garzone un amico panettiere di mio padre. Da subito mi sono appassionato a questo mestiere, perché desideravo intraprendere un lavoro manuale e creativo, che al contempo fosse ogni giorno diverso dall’altro. Dopo la scuola dell’obbligo, ho quindi intrapreso l’apprendistato di pasticciere, confettiere, con supplemento di panettiere.

Come la descriverebbe?

È una colomba particolarmente aromatica e profumata, ricca di burro e tuorli d’uovo. L’impiego del lievito madre di nostra produzione la rende soffice e fragrante. Il burro d’alpe che utilizziamo lo acquistiamo presso produttori della regione. Inoltre, grazie all’utilizzo di cedro e arancino candito, il suo sapore al palato risulta particolarmente fresco. La sua preparazione richiede quasi 48 ore di lavoro, tra impasti, rinfreschi, lievitazione e cottura. Il raffreddamento avviene naturalmente, complici anche l’aria pura e fresca dell’Alta Leventina. Infine, il prodotto non contiene nessun conservante né mono e digliceridi.

Colomba Buletti 500 g Fr. 18.60 1 kg Fr. 34.40

Le altre specialità della regione Oltre alla colomba Buletti nelle confezioni da 1 kg e 500 grammi, l’assortimento pasquale regionale di Migros Ticino annovera ancora alcune chicche di produzione locale: la colomba del produttore Poncini di Maggia, la colomba ai marroni di Gianfranco Cuoco di Lostallo e la colomba al gianduia Dolce Monaco di Losone.

Perché la clientela Migros dovrebbe acquistare la sua colomba?

Perché è semplicemente buona, genuina, frutto di una una ricerca continua alfine di ottenere dei gusti e degli aromi unici.

Il Pane Passione Nostrano

Pane della settimana Ingredienti 100%

ticinesi e una lavorazione accurata danno vita ad un pane di grande qualità Pane Passione Classico Nostrano 420 g Fr. 3.80

Ingredienti ticinesi

Come gustarlo

Gli ingredienti del Pane Passione Nostrano, esclusivamente naturali, provengono dal Ticino. La farina chiara è ottenuta da frumento coltivato nel rispetto dell’ambiente, secondo i criteri IP-Suisse, nel Mendrisiotto e sul Piano di Magadino. I contadini rinunciano all’utilizzo di insetticidi, fungicidi e regolatori della crescita. Inoltre promuovono la biodiversità sui loro campi. La macinazione dei cereali è supervisionata dal Mulino di Maroggia.

L’intenso aroma del Pane Passione si sposa a meraviglia sia con ingredienti dolci che salati. A colazione è ottimo spalmato di burro e confettura fatta in casa o miele di montagna. Tagliato a fettine e tostato leggermente, è la base perfetta per bruschette sfiziose e saporite. Un classico abbinamento è naturalmente quello con i tipici salumi e formaggi stagionati del nostro territorio.

Caratteristiche

Conservazione

Il Pane Passione si distingue per la sua crosta croccante e la mollica ben alveolata e irregolare. Grazie da una lunga lievitazione dell’impasto, il pane sviluppa i suoi aromi decisi e si conserva bene per un paio di giorni. Il basso contenuto di lievito viene compensato da una maggiore aggiunta di acqua. La pasta viene spezzata, lavorata e attorcigliata a mano dai panettieri Jowa, ciò che permette di ottenere la tipica forma finale allungata e ritorta.

Il miglior modo per conservare il Pane Passione fino a tre giorni è quello di metterlo in un luogo fresco, confezionato nel suo sacchetto originale o in un sacchetto di cotone affinché possa mantenere l’umidità all’interno e la crosta non diventi gommosa o, viceversa, troppo secca. La parte tagliata può essere coperta con un foglio di alluminio. Mai utilizzare sacchetti di plastica o scatole di metallo.


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Idee e acquisti per la settimana

Ma che bella combriccola

Specialità Sono oltre dieci milioni i coniglietti di cioccolato e le altre figure pasquali che ogni anno lasciano la

Chocolat Frey di Buchs per conquistare piccoli e grandi golosoni di tutta la Svizzera. L’azienda del gruppo Migros produce coniglietti di cioccolato da oltre un secolo. Ecco alcune delizie Frey, e non solo, tra le più apprezzate Il noto pulcino dei cartoni animati nella variante cioccolatosa a base di cioccolato al latte decorato e cappello di guscio fatto con delicatissimo cioccolato bianco.

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1. Frey Calimero 120 g Fr. 8.90

Per chi non apprezza i prodotti con troppo zucchero ecco un coniglietto tutto da provare senza zuccheri aggiunti ma dolcificato con glicosidi steviolici.

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6. Frey Coniglio Bio, al latte 120 g Fr. 3.50

3. Frey Leo, al latte 100 g Fr. 3.50

Non possono mancare in nessun cestino pasquale. Queste mezze uova di gelatina alla frutta contengono aromi e coloranti naturali e sono contrassegnate dal logo giallo “Vegan”.

5. Coniglietto all’Ovomaltine 120 g Fr. 5.90

L’ampio assortimento di prodotti biologici della Migros propone anche alcuni prodotti pasquali con certificazione bio e Fairtrade Max Havelaar per un commercio equo e solidale.

2. Frey Lampino, al latte senza zucchero 145 g Fr. 5.20

Il coniglietto seduto Leo con la sua immancabile carota non passa certo inosservato. A base di finissimo cioccolato al latte decorato, è quasi peccato mangiarlo…

Il coniglietto al gusto di Ovomaltine è mega croccante ed è prodotto con autentico cioccolato svizzero. Un regalo perfetto per tutti i fans della mitica bevanda.

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I mastri cioccolatieri della Chocolat Frey hanno creato il delizioso coniglietto Rochelino fatto con cioccolato fondente e mandorle a scaglie con decorazione di marzapane. 7. Frey Rochelino, Noir 200 g Fr. 8.90

4. Mezze uova di gelatina vegane 180 g Fr. 2.90

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Società e Territorio

Da Berna per la maturità bilingue

Formazione Suscita interesse il progetto sperimentale che coinvolge i licei di Bellinzona e Mendrisio frequentati

da alcuni ragazzi provenienti da istituti bernesi: in futuro si prevede la reciprocità Stefania Hubmann Conseguiranno la maturità bilingue tedesco/italiano il prossimo giugno i primi studenti del canton Berna che lo scorso anno scolastico hanno frequentato la terza liceo in Ticino. Il progetto sperimentale coinvolge nel nostro cantone i Licei di Bellinzona e Mendrisio, dove attualmente i giovani provenienti dagli istituti bernesi sono undici. Un numero destinato ad aumentare, considerato l’interesse dimostrato per questa opportunità di completa immersione linguistica e culturale sostenuta dalla Confederazione al fine di rafforzare la coesione sociale. Per ragazze e ragazzi diciassettenni si tratta di una preziosa occasione per aprirsi e sperimentare una realtà familiare e scolastica diversa dalla loro in un’altra regione del Paese. Tutti gli attori coinvolti – dalla responsabile del progetto per il Ticino alle sedi liceali cantonali, dalle famiglie ospitanti agli stessi studenti bernesi – sono soddisfatti di queste prime fasi, preludio ad un vero e proprio scambio che in futuro permetterà agli studenti ticinesi di recarsi nel canton Berna secondo il medesimo principio. Nel nostro cantone è in corso un’altra collaborazione intercantonale che dovrebbe portare a uno scambio di studenti. È gestita direttamente dal Liceo di Lugano 2 dove sono accolti liceali del canton Vaud. Per i ticinesi la maturità bilingue con tedesco o francese è offerta da tanti anni alla Scuola Cantonale di commercio di Bellinzona, mentre

Famiglie cercansi Gli studenti del canton Berna che desiderano frequentare un anno di liceo in Ticino possono essere ammessi solo se vi sono le famiglie disposte ad ospitarli. L’ideale è accoglierli per l’intero anno scolastico in un nucleo familiare con figli più o meno coetanei che possano aiutarli ad inserirsi. Anche l’opzione di un’accoglienza limitata ad un semestre è realizzabile. È previsto un regolare contributo per le spese. Le famiglie interessate possono scrivere a brigitte.joerimann@ti.ch

quella liceale solo al Liceo di Locarno, senza soggiorno nel resto della Svizzera. Il progetto elaborato con il canton Berna amplia quindi la possibilità di favorire in giovane età la conoscenza reciproca fra le diverse culture del Paese. Un passo a sua volta propizio per allargare l’orizzonte al di là delle frontiere interagendo con il resto del mondo. In Brigitte Jörimann, responsabile per gli scambi della Divisione scuola, la promozione di questa iniziativa suscita da un lato soddisfazione per il crescente numero di studenti bernesi che si annunciano e dall’altro apprensione per la ricerca delle famiglie ospitanti (vedi riquadro). Spiega la responsabile: «Il progetto coinvolge potenzialmente tutti i 14 Licei del canton Berna, quindi il bacino studentesco è ampio. Per il prossimo anno scolastico si sono annunciati 22 liceali del secondo anno. Prima di giungere in Ticino sono obbligati a seguire il corso di italiano nel primo biennio. Alcuni lo hanno però già frequentato alle scuole medie o parlano italiano in famiglia. I candidati sono molto motivati, amano la nostra lingua e desiderano migliorare le loro conoscenze. Abbiamo notato che attraverso questa esperienza imparano in fretta, oltre a crescere dal punto di vista personale». Ancora in divenire, il progetto viene affinato di anno in anno, ovviando alle difficoltà che emergono. Esse si situano a più livelli: differente tempistica nello svolgimento dei programmi, inserimento nelle classi, questioni di cultura didattica. Per queste ultime l’esempio citato da Brigitte Jörimann – evidenziato anche dalle testimonianze che seguono – riguarda le annotazioni. «Prendere appunti durante le lezioni non è una prassi diffusa nell’insegnamento liceale bernese, per cui gli studenti d’oltralpe all’inizio incontrano qualche difficoltà che superano con l’aiuto dei compagni di classe». Nel limite del possibile ogni liceale proveniente dal canton Berna è inserito in una classe diversa per massimizzare l’esperienza immersiva. Fra i due Licei cantonali di Bellinzona e Mendrisio la suddivisione degli studenti ospiti è proporzionata e legata alle loro scelte curricolari. Per le direzioni degli istituti, malgrado le sfide vissute in prima linea, la presenza di studenti appartenenti a un’altra cultura nazionale è considerata un arricchimento per tutti, come con-

Al liceo di Bellinzona per una completa immersione linguistica e culturale. (tipress)

ferma Laura Rulli, membro del consiglio di direzione del Liceo di Bellinzona. «Grazie anche alla disponibilità del canton Berna – spiega la professoressa Rulli – siamo riusciti a superare le differenze esistenti nello svolgimento dei programmi di alcune materie. È il caso ad esempio della matematica, per la quale è stato introdotto un corso di sostegno che recupera un argomento trattato in seconda liceo in Ticino e solo in terza nei licei di provenienza». Insegnante di tedesco, ma pure docente mediatrice, Laura Rulli accompagna quasi come una speciale docente di classe le cinque ragazze che frequentano quest’anno il Liceo della capitale. «Benché la maggior parte delle lezioni siano seguite nelle rispettive classi di terza, per alcune materie si è compiuta una scelta diversa in modo da allineare i livelli di competenza. Una menzione merita anche il corso di storia

dell’arte, specificità del curricolo ticinese che i partner bernesi hanno tenuto ad includere nella formazione dei loro studenti». L’organizzazione a livello scolastico è quindi complessa e ha richiesto confronto e collaborazione anche fra i due licei ticinesi in relazione ai rispettivi piani di studio. Gli obiettivi di un arricchimento personale, del valore aggiunto nell’ambito del plurilinguismo e di una maggiore coesione nazionale sono però garantiti, come dimostra un aneddoto riferito ancora da Laura Rulli. «Nel settembre del 2019, dopo appena due settimane di scuola, ho visto in un servizio televisivo alcuni liceali bernesi che partecipavano con i nuovi compagni ticinesi alla manifestazione sul clima svoltasi nella capitale federale». Diamo quindi spazio alla testimonianza di uno degli studenti iscritti quest’anno in un liceo ticinese. Giorgio

Guiducci proviene dal Liceo Kirchenfeld di Berna e da settembre 2020 frequenta quello di Mendrisio. Particolare non indifferente vive a Lugaggia, nella cintura luganese, perché lì risiede la famiglia Marzini che lo ospita. Motivazione e impegno non fanno quindi difetto al giovane liceale che deve sempre alzarsi molto presto per poter raggiungere la sede scolastica. «Mi piace il contatto con nuove persone, per cui ho colto questa occasione per migliorare la lingua e anche un po’ per tornare alle origini. Mia madre è infatti del Locarnese». Essendo il padre per metà italiano, Giorgio è cresciuto parlando italiano in famiglia. Dalla famiglia d’origine a quella ospitante. Quale l’impatto? Risponde gioviale: «Mi sono trovato subito molto bene. Sono tutti davvero simpatici e con Mauro (il padre) posso partecipare agli allenamenti della squadra di calcio di cui è allenatore». Già dopo i primi due o tre mesi Giorgio si è reso conto di quanto sia migliorata la sua conoscenza della lingua italiana dal punto di vista ortografico e lessicale. Un’esperienza che consiglia ai suoi coetanei, così come Annamaria Marzini alle potenziali famiglie ospitanti. La scelta della famiglia Marzini è stata motivata dalla positiva esperienza della figlia, ospitata per un periodo all’estero qualche anno fa. Precisa Annamaria Marzini, madre di altri due ragazzi: «È un impegno che coinvolge l’intera famiglia e per il quale tutti si sentono responsabili. Non si tratta di offrire solo vitto e alloggio, quanto piuttosto di accogliere una ragazza o un ragazzo ancora minorenne garantendo il sostegno e l’accompagnamento di cui necessita. In Giorgio ho notato una grande volontà di inserirsi e imparare, ciò che indubbiamente facilita l’accoglienza. L’ottima organizzazione costituisce inoltre un importante punto di riferimento per le famiglie ospitanti». Anche secondo Annamaria Marzini il progetto di maturità bilingue con soggiorno in un’altra regione linguistica è destinato a crescere, poiché risponde alle attuali esigenze formative. Tutte le testimonianze raccolte ne sottolineano il valore dal punto di vista educativo e soprattutto umano. Alle famiglie ticinesi con figli in formazione si chiede quindi un po’ di coraggio nell’accettare la sfida di allargare la propria cerchia per un periodo determinato.

Una Favola per le Tre Valli

Volontariato Da 25 anni l’Associazione Spazio Famiglie 3 Valli è un punto di riferimento per genitori e bambini

in età prescolare. La sede di Biasca è stata appena ristrutturata ma le difficoltà non mancano Sara Rossi Guidicelli Da 25 anni opera sul territorio di Biasca un’associazione che si occupa delle famiglie con bambini da 0 a 5 anni. L’Associazione Spazio Famiglie 3 Valli è diventata un punto di riferimento per genitori e bambini in età prescolare della regione con due momenti di incontro chiamati La Favola e Primi Passi: la Favola accoglie bambini per attività insieme con i genitori e poi, dai 2 anni, anche senza la loro presenza per le mattinate chiamate Primi Passi. «È importante per i piccoli, soprattutto quelli senza fratelli, per imparare a stare insieme ad altri bambini», spiega la presidente Federica Isabella. «Ma forse soprattutto è un balsamo per le mamme: siamo un gruppo di incontro, di parola, di scambio. Promuoviamo l’integrazione e l’inclusione. Purtroppo però i bisogni delle mamme sono ancora un tabù nella nostra società. Le si vorrebbero sempre felici, invece ci

Il comitato: Giada Speziga, Federica Isabella, Tania Casarotti, e dietro Alessandra Rufo, Valeria Bursese, Irena Radic (mancano Silvana Forni e Viktoria Vanzetta).

sono donne che si sentono crollare, nonostante la gioia di avere un figlio, perché mancano di rete intorno a sé», constata Federica. «A loro è dedicato questo posto dove venire con un bebè in braccio a bere un tazza di tè, dove nessuna si sentirà giudicata se il piccolo strilla e non

avrà imbarazzo se lo allatta, se le viene da piangere o da chiedere «sono brava?», «è tutto normale?». Un luogo dove i bambini giocano e tu puoi dire che sei stanca, che sei stufa, che non capisci, che non sei pronta... Questo sono – anche – gli spazi di accoglienza per la prima in-

fanzia. Sono dedicati anche alla prima maternità, e perché no alla seconda e alla terza». Insieme, oltre alle mattine di apertura, si organizzano mattinate di giochi, merende, gite in famiglia, sfilata di Carnevale con i costumi autoconfezionati, la festa di San Nicolao e conferenze per i genitori. Da venticinque anni questo spazio vive grazie al passaparola e al volontariato. Quest’anno il comitato di Spazio Famiglie 3 Valli ha dovuto attrezzarsi per continuare ad accogliere in sicurezza, seguendo tutte le direttive dell’emergenza pandemica. «In questo periodo il Centro è aperto solo due giorni a settimana, il lunedì e il venerdì, ma ora più che mai abbiamo bisogno di ritrovarci e stare insieme, condividendo un po’ di tempo e di pensieri. Appena si potrà riapriremo i battenti del tutto, cioè cinque mattine a settimana, come abbiamo sempre fatto; e stiamo cercando volonta-

rie per garantire le aperture settimanali al fine di mantenere vivo questo punto di ritrovo e di socializzazione». A settembre scorso l’Associazione ha avviato parecchi lavori di ristrutturazione nella sua bellissima sede sotto l’Asilo San Giuseppe di Biasca, storico edificio appartenente alla Parrocchia. Se l’interno ora è stato messo a posto, grazie al Comitato, al Comune e alla Parrocchia, resta il parco giochi esterno da ricostruire, il cui finanziamento è al vaglio del Comune, ma per il quale si cercano anche donazioni private. «In questi mesi i bambini sono stati catapultati in un mondo che noi genitori non avremmo mai voluto che vedessero. Penso gli sia stato portato via un pezzettino d’infanzia. Ma credo anche che possiedano una forza che noi adulti non abbiamo, quindi si riprenderanno. Però c’è bisogno di tornare a stare insieme, non distanti ma vicini». Per tutti, mamme incluse.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Società e Territorio

La vita di chi è un passo avanti Pubblicazioni Il nuovo libro del collettivo Controparola racconta le storie di donne

Web Continuano

che danno forma al futuro

le avventure di Ellie

Barbara Manzoni Il futuro è donna. Quante volte abbiamo sentito questa frase? Chissà. Speriamo, verrebbe da dire, in un presente che è ancora tanto uomo. Ora il collettivo Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici italiane nato per iniziativa di Dacia Maraini, con un nuovo libro intitolato Donne al futuro (ed. Il Mulino) si cala «dentro la fabbrica del futuro» per «capire in concreto in quale direzione stia andando il nostro tempo. Sapendo che in molti casi ancora, il protagonismo femminile è di per sé una novità che muta gli scenari». Il collettivo ha già indagato il passato con diverse pubblicazioni dedicate alle Donne nel Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, Donne della Repubblica, Donne del Sessantotto. L’attenzione delle autrici ora si rivolge al presente per incontrare 16 personalità che, ognuna nel proprio ambito, stanno plasmando l’oggi con uno sguardo che è ben puntato al futuro, perché chi si muove con genialità, creatività e forza nel presente è già un passo avanti, è già nel futuro. Gli ambiti in cui questi talenti femminili si esprimono sono molteplici: si va dal mondo dell’arte con la street artist AliCè (Alice Pasquini) alla scienza con l’astrofisica Marica Branchesi, dallo sport con la calciatrice Sara Gama e la campionessa parolimpica Bebe Vio alla scuola con la maestra Barbara Riccardi finalista al Global Teacher Prize a Dubai, dal-

Sulla copertina del libro il ritratto Monna Sara Gama, Tesoro d’Italia di Fabrizio Birimbelli.

le ricercatrici del Centro medicina di genere dell’Università di Ferrara alla virologa Ilaria Capua che in questo ultimo anno abbiamo imparato a conoscere nelle tante interviste rilasciate sul virus che da un anno attanaglia le nostre vite. Nel libro compaiono anche Paola Antonelli, senior curator del Dipartimento di Architettura e design del

I fumetti dedicati ai matematici

MoMA di New York; Francesca Bria definita la «Robin Hood dei dati» impegnata a portare avanti un importante concetto di «umanesimo tecnologico; Silvia Colasanti, compositrice e direttrice d’orchestra; Ilaria Cucchi, coraggiosa sorella che ha combattuto una lunghissima guerra legale per ottenere la verità sulla morte del fratello Stefano; Emma Dante, prolifica e

talentuosa autrice di testi per il teatro oltre che regista; Rita Giaretta, o meglio suor Rita, fondatrice di Casa Rut a Caserta dove vivono ragazze tolte dal giro della prostituzione; Giuseppina, giovane donna di ’Ndrangheta ribellatasi alla famiglia; Eliana La Ferrara, economista, dirige il Laboratory for Effective Anti-poverty Policies; l’organizzazione Nosotras (coordinata da Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini), associazione interculturale che ogni giorno lotta contro la violenza sulle donne sostenendole in un percorso di autoconsapevolezza e indipendenza. Le storie e i ritratti che ci regalano le giornaliste e scrittrici autrici del libro sono appassionanti, a volte sorprendenti, in alcuni casi svelano tratti privati delle protagoniste, l’infanzia, i rapporti familiari, gli amori, i sogni, gli studi, i colpi di fortuna, le sofferenze e le difficoltà incontrate durante percorsi non sempre lineari. Storie da leggere, da raccontare alle proprie figlie, nipoti, allieve per renderle fiduciose e consapevoli delle loro possibilità e della loro creatività, senza nascondere la sfida che corre sottotraccia in tutti i percorsi delle donne, quella della parità di genere. Il libro si chiude con un ritratto dedicato a Agitu Ideo Gudeta, attivista etiope e bio-imprenditrice sulle montagne del Trentino dove è stata uccisa nel dicembre scorso da un lavoratore stagionale ghanese. Un ritratto che ci ricorda come il presente per tante donne sia ancora troppo duro anche per quelle il cui sguardo è già nel futuro.

Sul nostro sito è online da oggi la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi. Si tratta dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie compie grazie agli occhiali virtuali costruiti in laboratorio dal geniale zio Angelo. Ellie incontra così i personaggi che nel passato hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata a Euclide. I fumetti si trovano sul sito www.azione.ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca del sito).

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Società e Territorio

Spiegato in tre minuti

LernFilm Festival Il concorso aperto a tutti gli ordini di scuola è un progetto no-profit che intende promuovere idee

innovative per l’apprendimento mediante l’utilizzo dei media. Ce ne parla il professor Luca Botturi

stop motion che prevedono l’uso di oggetti anziché di attori, e a seguire lo smartphone, mezzo tecnologico più ad uso individuale.

Guido Grilli Ciak, si gira. Si chiama LernFilm Festival – da «lernen», imparare; e film, segnatamente didattici. E si affida alla creatività di allievi e studenti appartenenti ai diversi ordini scolastici – Elementari, Medie, Medie superiori (licei e professionali) e Alte scuole pedagogiche per la formazione dei docenti – invitandoli, entro il 4 aprile, a produrre un video della durata massima di tre minuti. Al concorso si può partecipare in team, con lavori di classe o gruppi di più allievi, oppure individualmente. L’iniziativa è chiara: «con il nostro progetto no-profit, intendiamo promuovere tutte quelle idee innovative e creative rivolte all’apprendimento mediante l’utilizzo dei media» – evidenzia LerNetz, ente organizzatore con sede a Lucerna attivo nel campo della formazione e dell’educazione nelle scuole, affiancato da diversi partner appartenenti al mondo dei media. Alla sua nona edizione, diffuso soprattutto in Svizzera tedesca, solo da un paio d’anni il concorso è riuscito a conquistare partecipanti anche dal Ticino. Luca Botturi, 44 anni, professore in tecnologie e media in educazione al Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) a Locarno, è uno dei nove membri della giuria del LernFilm Festival. Professor Botturi, come nasce questo singolare evento e con quali finalità? L’idea è semplice: si imparano a leggere i media quando uno impara a scrivere, ossia a produrre dei messaggi. Il LernFilm Festival negli ultimi due anni ha superato i 400 partecipanti al concorso.

È molto noto in Svizzera tedesca, ma coinvolge tutte e quattro le aree linguistiche e dallo scorso anno ha ottenuto maggiore visibilità in Ticino grazie al sito tradotto in italiano.

Ma che cosa viene richiesto in concreto ai partecipanti e cosa s’intende per film didattico?

Assomigliano molto ai «tutorial». Il concetto è un filmato breve, della durata massima di tre minuti, che deve spiegare qualcosa: alla fine, chi lo vede impara qualcosa. Si ha un ampio ventaglio di possibili produzioni: dalla classica video-presentazione – ricordo ad esempio ragazzi del liceo che hanno inviato con questa modalità video su temi storici – a simpatiche fiabe realizzate dai bambini di scuola elementare

Quanto il celebre canale Youtube può rappresentare una palestra per i concorrenti?

Moltissimo. Lo vediamo tra gli adolescenti in particolare, con già esperienze di produzioni video, per cui ricorrono all’uso di qualche effetto speciale e qualche montaggio ricercato. In alcuni video che riceviamo si intuisce quanto Youtube possa avere avuto un’influenza, come fucina di idee, intendo, che va benissimo. Questo ci permette di capire ulteriormente il lavoro che è stato effettuato a monte per realizzare un certo tipo di prodotto.

Il LernFilm Festival sembra rappresentare un’importante occasione per sperimentare un uso creativo del proprio smartphone o dei propri dispositivi tecnologici.

Per i ragazzi che imparano a farne un uso creativo il digitale diventa un importante strumento espressivo. (LernFilm Festival)

sui più svariati temi, l’amicizia, l’accettazione delle diversità o la sostenibilità e l’ambiente, un tema quest’ultimo che la scorsa edizione ha visto un video premiato. Il LernFilm è un festival di film che vogliono insegnare qualcosa, una finalità appunto didattica e non solo di intrattenimento.

C’è un preciso tema etico per l’edizione 2021 del festival, «Scattata, protetta: dalle trappole fotografiche alla pirateria, passando per il diritto all’integrità dell’immagine». Quanta libertà hanno i concorrenti?

Ogni anno viene proposto un tema, ma non è vincolante. Sono assolutamente ammessi anche video su qualsiasi altra tematica. Il tema assegnato rappresenta uno stimolo per chi non ha un argomento. La riflessione proposta quest’anno verte tuttavia attorno a una questione molto importante: l’uso delle immagini digitali, inteso sia come adeguatezza delle immagini sottoposte ai bambini sia come uso della propria immagine e delle immagini degli altri che – va sottolineato – tocca questioni legali alle quali i giovani spesso non pensano: i diritti d’autore, la protezione

dei dati personali. Succede facilmente che uno scatta una foto a un amico e la pubblica, accompagnandola da una battuta senza chiedere il permesso: una modalità illegale, oltre che potenzialmente dannosa per la stessa relazione di amicizia. La tematica assegnata dal festival rappresenta per tutte le età uno stimolo di riflessione e tocca numerosi ambiti disciplinari. Il LernFilm Festival è ancora poco conosciuto alle nostre latitudini...

