Azione 13 del 29 marzo 2021

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio I bambini devono essere liberi di fare errori perché sbagliando si impara se si ha l’opportunità di autocorreggersi

Ambiente e Benessere Intervista al biologo Russell Bonduriansky, autore di un libro sulle nuove scoperte dell’ereditarietà non genetica

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 29 marzo 2021

Azione 13 politica e economia Italia e Francia, sostenute dagli Usa, sono sempre più unite contro il rigorismo germanico

cultura e Spettacoli La forza e le visioni di Vincenzo Vela nella grande mostra che lo celebra a Ligornetto

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Sacha Pizzetti/Parco Val Calanca

Il cuore del parco Val calanca

di Mauro Giacometti pagina 3

Lo scontro sale d’intensità di Peter Schiesser Lo scontro fra le due maggiori potenze del mondo ha raggiunto una nuova intensità. L’America di Biden riscopre il multilateralismo come arma principe per contenere l’ascesa della Cina e impone prime sanzioni per quello che un’Amministrazione Trump agli sgoccioli ha definito il genocidio del popolo uiguro dello Xinjiang, in un nuovo quadro strategico in cui gli Stati Uniti entreranno in competizione con la Cina dove necessario, collaboreranno dove possibile e si porranno come avversari qualore fosse inevitabile. Pechino risponde con toni aggressivi, da potenza che si sente ormai abbastanza forte da non voler prendere lezioni da nessuno, tantomeno da una superpotenza ritenuta in decadenza; oltre alla repressione cui sottopone lo Xinjiang, il Tibet, gli attivisti democratici a Hong Kong, all’estensione della sua influenza nel Mare cinese meridionale, manifesta apertamente l’intenzione di invadere Taiwan e per questo aumenta massicciamente le sue forze militari e navali – un’invasione che gli Stati Uniti ribadiscono di non voler tollerare e che aprirebbe la via ad un conflitto armato fra le due potenze, con ripercussioni

mondiali. In mezzo a questo crescente conflitto geopolitico, stanno l’Unione europea e la piccola Svizzera. Il primo incontro-scontro fra i rappresentanti del nuovo governo americano e della Cina di Xi Jinping in Alaska è servito da termometro. Le accuse reciproche davanti ai giornalisti hanno tolto ogni ambiguità: la guerra fredda è una realtà e ha il potenziale di diventare calda. È una guerra per il predominio economico, ma anche ideologico, di competizione fra i sistemi, e il vincente farà da esempio in futuro. È in questo senso che vanno capite le parole dei cinesi al Segretario di Stato americano Blinken: da voi non prendiamo lezioni su democrazia e diritti umani, visto quel che è successo il 6 gennaio con l’assalto al Congresso e il razzismo contro i neri. A Pechino sono convinti che il loro modello di autoritarismo e controllo dello Stato e dei cittadini sia vincente, che gli Stati Uniti sono l’emblema del fallimento della democrazia. Di conseguenza, i cinesi si sentono più sicuri e pronti a far valere il loro potere verso chiunque osi criticarli, certi che nessuno voglia davvero rinunciare a fare affari con loro. La risposta dell’Amministrazione Biden è di resuscitare il cordone di alleati attorno alla Cina quasi divelto dal governo Trump (Nato,

Giappone, Corea del Sud, Australia), coinvolgendoli anche in sanzioni contro la Cina. I Servizi d’informazione della Confederazione temono che con la crescente polarizzazione fra le due potenze si vengano a creare due distinti «spazi normativi» mondiali, sia dal punto di vista tecnologico sia dei valori. In un contesto del genere, diventerà difficile mantenersi equidistanti, curare relazioni economiche e politiche con entrambi i fronti. Sia l’Unione europea sia la Svizzera ci stanno ancora provando. L’Ue ha imposto qualche sporadica sanzione ad alcune personalità accusate di essere coinvolte nella repressione nello Xinjiang, ma non con l’enfasi degli americani. Il Consiglio federale ha di recente presentato la nuova strategia verso la Cina: parole chiare, più coordinamento, ma affari come sempre, cercando di restare fuori dalla logica di uno scontro fra sistemi. Il vecchio riflesso della neutralità elvetica per fini economici persiste. Ma sono bastate le parole un po’ più chiare in difesa dei diritti umani per scatenare le ire di Pechino, che per bocca dell’ambasciatore a Berna ha aspramente criticato la Svizzera. Restare neutrali si annuncia ancor più difficile, la ponderazione fra interessi economici e difesa di valori universali ancor più delicata.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Società e Territorio chi sono i caregivers I volontari del gruppo Care Team Ticino garantiscono un soccorso psicologico d’urgenza a chi è colpito da un evento traumatico

Il masterplan Alta Vallemaggia Nella strategia di sviluppo si prevedono ora anche interventi immediati sul territorio in risposta alle criticità post-pandemia

passeggiate svizzere Oliver Scharpf ci accompagna a Obersaxen sulle orme di un drago per contemplare una bellissima Santa Margherita pagina 9

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Lasciamoli sbagliare Il caffè delle mamme L’errore è

un’opportunità per imparare, non qualcosa da evitare assolutamente: i bambini devono potersi autocorreggere senza essere giudicati

Simona Ravizza «Ma allora un errore può diventare una cosa bella!». A Il caffè delle mamme, che per l’ennesima volta torna a essere un appuntamento virtuale visti i bar chiusi causa Covid-19, l’altra mattina mi presento più orgogliosa che mai: mio figlio Enea, 7 anni, ha appena finito di leggere, seduto sulle mie ginocchia, Il libro degli errori di Corinna Luyken (ed. Fatatrac, gennaio 2021) e la sua sintesi è perfetta. Non per avere un bel voto a scuola, ma per la vita che verrà. Questa per lo meno è la mia speranza. Così a Il Caffè snocciolo tutti i motivi per cui ritengo fondamentale che i bambini non vedano l’errore come una cosa brutta da evitare, ma come un’opportunità per imparare. Mai demoralizzarsi, piuttosto autocorreggersi e reagire. Per argomentare la mia tesi scomodo uno dei più grandi scrittori per bambini, Gianni Rodari, la pedagogista Maria Montessori, internazionalmente nota per il metodo educativo che prende il suo nome, e mi attacco al telefono con il mio collega del «Corriere della Sera» Beppe Severgnini, cresciuto alla scuola Montessori di Crema come racconta nel suo ultimo libro Neoitaliani. Un manifesto, infine chiedo altre informazioni a Paola Favretto, docente e formatrice montessoriana. «Lasciamoli sbagliare», è alla fine il mio appello ad amiche non troppo convinte. Ecco come e perché. Iniziamo innanzitutto a dare il benvenuto al Signor Errore, come lo definisce Maria Montessori che l’ha trasformato in un personaggio per fare capire che ci accompagnerà per tutta la nostra vita. Meglio, allora, imparare a conviverci il prima possibile. «Meglio sarà avere verso l’errore un atteggiamento amichevole e considerarlo come un compagno che vive con noi ed ha un suo scopo, perché veramente ne ha uno – dice Montessori –. Da qualunque parte si guardi, troveremo sempre il Signor Errore! Se vogliamo andare verso la perfezione, conviene stare attenti agli sbagli perché la perfezione verrà solo correggendoli e bisogna guardarli alla luce del sole, bisogna ricordarsi che essi

esistono come esiste la vita stessa» (a proposito di perfezione: io in famiglia, per giustificare i miei innumerevoli sbagli, ricordo sempre che è noiosa, ma questa è un’altra storia!). I bambini, insisto con foga a Il caffè delle mamme, non vanno protetti dagli errori. Esempi pratici pescati dalla scuola Montessori che possiamo copiare nella vita di tutti i giorni a casa: i tavolini sono volutamente in legno chiaro, in questo modo le macchie di pennarelli, penne o quant’altro risultano ben evidenti; e dopo un po’ il bimbo capisce che deve stare attento a non sporcare. I piatti e bicchieri anche per i più piccoli non sono in plastica ma in vetro e ceramica: se cadono si rompono facendo comprendere così l’errore commesso. Gli alunni a turno fanno i dispensieri, ossia servono ai tavoli in mensa: rovesciare una portata può capitare, la prossima volta il bambino starà più attento. Così Beppe Severgnini ricorda una visita recente alla scuola Montessori di Crema dov’è cresciuto: «Sembra di entrare in una città in miniatura, dove tutti hanno qualcosa da fare. Giocare, ovviamente. Ma anche lavare i piatti, lavare i panni, lucidare le scarpe. Spingere il carrello con il pasto e servire i compagni (“il dispensiere/la dispensiera” è un incarico ambito). Ho notato un bimbo – avrà avuto quattro anni – che impugnava un coltello alto la metà di lui. “Cosa fa?”, ho chiesto, preoccupato. “Affetta il pane”, mi ha risposto la direttrice, Emilia Caravaggio. “Ma non rischia di tagliarsi?!”. “Be’, sì, ogni tanto i bambini si fanno qualche taglietto, niente di grave. Così capiscono che i coltelli sono pericolosi, e vanno maneggiati con cura”». Ora non pensiamo che le nostre case debbano diventare un terreno di battaglia dove il tavolo si sporca, i piatti si rompono, il cibo cade a terra e le dita vengono riempite di cerotti: ma allo stesso tempo dobbiamo armarci di pazienza e spingere i nostri figli a fare cose pratiche anche a rischio di qualche imprevisto. La convivenza con l’errore inizia da qui: e se è tutto uno «stai attento», «questo non farlo, quell’altro non romperlo» non gli diamo mai davvero la possibi-

Rovesciare qualcosa? Capita, la prossima volta il bambino starà più attento, non serve sgridare né umiliare. (Shutterstock)

lità di capire e auto-correggersi. «Sbagliano a farsi il nodo delle scarpe?», non interveniamo subito noi per fare in fretta, ma diamo il tempo di rifarlo un po’ di volte. Oggi ci sono da chiudere i bottoni del cappotto e il bimbo impara a riprovare se lo allaccia storto, un domani è un qualsiasi altro errore: «Altrimenti uno va avanti a fare tutta la vita solo ciò che sa già fare», riflette la docente Favretto: «Così, però, nessuno farà mai il salto in più». Enea, il mio bambino appassionato di calcio e mountain bike, sempre mentre è seduto sulle mie ginocchia a leggere Il libro degli errori, la riassume così: «Sbagliare e riprovare. Calcio, sbaglio il tiro e riprovo fino a che ce l’ho fatta. Quando cado in bici mi rialzo e riprovo». Cuor di mamma pensa: «Se sarai davvero capace a reagire così, la strada della vita per te sarà meno in salita». Ma saranno davvero capaci, lui e tutti i nostri figli, ad accettare gli errori e soprattutto a imparare da essi?

Il segreto, mi dice ancora Favretto, è di non giudicarli, ma aiutarli a capire in autonomia dov’è lo sbaglio. Mai umiliarli: frasi come «Sei stupido!», «Ma non hai ancora capito?», «Guarda che guaio!», non solo non li aiutano a raggiungere il risultato ma sono controproducenti. Quante volte un bimbo cerca di infilare cose piccole in una ciotola grande e poi cose grandi in una piccola, prima di cogliere da sé la differenza? Ogni tentativo fallito lo induce a provare ancora. Non diciamogli subito: «Ma non vedi che…». Beppe Severgnini ci ride su: «Ricordo i giochi di legno a incastro, in particolare quello delle regioni italiane: insistevo a ficcare l’Umbria nello spazio della Basilicata». Provare e riprovare da solo dà al bambino più sicurezza. È tutto un procedere per prove e tentativi. Ne La grammatica della fantasia Gianni Rodari scrive: «Sbagliando s’impara, è vecchio proverbio. Il nuovo potrebbe dire che sbagliando s’in-

venta». Perché in ogni errore – è la tesi dello scrittore che faccio mia a Il caffè delle mamme – giace la possibilità di una storia. È quel che emerge con illustrazioni divertenti ne Il libro degli errori di Corinna Luyken: un occhio troppo grande si trasforma in un paio di occhiali; una strana macchia scura diventa un cespuglio, il gomito e il collo extra lungo offrono l’opportunità di metterci un colletto con decori di trine e inserti di stoffa; lo spazio in più tra il suolo e la scarpa della ragazza – un errore anche quello – spinge a metterle ai piedi i pattini a rotelle; e la ragazza, con la gamba lunga lunga, sembra sia stata creata proprio per scalare quell’albero. Persino le macchie d’inchiostro sparpagliate nel cielo possono diventare foglie. L’idea di Rodari: «Una volta, a un bambino che aveva scritto – insolito errore – cassa per casa, suggerii di inventare la storia di un uomo che abitava in una cassa». Ci proviamo anche noi?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Un parco tra natura, economia agricola e cultura

Val calanca In piena fase esecutiva la realizzazione della prima oasi regionale della Svizzera italiana. Obiettivi:

salvaguardia e cura del territorio ma anche sviluppo turistico e imprenditoriale di una piccola valle discosta ricca di natura e di storia. Ne parliamo con il direttore, Henrik Bang Mauro Giacometti La Val Calanca è talmente bella, selvaggia e incontaminata che le hanno rubato il cuore. È di qualche tempo fa il «furto d’immagine», certamente involontario ma clamoroso, della foto del Lagh de Calvaresc, il laghetto alpino a forma di cuore sopra le cascate di Augio. A perpetrare lo scippo è stata l’editoria italiana, in particolare il magazine «Milano Città Stato», che utilizzando le immagini del laghetto calanchino ha illustrato il borgo mantovano di Castellaro Lagusello. Un paesello della Val Padana dove sì c’è un laghetto a forma di cuore, ma che essendo uno specchio d’acqua di pianura, in mezzo alla campagna, è di tutt’altro fascino rispetto a quello calanchino, le cui limpide acque riflettono le cime prealpine. Incidente diplomatico sfiorato ma subito rientrato, con tanto di scuse dei responsabili del magazine. «Quando ho visto il nostro lago sui social che illustrava il servizio che parlava di tutt’altro sono sobbalzato sulla sedia, poi per fortuna tutto è rientrato. S’è trattato di un errore grafico, subito rimediato», spiega Henrik «Bingo» Bang, direttore del progetto di Parco Val Calanca (www. parcovalcalanca.swiss). La striscia di valle laterale bagnata dal fiume Calancasca, che si sviluppa dalle vette del Puntone di Fraciòn, a 3200 mslm fino a Buseno), per complessivi 120,5 kmq è al centro di un progetto di riconoscimento di parco naturale regionale a livello svizzero. Il Parco Val Calanca è attualmente il più piccolo tra i parchi svizzeri e rappresenta il primo parco naturale regionale della Svizzera italiana. Il progetto, che nel giro di tre anni porterà questo territorio a formulare una «charta del parco», vale a dire un documento programmatico che sarà sottoposto al voto della popolazione residente (poco più di 430 abitanti), è entrato nella sua fase cruciale, quella della istituzione. Henrik Bang, ingegnere forestale, da oltre un anno è alla testa di un piccolo team – che ha la sua sede ope-

Installazione realizzata lungo un sentiero di Rossa su progetto dell’arch. Davide Macullo nell’ambito del percorso «Ispace». (Corrado Griggi/Parco Val Calanca)

rativa nel palazzo del Pretorio di Arvigo – incaricato di dare concretezza al progetto dall’Associazione Parco Val Calanca, costituitasi nel novembre 2019 e composta dai tre Comuni calanchini promotori dell’iniziativa, Rossa, Calanca e Buseno, oltre che dal Comune altomesolcinese di Mesocco, sul cui territorio si sviluppa una parte della futura oasi regionale. Alla riuscita della candidatura a Parco nazionale regionale della Calanca contribuiscono anche il Canton Grigioni, la Confederazione e alcuni sponsor privati. Il budget annuale a disposizione della direzione del parco per il periodo 2020-2023 è di 630mila franchi e con questo, oltre ai costi del personale, si finanziano i vari progetti che serviranno a consolidare il territorio dal punto di vista naturalistico, a promuoverne l’attività economica e agricola, senza dimenticare, l’educazione ambientale, la cultura e l’arte. «Contrariamente al Parc Adula e al Parco del Locarnese,

Dalla montagna granito e pietra ollare La Val Calanca, oltre che il regno incontrastato della natura, dell’acqua e del legno, è famosa in Svizzera e in Europa per il suo granito. Lo «Gneiss Calanca» viene estratto nella zona di Arvigo e rappresenta la più importante risorsa industriale della valle. In passato si lavorava anche la pietra ollare con torni a Cauco. Il territorio presenta ancora tracce di questa antica attività, come ad esempio in zona Marscia d’Aion a 2300 m di quota

Azione

Settimanale edito da migros Ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

nel Comune di Calanca. Altra peculiarità della regione è la presenza di massi incisi (cupellari), che sono una preziosa testimonianza dell’arte rupestre preistorica alpina. Delle diverse «rocce narranti», il Sass de la Scritüra, nell’alta Val Calanca, è tra gli esempi più sorprendenti. Si tratta di un diario di tre secoli di transumanza, un registro che, al pari di un atto notarile, sanciva i diritti di pascolo. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

che sono stati bocciati dal voto popolare, questo progetto parte dal basso, cioè dalla volontà dei cittadini e dei Comuni e di chi li amministra di dare visibilità e sviluppo ad un territorio che ha già delle peculiarità da salvaguardare, come ad esempio la natura, ma anche delle attività da promuovere o da recuperare. E proprio durante il periodo di pandemia, dove si è spesso andati alla ricerca dell’isolamento, la Val Calanca ha potuto offrire il meglio di sé, con tanti turisti che l’estate scorsa l’hanno visitata, percorrendo in lungo e in largo i suoi sentieri e scoprendo un luogo antico, scenografico, discosto, ma non per questo isolato, anzi proiettato in un futuro sostenibile», spiega il direttore del Parco. Sono tre i «pilastri» sui quali si regge il percorso di concretizzazione del progetto di Parco nazionale regionale della Calanca: salvaguardia e valorizzazione di una natura e un paesaggio che spesso lascia senza fiato; rafforzamento delle attività economiche presenti sul territorio, agricoltura e allevamento su tutte, orientando però le iniziative artigianali e imprenditoriali a un imprescindibile sviluppo sostenibile; sensibilizzazione ed educazione ambientale, soprattutto rivolta ai giovani, con un occhio di riguardo alle iniziative culturali e artistiche, anche piuttosto originali, che non mancano in valle. «In questo primo anno di “rodaggio” abbiamo già finanziato e promosso diversi interventi, sia in ambito paesaggistico, economico e culturale. E devo dire che la gente della Calanca e anche chi viene da fuori ha dimostrato grande interesse e inventiva per valorizzare e promuovere il nostro tereditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Il direttore del Parco Henrik Bang. (Mario Theus/Parco Val Calanca)

ritorio. Le idee non mancano e come gestori del progetto Parco Val Calanca abbiamo il dovere di ascoltare tutti, dare il nostro contributo di conoscenza e organizzazione, avviare attraverso piccoli finanziamenti delle “start up” che possono poi svilupparsi». Proprio recentemente, spiega ad esempio Bang, i fondi a disposizione del Parco hanno contribuito all’avvio della Calanca Swiss Herbs, azienda artigianale di Rossa che, attingendo da una tradizione famigliare, raccoglie e distilla erbe curative di montagna per realizzare olii essenziali e prodotti che spaziano dalla gastronomia alle terapie naturali e alla cosmetica. All’orizzonte anche contributi finanziari nell’ambito culturale, come il sostegno al progetto «Ispace» che prevede la realizzazione in legno locale di una decina di strutture/opere artistiche posizionate lungo i sentieri di Rossa (una è già stata reaTiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

lizzata) e utilizzabili anche come originali e naturali «on space» aggregativi e culturali. Quindi sono già programmati nel 2021 una ventina di eventi e attività in valle che spaziano da corsi di potatura alle settimane verdi con i ragazzi delle scuole, dalle rassegne gastronomiche o feste dell’alpigiano, ai convegni a tema o festival musicali, tutti appuntamenti organizzati dalla direzione del Parco in collaborazione con diverse associazioni culturali del territorio, prima fra tutte il Centro ricreativo e culturale «La Cascata» di Augio. «Questa è sì una piccola valle discosta, ma ha tutte le potenzialità per diventare un microcosmo condensato di natura, a volte aspra ma sempre affascinante, visione e capacità artigianale, rispetto per le tradizioni contadine e creatività. E il nostro compito come progetto Parco Val Calanca è di creare le condizioni affinché chi visita, soggiorna o decide di trasferirsi a vivere in questa valle possa sempre trovare il suo habitat ideale. Anche dal punto di vista logistico e lavorativo, non solo turistico. Abbiamo tanti rustici o case vuote, ad esempio, che possono essere trasformate in luoghi di lavoro permanente, con tanto di fibra ottica già disponibile», conclude Henrik Bang. E volete mettere, aggiungiamo noi, la differenza? Anziché inventarsi degli sfondi esotici per i collegamenti domestici su Zoom stupire i nostri interlocutori e colleghi con la schermata in tempo reale sulle imponenti cascate di Augio o sulle caprette che pascolano attorno a Braggio e Landarenca, storici nuclei adagiati sui monti e raggiungibili solo con una teleferica. Che invidia! Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Idee e acquisti per la settimana

Il capretto e l’agnello pasquali

Attualità Due classici piatti per una Pasqua ricca di gusto. I consigli di Alan Gashi, capo macellaio presso

il supermercato Migros di Locarno

Alan Gashi, capo macellaio presso la Migros di Locarno, con un bel vassoio di capretto e gigot d’agnello freschi.