Il numero di partecipanti è ancora ridotto, dal momento che è solo da un paio di anni che lo stiamo promuovendo anche a sud delle Alpi. Con grande soddisfazione, l’anno scorso il premio per le Alte scuole pedagogiche è stato vinto da un gruppo di studenti del DFA. Naturalmente in quel caso in giuria mi sono astenuto dal voto. Oltre che a suscitare soddisfazione, la cerimonia di premiazione offre una bella occasione di confronto a livello svizzero con altri ordini scolastici. Anche quest’anno la premiazione – l’appuntamento è per il 2 giugno, ma i due vincitori di ognuna delle categorie saranno informati al più tardi a inizio

maggio – si svolgerà in remoto e sarà diffusa in diretta televisiva dalla SRF, nell’ambito del format educativo «my School».

Lei, personalmente, quali criteri adotta per la valutazione delle opere? Quando si può parlare di un buon filmato?

Sicuramente conta la qualità tecnica del film. C’è una valutazione che attiene al messaggio elaborato dal film, dunque l’originalità. Secondo la mia esperienza in giuria posso dire che ci sono dei film davvero sorprendenti, realizzati magari con mezzi banalissimi che creano delle storie e delle situazioni notevoli. E questo entra naturalmente in linea di conto per il giudizio. Conta molto l’idea. Nel concorso si parla di tre tecnologie possibili per la realizzazione dei filmati: smartphone, tablet o videocamera. Qual è il più diffuso?

Quando riceviamo i lavori non possiamo capire esattamente quali tipi di tecnologie sono state usate, ma mi pare di poter dire che prevalga il tablet, perché si dimostra più comodo per lavori di gruppo, specie per produzioni

Assolutamente. Chi usa i media digitali in modo sostanzialmente passivo – leggo, posto, metto online e fine della storia – sappiamo che è più a rischio, perché in fondo rimane inconsapevole. Invece per i ragazzi che imparano a farne un uso creativo, il digitale diventa uno strumento espressivo, con cui proporre la propria idea, trovare la propria voce, sperimentare, e vediamo che per costoro il rischio è più basso. Il festival rappresenta un’occasione interessante per mettersi in gioco, cogliere uno stimolo per dire qualcosa di originale, e questo cambia l’approccio con i media. Per realizzare un video non bastano due clic: occorre un’idea, occorrono più prove ed errori per realizzare qualcosa di veramente soddisfacente. Bisogna impegnarcisi in maniera creativa, allora rimane un apprendimento molto profondo, una bella occasione di lavoro. Le informazioni utili per lanciarsi nella sfida del concorso si trovano sul sito www.lernfilm-festival.ch. Il sito indica pure utili suggerimenti ai partecipanti, un «modus operandi» in cinque passaggi – l’idea e i messaggi che s’intendono trasmettere, un copione, i personaggi e quindi le riprese – alcuni tipi di format possibili, con esempi concreti, e altra teoria dalla quale poter attingere, nonché strumenti didattici. E i vincitori avranno l’opportunità, oltre che di aggiudicarsi una discreta somma in denaro, di vedere pubblicate le opere sui canali Youtube e Vimeo del festival.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Chiara Lossani-Michael Bardeggia, Dante, il mi’ babbo, Edizioni Arka. Da 7 anni. Per raccontare un personaggio storico ai bambini si usano quasi sempre – con esiti, occorre dirlo, a volte interessanti ma altre stucchevoli – due espedienti narratologici: o lo si presenta nella sua infanzia (ci sono addirittura collane così configurate), oppure lo si fa narrare da un suo figlio. Non fa eccezione quindi la scelta di Chiara Lossani, di presentare Dante e la Commedia ai giovanissimi lettori attraverso la prospettiva di Antonia Alighieri, figlia di Dante e di Gemma Donati, identificata tradizionalmente con la monaca del monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna – che aveva preso il nome di Suor Beatrice – a cui il Boccaccio nel 1350 portò dieci fiorini donati dai Capitani della Compagnia di Orsanmichele in Firenze. Da questo episodio prende le mosse Chiara Lossani, inserendovi l’inven-

zione sui cui si sorregge la storia: con Giovanni Boccaccio c’è una bambina, Enrica, che ha bisogno di protezione perché il suo babbo è stato esiliato, proprio come un tempo lo fu il padre di Antonia. Enrica è triste, e Antonia prova ad accenderne lo sguardo narrandole il viaggio di Dante attraverso gli ambienti delle tre cantiche: dai mostri terribili dell’Inferno all’atmosfera estatica del Paradiso. Come

ben si può intuire, non è un’impresa facile raccontare ai bambini la Divina Commedia: sia per la complessità del contenuto (le conoscenze storiche e filosofiche necessarie, ma anche il tema dell’Inferno e delle colpe da scontare, se non adeguatamente contestualizzato, è materia molto delicata da trattare con i più piccoli), sia per la complessità linguistica, che si rischia di appiattire. Va riconosciuto all’autrice, tuttavia, lo sforzo evidente di non banalizzare e di scegliere due buoni percorsi narrativi tenendoli compresenti: quello che ripercorre per sommi capi la vita di Dante e quello che fa risuonare i versi di alcuni canti, provando a collocarli nel loro quadro d’insieme. Un albo di 64 pagine, con 4 pagine che si aprono raddoppiandosi, dando ancora più spazio alle illustrazioni oniriche di Michael Bardeggia, un contributo dell’editoria per l’infanzia alle celebrazioni del settecentenario, da proporre però a ragazzini non troppo piccoli.

Charlotte Grossetête - Hervé Le Goff, Pasqua nell’allegra fattoria, Jaca Book. Da 3 anni. Un coniglietto di cioccolato che rischia di sciogliersi, in giardino, se i bambini non si sbrigano a trovarlo; una «caccia» all’uovo in fattoria, dove il più bel tesoro trovato sono dei pulcini veri appena nati, ma naturalmente la signora chioccia può stare tran-

quilla, i bambini non li metteranno nel loro cestino! E la terza storia, la più carina perché vivificata dall’animismo proprio dei bambini, per il quale le forchette, i piatti, i tovaglioli sono, appunto, animati, e parlano, racconta di un albero di Pasqua. Decorato con le uova, è proprio al centro della tavola allestita per il pranzo di Pasqua. «Le uova nascono sugli alberi?» chiede un cucchiaino. La risposta arriva dal cucchiaio grande, che spiega da dove vengono le uova e chi le ha poi decorate, e perché. Segue una discussione tra le stoviglie su quale sia l’uovo più bello, e c’è anche un piccolo trambusto perché a due uova si sta slacciando il nastrino e rischiano di cadere... Storie semplicissime, da leggere ad alta voce e magari da continuare o variare. Jaca Book ha altri due titoli «pasquali» per i più piccini: Friederike Rave, Salviamo la Pasqua! e Bruna HächlerFriederike Rave, L’allegra officina delle uova di pasqua.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Eretico e martire: preistoria minima della Brexit Il rapporto fra il Regno Unito e quell’entità complessa che chiamiamo Europa, della formazione della quale peraltro è stato uno degli attori fondamentali, è sempre stato problematico – forse si potrebbe dire, con un understatement, un tantino nervoso. Prendete i Confederati, ad esempio. Fin dal momento in cui si costituiscono come Federazione di persone libere proprio per tenere a distanza di sicurezza imperi e potentati che ne minacciano autonomia e ricchezze, al di là delle differenze di lingua e religione giustamente messe da parte per il successo dell’impresa comune, la Confederazione funziona come un’Europa in miniatura, nucleo e modello – per quanto sui generis e mutatis mutandis – di quello che l’Europa sta arrancando per cercare di raggiungere (e che fatica!). Il Regno Unito no. Sempre rogne. Sempre dubbi. Siamo fuori Noi o sono fuori Loro? Ci invadono loro o li invadiamo noi? Saltiamo o aspettiamo che ci diano

una spinta? I Romani se ne andarono zitti zitti prima che le carovane dei popoli delle steppe varcassero l’Elba per trasformare l’Europa in quel Far West geografico e culturale che rimase almeno fino a Carlomagno per poi peraltro mantenere quel grilletto facile che avrebbe reso quel cul de sac geografico, etnico e politico che diventerà l’Europa per farne il posto più pericoloso del mondo fino all’altro giorno e che Dio ce la mandi buona domattina… O così andava ruminando il vostro Altropologo preferito l’altro giorno mentre scrutava il calendario primaverile alla ricerca di un tema per la vostra Rubrica d’elezione. Prendete quella figura tragica – fra le tante vittime dei paradossi europei – che fu Thomas Cranmer (1489-1556), Arcivescovo di Canterbury e primo responsabile della strutturazione teologica e liturgica della Chiesa Anglicana. Di oscure origini, Cranmer ottenne una borsa di studio fra i primi baccellieri del neonato

Jesus College di Cambridge (1496). Ci mise otto anni per ottenere il grado di Baccelliere (Laurea Breve) e dopo tre anni di studi da Master of Arts fu eletto Fellow del College. Perse l’affiliatura (e lo stipendio) quando decise di sposarsi violando i termini del contratto. Fortuna sua (?) la moglie presto morì e gli fu restituito il titolo (e lo stipendio). Riprese a studiare, fu ordinato sacerdote nel 1520 e divenne Dottore in Teologia nel 1526. Non molto si sa dei suoi ozii Cantabrigensi se non che le sue simpatie si dividevano fra Erasmo (il Cattolico Quasi Eretico) e Lutero (il Protestante Quasi Cattolico). Fu selezionato dal Cancelliere del Re Cardinale Wolsey per un’ambasciata al sacro Romano Imperatore Carlo V per poi essere chiamato nel 1527 dallo stesso ad assisterlo nella preparazione della causa di annullamento del matrimonio fra Enrico VIII e Caterina d’Aragona. Non sapremo mai se Cranmer abbia saltato di sua volontà o se sia stato spinto. Fattostà che

andò a mettere una parte molto delicata della sua anatomia dove lo attendevano le pedate. Fast forward: 1532: una lettera lo raggiunge in Italia mentre negoziava l’annullamento del matrimonio reale, lettera che lo elegge nuovo Primate d’Inghilterra, Arcivescovo di Canterbury. A sponsorizzare la sua elezione è la famiglia di Anna Bolena, che sarà la prossima moglie del Re avendo per lui perso la testa (che perderà ahinoi in altro senso nel 1536). Per i prossimi anni, schieratosi decisamente dalla parte del Re, si impegnerà a mediare fra le varie tendenze verso la fondazione dell’apparato teologico, dottrinale, liturgico e mediatico necessario a legittimare la rottura con Roma: un colpo al cerchio, uno alla botte – e uno me lo bevo io – e voilà la Chiesa Anglicana con a capo il Sovrano. Poi cambia il vento e patatrac. Mary I – conosciuta anche come Maria la Sanguinaria (ne fece fuori trecento) – accede al trono nel 1553. Determinata a restaurare il Cattolicesimo Romano va

in pressing e domanda abiure. Forte di un equilibrismo maturato a Cambridge – laddove un colpo al cerchio e uno alla botte convergono ancor oggi in un finale «bevo tutto io» (parola di Altropologo che di Cambridge custodisce Master and Doctor Certificate) – Cranmer ammicca, temporeggia, abbozza e finalmente abiura. Un corno: Mary annusa l’aria e non si fida. Lo accusa di eresia (questione che avrebbe dovuto essere decisa da Roma) e, dunque, di alto tradimento della Dottrina della Sovrana. Gli stessi argomenti dell’Eresia fatti assist: al rogo. «Per quanto riguarda il Papa, lo rifiuto in quanto nemico di Cristo ed Anticristo, con tutta la sua falsa dottrina». Sono le ultime parole di un Cranmer finalmente coerente, bruciato contro le procedure giuridiche della stessa Chiesa Romana Cattolica che Mary la Cattolica difende – e sovranamente bypassa: Roma (e Bruxelles) sono Io. Era il 21 marzo 1556. Requiescat.

per mancare guarda di solito il volto di chi che gli sta accanto e, con lo sguardo supplica un’espressione di pietà e di affetto. Cosa che molti infermieri hanno fatto ma, bardati dalla testa ai piedi per evitare il contagio, non hanno certo potuto esprimere l’intensità della loro partecipazione. Poiché la medicina palliativa interviene per lo più a sedare l’angoscia, è probabile che sua mamma se ne sia andata senza accorgersene. È invece lei a vivere, a posteriori, un’assenza che blocca ogni slancio vitale. Le persone amate sono dentro di noi, fanno parte della nostra identità, popolano la nostra mente, per cui è una buona cosa che lei sogni sua mamma e senta l’impulso di raggiungerla e abbracciarla. È un modo con cui l’inconscio elabora il lutto e tenta di convincerla ad accettare l’ineluttabile, a tornare alla sua vita, agli affetti che l’attendono. Capisco che la morte di suo padre sia stata più vivibile perché lei c’era, lo ha visto andarsene, ha vissuto quel passaggio concretamente e la realtà aiuta

la mente a «farsene una ragione». Da sempre la comunità ha partecipato al travaglio del lutto con cerimonie di commiato, con riti di condivisione del dolore. Nella tarda modernità però, la società degli individui, narcisista e competitiva, ci aveva ridotti a una folla solitaria, a una somma di Io, e sembrava difficile ritrovare un sentimento di unità. Eppure l’emergenza ci ha trasformati: ci ha resi solidali, attenti al dolore degli altri, più capaci di metterci nei loro panni, di aiutarli e confortarli. Anche adesso, in tempi di distanziamento, non solo fisico ma affettivo, non sono mancate verso le vittime del Covid espressioni di con-doglianza. Le foto dei camion che sfilano nella notte hanno fatto il giro del mondo sino a rappresentare una ferita dell’umanità. Lei, cara Cinzia, non è sola, tutti le siamo accanto perché il suo dolore è anche il nostro. Tuttavia sentimenti universali, giusti e opportuni, non possono sostituire l’empatia che ha bisogno di vicinanza

fisica, di prossimità comunicativa, di espressioni facciali, di gesti, di parole, di calore. Una condizione difficile da realizzare nel fuoco di una pandemia che comporta l’isolamento. Ma credo che tra i familiari di quelle vittime, tra cui sua mamma, si sia costituito un senso di comunanza, di solidarietà e di affetto reciproco che può, per quanto possibile, temperare il dolore. L’impegno perché eventi così negativi non avvengano mai più può sciogliere le energie immobilizzate dal trauma e indirizzarle verso mete positive. La speranza è l’unico modo per contrastare la disperazione e aprire l’orizzonte del futuro. Lo dobbiamo ai nostri figli, ai ragazzi che stanno procedendo, tra mille ostacoli, verso l’età adulta.

In altre parole, questa porzione di tempo supplementare, che ci è stato involontariamente restituito, offre opportunità che, a loro volta, comportano doveri. E c’è da chiedersi se ne abbiamo approfittato. O, invece, si tratta di occasioni perse. A partire da quella, in apparenza la più banale, del far ordine: che, lo confesso, mi tocca da vicino. Per questione di età, di eredità familiare, di abitazione spaziosa, mi sono abituata a convivere con una moltitudine di oggetti, libri in primis, ritagli di giornale, cartoline, penne, matite, e, non da ultimo, orsetti, avvertendone l’eccesso, persino il rischio kitsch. Tanto da indurmi, appunto durante la pandemia, a un ragionevole sfoltimento. Mai portato a termine, trovandomi infinite giustificazioni psicologiche e culturali. Guarda caso, giorni fa, sulla «Neue Zürcher Zeitung», Alain Claude

Sulzer, scrittore e attento e divertito osservatore del costume, raccontava piaceri e sofferenze dell’accumulatore, succube di una mania che, magari, si riscatta, diventando collezionismo. Dove, per forza di cose, il disordine si allea all’ordine. Certo, a prima vista, come osservava Luciano De Crescenzo, in un delizioso saggio pubblicato nel 2003, «il disordine è simpatico e l’ordine antipatico». Attenti, però, a non cadere nel tranello «genio e sregolatezza»: spesso manca il primo e rimane soltanto il secondo. Ma, per nostra fortuna, il nuovo tempo libero, regalo Covid, si presta anche a ben altri obiettivi. Sollecita, come detto, la lettura e soprattutto la scrittura. Il libro, fresco di stampa, rappresenta un biglietto da visita immancabile per i frequentatori dei dibattiti televisivi italiani, esibito da professionisti affermati, quali Gianrico Carofiglio o Paolo Mieli, ma

pure da nuovi arrivati, come Rocco Casalino, già portavoce del premier Conte e già ospite del Grande Fratello. Per carità, il talento letterario può sempre riservare sorprese. E di sicuro l’isolamento di queste giornate, dilatate dalla sedentarietà, rappresenta una risorsa, utile almeno per se stessi. Quando, però, ci si rivolge agli altri, devono intervenire impegno e perseveranza. Alla faccia della cosiddetta ispirazione, bisogna tener duro, come chiede lo studio di una lingua, in particolare l’inglese che, personalmente, rincorro da decenni senza mai raggiungerlo. Ma c’è corsa e corsa, non ultima quella fisica, praticata dai cultori dello jogging, che va per la maggiore. Strade, viali, lungolago sono invasi da giovani, e meno giovani, che di necessità fanno virtù. Bar e discoteche in lockdown e parchi e prati disponibili: come dire, un’occasione non persa.

La stanza del dialogo di Silvia vegetti Finzi Il trauma che blocca ogni slancio vitale Gentile Silvia, mia mamma, dopo essere stata per due anni ospite di una Residenza Sanitaria di Bergamo, è tra i morti per Coronavirus che un anno fa, il 18 marzo del 2020, sono stati, prima raccolti nella Chiesa del Cimitero, poi trasportati con una decina di camion dell’esercito, in varie città della Lombardia e dell’Emilia che si erano rese disponibili alla cremazione. È stata per tutti una scena tristissima vedere, in televisione, sfilare nella notte quel lugubre corteo ma per me, che sapevo esserci mia mamma, morta in solitudine, senza una carezza, senza poter vedere per l’ultima volta le sue figlie, è stato uno shock. Ora le sue ceneri sono tumulate nel Cimitero del Comune dove vive mia sorella e possiamo andare a visitarla con un fiore e una preghiera. Eppure, passato un anno, non riesco a trovare la serenità perduta, sento la sua mancanza in ogni momento della giornata e spesso mi sveglio di notte con l’impulso di andare da lei. È tale la tristezza che non posso sorridere anche quando i

miei figli, che hanno 18 e 16 anni, tentano in ogni modo di tirarmi su di morale. Mio marito avrebbe bisogno anche lui di aver accanto una moglie serena ma, mi creda, non ce la faccio. Ho preso i medicinali che mi ha ordinato la dottoressa ma se le dicessi che mi fanno effetto, direi una bugia. Eppure quando morì mio papà, che amavo più di ogni altro al mondo, non ho avuto la stessa reazione, ho sofferto, è vero, ma poco per volta me ne sono fatta una ragione. Perché adesso non riesco a risollevarmi? Le chiedo conforto perché, seguendola da tanti anni, ho fiducia nelle sue parole. Grazie, con tanti auguri. / Cinzia Cara Cinzia, i lutti hanno sempre costellato la nostra vita ma, in tempi di emergenza sanitaria, è accaduto quello che storicamente era avvenuto solo in tempi di guerra, sui campi di battaglia: che una generazione fosse decimata in poco tempo senza il conforto dei propri cari o di una persona soccorrevole. Chi sta

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Anche il Covid crea occasioni Abbiamo, ormai, alle spalle un intero anno di rinunce, subite fra comprensibili malumori, e sfociate in ribellioni nei confronti di chi le ha imposte, dall’alto di un’autorità cresciuta ad autoritarismo. Di questa deriva i politici, Alain Berset in testa, stanno pagando il prezzo, in termini di crescente impopolarità. Con ciò, proprio la chiusura dei luoghi destinati allo svago, culturale, sportivo, turistico che fosse, ha favorito l’apertura di altri spazi, interamente a nostra disposizione: una sorta di paradossale vantaggio, insomma. Ci si è trovati immersi in un tempo vuoto, tutto da riempire, recuperando le manchevolezze, sin qui attribuite a un ritmo di vita che non concedeva tregue. Effettivamente, tra lavoro, acquisti, spettacoli, partite di calcio e hockey, weekend al mare, cene con gli amici, le 24 ore della giornata non riuscivano a garantire momenti di solitaria libertà, da spendere per pro-

prio conto. Sia per coltivare un estro creativo, sia per colmare una lacuna linguistica, sia per leggere finalmente i classici, sia per migliorare la condizione fisica o, più prosaicamente, per far ordine negli armadi o in soffitta, selezionando l’utile dal superfluo.

Bar chiusi, parchi disponibili. (Pixabay)


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Ambiente e Benessere La storia in volo Viaggiare in aereo: dal 1936 passando per la Seconda Guerra, sino ai tempi nostri, o quasi

Una piaga volatilizzata I maggiolini, che una volta capitava comparissero in massa, sono diventati sempre più rari

Dieci anni per l’acqua L’Onu avvia una campagna dedicata alle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile

pagina 18

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Una specialità raffinata Salmone con limette, aglio e prezzemolo, cotto in forno, e purea di patate agli spinaci pagina 22

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Chirurgia spinale e visione olistica Medicina La considerazione dei fattori

psicosociali migliora la percezione della prognosi di un intervento chirurgico

Maria Grazia Buletti I fattori psicosociali giocano un ruolo importante nello sviluppo del dolore lombare e molti studi scientifici dimostrano come le esperienze passate, ansia e depressione influenzino la percezione del dolore. Poca fiducia nel recupero e paura di muoversi possono facilitare la persistenza del dolore e della limitazione delle attività. «È un dato di fatto valido pure nella percezione del paziente sull’esito di un intervento chirurgico spinale», puntualizza la dottoressa Dominique Kuhlen, Viceprimario e responsabile della Clinica di neurochirurgia all’Ospedale Regionale di Lugano con la quale parliamo proprio di questi aspetti percettivi nella prognosi di guarigione dei pazienti che necessitano di un intervento alla colonna spinale (sovente nel tratto lombare). «L’indicazione all’intervento chirurgico spinale è indubbia quando si tratta di un trauma con frattura instabile: in quel caso si opera, perché la decisione si pone sulla base delle immagini radiologiche. Così vale anche per una compressione midollare indotta da un tumore, per cui la valutazione dell’intervento si basa sulla storia del paziente e sulle immagini RMI (se il tumore comprime il midollo, bisogna intervenire per togliere la compressione)». Con la neurochirurga parliamo invece di valutazione delle indicazioni, e della relativa prognosi, di quegli interventi chirurgici alla colonna vertebrale affetta da patologie degenerative, dove si è sempre più consapevoli che atteggiamento e predisposizione mentale del paziente giochino un ruolo determinante sulla percezione dell’esito dell’intervento pur riuscito tecnicamente. Per questo, il tema diventa complesso tanto da meritare approfondimento e presa a carico innovativi, che tengano conto dei fattori psicosociali dell’individuo. «Fino a qualche anno fa, la decisione chirurgica riguardo a degenerazioni della colonna (“schiena consumata”) si poneva sull’evidenza delle degenera-

zioni stesse come ernia discale o stenosi lombare (canale spinale ristretto) dipendenti dal sintomo che ne determinava la valutazione chirurgica: operare o no». Ad esempio: «Un canale ristretto di un paziente che zoppica il cui dolore irradia alle gambe: prima l’indicazione all’intervento si poneva valutando il diametro del restringimento del canale spinale e il dolore percepito dal paziente che, se forte, era una chiara indicazione a procedere». Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato: «Si è compreso che l’impatto sull’intervento non dipendeva solo dall’atto chirurgico riuscito, bensì da fattori psicosociali che determinano enormemente la sensazione del paziente sull’esito dell’operazione». I fattori psicosociali hanno dunque un ruolo importante nella malattia: «Affinché pazienti depressi, molto ansiosi o pessimisti possano godere del buon esito di un intervento, devono prima essere indotti a un percorso psicologico per aiutarli a risolvere questo atteggiamento psicosociale negativo, altrimenti percepirebbero come mal riuscito un intervento andato a buon fine, non traendone il giusto beneficio». In realtà, molte persone con dolore lombare pensano che la loro colonna vertebrale sia una struttura fragile e vulnerabile e arrivano dal medico con legittime preoccupazioni. Lo spartiacque sta proprio in quei fattori psicosociali determinanti l’atteggiamento positivo della persona verso l’intervento: «Oggi li sappiamo valutare, anche attraverso una presa a carico medica interdisciplinare e inter-collegiale che ci permette di aiutare il paziente pessimista a sviluppare un atteggiamento positivo e fiducioso verso l’eventuale atto chirurgico del quale, quindi, potrebbe beneficiare appieno». È una visione olistica della persona (con una presa in carico pre-chirurgica), sviluppata pure in questo ambito specialistico. «Oggi, malgrado l’indicazione di intervento per degenerazione della colonna, possiamo decidere di non sottoporvi quei pazienti che non presentano atteggiamenti favorevoli»,

La neurochirurga Dominique Kuhlen, viceprimario e responsabile Clinica di neurochirurgia ORL. (Stefano Spinelli)

afferma Kuhlen che apre una finestra sul rapporto medico-paziente da costruire ben prima di prendere in mano il bisturi ed entrare in sala operatoria. «Il paziente cerca spiegazioni riguardo alla causa del suo problema, vuole sapere come prevenire le recidive e l’impatto di un intervento chirurgico (la paura di “restare sulla sedia a rotelle” è ancora molto presente, malgrado oggi le tecniche chirurgiche siano molto più raffinate e delicate, con esiti molto più sicuri di un tempo)». Al medico, l’onere di ascoltarlo, comprenderlo e creare quel rapporto di fiducia reciproca per ridurre le sue incertezze e la sua paura, giocando un ruolo determinante nella gestione della problematica e nella prognosi dell’intervento. «Il professionista influenza notevolmente

questi aspetti in modo positivo o negativo, con una presa a carico adeguata pre-intervento e con la costruzione di un rapporto di fiducia reciproca. Oggi sappiamo individuare chi con alta probabilità non sarebbe soddisfatto di un intervento pur riuscito; la presa a carico adeguata pre-intervento (psicologica, medica e quant’altro) di questo paziente ci permetterà di intervenire una volta risolti i fattori psicosociali negativi, a tutto suo vantaggio». Il rapporto fra chirurgo e paziente è essenziale: «Deve essere equilibrato e basato sulla fiducia reciproca: un rapporto paritario dove il medico, pur essendo depositario del “mestiere” chirurgico, riesce a stare alla pari con il suo paziente, incontrandolo e parlando la stessa lingua. Così già dalla pri-

ma visita si crea quella complicità che termina quando si chiude il caso dopo l’intervento: si è costruita una “buona squadra” in cui tutti hanno contribuito al successo di un comune obiettivo predefinito: intervento chirurgico riuscito, dolore diminuito o scomparso». La dottoressa ci confida di non aver mai subito un intervento chirurgico: «Ma ogni giorno ho dinanzi qualcuno che mi dà fiducia affidandomi l’integrità del suo corpo: lo considero un piccolo miracolo di cui avere la massima cura; percepisco rispetto e stima, ma soprattutto sono conscia anche emotivamente, della mia responsabilità». Ecco cosa succede tra medico e paziente, a determinare pure il successo di quel bisturi: «È quanto di più affascinante c’è nella mia professione».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Ambiente e Benessere

L’aereo più lussuoso del mondo Viaggiatori d’Occidente Fu Juan Trippe, fondatore della Pan American, a comprendere per

Passi dentro la natura Bussole Inviti a

primo che gli aerei avrebbero presto preso il posto delle navi nel trasporto di posta e passeggeri letture per viaggiare

Claudio Visentin Se si parla dell’aereo più lussuoso di ogni tempo, la risposta sembra facile: il Concorde (1976). In realtà si distingueva soprattutto per la velocità: dimezzò il tempo di percorrenza sulla rotta ParigiNew York, portandolo a tre ore e mezza. La sua velocità era quasi doppia rispetto alla concorrenza; quando incrociava in volo altri aerei, questi sembravano andare all’indietro! E poiché sui voli verso occidente l’ora di arrivo precedeva quella di partenza, il suo slogan era «Arrivare prima di partire». E tuttavia il Concorde comodo non era. Il suo disegno filante e aerodinamico limitava lo spazio a bordo; l’altezza della cabina era inferiore a due metri. E se il biglietto costava tre volte più della «normale» prima classe, era comunque solo metà del leggendario Boeing 314, costruito alla fine degli anni Trenta, lui sì, l’aereo più lussuoso del mondo. Per salirci serviva un anno del salario di un operaio. E a bordo potevi incontrare ricchi industriali, ereditiere, attori, sportivi, insomma il jet set… prima del jet.

Nel 1939 il primo Boeing 314, battezzato Honolulu Clipper, vola da San Francisco a Hong Kong sulle distese del Pacifico Ma raccontiamo la storia con ordine dall’inizio. Siamo nel 1936 e Juan Trippe, il geniale fondatore della compagnia aerea Pan American, capì per primo che sulle distese degli oceani gli aerei avrebbero presto preso il posto delle navi nel trasporto di posta e passeggeri. Serviva però un aereo perfetto e per questo ordinò alla Boeing un gigantesco idrovolante (oltre trenta metri di lunghezza) con un’eccezionale autonomia. Nel 1939 l’aereo delle meraviglie è pronto: il primo Boeing 314, battezzato Honolulu Clipper, vola da San Francisco a Hong Kong sulle distese del Pacifico. Yankee Clipper apre invece la rotta atlantica collegando Southampton a New York, con diversi scali intermedi in Irlanda e Canada. Il soprannome clipper viene da alcuni velieri dell’Ottocento: tante vele e tanta velocità per carichi leggeri ma di valore, il tè e l’oppio per esempio. E in effetti gli idrovolanti per molti aspetti erano simili a grandi navi: personale in divisa bianca e blu (quando

«Il titolo di questo libro riprende un celebre detto di Bernardo di Chiaravalle: “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”. La massima è molto convincente. Ma allora, direte voi, a che serve questo libro? Piuttosto che perdere tempo a leggere, non è meglio incamminarsi per esplorare un bosco? Non è così semplice. La natura ha molto da insegnarci, è vero, ma prima bisogna imparare a capire il suo linguaggio, a ricevere le sue lezioni…».

Yankee Clipper, foto del 1939. (Harris & ewing, photographer)

i piloti di solito indossavano giubbotti di pelle e sciarpe), poltrone disposte come in un salotto e non in file parallele eccetera. La velocità di crociera dei giganteschi Boeing 314 clipper era di circa trecento chilometri all’ora, per questo alcuni voli duravano anche diciassette ore. In compenso, lo spazio a bordo non mancava davvero. I settantaquattro passeggeri avevano a disposizione sette scompartimenti allungati lungo lo scafo dell’idrovolante; e l’ultimo nella coda poteva essere trasformato in una suite per viaggi di nozze. Si pranzava in una sala con veri tavoli, serviti da steward in abito bianco con tovaglie di lino, calici di cristallo e piatti d’argento; in cucina, chef stellati. Nei voli notturni i posti si dimezzavano e le comode poltrone si trasformavano in letti, protetti da tende. Solo i migliori piloti, con una lunga esperienza di volo alle spalle, venivano impiegati su queste rotte. Pilotare un idrovolante di queste dimensioni infatti non era facile. Si navigava a vista a una quota relativamente bassa (tremila metri) orientandosi con le stelle o il profilo della costa, di nuovo come le navi; e po-

teva capitare di perdere ogni riferimento quando la visibilità si riduceva a zero per la foschia o il maltempo. Dopo pochi mesi d’attività lo scoppio della Seconda guerra mondiale chiuse la rotta atlantica; e anche la traversata del Pacifico divenne impraticabile quando alla fine del 1941 il Giappone entrò in guerra, infiammando l’Asia con l’attacco a Pearl Harbor. Il Pacific Clipper fu sorpreso dall’inizio delle ostilità in Nuova Zelanda; per evitare di tornare a Honolulu lungo una rotta controllata dai giapponesi preferì circumnavigare il globo sorvolando Australia, Asia, Africa e Oceano Atlantico, per approdare infine negli Stati Uniti dopo uno straordinario volo di oltre cinquantamila chilometri in sei settimane. È il primo aereo civile ad aver fatto il giro del mondo, oltretutto lungo la rotta equatoriale, la più lunga. L’ufficiale Thomas N. White Sr. aveva sostituito un collega all’ultimo minuto. Prima della partenza chiamò a casa − «Torno presto» – senza immaginare quello che stava per succedere. Durante la Seconda guerra mon-

diale la flotta di idrovolanti fu utilizzata dall’esercito degli Stati Uniti per trasportare truppe o rifornimenti. Nel 1943 il presidente Franklin Delano Roosevelt arrivò alla conferenza di Casablanca, in Marocco, proprio con uno di questi aerei; e al ritorno celebrò a bordo il suo sessantunesimo compleanno. Nel frattempo, la competizione tra le diverse aviazioni – vita o morte − migliorò drammaticamente gli aerei e fu subito chiaro che gli idrovolanti erano ormai superati. Dopo aver diviso il cielo con i dirigibili, furono messi da parte in favore di moderni aerei passeggeri, Douglas DC-4 e Lockheed Constellation, che potevano utilizzare le numerose piste d’atterraggio lasciate in eredità dalla guerra quasi ovunque. I Boeing 314 furono ritirati dal servizio. Nessuno dei dodici aerei costruiti tra il 1938 e il 1941 è giunto sino ai giorni nostri. Il loro ricordo è affidato soltanto a qualche cinegiornale d’epoca, a un modello in scala nel Museo marittimo di Foynes (l’ultimo scalo irlandese prima del grande balzo atlantico) e a un romanzo di Ken Follett, Notte sull’acqua (1991).

Nell’antica Grecia si usava spezzare in due parti una moneta. Ciascuno ne conservava una metà, sapendo che al momento opportuno bastava avvicinarle e controllare che combaciassero per essere certi di riconoscersi. Il caso più frequente era quello di una madre costretta ad abbandonare il suo bambino dopo la nascita, ma con l’intenzione di riprenderlo in tempimigliori. La parola «simbolo» viene da qui, significa «mettere insieme», indica una relazione. E il nostro rapporto con la natura è un ottimo esempio di una relazione perduta, da recuperare. Occorre però imparare nuovamente quello che un tempo sapevamo senza fatica e questo libro è un ottimo inizio. La natura ci parla per simboli, sostiene Francesco Boer: un prato, un fiume, un bosco, uno stagno, un sentiero, una montagna, una spiaggia non sono soltanto luoghi fisici ma spazi dell’anima, rielaborati e fatti nostri attraverso credenze, ideeeleggendestratificateneisecoli. In questi mesi di viaggi per forza di cose vicini, nelle nostre magnifiche valli, ricercare anche una vicinanza spirituale con la natura è il compito più interessante che ci è dato. E le raffinate illustrazioni sparse nei diversi capitoli sono un’ottima anticipazionediquestaesperienza./CV Bibliografia

Francesco Boer, Troverai più nei boschi. Manuale per decifrare i segni e i misteri della natura, Il Saggiatore, 2021, pagg.248, € 19,00.

Pancia tesa e meteorismo

La nutrizionista Oltre al lattosio, esistono altri carboidrati, chiamati con l’acronimo

di FODMAP, che possono causare gonfiori Laura Botticelli Gentile Laura, sono certa di non essere intollerante al lattosio perché ho fatto il test, eppure ho un problema di, come dire, gonfiori di pancia, non mi pare di mangiare pesante, non mangio nemmeno cose tipo fagioli o altre cose che si sa che fanno aria. Quali sono i cibi che «gonfiano la pancia» che potrei eliminare? / Pierina Gentile Pierina, mi dispiace molto per i suoi disturbi e per non aver «risolto» attraverso una risposta positiva del test sull’intolleranza al lattosio; forse non è un male, tuttavia: un pensiero in meno. Le anticipo, infatti, che sono tanti gli alimenti che potrebbero causarle gonfiori. Oltre al lattosio, invero, esistono altri carboidrati, chiamati con l’acronimo di FODMAP (Fermentable, Oligo-, Di-,

Mono-saccharides And Polyols), presenti naturalmente in cibi di consumo quotidiano come frutta, verdura, cereali, legumi e latticini che possono causare gonfiori perché scarsamente assorbiti dall’intestino tenue. Queste sostanze si ritrovano quindi nell’intestino crasso, richiamano acqua e vengono fermentate dai batteri che, lì, ci vivono. Il risultato? Gonfiore addominale ma anche dolore, feci alternate tra molli e dure, borborigmi, meteorismo e via elencando. Purtroppo, non esistono ancora test per scoprirli e si deve quindi procedere alla «vecchia» maniera con diete di eliminazione. Per essere più precisa, la dieta FODMAP prevede tre fasi: la prima è quella di eliminazione, dove si tolgono la maggior parte degli alimenti che contengono queste sostanze per un periodo di durata variabile, minimo due settimane

fino a due mesi, con lo scopo di far passare la sintomatologia. La seconda fase è quella della reintroduzione, con lo scopo di capire quali alimenti scatenano i disturbi. Si potranno quindi consumare di nuovo gli alimenti inizialmente eliminati dalla nostra dieta, ma solo uno alla volta, distanziandoli di almeno tre giorni l’uno dall’altro. Se non compare il sintomo dopo aver ingerito il cibo, vien da sé che lo si può considerare sicuro, se invece torna è meglio limitarlo o evitarlo. Questa fase è più impegnativa e la durata varia veramente da persona a persona. Infine, la terza fase sarà quella in cui si cercherà di trovare un equilibrio alimentare tra i cibi «innocui» per il suo intestino e quelli che invece le hanno dato fastidio. Sarà un gioco anche di frequenze e quantità personalizzate. Come avrà intuito, non posso quin-

di dare una risposta alla sua precisa situazione, dovrei stilare una lunghissima lista di alimenti singoli tipo cipolla, aglio, mela, fichi, latte, pasta e molti altri, ma non avrebbe senso. Con questo articolo, spero comunque di essere riuscita a spiegare a grandi linee la teoria e come potrebbe essere indicato muoversi rivolgendosi a uno specialista. La dieta FODMAP è stata ideata, elaborata e inizialmente applicata grazie ad alcuni ricercatori dell’Università Monash a Melbourne (Australia); basandomi sulla mia esperienza le posso assicurare che la gran parte dei pazienti che ho seguito ha ritrovato il benessere perso. Poiché si tratta di un percorso complesso e gli alimenti potenzialmente «nocivi» sarebbero molti, sconsiglio in ogni caso il «fai da te», anzi le suggerisco di prendere dal vivo un appuntamento

con una Dietista che la saprà aiutare al meglio a trovare il suo percorso e la sua alimentazione personalizzata «intestino friendly». Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


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Ambiente e Benessere

Quali e quanti maggiolini?

PRO SENECTUTE

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Entomologia Flagello per secoli, diventano sempre più rari

Novità Alessandro Focarile

Ripresa attività di movimento all’aperto A partire dal mese di marzo riprendono alcuni gruppi di movimento all’aperto: ginnastica, walking e nordic walking, nel rispetto delle nuove regole emanate dal Consiglio Federale lo scorso 24.02.2021. Per informazioni sui gruppi sul territorio, telefonare allo 091 912 17 17. Pro Senectute sostiene la strategia di vaccinazione della Confederazione e dei Cantoni, finalizzata a ridurre il numero di decessi e il numero di nuovi contagi e invita tutte le persone «over 75» ad annunciarsi per il vaccino. Ricordiamo tuttavia come sia essenziale continuare a rispettare tutte le misure accresciute di igiene e protezione. Occorre agire insieme e con responsabilità per il bene comune.

Attività e prestazioni – Servizio di aiuto alla spesa È stato riattivato il servizio di aiuto alla spesa. In questa seconda ondata, esso è a disposizione unicamente di persone anziane in difficoltà che non possono contare su nessun aiuto esterno e si avvale del supporto prezioso da parte di volontari. Maggiori informazioni sul nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Pasti a domicilio Durante la crisi sanitaria i beneficiari del servizio sono aumentati notevolmente. Possono richiedere un pasto a domicilio le persone in età AVS o AI e le persone in malattia con certificato medico. Maggiori informazioni sul nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Gambe forti per camminare sicuri Pro Senectute con il team di formatori di Gambe forti per camminare sicuri raccomanda a tutte le persone di fare movimento in maniera regolare anche in questo periodo in cui le strutture sportive e i corsi sono sospesi. Muoversi almeno mezz’ora al giorno è importante per il benessere fisico e psichico in questo delicato periodo. È possibile richiedere l’opuscolo «I vostri esercizi per tutti i giorni» all’Associazione PIPA (pipa@ticino.com o Tel. 079 357 31 24) – Volontariato Cerchiamo sempre volontari per i diversi ambiti della nostra Fondazione, in particolare cerchiamo persone disponibili per il servizio fiduciario in particolare nel Mendrisiotto.

Contatto: Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

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II mese di maggio è il simbolo del risveglio primaverile e della rifiorente bellezza. Dante cantava: «L’aura di maggio movesi ed olezza». In questo mese si tiene il calendimaggio, la festa popolare che si tramanda nella tradizione toscana. Maggio deriva dal latino Maius dedicato a Maia, figura della mitologia greca, e dea della fertilità nel culto romano. E maggio è comunemente considerato anche il mese dei maggiolini, se cade l’annata giusta per la loro comparsa. In realtà, le cose sono un po’ più complicate, in quanto il maggiolino più noto (la melolontha) compare da aprile a giugno. Inoltre, non esiste un solo maggiolino, ma ne conosciamo diverse specie e di differenti dimensioni. Sono coleotteri appartenenti alla famiglia degli scarabeidi, la stessa che annovera il famoso scarabeo sacro degli antichi Egizi. E le poche specie europee sono ben poca cosa se confrontate alle parecchie decine note dall’Asia temperata al Mediterraneo. Melolontha melolontha è il nome scientifico della specie più comune, descritta da Linneo fin dal 1758. Melolontha hippocastani, il suo prossimo parente. Si tratta di coleotteri lunghi circa 2,5 centimetri che, da adulti, divorano le foglie di molti alberi, soprattutto fruttiferi, e allo stadio larvale si accaniscono subdolamente (in quanto non si vedono all’opera) sulle radici degli stessi. Il ciclo di sviluppo delle due melolonthe è molto lungo: 3-4 anni per la prima specie, 4-5 anni per quella dell’ippocastano. Da questa caratteristica biologica derivano le comparse massicce, le cosiddette «annate di maggiolini». Ma questo ciclo, abbastanza regolare, e documentato da vecchia data (nel canton Berna fin dal 1693, e in quello di Uri dal 1664), da qualche decennio è diventato un fenomeno episodico e sporadico, privo di quel clamore quantitativo qual era in passato. Il fenomeno, almeno da noi, era stato già evidenziato da Pietro Fontana, il ben noto e benemerito entomologo dilettante di Castel San Pietro. Egli così scriveva nel 1947: «Dal rigido inverno 1929 si ruppe il ciclo del suo sviluppo. Degli esemplari morirono gelati, altri ritardarono la loro comparsa, in maniera che a Chiasso non c’è stata né regolarità, né abbondanza. Nel 1944 ebbi solo sette maggiolini. Il 18 aprile 46, ultima apparizione. Volavano pochi esemplari intorno alle lampade elettriche. Ma a Bellinzona, invece, il viale che dalla stazione va al ponte di Montecarasso era letteralmente cosparso di maggiolini schiacciati, e le piante dei viali avevano tutte le foglie rosicchiate!». A dimostrazione (come attualmente) che le comparse massicce si sviluppano a macchia di leopardo, senza continuità. L’adulto delle due specie di maggiolini rode completamente le foglie, lasciando solo le loro nervature, e l’albero assume un desolante aspetto scheletrico. Originariamente, la dieta dei due maggiolini doveva essere erbivora, ma successivamente e in epoca storica (quindi documentata), per cause a noi sconosciute, questi insetti hanno trovato più prelibate le foglie di molti alberi, specialmente quelli da frutto, con una particolare simpatia per il noce. Quest’albero, in passato, costituiva una preziosa fonte per la produzione dell’olio, unico grasso liquido disponibile per l’illuminazione. E la produzione dell’olio era condizionata dalle periodiche pullulazioni dei maggiolini. Un po’ dovunque nelle regioni alpine e prealpine esistevano dei frantoi. Tra l’altro, l’olio di noce costituiva una par-

Le due melolonta: a sin. melolontha, a destra hippocastani. (Alessandro Focarile)

Amphimallon solstitialis. (Frank vassen)

te pregiata della decima dovuta al clero. Narrano le cronache che i montanari valdostani della Valpelline e della Valtournenche avevano l’obbligo di fornire ogni anno al Vescovo di Sion (nel Vallese) un litro d’olio e due pernici. La decima era solennemente trasportata attraverso perigliosi colli alto-alpini, oltre i 3000 metri. In seguito, dopo il 1600, l’avanzata dei ghiacciai rese intransitabili questi itinerari, e i bravi valdostani implorarono il Vescovo di essere esonerati dalla consegna dell’obolo, e da allora il prezioso olio di noce rimase in valle, maggiolini permettendo. Al pari delle cavallette, nei secoli passati, il maggiolino costituiva alle nostre latitudini un vero flagello, e comprometteva periodicamente e seriamente certi raccolti essenziali per l’economia di sussistenza dell’epoca. In simili frangenti, si implorava l’intervento di una Potenza superiore. È documentato, per esempio, che un Vescovo francese, giunse a maledire i maggiolini, con un rito di stampo esorcistico. Ed è pure documentato che, nel 1644, l’intero Capitolo della Cattedrale di Aosta si recò in processione solenne fino alla Valdigne (20 km!), implorando la benevolenza divina perché facesse cessare il flagello. I maggiolini, dunque, erano in grado di condizionare l’esistenza di intere popolazioni che non nuotavano nell’abbondanza. Uccidi il tuo nemico e… mangialo. Narra Antonio Villa, ben noto entomologo milanese della metà dell’800 (dunque contemporaneo di Carlo Cattaneo) che i «villani» dell’agro milanese gustavano gli addomi dei maggiolini, estremamente ricchi di grassi, proteine, ferro e fosforo, come si poté appurare con le analisi, eseguite all’uopo, nel 1913. La notorietà di questi insetti era tale e così diffusa nel popolo contadino, da giustificare una vivace e singolare ricchezza di denominazioni dialettali. Il termine italiano «maggiolino» è comparso nella lingua ufficiale molto recentemente, e i vocabolari lo registrano solo a partire dall’800. Per contro, con quanti nomi di insolita e arcaica assonanza l’insetto è conosciuto nelle regioni della Padania e del Ticino. Nel Bresciano «pampògnola, pampogna». Nel Comasco e nel Mendrisiotto «garzela, sgarzela». A Biasca «bou dri nosc» (cioè insetto dei noci). In Piemonte

(Ghiliani, 1886: […] «in certi anni nel nostro paese, danneggia in modo lacrimevole varie specie di alberi, ed altre piante fruttifere».), «givo, bertìcola, baricela, coquara, quaqquara». In Val d’Aosta «cucurui, cocoé, tampanéle». Oltre ai due maggiolini, abitano le nostre contrade il maggiolino del pino e i due maggiolini minori. Il primo (Polyphylla fullo) è un bellissimo e corpulento coleottero, a livree marmoreggiate, i cui maschi portano sette enormi lamelle antennali. È lungo quasi 4 centimetri. L’adulto, ottimo volatore, può essere convogliato dalle correnti ascensionali e trasportato molto in alto, essendo stato raccolto sui nevai della Gazzirola, e sulla vedretta del Pizzo Ligoncio, a 3000 metri nelle Alpi Retiche Valtellinesi. Sporadico sulle gemme di pino a basse quote, la larva sta sulle radici. I due maggiolini minori (Amphimallon assimile, e A. solstitiale) sono molto comuni tra maggio e luglio nei prati fino a 1700 metri, e svolazzano all’imbrunire. Dove sono finiti i due maggiolini più noti, i «vachitt» e le «sgarzéle», che i ragazzi di un tempo non troppo lontano si divertivano a infilare nel collo delle ragazzine, oppure con un filo sottile ne guidavano il volo ronzante e stizzito? Indubbiamente, le moderne pratiche agricole, la lavorazione profonda del terreno, l’impianto delle serre, l’uso dei fitofarmaci, la diminuzione delle aree allo stato naturale in pianura, sono stati tutti fattori che hanno contribuito, in pochi decenni, al rarefarsi e alla scomparsa dei maggiolini, insetti che hanno accompagnato per lunghi secoli la vita di chi ci ha preceduto. Forse, un altro tassello sta venendo a mancare nel mosaico dell’attuale biodiversità. Bibliografia

Viktor Allenspach, Insecta Helvetica: Scarabaeidae, Lucanidae. (Lausanne, 1970, 186 pagine). Guido Grandi, Introduzione allo studio dell’Entomologia (Bologna, 1951, 43 pagine). Giuseppe Della Beffa, Gli Insetti dannosi all’agricoltura Hoepli (Milano, 1961, 978 pagine). Novak V., Hrozinka F., Stary B., Atlante degli Insetti di interesse forestale (Pra-ha,1974). In Ceco.


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Ambiente e Benessere

Com’è profondo il mare

Sostenibilità – Acqua Dal 1. gennaio si è aperto il «Decennio delle Scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile

2021-2030», indetto dalle Nazioni Unite. Perché una Giornata Mondiale degli Oceani non basta più

Amanda Ronzoni, testo e foto «Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna» così scrive Ernest Hemingway nel suo celebre Il vecchio e il mare. Occupa due terzi della superficie del nostro pianeta. Da lui (o da lei), dalla sua biodiversità e dagli ecosistemi marini e costieri dipende la vita di circa tre miliardi di persone. Il mare, i mari svolgono un ruolo essenziale in un’ampia gamma di attività economiche umane: forniscono cibo, ma anche combustibili fossili, come petrolio e gas, sono arterie di trasporto che convogliano merci ed energia, ma anche un punto di attrazione fondamentale per il turismo. Eppure, conosciamo meglio la superficie lunare di quello che si nasconde nei fondali del nostro pianeta. Nel 2006, appena il 6% dei fondali era mappato precisamente, oggi siamo al 19%, grazie al progetto Seabed 2030 (seabed2030.org), lanciato dalla giapponese Nippon Foundation (www. nippon-foundation.or.jp/en) e da General Bathymetric Chart of the Oceans (GEBCO – www.gebco.net). L’obiettivo di Seabed 2030 è raggruppare, in crowdsourcing, in un unico database tutti i dati batimetrici a oggi disponibili, per produrre una mappa mondiale dei fondali marini entro il 2030. Il progetto, lanciato nel 2017 dalla Ocean Conference delle Nazioni Unite, è in linea con il #17esimo Obiettivo dell’Agenda 2030* per lo sviluppo sostenibile, che si propone di conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine. Con la Ocean Decade (www.oceandecade.org) indetta dalle Nazioni Unite per il decennio 2021-2030, inoltre, il mondo della ricerca mondiale è chiamato a raccolta per definire una leadership con solide e condivise basi scientifiche per la gestione e la salvaguardia del mare. La salute, la sicu-

rezza e il benessere dell’uomo dipendono dalla salute e dalla conoscenza del mondo sommerso nel suo insieme. Abbiamo bisogno di conoscerlo meglio per imparare a proteggerlo in modo efficace e sostenibile. Jules Verne, nel suo Ventimila leghe sotto i mari, fa esclamare al capitano Nemo: «Il mare è il grande serbatoio della natura, è dal mare che il globo è, per così dire, incominciato, e chissà che non finisca in lui». E serbatoio è una parola chiave anche prendendo in considerazione l’oceano in relazione alla sua

capacità di «sequestrare» anidride carbonica (in un anno circa un quarto di quella prodotta in totale), con gli effetti che ben conosciamo sull’atmosfera e le temperature. L’aumento delle emissioni di CO2 dovuto alle attività antropiche sta però mettendo in stress il sistema alterandone la chimica e generando il fenomeno dell’acidificazione degli oceani. Si innesca così un circolo pericolosamente negativo: più CO2 nell’acqua significa oceani più caldi, che prima o poi smettono di sequestrare anidride carbonica,

anzi ne rilasceranno a loro volta, accelerando gli effetti del riscaldamento globale. I cambiamenti climatici stanno creando problemi oggettivi in molte aree del pianeta, ma in alcuni luoghi, come nell’Artico, generano anche nuove opportunità finora precluse da condizioni ambientali difficili (si veda il report del IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, www.ipcc.ch). Con i ghiacci che si ritirano, la regione artica intravede una possibilità di crescita dovuta a un maggior traffico navale, a un incremento del turismo, allo sviluppo del settore minerario e della pesca. È cruciale gestire con attenzione e lungimiranza queste opportunità affinché si possa governare il cambiamento in ottica di adattamento, salvaguardia dell’ambiente e rispetto delle popolazioni locali. La chiave della sostenibilità, se supportata da solide basi fondate su conoscenza scientifica, ricerca, innovazione e cooperazione internazionale, sposta l’asse dalla Green Economy alla Blue Economy. La sfida è quella di diminuire la pressione delle attività antropiche più impattanti sul mare per portare le blue technologies (innovazioni sostenibili e basate su una gestione circolare delle risorse) nell’economia dell’oceano: controllo delle industrie marittime, riduzione degli inquinanti, utilizzo di nuovi materiali e di energie rinnovabili, nuove applicazioni nel settore delle nano – e biotecnologie, ma anche recupero dei saperi tradizionali delle popolazioni locali. La Svizzera, pur essendo una nazione priva di sbocchi diretti sul mare, ha un’intensa attività marinara: ha un suo Ufficio della navigazione marittima (USNM – www. eda.admin.ch/smno/it/home.html) ed è la seconda potenza a livello mondiale per il trasporto di merci via nave, grazie alla presenza di alcuni colossi del settore. La sua attenzione per gli oceani, a livello di ricerca scientifica e di regolamentazione, non può essere da meno

rispetto a quella dei paesi rivieraschi. E proprio quello della navigazione e del trasporto navale è un settore in forte evoluzione e cambiamento, che si tratti di navi mercantili, da pesca o da crociera: nuove rotte cambiano gli assetti economici e geopolitici; la presenza di navi di grandi dimensioni comporta l’adeguamento delle infrastrutture portuali; carichi pericolosi possono, in caso di incidente, creare danni all’ambiente; la pesca intensiva genera un crollo negli stock ittici mondiali. Fino ad ora ci siamo spostati su questa immensa tavola blu, senza preoccuparci degli effetti della nostra presenza, come se fosse un’entità infinita, impassibile, insensibile alle nostre attività, sorda ai rumori. Eppure, ricordo chiaramente che da piccola sentivo gli adulti ripetere spesso: non si butta nulla in mare, perché, prima o poi, il mare te lo restituirà. «Frattanto i pesci / Dai quali discendiamo tutti / Assistettero curiosi / Al dramma collettivo di questo mondo / Che a loro indubbiamente doveva sembrar cattivo / E cominciarono a pensare / Nel loro grande mare / […] / Certo, chi comanda / Non è disposto a fare distinzioni poetiche / Il pensiero come l’oceano / Non lo puoi bloccare / Non lo puoi recintare / Così stanno bruciando il mare / Così stanno uccidendo il mare / Così stanno umiliando il mare / Così stanno piegando il mare» per prendere in prestito le parole di Lucio Dalla, della sua bella canzone Com’è profondo il mare. Speriamo di no. Anzi, facciamo in modo che non succeda. Informazioni

*#17esimo Obiettivo dell’Agenda 2030: ww.eda.admin.ch/agenda2030/ it/home/agenda-2030/die-17-zielefuer-eine-nachhaltige-entwicklung/ ziel-14-ozeane-meere-und-meeresressourcen-im-sinne-nachhaltige.html Sul tema dell’acqua vedasi anche l’articolo di Fabio Dozio a pagina 33.