Azione 30% Capretto e gigot d’agnello (a destra) per una Pasqua golosa e sfiziosa. Alan Gashi, quali sono le specialità più gettonate durante il periodo pasquale?

Gigot d’agnello al rosmarino e aglio

capretto Francia, per 100 g, al banco a servizio Fr. 2.50 invece di 3.60 dal 30.03 al 03.04

Ingredienti per 8-10 persone 1 gigot d’agnello di ca. 2,5 kg ½ mazzetto di rosmarino 5 spicchi d’aglio 2 cucchiai di senape dolce ½ cucchiaio di pepe 1 cucchiaino di sale 4 cucchiai d’olio per rosolare

Ti-Press / Alessandro Crinari

Sicuramente il capretto al forno la fa da padrone, visto che per Pasqua in Ticino è una tradizione ben radicata, ma c’è anche un’ottima domanda di tagli d’agnello, come gigot e racks, e maialino da latte. Sono tuttavia particolarmente richiesti anche i tagli nobili, soprattutto di manzo, ad esempio il filetto o l’entrecôte che offriamo di qualità Black Angus al banco a servizio. Non da ultimo, alcuni per Pasqua iniziano già a grigliare, quindi aumenta la vendita di costine classiche e costine carré. cosa rende così particolare la carne del capretto?

Il fatto che sia una carne magra, morbida, delicata e ben digeribile, poiché proviene da animali giovani. La carne di animali adulti possiede invece un aroma piuttosto forte non apprezzato da tutti i palati. come si ottiene un capretto al forno perfettamente croccante fuori e morbido dentro?

È importante rosolarlo bene in padella prima di metterlo in forno. Una volta infornato (a 180°C), condito con sale, pepe, aglio, burro, rosmarino e salvia, bisogna rigirarlo ogni 15 minuti, lasciandolo cuocere per ca. un’ora e mez-

za. Passato questo tempo si bagna il capretto con del vino bianco e del marsala (mischiati in parti uguali), e lo si lascia ancora in forno per ca. mezz’ora.

ro servizio, mentre esclusivamente al banco offriamo, fino a disponibilità, anche dei capretti svizzeri, nonché di provenienza ticinese.

Da dove provengono i capretti in vendita alla migros?

A cosa bisogna prestare attenzione quando si acquista del capretto fresco?

Nel nostro assortimento abbiamo capretti francesi sia al banco sia al libe-

Consiglio di farlo mettere sottovuoto

dal macellaio Migros di fiducia se non lo si cucina entro 1-2 giorni, in questo modo si conserva meglio e mantiene bene la sua freschezza. Inoltre, per un’ottima riuscita e per la felicità dei commensali, consiglio di acquistare un mix di pezzi e non soltanto una parte del capretto (ad esempio spalla o parti di costolette).

preparazione Mettete da parte un po’ di rosmarino per guarnire. Tritate finemente il resto. Unite l’aglio schiacciato e mescolate con la senape e il pepe. Ungete il gigot d’agnello e lasciate marinare il frigo per almeno 2 ore. Scaldate il forno a 220°C. Salate il cosciotto e mettetelo in una pirofila. Rosolate nell’olio al centro del forno per 20 minuti. Abbassate la temperatura e 170°C. Lasciate cuocere la carne al centro del forno per ca. 2 ore. Bagnate spesso il cosciotto con il liquido che si forma durante la cottura. Fate una prova di cottura: infilzate il forchettone nella carne. Quando il succo che fuoriesce è chiaro, la carne è cotta. La temperatura interna del gigot dovrebbe essere di ca. 75°C. Lasciate riposare il gigot coperto per 10 minuti, poi affettatelo. Servite con il liquido di cottura, il rosmarino messo da parte e delle patatine al forno.

Una specialità regionale che conquista tutta la Svizzera

Attualità La Colomba San Antonio è prodotta dal panificio Jowa di S. Antonino per tutti i supermercati Migros

del nostro Paese

colombe per ogni gusto

Le colombe San Antonio sono disponibili in diverse pezzature e tipologie allo scopo di poter soddisfare tutti i gusti. La scelta spazia dalla colombella da 120 g, perfetta per uno spuntino goloso, alle colombe da 300, 500 e 1000 g, quest’ultime due disponibili anche nell’elegante scatola ideale da regalare. La gamma include ancora una colomba senza canditi e la colomba artigianale particolarmente ricca di burro. Una lunga lavorazione

La fase di produzione di una colomba San Antonio si svolge sull’arco di 48 ore. Esperti pasticceri della Jowa curano fin nei minimi particolari la preparazione del lievito madre e degli altri ingredienti, al fine di poter ottenere un impasto qualitativamente ineccepibile. Massima attenzione è prestata anche alla stesura della glassa sulla superficie e alla deco-

razione con mandorle intere appositamente selezionate. L’importanza del lievito madre

La produzione della colomba San Antonio, come quella del panettone, si basa sulla lenta lievitazione naturale con lievito madre, che dura almeno 36 ore. Questo processo conferisce al prodotto, oltre ad una migliore conservabilità e digeribilità, anche un profumo e un sapore caratteristici, dati dalla particolare microflora presente nel lievito naturale. Il gusto della qualità

Tutti i prodotti Jowa soddisfano i massimi requisiti di qualità e vengono lavorati nel rispetto di rigorose norme igieniche costantemente monitorate. Per una totale trasparenza, su ogni confezione sono indicati con esattezza tutti gli ingredienti, valori nutrizionali, conservazione e potenziali allergeni.

colomba San Antonio in scatola, 1 kg Fr. 9.20 invece di 11.50 Azione 20% di sconto dal 30.03 al 03.04


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Idee e acquisti per la settimana

pesce per il Venerdì Santo

Attualità Chi segue la tradizione, e non solo, ai banchi del pesce

fresco Migros ha solo l’imbarazzo della scelta in fatto di specialità

Insalata nostrana pronta al consumo

Attualità «L’insalata dala fèsta» è il contorno

perfetto per la tavola festiva Azione 10% su tutto l’assortimento di pesce al banco a servizio (escl. azioni in corso) dal 30.3 al 3.4

Insalata festiva 150 g Fr. 3.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Sono molti coloro che tradizionalmente consumano del pesce il venerdì che precede la Pasqua. Indipendentemente dall’usanza, consumare del pesce almeno una o due volte a settimana non è soltanto un piacere per il palato, ma fa anche bene al nostro organismo, dato che contiene preziose proteine e acidi grassi omega 3 benefici per la salute del cuore. Un aspetto importante è tuttavia

quello di scegliere del pesce proveniente da fonti responsabili, al fine di salvaguardare il nostro pianeta, come di fatto quello proposto dai reparti del pesce Migros. Qui, infatti, l’intero assortimento ittico proviene da una pesca o da un’acquicoltura sostenibili, e gran parte è certificato dai marchi Migros Bio e ASC – per quanto attiene il pesce d’allevamento – e MSC per il pesce selvati-

co. Che si tratti di ricercati pesci interi come orata, branzino, rombo, sogliola o trota; dei sempre apprezzati filetti o tranci di salmone o tonno, oppure ancora di gustosi frutti di mare misti, i nostri addetti del pesce sono a vostra completa disposizione per consigliarvi con competenza e professionalità affinché possiate portare in tavola in qualsiasi occasione gustosi manicaretti.

La delicata e croccante insalata festiva dei Nostrani del Ticino è prodotta con verdure locali lavorate subito dopo la raccolta dall’azienda Quarta Gamma Ticino SA di Riazzino. Accuratamente mondata a mano, tagliata, lavata e asciugata, questa insalata è pronta per essere solo gustata con il condimento

preferito. È composta da un mix di ortaggi tra i preferiti dai consumatori ticinesi: rinfrescante lollo rosso e verde e aromatico formentino. L’insalata festiva, oltre ad altre invitanti tipologie di insalate nostrane pronte, sono disponibili al reparto refrigerati dei maggiori supermercati Migros. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Società e Territorio

I soccorritori psicologici d’urgenza

care Team Ticino I volontari del gruppo, detti caregivers, garantiscono un’assistenza a livello emozionale e pratico

alle persone colpite, direttamente o indirettamente, da un evento traumatico

Alessandra Ostini Sutto Quando ci si immagina un evento traumatico, si pensa istintivamente all’intervento del personale dell’ambulanza e della polizia. Le persone colpite, direttamente ma pure indirettamente (come testimoni e familiari) hanno però bisogno anche di un’assistenza, professionale, a livello emozionale e pratico; un bisogno cui risponde la figura del «caregiver». I caregivers sono dei «soccorritori psicologici», dei soccorritori cioè istruiti nel sostegno psicosociale d’urgenza. «Il ruolo del caregiver è quello di essere presente ascoltando attivamente la persona da supportare. Concretamente la sua presenza può garantire i seguenti aspetti: avere un unico interlocutore su cui potersi appoggiare continuamente, avere assicurati i propri bisogni primari (quali ricevere sicurezza, stare al caldo, mangiare, bere, ecc.), essere compresi e rispettati nelle proprie necessità, essere protetti nella propria intimità e nella sfera privata, ricevere informazioni tempestive, esatte e verificate sulle condizioni di salute dei propri cari coinvolti nell’evento», afferma Massimo Binsacca, coordinatore e caposervizio del Care Team Ticino, un servizio cantonale che interviene, appunto, nell’urgenza a supporto delle vittime di un evento straordinario, consentendo così, anche, di evitare o ridurre danni ulteriori alla psiche delle vittime. «Il Care Team Ticino ha iniziato la propria operatività nel gennaio del 2015 poiché era nata l’esigenza di avere un supporto psicosociale e psicologico d’urgenza – spiega Binsacca – di fatto questo aspetto era stato inserito nelle linee direttive dello Stato e nel 2013 era stato costituito un gruppo di lavoro che potesse concretizzarlo». Il Care Team è costituito da volontari che hanno una formazione in vari ambiti (sociale, sanitario, psicologico, ecc.) e una predisposizione all’aiuto; nella loro attività sono seguiti e sostenuti da specialisti con formazione in psicologia o psichiatria. «I volontari, di principio, sono già militi di protezione civile ma, essendo l’elemento femminile poco presente, reclutiamo delle donne, che in seguito vengono incorporate in una delle sei Regioni di questa organizzazione – spiega il coordinatore – attualmente il Team è composto da circa 40 volontari e nel corso del 2021 ne saranno formati ancora 12, per raggiungere il contingente adeguato a coprire i

Caregivers durante una simulazione di intervento. (Care Team Ticino)

picchetti settimanali con due persone (generalmente una donna e un uomo), 7 giorni su sette, 24 ore al giorno». Nella maggior parte dei casi, l’attivazione del Care Team Ticino avviene per il tramite della polizia e dei servizi ambulanza. «In genere la richiesta di avere qualcuno che possa essere di aiuto e sostegno nella fase acuta parte dalla persona coinvolta dall’evento», aggiunge Binsacca. Dopo l’allarme, si cerca di garantire la presenza in loco del nucleo di picchetto in un tempo massimo di 90 minuti. «Se l’evento richiede più personale, vi è la possibilità di attivare il resto del gruppo – continua – il servizio copre l’intero territorio cantonale e, dal 2016, pure la Mesolcina e la Calanca». Tra i volontari del Care Team Ticino c’è Eva Ghanfili, 62 anni, infermiera specializzata in cure intense, membro di comitato del Comité National du Don d’Organ, dell’associazione Insieme per ricevere e donare e di DebriSi (l’associazione Debriefer della Svizzera italiana). «Il mio lavoro come infermiera nel reparto di medicina intensiva è impegnativo, tante volte anche dal lato emotivo. Mi sono chiesta spesso come si possano superare certi eventi. Ed è questo uno dei motivi che mi hanno spinta a seguire una formazione specifica nel sostegno psicologico e psicotraumatico – spiega Eva Ghanfili – ho capito che certi “malesseri” non si vedono attraverso i risultati delle analisi del sangue o le radiografie. Sono soffe-

renze vissute, ferite della nostra psiche, del nostro “io”. Vengono alla luce ascoltando le persone. Per me è da sempre importante sapere come posso essere utile a queste persone e che risposte posso dar loro senza ferirle ulteriormente. A volte, infatti, basta un semplice silenzio ed essere presenti». Prima di iniziare il percorso di caregiver, Eva Ghanfili ha svolto in Ticino la formazione come Debriefer tramite l’associazione DebriSi nel 2002. «Poi ho conosciuto la fondazione Carelink e ho partecipato ad una prima formazione tramite loro come caregiver nel 2006, nella Svizzera tedesca. Da allora svolgo questa attività nel mio tempo libero, su chiamata», racconta la caregiver che nel 2014 è entrata a far parte pure del team di volontari del Care Team Ticino: «Oltre ad aver seguito la formazione richiesta, per rimanere aggiornata leggo tanti libri sul tema e seguo formazioni e seminari in questo ambito», continua l’infermiera. La citata fondazione Carelink è la principale organizzazione in Svizzera di intervento e assistenza per aiuto psicosociale d’urgenza nel caso di eventi straordinari in imprese e istituzioni. La sua storia inizia con lo schianto del velivolo Swissair nei pressi di Halifax nel 1998, a seguito del quale l’intervento dello Swissair Emergency Care Team durò diverse settimane; un operato senza precedenti. Franz Bucher, che dirigeva il team, nei mesi successivi ven-

ne sommerso di richieste dalla Svizzera e dall’estero, di consulenza e formazione, ma pure di aiuti concreti. Da questo interesse scaturì l’idea di creare, su incarico di Swissair, l’organizzazione Carelink, costituita come associazione il 28 agosto 2001. Dopo il grounding della compagnia aerea, il 2 ottobre, crebbe l’interesse da parte delle FFS per l’organizzazione, che tra qualche mese compirà 20 anni. Un nuovo capitolo segnato, il 24 novembre dello stesso anno, dal velivolo della Crossair che precipitò nei pressi di Bassersdorf. Nel frattempo Carelink – convertita in fondazione nel 2003 – si è resa indipendente dalle FFS, che restano un partner importante; ad oggi è organizzata in un team centrale che opera a tempo pieno e uno composto da 350 volontari, formati professionalmente. Oltre a fornire assistenza pratica e psicologica alle persone colpite da una disgrazia, Carelink offre, infatti, la formazione necessaria per poter agire come caregiver, che si compone, dopo una procedura iniziale di valutazione, di un corso d’introduzione, completato da regolari interventi di perfezionamento ed esercitazioni. Simile la procedura adottata dal Care Team Ticino: «Se la domanda viene accettata, e dopo un colloquio personale, i caregivers seguono il corso d’introduzione all’aiuto psicologico d’urgenza e il corso tecnico specifico che permette loro di operare sulle

persone traumatizzate. Annualmente sono previsti corsi d’aggiornamento e perfezionamento», spiega il coordinatore del CTTi. Ma quali sono i principali requisiti per diventare un caregiver? A livello attitudinale un valido soccorritore psicologico deve avere resistenza alle situazioni di stress, una corretta gestione delle proprie emozioni, una solida conoscenza di sé e dei propri limiti, delle buone competenze relazionali e capacità comunicative. A livello organizzativo, deve svolgere un’attività che consenta di assentarsi dal lavoro in caso di intervento, che può essere richiesto, per esempio, in caso di un incidente stradale grave, un suicidio, una catastrofe naturale, un infortunio sul lavoro o la ricerca di una persona scomparsa. «Nel contesto attuale, durante il lockdown dello scorso mese di marzo, il Care Team è stato di supporto alla Task Force psicologica creata dal Cantone con il compito di sostenere i parenti delle persone degenti nelle case anziani – aggiunge Binsacca – nella seconda fase è stato chiamato a svolgere anche un ruolo di supporto della cellula del Contact Tracing». Facendo un passo indietro alle situazioni più tradizionali per un caregiver, un intervento può durare da poche ore a più giorni, a dipendenza dei bisogni delle persone colpite. «La nostra azione può avere un senso fino a 7 giorni dall’evento; in seguito si cerca di attivare la rete di supporto, per esempio il servizio medico psicologico (per persone fino ai 18 anni), il servizio psicosociale (per gli adulti), le antenne di supporto nei vari livelli scolastici», spiega Massimo Binsacca. Definire un percorso per i giorni successivi è infatti uno dei pilastri di ogni intervento «care». Gli altri sono garantire un’assistenza prestata sul posto il più presto possibile, ricorrendo a metodi d’assistenza essenziali e di facile applicazione, rassicurare la persona che si assiste ed aiutarla a ricostruire l’avvenimento e fare ordine nei propri pensieri. Di regola le persone assistite trovano nel caregiver una figura importante. «Quando vedo che le persone con cui ho a che fare si sentono meglio, anche solo un po’, mi sento utile e soddisfatta», commenta Eva Ghanfili, cui si aggiunge Massimo Binsacca: «In generale possiamo affermare che la riconoscenza per l’aiuto ricevuto è un segnale che il nostro compito è stato svolto adeguatamente».

Tutto il potere della lettura ad alta voce 26 maggio Appuntamento con la quarta edizione della Giornata svizzera della lettura

ad alta voce, un’iniziativa dell’Istituto svizzero Media e Ragazzi Guido Grilli «Se una notte d’inverno un viaggiatore…», «C’era una volta…». Così può iniziare una storia ed è subito attesa, immaginazione, mondo reale o finzione. Una storia la si può leggere, come pure ascoltarne il suono, la voce di chi compie questo straordinario dono per noi. Per celebrare l’importanza di questo rituale, l’Istituto svizzero Media e Ragazzi rinnova l’appuntamento con la Giornata svizzera della lettura ad alta voce, mercoledì 26 maggio, per la sua quarta edizione. L’evento nazionale, sostenuto anche dal Percento culturale Migros, si svolge contemporaneamente in tutta la Svizzera ed è pronto a coinvolgere tutti coloro che intendono contribuire all’iniziativa. Come partecipare? Basta iscriversi sul sito web www.giornata-

dellalettura.ch e certificare la propria «performance» compilando il formulario online e scegliendo a quale tipo di lettura aderire. Diverse sono le possibilità: si può decidere di leggere un racconto ad alta voce in ambito privato ai propri figli, familiari o amici; oppure proporre la propria viva lettura in un asilo, scuola o doposcuola in qualità di insegnanti o di ospiti. O, ancora, è possibile garantire una «manifestazione pubblica» con una lettura aperta a tutti, naturalmente visto il particolare periodo il numero degli ascoltatori dovrà rispettare i limiti e le norme anti-Covid. Iscrivendosi si partecipa di diritto al concorso che mette in palio 5 raccolte di libri selezionati nei consigli di lettura proposti sul web. Spiega Catherina Sitar, coordinatrice della Giornata della lettura ad alta voce per la Svizzera italiana: «Anche

quest’anno avremo il sostegno di personalità di spicco conosciute a livello svizzero – ambasciatori e ambasciatrici in ognuna delle regioni linguistiche – che si impegnano a diffondere il messaggio sull’importanza della lettura ad alta voce praticata regolarmente e già dalla tenera infanzia, che rappresenta l’obiettivo della nostra campagna. Covid permettendo, gli ambasciatori e le ambasciatrici, i cui nomi saranno svelati prossimamente, verranno invitati a leggere in presenza nelle scuole il 26 maggio». Se praticata con regolarità – evidenziano i promotori dell’evento nel loro portale – la lettura ad alta voce contribuisce ad aumentare il vocabolario dei bambini sviluppando così il loro linguaggio orale, la comprensione delle parole ascoltate, la conoscenza del linguaggio scritto. Il giovane ascoltatore beneficia di effetti positivi sul proprio

sviluppo cognitivo ed emotivo. Leggere alimenta inoltre la creatività e l’immaginazione. L’Istituto svizzero Media e Ragazzi, centro di competenze non-profit con sede a Bellinzona, oltre all’iniziativa del 26 maggio che ha il chiaro obiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza della lettura regolare ad alta voce, promuove più in generale la lettura, la documentazione, la ricerca e la formazione nell’ambito della letteratura per l’infanzia e la gioventù. Numerosi i campi d’azione concreti: la notte del racconto in Svizzera, la «biblioteca vagabonda»; i consigli di lettura. E ancora: le novità editoriali tematiche per la fascia da 3 a 7 anni attraverso il «Libruco»; «Rime e filastrocche», il progetto «Nati per leggere», che avvicina alla pratica della lettura ad alta voce i bambini fin dai

La locandina dell’evento.

primi anni di vita come opportunità fondamentale di sviluppo della persona. Altre iniziative portano il nome di «Storie per volare» e «Tutt’orecchi». Insomma, un ampio mondo tra le pagine e le parole lette o ascoltate attraverso un numero infinito di libri e di esperienze di crescita.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Società e Territorio

Intraprendenza in alta Vallemaggia

Una visita ai trasparenti di mendrisio

progetti Nella strategia di sviluppo si prevedono anche interventi immediati sul territorio

in risposta alle criticità post-pandemia

Forum elle Il 7

e 8 aprile i prossimi appuntamenti in programma

Elena Robert Mai come nel 2020 la bella stagione unita al desiderio di svago, natura e cultura hanno finito col mettere sotto pressione il territorio dell’alta Vallemaggia. Per l’anno in corso le prospettive non sono poi così diverse. Lo sviluppo del comparto, definito nelle sue linee direttive prima della pandemia con il Masterplan Alta Vallemaggia 2016-2030, ben risponde a questa crescita d’interesse per le regioni poco densamente abitate. La strategia locale che mira a mantenere stabile il numero dei residenti in valle attraverso una crescita delle attività turistiche è però improntata sul medio-lungo termine. È stato pertanto necessario delineare un piano di rilancio rivolto al presente per gestire i flussi dei visitatori e sensibilizzare la popolazione locale sull’importanza della cosiddetta «industria dei forestieri». Il pallino è in mano agli attori locali che con sostegni mirati di politica economica regionale possono avviare o rivitalizzare iniziative con esiti importanti sul territorio. In sostanza, anche attraverso aiuti finanziari, si realizzano e mettono in rete progetti condivisi meritevoli, garantendone la visibilità: «Il territorio è vastissimo, le potenzialità da sviluppare enormi, tutte da cogliere: si tratta di attivare un’economia basata sulla valorizzazione del paesaggio, continuando a migliorare la qualità dell’offerta ricettiva. La Valle mira a posizionarsi come luogo ideale dove scoprire la cultura nella natura: la risorsa principale è appunto il paesaggio, sul quale nel tempo si è già investito tanto, grazie a promotori storici. Il turismo, adducendo flussi economici concreti dall’esterno, resta l’asse di sviluppo prioritario» ci dice il coordinatore del Masterplan AVM Timo Cadlolo. Il suo ruolo è supportare i promotori locali dei progetti allineati alla strategia di sviluppo. Ne sono coinvolti sei Comuni dell’Alta Vallemaggia: Cevio, Campo Vallemaggia e Lavizzara rappresentati nel team strategico-politico dai rispettivi sindaci, insieme a Linescio, Cerentino e Bosco Gurin. Come trovare gli sbocchi sul mercato turistico capaci di generare valore aggiunto attraverso iniziative locali? «Per l’Alta Vallemaggia si vuole un turismo sostenibile, vicino alla sensibilità ambientale, attento alla dimensione sociale, che crei cioè opportunità di occu-

L’Oratorio di Gannariente, in Val Bavona, meta di una visita guidata. (Timo Cadlolo)

pazione tra chi vi abita. Dopo la scorsa primavera eravamo consapevoli che le valli sarebbero state prese d’assalto. Ci siamo detti – aggiunge Cadlolo – “Benvenuti, ma con rispetto!” e abbiamo approntato un piano di rilancio, fatto di misure concrete focalizzate su informazione e accoglienza, su case di vacanza, rustici e capanne, su prodotti locali». Il Masterplan AVM è operativo da metà 2018. Basta entrare nel portale www.invallemaggia.ch, attivo dall’estate del 2019 e che si rinnova man mano, per rendersi conto che la regione desidera aprirsi e condividere la bellezza del paesaggio naturale e antropizzato. Il sito è un accattivante biglietto da visita: la scorsa primavera si è arricchito ulteriormente di proposte volte a attirare il pubblico su luoghi e itinerari meno conosciuti o battuti. E si è intervenuti su diversi fronti. La popolazione residente è stata sensibilizzata sulla necessità di migliorare qualitativamente e aumentare la capacità ricettiva e dall’inizio dell’estate 2020 il sito ospita una guida pratica per mettere sul mercato gli oggetti. Sulla rete sentieristica dell’alta valle, tra i più importanti attrattori turistici della regione, si è concretizzata un’iniziativa a sostegno di proprietari e gestori di capanne e rifugi lungo la Via Alta Valmaggia. Per compensare le restrizioni sanitarie, la loro capacità ricettiva è stata aumentata grazie a venticinque tende, gestite dalle

capanne, che permettono di dormire in sicurezza lungo il percorso. Quest’anno poi verranno fatte conoscere le aree picnic attrezzate e i parchi gioco esistenti in Valle. Una riorganizzazione dei posteggi è in corso sul territorio del Comune di Cevio, in particolare a Foroglio verranno ricavati settanta posti auto entro l’estate. Nel Masterplan un’attenzione particolare è riservata a una maggiore diffusione dei prodotti locali: il negozio e infopoint Val Magìa e l’azienda biologica del giovane contadino Matteo Ambrosini sono iniziative imprenditoriali concretizzatesi tra il 2019 e il 2020 a Cevio col sostegno del piano di sviluppo regionale. Inoltre quest’anno entra nella fase realizzativa il progetto Eccellenze alpestri per la valorizzazione del formaggio d’alpe e la sensibilizzazione del pubblico sulla cultura agricola e alpestre, accompagnandolo sul territorio, sui luoghi e nei caseifici di diversi alpi. «Con lo sguardo rivolto alla fine del primo quadriennio 2018-2022 del Masterplan, sul territorio abbiamo notato positivi segnali di ripresa, ma il processo è ancora lungo» conferma Timo Cadlolo. Pensiamo ad esempio all’offerta di turismo esperienziale attuato dall’estate 2020 con Cà Vegia a Cerentino, a interessanti piccole iniziative artigianali e imprenditoriali nate in Valle Rovana e Lavizzara o ancora al punto di accoglienza e ristoro che pre-

sto sarà aperto vicino alla diga del Sambuco. Per l’Albergo Basodino, in posizione strategica a Cevio ma chiuso da un paio d’anni, è in dirittura d’arrivo un progetto architettonico accompagnato da uno studio di fattibilità turistica per orientare i futuri investimenti di ristrutturazione. I progetti faro delineati a suo tempo dal Masterplan AVM rimangono d’attualità. Uno slancio importante per l’intera Valle l’hanno dato il completamento nel 2020 della Via Alta Vallemaggia (www.viaaltavallemaggia.ch) e la pubblicazione del bel libro bilingue del fotografo locarnese Roberto Buzzini Via Alta Vallemaggia. Dal lago alle nuvole e ritorno (2020, Edizioni Salvioni) che documenta passo dopo passo questo straordinario percorso in quota lungo quasi 200 chilometri. Il futuro del Centro ricreativo di Bignasco sta cominciando a delinearsi con il concorso di progettazione in corso. Lo sviluppo di Bosco Gurin è tra gli obiettivi più importanti del Masterplan. Con nuovi investimenti si intende consolidare quanto intrapreso finora e sviluppare in modo sostenibile l’offerta lungo tutto l’arco dell’anno: sono in corso approfondimenti per il tunnel di sei chilometri che collegherà Bosco alla Valle Formazza, unendo Piemonte e Lombardia al Canton Ticino, e che ospiterà un impianto a fune per il trasporto delle persone.

La prossima proposta alle socie dell’organizzazione femminile di Migros coglie lo spunto dal periodo pasquale e offre la possibilità di avvicinare in una visita all’aperto (tenuta nel rispetto delle norme vigenti di contenimento della pandemia) il percorso stradale legato alle Processioni di Mendrisio. Inserite dal 2019 nel patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, le Processioni, non potranno essere organizzate come di consueto, ma la tradizionale decorazione delle vie del centro storico di Mendrisio è stata mantenuta, offrendo ai visitatori la possibilità di una passeggiata suggestiva sotto capolavori dell’arte religiosa popolare. Le partecipanti alla visita del 7 e 8 aprile (14.15 ritrovo davanti alla Chiesa dei Cappuccini; ore 14.30 partenza per un giro a piedi lungo le vie del borgo; 15.30/16.00 possibilità di visitare il Museo dei Trasparenti) saranno quindi accompagnate da un’audioguida che fornirà le informazioni principali sulla storia di questa importante tradizione, risalente al XVII secolo. La gita è aperta a socie e simpatizzanti. Tutte/i sono invitate/i a indossare la mascherina, per una miglior protezione. Da notare che la successiva uscita in programma si terrà giovedì 15 aprile 2021 alla Fondazione Braglia Lugano (due gruppi, ore 14.00 e ore 15.30) per una visita alla mostra Ernst Ludwig Kirchner e la grandiosità della montagna. Le informazioni di dettaglio sono disponibili sul sito web www.forumelle.ch, sotto la voce «Ticino».

Dal 2019 sono patrimonio dell’Unesco. (www.processionimendrisio.ch) Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Il bisogno di verità Nel mare magnum delle informazioni sui vaccini e sui loro possibili effetti collaterali, sui test più o meno rapidi e affidabili, sulle ondate prossime venture della pandemia, informazioni spesso in palese conflitto tra di loro, siamo tutti costretti a navigare sempre più perplessi, e anche un po’ disorientati. In questo clima di polifonia mediatica assume allora grande rilevanza la necessità di punti di riferimento fondati. Abbiamo bisogno di verità. Nell’intrecciarsi di opinioni contrastanti, quanto più rischia di svanire sullo sfondo, tanto più la verità ci interpella con urgenza. Sentiamo il bisogno di un fondamento certo in cui riporre fiducia per poter dare un senso a ciò che sta accadendo e per operare con coscienza le nostre scelte quotidiane. Ma che cosa significa «verità»? O per meglio dire, come si manifesta oggi il bisogno di verità? Ovvio che nell’attuale contesto comunicativo questo bisogno riguarda

innanzitutto la conoscenza: è il bisogno di affermazioni scientifiche fondate per comprendere la realtà e per prevederne gli sviluppi. La scienza moderna, come ben sappiamo, ha in un certo senso messo tra parentesi la verità, accogliendone la ricerca sottovoce, trattandola con cautela, come una bella e delicata idea-limite. Come ci ha insegnato il filosofo Karl Popper, la scienza non dà certezze, anzi è un’impresa sempre aperta, il cui valore consiste proprio nel poter essere sempre falsificabile da altri saperi altrettanto fondati. Il che significa che dobbiamo stare attenti a non chiedere alla scienza certezze. Le certezze non appartengono alla scienza proprio perché sono affermazioni che non possono mai essere falsificate. Sono sempre vere. Sono dogmi. «Domani pioverà o non pioverà», ad esempio, non è un’affermazione scientifica perché, appunto, sarà sempre vera.

Le cosiddette fake news, falsificandosi a vicenda in un gioco comunicativo inquietante e un po’ perverso, scavalcano allegramente il rigore metodologico e se ne fanno un baffo del significato scientifico della falsificazione. Si dice tutto e il contrario di tutto, poi ognuno ne faccia l’uso che crede. Affidarsi a verità scientifiche, per loro natura sempre provvisorie, senza pretendere che ci diano certezze, è un compito della ragione di certo non facile. È una bussola oggi più che mai necessaria, un impegno che ci interpella tutti in prima persona, soprattutto in un contesto così volatile, che alcuni hanno definito l’epoca della post-verità: un’epoca in cui a ognuno è dato di scegliersi le certezze che meglio gli aggradano, spesso quelle che lo tranquillizzano. In coloro che non abboccano alla chiacchiera amorfa oggi dilagante può rimanere invece un certo malessere legato proprio all’incertezza costitutiva

di ogni verità. Ma questa incertezza può rivelarsi una buona occasione per riflettere in modo più ampio sul significato esistenziale, sull’esperienza intima e personale della verità. Qui il rapporto tra verità e il bisogno di certezze si fa molto più delicato. La certezza può infatti diventare un valore esistenziale quando, appunto, la verità riguarda il nostro essere veri: l’essere vera, innanzitutto, della parola che pronuncio. Ce lo ricorda l’esperienza socratica del dialogo, in cui la parola non è solo un mezzo per dire la verità ma il luogo stesso in cui si costituisce verità. Implicito nell’idea di dialogo sta il valore etico di parole scambiate come un dono. Davanti ai giudici Socrate si difende proprio richiamando quel valore di verità della parola con cui indagava l’animo dei suoi discepoli. Un’esperienza in cui il dialogo è incontro vero di anime. Vale la pena di ricordarlo: la parola è la casa in cui abitiamo. Da sempre

pronunciare parole vere è un valore, una scelta etica. Questa verità nasce nel nostro mondo interiore, abita il nostro sentimento di interiorità. Come ebbe a dire sant’Agostino: in interiore homine habitat veritas. Verità è esperienza originaria di sé, e insieme apertura alla relazione con gli altri. Fin da quell’essere vero di un bambino rimproverato ingiustamente per aver «rubato» i biscotti. «Ma non sono stato io! È vero!». Come dire: «sono vero». Questa sincerità sembra poter accogliere in qualche modo anche il bisogno di certezza: la certezza di essere persone autentiche. Qui non si rischiano pericolosi dogmi ma, al contrario, si accoglie il coraggio di essere una persona vera. Lo spirito moderno ci ha allontanato da una parola divenuta non a caso un po’ sospetta, ma questa parola continua ad offrirci un altro racconto di sé. Il racconto di ogni vita che, nel contatto con sé stessa, ritrova il suo più autentico valore.

Da una finestrella socchiusa vedo uno spicchio di paesaggio: stalle, case, nevica ancora. Per non dire il suo segreto Margherita promette mari e monti al pastorello, ma è un po’ duro d’orecchi e così alla fine l’alpe – Grossalp, sopra Tamins, verso il Pass dal Cunclas – viene maledetto e inaridisce. L’erba dei pascoli secca, l’acqua delle sorgenti e fontane prosciuga. Ecco così Sontga Margriata comportarsi come una dea della fertilità che flirta con il fato, divinità dell’alpe simile a certe fate che si ricollega anch’essa all’arcaica Raetia. Qui davanti c’è dunque la versione cristianizzata di quella dea alpina, spirito selvatico della vegetazione che si ritrova nel verde del manto sintonizzato con il verde ondeggiante più scuro del drago. L’aspetto del drago, con mini unicorno e qualcosa del pescegatto nel muso mansueto, posto tutto in orizzontale dando l’idea di una bilancia, non è repulsivo, provo una certa empatia. Il drago feroce e soccombente dell’iconologia dominante dei santi draghicidi o degli eroi di saghe nordiche, qui è buffo, fiabesco, ha qualcosa di Falcor. «Noi

siamo anche il drago» diceva in via di Ripetta a Roma, nell’aula di incisione, il professor Berto, a proposito del tema San Giorgio, il drago e la principessa. L’interiorizzazione del drago è qui davanti agli occhi e l’accettazione sublime del mondo, al di là del bene e del male, lo si legge nello sguardo limpido della santa biondo veneziano con la corona in testa. L’oro sullo sfondo è damascato. Per terra, qualcuno ha portato un’orripilante rosa blu finta. Butto fuori un occhio dalla porta della chiesetta di San Giorgio che conta sette panche. Nessun lupo all’orizzonte. A stento si vedono le pinete sul versante nord del Mundaun. La nevicata marzolina cancella un po’ il paesaggio sursilvano intorno che vanta microtoponimi da litania: Miraniga, Misanenga, Pilavarda, Giraniga, Zarzana, Mira, Tusa. Tschappina non è lontano. E un tempo Obersaxen era chiamato Supersaxa, da non confondere con il fotoromanzo Supersex. A malapena, meno male, si scorge la seggiovia sciistica risalente al 1952. Un gatto rosso e bianco, la coda alzata con fiducia, mi viene incontro.

Germain-des-Prés e dell’Istituto di studi politici. Catherine è una donna elegante e pratica, una tipa esotica, studia politica e cultura cinese. Porta Sherry nei ristoranti di cous cous, le fa bere il tè marocchino della moschea e fanno shopping nei mercati locali. Tornando all’appartamento di proprietà dei signori Dumas, Sherry non può permetterselo. Quando però la signora Dumas le dice di essere in cerca di una signora delle pulizie vede la sua occasione. Elargisce un bel sorriso e le mente spudoratamente: «Ma grand-mère m’a bien appris». Sono voluta partire da qui, da questo aneddoto, uno dei tanti raccontati nel libro appena uscito The Empathy Diaries: A Memoir in cui, lo avete capito, la sociologa, psicologa e tecnologa statunitense, classe 1948, ripercorre la sua vita. Ci racconta di sé, delle sfide, delle delusioni personali, dei lutti ma anche delle sue grandi soddisfazioni e

conquiste per dirci che dietro ad ogni persona c’è un percorso esistenziale che negli anni ha modellato e rimodellato costantemente la sua identità. Attraverso le sue memorie ci ricorda la bellezza di essere umani e connessi in tutta la nostra fisicità e fragilità. Ci ricorda quale sia la nostra insostituibile magia. La capacità di lottare per i nostri traguardi, di rialzarci sempre dopo un fallimento, una grande delusione o un lutto. Per farlo dobbiamo guardarci dentro, analizzare i nostri pensieri, ricostruire l’origine dei nostri stati d’animo. Pioniera della cultura digitale, studiosa del modo in cui i computer cambiano le nostre vite, trasformano il nostro modo di vederci, Sherry Turkle parte da sé stessa, dalla sua carriera per poi allargare l’obiettivo e raccontarci una storia che ci riguarda tutti, quella della nostra epoca digitale. Vi ho incuriosito? Vi aspetto qui tra due settimane.

passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La Santa margherita e il drago di obersaxen Nelle mie ricerche sulla Ritscha, la sirena bicaudata grigionese resto di un antico culto delle acque collegato alla dea Reitia, diventata, per un mese, quasi un’idea fissa, è spuntata una bellissima Santa Margherita e il drago a Obersaxen. Dove, notizia di qualche settimana fa, è stato avvistato un lupo sulle piste da sci. Presenza che impreziosisce l’immaginario del mio viaggio. Da Ilanz la posta sale su a fatica per via delle forti nevicate. Chiavi in tasca (si prendono all’ufficio turistico di Meierhof), in quindici passi lunari nella neve fresca sono davanti alla St. GeorgKapelle. Bianca, seicentesca, campanile in legno stile scandinavo. Già dalla soglia, la Santa Margherita e il drago di Obersaxen (1300 m), dipinta sulla pala d’altare tardogotico in legno di abete, è di una grazia accecante. Accresciuta forse dalla luce nevosa, dall’austerità della chiesetta con la volta a botte in larice, oltre che dall’oro abbondante sullo sfondo: come le icone bizantine. L’indomita martire, alla quale un primo pomeriggio di metà marzo mi avvicino, avvolta in un manto verde

pisello, ha delle belle guance arrossate. Sprigiona un’aria campestre, salubre, quasi alpigiana. Il drago non si trova ai piedi come nell’iconografia tradizionale, è in grembo, quasi come un animale da compagnia. Le mie impressioni a proposito di questa particolare affinità e insolito affetto tra drago e Margherita nell’opera di Ivo Strigel (1430-1516) e la sua bottega di Memmingen, nella Svevia bavarese, trovano una corrispondenza nelle parole di Carola Meier-Seethaler. Pagina ottantadue, Das Gute und das Böse (2004): «Lei lo tiene quasi come un bambino in braccio». Questo equilibrio pacifico tra due esseri di solito contrapposti, è rafforzato dall’analogia di colore tra i due verdi che si fondono in una sola Viriditas, la verdezza terapeutica della mistica Hildegard von Bingen, monaca specialista in piante medicinali. Inoltre si può cogliere la coda del drago che accenna ad attorcigliarsi, come un serpente, al bastone con la croce tenuto da Margherita ricordando così il simbolo farmaceutico per eccellenza: il bastone di Esculapio. Infine il drago fa parte

della mitologia meteorologica popolare da sempre. «Il dragun vegn» dicono per esempio a Trun, quando sentono il Ferrera ingrossarsi minacciando un’alluvione. Tutta la forza della natura, allo stesso tempo distruttrice e riparatrice, emana dal delicatissimo dipinto di un luminoso verde vegetazione. Non per niente esiste un legame tra questa Santa Margherita d’Antiochia (275290) – martirizzata oltremodo per aver rifiutato le avances di un prefetto – e la dea dell’alpe protagonista della Canzun de Sontga Margriata. Cantata ancora fino a duecento anni fa, nei campi, dalle donne. Raccolta nell’estate 1931 dalla voce di Catharina Gartmann-Casanova, in Val Lumnezia, non lontana da qui, grazie a Christian Caminada. Vescovo di Coira e folclorista a tempo perso, autore di Die verzauberten Täler (1961) dove viene datata tra il 645 e il 753. Racconta di Sontga Margriata «stata sette estati sull’alpe meno quindici giorni» che ruzzolata su un sasso liscio, svela i suoi bei seni, rivelando così la sua vera natura al figlio del pastore: è una «pulzella» travestita da maschio.