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Idee e acquisti per la settimana

Aglio orsino da sgranocchiare

Farm Chips Aglio Orsino 150 g Fr. 3.20 Nelle maggiori filiali

Le aromatiche Farm Chips all’aglio orsino sono tornate sugli scaffali della Migros. Questa erba primaverile viene raccolta a mano. Come le patate utilizzate per le Farm Chips, anch’essa proviene dalla Svizzera. Le patate vengono lavorate con la buccia e tagliate un po’ più spesse – ciò che permette di ottenere delle chips particolarmente croccanti. Le Farm Chips all’aglio orsino sono disponibili soltanto per un breve periodo.


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Ambiente e Benessere

Uno spezzatino Salmone alla limetta d’agnello con purea speciale agli spinaci

Migusto La ricetta della settimana

Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 800 1 mazzetto g di spezzatino di prezzemolo d’agnello, · 2 spicchi ad esempio d’aglio spalla · 2 limette · sale · ·pepe 1 c di · 2zucchero cucchiai d’olio brunodi· colza 4 c diHOLL burro · 4qbspicchi di saled’aglio dell’Himalaya, · 2 cipolle grosse dal mulino · 8 pomodori · 1 c di pepe secchirosa sott’olio · 800 g· ½ di filetto cucchiaio di salmone di farina con· 4ladlpelle, di brodo al trancio di manzo · 1,2 kg· 50 di patate g di olive farinose nere ·snocciolate sale · 150 g· di 4 fette spinaci di prosciutto per insalata crudo · 2 dl· 2dicipollotti panna. · 1 limone.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Scaldate Condite illaforno carnea con 170 °C. saleTritate e pepeseparatamente e rosolatela bene il prezzemolo nell’olio ine l’aglio. una padella. Grattugiate Dimezzate finemente l’aglio,latritate scorza grossolanamente delle limette, poilespremetele. cipolle. Aggiungete aglio, cipolle e 2. pomodori Scaldatealla il succo carne, e laspolverizzate scorza con l’aglio, con lalofarina zucchero e bagnate e il burro, con il finché brodo. lo zuccheMettete ro il coperchio non si è sciolto. e stufate Unite a fuoco il pepe medio-basso e il prezzemolo per circa e mescolate 50 minuti. il tutto. Lasciate Condite il copercon il chio saleleggermente dell’Himalaya. aperto per permettere al vapore di fuoriuscire dalla padella, in 3. modo Sciacquate che il liquido il salmone si riduca. con acqua fredda e asciugatelo tamponandolo con carta da 2. Tagliate cucina. Adagiate le olive e il i cipollotti salmone su a rondelle una teglia sottili, foderata il prosciutto con cartaa da dadini. forno.Ricavate Distribuite delle listarelle sul salmone dallalascorza massadel alle limone. limette Mescolate e alle erbe. tutto. Coprite il salmone con un foglio 3. Spremete di carta la metà da forno del limone. e sigillate Condite bordi.loQuindi spezzatino cuocete con al il succo centrodidel limone, forno sale per circa e pepe30e minuti. distribuite la gramolata sulla carne. 4. Nel frattempo, tagliate le patate a dadi di circa 2 cm e lessatele in acqua salaUnScolate piatto gustoso che può essere accompagnato pastacon o semplicemente con ta. e fate svaporare. Riducete in purea glicon spinaci la panna. Unite il fette di pane. composto alle patate, mescolate bene con la frusta e salate. Sfornate il salmone e spezzettatelo grossolanamente. Sistemate nei piatti assieme alla purea agli spiPreparazione: naci e servite. circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati, 520 kcal/2150 kJ. Preparazione: circa 45 minuti. Per persona: circa 49 g di proteine, 54 g di grassi, 57 g di carboidrati, 940 kcal/ 3900 kJ.

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Ambiente e Benessere

La Super League è un frenetico toboga che provoca capogiri

Sport E se dopo alcuni decenni si decidesse di modificare la formula dei nostri campionati di calcio?

Giancarlo Dionisio Alla pausa invernale, il FC Lugano era su, in alto. Flirtava con i vertici della classifica. Qualcuno sognava in grande. Al rientro, i bianconeri hanno cominciato a balbettare. Non hanno perso molte partite, ma fanno fatica a vincerne. Stanno scivolando sempre più giù. Dopo la stangata contro il Losanna, il limbo si è avvicinato. Ma la squadra di Maurizio Jacobacci si è rialzata. Ha vinto a Sion, ed è tornata a respirare aria d’Europa. Dopo la sconfitta casalinga contro lo Zurigo, gli scenari sono tornati ad avere contorni un po’ più apocalittici. Ma la vittoria a Vaduz ha riscaldato il cuore a Società, giocatori e tifosi. Dalle stelle alle stalle, il passo è breve. Oppure per dirla più elegantemente col Manzoni «Due volte nella polvere, due volte sull’altar». Ma i bianconeri non sono Napoleone Bonaparte. Hanno, sì, dei sostenitori, ma non un esercito quasi invincibile. Devono lottare giorno dopo giorno per evitare di precipitare nel purgatorio della Challenge League. In questo continuo ed altalenante su e giù sono tuttavia coinvolte tutte le squadre, ad eccezione dello Young Boys, che tre anni or sono ha aperto un ciclo vincente, e pare non avere alcuna intenzione di spezzarlo. Se nel ciclismo, come diceva Alfredo Binda, per vincere «ghe vören i garun», nel calcio è indispensabile la vil pecunia, «i danée». In Svizzera, dopo l’era Grasshopper (27 titoli nazionali), figlia della Zurigo industriale e finanziaria, c’è stata

quella del Basilea targata Gigi Oehri / Hoffmann-La Roche. (20 trionfi, 12 dei quali nel terzo millennio). La storia dello Young Boys ha cambiato rotta quando, pochi anni fa, ci aveva messo le mani il compianto miliardario Andy Rihs, proprietario di Phonak Hearing System. L’ultimo trionfo non appartenente all’asse Zurigo-Basilea-Berna risale alla stagione 1999-2000, al termine della quale fu il San Gallo a imporsi. Nel calcio di oggi, un simile miracolo è poco probabile. Da quando le Coppe europee, Champions League in primis, sono diventate iper-lucrative, i grandi club possono alimentare a dismisura la loro ricchezza e la loro potenza. Vincono in Svizzera, vendono all’estero i loro migliori giocatori, ottengono denaro dall’Uefa, lo reinvestono per continuare a vincere in Svizzera. Da alcuni anni assistiamo a un campionato a due velocità. Con una o due squadre che hanno i mezzi per vincere, e tutte le altre a lottare nella striscia sempre più stretta e compressa che separa l’Europa League e la retrocessione. Ovviamente neppure il Lugano si sottrae a questa logica. Come si diceva sopra, bastano due partite storte a trasformare il sogno in incubo. Non credo che tale situazione sia da imputare alla capacità o alle presunte incompetenze dell’allenatore. È così, non si scappa. Era capitato con Zeman, Tami, Celestini e con altri. Capiterebbe, pur non avendone le prove, con un eventuale avvicendamento sulla panchina. E questo anche se la dirigenza sta facendo tutto quanto è nelle sue possibilità.

Di più non si può fare. La Serie A, o Super League a dieci squadre è un campo di battaglia. La squadra della Capitale passeggia verso il titolo. Le altre si scannano per l’Europa, ma soprattutto per evitare la retrocessione. Sempre al fronte. Sempre con l’acqua alla gola. È una formula assurda, se pensiamo che in Challenge League ci sono club che a lungo hanno militato nella massima categoria. Persino il Grasshopper. Aumentare il numero delle partecipanti da 10 a 14-16, non risolverebbe la schizofrenia finanziaria del nostro calcio, ma allungherebbe la classifica, e consentirebbe a un numero maggiore di società, una pianificazione più serena e tranquilla sull’arco di 4-5 stagioni. Magari, i cosiddetti club minori, invece di racimolare 20 o 30 giocatori provenienti dai cinque continenti, sarebbero maggiormente stimolati a investire nei settori giovanili. Questo già lo si fa, ma poi non si riesce a capire perché il salto dal vivaio alla prima squadra sia così complicato, e vengano di conseguenza assoldati giovani provenienti da altri paesi. Non credo all’antico stereotipo secondo il quale gli «altri» hanno più fame. Così come mi rifiuto di pensare che i «nostri» siano tecnicamente più scarsi. È soprattutto una questione di inquietudine, di impazienza, di fregola, di necessità di vincere subito, dovuta a una formula, secondo me superata, che rischia di compromettere quanto di buono si è fatto e si sta facendo in Svizzera sul piano della formazione.

Reto Ziegler, è uno degli ultimi innesti internazionali a Cornaredo. (Fc Lugano)

Sono giunti degli innesti. Sì, ma a Cornaredo è approdato, ad esempio, Reto Ziegler, buon calciatore di caratura internazionale, proiettato tuttavia verso la parabola conclusiva della carriera. È giunto anche Asumah Abubakar. L’attaccante di origini ghanesi è stato

salutato come il bomber che avrebbe risolto i perduranti problemi di sterilità offensiva. Ma, con rispetto, ci si è dimenticati che la nuova punta, qualche rete l’aveva segnata con la maglia del Kriens, squadra che naviga nelle parti basse della Challenge League.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba I nostri occhi regolano costantemente la vista a seconda della distanza degli oggetti e per ottenere una buona visione il cristallino cambia la sua curvatura … Completa la frase, leggendo a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 5, 9, 5, 2, 6)

ORIZZONTALI 1.Massimo ... a Roma 6. Si cambiano in auto 11. Il famoso Zero 13. Ha chicchi gialli 14. Lo lascia la macchia 16. Prefisso di molti cognomi scozzesi 17. A fin di bene... 19. Pronome personale 21. Isole dette anche Lipari 23. Le fiutano i segugi 25. Sua Altezza 27. Lemano a Ginevra 29. Era sul trono iraniano 31. LeinizialidellaconduttriceD’Amico 32. Lo scrittore Umberto 33. Brillavano nei forzieri 34. Ci... seguono in cucina 35. L’hello italiano VERTICALI 1. Materiale per pennelli 2. Scritte senza consonanti 3. Trasporta informazioni genetiche 4. Lo sono Bruce Willis e Billy Zane 5. Il gigante figlio di Poseidone 7. Iniziali della cancelliera tedesca 8. Nome femminile 9. A est della Francia... 10. Un inganno mimetizzato 12. Un quinto di five 15. Si distingue all’alba 18. Due vocali 20. Vasto ambiente 22. Cibo a Berlino 24. Fuga di Maometto dalla Mecca a Medina 26. L’aspirano i tedeschi 28. Non si deve nutrire... 30. Satellite di Giove 33. Due del 21 Orizzontale

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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CREARE SAPORI – La foto ritrae un incrocio tra: MANDARINO E POMPELMO Il suo nome è: MAPO.

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Politica e Economia «Mentalità da cambiare» Il Regno unito si mobilita dopo l’omicidio di Sarah Everard e arrivano le prime proposte

Una Libia finalmente unita? Ritratto di Abdul Hamid Dbeibah, l’uomo d’affari alla guida del nuovo Governo ad interim sostenuto dall’Onu pagina 29

Acqua, bene conteso Le spinte per privatizzare l’erogazione dell’acqua potabile contrastate da quelle per mantenerla in mano pubblica pagina 33

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Il grande esperimento americano

Prospettive La manovra da 1900 miliardi

Federico Rampini È cominciato un altro grande esperimento americano, una di quelle avventure che avvengono periodicamente nella storia di questa Nazione. È un po’ nascosto fra le notizie – positive pure quelle – sulla campagna vaccinazioni che procede a grandi passi. Mi riferisco alla gigantesca manovra di spesa pubblica che Joe Biden è riuscito a fare approvare dal Congresso. Ce n’era stata una perfino superiore un anno fa sotto Donald Trump (2200 miliardi) e contribuì a evitare un crollo nel reddito delle famiglie. Ma il bello della manovra Biden è questo «piccolo sporco segreto»: non era più necessaria. Proprio perché Trump e il Congresso – democratici inclusi – l’anno scorso avevano varato più sostegni ai cittadini e alle imprese di qualsiasi altro Paese al mondo, il trauma sociale della crisi è stato attutito. I redditi delle famiglie sono perfino aumentati. Per carità, oltre mezzo milione di americani hanno perso la vita e dieci milioni hanno temporaneamente perso il lavoro, una tragedia incancellabile. Ma poteva andare molto peggio. Le previsioni formulate nel 2020 dipingevano un quadro più catastrofico. Biden cominciò a parlare della manovra da 1900 miliardi di aiuti quando eravamo ancora in recessione e molti datori di lavoro licenziavano. È entrato alla Casa Bianca che tutto era cambiato: Trump gli aveva lasciato in eredità delle scelte azzeccate sui vaccini Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson; più un’economia già in forte ripresa e l’occupazione in risalita. Biden è stato abile, ha cambiato in corsa l’obiettivo della spesa pubblica. Non più necessaria per tamponare una voragine di perdite da lockdown, lui l’ha ripensata con un obiettivo nuovo: un vasto programma di lotta alla povertà e di riduzione delle diseguaglianze. Così la sua prima legge di bilancio è diventata un massiccio trasferimento dalle tasse dei ricchi ai conti correnti del ceto medio. Poiché i soldi arrivano ai tre quarti degli americani, il ri-bilanciamento non riguarda solo i poveri. Dopo quarant’anni di dilatazione

delle diseguaglianze, in cui il famoso «un per cento» volava nella stratosfera dell’opulenza e la maggioranza rimaneva ferma o scivolava in giù, comincia un tentativo energico d’invertire la tendenza. Non è la prima volta che l’America intraprende grandi esperimenti sociali. Ebbe il «New Deal» di Franklin Roosevelt durante la Depressione degli anni Trenta; la «Great Society» di Lyndon Johnson negli anni Sessanta per curare la miseria e le piaghe sociali del razzismo. Non tutti quegli esperimenti ebbero il successo sperato. La critica dei liberali e conservatori va considerata: c’è sempre il rischio che i programmi di spesa pubblica alimentino una burocrazia ipertrofica e creino una cultura della dipendenza, dell’assistenzialismo. Biden in questo inizio di presidenza ha sfoderato pragmatismo, nel valorizzare il ruolo dell’impresa privata e del libero mercato. Al posto suo un politico di sinistra allevato in qualche Nazione europea avrebbe contestato gli accordi firmati da Trump con Big Pharma. Invece Biden ha preso atto che il mestiere di produrre tanti vaccini in poco tempo è una capacità degli industriali, non dei burocrati. Nelle sfide che quest’America affronta, riappare la gara con la Cina. Biden vuole dimostrare che fra le previsioni sbagliate del 2020 c’era anche quella sull’impotenza delle democrazie. Il mondo intero sta prendendo le misure di una ripartenza americana più rapida e più vigorosa del previsto: le conseguenze sono globali. Per la maggior parte sono positive, ma non manca qualche rischio. Una spesa pubblica aggiuntiva pari all’8,5% del Pil nella più ricca economia mondiale non passa inosservata: ha un effetto «spillover», cioè una parte della domanda aggiuntiva che genera «fuoriesce» letteralmente, si trasforma in importazioni e quindi fa bene al resto del mondo. Si stima che la manovra Biden, insieme all’effetto della campagna vaccinazioni sempre più rapida (ormai 20% della popolazione immunizzata) aggiungerà un punto percentuale al Pil dell’intero pianeta nel 2021. Grazie alle manovre di spesa precedenti, quelle varate nel 2020 sotto l’Amministrazione

Shutterstock

di Joe Biden è un piano ambizioso per cambiare la ridistribuzione dei redditi. Insieme alla rapida campagna di vaccinazione, aggiungerà un punto percentuale al Pil del pianeta nel 2021

Trump, a fronte di una perdita di redditi pari a 490 miliardi di dollari, le famiglie americane avevano ricevuto trasferimenti pubblici per 1300 miliardi. C’era stata quindi una sovra-compensazione del danno e paradossalmente molti americani si sono scoperti un po’ più ricchi per effetto della pandemia. A questo ora viene ad aggiungersi un pacchetto di aiuti da 1900 miliardi che è prevalentemente indirizzato agli individui (una parte minore va agli enti locali, alla scuola e alla sanità). Si calcola che alla fine di marzo le famiglie americane avranno accumulato 2100 miliardi di risparmi. Questa è la ragione per cui i repubblicani – più qualche autorevole economista democratico – hanno considerato eccessivo il «deficit spending» di Biden. La critica è fondata solo se si continua a considerarla una

spesa pubblica in funzione anti-crisi, il classico intervento keynesiano anticiclico. Ma come ho spiegato siamo di fronte a un piano ambizioso per cambiare la distribuzione dei redditi. L’impatto redistributivo potrebbe risultare potenziato se i democratici riusciranno ad aggiungere a questa legge di bilancio delle riforme successive come l’aumento del salario minimo legale e il rafforzamento dei diritti sindacali. Tutte cose che sono nei loro programmi, anche se le maggioranze risicate di cui godono alla Camera e al Senato rendono tutt’altro che scontata l’approvazione della totalità del pacchetto. L’altro pezzo forte dell’agenda di Governo è il piano d’investimenti pubblici da 2000 miliardi, tra grandi opere per ammodernare le infrastrutture, ed energie rinnovabili per la lotta alla

crisi ambientale. È interessante notare che questi piani, pur essendo sostenuti dall’ala sinistra del partito democratico, non dispiacciono all’establishment capitalistico che appoggia Biden. Vedi la campagna pubblicitaria di Amazon in favore del salario minimo a 15 dollari: mentre per le piccole imprese un raddoppio del costo del lavoro può essere un duro colpo, i colossi possono vederlo come un modo per accelerare lo sfoltimento della concorrenza. Anche ai tempi di Franklin Roosevelt si crearono delle intese fra grande industria, Governo e sindacato, a scapito delle forme di capitalismo meno competitive e più arretrate. Un blocco sociale che guidò l’economia americana fino ai tempi di Richard Nixon, passando per le presidenze democratiche di Kennedy e Johnson.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Politica e Economia

Contro chi attacca le donne

Regno unito L’omicidio di Sarah Everard scatena un’ondata di proteste e manifestazioni che ambisce a cambiare

la percezione e la risposta nei confronti della violenza di genere. C’è chi ripropone un coprifuoco per gli uomini Cristina Marconi Tira una certa aria di rivoluzione nel Regno Unito. In un Paese ancora intorpidito dal lungo lockdown, l’omicidio della trentatreenne Sarah Everard per mano di un poliziotto addetto alla protezione diplomatica ha scatenato un’ondata di proteste e manifestazioni, molto trasversali, che ambisce a cambiare una volta per tutte la percezione e la risposta nei confronti della violenza sulle donne. Nonché la condizione di sicurezza generale di una parte della popolazione che non vuole più sentirsi minacciata quando cammina per strada o fa cose normali. Da quando, la sera del 3 marzo, Everard è scomparsa sulla strada di casa, mentre attraversava una zona ricca e ben illuminata della città verso le 21, è un’intera narrazione sulla violenza femminile che è stata rimessa in discussione in modo vigoroso e deciso: basta dare la colpa alle vittime e ai loro presunti comportamenti avventati, le strade sono di tutti ma sono ancora troppe le donne che raccontano di corse affannose per mettersi in salvo, di metri percorsi con le chiavi trasformate in un tirapugni e di messaggi mandati a parenti e amici per rassicurarli sul fatto che sì, hanno attraversato il portone, il pericolo è scampato, si può andare a dormire. Come in un nuovo «MeToo», l’indignazione ha preso le mosse dalla tragedia di Sarah – ritrovata una settimana dopo in un sacco di quelli che usano i muratori, riconoscibile solo grazie alla dentatura e in condizioni tali da non permettere al momento di stabilire neppure la causa della morte – per raggiungere un obiettivo più generale. La ministra dell’Interno Priti Patel, unica donna con un posto importante nel Governo, è riuscita per la prima volta

A Londra tira aria di rivoluzione: dimostranti sul ponte di Westminster. (Shutterstock)

a sembrare quasi empatica e a redimere in parte la sua immagine di donna dura, ossessionata solo dai migranti e dalla Brexit. Mentre Cressida Dick, prima donna della storia a capo di Scotland Yard, ha visto il suo astro appannarsi per via di una gestione a dir poco controversa della veglia organizzata a Clapham Common, il parco della zona in cui è scomparsa Everard, per ricordare la donna. Sebbene la manifestazione non fosse stata autorizzata, ha avuto la benedizione di una madrina d’eccezione come la duchessa di Cambridge Kate Middleton, giunta in forma privata (e senza mascherina, forse per essere certa che a nessuno sfuggisse quel gesto di rispetto) a deporre un mazzo di giunchiglie per la vittima di un crimine che le ha ricordato i tempi prima del matrimonio, quando anche lei aveva paura rientrando a casa la

sera. In tutta la città e nel Paese i cortei distanziati sono andati avanti in modo pacifico, mentre a Clapham, poco dopo il tramonto, la situazione è degenerata e la polizia, per disperdere le manifestanti nel rispetto delle norme anti-Covid (allegramente disattese in molti altri luoghi della città per ragioni ben più futili e senza che nessuno intervenisse), ha agito in maniera brutale, strattonando e arrestando alcune donne le cui foto hanno poi fatto il giro del mondo. Nei giorni successivi i cortei e le manifestazioni sono proseguiti e in nome di Sarah si è discusso di violenza domestica, di femminicidi e di tutto quello che rende la vita di una donna nel Regno unito (e non solo) ancora troppo diversa da quella di un uomo. Il premier Boris Johnson ha confermato la sua fiducia a Cressida Dick, ma ha prontamente risposto con alcune misure d’emergen-

za per migliorare l’illuminazione delle strade e aumentare la presenza di agenti, anche nei locali e nei pub. Soluzioni utili, soprattutto la prima, che però non colgono lo spirito di un movimento spontaneo che non vuole che in nome della sicurezza il Paese venga militarizzato (e non perché l’accusato dell’omicidio di Sarah sia un poliziotto), ma chiede che tutte le questioni culturali che circondano la violenza sulle donne siano affrontate, a partire dal fatto che le denunce restano spesso inascoltate o derise e che le vittime hanno paura a raccontare cosa è successo loro. Sul «Times» Libby Purves, commentatrice di solito molto conservatrice, suggeriva anche agli sceneggiatori delle serie poliziesche di mostrare un po’ di creatività invece di proporre l’eterna trama della fanciulla ritrovata cadavere come punto di partenza delle

indagini e quindi della storia. Nei giorni successivi alla scomparsa di Sarah, quando ancora c’era una flebile speranza di ritrovarla viva, i social network e i giornali si sono riempiti di testimonianze di donne che si sono riviste in lei e hanno ripensato a tutte le volte in cui hanno avuto abbastanza fortuna da fare quello che a lei non è riuscito: tornare illese a casa. La fidanzata di Boris Johnson, Carrie Symonds, ha avuto un’esperienza terribile quando aveva solo 19 anni e, tornando a casa, si è imbattuta in John Worboys, un tassista che negli anni ha drogato e abusato di moltissime passeggere. I dati ufficiali dicono 12, la polizia sostiene che siano più di 100. Carrie, come le altre, ha creduto al tassista che, raccontando di aver vinto alla lotteria e di voler festeggiare, le ha offerto un drink, risvegliandosi il giorno dopo a casa sua senza nessuna memoria di quello che è successo. Quando nel 2018 l’uomo stava per essere rilasciato, ha testimoniato e ha raccontato la sua storia. Se neppure un taxi permette di stare tranquille, se un poliziotto non protegge e anzi è lui stesso l’aggressore, il problema da risolvere, sottolineano le migliaia di avvocatesse, studentesse, attiviste, politiche, donne provenienti da estrazioni diverse, è altrove, in una prassi e una mentalità che si fatica ad estirpare e che il Regno unito, in uno slancio progressista che non gli si vedeva da tempo, discute per superare. Una rappresentante dei Verdi alla Camera dei Lords ha ripreso la famosa idea della premier israeliana Golda Meir, che davanti a una serie di omicidi di donne e alla proposta dei suoi ministri di imporre un coprifuoco per le donne, suggerì di ribaltare la logica e imporre ai maschi il coprifuoco. «Sono gli uomini che attaccano le donne, mica il contrario», osservò.

Mekong, le dighe cinesi e il fiume che muore Thailandia La gente del piccolo villaggio di Baan Duea è disperata per le continue fluttuazioni del livello dell’acqua.