La società connessa di Natascha Fioretti La straordinaria storia di Sherry Turkle «Nonna, mi serve il tuo consiglio. Soltanto tu puoi aiutarmi. Come si puliscono i vetri senza Windex?» – «Con l’aceto e il giornale». È il consiglio della nonna Edith a una giovanissima Sherry Turkle nella Parigi del 1968, una città in piena ribellione e tumulti. Studentessa di Harvard, è la sua prima volta in Europa. In Francia vuole studiare storia, politica e sociologia a Sciences Po. Intanto però deve trovare un modo per mantenersi agli studi perché non soltanto proviene da una modesta famiglia ebrea americana di Rockaway ma ha appena perso la madre e Milton Turkle – suo padre adottivo – di lei non vuole più saperne. È contrariato dal rifiuto di Sherry di abbandonare gli studi per dedicarsi alla casa e ai fratellini minori. Ironia della sorte, il padre vero, Charlie, da tempo non si fa né vedere né sentire. Le restano l’amore e il sostegno dei nonni e della zia. Hanno sempre

pensato che Sherry fosse una ragazza speciale, intelligente e brillante che, a differenza loro, avrebbe fatto strada. Hanno sempre fatto il tifo per lei, in particolare le tre donne, Edith, Harriet e Mildred. Le hanno insegnato che l’istruzione rende liberi, è il biglietto per raggiungere una qualità di vita migliore. E non hanno mai nascosto che raggiungere i propri sogni costa fatica e sacrificio soprattutto se sei povero. Per questo da bambina non le hanno chiesto di aiutare nelle faccende domestiche ma le hanno insegnato a leggere e poi a discutere di politica e società, delle origini della sua famiglia, di razzismo e antisemitismo. Quando arriva a Parigi, Sherry ha la fortuna di incontrare Madame Suzanne Mullender, una ricca signora abituata ad affittare le stanze alle studentesse americane. La invita a stare da lei per qualche tempo, nel suo elegante appartamento su Avenue

Niel, finché non trova una sistemazione permanente. A pranzo e a cena, la tavola è sempre imbandita con raffinatezza, per ciascun commensale ci sono tovaglioli di lino raccolti in un prezioso anello di metallo. Si mangiano zuppe e insalata, piccole porzioni di pesce e di carne, fette di pane francese, formaggio e frutta. Ma al di là del menù il pezzo forte sono le conversazioni e gli scambi culturali a tavola. Necessari quanto il cibo. Ci si aspetta da tutti il racconto dell’ultima mostra visitata, dell’ultima volta a teatro o del libro appena letto. Ci si attende che ciascuno non solo racconti la sua esperienza ma condivida la sua opinione, il suo punto di vista. Il tutto, naturalmente, in francese. Sherry apprezza molto l’ospitalità e si dispiace quando arriva il momento dei saluti. Va a vivere con la collega Catherine in un appartamento al numero 70 di Rue du Bac, nelle vicinanze di Saint-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Ambiente e Benessere Le marche a tavola Il giro gastronomico delle regioni d’Italia tra olive ascolane e piatti sconosciuti

Sulle tracce dei Templari A Osimo, nelle Marche, si trovano molti simboli dell’antico ordine cavalleresco

electric, Hybrid e Sport Tre, le modalità di guida della nuova Peugeot, la 3008 ibrida plug-in pagina 19

pagina 17

pagina 15

Virus e mondo equestre La pandemia non serpeggia solo in città, tra gli uffici, ma anche nelle stalle, tra la gente

pagina 21

Siamo «cibo» ingerito dai nostri antenati evolouzione Lineamenti, corporatura

e aspettativa di vita non dipendono solo dal patrimonio genetico, ce ne parla il biologo Russell Bonduriansky

Stefania Prandi* I nostri lineamenti, la corporatura e l’aspettativa di vita non dipendono soltanto dal patrimonio genetico, cioè dal DNA. Dai nostri genitori, così come da nonni e bisnonni, abbiamo ereditato anche una serie di meccanismi evolutivi e di caratteristiche non genetiche. Secondo gli studi più recenti, esistono, infatti, diversi fattori non genetici che permettono la trasmissione di informazioni biologiche attraverso le generazioni. Questo significa, ad esempio, che ciò che accade nel corso della nostra vita (dalla dieta alle esperienze) può avere un impatto su chi viene dopo di noi, ovvero su figli e nipoti. Russell Bonduriansky, professore di Biologia evolutiva alla University of New South Wales in Australia, e Troy Day, docente alla Queen’s University in Canada, discutono le nuove scoperte in un testo appena pubblicato in italiano, L’eredità estesa. Una nuova visione dell’ereditarietà e dell’evoluzione (Franco Angeli). «Azione» ha raggiunto Russell Bonduriansky per un’intervista. professor Bonduriansky, che cos’è l’ereditarietà dei caratteri non genetici?

A scuola abbiamo imparato che i bambini assomigliano ai genitori a causa dei geni trasmessi attraverso le generazioni. Questa eredità genetica è stata al centro della ricerca scientifica e del senso comune sin dalla prima metà del secolo scorso. Gli scienziati erano convinti che l’unico modo per i genitori di influenzare i figli fosse con i geni. Si credeva che nulla di ciò che sperimentavano durante la loro vita potesse determinare le caratteristiche della prole, perché i geni erano impermeabili all’effetto dell’ambientale. Tuttavia, negli ultimi decenni, gli scienziati hanno iniziato a rendersi conto che nell’ereditarietà c’è

molto di più. Gli ovuli e lo sperma sono cellule contenenti migliaia di tipi diversi di molecole oltre al DNA, e alcune di queste possono anche incidere sullo sviluppo della prole: aspetti della salute e della fisiologia; tratti del comportamento e della cultura; dimensioni e forma del corpo. come si trasmettono i caratteri non genetici?

Esistono varie modalità. Ad esempio, ci sono i fattori «epigenetici». Mi spiego: le nostre cellule contengono sistemi molecolari, chiamati fattori «epigenetici», che regolano il modo in cui i geni vengono espressi e possono influenzare lo sviluppo. I fattori epigenetici possono variare indipendentemente dai geni, in risposta alla dieta o allo stress, e parte di questa variazione epigenetica può essere trasmessa dai genitori ai figli negli ovuli e nello sperma. Altre trasmissioni avvengono mediante gli ormoni, le sostanze nutritive durante la gestazione e fattori come il latte materno. cosa si eredita dalla madre?

La stretta associazione tra la prole e le madri offre molte possibilità di influenza non genetica attraverso ormoni, tossine o persino agenti patogeni. Per citare un aspetto specifico, negli esseri umani si è visto che l’obesità materna può alterare l’ambiente intrauterino e condizionare lo sviluppo embrionale, favorendo la nascita di bambini con una predisposizione all’obesità. Quindi, uno stile di vita malsano può avere un peso anche per la salute dei propri figli. e dal padre?

Dato che i padri non nutrono la loro prole nel grembo né secernono latte, è stato a lungo ritenuto che potessero influenzare i figli solo tramite la trasmissione di geni nello sperma. Tuttavia, recenti ricerche stanno rivelando molti esempi di eredità non genetica paterna.

Si è visto che l’obesità materna può alterare l’ambiente intrauterino e condizionare lo sviluppo embrionale. (Shutterstock)

La dieta paterna e lo stress possono alterare i fattori epigenetici nello sperma e quindi determinare aspetti dello sviluppo, della salute e delle caratteristiche della prole. Ad esempio, se i roditori maschi vengono nutriti con una dieta ricca di grassi producono prole con un metabolismo alterato e malsano, e ci sono prove di effetti simili negli esseri umani. Scrive che siamo condizionati dalla dieta dei nostri antenati. come?

Alcuni aspetti della dieta, come il contenuto di grassi, incidono sullo sviluppo e la salute della prole. Un’analisi dei dati storici di una popolazione nella Svezia settentrionale ha dimostrato una forte associazione tra la quantità di cibo assunta da un campione di uomini da giovani e la salute e la longevità dei loro nipoti. I ricercatori stanno ancora studiando i meccanismi molecolari

coinvolti, ma sembra che la dieta alteri i fattori epigenetici nei testicoli in via di sviluppo. Questa è un’area di ricerca affascinante, con ovvie implicazioni per la salute e il benessere umano. Si può trasmettere lo stress?

Secondo certi studi, diversi tipi di stress possono colpire non solo gli individui direttamente esposti, ma anche la loro prole e, in alcuni casi, i nipoti. Nei roditori, lo stress metabolico derivante da una dieta malsana, lo stress psicologico oppure l’esposizione a tossine possono indurre cambiamenti nello sviluppo della prole: cattiva salute fisica o mentale, infertilità o ridotta durata della vita. e i traumi?

Le persone con traumi psicologici gravi possono subire una serie di cambiamenti fisiologici. Il trauma può indurre cambiamenti epigenetici che influiscono sull’invecchiamento, rendendo

alcuni sopravvissuti fisiologicamente più anziani dei loro anni. Non sappiamo ancora se i cambiamenti epigenetici vengano trasmessi ai figli. Per adesso ci sono prove di altri effetti dei traumi gravi ereditati dai bambini. Ad esempio, alcuni sopravvissuti all’Olocausto colpiti da disturbo da stress post-traumatico hanno dato alla luce bambini con una risposta carente allo stress. Il trauma grave potrebbe alterare i fattori epigenetici nella linea germinale. Questi fattori epigenetici alterati, a loro volta, potrebbero interrompere alcuni aspetti dello sviluppo dei bambini. Tuttavia, ci sono altre spiegazioni plausibili e sono necessarie ulteriori ricerche. * L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Ambiente e Benessere

Dal più nobile dei vini siciliani

Scelto per voi

Bacco giramondo Marsala, Malvasia delle Lipari, Grillo, Mozia, Zibibbo, Frappato,

Nero d’Avola e tanti altri – 2a parte Davide Comoli Negli ultimi due decenni, la vitivinicoltura sicula ha fatto passi da gigante; un ruolo importante, oserei dire determinante, è stata l’introduzione dei vitigni internazionali, che magari in uvaggio con i vitigni tradizionali dell’isola hanno ridato nuova linfa alla produzione vitivinicola. Per chi non conosce l’isola consigliamo di seguirci in questo ipotetico percorso per meglio conoscere le zone vitivinicole di questo territorio affascinante, ricco di storia e di cultura, dove il sole lancia i suoi strali ardenti permettendo ai grappoli di maturare in modo ottimale e uniforme. Una prima parte è stata già esplorata nell’articolo apparso su «Azione» del 1. marzo. La provincia di Trapani occupa circa la metà della superficie vitata dell’isola (45 per cento) e produce inoltre la maggior percentuale di vini D.O.C. in Sicilia, grazie soprattutto al Marsala, vero ambasciatore di questa provincia. Il Marsala, il più nobile dei vini siciliani, fu scoperto nel 1773 da John Woodhouse, un intraprendente inglese di Liverpool. È questo un vino da gustare con formaggi erborinati, soprattutto di capra. Vitigno simbolo del Trapanese è però il Grillo, che matura lungo i litorali sabbiosi/rocciosi della costa tra Marsa-

la e Mazara del Vallo, fino alle colline calcareo/argillose lungo la strada che porta ad Alcamo. Trapani è un grosso distretto diversificato sia nella produzione sia nel paesaggio. Non si può lasciare questa provincia senza aver provato l’emozione di gustare il vino di Mozia (vino dei Fenici), riprodotto da un vecchio vigneto di uve Grillo, nella minuscola isola di San Pantaleo, situata sull’estrema punta dell’isola in un angolo ricco di sale e iodio. Il vino di Mozia riemerge dal passato, agli albori dell’enologia; è dolce e gradevole, con sentori di pistacchi, fichi secchi e sfumature di miele selvatico, da gustare con i dolci a base di mandorle di Erice. E che cosa dire, in questa dolcissima Sicilia, dello Zibibbo (dall’arabo Zabib, uva passa)? Così viene chiamato il Moscato d’Alessandria, coltivato sui terreni vulcanici dell’isola di Pantelleria. Il mio consiglio? Provate a creare un delizioso abbinamento tra questo dolce nettare e la classica «cassata siciliana». Scendendo verso sud, sulla strada che conduce a Sciacca, attraversata la foce del fiume Belice, entriamo in provincia di Agrigento, ricca di mare e cielo azzurro. Qui si respirano profumi balsamici che predispongono gli animi per meglio gustare i vini prodotti a Santa Margherita del Belice, Sciacca, Sambuca di Sicilia e Menfi con i sapori mediterranei della cucina locale.

Vigneto di corinto nero franco di piede a Fossa del Monte a Lipari. (www.caravaglio.it)

La base ampelografica è costituita per l’80 per cento di uva a bacca bianca: Catarratto, Trebbiano Toscano, Inzolia. Tra quelle a bacca rossa prevale invece il Calabrese (Nero d’Avola) e il Nerello Cappuccio. Dopo aver fatto degustazioni nelle varie cantine intorno al lago Arancio e a Sambuca, non perdetevi l’occasione di fermarvi a bordo mare nel villaggio di Porto Palo: indimenticabile resta nella nostra mente il grosso dentice al forno, condiviso con l’amico Paolo e altri, innaffiato dall’ottimo bianco locale. Dalla Valle dei Templi, prendete verso nord, attraversate Canicattì e raggiungete Caltanissetta. Quarta per quantitativi prodotti, è una zona in forte espansione sia per uva da tavola (allevata con grosse pergole) sia per uva da vino: curiosi i Barbera e i Sangiovesi provati qui; ottimo il rosso Frappato abbinato a eccellenti caciocavallo e formaggio pecorino; pranzo concluso con il classico amaro Averna prodotto in loco. Interessanti in provincia le D.O.C. Butera e Riesi. Poco più a nord-ovest raggiungiamo Enna, qui la viticoltura raggiunge i 1100 m s/m e le basse temperature primaverili possono danneggiare le viti. I comuni vitivinicoli più importanti oltre a Enna sono: Nicosia, Aidone e Piazza Armerina. Ma per appassionati di storia come noi, non possiamo lasciare la provincia senza fermarci a Centuripe, dove intorno al VI sec. a.C. fu scritta per la prima volta (in Italia) la parola «OINOS» (vino) sul coperchio di un otre di terracotta. Il vero leader dell’area vitivinicola Siracusana e Ragusana è il Nero d’Avola con l’80 per cento della superficie vitata; troviamo pure il Frappato, mentre di recente introduzione è il Perricone, ma il fiore all’occhiello della provincia di Ragusa è il Cerasuolo di Vittoria, centro da visitare a luglio durante la fiera del vino siciliano. Senza dimenticare di provare i due Moscati, quello di Noto e quello di Siracusa; forse il vitigno più antico d’Italia, arrivato con i coloni Greci attorno al VII sec. a.C. La viticoltura in provincia di Ca-

tania è fortemente influenzata dal vulcano dell’Etna, le forti pendenze, la variabilità del clima ma soprattutto la ricchezza minerale del terreno, condizionano non poco la maturazione e la produttività delle viti che si trovano sui versanti. Assolutamente da provare il Carricante, da cui si produce l’Etna Bianco Superiore, che dà il meglio di sé dopo qualche anno dalla vendemmia nel territorio di Milo e il Nerello Mascalese, veri spettacoli naturali, con i tronchi contorti vicinissimi tra di loro. Nel versante sud troviamo antichissimi vitigni che rischiano di scomparire, il Nebbiolo Cappuccio, la Visparola, da provare pure a Randazzo il vino prodotto dal vitigno Alicante (di origine spagnola), sopravvissuto alla filossera di fine Ottocento. Da poco si produce anche un ottimo Pinot Nero, da provare con il capretto pasquale. La provincia di Messina, in passato famosa per il suo Mamertino, è ora in una situazione piuttosto statica essendo una zona montuosa poco vocata alla coltivazione della vite. Ma sulle isole Eolie, e più precisamente a Salina e Stromboli, si producono dei vini passiti più nobili, come la Malvasia delle Lipari, ottenuto dall’omonimo vitigno: ha intensi profumi, ed è ottima con i dolci a frutta secca, come fichi, datteri, uva passa e confetture. Attraverso territori assai vari, colline, pianura, fascia costiera, si possono poi visitare, diretti a Palermo, le D.O.C. Contea di Sclafani, Monreale, Contessa Entellina. A questi ambienti corrispondono microclimi diversi che consentono di coltivare vitigni sia a bianchi sia a rossi, dai freschi Catarratto, Inzolia, Nero d’Avola e belle espressioni di Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon; indimenticabile a Monreale, il carpaccio di tonno e spada con un bianco prodotto da uve Sauvignon/Viognier. Il nostro viaggio termina a Mondello, davanti una bottiglia di Grillo che accompagna la pasta con le sarde preceduta da una profumatissima caponata di verdure. Confessiamo d’aver lasciato sull’isola un pezzo del nostro cuore.

pinot Grigio Felluga

Da decenni i vini con la classica etichetta fregiata da una carta geografica sono presenti su tanti mercati, mietendo molti successi per merito dei figli ed eredi di quel patriarca del vino che fu il friulano Livio Felluga. A ridosso del confine sloveno, tra Isonzo e lo Judrio, pendii esposti a mezzogiorno – protetti dalle Prealpi Giulie e favoriti dalla vicinanza del mare – creano le condizioni ideali per la produzione di ottimi vini bianchi. Il Pinot Grigio che vi consigliamo viene allevato con grande rispetto per la natura: riducendo al minimo gli interventi antiparassitari. Alla perfetta maturazione delle uve segue la naturale vinificazione e macerazione, dove il vino riposa sei mesi sui suoi lieviti. L’imbottigliamento avviene senza chiarifica. Questo Pinot Grigio, unico per il suo carattere, si presenta con un colore giallo dai riflessi ramati, e ci colpisce con le sue sfaccettature di frutta, fiori, mineralità e una stratificazione aromatica rara da trovare, che aggiunge un incredibile equilibrio e un’invidiabile persistenza aromatica. Vino molto versatile per antipasti misti, minestre corpose e piatti sia di pesce sia di carni bianche, preferibilmente lessate o arrostite. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 26.–. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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Ambiente e Benessere

Tra olive ascolane e ciauscoli Parliamo oggi della cucina delle Marche, che è da sempre una regione di confine, fra il nord e il sud Italia. E che in Italia è pressoché sconosciuta, al di fuori della regione d’origine, purtroppo. Varie tradizioni gastronomiche si fondono nella cucina marchigiana, da quelle dell’entroterra e della zona costiera fino ad arrivare a quelle delle regioni circostanti – Romagna, Lazio, Abruzzo, Umbria – con cui le Marche condividono alcune ricette e modalità di preparazione dei cibi.

Tra i primi piatti, i passatelli in brodo di pesce e i ravioli di magro al sugo di sogliola, mentre i dolci sono semplici ma saporiti grazie alla frutta secca Nell’entroterra predominano prodotti quali funghi, olive e tartufi. Questi ultimi sono tipici della zona d’Acqualagna, in provincia di Pesaro-Urbino, da cui passa un terzo della produzione italiana, grazie al fatto che durante tutto l’anno vi si raccolgono tartufi di varie qualità (bianchi, neri, marzuoli ed estivi). Con le olive si prepara, oltre all’olio, una celeberrima specialità ascolana, farcita con formaggio, carne trita e uova. L’allevamento è ovunque piuttosto esteso. Con la carne di una razza bovina simile alla chianina si preparano, per esempio, dei filetti con prosciutto e funghi o la Braciola di Urbino (un rotolo farcito e brasato con il vino bianco). Dal maiale nero si ricava invece il pregiato salame di Fabriano, cittadina che è nota anche per i prosciutti affumicati. Un prosciutto crudo di qualità è prodotto anche nel Montefeltro. Altri insaccati tipici sono il ciauscolo (una salsiccia del maceratese insaporita con

aglio: è spalmabile e gustosissima sul pane tostato; si meriterebbe più successo di quanto ne ha, dato che al di fuori delle Marche, la mia Milano inclusa, è quasi introvabile) e la coppa marchigiana, aromatizzata con mandorle e scorza d’arancia. Apprezzati anche l’agnello, la capra e volatili come le quaglie, che a San Leo, in provincia di Pesaro-Urbino, si farciscono con pistacchi, salvia e prosciutto, per poi avvolgerle nella pancetta. Tipici marchigiani sono ancora il coniglio in porchetta, la cui preparazione ricorda la pietanza a base di maialino per l’impiego del finocchio, e il potacchio, un intingolo denso impiegato per preparare carne – pollo in particolare – ma anche pesce (stoccafisso, coda di rospo). Tra i formaggi emergono il pecorino, spesso aromatizzato al timo, e il raviggiolo, realizzato con latte ovino o caprino e consumato fresco. Cardi, cicerchie (un tipo di legume) e mais fanno parte dell’assortimento vegetale, insieme alla misticanza di verdure selvatiche e a tutti gli ortaggi che ben conosciamo (fagiolini, pomodori, peperoni eccetera). Nella zona costiera domina ovviamente il pesce, soprattutto il brodetto. Tra le tante versioni di questo piatto caratteristico della zona adriatica emergono quelle di Ancona e Recanati, quest’ultima aromatizzata allo zafferano. San Benedetto va invece fiera della coda di rospo in potacchio. L’assortimento ittico comprende anche le canocchie con olio e limone, le seppie ripiene di formaggio e pangrattato, le triglie avvolte nel prosciutto e cotte in forno. Tra i primi piatti ricordiamo i passatelli in brodo di pesce e i ravioli di magro al sugo di sogliola. I dolci marchigiani sono semplici ma saporiti grazie all’impiego di frutta secca. Ecco allora, per esempio, i caciuni, calzoni farciti con pecorino, limone e zucchero; le beccate, con mandorle, noci e pinoli; e il frustingolo, con uvetta, fichi, noci, mandorle e cioccolato.

cSF (come si fa)

Thogru

Allan Bay

Egijd

Gastronomia La geografia della cucina marchigiana ha confini molto ristretti, malgrado i forti sapori dei suoi piatti

Il pulled pork è oggi probabilmente il più emblematico piatto della cucina americana. L’origine è del sud degli Stati Uniti. La cottura è tradizionalmente lunga e alla griglia leggera, migrando si è diffusa anche la tecnica di cuocerlo in forno, un po’ eterodossa ma la cucina si evolve di tradimento in tradimento. Vediamo come si fa. Ingredienti per quattro persone: 800 g di spalla di maiale pulita dalla coten-

na, dal grasso e dalle ossa, zucchero di canna, aceto bianco o di mele, sale, peperoncino in polvere, salsa barbecue. Per marinare la carne a secco: 10 g di zucchero di canna, 10 g di sale, 10 g di pepe nero, 20 g di paprika affumicata, 5 g di aglio in polvere, 5 g di cipolla in polvere, 10 g di senape in grani macinata, 5 g di cannella in polvere, 5 g di cumino in polvere. Con gli ingredienti preparate una marinata a secco, cioè mescolateli. Strofinate con la marinata la carne su tutta la sua superficie e mettetela in frigorifero coperta per 12 ore. Poi mettetela in una teglia, se possibile poco prima mettete nella teglia una griglietta, quella che si usa per far raffreddare le torte, in modo che la carne sia staccata dal fondo della teglia, cuocetela in forno statico per 20 minuti a 200°, poi ab-

bassate la temperatura a 90° e lasciatela cuocere per 8 ore, umettandola ogni tanto con il sugo che si formerà. Una volta cotta conditela con una miscela preparata con zucchero, salsa barbecue, peperoncino in polvere aceto e sale dosati secondo i vostri gusti. Conditela molto bene e lasciate riposare. Potete conservare in frigorifero per 5 giorni e congelare per 6 mesi. Gustate il pulled pork dopo averlo leggermente riscaldato, mettendolo in un ampio piatto e sfilacciandolo con due forchette, profumando, se si vuole, con senape. Si può fare anche con la coppa di maiale: viene tenerissimo e si sfilaccia ancora più facilmente. E potete utilizzare anche un buon pollo, con la cottura a 90° per 3 ore: si chiama pulled chicken, ovviamente.

Ballando coi gusti Oggi, due ricette di arrosti che richiedono un po’ di perizia per essere ben eseguite, ma proprio poca.

Fagottini di vitello ai funghi

cima ripiena

Ingredienti per 4 persone: 8 scaloppe di vitello · 300 g di funghi misti · 3 scalogni · paprika · alloro · 1 cucchiaino di prezzemolo grattugiato · vino bianco · burro · olio di oliva · sale.

Ingredienti per 4 persone: 700 g di punta di vitello con la tasca · 150 g di prosciutto cotto · 150 g di polpa di vitello tritata · 120 g di grana grattugiato · mollica di pane · 1 spicchio di aglio · 1 cucchiaio di cipolla tritata · 2 rametti di rosmarino · 1 o 2 uova sode · latte · vino bianco · olio di oliva · sale e pepe.

Battete la carne per renderla sottile. Tritate gli scalogni, mondate i funghi e tagliateli a fettine. Dorate gli scalogni tritati in olio e burro e unitevi i funghi, salate e portate a cottura, fino a che saranno asciutti. Fuori dal fuoco unite il prezzemolo e mescolate. Farcite le scaloppine con il composto e chiudetele con lo spago da cucina; poi sistematele in una teglia, bagnatele con ½ bicchiere di vino. Unite l’alloro, olio e burro, salate e spolverate i fagottini con la paprika. Cuocete in forno a 200° per 20 minuti, poi grigliate fino a doratura. Togliete lo spago da cucina e serviteli caldi.

Rosolate l’aglio e la cipolla in olio e unitevi la polpa di vitello e il prosciutto cotto tagliato a julienne. Cuocete per 10 minuti poi salate e pepate leggermente. Unite 1 manciatina di mollica di pane bagnata nel latte, scolata e strizzata, e il grana. Regolate di sale e di pepe e impastate. Riempite la tasca senza pressare troppo e infilate nel ripieno le uova sode sgusciate. Cucite l’apertura con filo gastronomico, fatela rosolare uniformemente in 1 filo di olio per 5 minuti, sfumatela con 1 bicchiere di vino bianco secco poi cuocetela in forno a 180° per circa 2 ore e ½, bagnandola con fondo di cottura. Levatela e fatela raffreddare sotto a un peso in modo che si appiattisca leggermente. Affettatela solo quando è fredda.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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I segreti di osimo

Ambiente e Benessere

reportage Dalle grotte sotterranee molti simboli templari sono emersi, ma ancora molto è da svelare

e comprendere della storia di questo ordine cavalleresco

Luigi Baldelli, testo e foto Osimo è una cittadina sulle colline marchigiane, non lontano da Ancona. Avamposto già ai tempi dei romani, importante città dello Stato pontificio in Italia centrale, oggi il suo centro storico ricorda un piccolo villaggio del medioevo. È chiamata anche la «Città dei senza testa» per via delle statue romane che si trovano nell’atrio del palazzo comunale, tutte, appunto, senza testa. Camminando nelle sue stradine costeggiate da antichi palazzi di mattoni rossi o per i vicoli che portano a terrazze che si aprono su panorami di promontori morbidi e verdi, si respira storia e arte. Ma Osimo nasconde anche qualcosa di misterioso nel suo sottosuolo: la storia dei templari. L’ordine dei templari nasce nel 1118, da monaci cistercensi e cavalieri, e subito partecipano alle crociate, con il compito dato da San Bernardo, di recuperare documenti e reliquie della prima cristianità, dal 650 al 1100. «I viaggi in Terra Santa – mi spiega Fabrizio Bartoli, studioso dei templari e grande ufficiale dell’ordine dei cavalieri templari del tempio di Gerusalemme –, permettono ai templari di acquisire conoscenza sul cristianesimo agnostico della prima cristianità, ma si tengono queste scoperte per loro. E insieme alla conoscenza, aumenta anche il loro potere economico». Conoscenze e misteri cercati, scoperti e custoditi, che certamente amplificavano il loro potere, ma che potevano mettere in pericolo il credo della Chiesa, mi fa capire Fabrizio. Per qualche secolo, tuttavia, forti delle loro gesta in Terra Santa, riescono a conquistarsi comunque rispetto nella società dell’Europa di allora. I Templari ad Osimo e dintorni sono già presenti nel 1160, quando, stabilendosi intorno alla Chiesa di San Filippo apostolo, iniziano ad acquistare terreni, aprono mulini e danno vita ad attività commerciali. Questa chiesa, (che si può visitare ancora oggi su prenotazione), ha una sola navata ed è priva di abside. All’epoca era dotata di tre entrate, come voleva la tradizione dei cavalieri templari. La cittadina era importante per l’Odine, perché grazie al fiume Musone, con le barche riuscivano a portare derrate ali-

mentari fino al porto di Numana e da lì potevano proseguire la navigazione fino in Terra Santa. Per questa ragione, i Templari di Osimo sono stati tra i più importanti in Italia. «La presenza dell’ordine templare a Osimo è riscontrabile sia in alcuni simboli in superficie, ma anche in simboli presenti nelle grotte nel sottosuolo della cittadina», continua Fabrizio, mentre mi accompagna in questa visita sulle tracce di un ordine che ha avuto vita in maniera ufficiale e riconosciuta, fino al 1307. Camminiamo lungo dei vicoli alle spalle del palazzo del comune e arriviamo davanti a una vecchia saracinesca: Fabrizio la alza e armato di una torcia, mi guida all’interno di cunicoli e grotte. A un certo punto si ferma e illumina un bassorilievo che raffigura Ermete Trismegisto, personaggio tra storia e mito, venerato come maestro di sapienza, ed esponente della cultura agnostica che i templari apprezzavano. Ma perché, chiedo, i Templari si rifugiavano e nascondevano in queste grotte? «Vedi – continua Fabrizio, mentre camminiamo nei cunicoli – con il tempo, i Templari acquisirono sempre maggior potere, anche potere economico, erano diventati un ordine ricco e molti sovrani erano indebitati con loro, soprattutto Filippo il Bello, Re di Francia che convinse il Papa Clemente V a mettere fuori legge i Templari. Era appunto il 1307, esattamente un venerdì 13 ottobre». È da quella data che vengono arrestati molti appartenenti

all’ordine, mentre altri sono costretti a darsi alla macchia. L’ordine templare non esiste più, almeno ufficialmente. Dal 1307 al 1312 sono anni di processi, fino a quando la Bolla papale li scomunica e scioglie l’ordine. Nel 1314 diversi templari vengono bruciati a Parigi, lungo la Senna. Tra questi anche Jacques De Molay, il gran priore. Per molti, quindi, qui a Osimo, le grotte con i loro tunnel erano diventate il rifugio ideale dove potersi ancora riunire in gran segreto. Camminando nel silenzio ovattato delle gallerie, arriviamo in quella che è la Grotta dei Templari. Una sala esagonale, come un fiore a sei petali o detto anche «fiore della vita». Al centro, una grossa colonna con una croce. «Qui siamo a dieci metri di profondità e probabilmente questa grotta era usata per incontri rituali che servivano a purificare» mi spiega ancora Fabrizio, con il tono di voce che si abbassa, diventando a volte un sussurro, quasi a rendere omaggio al luogo. «In questa sala, che ha una particolare acustica, i templari si riunivano e cantavano per purificarsi» e mentre finisce di dire la frase, si mette al centro di uno degli scanni del perimetro della grotta e intona un canto profondo e baritonale, lo sguardo fisso verso la colonna. E in quel silenzio, il suono della voce sembra rimbalzare sulle pareti e arrivare al centro della cassa toracica. Ma forse la mia è solo suggestione. Questa grotta si trova sotto una domus, Palazzo Matteotti, ed è stata costruita dopo che i Templari vennero

dichiarati fuorilegge. Era qui, in questi luoghi sottoterra che continuavano le loro azioni e portavano avanti il loro credo. Anche sotto Palazzo Simonetti, grotte e cunicoli sono ricchi di simbologie templari, come croci e statue. Sulla strada del ritorno, rischio di perdermi nel labirinto di tunnel, mentre Fabrizio non perde occasione per spiegarmi che anche il labirinto era un simbolo dei templari, inteso come un tragitto tra le tenebre alla ricerca della luce. Finalmente arriviamo davvero a rivedere la luce del sole e prendiamo la strada che porta verso il Duomo e il Battistero. All’interno di quest’ultimo – al centro si erge la Fonte Battesimale in bronzo del XVII secolo ed è sovrastata dallo splendido soffitto a cassettoni con scene che rappresentano episodi della Bibbia – in una nicchia sul muro, quasi sopra la porta di ingresso, lassù in alto, si trova il disegno della croce rossa, il simbolo dei Templari, emersa dopo lavori di restauro. Mentre accanto, sulla facciata del Duomo, si trovano altri simboli del passato templare. Fabrizio mi indica il bassorilievo di Talamone, «colui che sorregge il tempio; ce ne sono due. E guarda bene – continua il Grande Ufficiale – vedi, ha le gambe incrociate. Questo è un richiamo alla tradizione templare». Perché?, domando. «Perché in molte tombe dove erano stati seppelliti i templari, questi avevano le gambe incrociate». Poi più in alto, un altro personaggio scolpito, con in mano una teca con i

cinque punti. «Anche quello è un simbolo templare, rappresentano i cinque punti che determinano il quadrato sacro da cui si può costruire la croce templare o croce celeste». Il sole sta tramontando e colora di rosso la facciata del Duomo. Ci incamminiamo verso la piazza principale e prima di salutarci chiedo a Fabrizio se è mai esistito il Santo Graal. Lui mi guarda, accenna un sorriso e mi spiega: «Il Santo Graal può anche essere la Coppa dell’ultima cena e dove è stato raccolto il sangue di Cristo. Ma il santo Graal è anche un principio sacro per eccellenza che coincide con l’universale». Dalla mia espressione capisce che non mi è chiaro quello che dice, e allora continua: «Non è un oggetto. Noi dobbiamo chiederci: qual è il principio sacro per eccellenza e come si realizza? Con un vero sacerdote e un vero re che insegnano alla società i principi universali». Mi saluta calorosamente e mi dice che deve tornare ai suoi studi storici lasciandomi ancora più confuso. Continuo a camminare per i vicoli e le strade pavimentate con i ciottoli; passo sotto le imponenti mura romane. A Osimo sono state censite 88 grotte e 9mila metri di cunicoli. Certamente molti furono creati per conservare cibi o come vie di fuga. Ma Fabrizio è sicuro che non sono stati creati solo per questo, dovevano servire anche a qualcos’altro, perché sono strutture complesse, strane e particolari. Un mistero che in parte deve essere ancora svelato.


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Ambiente e Benessere

Una carrozzeria, tre motori motori Presentata la nuova Peugeot 3008 ibrida plug-in

Mario Alberto Cucchi Due auto in una e con la possibilità di averla sia a due sia a quattro ruote motrici. Da una parte un’elettrica, dall’altra una con motore tradizionale alimentato a benzina. È la nuova Peugeot 3008 ibrida plug-in. La Casa francese ha progettato un veicolo che sotto un’unica carrozzeria nasconde sino a tre motori.

La 3008 è in grado di viaggiare con il solo propulsore elettrico sino a una velocità massima di 135 orari con un’autonomia di oltre 50 chilometri Il primo è alimentato a benzina ed è estremamente efficiente. Si tratta del noto 1598 cm3 turbo in grado di erogare 180 cavalli. A questo, sulla versione a due ruote motrici, si aggiunge il secondo: un propulsore elettrico da 110 cv inserito nel cambio e alimentato da una batteria da 13,2 kWh. In questo caso la potenza totale, detta anche potenza sistema, è pari a 225 cavalli. Se si vuole la versione a trazione integrale, però, arriva in aiuto il terzo propulsore. Elettrico e dedicato alle ruote posteriori, sviluppa ben 112 cavalli. La potenza sistema sale sino a 300 cavalli e le prestazioni sono da vera auto sportiva con una ve-

locità massima di 235 orari. Bruciante anche lo scatto da 0 a 100 km/h in cui il cronometro si ferma dopo soli 5,9 secondi. Peugeot 3008 è in grado di viaggiare quindi utilizzando esclusivamente il propulsore elettrico sino a una velocità massima di 135 orari con un’autonomia di oltre 50 chilometri. Le batterie si possono ricaricare con tempi che vanno da poco meno di due ore sino a sette ore per la presa di corrente domestica. In pratica ricaricando la notte si può guidare tutti i giorni della settimana a zero emissioni su percorsi a breve raggio per poi avere un’autonomia infinita nel fine settimana in cui si utilizza il motore tradizionale. Sembra quasi semplice e lo è, dato che a organizzare il tutto ci pensano una serie di centraline dedicate. Basta premere un pulsante per scegliere fra tre modalità di guida: Electric, Hybrid e Sport. In pratica si può lasciare fare tutto all’elettronica che utilizza entrambe le tecnologie con lo scopo di consumare il meno possibile. Ad esempio, in tutte le partenze e nei primi metri si utilizzano esclusivamente le batterie poiché proprio in quei frangenti si ha uno tra i massimi consumi di carburante. Va detto che, quando si viaggia in elettrico, Peugeot 3008 lo fa sapere anche agli altri utenti della strada accendendo una luce blu che si trova appena sotto il supporto dello specchietto retrovisore interno. Facilitando così i controlli della polizia nei casi in cui ai mezzi elettrici sia concesso

l’accesso alla zona a traffico limitato (Ztl). Ecco allora che torna utile anche la funzione «e-SAVE» che permette di conservare una parte dell’energia proprio per la circolazione all’interno delle Ztl. Peugeot 3008 è una vettura estremamente tecnologica e non solo nella parte propulsiva. Nell’abitacolo spicca

lo stile i-Cockpit con cruscotto digitale e tasti a registro d’organo. Il volante è compatto e la strumentazione è rialzata. In questo modo rimane all’interno del quadro visivo del conducente aiutandolo a tenere sempre lo sguardo sulla strada e a concentrarsi sulle traiettorie. Parlando di sicurezza, sono nume-

rosi i sistemi di aiuto alla guida, Adas di seconda generazione, a cui si aggiunge di notte il sistema Night Vision. Grazie a una videocamera a infrarossi che rileva la presenza di pedoni o animali fino a 200 m davanti al veicolo, oltre la portata dei nostri occhi. Rivoluzionaria è dire poco. Il prezzo? Parte da 48’950 franchi svizzeri. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Sempre con sé Soprattutto quando si è in giro, non è sempre facile mantenere una corretta igiene delle mani. Con i nuovi gel detergenti per le mani di I am potete lavare le vostre mani anche senz’acqua. La formula di alta qualità mantiene le mani idratate e impedisce che la pelle si secchi. I detergenti sono disponibili nelle tre profumazioni Aqua, Lavanda e Pompelmo – e in due grandezze: 50 ml per quando si è in giro e 250 ml per la casa.