Gli esperti parlano di una grave minaccia per gli ecosistemi della regione e delle mire strategiche di Pechino Fabio Polese Sono da poco passate le sei del mattino a Baan Duea, un piccolo villaggio di pescatori nella provincia di Nong Khai, nel Nord-Est della Thailandia, lungo le rive del Mekong. Dall’altopiano del Tibet, il fiume scorre per oltre 4 mila chilometri attraversando la Cina, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam, per poi riversarsi nel Mar cinese meridionale. Un fiume ricco di leggende affascinanti. Uno dei più grandi dell’Asia e il settimo più lungo al mondo. Corrado Ruggeri, nel libro Bambini d’Oriente, lo descrive

come «dolce e feroce, affidato alle magie della natura». Quella stessa natura che oggi è messa in pericolo dalle numerose dighe costruite da Pechino. «Nulla è più come prima, non c’è più niente di naturale qui», dice Sukanayaa Intalak, 53 anni, nata e cresciuta a Baan Duea. «Speriamo che il livello dell’acqua rimanga accettabile oggi. Quando è troppo alto o troppo basso i nostri pesci muoiono e noi non abbiamo nulla da mangiare e nulla da vendere». Non solo le 11 dighe mainstream e le altre 300 più piccole già realizzate dalla Cina, o in fase di realizzazione, producono improvvise fluttuazioni del

Sukanayaa Intalak dice: «Non abbiamo più niente da mangiare». (Polese)

livello dell’acqua, che a loro volta interferiscono con la migrazione dei pesci e con la deposizione delle uova, ma anche la quantità dei nutrienti presenti nel fiume è diminuita drasticamente, mettendo in serio pericolo il già fragile sistema fluviale. Il fiume dava vita a una delle zone più produttive dell’area. Il Mekong fino ai primi anni del 2000, infatti, vantava la più grande pesca interna del mondo, che rappresentava circa il 25% del pescato globale in acqua dolce. Le oltre 500 specie di pesci conosciute riuscivano a sostenere una popolazione di 60 milioni di abitanti e gli agricoltori delle terre vicine, utilizzando l’acqua per irrigare, riuscivano a produrre abbastanza riso per sfamare quasi 300 milioni di persone ogni anno. Oggi non è più così. «Siamo tutti pescatori da generazioni qui al villaggio», racconta Sukanayaa mentre mostra le gabbie dove alleva un piccolo quantitativo di pesci. «Ma la vita è cambiata. Hanno stravolto le nostre abitudini. Ormai non usciamo quasi mai con la barca, non avrebbe senso, non c’è più niente da prendere, se non le carcasse. Per questo abbiamo iniziato ad allevare i pesci». Come se le strutture già presenti non bastassero, Pechino, lanciando un programma di assistenza economica al Laos, alla Cambogia e alla Thailandia per la produzione di energia elettrica, ha finanziato di recente la

costruzione di altre decine di argini artificiali nei loro territori. Ma le dighe idroelettriche, sebbene siano un’alternativa più pulita al carbone, stanno causando un vero e proprio disastro ambientale. I Governi dei Paesi interessati però, puntando soprattutto alla crescita economica nonostante gli impatti negativi, sono determinati a proseguire i lavori di costruzione. «L’interesse dei politici regionali è totalmente assorbito dallo sviluppo delle infrastrutture», ha affermato Pou Sothirak, direttore del Cambodian center for cooperation and peace ed ex ministro dell’Energia cambogiano, in una discussione sul fiume Mekong che si è tenuta all’Università Chulalongkorn di Bangkok. «Vogliono solo più energia e credono che la costruzione di dighe migliorerà la loro economia nazionale, ma non è così». «Le costruzioni rappresentano una grave minaccia per gli ecosistemi della regione», scrive Brahma Chellaney, docente di studi strategici presso il Center for policy research di Nuova Delhi. «A lungo termine nessuno guadagnerà dalla distruzione degli ecosistemi. L’unico modo per evitare un futuro così cupo per la regione e i suoi abitanti è porre fine alla costruzione di dighe nel bacino del Mekong, puntando sulla protezione dei diritti di ciascun Paese e sul rispetto dei suoi obblighi, verso la sua gente, i suoi vicini e l’intero piane-

ta». Oltre alle gravi conseguenze ambientali, si segnala anche un forte pericolo dal punto di vista strategico. La Cina, infatti, avendo ormai il potere di fermare il flusso del Mekong, ha anche la forza di devastare intere zone agricole negli Stati a valle delle dighe. Oppure, senza arrivare a tanto, il Dragone potrebbe sfruttare questa minaccia per avere maggior influenza nell’area, a cominciare dai piani per l’espansione delle Nuove vie della Seta. Le infrastrutture in costruzione, infatti, hanno anche l’obiettivo di consentire a navi di tonnellaggio più elevato di percorrere il fiume fino a Luang Prabang, l’antica capitale del Laos. Questo aprirebbe una nuova, grande via commerciale per il trasporto di merci. Già nel 2017 Eugene Chow, un esperto indipendente di relazioni e sicurezza internazionale, ha descritto le dighe sul Mekong come «armi nascoste in bella vista che consentono alla Cina di tenere in ostaggio un quarto della popolazione mondiale senza sparare un solo colpo». Intanto la popolazione locale non ha più un futuro certo. «Qualche mese fa l’acqua è scesa così tanto che a malapena riuscivamo a vederla. Non avevamo niente da mangiare», si sfoga Nuoljan Chaikun, la moglie di un pescatore di un villaggio vicino. «Non sappiamo più come fare. Siamo costretti a vivere giorno per giorno. Qui non c’è più futuro».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Politica e Economia

Il camaleonte di Misurata

Libia La speranza di pacificare il Paese nordafricano si chiama Abdul Hamid Dbeibah, controverso uomo d’affari

alla testa del nuovo Governo ad interim sostenuto dall’Onu. Lo attendono immani sfide sul fronte interno ed estero Francesca Mannocchi Per la prima volta dopo sette anni il mondo guarda con cauto ottimismo alla Libia. Per qualcuno è un punto di svolta, per altri – più prudenti – un primo passo significativo che però ha bisogno di notevoli sforzi interni e la collaborazione degli attori internazionali. Il Paese nordafricano, la nona riserva petrolifera al mondo, è precipitato nel caos dopo che l’ex rais Muammar Gheddafi è stato rovesciato e ucciso, nell’ottobre 2011, durante la rivoluzione sostenuta dalla Nato. Le divisioni seguite alla stagione rivoluzionaria non si sono mai ricomposte, con il risultato che oggi il territorio è diviso tra interessi opposti della Tripolitania, della Cirenaica e di un mosaico di milizie armate in lotta per il potere.

L’Esecutivo deve ripristinare e aumentare la produzione di petrolio da cui dipende l’intera economia del Paese Il 5 febbraio scorso a Ginevra, 74 delegati scelti dalle Nazioni unite per il Libyan political dialogue forum hanno eletto 4 figure alla guida di un nuovo Governo ad interim che dovrebbe rimanere in carica fino alle elezioni generali che si terranno il 24 dicembre prossimo. Il Forum libico ha scelto la lista guidata da Abdul Hamid Dbeibah, un candidato considerato controverso dagli analisti e la cui lista, fino alla vigilia dell’incontro, aveva scarse possibilità di uscire vincitrice. L’elezione è stata sancita da un voto di fiducia del Parlamento libico il 10 marzo e da una cerimonia di giuramento svoltasi il 15 marzo a Tobruk Il Governo di Dbeibah sostituisce sia il Governo di accordo nazionale di Tripoli (parte occidentale del Paese), presieduto da Fayez al-Sarraj e sostenuto dalla comunità internazionale, sia il gabinetto parallelo – non riconosciuto dalla comunità internazionale – di Abdallah al-Thani, con sede a Tobruk in Cirenaica (parte orientale), una regione chiave sotto il controllo delle forze dell’uomo forte Khalifa Haftar, un generale. Dbeibah è un ricco uomo d’affari originario della città portuale di Misurata. Ha conseguito un master

Da sinistra: Mohamed al-Manfi, capo del Consiglio presidenziale della Libia, Fayez al-Sarraj e Abdul Hamid Dbeibah. Si sono incontrati a Tripoli, il 16 marzo, per la cerimonia del passaggio dei poteri. (AFP)

in ingegneria all’Università di Toronto e la sua esperienza all’estero lo ha introdotto nella cerchia ristretta di Gheddafi e lo ha portato a dirigere una società che gestisce enormi progetti di costruzione. Durante il regime dell’ex rais, la ricchezza di Misurata esplose, la città beneficiò di un vero e proprio boom industriale, economico e la famiglia Dbeibah fu una delle prime a beneficiarne e ad accumulare risorse. Negli anni Settanta e Ottanta Dbeibah ha ricoperto importanti incarichi sotto il regime di Gheddafi. È stato sindaco di Misurata ed è descritto da tutti come un uomo scaltro, un camaleonte che sa muoversi nelle mutanti alleanze libiche e adattarsi alle circostanze politiche. Gheddafiano prima, si è schierato con i rivoluzionari nel 2011, quando ha capito che il vento stava cambiando. Non è un teorico ma un pragmatico, vuole ricostruire la Libia a partire dalle infrastrutture del Paese, danneggiate da 10 anni di guerre. È noto anche che la famiglia Dbeibah è anche molto vi-

cina alla Turchia e alla Fratellanza musulmana, e questo – l’influenza estera sulla Libia – sarà uno dei nodi più difficili da sciogliere per il suo Governo. Il 10 marzo scorso, a Sirte, Abdul Hamid Dbeibah ha ottenuto la fiducia di 132 votanti eletti alla Camera dei rappresentanti. Appena eletto ha dichiarato che per la Libia «è giunto il momento di voltare pagina su guerre, divisioni e di guardare alla riconciliazione e alla costruzione. È tempo di risolvere le divergenze in Parlamento e non sul campo di battaglia». Parole di buon senso che hanno l’aspirazione di riunire quello che dieci anni di guerra ad alta e bassa intensità hanno diviso. Dbeibah comincia dalla composizione del Governo e dai segnali, dai simboli, che essa contiene, anche se la strada è ancora lunga e non c’è ancora un vero processo di riunificazione dei Ministeri. Ci sarà infatti ancora un Ministero dell’interno a Tripoli e un altro a Bengasi. Il primo ministro ad interim aveva promesso il 30 per cento di donne nel Governo, ma al momento l’aspetta-

tiva è stata disattesa: sono solo 5 su 31 Ministeri sono a guida femminile. Certamente, però, Ministeri di peso. Dbeibah ha nominato come ministra degli Esteri Najla El Mangoush, un’avvocata di Bengasi, un’attivista per i diritti umani, che lasciò il Paese nel 2013, due anni dopo la rivoluzione, per studiare negli Stati uniti. La sua nomina è una sfida. La ministra dovrà muoversi tra gli interessi di attori interni e attori esterni come la Turchia, la Russia e gli Emirati arabi uniti, impegnati nella divisione del Paese nordafricano in sfere di influenza e alla ricerca di lucrativi contratti petroliferi e di ricostruzione. Il Governo deve affrontare sfide interne e ben più faticose sfide esterne. Per quel che riguarda le prime, bisogna considerare le necessità del popolo libico e i problemi più impellenti: l’impennata della disoccupazione, l’inflazione, la carenza di liquidità, le interruzioni di elettricità quotidiane e la corruzione. Per riuscire a risolvere gli annosi problemi, il Governo deve ripristinare

e aumentare la produzione di petrolio, da cui dipende l’intera economia del Paese, sussidiata dalle royalties dell’oro nero. La produzione petrolifera ha subito infatti una grave interruzione a seguito dell’offensiva di Haftar sulla capitale Tripoli nell’aprile del 2019. Per dieci mesi il Paese non ha esportato greggio, provocando alle casse dello Stato un danno irrecuperabile di 10 miliardi di dollari. Oggi la produzione è tornata a 1,3 milioni di barili al giorno, ma l’obiettivo del nuovo Esecutivo è raggiungere in sei mesi i 2,2 barili al giorno. Dbeibah vuole concentrare gli sforzi della ricostruzione proprio in questo ambito, vuole partire cioè dalle infrastrutture petrolifere gravemente danneggiate dall’ultimo conflitto. In secondo luogo c’è la sfida legata alle ingerenze estere. Il Governo uscente di Tripoli, il Governo di accordo nazionale, aveva goduto del sostegno militare ed economico della Turchia che ha prestato sostegno a Sarraj nella guerra di Tripoli. Dall’altra parte, sul versante di Haftar, Russia, Emirati arabi uniti ed Egitto hanno contribuito con armi e denaro. Queste ingerenze non sono state interrotte dal Forum di Ginevra e sono forse il nodo più difficile da sciogliere per il Governo ad interim. Turchia e Russia, soprattutto, vogliono raccogliere i frutti del sostegno militare ai Governi contrapposti e questi frutti sono contratti petroliferi, appalti per la ricostruzione del Paese e la vendita di armi che continua, costante, nonostante l’embargo e il dichiarato cessate il fuoco dell’ottobre 2020. Non solo, ma turchi e russi hanno basi militari in Libia e le Nazioni unite stimano la presenza di almeno 20 mila mercenari stranieri ancora presenti su suolo libico. È da qui che Dbeibah deve ripartire, prima ancora di annunciare grandi progetti infrastrutturali. Dal potere delle armi che va smantellato. Sia quello delle milizie interne che hanno dimostrato in questi 10 anni di non voler rinunciare alla loro indipendenza, e hanno anzi aumentato il loro potere usandolo come arma di ricatto sui Governi, sia quello delle potenze estere che non vogliono rinunciare all’influenza acquisita negli ultimi due anni. Anni in cui l’Europa ha dimostrato di saper organizzare Forum e nominare Governi ma non di saperli sostenere nel tempo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Politica e Economia

L’acqua, bene comune

Ricorrenze Il 22 marzo si celebra la Giornata mondiale dell’acqua, patrocinata dalle Nazioni Unite

Fabio Dozio Senza acqua non c’è vita. Siamo fatti di acqua, il corpo umano è costituito per il 60% da acqua. È l’elemento fondamentale, patrimonio dell’umanità. L’acqua è di tutti. L’obiettivo della giornata mondiale di quest’anno è valorizzare l’acqua garantendo acqua e servizi igienicosanitari a tutti. «Senza una comprensione completa del vero valore multidimensionale dell’acqua, – sottolinea l’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite – non saremo in grado di salvaguardare questa risorsa fondamentale a beneficio di tutti».

La nuova direttiva europea definisce l’acqua un bene pubblico, ma non prende posizione sulla scelta tra municipalizzazione e privatizzazione Da gennaio è in vigore in Europa la nuova direttiva sulle acque potabili che definisce l’acqua bene pubblico. L’Unione Europea blinda questo principio invitando gli Stati membri a rispettarlo, ma non prende posizione sulla scelta tra municipalizzazione e privatizzazione, che resta di competenza dei singoli Stati. L’aspetto interessante e particolare è che questa legislazione è stata adottata in seguito alla mobilitazione dei cittadini. Nel 2013, per contrastare la privatizzazione dell’acqua, a volte anche solo strisciante, l’associazione Right2Water, ha lanciato una petizione per rivendicare che al centro delle politiche idriche dell’UE fossero posti i diritti umani anziché una logica di mercato. Le adesioni dei cittadini europei alla campagna Right2Water sono state 1.884.790, un vero primato. La petizione chiedeva in particolare che: «Le istituzioni dell’Unione Europea e gli Stati membri siano tenuti ad assicurare a tutti i cittadini il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienicosanitari; l’approvvigionamento in acqua potabile e la gestione delle risorse idriche non siano soggetti alle logiche del mercato unico e che i servizi idrici siano esclusi da qualsiasi forma di liberalizzazione». Se la società civile si mobilita si possono ottenere risultati politici significativi. La petizione dimostra che l’Unione Europea può essere condizionata dai suoi cittadini. Mentre l’Europa considera l’acqua un bene pubblico, a Wall Street l’oro blu viene quotato in borsa. È notizia di poche settimane fa. Grazie a una partnership tra il Gruppo CME e Nasdaq, si proporanno futures legati all’acqua della California, ovvero dei contratti che si impegnano a scambiare la risorsa a un

La diga di Pantano de Rivera, fra Castiglia e Valencia: fornisce acqua potabile e per l’agricoltura. (Shutterstock)

prezzo definito. Domanda e offerta che potrà stimolare la speculazione. Anche in Svizzera è soffiato il vento della privatizzazione. Il 10 febbraio 2019 i cittadini del Canton Zurigo hanno rifiutato la proposta che mirava a una parziale privatizzazione dell’acqua potabile. Il risultato è stato chiaro: il 54,6% dei votanti ha bocciato la nuova legge. È stata la maggioranza del Parlamento a introdurre la possibilità di vendere ai privati fino al 49% delle aziende, in genere comunali, che distribuiscono l’acqua potabile. Gli oppositori hanno lanciato un referendum, temendo che la vendita ai privati potesse poi trasformarsi in una svendita dell’acqua potabile: il passo dal 49% al 51%, si è detto, è breve. D’altra parte, già nel 2000 i cittadini della città di Zurigo rifiutarono, in votazione popolare, la privatizzazione dei servizi industriali. Sul piano mondiale, una decisione storica è la risoluzione delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010, che definisce il diritto all’acqua come estensione del diritto alla vita affermato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo: «È ormai tempo – si legge in Right to Water, dell’Ufficio dell’Alto commissariato dell’ONU per i Diritti umani – di considerare l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari nel novero dei diritti umani, definito come il diritto uguale per tutti, senza discriminazioni, all’accesso a una sufficiente quantità di acqua potabile per uso personale e domestico: per

Per molti l’acqua pulita è un lusso che non possono permettersi. (Keystone)

bere, lavarsi, lavare i vestiti, cucinare e pulire se stessi e la casa, allo scopo di migliorare la qualità della vita e della salute». Come spesso succede per le prese di posizione dell’ONU, la risoluzione non è vincolante, nel senso che il principio vale come raccomandazione e non come obbligo. All’origine del movimento che considera l’acqua un bene comune d’interesse generale c’è il «Manifesto dell’acqua – Il diritto alla vita», sottoscritto a Lisbona nel 1998. Il Comitato per il Contratto Mondiale sull’Acqua ha sancito che l’acqua è patrimonio dell’umanità e che il diritto all’acqua è inalienabile, individuale e collettivo. I cittadini devono essere al centro dei processi decisionali che riguardano l’acqua: «La gestione dell’acqua integrata e sostenibile appartiene alla sfera della democrazia. Non è l’affare delle competenze e del know-how dei tecnici, degli ingegneri, dei banchieri. Per definizione l’acqua richiede una gestione decentralizzata e trasparente. Le istituzioni esistenti di democrazia rappresentativa devono essere rafforzate. Se necessario, devono essere create nuove forme di governo democratico».

In un rapporto di Public Reclaiming Services si constata che la privatizzazione dell’acqua ha portato a servizi di bassa qualità e prezzi rincarati Il punto cruciale della disputa sulla privatizzazione dell’acqua è la contrapposizione tra bene comune e bene economico. Da una parte, il movimento dei cittadini e delle istituzioni che ritengono evidente e indiscutibile che l’acqua sia considerata un bene comune. Fra questi c’è anche Papa Francesco che nella Lettera Enciclica Laudato sì ha scritto: «L’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per

l’esercizio degli altri diritti umani». Dall’altra parte, vi sono coloro che ritengono che l’acqua debba essere trattata come un bene economico, una merce come tante altre. Fra i sostenitori di questa strategia figurano alcuni organismi sovranazionali come il World Trade Organization, la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale. In più occasioni hanno imposto ai Paesi che chiedevano prestiti e sostegno finanziario di privatizzare i servizi in genere e la fornitura di acqua potabile in particolare. Se le aziende pubbliche sono gestite in modo professionale possono essere redditizie e garantire la migliore qualità del servizio. Con un vantaggio inestimabile: che tutto il profitto può essere reinvestito nella società e che si possono mantenere le condizioni di distribuzione dell’acqua a prezzi sostenibili a favore degli utenti. Anche molti Paesi e Città che si erano lasciati lusingare dalle sirene del libero mercato e del neoliberismo stanno facendo marcia indietro. Il rapporto Reclaming Public Services del 2017 illustra la situazione: dal 2000 si contano 835 esempi di (ri) municipalizzazione di servizi pubblici in 45 Paesi. Di questi 267 casi riguardano il ritorno in mano pubblica della gestione dell’acqua potabile. Sakoto Kishimoto, coautrice del rapporto, sottolinea che «viene dimostrato come la privatizzazione dei servizi idrici arriva dopo anni di promesse non mantenute, servizi di bassa qualità e prezzi rincarati. La ripubblicizzazione ha invece portato da subito taglio dei costi, efficienza operativa, incremento degli investimenti e un più alto livello di trasparenza». La Società Svizzera dell’Industria del Gas e delle Acque (SSIGA), organizzazione mantello delle aziende svizzere, ha preso posizione nel marzo del 2018 sul tema asserendo che non va concesso nessun sostegno alla privatizzazione dell’approvvigionamento di acqua potabile. In particolare si sottolinea che l’acqua rappresenta un monopolio naturale e pertanto non è possibile alcuna forma di concorrenza. La Società ritiene che la gestione pubblica del settore sia ottima e non c’è quindi nessuna necessità tecnica o economica per promuovere forme giuridiche private. «Il diritto di lucrare dei privati, –

dice la SSIGA – e quindi le loro richieste di codeterminazione e controllo, sono in contrasto con l’incarico di provvedere all’approvvigionamento idrico». In Svizzera la maggioranza delle aziende che distribuiscono acqua potabile sono pubbliche, ma ci sono anche alcune cooperative di diritto privato e società anonime in mano pubblica. Quest’ultima modalità è il caso di Lugano. La Città, nel 2000, ha trasformato le aziende municipali in società anonima, con il pacchetto azionario totalmente in mano pubblica. Oggi è un’azienda in piena salute, con un’attenzione alla sostenibilità e benefici alle casse comunali. Inoltre, le Aziende Industriali Luganesi (AIL) investono in pubblicità e in sponsorizzazioni culturali e sportive. A Mendrisio la proposta di trasformare le aziende municipali in società anonima è stata bocciata dai cittadini in votazione popolare nel marzo del 2017. Il 56% dei votanti ha detto di no. Anche Bellinzona ha un’azienda completamente comunale. Nel 2018, in seguito all’aggregazione dei comuni bellinzonesi, è stato costituito un ente autonomo di diritto comunale, l’Azienda Multiservizi Bellinzona (AMB). La distribuzione dell’acqua in Città era iniziata nel 1869, grazie a cinque fontane poste sul territorio cittadino. In Svizzera la gestione delle acque è molto frammentata: migliaia di Comuni con migliaia di distributori. Si può certo pensare di concentrare e razionalizzare, ma sempre garantendo la proprietà pubblica, la trasparenza e la gestione democratica delle aziende. C’è anche chi ritiene che la Confederazione dovrebbe ancorare nella Costituzione il principio che l’acqua potabile non possa essere privatizzata. Un tentativo in questo senso lo fece Franziska Teuscher, deputata del partito ecologista, proponendo nel 2000 al Consiglio nazionale un’iniziativa parlamentare che diceva: «Il Parlamento deve elaborare un progetto di modifica dell’articolo 76 della Costituzione federale in modo che dichiari che le risorse di acqua potabile e le installazioni necessarie per la captazione, il trattamento e la distribuzione dell’acqua siano un bene pubblico che non può essere venduto ai privati». La proposta fu bocciata, 76 contro 75.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Inflazione: chi la teme, chi la desidera Il perdurare della pandemia e delle misure di lotta contro la stessa hanno fatto nascere, nel corso delle ultime settimane una discussione sulla possibilità che il livello dei prezzi, dopo anni di stagnazione, torni a salire. A nutrire i timori di inflazione è, per il momento, solo l’andamento dei prezzi a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti. Ma siccome la lievitazione dei prezzi si trasmette da un paese all’altro attraverso le importazioni c’è già chi vede, anche per la Svizzera, il pericolo di un’inflazione importata. L’inflazione potrebbe essere sostenuta dalle misure di sostegno all’economia e dall’eccesso di liquidità che potrebbero creare. Last, but not least, esiste anche la possibilità che le chiusure dell’anno scorso e di quest’anno abbiano fatto nascere una domanda di beni di consumo rimasta

insoddisfatta che potrebbe essere buttata sui mercati, una volta che negozi, commerci e ristoranti dovessero poter riaprire, facendo così aumentare i prezzi dei beni di consumo. A crescere dovrebbero essere, secondo gli esperti, soprattutto i prezzi dei beni di consumo durevole (automobili, elettrodomestici, apparecchi televisivi ecc..). Si tratta, è meglio precisarlo, solo di ipotesi che, per il momento, nessuno ha pensato di quantificare. Attualmente (marzo 2021) le previsioni ufficiali, quelle per esempio del gruppo per la congiuntura della Seco, prevedono un rincaro pari allo 0.4% sia per il 2021 che per il 2022. Si tratta di aumenti percentuali poco importanti anche se sono superiori a quelli che si davano ancora nel dicembre del 2020. Senza andare a cercare altre testimonianze, possiamo concludere

che, oggi come oggi, i timori di inflazione, di cui si è parlato nelle scorse settimane, non hanno, almeno per l’economia svizzera, alcun fondamento. È sì vero che i prezzi aumenteranno nel corso dei prossimi due anni. Ma l’aumento annuale dell’indice dei prezzi al consumo dovrebbe essere inferiore allo 0.5%. Si tratta di un aumento che non desta nessuna preoccupazione. Questo articolo dedicato al supposto pericolo di inflazione ci consente però di parlare anche di un altro problema, ossia del possibile impatto dell’inflazione sul valore del franco. È risaputo che la politica della nostra Banca nazionale è sempre stata restrittiva in materia di inflazione. L’aumento del livello dei prezzi veniva sempre considerato come una brutta bestia perché minacciava di erodere il valore della nostra divisa. L’obiet-

tivo del controllo dell’inflazione era dunque un must che non si poteva discutere. Ora invece sembra che le cose stiano cambiando, almeno a livello di discussione, e questo per merito di un nuovo osservatorio, creato, qualche mese fa, da due universitari e un banchiere. Questo «Osservatorio della BNS» pubblica commenti critici sulla politica monetaria della stessa e si permette anche di fare proposte che escono dal sentiero battuto. Così, nel loro rapporto più recente, i tre esperti dell’Osservatorio si sono per esempio permessi di chiedere alla BNS di alzare il suo obiettivo inflazionistico. Come si sa, finora la BNS ha perseguito come tasso di inflazione un target tra lo 0 e il 2%. Per gli esperti dell’Osservatorio questo obiettivo non è abbastanza preciso. Essi propongono invece che la Banca si fissi

per il futuro un tasso di inflazione da perseguire del 2%. Se poi, come è stato il caso degli ultimi anni, l’inflazione dovesse risultare inferiore a questo limite, gli esperti considerano che lo stesso potrebbe anche essere superato per qualche anno. Insomma l’obiettivo inflazionistico del 2% sarebbe da raggiungere come media dei tassi di inflazione di diversi anni. Ma perché la BNS dovrebbe accettare di elevare il suo obiettivo inflazionistico? Perché se i prezzi diminuiscono troppo la deflazione potrebbe essere dietro l’angolo. Allora il denaro aumenterebbe di valore anche se invece di utilizzarlo per consumi e investimenti il singolo risparmiatore lo nascondesse sotto il proverbiale materasso. Un’alternativa, questa, orripilante per le banche ma certamente poco auspicabile anche per il resto dell’economia.

di una futura alleanza a livello nazionale tra Cdu e Verdi, come molti auspicano. In realtà questa regione non è in questo senso molto rappresentativa. Kretschmann è un Verde atipico, anzi a volte alcuni si chiedono che cosa ci faccia un conservatore liberale come lui in un partito che ha solitamente connotazioni molto più progressiste: questo governatore molto popolare ha vinto non soltanto perché è un bravo amministratore, ma anche perché è un moderato molto attento ai compromessi, primo fra tutti quello tra una terra di produttori d’automobili com’è il Baden-Württemberg e le istanze ambientaliste. Se un messaggio arriva da queste elezioni, più che il crollo o l’ascesa di questo o quel partito, è quello di una domanda di pragmatismo e moderazione. Lo stesso si può dire dell’altro appuntamento elettorale appena conclusosi nella Renania-Palatinato. Anche qui la Cdu è andata male e la sconfitta è più dolorosa perché i sondaggi sono stati a un certo punto della corsa quasi in pareggio: invece l’Spd della governatrice Malu Dreyer ha staccato di otto punti

percentuali la Cdu (e in generale i socialdemocratici sono andati meno peggio del previsto). Dreyer è governatrice già da molti anni ed è anche lei una figura di compromesso, poca ideologia e molto buon senso. La sua vittoria ha portato un altro tema nel dibattito sempre a livello nazionale, cioè la cosiddetta coalizione semaforo (socialdemocratici, Verdi e liberali). Se fosse questo il format che aspetta la Germania a settembre? Il timore tra i conservatori è molto alto, un po’ perché la pandemia ha sviluppato una maggiore richiesta da parte dei cittadini della presenza dello Stato (basti vedere nella liberale America quanto è imponente lo stimolo introdotto dal presidente Joe Biden), che è una cosa tipicamente di sinistra, e un po’ perché il post Merkel, sulla carta, è una restaurazione a destra, dopo le cosiddette sbandate centriste della cancelliera. Il rischio è che questa strategia diventi molto penalizzante per la Cdu, e gli altri partiti, a cominciare dai Verdi che hanno leader carismatici e uno dei temi più sensibili di questa epoca nel loro stesso nome, cercheranno di approfittarsene.