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Ambiente e Benessere

cure veterinarie equine in sicurezza

mondoanimale Le misure di protezione da Coronavirus obbligano a ridefinire il modus operandi del veterinario

Maria Grazia Buletti La lunga situazione pandemica non risparmia il mondo equestre dove protagonista è il cavallo: un animale con esigenze di cura costanti, perché necessita di movimento quotidiano e accudimento specifico senza pause. Perciò, la Federazione svizzera sport equestri (Fsse) e Swiss Horse Professional hanno adeguato all’attuale situazione il vademecum Covid-19 – Concetto di protezione negli Sport equestri raccomandando (insieme alla sua omologa cantonale Ftse) che venga fatto un uso ragionevole e prudente delle regole in vigore, onde evitare ogni inutile rischio di infortuni e di contagio. «Ciò significa che la pratica degli sport equestri continua a beneficiare di un trattamento privilegiato, nell’ottica di protezione e dei bisogni del cavallo, ma sempre nel rispetto delle regole di protezione delle persone», afferma la presidente della Ftse, avvocato Ester Camponovo, pur conscia dell’esistenza di situazioni che mettono a dura prova queste raccomandazioni e, di conseguenza, la sicurezza dei cavalli e delle persone.

Si nota, nell’ambiente un «abbassamento della guardia» in rapporto alle norme contro il Covid, seppur inconsapevole Come accade ad esempio nell’ambito veterinario: «I cavalli possono ammalarsi, infortunarsi o necessitare semplicemente di visite di controllo e quindi,

anche in tempi di chiusura e confinamento, capita di dover ricorrere al veterinario che deve recarsi dall’animale bisognoso del suo consulto». Abbiamo interpellato il veterinario Stefano D’Albena che ha confermato come il suo lavoro non abbia subìto arresti anche in tempo di pandemia, pur spiegando i cambiamenti della sua professione a causa del coronavirus che «ha mutato tutto il nostro vivere e quello dei nostri cavalli»: «Siamo chiamati a visitare e a curare i cavalli come sempre: anche se le competizioni sono chiuse, e le relative problematiche di salute del cavallo non entrano in considerazione, rimangono le patologie classiche che meritano visita, diagnosi e cura: pensiamo alla temutissima colica, alle zoppie, alle ferite e quant’altro». Egli è sempre disponibile, ma lamenta con mesto rammarico il comportamento di parecchi proprietari che chiedono il suo intervento e si fanno trovare poco disposti al rispetto delle regole di protezione peraltro d’obbligo su tutto il territorio: «Pochi, nelle scuderie, portano la mascherina, nemmeno quando si trovano inevitabilmente a distanza ravvicinata col veterinario che deve visitare il cavallo». Egli riflette sul fatto che i proprietari dovrebbero capire le sue richieste di protezione e sicurezza: «Significa avere rispetto e collaborazione». Racconta di aver contratto la malattia da un cliente: «Oramai è acqua passata e per fortuna ero asintomatico; resta il fatto che io portavo la mascherina ma il cliente in questione no». D’Albena ricorda che le misure da attuare per la reciproca tutela sono facili da ricordare e da mettere in pratica, por-

Giochi cruciverba Lei a lui: «Amore mi compri il telefono nuovo?» «Ma cara e quell’altro?» Trova la risposta di lei leggendo a cruciverba ultimato le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 5, 2, 6, 2, 6)

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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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salute pubblica e le comprensibili esigenze del cavallo e del mondo equestre. Questo equilibrio permette di proseguire le proprie attività, siano esse di carattere professionale o ricreativo. Siamo tutti chiamati ad attenerci ai piani di protezione e alle regole di comportamento, al fine di salvaguardare l’interesse pubblico della salute collettiva, come pure quanto ancora è lasciato alle nostre disponibilità e responsabilità. Apparteniamo a una categoria fortunata, perché l’equitazione si può praticare senza contatto fisico e all’aperto. Ma ciò non toglie che dobbiamo sapere di non essere completamente immuni dal rischio di contagio». Eppure, D’Albena racconta: «Da sei-otto mesi, quando arrivo per una visita a un cavallo, mi ritrovo sempre

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Verticali 1. Uno come il cane... 2. Suppellettili del camino 3. Pagamento a scadenza fissa 4. Pronome personale francese 5. Dulcis in fundo 6. Cosa da rovesciare... in latino 7. Lavora in cantiere 8. Appeso in casa 10. Il cortile della fattoria I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Dominguin 13. Metodo corrispondente all’esercizio del cavalcare 14. Parlò con Mosè sul monte Sinai 16. Può essere pesante a letto 18. Severo avvertimento 19. Particella atomica 21. Poiché in francese 22. Emissioni di fluido 23. L’uomo inglese 24. Pavone in francese 26. Retribuzione Annua Lorda 27. Bugia inglese 29. Le iniziali del re dell’informatica partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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12. Il famoso torero Miguel

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28. Rintocco di campana 29. Il fisico francese Jean Baptiste 30. Lo spagnolo... 31. Presente fin dalla nascita

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tando l’attenzione sul fatto che il veterinario si sposta di scuderia in scuderia e in azienda agricola, e incontra parecchie persone. Per questo, la sua accorata raccomandazione del rispetto delle regole vale ancora di più: «Diciamo che io sono come una mosca, un veicolo perfetto del virus se pensiamo che mi sposto da una scuderia all’altra per visitare i cavalli che richiedono le mie cure», per cui indossare la mascherina è la regola più semplice ed efficace che si dovrebbe sempre osservare. Le raccomandazioni e la loro osservanza sono sempre tema della Ftse verso i suoi affiliati, ricorda la presidente Camponovo che osserva: «È evidente a tutti che, allo stato attuale delle cose, la priorità è quella di trovare un giusto equilibrio tra la necessaria tutela della

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

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1. Zona di una città 7. Le iniziali del giornalista Lerner 9. Confina con la Cina 10. Pappagallo americano 11. Lo erano Pegaso e l’Ippogrifo 13. Ha poteri paranormali 15. Severa, intransigente 16. Nome femminile 17. I vicoli di Venezia 18. Nettato, ripulito 19. Come finisce... comincia 20. Iniziali del poeta Saba 21. Si fa per vedere a chi tocca 22. Dio inglese 23. Cibo celeste 24. Stringe il cuore 25. Il tesoro pubblico 27. Dopo a Londra

Il veterinario Stefano D’Albena. (MG Buletti)

a discutere: per favore mettete la mascherina?». La risposta più frequente non origina da rispetto e protezione reciproca: «Ma siamo qui tra di noi». Egli si chiede: «Che cosa significa “tra di noi”? Poi si va a casa, dalla famiglia, e il “tra di noi” viene subito a cadere». È suo dovere ricordare ai proprietari dei cavalli che il benessere di questi ultimi passa anche per il rispetto delle regole tra gli umani: «Durante la visita del cavallo, per esigenze veterinarie, spesso la distanza non può essere mantenuta; allora indossare la mascherina è ancora più importante». Dal canto suo, la presidente della Ftse è dispiaciuta di queste situazioni: «Devo purtroppo rilevare che il problema di un “abbassamento della guardia”, pur inconsapevole, è riscontrato un po’ in tutti gli ambiti. La popolazione è palesemente stanca e la percezione del rischio si è attenuata rispetto agli albori della pandemia». Ma sappiamo che quella di cui parla Camponovo è «una percezione» e non corrisponde a una reale attenuazione del rischio: «Perciò è importante insistere e perseverare nel rigoroso rispetto delle disposizioni, ben sapendo che il virus si insinua proprio in queste occasioni di permissivismo, deliberato o rassegnato». Anche durante la pandemia, il veterinario serve e accorre al bisogno di cure del cavallo. Il rispetto delle regole e delle disposizioni (che impongono, fra l’altro, l’uso della mascherina e la disinfezione delle mani oltre che la distanza che non sempre si può tenere nella presa a carico di un cavallo malato) è tutto a beneficio dell’animale e delle migliori cure che potrà ricevere durante una visita accurata e priva di tensioni o fretta.

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Soluzione della settimana precedente

FANTASTICI OCCHI – Per ottenere una buona visione il cristallino cambia la sua curvatura… Resto della frase: …CIRCA CENTOMILA VOLTE AL GIORNO.

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I R C E N A A L E V O L I

O M T O O N E E S E T S A S C I E C O N A

A R M A M S O A N L A A O C I

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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politica e economia Verso le presidenziali I partiti francesi guardano già al voto del 2022. Sarà ancora scontro tra Macron e Le Pen? pagina 24

Lo strappo di erdogan Il presidente turco in difficoltà ha voluto lasciare la Convenzione di Istanbul mentre continua a trattare con l’Europa

Armi al Sud America Gli Usa non hanno una legge organica anti-contrabbando e i trafficanti ne approfittano

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Fra le prime donne a Berna Il racconto di Gabrielle Nanchen, vallesana e socialista, degli anni in Consiglio nazionale

pagina 28 Emmanuel Macron (a destra) e Mario Draghi nel 2019, prima dello scoppio della pandemia. (Shutterstock)

La crisi e l’alleanza delle cicale

Strategia Si rinsalda l’asse Roma-Parigi sostenuto da Washington in contrapposizione al rigorismo germanico.

Occhi puntati sul pacchetto «Next generation Europe» e sul Governo Draghi da cui dipende il destino dell’euro Lucio Caracciolo In Europa si stanno già affilando i coltelli per la battaglia decisiva del dopopandemia, quando mai sarà: tornare o non tornare al rigorismo tedesco nelle politiche economiche e monetarie? E se no, fino a dove spingersi nell’orizzonte di un bilancio pubblico comune, alias mutualizzazione del debito destinato a crescere? Sul fronte del rispetto letterale di patti e trattati, accanto alla Germania troviamo il gruppo dei «frugali nordici», capeggiato dall’Olanda, con Austria e Finlandia ad aprire il corteo dei corifei. Sull’altra sponda ecco i mediterranei, alias cicale: Francia, Italia, Spagna in testa al gruppetto. Ad oggi la partita appare del tutto aperta. Con qualche provvisorio vantaggio per il secondo schieramento. Il Covid-19 ha infatti accelerato una traiettoria verso politiche monetarie e fiscali espansive avviato dalla Bce sotto la presidenza Draghi, in particolare con il quantitative easing e relativo

acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario. L’articolo dell’attuale presidente del Consiglio dei ministri italiano sul «Financial Times» del 25 marzo 2020, con cui si sosteneva la necessità di spendere in deficit perché siamo come in tempo di guerra, anche accumulando un alto debito, ha coronato questo approccio espansivo. Condiviso, una volta superata la iniziale diffidenza, anche dalla Francia di Emmanuel Macron. Soprattutto, alle spalle del duo franco-italiano troviamo l’America, prima con Obama poi con Biden, a spingere contro le resistenze tedesche, di taglio ideologico se non addirittura «religioso». Dietro la partita economico-monetaria, la posta in gioco geopolitica. Lo scontro, tanto per cambiare, è fra Stati uniti e Germania. Per Washington la manutenzione dell’impero europeo è strategica. Semplicemente, senza di esso non sarebbero più il numero uno al mondo. Anche perché lo spazio europeo destrutturato verrebbe facilmente infiltrato da cinesi e russi. D’intesa,

entro certi limiti, con la Germania. Nei laboratori strategici di Washington vige da sempre il principio «germans down». Della Bundesrepublik non ci si fida affatto. La si considera potenziale traditrice, pronta a finire, forse nemmeno accorgendosene, nella sfera d’influenza cinese e/o russa. Anche per la postura geoeconomica e l’ideologia monetarista che vuole gestire l’euro come il marco, a vantaggio del proprio sistema industriale votato all’esportazione. Con immediati effetti deflattivi a danno dei Paesi partner nell’Eurozona. Fino ad arrivare al depauperamento dei principali mercati europei, sostituti almeno in parte dalla Cina e da altri mercati asiatici. In un contesto nel quale il decisivo fornitore di energia al sistema tedesco resta la Russia. Anzi, lo sarà anche di più una volta completato il gasdotto Nordstream 2, impresa russogermanica cui né Mosca né Berlino paiono voler rinunciare. In tale scenario, la novità più importante di quest’anno è l’arrivo di Draghi alla guida dell’Italia. Si è così

saldato un asse Roma-Parigi, sostenuto, anzi aizzato da Washington, in palese contrapposizione al rigorismo germanico, peraltro meno rigoroso di prima. La vicenda del «Next generation Europe», un finanziamento pubblico senza precedenti, lo sta a confermare. La Germania, o meglio la cancelliera Merkel – ormai «anatra zoppa» a pochi mesi dall’elezione del suo successore – ha fatto ingoiare più di un rospo ai «frugali» pur di evitare il collasso dell’Italia e quindi dell’euro, che avrebbe fra l’altro messo in crisi la catena del valore industriale tedesco, fortemente connessa al Nord Italia. L’offensiva scatenata da Biden per il recupero del controllo sull’Europa, in chiara contrapposizione alla Germania, si spiega soprattutto nel contesto della partita ingaggiata con Cina e Russia. La quale non si gioca solo in Asia e nell’Indo-Pacifico, ma anche in Europa. Dove Washington sta intervenendo con durezza contro ogni ipotesi vagamente neutralista, mascherata sotto presunte opportunità economiche. Ma oggi, con

le centinaia di miliardi messi sul piatto dall’Unione europea grazie a «Next generation Europe», non c’è più bisogno di grandi investimenti stranieri. C’è semmai bisogno, specialmente per l’Italia, di spendere bene i soldi che riceverà in via straordinaria, cioè unica, da «Bruxelles», leggi dalla Germania. Molto se non tutto dipenderà dalla riuscita o dal fallimento del Governo Draghi. Se per qualsiasi motivo l’ex presidente della Bce, oggi portabandiera dei neokeynesiani europei, non riuscisse a salvare l’Italia dalla bancarotta, sarebbe impossibile salvare l’euro. Quanto meno nella conformazione attuale. A Berlino potrebbero quindi rispolverare il piano B, ovvero il «Neuro» con il loro sistema dell’Euronucleo (Kerneuropa) centrato su Benelux e Mitteleuropa. Ipotesi che comunque prevede una fase catastrofica di passaggio. Diceva il cancelliere Konrad Adenauer: «Niente esperimenti». Siamo oggi in piena età degli esperimenti. Senza che nessuno sappia davvero dove può né dove vuole arrivare.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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politica e economia Il processo che gradualmente portò alla nascita dell’Ue iniziò negli anni Cinquanta del Novecento. (Shutterstock)

macron e Le pen: il duello continua

Francia Chi sono i papabili alla presidenza

a poco più di un anno dalle elezioni Marzio Rigonalli

La vecchia europa e il sogno federalista corsi e ricorsi La pandemia invita a riflettere sul superamento

di ogni frontiera ma continuano a vincere i dubbi e le diffidenze

Alfredo Venturi «Tempo di agire: per una ripresa equa, verde e digitale». Si è data questo motto la presidenza semestrale portoghese del Consiglio dell’Unione europea, che lo scorso gennaio è subentrata al turno tedesco. Belle parole, che purtroppo devono fare i conti con la perdurante emergenza sanitaria, con ogni prospettiva falsata dall’incertezza sul corso della pandemia. Eppure l’Europa dei Ventisette aveva dato al mondo, lo scorso dicembre, lo spettacolo di un’inedita prova di forza, e proprio sul fronte della resistenza alla pressione del maledetto virus che ha sconvolto il pianeta. Si tratta del programma «Next generation Eu» che mobilita una ingente quantità di denaro, 1800 miliardi di euro, per ricostruire l’Unione dopo il disastro provocato dalla pandemia. Quelle risorse serviranno per rilanciare l’economia, curare le ferite dell’ambiente e rinnovare i processi produttivi (dunque l’ecologia e il digitale ai posti d’onore) e, per completare il trittico, subito dopo riproposto dalla presidenza portoghese l’accento sull’equità.

L’Ue ha dato al mondo lo spettacolo di un’inedita prova di forza: il programma «Next generation Eu» per la ricostruzione dopo la crisi causata dal virus A questo punto chiunque abbia seguito la vicenda alterna e appassionante dell’integrazione europea non può non aver pensato al metodo funzionale che guidò, in mancanza di alternative più coinvolgenti, i primi passi del processo che gradualmente porterà all’Unione. Erano gli anni Cinquanta del Novecento, il Continente uscito con le ossa rotte dal conflitto mondiale cercava di sopravvivere a un presente difficile e provava a immaginare un futuro vivibile. Per questo raccolse il messaggio lanciato in un’isoletta italiana da un gruppo di intellettuali antifascisti che vi erano confinati. Siamo tutti europei, che ne direste se cancellassimo quelle ridicole frontiere, se invece di conti-

nuare a farci la guerra ci mettessimo insieme? Insieme, non potremmo forse fare grandi cose? Il miraggio era potente e affascinante: gli Stati uniti d’Europa. Primo passo, perché no, verso un ordine federale capace di coinvolgere l’intero pianeta… L’utopia kantiana del mondo perfetto e definitivamente in pace, «zum ewigen Frieden...». Si cominciò a piccoli passi, prima la Comunità del carbone e dell’acciaio, poi l’Euratom, infine il Mercato comune e la Comunità economica europea. Si disse che quegli adempimenti concreti avrebbero prodotto il miracolo, avanti così fino all’unione politica, alla grande Europa federale. La doccia fredda arrivò da Parigi, era un giorno d’estate del 1954 quando un voto dell’assemblea nazionale distrusse il sogno nascente negando la ratifica alla Comunità europea di difesa (Ced). Era stata una proposta francese, ecco un altro dei paradossi che si annidano nella storia, doveva costituire l’esercito congiunto dei nemici di ieri, sarebbe stato il grande passo verso una stretta integrazione politica, la condicio sine qua non per procedere verso l’Europa federale. Prevalse invece, forse anche perché poco più di un anno prima era morto Stalin e la minaccia sovietica sembrava essersi allontanata, l’ottica riduttiva dell’Europa delle patrie tanto cara al generale De Gaulle. Dunque una volta ancora si dovette ripiegare sul metodo funzionale: proseguiamo con le frontiere aperte e la libertà dei commerci, dei movimenti e speriamo che l’integrazione, quella vera, alla fine scaturisca dai fatti. Proprio De Gaulle, citando Napoleone, era solito dire che «l’intendance suivra»: proviamo invece a mettere l’economia all’avanguardia del processo unitario... Con il voto francese sulla Ced il riscatto federalista tornò a rifugiarsi nei confini dell’utopia, mentre l’Unione proiettava di sé l’immagine di un’arida burocrazia senz’anima. Cambierà qualcosa? Chissà. Intanto è arrivata, al seguito della pandemia, la «Next generation Eu» ma già si annunciano divergenze sui modi e sui tempi dell’attuazione, su chi dovrà pagare il conto, sulle formiche del nord e le cicale del sud, per non parlare dei ritardi nella preparazione dei progetti da finanziare. Una scossa potrebbe venire da quella Conferenza sul futuro dell’Europa che si doveva celebrare l’anno scorso

ma fu rinviata a causa dell’emergenza pandemica. L’aveva proposta a suo tempo il presidente francese Emmanuel Macron e fu calorosamente avallata da Ursula von der Leyen appena installata alla guida della Commissione di Bruxelles. Potrebbe essere questa l’occasione per rinvigorire l’Europa, restituendole almeno in parte la trionfante giovinezza della principessa che le diede il nome, quando Zeus nelle sembianze del toro la strappò agli ozi della corte fenicia portandola a Creta, sulla soglia del nuovo Continente. Quando finalmente si riuniranno attorno al tavolo della Conferenza, i Ventisette potranno uscire dall’incertezza. Che cosa faranno? Decideranno di procedere verso l’Europa federale? Di uscire dal tabù dei trattati intoccabili, di rivoluzionare il sistema con una profonda revisione? Vorranno sottoporre la vecchia Europa a una bella terapia rigenerante, partendo da quel superamento concettuale di ogni frontiera che sembra suggerito proprio dalla pandemia, fenomeno tipicamente sovranazionale? Il fatto che il ventottesimo convitato, il Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, se n’è appena andato sbattendo la porta e dimostrando che nulla è irreversibile non facilita forse la transizione verso il federalismo, ora che è venuta meno la funzione di freno fino a ieri esercitata da Londra? In realtà ci sono altri Paesi che frenano, sia pure un po’ meno ingombranti, come quelli del Gruppo di Visegrad a cominciare da Polonia e Ungheria. E poi ci sono le diffidenze dei «virtuosi» del nord. Per questo potrebbe farsi strada lo scenario dell’Unione a due velocità, cara al presidente Macron e già di fatto realizzata in materia valutaria, visto che soltanto diciannove fra i Ventisette hanno adottato la moneta comune. Si apre dunque la prospettiva che un nocciolo duro di Paesi ben determinati marci spedito verso una vera integrazione, che faccia tesoro del metodo funzionale ma sappia guardare oltre, nella direzione indicata dai padri fondatori dell’Europa unita, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Robert Schuman. Alla fine quel nocciolo duro potrebbe vincere le resistenze degli altri perché, come diceva Seneca, «ducunt fata volentem, nolentem trahunt»: il destino accompagna chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone.

Manca poco più di un anno all’elezione presidenziale in Francia. È l’appuntamento elettorale più atteso e più sentito dai francesi, da quando è stata istituita la Quinta Repubblica nel 1958. La vita politica ruota intorno a questo evento: i partiti ne tengono conto nell’elaborazione delle loro strategie, le alleanze si costruiscono e si disfano con l’occhio puntato sull’Eliseo e i possibili candidati moltiplicano le loro mosse cercando di accaparrarsi le simpatie degli elettori. È un rituale che si è consolidato attraverso gli anni e che viene soltanto scalfito dalla grave crisi sanitaria ed economica che si è abbattuta sulla Francia e anche su tutti gli altri Paesi. Quali sono oggi le principali caratteristiche della corsa verso la conquista dell’Eliseo nel 2022? Chi sono i candidati che hanno le maggiori probabilità di accedere al turno finale ed, eventualmente, di essere eletti? Quali saranno i fattori determinanti, di varia natura, ai fini della vittoria finale? Il primo dato che emerge è all’insegna della continuità. Nel 2017, al secondo turno, si affrontarono Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il primo vinse chiaramente e divenne, con i suoi 39 anni, il più giovane presidente della Repubblica francese. La vittoria fu resa possibile dalle riforme annunciate, dalla novità ch’egli costituiva sulla scena politica, dalla volontà della maggioranza dei francesi di non dare il potere alla destra nazionalista e un po’ anche grazie ad un duello televisivo che Macron vinse nettamente contro Le Pen. Lei si rivelò impreparata, insicura e incapace di difendere le proprie scelte. Secondo i più recenti sondaggi questo duello rischia ora di ripresentarsi. Se sarà così, però, la situazione rischia di essere molto diversa da quella del 2017. Durante i quattro anni di presidenza Emmanuel Macron ha dovuto affrontare tre gravi crisi. Dapprima quella dei «gilets jaunes», dalla quale è uscito senza ferite troppo gravi, ma con l’etichetta di «presidente dei ricchi». Poi quella del terrorismo, una crisi che in un certo modo è sempre presente e che l’ha costretto a prendere decisioni non facili in difesa dei valori della Repubblica e contro l’islamismo radicale. Infine la crisi sanitaria, nella quale è tutt’ora immerso. Queste crisi l’hanno frenato nella sua volontà di trasformare il Paese e di varare le riforme promesse nel 2017. I prossimi dodici mesi saranno decisivi per lui. I francesi non terranno più conto delle novità che offriva quattro anni fa, ma lo giudicheranno soprattutto sulla gestione della crisi sanitaria, su come il Paese ne sarà uscito

I francesi giudicheranno Macron sulla gestione della crisi sanitaria e sulle misure per rilanciare l’economia. (Shutterstock)

e sulle misure che verranno adottate per rilanciare l’economia. È un compito impegnativo, i cui risultati saranno determinanti per poter capitalizzare la fiducia dei francesi. La posizione di Marine Le Pen sembra meno irta di ostacoli. Come principale avversaria del presidente, le è facile criticare tutte le situazioni che non incontrano il consenso popolare. Il 30 per cento dell’elettorato le è fedele e si annida soprattutto tra i commercianti, i giovani e le classi popolari. Il suo obiettivo è di allargare la base elettorale e cerca di raggiungerlo seguendo una strategia piena di rassicurazioni. Una strategia iniziata nel 2018 con il cambiamento del nome del suo partito da Front national a Rassemblement national e che oggi vede Marine Le Pen accettare l’Europa, l’euro e il Trattato di Schengen. Un orientamento verso il centro, che non rinuncia a punti fondamentali del programma lepenista, come la preferenza nazionale e il rifiuto dell’immigrazione, ma che tende ad attirare gli elettori della destra tradizionale. I sondaggi dicono che questa impostazione potrebbe essere pagante, perché in un secondo turno con Macron e Le Pen, la leader della destra nazionalista raccoglierebbe il 48 per cento dei voti. Molto meno chiara è la situazione negli altri schieramenti politici. La destra classica non sembra essersi ancora ripresa dopo la sconfitta subita dal suo candidato, François Fillon, al primo turno dell’elezione del 2017. Tre sembrano essere i suoi potenziali candidati: Xavier Bertrand, presidente dell’Alta Francia, Valérie Pécresse, presidente della regione Île-de-France-Parigi e Laurent Wauquiez, presidente dell’Alvernia-Rodano-Alpi. Anche a sinistra regna una certa incertezza, aggravata dalla presenza di non poche divisioni. Il solo candidato dichiarato è Jean-Luc Mélenchon, il leader della France insoumise, ma i sondaggi non gli sono favorevoli. C’è comunque attesa per la decisione che prenderà Anne Hidalgo, la sindaca di Parigi, e soprattutto per la scelta che faranno i Verdi, la forza politica che negli ultimi anni ha registrato i maggiori progressi elettorali, non soltanto in Francia. Nei prossimi mesi, se la pandemia lo consentirà, ci saranno le elezioni regionali. Si svolgeranno nel corso del mese di giugno o in autunno. Sono test che ci consentiranno di capire meglio gli orientamenti della scena politica francese e, forse, di guardare con maggiori certezze alla prossima elezione presidenziale. Un’elezione che presenta una posta in gioco molto alta per la Francia ma anche per l’Europa.


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politica e economia

Segnali contrastanti dalla Turchia

L’esperta Valeria Giannotta: «Ankara resta legata all’Occidente su temi specifici mentre in patria Erdogan

è in difficoltà. Così cerca le simpatie delle istanze più conservatrici ritirandosi dalla Convenzione di Istanbul»

Romina Borla «Danneggia i valori della famiglia tradizionale e incoraggia il divorzio». Con questa spiegazione la Turchia di Recep Tayyip Erdogan si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, scatenando proteste e attirando le critiche della comunità internazionale. Ma cosa significa questo passo indietro deciso dal presidente turco a pochi giorni dal Consiglio europeo del 25-26 marzo? Come si inserisce in quello che gli analisti definiscono «processo di arretramento della democrazia» in atto nel Paese nell’ultimo decennio? Ce lo spiega Valeria Giannotta, esperta di Turchia e relazioni internazionali, docente universitaria ad Ankara e direttrice scientifica dell’Osservatorio Turchia del Centro studi di politica internazionale di Roma (www.cespi.it): «Nel 2011 la Turchia di Erdogan, in quel momento premier, è stata la prima Nazione a firmare la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza nei confronti delle donne e domestica. Il panorama politico turco era diverso da quello attuale: l’Akp, il partito di Erdogan, non aveva ancora assunto una posizione predominante e in Parlamento resistevano elementi di forte impronta laicista e kemalista (da Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, ndr.). Allora il Paese stava implementando una serie di riforme d’impronta liberale, apprezzate dalle Nazioni occidentali, an-

che nell’intento di avvicinarsi all’Europa». Giannotta ricorda che già nel 2005 si erano avviate le trattative per l’adesione della Turchia all’Ue anche se si sono arenate in fretta. Ad oggi solo 16 dei 35 capitoli sui singoli temi riguardanti l’adesione sono stati aperti e solo uno è stato chiuso, proprio nel periodo della firma della Convenzione di Istanbul. «Lo zelo democratico di Ankara – sottolinea l’intervistata – era da ricondurre a precisi calcoli interni: la necessità di Erdogan di acquisire consenso e sminuire il potere dei militari e dell’apparato statale che lo osteggiavano da sempre». Negli ultimi 10 anni l’Akp si è trasformato, continua Giannotta. Nato nel 2001 come «partito pigliatutto», riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centrodestra al servizio del popolo, con un programma di democrazia conservatrice. «Dal 2011 ha gradualmente accentuato la sua tensione nazionalistica e la logica autoreferenziale di Erdogan che già all’epoca mirava a un programma presidenziale». Col passare del tempo quest’ultimo e il suo partito hanno assunto posizioni sempre più dominanti nel panorama politico turco e marginalizzato gli avversari, soprattutto l’opposizione kemalista. In seguito si sono susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo, duramente represse dal Governo, al tentato golpe del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più forte ed evidente il piano accentratore di Erdogan che nel 2014 era diventato presidente.

Manifestazione a Istanbul dopo che il presidente Erdogan ha deciso di lasciare la Convenzione. (Keystone)

«Adesso tutto passa dalla sua persona mentre il legame che inizialmente aveva con la base della società turca si è sfaldato». E paradossalmente, rimarca l’esperta, già con l’avvio del sistema presidenziale l’Akp ha iniziato a perdere consensi. Tanto che in occasione delle elezioni del 2018, per ottenere la maggioranza dei voti in Parlamento, Erdogan ha dovuto stringere un’alleanza col partito di estrema destra nazionalista Mhp. Da quel momento, indica Giannotta, la componente nazionalista di Ankara si è ulteriormente rafforzata insieme alle tendenze conservatrici. Gli

La parità è l’antidoto alla brutalità, anche in Svizzera La violenza domestica è un fenomeno diffuso in tutti i Paesi, Svizzera compresa, e tocca tutte le fasce sociali. Solo in Ticino nel 2020 gli interventi della polizia cantonale «per disagi in famiglia» sono stati 1105 (in media tre al giorno), 9 in più di quelli effettuati l’anno prima. Nella maggioranza dei casi le vittime erano donne. Gli esperti però avvertono: si tratta solo della punta dell’iceberg. Uno studio commissionato dall’Ufficio federale di giustizia rivela infatti che solo il 20 per cento dei casi di violenza domestica viene notificato alla polizia. Per combattere que-

sta piaga la Confederazione si è dotata di diversi strumenti e l’11 settembre 2013 ha sottoscritto la Convenzione di Istanbul (approvata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011). Il 16 giugno 2017 le Camere federali ne hanno votato la ratifica e il documento è entrato in vigore il 1° aprile 2018. I suoi cardini sono: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire penalmente i loro aggressori. In particolare la Convenzione chiede agli Stati contraenti di considerare reato penale o altrimenti sanzionare la violenza domestica (fisica, sessuale,

psicologica o economica), lo stalking, la violenza sessuale, le molestie sessuali, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzati. «Il testo – spiega l’Ufficio federale per l’uguaglianza tra donna e uomo – è un rinnovato invito a promuovere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini, poiché la violenza sulle donne ha profonde radici nella disparità tra i sessi all’interno della società ed è perpetuata da una cultura che tollera e giustifica la violenza di genere e si rifiuta di riconoscerla come un problema».

ultimi sondaggi però dimostrano che l’alleanza Akp–Mhp non paga più, anzi. Erdogan è in difficoltà. Così da un lato flette i muscoli, ad esempio licenziando il governatore della Banca centrale Naci Agbal dopo appena 5 mesi di lavoro (si tratta del quarto cambio attuato da luglio 2019 e testimonia l’insofferenza del presidente nei confronti dell’autonomia dell’istituzione). «D’altro canto Erdogan cerca nuove alleanze con le istanze più tradizionaliste della società. Negli ultimi tempi ci sono stati ad esempio degli incontri tra il presidente e gli esponenti del partito islamista Saadet Partisi, l’unico nel Paese a essere apertamente favorevole al superamento della scelta laicista imposta da Atatürk e dai militari». Quindi – sottolinea l’esperta – il ritiro dalla Convenzione di Istanbul si inserisce nella volontà di Erdogan di accaparrarsi le frange più conservatrici della società. Il modello ideale di donna evocato dal presidente rimane quello di madre di numerosi figli e angelo del focolare nonostante il Paese si stia evolvendo e un certo processo di emancipazione femminile sia iniziato. Le studentesse continuano a crescere nelle università e vi sono esempi di donne successo, come l’imprenditrice Güler Sabancı o la sindaca di Gaziantep, Fatma Şahin, impegnata nell’accoglienza dei migranti. In questo contesto di revival dei valori tradizionali – e di scontri di visioni inconciliabili, ad esempio per quel che

riguarda il Mediterraneo orientale – restano forti i legami della Turchia con l’Ue. «Si tratta di legami su temi specifici», commenta Giannotta. «Penso alla questione dei migranti, all’energia, alla lotta al terrorismo. Ma i segnali che giungono da Ankara sono contrastanti. Poche ore prima del decreto presidenziale che sancisce l’uscita dalla Convenzione di Istanbul si è svolto un summit online tra Erdogan e rappresentanti dell’Ue in occasione dei 5 anni dalla firma dell’accordo sui migranti (e una road map per il futuro sta per essere elaborata)». Ankara – lo ricordiamo – già impegnata nell’accoglienza di un cospicuo numero di siriani in fuga dalla guerra, nel 2016 si impegnò a gestire il flusso di rifugiati, ospitandoli sul proprio territorio, a fronte del sostegno finanziario da parte di Bruxelles (6 miliardi di euro). Nel frattempo pandemia e crisi economica, con il valore della la lira turca in caduta libera e un’inflazione del 17%, fiaccano una popolazione già stremata. Questo, per l’intervistata, non depone a favore di Erdogan che secondo alcuni esperti starebbe pensando di indire elezioni. «Sarebbe un suicidio politico e il presidente non accetta facilmente di perdere, per cui aspettiamoci nuove mosse, come la modifica della legge elettorale (da notare che in Turchia la soglia di sbarramento è fissata al 10 per cento). Ci sono rumors interni che indicano anche aggiustamenti dei confini di alcuni distretti elettorali».

Un colpo al cerchio e uno alla botte

L’analisi L’Unione europea strizza l’occhio a Joe Biden sanzionando la Cina per le violazioni

dei diritti umani ma non intende scontentare troppo il «Babbo Natale degli investitori» Francesca Marino Molto rumore per nulla, direbbe Shakespeare. Le reazioni cinesi, che a molti sono parse assolutamente sproporzionate alle calibratissime e prudenti sanzioni comminate dall’Ue alla Cina per le violazioni dei diritti umani nei confronti degli uiguri, sono state subitanee e violente. Sconfinando da subito, in perfetto stile Beijing, nelle minacce. La dichiarazione rilasciata dal portavoce degli Esteri cinese Zhao Lijian suonava difatti così: «L’Unione europea il 22 marzo ha imposto sanzioni unilaterali a persone ed entità cinesi di rilievo, citando il cosiddetto problema dei diritti umani nello Xinjiang. Questa mossa, basata su bugie e disinformazione, ignora e distorce i fatti, interferisce grossolanamente negli affari interni della Cina, viola in modo flagrante il diritto internazionale e le norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali e mina gravemente le

relazioni Cina-Ue. La Cina esorta la Ue a riflettere su se stessa, ad affrontare la gravità del suo errore e a rimediare. Deve smetterla di dare lezioni ad altri sui diritti umani e di interferire nei loro affari interni. (...) Altrimenti la Cina farà risolutamente ulteriori passi». Le contro-sanzioni cinesi emanate nei confronti di una serie di organizzazioni e membri dell’Ue rischiano difatti, secondo alcuni analisti, di far naufragare il trattato sugli investimenti, fortemente voluto da Angela Merkel ed Emmanuel Macron, che Ue e Cina avevano firmato lo scorso dicembre. Trattato che aspetta di essere ratificato da molti membri del Parlamento europeo, che minacciano adesso di negare il loro assenso. La politica del «lupoguerriero» inaugurata non molto tempo fa da Xi Jinping ha segnato un autogoal? Non proprio. I cinesi difatti sanno perfettamente che l’Ue non avrà mai il fegato di mandare all’aria il trattato di cui sopra, che serve più agli investitori

europei in Cina che ai cinesi in Europa. Si tratta, molto più probabilmente, di un messaggio. Un messaggio diretto a Joe Biden e alla sua Amministrazione, che hanno inaugurato un nuovo e durissimo confronto con Beijing. Le sanzioni europee per le violazioni dei diritti umani compiute nello Xinjiang dalla Cina sono difatti, ahimé, largamente simboliche e non toccano alcuna sfera strategica o vitale. Si tratta del classico «troppo poco, troppo tardi» e arrivano, soprattutto, dopo uno scandalo scoppiato lo scorso gennaio. Quando l’avvocata Emma Reilly, che ha lavorato nell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, denunciava la connivenza tra funzionari dell’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e rappresentanti della locale ambasciata cinese. In pratica Reilly, producendo documenti ed email, ha accusato l’ufficio dell’Unhcr di passare all’ambasciata cinese nomi e indirizzi di dissidenti, uiguri e non solo, che si sarebbero recati a testimo-

niare davanti alla Commissione per i diritti umani. I dissidenti e le loro famiglie sarebbero stati quindi intimiditi, arrestati e in alcuni casi torturati. Secondo Reilly questo «trattamento di favore» da parte dei funzionari della Commissione era riservato soltanto alla Cina. Resta però il fatto che, dietro pressioni cinesi, anche molti dissidenti o richiedenti l’asilo beluci si sono visti ritirare il permesso di testimoniare o negare l’asilo politico. E che da almeno 15 anni gli uiguri, sia a Bruxelles che a Ginevra, testimoniano del trattamento loro riservato (campi di «rieducazione», sterilizzazioni forzate, omicidi). Ciò che hanno ottenuto finora è ciò che hanno ottenuto i beluci, i saharawi o altri rappresentanti dei cosiddetti «popoli senza rappresentanza»: è diventato sempre più difficile, per loro, l’accesso agli organismi internazionali. Proprio per via dello «strano» modo che hanno le ambasciate in loco di sapere chi, dove e quando testimo-

Il portavoce degli Esteri cinese Zhao Lijian: «L’Ue ha sbagliato». (Keystone)

nierà emanando, di conseguenza, note di intelligence che accusano i suddetti dissidenti di terrorismo. Le cosiddette sanzioni contro Pechino sembrano quindi, più che una seria presa di posizione contro la Cina, il classico modo per dare un colpo al cerchio e uno alla botte: allinearsi timidamente con Biden e allo stesso tempo non scontentare troppo il «Babbo Natale degli investitori». I diritti umani, si sa, sono una coperta buona per tutte le stagioni. Non siamo andati in Afghanistan, in fondo, per liberare le donne dal burqa?


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politica e economia

Un fiume di armi che scorre verso sud Stati uniti Non esiste una legge federale che ne proibisce espressamente il traffico e i criminali approfittano

della situazione. Negli ultimi 10 anni ne sarebbero giunte in Messico oltre 2,5 milioni destinate all’America latina

Angela Nocioni La frontiera meridionale degli Stati uniti è tanto blindata contro chi tenta senza visto di entrare da sud, quanto porosa nei confronti del contrabbando di armi da nord verso sud. Tra il 2007 e il 2019 almeno 165 mila armi da fuoco, delle tante confiscate durante operazioni contro la criminalità organizzata in Messico, risultano comprate negli Stati uniti. Tutte sono di fabbricazione statunitense. Secondo i dati del Ministero degli esteri del Messico, più di 2 milioni e mezzo di armi hanno attraversato la frontiera sud degli Usa negli ultimi 10 anni. Le armi da fuoco che vengono inviate di contrabbando dagli Stati uniti al Messico (Paese nel quale soltanto nel 2020 sono stati denunciati 35 mila omicidi) sono destinate all’intera America latina. Una gran parte di esse si ferma in Centro America. La facilità di fare attraversare alle armi statunitensi la frontiera risiede nel fatto che le leggi di controllo sulla vendita di armi da fuoco sono in molte parti degli Usa estremamente flessibili e, anche se in alcune aree (per esempio New York) le norme si stanno irrigidendo, la legislazione a macchia di leopardo consente ai trafficanti di aggirare quasi tutti gli ostacoli.

Il contrabbando può contare sugli effetti della sterzata pro armi alla Corte suprema Usa iniziata già nel 2008 Il mercato nero di armi è ovviamente intrecciato al narcotraffico, dato risultato evidentissimo durante il processo a «el Chapo», uno dei principali trafficanti del mondo. Durante il processo a New York il magistrato Andrea Goldberg ha descritto minuziosamente come il capo del cartello avesse un traffico a doppio senso con gli Stati uniti: tonnellate di droghe varie – cocaina, metanfetamina ed eroina essenzialmente – attraverso la frontiera verso nord e camion di armi d’ogni genere verso sud. Una delle

Materiale sequestrato dalle forze dell’ordine di Los Angeles. (Keystone)

dichiarazioni del giudice è stata: «L’imputato si occupava dell’acquisto all’ingrosso di armi e della loro capillare distribuzione, le armi comprate negli Usa non servivano solo per uso personale, ma per rifornire i sicari. Nel suo cartello le armi sono quelle importate dal cartello stesso attraverso i canali di el Chapo negli Stati uniti». Sembra assurdo, eppure non esiste una legge federale che proibisca espressamente il traffico di armi da fuoco negli Usa, quindi per i trafficanti è piuttosto semplice il business. Sguazzano nel vuoto legale che non regola la vendita privata grazie al quale chiunque può dirsi collezionista di armi e risultare così esente da verifiche. È così che si possono vendere fucili e pistole di ogni genere senza dover nemmeno fare prima un controllo dei precedenti penali dei propri acquirenti, né chiedere loro una identificazione.