Poi certo, c’è il fattore Merkel. In questi mesi si scontreranno due teorie: quelli che pensano che la Cdu è in calo a causa della Merkel e quelli che pensano che la Cdu sia in calo nonostante la Merkel. A giudicare dalle rilevazioni, la seconda teoria è quella più realistica: sono più gli elettori che continuano a dire di aver dato il voto ai cristianodemocratici perché è il partito di Angela Merkel che quelli, delusi dalla cancelliera, che gliel’hanno negato. In mezzo c’è Armin Laschet, che è un buon amministratore locale in continuità con il merkelismo ma che dovrà trovare il modo sia di creare una sua candidatura autonoma, sia di tenere insieme le varie anime della Cdu. Per ora sembra impreparato su tutti e due i fronti, non tanto per mancanze sue, quanto per una questione quasi fisiologica. I calcoli e le previsioni mal si adattano al momento che sta vivendo la Germania: il cambio di leadership sarà epocale, la Cdu e tutto il Paese dovranno trovare un nuovo equilibrio senza l’elemento che più di tutti in questi anni (tanti anni) ha garantito equilibrio e stabilità, cioè la Merkel.

dire il suo «Dovremmo inventare qualcosa, avvicinare i giovani», dovrebbe risuonare forte anche in altri ambiti, in particolare in quelli politici, se vogliamo che dall’isolamento prolungato i giovani non ricavino solo frustrazioni e soprattutto non finiscano per subordinare i valori primari all’insofferenza e alla rabbia. Di un altro avvenimento artistico, riferito alla pittura, si è parlato all’inizio del mese quando a Londra, durante la prima asta primaverile di Christie’s, un dipinto di Winston Churchill è stato venduto per 8.285.000 sterline (tasse comprese, oltre 10 milioni e mezzo di franchi, un prezzo quattro volte superiore alle stime iniziali). Diverse le particolarità che hanno contribuito a far lievitare il prezzo base. Innanzitutto perché era una delle rare tele a olio dell’ex premier britannico. Come ha scritto nel catalogo d’asta lo storico dell’arte Barry Phipps, La torre della moschea Koutoubia è considerato il dipinto più importante di Churchill ,

anche per la storia dei possessori. Lo statista inglese lo eseguì subito dopo la Conferenza di Casablanca nel 1943 e lo donò al presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Pochi anni fa venne acquistato dall’attore Brad Pitt che lo regalò alla moglie Angelina Jolie, la quale ora (avendo divorziato da Pitt) lo ha posto in vendita tramite Christie’s. Da notare che nella stessa asta un altro dipinto di Churchill, raffigurante un paesaggio del Marocco, dipinto nel 1935 e regalato al generale Montgomery, eroe della battaglia di El Alamein: stimato tra 300.000 e 500.000 sterline, è stato battuto a 1,55 milioni di sterline (quasi 2 milioni di franchi). Ma c’è un’altra particolarità, singolare e più... ceresiana. Di Churchill pittore parla anche Romano Amerio nel suo Zibaldone (IV): «Al Grotto, tra Darno e Osteno, nel settembre 1945 per tre giorni di fila Winston Churchill piantò il cavalletto, spremette i colori sulla tavolozza e dipinse la Valsolda». Amerio sostiene però che lo statista non era lì per il suo «svago

dilettante», bensì alla ricerca del famoso e sconcertante carteggio Mussolini che conteneva anche lettere di approvazione e ammirazione inviate da Churchill al Duce. Raccontando l’aneddoto Amerio aggiunge di aver più volte sollecitato il comune valsoldese a interrogare la famiglia Churchill sull’esistenza tra i lavori del loro congiunto di alcuni paesaggi dipinti in Valsolda e di chiederli in dono per il comune. Pensando all’asta di Christie’s, al rammarico di Romano Amerio oggi si può aggiungere la certezza di un’occasione persa. Da ultimo, un’aggiunta beffarda: mentre Churchill, vincitore del nazismo e della guerra, oggi viene consacrato anche come artista tra i più quotati del secolo scorso, tale Adolf Hitler, scappato in Baviera per evitare di essere arruolato nell’esercito austriaco e buttatosi in politica dopo che a Vienna era stato respinto come artista dall’Accademia delle Belle Arti, per la storia continuerà a essere, oltre che dittatore, «l’imbianchino di Braunau-am-Inn».

Affari Esteri di Paola Peduzzi Alla ricerca dell’equilibrio senza Merkel Alla prima prova di questo super anno elettorale in Germania, i cristianodemocratici hanno già dovuto imparare a leccarsi le ferite. In questi mesi, fino alle elezioni nazionali del 26 settembre, si inizia a scrivere la storia del post Merkel: la cancelliera tedesca, al potere dal 2005, non si ricandiderà, e il suo partito, la Cdu, ha già scelto il suo successore, Armin Laschet, governatore del Nord Reno-Vestfalia. Ma ci sono ancora molte incognite, in particolare una: non è

Armin Laschet. (Shutterstock)

detto che il leader della Cdu sia anche il candidato alla Cancelleria, perché la Cdu si presenta alle elezioni con l’Unione, l’alleanza tra i cristianodemocratici e i cristianosociali bavaresi (Csu), e quindi anche il leader bavarese Markus Söder ambisce alla candidatura. C’è però una grande differenza tra i due. Da qui a settembre ci saranno altre elezioni locali, ma non in Baviera, quindi l’unico a dover fare i conti con il post Merkel già nelle urne è proprio il suo erede designato, Armin Laschet. Il primo appuntamento è stato abbastanza deludente, ma va detto che le aspettative non erano alte, anzi forse ci sarebbe da domandarsi perché, con quei sondaggi, non sia già stata messa in piedi da parte della Cdu una strategia di «contenimento danni». In BadenWürttemberg, la Cdu ha perso tre punti percentuali rispetto al 2016 (ma i seggi al Parlamento locale restano invariati) e la vittoria è andata, senza sorprese, a Winfried Kretschmann, già governatore di questo Land ed esponente dei Verdi. Proprio questa conferma sta facendo molto discutere sulla possibilità

Zig-Zag di ovidio Biffi Di pianisti, pittori e... imbianchini Franco D’Andrea è considerato uno dei più validi pianisti e compositori del mondo del jazz. Helmut Failoni, che lo ha intervistato su «La Lettura» in occasione del suo 80.mo compleanno, dice di lui che «ogni volta che appoggia le mani sul pianoforte riesce a stupire anche chi lo ascolta e lo segue da anni. Possiede quel raro dono che è la grazia dell’imprevedibilità». Nonostante gli anni D’Andrea continua a coltivare la sua passione per l’insegnamento, abbinandola ad una sempre intensa attività con nuovi complessi (si va da un trio a una formazione con 11 elementi). Mi colpisce il titolo dell’articolo di Failoni: Aiuto! Ai giovani non piace il jazz. È riferito alla parte conclusiva dell’intervista, dove D’Andrea parla di un fenomeno che merita attenzione anche al di fuori dell’ambiente musicale. Interrogato sulle preoccupazioni che toccano il futuro del jazz, l’ottantenne compositore esprime un parere sostanzialmente amaro: «Mi preoccupa molto che nel jazz manchi il cambio generazionale».

E spiega così la sua affermazione: «Il pubblico del jazz non è un pubblico giovane. Eppure è strapieno di giovani bravissimi che suonano. Ma non hanno amici coetanei che vanno ad ascoltarli? Evidentemente no, e questo significa che i jazzisti giovani sono degli isolati. È una notizia molto triste. Dovremmo inventare qualcosa, avvicinare i giovani al jazz, fare proselitismo». La preoccupazione di D’Andrea invita a riflettere sulla problematica condizione di tanti giovani impegnati, anche solo a livello dilettantistico, nelle varie discipline artistiche, che ormai da più di un anno studiano e si esercitano praticamente isolati, senza spettatori e quindi penalizzati nelle loro aspirazioni. Ma il distacco e l’isolamento di cui D’Andrea parla, non stanno penalizzando solo l’arte. Anzi: stanno segnando, in tutto il mondo e sempre più drammaticamente, l’agire dei giovani accrescendo difficoltà e disagi esistenziali per le nuove generazioni. Di conseguenza il messaggio di D’Andrea per il jazz, vale a


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Idee e acquisti per la settimana

Quando il naso cola Testo: Susanne Schmid Lopardo

I detergenti possono causare allergie? Entrare in contatto con detersivi o detergenti non causa alcun problema alla maggior parte delle persone. Tuttavia, chi ha la pelle sensibile può sviluppare delle reazioni agli ingredienti allergenici. In genere si tratta di conservanti, profumi, coloranti o enzimi. Il contatto con queste sostanze può comportare arrossamenti, eruzioni cutanee con prurito e bruciore, fino all’eczema. Si tratta di una cosiddetta allergia da contatto.

Cosa è l’allergia alla polvere domestica? Il vero fattore scatenante di un’allergia alla polvere sono le palline di escrementi degli acari che comunemente vivono in casa. Per questo si parla anche di allergia agli acari della polvere di casa. La polvere domestica è costituita da una miscela di peli e squame di pelle di persone e animali, fibre di tessuti, funghi, batteri, residui di cibo e acari vari. Si trovano principalmente nei materassi e nella biancheria da letto, così come nei mobili imbottiti e nei tappeti a pelo lungo. Quando sono secchi gli escrementi degli acari sono molto leggeri e si disperdono nell’aria passando l’aspirapolvere, scuotendo la biancheria del letto o semplicemente quando ci si aggira in uno spazio chiuso.

Un’allergia può comparire in età adulta, oppure sparire? Il sistema immunitario reagisce alle infezioni, alle malattie e agli influssi ambientali, che possono manifestarsi anche all’improvviso e a qualsiasi età. Non è tuttavia chiaro il motivo per cui le allergie o le reazioni crociate si verificano in un determinato momento. Così come un’allergia può svilupparsi in età avanzata, può anche presentarsi con maggiore intensità. Nella più probabile delle ipotesi ciò succede quando per un lungo periodo di tempo si è stati in grado di evitare il contatto con l’allergene.

Quali le cause dell’allergia a gatti o cani?

Le reazioni allergiche ai gatti sono più frequenti rispetto a quelle ai cani. La causa non è ancora conosciuta. Anche i cavalli o i roditori possono causare reazioni allergiche.

L’allergene dei gatti è presente in tutte le razze e viene secreto principalmente con la saliva, dalle ghiandole sebacee e dalle cellule della pelle. Leccandosi il gatto lo distribuisce sul pelo. Questo è il motivo per cui spesso si parla di «allergia ai peli degli animali». Il principale allergene del cane si trova nella pelliccia e nella saliva. A seconda della razza del gatto o del cane il carico allergenico per le persone soggette può variare. A titolo generale è noto che i cani a pelo corto producono più allergeni rispetto a quelli a pelo lungo.

Fonti: aha.ch; impuls.ch

L’allergia ai pollini è molto comune: per molti fare una breve passeggiata nel corso della primavera può comportare un attacco di starnuti. Ma le reazioni allergiche possono verificarsi anche dopo aver accarezzato un gatto. In un colpo d’occhio ciò che di più importante c’è da conoscere sul tema delle allergie


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1 Come si manifesta il raffreddore da fieno? La maggior parte delle persone soggette ad allergia evidenzia i sintomi delle malattie da raffreddamento, come raffreddore e mal di gola. Il raffreddore da fieno può comportare attacchi di starnuti e naso che cola costantemente («rinorrea»), congestione nasale, così come prurito, bruciore o lacrimazione degli occhi. È molto comune anche uno sgradevole prurito o bruciore alla gola e alla mucosa della faringe. Alcune persone che soffrono di rinite allergica sono anche inclini a sviluppare infiammazioni a orecchie, naso e gola, con congestione dei seni nasali. Gli allergeni possono anche scatenare reazioni nel tratto respiratorio inferiore e portare ad attacchi di tosse accompagnati da dispnea.

Quale la differenza tra allergia e intolleranza? Mal di stomaco dopo aver bevuto un bicchiere di latte: si tratta di un’allergia o di un’intolleranza? La principale differenza tra un’allergia alimentare e un’intolleranza si evidenzia con la reazione dell’organismo nei confronti di uno specifico alimento. In caso di allergia è il sistema immunologico che gioca un ruolo centrale. Significa che reagisce a proteine in realtà innocue a cui fa seguito una reazione allergica. I sintomi più comuni sono prurito e gonfiore nel cavo orale, oltre a eruzioni cutanee, asma e – in casi estremi – lo shock anafilattico, che può portare alla morte. Se invece si soffre di intolleranza, significa che l’organismo non può digerire certe sostanze. Le intolleranze più comuni sono quella al lattosio e la celiachia (intolleranza al glutine). Nel caso dell’intolleranza al lattosio l’organismo non produce, o produce in modo insufficiente, l’enzima digestivo lattasi. Nei celiaci il glutine – una componente di gran parte delle varietà di cereali – provoca un danneggiamento della mucosa dell’intestino tenue.

iMpuls è l’iniziativa in favore della salute della Migros.

3 Lo sporco può rafforzare il sistema immunitario? Troppa igiene non è salutare. Uno studio negli anni 90 lo aveva già dimostrato: i bambini che crescono in una fattoria hanno meno probabilità di soffrire di allergie respiratorie rispetto a quelli di città. Ciò può essere spiegato dal contatto con gli animali e dalla grande varietà di microrganismi presenti in una fattoria. Non è però sufficiente mandare un bambino di città a trascorrere una vacanza in fattoria: il contatto deve avvenire per un lungo periodo di tempo. La prevenzione ha inizio già nel grembo materno: è infatti d’aiuto se una donna incinta trascorre molto tempo in una stalla.

Una mascherina può proteggere dal raffreddore da fieno? In effetti una mascherina può formare una barriera meccanica che protegge dai pollini. Anche l’irrigazione nasale regolare con una soluzione salina può contribuire a rimuovere il polline dalle mucose, migliorando la respirazione. Il trattamento può includere diversi prodotti come spray nasali, gocce per gli occhi o pastiglie, così come gocce antiallergiche da assumere per via orale.

Vuoi saperne di più in merito alle allergie?

I dossier iMpuls permettono di scoprire a quali sintomi prestare attenzione e come trattare le allergie. migros-impuls.ch/allergie

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QUeSti PRoDotti PoSSono AiUtARe 1 spray nasale antiallergico Riduce in caso di disagi causati dai pollini o da altri allergeni, come la polvere o i peli degli animali: starnuti, respirazione nasale difficoltosa, così come abbondanti secrezioni nasali. Sanactiv spray nasale antiallergico 20 ml Fr. 7.20

2 gocce antiallergiche per occhi Riducono il disagio causato da occhi arrossati, che lacrimano o prudono, scatenato da pollini o allergeni. Le gocce contengono Ectoin, un principio attivo naturale. Sanactiv gocce antiallergiche per occhi 10 x 0,5 ml Fr. 5.95

3 lavaggio nasale Contiene acqua di mare isotonica a ridotto contenuto di sale. Senza conservanti. Un prodotto naturale adatto per ogni mucosa nasale: per pulire e sciacquare il naso rimuovendo le secrezioni o le sostanze irritanti e per inumidire la mucosa nasale. Sanactiv lavaggio nasale 125 ml Fr. 12.95

4 spray oculare Idrata e rinfresca gli occhi e le palpebre secche e stabilizza lo strato lipidico protettivo della pellicola lacrimale. Adatto anche per gli occhi sensibili e per chi porta lenti a contatto. Può essere usato anche con gli occhi truccati. Contiene Aloe vera, acido ialuronico e liposomi. Sanactiv spray oculare 10 ml Fr. 9.95



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Cultura e Spettacoli Inspiring Nolan Alla scoperta della complessa e ricca biblioteca del regista Christopher Nolan pagina 40

Attraverso i luoghi con Dante Dante Alighieri, di cui ricorrerà il 700esimo dalla morte, non fu solo sommo letterato ma anche fine conoscitore della geografia

Cattaneo il pasionario Da Balerna al seguito di Garibaldi e poi negli USA: la parabola di Antonio Cattaneo

Il cinema delle donne Mancano pochi giorni alla cerimonia dei Quartz: fra le candidate vi sono molte donne

pagina 41

pagina 43

pagina 45

Le signore dell’arte

Mostre Opere tutte al femminile

a Palazzo Reale di Milano

Gianluigi Bellei In questi ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di esposizioni sulle donne artiste. Si parla sempre di scoperte o riscoperte, ma in realtà chi frequenta i musei sa che le può trovare (volendo fare una visita selettiva). Anche perché di donne si è parlato e scritto sin dall’antichità. Il primo probabilmente è Plinio nella sua Storia Naturale. Cita Timarete, Irene, Calipso, Aristarete, Olimpiade e Iaia. Quest’ultima pittrice di Cizico del I secolo avanti Cristo si è specializzata nei ritratti soprattutto di donne. Dipinge a macchia e «nessuna altra mano fu più veloce della sua e lo fece con tanta arte da superare di molto nei prezzi di vendita i due più famosi ritrattisti di quell’epoca, Sopoli e Dionisio». Ma facciamo un salto di qualche secolo. Il Vasari nelle Vite dedica una biografia a madonna Properzia de’ Rossi, scultrice bolognese. Il suo è un vero e proprio elogio della donna e per farlo cita alcune guerriere come Camilla, Arpalice, Valasca, Tomiri, Pantasiela, Mopadia, Orizia, Antiope, Ippolita, Semiramide, Zenobia; poetesse come Corinna, Safo, Erinna, Carissena, Teano, Polla…; nell’arte oratoria Sempronia e Ortensia; nelle lettere Vittoria del Vasto, Veronica Gambara, Caterina Anguisola, la Schioppa, la Nugarola, madonna Laura Battiferra per poi arrivare alle pittrici. Termina dicendo che «Possiamo dunque dire col divino Ariosto e con verità che ‘Le donne son venute in eccellenza di ciascun’arte ov’hanno posto cura’». Nel 1858 Ernst Guhl pubblica a Berlino Die Frauen in der Kunstgeschichte, la prima indagine sull’opera delle donne. Nel 1893 a Parigi Marius Vachon dà alle stampe La Femme dans l’Art che ha come obiettivo la glorificazione della donna come ispiratrice dei grandi geni, come modella, come protettrice dei pittori e come artista. Da allora gli studi e le esposizioni dedicate a loro sono prolificate. Torniamo al Vasari. Nella prima edizione delle Vite del 1550 cita solamente la scultrice Properzia de’ Rossi, mentre nella seconda del 1568 all’interno di codesta biografia parla pure di suor Plautilla, figlia di Pietro di Luca Nelli e che probabilmente si chiamava

Polissena; madonna Lucrezia figlia di messer Alfonso Quistelli della Mirandola e Soffonisba figlia di messer Amilcaro Anguisciola. Diverse di queste artiste hanno avuto negli ultimi decenni l’onore di un’esposizione monografica diventando così delle vere e proprie star. Citiamo Elisabetta Sirani a cura di Jadranka Bentini e Vera Fortunati al Museo Civico archeologico di Bologna nel 20042005; Lavinia Fontana a cura di Vera Fortunati sempre all’Archeologico di Bologna nel 1994 e le due esposizioni su Artemisia Gentileschi: la prima a cura di Roberto Contini e Gianni Papi a Casa Buonarroti di Firenze nel 1991 e la seconda a cura di Roberto Contini e Francesco Solinas a Palazzo Reale di Milano nel 2011. È proprio dalle artiste del Vasari che parte l’odierna mostra di Palazzo Reale Le signore dell’arte organizzata da Arthemisia. Per ora chiusa per via della pandemia. La mostra presenta 130 opere di 34 artiste e raccoglie tutto quanto si deve vedere per farsi un’idea del ricco patrimonio estetico di queste personalità a volte famose a volte no, a volte presentate con diverse opere altre con una sola. L’esposizione è visitabile on line oppure tramite il ricco catalogo edito da Skira. Parte dallo Stemma della famiglia Grassi del 1520 realizzato da quel caratterino di Properzia de’ Rossi. Sì, perché come donna che lavora al cantiere di San Petronio di Bologna assieme a tutti quegli uomini doveva essere tosta. Fede ne fanno le carte dell’Archivio criminale dal quale si evince che nel 1520 viene coinvolta per aver piantato nel giardino del vicino 24 piedi di vite e un albero di marasca. Nel 1525 aggredisce e «sgraffigna» il volto del pittore Vincenzo Miola. Muore di sifilide nel 1530 all’Ospedale di San Giobbe. Fra le artiste in convento troviamo Caterina Vigri in odore di santità e ovviamente Plautilla Nelli, seguace di Girolamo Savonarola, eccellente miniaturista e disegnatrice. Alcune donne provengono da nobili famiglie e altre sono semplicemente mogli o figlie di artisti. È il caso di Elisabetta Sirani, scomparsa a soli 27 anni, che dipinge nel 1659 il terribile Timoclea che uccide il capitano di Alessandro Magno e Lavinia Fontana con uno splendido Galatea

Lavinia Fontana, Galatea e amorini cavalcano le onde della tempesta su un mostro marino, 1590 circa. Olio su rame, 48x36,5 cm Collezione privata . (Carlo vannini )

e amorini cavalcano onde della tempesta su un mostro marino del 1590. Una nota speciale merita Marietta Robusti detta Tintoretta figlia di Jacopo. Di lei ne parlano sia Raffaello Borghini che Carlo Ridolfi. Il primo scrive che Tintoretto aveva una figlia che «oltre alla bellezza e alla grazia e al saper suonare di gravicembalo, di liuto e di altri strumenti dipinge benissimo e ha fatto molte belle opere». Segue una sezione dedicata alle accademiche. La prima donna ammessa a un’associazione di artisti è Diana Scultori nel 1580 accolta nella Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta di Roma. A Firenze l’Accademia delle arti e del disegno fondata da Giorgio Vasari nel 1563 accoglie Artemisia Gentileschi nel 1616. All’Accademia di San Luca

di Roma sono ammesse molte donne come Lavinia Fontana, Giovanna Garzoni, Elisabetta Sirani, Virginia Vezzi, Maddalena Corvina, Isabella Parasole e altre. L’ultima sezione è tutta dedicata ad Artemisia Gentileschi definita da Filippo Baldinucci nelle sue Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua del 1846 «vaghissima d’aspetto e valente pittrice quanto mai altra femmina». Quello che si nota subito osservando le opere è l’assenza di nudi maschili e quest’ultimi sono senz’altro l’ossatura della pittura, come lo studio dell’anatomia. Ma d’altronde non possiamo pretendere troppo e dobbiamo accontentarci di quelli femminili. Infine due parole sulle indagini diagnostiche volute dalla Fondazione

Bracco su due ritratti del duca Emanuele Filiberto di Savoia e del figlio Carlo Emanuele I, opere di Giovanna Garzoni del 1632-37. Si tratta di due guazzi su pergamena in cui le indagini non invasive hanno rivelato, fra le altre cose, i tipici colori usati in quel periodo per la carnagione: il vermiglione, l’ocra e la terra rossa, la barba e i capelli dipinti con terra di Siena bruciata e gli occhi con lapislazzuli. Dove e quando

Le signore dell’arte. Storie di donne tra ’500 e ’600. A cura di Annamaria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié. Palazzo Reale, Milano. Fino al 25 luglio. Catalogo Skira, euro 37. www.lesignoredellarte.it


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Cultura e Spettacoli

La biblioteca di Nolan

Personaggi Quali sono i modelli letterari di Christopher Nolan, regista che ha sempre

saputo conciliare successo commerciale con complessità artistica?

In scena Numerose

le nuove proposte artistiche

Sebastiano Caroni Spesso i grandi film, quelli che ci affascinano e che rivediamo con piacere, sono delle trasposizioni di romanzi più o meno importanti. Allora il libro può diventare lo specchio attraverso cui guardare il film. Oppure prima vediamo il film, che poi riscopriamo nella cornice narrativa del romanzo. Anche se letteratura e cinema sono, indubbiamente, medium diversi, le emozioni uniche che ci regala un libro possono magicamente ritrovarsi nella visione di un film, e viceversa. Ecco perché il fascino di un libro può portare alla scoperta di un film appassionante, e l’emozione di un film può spingerci, incuriositi, a immergerci in un libro. Come tutti i grandi registi, anche Christopher Nolan (autore di film memorabili quali Tenet, Inception, La trilogia del cavaliere oscuro, e Memento) ha i suoi scrittori prediletti. Come vedremo, i temi del doppio, dell’identità, del labirinto e del sogno ci conducono direttamente al centro di una serie di rimandi letterari, di somiglianze e di coincidenze intriganti che costellano l’immaginario del regista britannico. Dopo l’iniziale e già labirintico Following (1998), Memento (2000) racconta l’esperienza disorientante di un uomo che, provato da un trauma, subisce una disfunzione della memoria che gli impedisce di immagazzinare informazioni e di conservarle nel ricordo. Il titolo e la trama di Memento sono riconducibili al racconto Memento Mori firmato dal fratello Jonathan che, oltre ad essere un apprezzato regista, collabora attivamente nella stesura delle sceneggiature di Christopher. Nel successivo Insomnia (2002), Nolan pratica con estro, avvalendosi di un cast di eccellenza, l’esercizio del remake, riproponendo l’omonimo film diretto da Erik Skjoldbjærg nel 1997. Sullo sfondo di un continuo gioco di specchi fra finzione scenica e realtà biografica, con The Prestige (2006), il regista porta sullo schermo la rivalità,

Giorgio Thoeni

Il regista Christopher Nolan in collegamento durante un festival giapponese nel 2020. (Shutterstock)

magistralmente narrata nel romanzo omonimo di Christopher Priest (2006), fra due illusionisti inglesi vissuti a cavallo fra il 19esimo e il 20esimo secolo. Priest, peraltro, si delinea quale possibile modello letterario anche in altri film del regista; nel romanzo The Dream Of Wessex del 1979, per esempio, tematizza il motivo del sogno condiviso sviluppato in Inception (2010), a oggi forse il più conosciuto fra i titoli di Nolan. Purtuttavia, i modelli principali, e le fonti letterarie più dirette di Inception, vanno probabilmente individuate nel romanzo Paprika. Sognando un sogno dello scrittore giapponese Yasutaka Tsutsui, pubblicato nel 1993, e poi trasposto nel 2006 nell’omonimo film d’animazione diretto da Satoshi Kon. Tanto il libro di Tsusui, quanto la trasposizione di Kon, prefigurano, infatti, i ripetuti intrecci fra sogno e realtà e la peculiarità di alcune situazioni narrative di Inception. Inception merita poi un’attenzione particolare, perché permette di azzardare qualche ipotesi su alcuni libri

importanti senza i quali, forse, il film non sarebbe quel conturbante viaggio nel mondo dei sogni che ha appassionato così tanti spettatori. Vi ricordate Il GGG (acronimo che sta per Grande Gigante Gentile), il famoso romanzo di Roald Dahl, autore amatissimo dai giovanissimi e molto letto anche nelle nostre scuole? Ebbene, tanto nel film di Nolan, quanto nel romanzo di Dahl, incontriamo dei protagonisti alle prese con lo stesso dilemma: come fare sì che un soggetto che sogna, al risveglio, sia portato a credere che ciò che ha sognato non sia solo e semplicemente un sogno, ma un evento reale? Questa è la difficile impresa che gli esperti navigatori dell’onirico sono chiamati a compiere in Inception; un compito che, però, il GGG e la piccola Sophie hanno già portato a termine con molto ingegno nel romanzo di Dahl. Ma nella biblioteca di Nolan non troviamo solo romanzi, racconti, e sceneggiature, ma anche saggi scientifici, albi illustrati e libri di storia; fra i

testi scientifici, non può certo mancare Buchi neri e salti temporali (1994), il saggio divulgativo Kip Thorne, fisico teorico e consulente scientifico di Nolan in occasione di Interstellar (2014); oppure gli albi illustrati dei fumettisti Frank Miller e Alan Moore, da cui Nolan ha potuto attingere per dare forma a La trilogia del cavaliere oscuro (2005, 2008, 2012). O, ancora, libri di storia, soprattutto biografie e testimonianze, per creare l’atmosfera descritta in Dunkirk (2017). E anche per Tenet (2020), ultima fatica di Nolan, gli autori e i riferimenti letterari, filosofici e scientifici non mancano. Dalle teorie delle causalità inversa proposte dai fisici Richard Feynam e John A. Wheeler, alle considerazioni del filosofo Hilary Putnam sull’esistenza di una zona dello spazio-tempo in cui il tempo scorre a ritroso, uno spettatore appassionato ed eclettico può sicuramente trovare materia di indagine sulle fonti, letterarie e scientifiche, del grande regista Christopher Nolan.

Odio e linguaggio Linguistica Nella ormai ricca serie di studi dedicati al linguaggio d’odio, l’ultima

pubblicazione della pragmaticista Claudia Bianchi Stefano Vassere Lo studio del discorso d’odio alimenta, anche in Italia, una disciplina che negli ultimi anni è costantemente cresciuta e maturata. Questo settore dell’analisi linguistica (e socioculturale) pare essere diventato uno degli argomenti più produttivamente frequentati della sociolinguistica contemporanea, dalle prime raccolte di parole con tutt’al più qualche glossa o postilla, all’assunzione della

Un libro che fa bene.

Il teatro si reinventa in streaming

teoria pragmatica degli atti linguistici, all’applicazione decisa e inesorabile di questo modello con tutta la sua energia classificatoria e interpretativa. Con la teoria degli atti linguistici di John Austin siamo nelle parti più coraggiose della linguistica novecentesca, della cui onda lunga fanno buon uso spiegazioni anche molto attuali. Le parole che fanno cose, che determinano un’azione concreta sul mondo e sui nostri interlocutori; le cose che fanno parole, la direzione inversa dove la lingua è influenzata dai contesti nei quali è usata; la concezione della lingua come uno strumento potente, che può letteralmente fare del bene e del male, che piega le vite altrui, che riduce i margini del prossimo; la lingua che da sola non va da nessuna parte e che è necessario affiancare a un contesto dove gli interlocutori interagiscono per avere, appunto e infine, una vera ed efficace comunicazione. La pragmatica è in un certo senso la disciplina più utile dell’intera scienza linguistica; è da quei crocevia che transita infatti il piano della comunicazione reale. Claudia Bianchi è autrice di uno dei migliori manuali in questo campo, Pragmatica del linguaggio, pubblicato ormai quasi venti anni fa e che porta, a titolare i suoi capitoli, le intestazioni sto-

riche dello stesso Austin: Fare cose con le parole, Fare parole con le cose. Ora, nel flusso dinamico dei contributi su odio e linguaggio, esce questo Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, libro di peso e spessore, come si deve alla serietà dei temi e alla dignità dell’approccio ormai conquistata. I temi sono la trasmissione del disprezzo e della violenza all’indirizzo di un interlocutore individuale o collettivo; il ruolo di chi assiste a questa trasmissione; ma anche il potere di incitamento del linguaggio d’odio, la sua banalizzazione, la sua condivisione. Alla trattazione delle parole d’odio, gli approcci più recenti associano lo studio delle forzature sul piano della comunicazione stessa. Una sorta di «ingiustizia discorsiva», dove la persona con cui si parla appare ridotta se non addirittura annichilita e impossibilitata a fare valere le sue ragioni. Accanto alle conseguenze visibili e toccabili sull’integrità di chi è raggiunto da questo linguaggio e di chi gli sta in un qualche modo vicino, sono le stesse sue posture comunicative a venirne compromesse. Nell’ampio capitolo dedicato alla violenza sessuale, si cita l’immagine simbolica e fulminante della filosofa femminista Rae Langton, secondo la quale «la donna che cerca di rifiutare un rapporto sessuale è come

l’attore sul palcoscenico che tenta di avvertire il pubblico di un incendio scoppiato in teatro: per quanto si sforzi, i suoi tentativi verranno interpretati come parte di un copione, e sono votati al fallimento» Originale e rassicurante nella prospettiva della leggibilità è la scelta di questo libro di aprire ogni capitolo con la trascrizione di un esteso passo letterario, dove quanto poi verrà analizzato nelle pagine a seguire trova una sua anticipazione narrativa esemplare: lo scontro tra Miranda e Calibano nella Tempesta di Shakespeare, l’elegante descrizione della proposta di matrimonio del capitano Blifil a Miss Bridget in Tom Jones di Henry Fielding o quella di analoga situazione protagonisti Elizabeth Bennett e «l’orribile cugino sig. Collins» in Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Libri di questo tipo sono infine di notevole valore civile, per la materia trattata e per la serietà degli strumenti applicati. Insomma, fanno del bene alla società e al cittadino.

Il corpo nella sua poetica anatomia, nello spazio, le sue verità attraverso i sensi e la dimensione coreografica. Sono i temi drammaturgici delle prime proposte del LAC per Lingua Madre, il ricco e complesso progetto multimediale messo in rete dal polo culturale luganese per supplire alla mancanza di scena viva. È l’incontro di linguaggi performativi messi in relazione a più livelli, dal movimento a quanto si conquista con la ricerca. Due iniziali proposte: la prima con Poesie anatomiche: nove brevi ed efficaci componimenti di Francesca Sangalli, nati per confluire nei movimenti di Camilla Parini diretti da Alessio Maria Romano (Leone d’Argento alla Biennale Teatro di Venezia nel 2020). Nove poesie che s’impossessano del corpo con la parola che «scava all’interno dell’anatomia, mettendosi a cogliere il riverbero interiore legato al corpo anatomico (…) nell’idioma della scienza medica». Una struttura originale che permette interventi alla scoperta degli spazi architettonici del LAC con un’esplorazione silenziosa, criptica, emblematica. Peccato non aver associato i testi delle poesie al video preferendo lasciarli a una lettura separata… o in balìa di una voce poco evocativa. A scelta. La seconda proposta è per un percorso particolare, duplice: un docufilm di Cosimo Terlizzi che racconta le fasi della creazione dello spettacolo Aurora del coreografo Alessandro Sciarroni (Leone d’Oro a Venezia nel 2019) con l’aggiunta di una conversazione fra i due autori. Aurora è l’incontro fra professionisti e atleti non vedenti e ipovedenti a partire dall’approccio con il Goalball, sport paralimpico dove i giocatori si lanciano una palla basandosi solo sul tatto e l’udito. Un processo che arriva quasi ad annullare la patologia portando all’esaltazione altri sensi in una dimensione evocativa come il titolo, Aurora, intesa come apertura verso nuove percezioni. Concludiamo segnalando uno degli ultimi spettacoli messi online dai Teatri di Locarno e Chiasso: Vergine Madre di Lucilla Giagnoni. Dell’eccellente attrice e autrice fiorentina è ancora possibile rivedere le sei storie dantesche tratte dai canti fra i più celebrati della Commedia, un mezzo ideale nel quadro del settecentesimo dalla morte del sommo poeta. Creata nel 2001, Vergine Madre è una sorta di lectura dantis alla ricerca del Divino e del Femminile. Un’appassionata preghiera che si può, tra l’altro, ripescare in YouTube e che fa parte dell’intensa Trilogia della spiritualità, una serie di monologhi ormai divenuti un classico della Giagnoni con cui ha attraversato l’ultimo ventennio teatrale italiano.

Bibliografia

Claudia Bianchi, Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Roma-Bari, Laterza editore, 2021.

Un momento di Poesie anatomiche con Camilla Parini. (LAC)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Cultura e Spettacoli Vincenzo Vela (1820-1891), busto ad erma di Dante Alighieri (1265-1321), 1857, gesso, modello originale (© Museo vincenzo vela/ Mauro zeni)

Lo strappo che non si ricuce

Narrativa Nel nuovo romanzo di Balzano

la storia difficile di una badante rumena Angelo Ferracuti Marco Balzano è bravo come pochi a raccontare l’ordinarietà della vita quotidiana, quel battito che scandisce un tempo uguale per tutti e ripetitivo, quello della routine ma anche il più esistenziale, cruciale in una esistenza, dove si scatenano paure, passioni, e dove sogno e tragedia si mischiano. Il suo nuovo romanzo, di taglio neorealistico, dalla scrittura in bianco e nero, Quando tornerò, è la storia di una famiglia rumena presa dentro la meccanica sociale, in un paese che dopo il post-comunismo è ancora in preda a un forte disorientamento politico ed economico, il cui baricentro è una madre, Daniela, che all’improvviso scappa da Iași, un piccolo paese di campagna della Romania orientale al confine con la Moldavia e va a vivere in Italia a Milano.

Tracce dantesche a Lugano

Dantedì Il 25 marzo si celebra il settecentesimo anniversario

della morte del Sommo Poeta Dante Alighieri Manuel Rossello Uno dei modi più affascinanti di leggere la Divina Commedia sarebbe certo quello di intraprendere un Grand Tour che toccasse uno dopo l’altro gli innumerevoli luoghi d’Italia citati nel poema dantesco, iniziando magari dalla colossale Pietra di Bismantova, la cui vista avrebbe ispirato Dante per la descrizione del Purgatorio. Ma a ben vedere qualcosa di simile (un formidabile baedecker della Commedia) è stato ultimamente realizzato per opera di Giulio Ferroni (L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia, La Nave di Teseo, 2020).

A voler ben guardare, anche il canton Ticino è pieno di rimandi al grande Dante Alighieri D’altronde chiunque abbia letto le tre cantiche sa quanto sia acuminata la sensibilità geografica di Dante. Non c’è quasi canto, infatti, in cui non si aprano improvvisi, grandiosi squarci sul territorio, spesso sottoforma di similitudini. A settentrione (Milano, nella dizione metafonetica Melano, è menzionata solo incidentalmente) i limiti geografici più prossimi al Ticino della Commedia si possono fissare tra la frastagliata costa ligure («Tra Lerice e Turbia, la più diserta,/la più rotta ruina è una scala» Purg. III), Pavia (per il preciso riferimento alla chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, che Dante certamente vide, Par. X) e il Lago di Garda («Siede Peschiera, bello e forte arnese/ per fronteggiar Bresciani e Bergamaschi», Inf. XX). Se non ci sono prove documentali della presenza di Dante a Milano (si sa per esempio che non fu presente a un atto rilevante come l’incoronazione

di Arrigo VII a re d’Italia, il 6 gennaio 1311), manca a maggior ragione qualunque indizio di un suo passaggio nelle terre insubriche. In attesa dell’emersione di qualche fortuito e improbabile documento che ci smentisca, ci si può tuttavia consolare scoprendo alcune tracce dantesche disseminate a Lugano (ma si potrebbe allargare il raggio a tutto il Ticino). Non si può non iniziare allora citando la centralissima Piazza Dante, per scoprire con sorpresa che un tempo si chiamava «Piazza del liceo e S. Antonio». Il cambio del nome avvenne in piena Belle Epoque, nel 1910. L’hotel Dante di Piazza Cioccaro, invece, assunse originariamente il nome di battesimo del gestore dell’annesso ristorante. Più tardi, con un ispirato rebranding la proprietà valorizzò la denominazione acquisendo pure alcune opere prestigiose, come il ciclo di tele dantesche del pittore lucchese Gianfranco Rontani e un busto dantesco di Adelaide Pandiani Maraini. A Lugano è noto a chiunque un secondo busto bronzeo del ghibellin fuggiasco, pregevole opera di Vincenzo Vela, che scruta (parzialmente oscurato da un anonimo tabellone) professori e allievi nell’atrio del Liceo di viale Cattaneo. L’opera, inserita in una sorta di tabernacolo, venne ivi posta nel 1921 su impulso di Francesco Chiesa, l’allora direttore. Essendo l’iconografia dantesca forzatamente indiziaria, spesso gli artisti lo hanno tratteggiato con naso grifagno, bocca sdegnosa, volto «in gran dispitto». Un corruccio che intendeva significare il suo sdegno per le sorti dell’Italia. Qui, per quel che si può vedere essendo il busto collocato piuttosto in alto, Vela gli conferisce un’espressione più composta, quasi ieratica. Non sorprende che dal prototipo in gesso realizzato nel 1857 e conservato a Ligornetto venissero realizzate numerosissime fusioni in bronzo e altrettante versioni in marmo (una si trova

all’interno del municipio di Lugano): dopo le alterne fortune dei secoli precedenti, dal Romanticismo in poi (per non parlare dell’epoca risorgimentale e durante il fascismo) il culto di Dante non ha più conosciuto crisi. Ma a mio parere la traccia dantesca più significativa si trova a Massagno, presso la chiesetta settecentesca della Madonna della Salute. Il frontone è ornato da un’evidente iscrizione. Si tratta di una terzina, sublime, tolta dall’orazione di San Bernardo alla Vergine, dall’ultimo canto del Paradiso: «Donna, sei tanto grande e tanto vali/ che qual vuol grazia e a te non ricorre/ sua disianza vuol volar sanz’ali». Al di là del significato religioso, davvero un bell’omaggio all’universo femminile. Quando ancora insegnavo alle medie di Besso, talvolta vi portavo i miei alunni e quella terzina gliela facevo mandare a memoria. L’apposizione dei versi, stando alle Note storiche su Massagno di Domenico Robbiani, risulta coeva alla costruzione (1729). A voler censire con maggior diligenza gli echi danteschi a Lugano (questo mio articolo dà conto di una campionatura molto parziale, e in ogni caso non sono uno specialista di Dante) sono sicuro che emergerebbero molte altre testimonianze. Solo per fare un esempio minimo: nel cimitero di Gentilino (dove sono custodite le spoglie di Hermann Hesse) si può vedere, subito a sinistra dell’entrata, un bassorilievo raffigurante il professor Martino Giorgetti, morto nel 1915, attorniato da alcuni libri, tra cui le opere di Dante. Per tornare a Milano, quando ero studente al Collegio Ghislieri di Pavia, un giorno chiesi al professor Angelo Stella un giudizio sul poeta milanese Bonvesin dalla Riva, contemporaneo del ben più celebre fiorentino. La sua risposta mi lasciò interdetto, ma mi rese pure edotto sui rapporti di forza tra i due poeti: «Ah», esclamò l’illustre docente, «se solo Dante non fosse mai nato!»

Fra i punti di forza dello scrittore italiano è la sua capacità di raccontare l’ordinarietà del quotidiano «Moma», così la chiamano i figli, è una delle tante invisibili che abitano le nostre famiglie, accudiscono i vecchi, governano gli appartamenti e si ritrovano spaesate nel tempo libero a camminare solitarie nei parchi, scambiando messaggi con i famigliari nei display luccicanti dei telefonini, l’unica forma di contatto con il mondo lontano che sono state costrette a lasciare. La storia è raccontata a tre voci, come altrettante partiture di un collage narrativo che si realizza attraverso diversi sguardi, sensibilità e punti di vista, con una tenuta narrativa invidiabile, sempre serrata e centrata sui fatti che non si concede mai divagazioni, restando sempre fedele e ancorata al dato di realtà, al qui e ora di questi destini intrecciati. Le altre due voci narrative sono quelle dei figli Manuel e Angelica, «gli orfani bianchi», che dopo la partenza della madre, e quella del padre, Filip, il grande assente del libro, il quale per sbarcare il lunario va a fare il camionista sulle strade siberiane, sono costretti a reinventarsi le proprie vite, in preda a frustrazioni e immaginazioni perturbanti. La lingua che Balzano usa è scarna ed essenziale, fa economia di dettato, raramente si concede lirismi, e si differenzia nelle tre voci che raccontano aderendo alla fisionomia dei personaggi, e alle ambientazioni, dal romanzo di formazione del giovane Manuel, acerbo e sbandato, svogliato a scuola, rimasto a vivere solo con la nonna Rosa e il nonno Mihai, un vecchio contadino che cura l’orto e alla fine del podere ha messo una vecchia locomotiva di tre-

no dove lui va a rintanarsi, a quello del viaggio e della distanza, anch’esso un racconto di perdita, quello di una madre, Daniela, sospesa tra interni claustrofobici metropolitani, desiderio di emancipazione e senso di colpa, come quello di molte donne che emigrano, presa dal «mal d’Italia», «la depressione che colpisce chi resta per anni lontano da casa e dai figli per accudire gli anziani, i non autosufficienti, i malati»; fino a quello di Angelica, «Boomerang», che chiude il libro e apre a un altro distacco, non solo geografico ma proprio dell’entrata nel mondo degli adulti. È l’altra faccia della storia recente, quella che in tanti non vogliono guardare, chiudendo gli occhi, le ragioni politiche, sociali, esistenziali, che spingono molti ad abbandonare la propria terra e a partire per migliorare la propria condizione, le lacerazioni e i drammi di chi lascia i propri padri e i propri figli per occuparsi di quelli degli altri, oltrepassando quella frontiera sensibile, invisibile, traumatica di cui ha scritto nei suoi reportage Alessandro Leogrande. Eppure, molti di questi invisibili abitano le nostre case, vivono vicino a noi, ci siedono a fianco sugli autobus, portano a letto e danno da mangiare ai nostri vecchi, ai nostri bambini, di cui conoscono i corpi meglio di quelli dei propri, e chiedono di essere cittadini ma soprattutto persone. Uno dei molti pregi di questo romanzo, è quello di mostrare cosa succede dentro una vita, dentro un’esistenza, quando si parte per andare lontano, cosa produce lo strappo del vuoto, una ferita invisibile che colpisce in due punti lontani chi parte e chi resta, crea fratture nei rapporti famigliari, condiziona il futuro di tutti e cambia irreparabilmente e per sempre i destini. Balzano compie questo disvelamento con le armi della scrittura, quelle della letteratura, entrando nelle vite degli altri e facendole sue, perché come scrive in una nota finale «una storia prima di raccontarla bisogna saperla ascoltare». Un incidente che colpisce all’improvviso il giovane Manuel, il punto di rottura dove il libro prende una traiettoria imprevista e va dritto al cuore, costringerà la donna a tornare al suo paese, e tutti i componenti della famiglia a ripensare alla propria storia. Niente sarà più come prima per nessuno, ognuno di loro si chiederà se dopo il big bang provocato nelle loro vite sarà ancora possibile essere un padre, una madre e un figlio come prima, come e dove ricominciare; ma come dice Daniela in un passo toccante del romanzo: «La speranza è una cosa concreta, come la sete. Annoda le viscere e addensa il sangue». Bibliografia

Marco Balzano, Quando Tornerò, Torino, Einaudi, 2021

Un dettaglio della copertina del libro di Balzano.


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Cultura e Spettacoli

In nome dell’ideologia

Personaggi Il balernitano Antonio Cattaneo partecipò a quattro campagne per l’indipendenza d’Italia al seguito

di Garibaldi e alla guerra di secessione statunitense Benedicta Froelich Per quanto sorprendente possa apparire agli stranieri, la neutrale Svizzera ha spesso dato i natali a personaggi che, pur vivendo al di fuori dei teatri di guerra del momento, si sono appassionati a tal punto a cause e ideologie solo apparentemente lontane da decidere di lasciare ogni cosa per partecipare alle lotte altrui. E il Ticino, da sempre terra «di mezzo» a cavallo tra Svizzera interna e Italia, si presta particolarmente a questo genere di commistioni: come dimostra il caso del fenomenale Antonio Cattaneo (1833-1871), originario di Balerna, che tra il 1859 e il 1867 prese parte come volontario a ben quattro campagne per l’indipendenza d’Italia al seguito di Giuseppe Garibaldi – per poi decidere addirittura di partecipare alla guerra di secessione americana. Ancora oggi, chi si rechi al santuario di S. Antonio di Balerna può ammirare una singolare lapide commemorativa, che, collocata al di fuori del sagrato, perpetua la memoria di Cattaneo, descritto come «capitano nelle armate svizzera e americana, soldato, tenente, capitano nelle file di Garibaldi (…), valoroso e prode sempre». Ma com’è possibile che oggi quasi nessuno si rammenti di questa figura epocale? Eppure, al tempo della sua morte (ad appena trentott’anni, per un attacco di tisi), il sindaco di Balerna, Edoardo Canova, volle onorare l’ultimo desiderio dell’illustre concittadino – quello di essere sepolto proprio sul colle di S. Antonio, all’ombra di un tiglio – sottolineando come egli non avesse mai vissuto per sé, ma solo «per l’umanità e la libertà». In effetti, si può dire che Antonio Cattaneo abbia dedicato la vita al servizio militare improntato all’indipendenza e liberazione dei popoli oppressi: e rispolverando quel poco che si sa della sua vita, appare evidente come la sua iniziazione agli ideali libertari affondi le radici nel clima politico che si respirava in un Ticino all’epoca ultraclericale, oppresso dalle rappresaglie che il vicino Regno Lombardo-Veneto imponeva a una regione considerata terreno fertile per esuli e dissidenti (i quali, in quegli anni,

Ritratto del garibaldino Antonio Cattaneo a opera di Antonio Rinaldi da Tremona. (Municipio di Balerna)

beneficiavano delle stamperie libere di Lugano e Capolago per pubblicare pamphlet «sovversivi»). Di fatto, Cattaneo iniziò la sua carriera garibaldina nel 1859 con la Seconda guerra d’indipendenza italiana, prendendo parte in modo ufficioso (come semplice aggregato) alle battaglie svoltesi nel comasco e nel varesotto, tra cui quelle di San Fermo e di Malnate, combattute al seguito dei Cacciatori delle Alpi, di cui sarebbe divenuto membro nel luglio di quell’anno. Non solo: Antonio era presente anche allo sbarco a Marsala (1860), i cui protagonisti indiscussi furono gli

eroici volontari noti come «i Mille» – seppure il suo nome non risulti nella lista ufficiale dei combattenti, dato che, con ogni probabilità, egli fece parte dei molti che si unirono alla spedizione solo lungo la strada. All’arrivo a Napoli, Cattaneo, promosso sottotenente di fanteria, si trovò però confrontato con la grande delusione che attendeva tutti i volontari garibaldini, congedati senza troppe cerimonie affinché il merito dell’impresa andasse al Re Vittorio Emanuele II e non a un’armata di «irregolari», considerata da Cavour come poco presentabile. Forse fu proprio quest’umiliazione

a convincere Antonio a varcare i confini europei per proseguire la carriera militare negli Stati Uniti, in quegli anni preda della sanguinosa guerra civile: il 1861 lo vide infatti arruolato tra le fila degli unionisti di stanza a Indianapolis, forse anche per via delle voci che volevano Garibaldi intenzionato a prendere parte alla guerra come comandante nordista. Ma i nuovi piani del comandante a cui Cattaneo rimaneva fedelissimo lo convinsero a lasciare in fretta e furia il continente americano per prendere parte alla surreale «Giornata d’Aspromonte» (1862) – impresa che portò a una

nuova caduta in disgrazia dell’eroe dei due mondi e dei suoi seguaci. Il conseguente ritorno a Mendrisio non giovò ad Antonio, il quale, in quanto libertario e anticlericale, divenne preda dei costanti attacchi del parroco Gaetano Pollini; e fu quindi con gioia che, nel 1866, lasciò il retrogrado borgo per seguire nuovamente Garibaldi nella storica invasione del Trentino, celebre per la cruciale vittoria a Bezzecca. Il valore mostrato sul campo dal Cattaneo spinse lo stesso Garibaldi a scrivere una lettera di raccomandazione per il prode ticinese, il quale, data la precarietà della sua situazione in patria, intendeva ripartire alla volta dell’America; e se la malattia finì invece per costringerlo a una sosta forzata nel Mendrisiotto, non poté comunque impedirgli un’ultima avventura al fianco di Garibaldi: la campagna dell’Agro romano (1867) si concluse però con la disfatta di Mentana, segnando la fine delle avventure militari dell’ormai stanco e provato Antonio – il quale, ritiratosi infine a Mendrisio, si ritrovò scansato da tutti, famigliari compresi, a seguito della scomunica ordinata contro di lui da Pio IX, certo con gran gioia del parroco Pollini. Forse anche per questo, dopo la morte (e il dono di tutte le proprie sostanze al comune di Balerna), Cattaneo è infine divenuto una tra le tante figure storiche pressoché rimosse dalla memoria collettiva del nostro Cantone – finché, nel 1971, un articolo di Enzo Lombardo sul «Corriere del Ticino» non rivelò al pubblico la storia del «garibaldino svizzero». Nel ’75, lo storico Giuseppe Martinola approfondì la vicenda, rinvenendo anche il Ritratto del garibaldino Antonio Cattaneo a opera dell’artista Antonio Rinaldi di Tremona. E se la sua lapide appare tuttora negletta anche dai compaesani, oggi, a esattamente 150 anni dalla morte, sarebbe crudele ignorare un anniversario che, come ogni ricorrenza, rappresenta un’ottima occasione per riscoprire una figura particolarmente pittoresca del nostro passato – e per onorare la memoria di un uomo coerente e coraggioso, che scelse di impiegare la propria breve vita al servizio di quegli ideali di libertà e indipendenza da sempre a lui cari. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Un momento di Schwesterlein delle registe Reymond/Chuat.

Il festival delle camelie in streaming Concerti Torna la rassegna primaverile

locarnese dedicata alla musica antica

Nouvelle vague rosa?

Quartz Alla vigilia del Premio del cinema svizzero spicca il numero

importante di donne in gara

Nicola Mazzi Il film favorito del Premio del cinema svizzero 2021 (i Quartz) – che si tiene il 26 marzo a Ginevra – è Schwesterlein delle registe Véronique Reymond e Stéphanie Chuat. Candidato per la Svizzera all’Oscar (anche se purtroppo non è entrato nella shortlist dei 15 Paesi in corsa per il premio nella categoria dei film stranieri), ha dalla sua ben sei nominations. È seguito da Platzspitzbaby di Pierre Monnard con quattro e da Mare di Andrea Štaka con tre. Bene anche Atlas, di Niccolò Castelli, che tiene alta la bandiera del Ticino con due candidature (miglior film e miglior fotografia). Diciamolo subito: l’opera delle due registe losannesi è il migliore in lizza. La storia di Lisa (una bravissima Nina Hoss), drammaturga che ha smesso di scrivere e che fa il possibile per far risalire sul palco il fratello attore gravemente malato di tumore, è di quelle che colpiscono. Già nel concorso principale a Berlino nel 2020, Schwesterlein commuove per il modo in cui viene messo in scena il rapporto tra i fratelli e soprattutto per l’abnegazione con la quale la sorella cerca di far vivere nel migliore dei modi gli ultimi giorni di vita al fratello. Una storia, anche un poco autobiografica, in quanto la stessa Stéphanie Chuat – proprio durante la lavorazione del film – è stata colpita dalla malattia della madre che ha

accompagnato sino alla morte. Un fatto al quale le due registe hanno attinto per aumentare il realismo di alcune scene. Un tema, quello del prendersi cura di altre persone, che è centrale anche in Mare di Andrea Štaka (già vincitrice a Locarno nel 2006). In questo caso seguiamo la vita troppo tranquilla e monotona di Mare che vive con i figli e il marito, se ne prende appunto cura, in una modesta casa vicino a un aeroporto (simbolo della fuga), fino a quando non incontra un giovane lavoratore che sconvolgerà la sua routine. Il terzo film in lizza per il Quartz è Platzspitzbaby, che ci fa fare un tuffo negli anni 90, in quel famigerato parco zurighese, ritrovo dei tossici di tutta Europa. Anche in questo caso la protagonista è una donna, anzi una ragazza, Mia, la quale cerca in tutti i modi di aiutare la madre a disintossicarsi: ancora una volta torna il tema della presa a carico di una persona che ha bisogno di un aiuto. Soggetto presente anche in Wanda, Mein Wunder (che aveva aperto il Festival di Zurigo dopo un premio al Tribeca di New York), nel quale una madre polacca lascia i suoi due figli e il suo paese per occuparsi di un uomo paralizzato dopo un ictus, in una villa sul lago di Zurigo. Infine, nella cinquina per il miglior film, abbiamo anche il ticinese Atlas (presentato in apertura a Soletta) di cui abbiamo già parlato, evidenziandone

pregi e difetti. In fondo, se ci pensiamo bene e collegandoci al nostro tema, anche in questo caso siamo di fronte alla cura, ma rivolta a sé stessi e al proprio dolore dopo l’uccisione degli amici. La presenza «ticinese» non si limita al film di Castelli, ma comprende anche altre opere. Per esempio, Il mio corpo di Michele Pennetta nella sezione «Documentari» che racconta di come alcune persone cercano di sopravvivere in una Sicilia abbandonata. Tra i cortometraggi è stato nominato Tuffo di Jean-Guillaume Sonnier. Ambientato sulle rive del Gambarogno, mette in scena un mistero: da generazioni alcune donne scompaiono nel lago senza lasciare traccia. E, tra i migliori film d’animazione, è presente anche Only a Child di Simone Giampaolo, il quale assembla le tavole di 20 disegnatori che accompagnano le parole ambientaliste di una 12enne, pronunciate al Summit di Rio nel 1992. Quella di quest’anno è un’edizione particolarmente al femminile, con molte donne davanti e dietro alla macchina da presa. E del resto la tendenza era stata ben presente nei maggiori festival svizzeri del 2020. Partendo da Soletta, passando per Nyon e Locarno per arrivare a Zurigo e a Castellinaria di Bellinzona. A dimostrazione della bravura di una nuova generazione di registe e attrici e forse della presenza in Svizzera di una nuova Nouvelle Vague a tinte rosa.

Sono tempi difficili per la musica, ma lentamente il settore concertistico trova nuove forme di espressione e, utilizzando i sempre più affidabili canali telematici, si avvicina al suo pubblico portando il proprio contributo alla vita culturale del cantone. Un esempio in questo senso ci viene anche dai «Concerti delle camelie», rassegna locarnese sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino, che si presenta in versione streaming continuando per il tredicesimo anno nel suo originale percorso attraverso la musica antica. Abbiamo posto alcune domande all’organizzatrice, la violinista Fiorenza de Donatis. Signora De Donatis, una scelta coraggiosa riprendere i vostri concerti primaverili in tempo di pandemia...

La voglia e il desiderio di far ripartire la Cultura sono grandi e abbiamo quindi deciso di proporre al pubblico i 4 concerti delle camelie in versione live streaming, per dare un segnale di presenza e di continuità alla nostra proposta culturale. Il programma procede sul solco di quanto tracciato in passato?

Abbiamo dovuto cambiare la programmazione per due dei 4 concerti previsti. Un concerto avrebbe visto coinvolti 19 musicisti e con le restrizioni attuali a 5 persone in un luogo chiuso non era fattibile. In un altro concerto avrem-

mo avuto due musicisti provenienti dalla Spagna, nazione che ha l’obbligo di quarantene e tamponi. Abbiamo quindi optato per artisti locali. Gli altri due concerti sono invece la riproposta di quelli non eseguiti lo scorso anno.

In questa situazione per lei è più complicato il ruolo di organizzatrice o quello di interprete?

Quello di organizzatrice comporta il pensare, gestire, organizzare molte cose; dall’allestimento della sala, alla fiorista, all’acqua per i musicisti, al posizionare i leggii e le sedie, all’accoglienza. Quello di interprete comporta «solo» una perfetta preparazione, attenzione e concentrazione nelle prove e al concerto. Come ha vissuto il periodo dell’ultimo anno? Più in generale, in che modo i musicisti classici hanno affrontato un’emergenza di questo tipo?

Abbiamo cercato di reinventarci, proponendo dei video musicali o facendo dei piccoli interventi tramite streaming, ma naturalmente l’aver perso tanti concerti è stato un duro colpo. Ci sono stati momenti che le piace ricordare del lavoro svolto negli ultimi mesi?

L’essere entrata sul palco e aver sentito l’applauso del pubblico: questo è capitato ad ottobre, poi le sale da concerto hanno chiuso nuovamente le porte./AZ

Programma dei concerti Venerdì 26 marzo, 20.30

Fiorenza De Donatis, violino, Luca Pianca, tiorba e chitarra. «La sonata per violino e basso continuo dalle origini a Paganini» Musiche di D. Castello, G.B. Fontana, L. Tracetti, A. Vivaldi, F. Gragnani, N. Paganini. Venerdì 9 aprile, 20.30

Marcello Gatti, flauto traversiere, Francesco Corti, clavicembalo. «Le Sonate di J.S. Bach» Venerdì 16 aprile, 20.30

Flora Papadopoulos, arpa barocca. «Dal Violino all’Arpa» Musiche di H.I.F. Biber,

G. Tartini, B. Marini, E.J. de la Guerre, A. Corelli, J.S. Bach Venerdì 23 aprile, 20.30

Accademia dell’Arcadia Turicum Sabrina Frey, flauto dolce, Fiorenza de Donatis, violino, Marco Testori, violoncello, Philippe Grisvard, clavicembalo, Vanni Moretto, violone «Gioielli Musicali» Musiche di J. F. Fasch, W. Babell, G. F. Händel, J. S. Bach G. Sammartini, G. B. Platti, G. P. Telemann Il live streaming sarà trasmesso sul sito www.concertidellecamelie.com.

WandaVision, un gioco caleidoscopico Serie tv La fase quattro del Marvel Cinematic Universe si apre nel segno dell’originalità Fabrizio Coli Film, fumetti e serie tv, strettamente intrecciati tra loro per sfruttare tutto il potenziale dei supereroi del leggendario marchio. Che il Marvel Cinematic Universe fosse un generatore di prodotti spettacolari lo sapevamo già. Che fosse anche in grado di esplorare forme nar-

rative tutt’altro che stereotipate ce lo dimostra WandaVision. Alla recentissima serie prodotta dai Marvel Studios per Disney+ il compito di aprire in modo sorprendente la fase 4 dell’MCU, quella che con una carrettata di film per il cinema e prodotti televisivi, accompagnerà gli spettatori dal 2021 al 2023. Wanda Maximoff e Visione: lei

Protagonisti della serie sono Elisabeth Olsen e Paul Bettany. (Disney/Marvel Studios)

una sorta di strega dotata di enormi poteri, lui un androide creato da un’intelligenza artificiale e da forze cosmiche, macchina razionale ma capace anche di innamorarsi. Lo avevamo lasciato morto in Avengers: Infinity Wars del 2018. Interpretati come sul grande schermo da Elizabeth Olsen e Paul Bettany, questi due personaggi secondari della saga supereroistica ora sono protagonisti di uno show tutto loro. E quando diciamo show, lo intendiamo nel più classico dei modi. Ambientata dopo gli eventi del blockbuster Avengers: Endgame del 2019, la serie si apre infatti in maniera straniante, come una sit-com degli anni Cinquanta e Sessanta: in bianco e nero, in formato 4/3, con episodi iniziali di circa mezz’ora e tanto di risate registrate a sottolineare le ingenue gaffe dei nostri eroi. Invece dei soliti sgargianti costumi, Wanda e Visione vestono i panni di una (quasi…) comune coppia marito e moglie della classe media. Siamo a Westview, un paesino come tanti della provincia

americana. L’atmosfera è quella di serie d’altri tempi come I Love Lucy o il Dick van Dyke Show. Ma richiama anche Pleasantville e Truman Show, visto che già gli ultimi secondi del primo episodio ci suggeriscono che quella che stiamo guardando non è l’unica realtà. Per un attimo tornano i colori e il formato consueto. Qualcuno sta osservando i protagonisti da un altrove non meglio identificato. Si intuirà presto che Westview è una specie di anomalia spazio-temporale. E che fuori dalla cittadina, i governativi stanno monitorando il fenomeno, pronti ad agire… Di più non sveliamo, né sulle motivazioni dell’azione né sugli altri personaggi. Perché più che nella trama intrigante, più che nella sfarzosa produzione ad alto budget, il punto di forza di WandaVision sta nel modo originale in cui la linea narrativa legata alla sit-com e quella che si svolge fuori da Westview, si intrecciano, si modificano e plasmano il racconto mentre gli episodi (nove in tutto) aumentano di dura-

ta e l’una prende il sopravvento sull’altra. La scelta della «modalità sit-com» è saldamente ancorata nella trama dove alla fine tutto torna. Ma è anche un nostalgico e geniale omaggio ai linguaggi televisivi e alla loro evoluzione. Di episodio in episodio si allude a prodotti di vari decenni, ora a Vita da Strega, ora a Casa Keaton, ora a Friends o Modern Family, fino a un finale di serie che, fra botti ed effetti spettacolari ci riporta allo stile Marvel che conosciamo. Tutto questo inserendo persino tematiche più intime: amore, morte, mancanza e perdita, con un tocco che ha del poetico. Forma (anzi forme, al plurale) e contenuto si sostengono a vicenda. La showrunner Jac Schaeffer – coadiuvata dal regista Matt Shakman – ha fatto uno splendido lavoro nel mettere in piedi un virtuosistico e divertente gioco di prestigio narrativo. Intanto nel Marvel Cinematic Universe quanto seminato in WandaVision proseguirà nel film Doctor Strange in The Multiverse of Madness. Ne vedremo delle belle.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 marzo 2021 • N. 12

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Effetti collaterali Non amo i vaccini ma per quello del Covid mi sono subito messo in lista d’attesa nella categoria degli ultraottantenni. La memoria ritorna a un altro vaccino, una storia di una ventina d’anni or sono. Il tutto ha inizio con la proposta di un’agenzia di viaggio: «Ti andrebbe di intrattenere 230 persone che compiono un viaggio premio di dodici giorni in Vietnam, Cambogia e Malaysia? In cambio viaggi gratis». «Quando partiamo?». Moglie e figli, invidiosi della fortuna che mi è capitata, tentano di insinuare una crepa nella mia felicità, consci della mia diffidenza per l’arte medica: «Chissà quante vaccinazioni dovrai fare!». Invece un memorandum dell’agenzia informa che non sono richiesti certificati di avvenuta vaccinazione. Al limite «si consiglia il trattamento antimalarico». Poco male, si tratterà di mandar giù con un po’ d’acqua una pastiglia di chinino ogni mattina. Pura illusione. Il medico di famiglia mi informa che la zanzara anofele moderna si è emancipata e con

il chinino ci fa la birra, per prevenire la malaria esistono farmaci ben più efficaci. «Te ne prescrivo uno che va preso da una settimana prima della partenza e continuato fino a una settimana dopo il rientro». Per fortuna non sono iniezioni ma semplici pastiglie. Sente il bisogno di avvertirmi: «Tieni presente che questo farmaco presenta qualche effetto collaterale». «Sarebbe?», domando con un tremito nella voce. Il medico sfila dallo scaffale il trattato sulle malattie tropicali e inizia a leggere: «Gli effetti collaterali più frequenti sono danni al fegato, nausea, vomito, giramenti di testa, sonnolenza, torpore, letargia, stati confusionali, difficoltà nella parola e nell’articolazione degli arti. Segue l’elenco di quelli che hanno una percentuale più bassa. E sono...». «Fermati! Ho capito: fare un viaggio in stato comatoso deve essere il massimo della goduria!». Il medico mi viene incontro: «Io, al posto tuo, non farei il trattamento, lascerei perdere. Al limite mi limiterei a rico-

prire di Autan le parti dell’epidermide esposte al tramonto quando la zanzara anofele entra in azione. Poi però se ti prendi la malaria non venirmi a dire che è colpa mia, che ti ho consigliato male». E questo sarebbe un amico! Per maturare una decisione sensata, tornato a casa, consulto l’enciclopedia medica (Wikipedia non esisteva ancora). Apriti cielo! Scopro l’esistenza di un ampio catalogo dove posso scegliere la malaria preferita, la terzana benigna, la quartana, la terzana maligna e avanti per pagine e pagine. In compenso la malaria non è l’unico rischio. Abbiamo le malattie da parassiti microscopici, specialità dei paesi tropicali: la schistosomiasi, la tripanosomiasi, l’amebiasi, la giardiasi, la leishmaniosi. Meglio fermare qui la lettura, quasi quasi trovo una scusa e non parto. Come faccio? Ho detto a tutti quelli che incontravo che stavo partendo per un giro in Asia, non posso tornare indietro. Così sono partito con una confezione da sei di Autan,

dimenticando poi lo stick nell’albergo di Saigon quell’unica volta in cui sarebbe stato prudente metterlo in azione, durante una navigazione al tramonto sul delta del Mekong. Il caso ha voluto che sbarcassimo su un’isola nel momento in cui stava per iniziare una cerimonia nuziale celebrata nello stile tradizionale. Non ci siamo limitati a fare da spettatori ma, volenti o nolenti, abbiamo preso parte al sontuoso rinfresco, un’ulteriore prova di quanto sia gentile e ospitale il popolo vietnamita. Risaliti sul battello, ho commentato l’evento con la signora dell’agenzia: «Siamo stati ben fortunati a capitare al momento giusto». Non dimentico il suo sguardo di compatimento: «Era un matrimonio finto, lo recitano tutti i giorni per i turisti». Quanto alla malaria l’ho scampata e in compenso ho imparato un sacco di cose dai miei compagni di avventura. Fra i miei compiti di intrattenitore c’era quello di andarmi a sedere ogni volta a un tavolo diverso. Erano tutte persone

amabili, con grandi esperienze di viaggio, in grado di mettere a confronto, a pranzo e a cena, una diarrea presa in Malesia rispetto a una diarrea australiana o patagonica. Ho scoperto che ciascuno di loro si era portato in valigia un intero armamentario di medicinali per ogni evenienza. Pronti tutti a venire in soccorso con generosità ai compagni in caso di bisogno. Nasceva attorno a quei tavoli una vera e propria gara. Era sufficiente che uno dei commensali iniziasse a confidare un qualche disturbo, per lo più collocato nell’intestino, per scatenare una gara di offerte di rimedi. Era commovente constatare con quanto accanimento si contendevano l’onore di curare il compagno in difficoltà. La sera andavo a dormire convinto di stare viaggiando con una comitiva di rappresentanti di industrie farmaceutiche. Dei paesi visitati francamente ricordo poco o nulla ma sulle malattie tropicali e i possibili rimedi potrei intrattenervi per ore.

morta da un po’ di anni, quindi il posto è vuoto, preferirei diventare un verme o una zecca, piuttosto che quella mia zia; la quale nel frattempo chissà cosa è diventata, spero un pollo d’allevamento, che è peggio dell’inferno, e se lo merita, pigiata in una stia, con altre zie perfide uguali, a beccarsi e spennarsi a vicenda, tirate su a ormoni, ogni tanto avranno lampi di memoria di quand’erano zie nel consorzio umano e, pur con la mente del pollo, capiranno il male e le perfidie che hanno fatto. C’è anche chi ha pensato alla fama come forma di sopravvivenza. Uno muore ma resta la fama, ed è un po’ come se non morisse. La forma più tangibile è una statua, un busto. Ad esempio sei stato un condottiero, sei stato Bartolomeo Colleoni e ti hanno fatto la statua, a Venezia. Sì, un briciolo di soddisfazione c’è, peccato che il Colleoni non se la possa godere, a godere casomai sono i turisti che la fotografano. La gloria, la fama in realtà è aria fritta, è come il nome dato

a una via, se la via è lunga significa che la fama è maggiore, se è un vicoletto è perfino un’umiliazione. La fama è disposta gerarchicamente, già è una cosa spiacevole anche in vita questa graduatoria tra gli esseri umani; pensare che continui anche dopo è deprimente. E poi la maggioranza non ha fama, se non la minima fama in famiglia, supportata dall’album di fotografie, che ingialliscono, sbiadiscono, vanno perse, e anche quel po’ di memoria va persa con loro. Ci sono altre forme di sopravvivenza? Forse l’unica appena un po’ veritiera è un libro scritto, meglio di tutto una raccolta poetica o un romanzo. Nelle parole scritte l’autore riversa la propria anima, che si riattiva ed entra in colloquio con chi legge. Un libro continua ad essere una persona che parla e racconta, la sua mente si salva, anche se il corpo se n’è già andato. Forse. E dico che forse questo riguarda tutte quelle opere in cui un autore ci mette l’anima; forse più in generale sono le opere d’arte che fanno

restare in vita, anche se una forma di vita diversa. Ho sempre pensato che la libreria che ho in casa sia una riserva di anime vive, che posso prendere, fare sedere con me sul divano, comodi, in intimità, e parlarci. Anche per lui dev’essere una soddisfazione, continuare a discorrere e a passarmi i suoi sentimenti. La libreria è un piccolo aldilà, anzi un piccolo limbo che ospito. Quindi, riassumendo, l’aldilà in cui si sopravvive è sparso in tante case, con accumuli densi di anime nelle biblioteche, ma anche nelle collezioni d’arte e nelle architetture delle città. Perciò non si disperi, con i defunti continuiamo a viverci. E i defunti che non hanno lasciato opere d’arte? Beh, questi continuano ad aggirarsi per un po’ nei dintorni, tante cose continuano a parlare per loro, perché l’anima impregna gli oggetti e fa fatica ad evaporare. Poi anche gli oggetti arrugginiscono, o finiscono venduti a un antiquario e non parlano più. (Continua sul sito azione.ch)

affidata a poeti maschi nati negli anni 50, 60, 70, 80 e neppure 90… Ma neanche una delle migliori traduttrici dall’inglese, la studiosa shakespeariana Nadia Fusini (6), pur essendo donna, avrebbe i connotati anagrafici ed etnici richiesti. D’altra parte, Ginevra Bompiani (6-) ha preso posizione sulla polemica ricordando di aver tradotto qualche poeta eschimese pur essendo molto freddolosa. E uscendo dallo scherzo ha aggiunto che il fatto che Céline fosse antisemita non le ha impedito di tradurre un suo romanzo, Rigodon. Non va sottovalutato però il suo sospetto: che si tratti di un’ottima trovata pubblicitaria per far discutere di un libro che altrimenti avrebbe ben pochi acquirenti in Europa. Il vero guaio è che se Amanda Gorman esige una traduttrice-sosia, bisognerà immaginare che la Divina Commedia vada ritradotta in turco da un guelfo bianco di Istanbul, in esilio e di circa 750 anni d’età come Dante. Va poi considerato che il poema dantesco, secondo ciò che suggeriscono gli sbandieratori del

politicamente corretto, prima di essere tradotto dovrebbe subire una sana sforbiciata. Basta leggere Le parolacce di Dante Alighieri (5½, Tempesta Editore), il recente saggio del filologo Federico Sanguineti, dove si mettono a fuoco i luoghi «inaccettabili» del poema, a cominciare dal canto di Maometto, seminatore di discordia tagliato dal mento all’ano con le viscere che gli pendono tra le gambe. Sono, appunto, i passi che andrebbero ripuliti a vantaggio della buona coscienza del lettore e del suo benessere morale. Il libro di Sanguineti è dedicato «a chi dice parolacce però le dice soltanto per gioco come Montale che dice “zambracche”». La «zambracca» è la prostituta e i versi montaliani a cui si allude sono quelli della raccolta Satura: «Le parole / non sono affatto felici / di esser buttate fuori / come zambracche e accolte / con furore di plausi / e disonore». La cosa sorprendente è che le parolacce del Sommo Dante, maestro del sublime, hanno spesso fonte nella Bibbia

(da ripulire anche quella), dove ci si imbatte in mangiatori di escrementi e in diverse «baldracche». Quelle di Dante sono parole che oggi farebbero quasi sorridere, tipo «sterco», «merda», «merdose», «puttana», «puttaneggiar», in gran parte utilizzate nell’Inferno, dove il gradino basso del linguaggio è ovviamente più frequentato che altrove. Non dimentichiamo che nel canto XXI incontriamo un capo dei diavoli che, per dare il segnale della partenza al piccolo plotone dei suoi simili, «avea del cul fatto trombetta». Ma l’invettiva più violenta si trova nel Purgatorio VI dove l’Italia, incapace di farsi nazione, è qualificata con il peggiore degli improperi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiero in gran tempesta, / non donna di provincie ma bordello!». Erano i secoli bui e quelle terzine, che per di più parlavano della contemporaneità, potevano circolare tranquillamente, senza plotoni di censori con le forbici in mano, dotati di trombetta puritana sempre pronta a lanciare un allarme.

Un mondo storto di ermanno Cavazzoni Sopravvivere a sé Quali sono le ricette per vivere anche dopo che si è morti? L’Islam e il Cristianesimo hanno fatto fortuna promettendo un aldilà stabile e duraturo; l’Islam in un giardino tra 72 ragazze a disposizione; il Cristianesimo in un cielo di nubi abbastanza solide da sostenere le persone dedite principalmente al canto corale e all’ammirazione della divinità. Non è entusiasmante ma è meglio del nulla. È il nulla che fa paura. Nell’antichità (ad es. in Platone) e in certe religioni orientali come il buddismo, un individuo rinasce un certo numero di volte in un altro individuo, oppure in un animale o in una pianta. Questa è una promessa più ragionevole e anche più a sorpresa, più avventurosa, quella di tornare in qualche modo nella vita; anche se solo uno ha la prospettiva di diventare un geranio in vaso, o un oleandro, o meglio ancora una ginestra su una riva scoscesa di fronte al Mediterraneo, beh, non ci saranno grandi avvenimenti o grandi viaggi, ma si può stare lì contenti del sole

e della pioggia, senza grandi responsabilità, in attesa di un’ape che ti porta il polline e ti feconda; che poi l’ape sarà stata a sua volta qualcuno, il più delle volte un tipo individualista e di destra che per la legge del contrappasso entra in una società comunista come è quella delle api. Tornare a vivere tra tutte le prospettive è la più confortante, anche se purtroppo non se ne ha la coscienza, se non a tratti, dei lampi di coscienza di aver già vissuto, anche solo un odore, un tipo di luce, una situazione. È poco, è vero, ma magari ho la prospettiva di diventare il cane di chi nella vita precedente ho amato, o di essere la sua piantina prediletta di rosmarino. Meglio che sulle nuvole a fare il corista, o nel giardino a instupidirmi in un coito seriale. Tuttavia anche la rinascita non dà molta soddisfazione, nel caso dovessi rinascere disgraziato, o semplicemente antipatico, come una mia zia che ho sempre evitato, dovessi diventare mia zia, perfido e malefico com’era lei. È

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Corretti, scorretti e trombette Essendo una giovane poetessa afroamericana, Amanda Gorman va tradotta da una donna giovane, attivista, nera. Non se ne esce: queste sono le condizioni poste (nero su bianco), dall’editore Viking Books. A occuparsi della versione olandese non potrà essere Marieke Lucas Rijneveld, la persona scelta dalla casa editrice Meulenhoff, perché è di pelle bianca e forse anche perché non è così giovane e così attivista come auspicato. Poco importa che sia una delle scrittrici e poetesse più stimate, per cui si presume che conosca il valore della parola poetica. E lasciamo stare il fatto che ha vinto uno dei premi letterari più prestigiosi angloamericani (a volte è meglio un mai premiato di un superpremiato). Poco importa anche che, esattamente in sintonia con la poetica di Amanda Gorman, Rijneveld si sia mostrata sempre sensibile ai temi sociali, essendosi occupata, anche nei suoi libri, di argomenti legati all’uguaglianza. Poco importa, infine, quel principio persino banale secondo cui la traduzione è una pratica che si vive del

confronto tra le diversità. Insomma, sarà assurdo, ma i requisiti imprescindibili restano tre: giovane, attivista e nera (che abbia sensibilità poetica non è contemplato). Ed è questa una delle idiozie a cui conduce l’ortodossia fondamentalista (1) del «politicamente corretto», che diventa scorrettissima. Ma siccome le idiozie non vengono mai sole, un’altra idiozia è che da un po’ di tempo non è possibile dire o scrivere «poetessa», perché sarebbe discriminante, mentre una poetessa deve esser definita «poeta». E un’altra idiozia è considerare politicamente scorretto dire che la poesia letta da Amanda Gorman durante la giornata di inaugurazione della presidenza Biden (The hill we climb 4+) non sembra propriamente un capolavoro. Non essendo giovane né attivista né nero, non sono purtroppo autorizzato a tradurre qui nemmeno un verso del poemetto, il cui senso generale è un generico richiamo alle sciagure del passato per costruire un futuro migliore. Va perciò escluso che la traduzione italiana, prevista da Garzanti, possa essere


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Bebè e bambini

Di tutto e di più per bimbi e bebè Azione valida fino al 28 marzo

CONSIGLIO SUI PRODOTTI La capacità di assorbimento di un pannolino di stoffa (per es. di Bambino Mio) può essere incrementata con l'inserto assorbente Bambino Mio, che è in grado di assorbire più volte il proprio peso e di preservare la pelle del bebè dall'umidità grazie allo strato superiore Stay-dry. Per una sensazione piacevolmente asciutta. Il materiale morbido si lava facilmente e si asciuga rapidamente.

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Fiori e giardino

Per i cavalieri e gli esperti di erbe aromatiche Freschezza e aroma su pizza , pasta & Co.

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20% Erbe aromatiche bio vaso, Ø 13 cm, per es. basilico, il vaso, 3.95 invece di 4.95

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Meraviglia di tulipani M-Classic mazzo da 20, disponibili in diversi colori, per es. bianco-rosa-rosso, il mazzo

Rimuovi tutte le foglie che verrebbero bagnate dall'acqua. Taglia i gambi uno ad uno in obliquo con un coltello affilato (non con le forbici). Scegli un vaso sufficientemente alto: le rose devono essere immerse almeno per metà del gambo nell'acqua fresca (mai gelata).

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Rose Grande mazzo da 10, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. arancione-rosso, il mazzo

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Detersivi Total, 5 l flacone, in confezione speciale, per es. Aloe vera

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Carta igienica Hakle, FSC pulizia delicata o pulizia classica, in confezioni speciali, per es. pulizia delicata, 30 rotoli, 17.75 invece di 29.65


CONSIGLIO SUI PRODOTTI Le calze sono in 77% viscosa di bambù. Il pregiato materiale è morbido al tatto, non si deforma e si distingue per la sua elegante brillantezza.

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50% Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in confezione di ricarica, 1,5 l, 3.25 invece di 6.50

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Calze da donna Ellen Amber nere, numeri 35-38 o 39-42, per es. numeri 35-38

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Leggings Ellen Amber Mama bio disponibili in nero o grigio chiaro, tg. S–XL, per es. neri, tg. M, il pezzo, in vendita solo nelle maggiori filiali

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Giornate all’insegna del cioccolato!

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Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide solo dal 23.3 al 29.3.2021, fino a esaurimento dello stock.

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Miscela pasquale Frey, UTZ cioccolatini assortiti, 1 kg

50% Tutto l'assortimento Nivea (confezioni da viaggio, confezioni multiple e set regalo esclusi), per es. crema da giorno antirughe Q10 Energy SPF 15, 50 ml, 8.55 invece di 17.10, offerta valida dal 25.3 al 28.3.2021


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