Un esempio: in un solo anno, tra il 2009 e il 2010, un cittadino americano ha comprato legalmente 529 armi di vario tipo in negozi specializzati e le ha rivendute in Florida. Un’inchiesta condotta da investigatori statunitensi ha ricostruito come la gran parte di quelle armi sia arrivata a gruppi di trafficanti latinoamericani e come quelle stesse armi siano state usate in cinque grandi scontri armati in Colombia, Perù e Porto Rico. Il venditore si è dichiarato colpevole di aver distribuito armi senza nessun tipo di identificazione degli acquirenti ed è stato condannato a 30 mesi di prigione. Un rischio calcolato come conveniente dai narcos. Un metodo molto usato dai trafficanti per rastrellare armi è usare un acquirente fantasma o un prestanome senza precedenti penali il quale, se venisse fermato, sarebbe solo passibile di essere accusato di aver mentito. In ogni

caso, anche se condannato, non finirebbe in carcere. Il contrabbando può contare sugli effetti della sterzata pro armi alla Corte suprema iniziata già nel 2008 con il verdetto nel cosiddetto caso «Distretto di Columbia contro Heller». Allora vennero bocciate norme restrittive imposte dalla capitale Washington, attraverso l’assenso della maggioranza della Corte guidata dal conservatore italoamericano Anthony Scalia (scomparso nel 2016 e sostituito da un altro magistrato conservatore). Scalia nel 2008 sconfessò di fatto due secoli di giurisprudenza per spiegare come le scarne righe del secondo emendamento, che sancisce il generico diritto del popolo americano ad armarsi, conferissero un chiaro diritto costituzionale individuale al possesso di armi. Due anni dopo, nel 2010, in un caso denominato «McDonald v. City

of Chicago», la sentenza Heller venne estesa su scala nazionale, ne fu asserita la validità per le legislazioni statali e non solo federali riguardo al possesso e uso di arsenali. In questo momento è in corso un tentativo di persuadere il presidente statunitense Biden a lavorare per imporre almeno il controllo di eventuali antecedenti penali degli acquirenti di armi in modo da sanare il vuoto legale in materia. È stata da tempo approvata dalla Camera dei rappresentanti una legislazione bipartisan piuttosto ampia sul controllo delle armi però il Senato non l’ha ancora sottoposta a votazione. Avendo il Governo Biden la possibilità di tenere sotto controllo sia la Camera alta che bassa, l’opportunità di fare approvare le norme in sospeso ci sarebbe. Ovviamente la potente lobby dei produttori e venditori di armi è al lavoro per impedirlo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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politica e economia

Accolta con 1 rosa e 3 garofani Suffragio femminile Gabrielle Nanchen è stata una delle prime undici donne elette

in Consiglio nazionale. Dopo due legislature, la parlamentare socialista vallesana lasciò il parlamento. Il racconto di quella esperienza politica Luca Beti È il 17 settembre 1979 e alla stazione ferroviaria di Berna, Gabrielle Nanchen spinge un carrello carico di valigie. Sulla schiena porta il figlio minore, Raphaël. È appena giunta nella capitale da Icogne, villaggio nel basso Vallese. La parlamentare parteciperà alla sua ultima sessione delle Camere federali. «Non ce la facevo più. Con tre bambini, uno di una decina di mesi, era davvero difficile conciliare la vita familiare con l’attività politica in Consiglio nazionale», racconta Gabrielle Nanchen, oggi 78enne. «Mi portavo il più piccolo a Berna. Durante le sessioni, lo lasciavo a una mamma diurna che abitava nei pressi del Wankdorf». Dopo otto anni e due legislature, Gabrielle Nanchen lascia la scena politica a livello nazionale. Vi era entrata a sorpresa nel 1971, l’anno in cui per la prima volta in Svizzera le donne poterono recarsi alle urne. Era una delle prime undici donne elette alla Camera del popolo. Cresciuta nel canton Vaud, dove il suffragio femminile era stato introdotto nel 1959, Gabrielle Nanchen si interessa di politica fin dall’adolescenza. La visione all’età di quindici anni del film Sciuscià di Vittorio de Sica è una sorta di battesimo politico per lei. «L’immagine dei ragazzi lustrascarpe, costretti a vivere per strada, mi sconvolge profondamente. Decido di dedicare la mia vita ai più sfortunati», ricorda Nanchen, i cui nonni sono emigrati italiani. Studia all’Università di Losanna, diventa assistente sociale ed aderisce al Partito socialista. Con il marito Maurice Nanchen si trasferisce a Icogne, villaggio nei pressi di Crans-Montana in Vallese. Nel 1971, l’anno dell’introduzione del diritto di voto e di eleggibilità per le donne sul piano federale, il Partito socialista vallesano la inserisce sulla lista dei candidati al Consiglio nazionale. «Mi avevano assicurato che non avevo alcuna chance di elezione, che finita la campagna elettorale sarei tornata ad occuparmi dei figli», dice Nanchen. Una promessa che le urne non hanno però rispettato. Quella domenica d’autunno di cinquanta anni fa, la

Gabrielle Nanchen, due anni fa, in occasione di una giornata di dibattiti sui diritti delle donne, nella sala del Consiglio nazionale. (Keystone)

socialista Gabriele Nanchen viene eletta in Consiglio nazionale. È una sorpresa per il suo partito, per il Vallese, roccaforte democristiana, ma soprattutto per la mamma 28enne. Nanchen vuole rinunciare al seggio. Ha due figli piccoli a cui badare, uno di due, l’altro di un anno, non guida e vive a tre ore di treno da Berna. È il marito Maurice a convincerla. «Mi disse che dovevo accettare l’elezione, che non potevo tradire gli elettori e che si sarebbe occupato lui dei figli con l’aiuto di sua madre», spiega oggi l’ex parlamentare socialista. Lunedì, 29 novembre 1971 entra così per la prima volta nella sala del Consiglio nazionale a Berna. Gabriele Nanchen ricorda come se fosse ieri quel momento di mezzo secolo fa. Le riaffiorano alla memoria lo chemisier scuro e il foulard indossato per l’occasione, la timidezza e il disorientamento di fronte ai flash dei fotografi e alle videocamere. Ad attenderla sulla sua scrivania: tre garofani e una rosa. «Non ero però la prima donna ad accedere alla Camera bassa a Berna. Prima di me erano entrate le donne delle pulizie. Loro

non erano però mai state accolte con dei fiori. Mi sono quindi detta che avrei lavorato per loro, per le fasce più deboli della popolazione», racconta Nanchen. Durante il suo mandato all’Assemblea federale ha proposto, per esempio, l’introduzione dell’età pensionabile flessibile, ha depositato un postulato per l’abolizione dello statuto degli stagionali, ha presentato un’iniziativa parlamentare per la politica familiare in favore dell’assicurazione maternità obbligatoria, dell’estensione del congedo maternità da 10 a 16 settimane e della protezione delle donne incinte contro la disdetta del contratto di lavoro. È una delle sue ultime battaglie politiche prima di abbandonare la Berna federale. «Non ero una forza della natura. Ero prossima al burnout», racconta Nanchen. «Durante le sessioni, a volte dovevo portarmi Raphaël, il figlio minore che allattavo in una stanza vicina alla sala dell’Assemblea federale. E così mi dovevo rivolgere a qualcuno affinché se ne occupasse mentre io mi presentavo sul podio degli oratori. A

Palazzo federale non c’era un asilo nido e nemmeno oggi ce n’è uno. Un giorno lo affidai a René Felber. Quando sono tornata, li ho ritrovati che giocavano assieme», ricorda Nanchen con nostalgia l’ex consigliere federale recentemente scomparso. Era l’autunno del 1979. Due anni prima era stata eletta nel Consiglio di Stato vallesano, seggio che dovette però cedere ad Arthur Bender perché la Costituzione vallesana proibiva a persone provenienti dallo stesso distretto di sedere insieme in governo. Gabrielle Nanchen sarebbe stata la prima donna in Svizzera a entrare in un esecutivo cantonale. E così il canton Vallese ha dovuto attendere oltre trent’anni prima di avere una donna in governo. Nel 2009 sarà Esther WaeberKalbermatten a prendere simbolicamente il testimone di Gabrielle Nanchen. «Ho pianto quando ho lasciato Berna», ricorda oggi Nanchen. «Non ho però mai abbandonato la politica. Ho continuato a battermi per l’uguaglianza tra uomini e donne, ho pubblicato vari libri e sono sempre stata al fianco dei meno fortunati».

covid-19, revisione accolta camere federali

Ampliati gli aiuti all’economia

Dopo lunghi ed estenuanti dibattiti, e il ricorso alla conferenza di conciliazione, le Camere federali hanno accolto la seconda revisione «turbo» della legge sul Covid-19. Il sostegno economico a fondo perso a imprese, lavoratori indipendenti, organizzatori di eventi, che il Consiglio federale aveva aumentato in due tappe da 2 a 10 miliardi di franchi è stato accettato, le modifiche apportate dal parlamento aumentano addirittura il potenziale volume di ulteriori due miliardi di franchi, secondo stime interne all’Amministrazione federale. In particolare, le Camere hanno ampliato il raggio delle imprese che hanno diritto agli aiuti per casi di rigore: il Consiglio federale aveva decretato che questo diritto spettasse a tutte le imprese che avessero perso almeno il 40 per cento degli introiti fondate entro il 1. marzo 2020, il parlamento ha spostato la data in avanti al 1. ottobre 2020, così che anche le imprese create durante l’anno di pandemia possano ricorrere a questi aiuti. Una modifica che potrebbe costare fino a 250 milioni di franchi in più. 500 milioni in più sono stimati per gli aiuti supplementari (fino al 50 per cento) a grandi imprese che abbiano perso almeno il 70 per cento delle entrate. Modificate anche le regole per gli aiuti a imprenditori indipendenti: potranno ricevere aiuti anche con una perdita minima del 30 per cento e non più solo del 40 per cento come finora. Contro la revisione della legge sul Covid-19 è stato lanciato un referendum da parte di ambienti vaccinoscettici, su cui si voterà il 13 giugno di quest’anno, per motivi più legati alla strategia di vaccinazione e di lockdown che alla sostanza degli aiuti federali. Se anche venisse bocciata in votazione popolare, la legge sul Covid-19 resterebbe in vigore fino al 24 settembre, considerato che gli aiuti previsti cesserebbero per la maggior parte già alla fine di quest’anno. Il parlamento ha d’altro canto respinto tutte le proposte di togliere al Consiglio federale i poteri che si è assunto durante la pandemia, riconoscendogli la potestà operativa nella gestione della crisi. / PS Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Legga la storia di Sidra e della sua famiglia: caritas.ch/sidra-i

Sidra, 10 anni, dalla Siria, è nata quando nel suo Paese è scoppiata la guerra. Vuole diventare medico per alleviare le sofferenze degli altri.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

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politica e economia

pandemia e bilanci pubblici

covid-19 La Confederazione sopporterà il peso maggiore degli interventi, ma i suoi bilanci lo permettono. Cantoni

e Comuni risentono pure gli effetti dell’aumento di spese e del calo di entrate. Il Canton Grigioni fa eccezione Ignazio Bonoli Con la pubblicazione dei primi dati sui consuntivi 2020 a livello cantonale e comunale si tirano anche le prime somme degli interventi finanziari volti a limitare i danni dell’epidemia a livello di salute pubblica e di sostegni economici. La parte maggiore di questi sforzi è stata certamente sostenuta dalla Confederazione, che dovrebbe raggiungere il 90% dei costi totali impegnati in queste operazioni. Anche i Cantoni – spesso a complemento degli interventi federali – vedono riflessi nei loro conti il costo dei loro interventi.

Per il 2020, secondo le stime del preconsuntivo in Ticino i conti dello Stato prevedono un disavanzo di 243 milioni In Ticino, secondo le stime del preconsuntivo di fine ottobre, si prevedeva un disavanzo di 243,8 milioni, con un peggioramento notevole rispetto al preventivo, che indicava un avanzo di 4,1 milioni. In buona parte il peggioramento è da attribuire alla pandemia direttamente (per esempio 60 milioni di contributi per ospedalizzazioni e 10,1 milioni per emergenze sanitarie), o indirettamente (per esempio minor gettito fiscale per 173,1 milioni, o minori entrate di imposte alla fonte per 12,3 milioni, nonché 9 milioni in meno per la partecipazione all’imposta federale diretta). Diversa però la situazione nel Canton Grigioni, il cui consuntivo registra un avanzo di ben 80 milioni, migliorato di 100 milioni rispetto al preventivo.

Per la pandemia il cantone valuta una spesa di 60 milioni, ampiamente compensata da un gettito fiscale in aumento di 42 milioni di franchi, ma soprattutto dal contributo della Banca Nazionale di 62 milioni di franchi e da quello della Banca Cantonale per 12,6 milioni di franchi. Anche per il Ticino il contributo della Banca Nazionale sarà cospicuo (82,5 milioni), così come quello della Banca dello Stato (41 milioni). Si può così pensare (in attesa dei risultati definitivi) che il contributo della BNS sarà determinante per i Cantoni nel contenere l’aumento di spese provocato dalla pandemia già nel 2020. Si prevedono in totale 6 miliardi di franchi di versamenti, di cui due terzi andranno a beneficio dei Cantoni. È però inevitabile che per molti di essi (come prevede il Ticino) vi sarà una diminuzione dei gettiti fiscali. In questo senso il Grigioni sarà probabilmente un’eccezione. La stessa Confederazione, nel 2020, ha incassato 1,5 miliardi in meno di imposte sul valore aggiunto (IVA), ossia l’imposta sui consumi. Dovrà invece mantenersi probabilmente al livello precedente il gettito dell’imposta federale diretta (IFD). Gli effetti dei minori gettiti si ripercuotono con ritardo sull’andamento delle finanze cantonali e spesso i confronti sono difficili a causa del diverso metodo di calcolo. Gli esperti prevedono che gli incassi di imposte sul reddito e sugli utili aziendali possano mantenersi ai livelli attuali nel 2021. Globalmente l’effetto degli sforzi per la lotta al Coronavirus è ripartito nel modo seguente: tra il 2019 e il 2021 i risultati d’esercizio dovrebbero peggiorare tra i 17,66 miliardi di franchi e i 20,727 miliardi per la Confederazione, tra i 1040 milioni e i 2270 milioni per i

Il contributo della Banca Nazionale ai Cantoni sarà determinante per contenere i costi provocati dalla pandemia. (Keystone)

Cantoni e tra i 522 e i 1515 milioni per i Comuni. Secondo queste previsioni, la Confederazione dovrebbe sopportare quasi un quarto dello sforzo finanziario globale. Difficile però prevedere quali saranno gli effetti dei programmi per il 2021 di Cantoni e Comuni. I Cantoni cominciano però a sentirne il peso e chiedono una minore partecipazione finanziaria ai provvedimenti adottati dalla Confederazione. Quest’ultima può comunque contare su una situazione finanziaria favorevole. Il freno alla spesa, applicato dal

2003 al 2019, ha permesso di ridurre il debito pubblico da 124 a 97 miliardi di franchi, aprendo quindi la possibilità di un ulteriore indebitamento. Secondo le più recenti previsioni di inizio marzo, il debito della Confederazione nei prossimi due anni dovrebbe aumentare tra i 35 e i 40 miliardi di franchi. Rispettando le regole sul freno alla spesa, questo indebitamento dovrebbe essere riassorbito a media scadenza. Spese ed entrate straordinarie della Confederazione vengono contabilizzate su un conto speciale. Prima dell’attuale crisi, questo conto era in attivo per al-

cuni miliardi di franchi. Secondo valutazioni dell’amministrazione, alla fine di quest’anno, questo conto dovrebbe toccare un saldo passivo di circa 27 miliardi di franchi. Il tema è emerso anche durante la recente sessione delle Camere federali. Al momento è però ancora difficile valutare l’impatto finanziario totale. Il Consiglio federale si è comunque impegnato a presentare entro l’estate un piano di ammortamento del debito. Né riduzioni di spese, né aumenti di imposte dovrebbero far parte di questo piano. Ovviamente, sperando che la situazione non peggiori.

Uno sguardo indietro per andare avanti

prodotti & consumi Un brand, per essere di successo oggi, deve veicolare in modo credibile valori come semplicità,

sostenibilità, durevolezza, un servizio di primo piano e ad alto impatto tecnologico Mirko Nesurini Quanti sono i brand che sono ritornati sul mercato con grande successo e cosa ci possiamo aspettare per il futuro, in un periodo storico dove la visibilità nel mercato è annebbiata dall’evento pandemico? L’osservazione dei cicli economici altalenanti dei beni di consumo porta alla constatazione che «chi non muore si rivede!». In alcuni casi, anche chi muore (nel senso che fallisce), oppure si assopisce (non viene utilizzato ai fini commerciali), potrebbe farsi rivedere. Un fattore comune di rilancio del brand è la nostalgia per i bei tempi passati.

La nostalgia, all’interno delle dinamiche di marketing, è vista come un atteggiamento positivo che si ha verso le situazioni e gli oggetti che ci hanno accompagnati in periodi antecedenti della vita e che si ricordano con piacere. Ruolo di primo piano è rivestito, in questo processo, dalla memoria dei consumatori, pronti e attenti a riconoscere un brand storico al momento della sua reintroduzione nel mercato. Dopo un anno di pandemia, potrebbe apparire corretto pensare che era meglio quanto c’era prima rispetto a quel che c’è adesso, ma la contingenza del momento ribalta le prospettive. Infatti, la tendenza di ricercare avanti (innovazione) o indietro nel

Vanessa Redgrave in visita ad una boutique Ballantyne, nel 2007. (Shutterstock)

tempo è del consumatore annoiato da categorie di prodotto similari o estremamente curioso. Oggi, siamo in una stagione in cui il consumatore non è annoiato da prodotti similari, è incuriosito o fiducioso di provare beni che propongono una visione del mondo attuale e proiettata in un futuro credibile. Le tendenze sono la sostenibilità, incluso il concetto di economia circolare e l’uso intelligente della tecnologia nell’erogazione di servizi. Jacques Séguéla, pubblicitario famoso per lo slogan «La force tranquille», scritto per la campagna elettorale 1981 del presidente francese Mitterrand, sostiene che «un prodotto nasce […] un prodotto cresce e incomincia a guadagnarsi la vita […] ma soprattutto un prodotto comunica. Dopotutto, facendone una marca, gli abbiamo dato il dono della parola». Il concetto che un brand sia la voce di un prodotto, consente di riportare all’attenzione del lettore la forza tranquilla dei brand che hanno fatto del prodotto la propria leva di successo, in modo semplice e costante nel tempo. L’idea è che le persone vivano in un mondo dove progresso e primitivismo coesistono, con le innovazioni tecnologiche e scientifiche che spesso sono funzionali a rivisitazioni del passato. Questo concetto, è valido, perlomeno, nel campo dei prodotti old economy, meno nella tecnologia. Le aziende si confrontano quindi

con un consumatore divenuto più esigente, informato, selettivo e pragmatico che dalle aziende aspetta affidabilità e trasparenza, responsabilità e dialogo. In una fase di passaggio dall’economia dell’immagine all’economia della credibilità, la responsabilità è un valore e al contempo una sfida. Il rilancio da parte dell’imprenditore Fabio Gatto di un brand centenario come Ballantyne, famoso per i maglioncini in cashmere, passa attraverso un percorso, relativamente lungo (cinque anni), nei quali il brand è stato completamente rivisto e attualizzato nel gusto e nella qualità del prodotto, divenendo, nel settore della maglieria, uno dei più innovativi. Gatto ha inoltre sfatato un mito sui rilanci dei brand, spesso sostenuti da capitali provenienti dai fondi di investimento. Si tratta della velocità. Questo imprenditore ha deciso di dedicare un periodo di tempo mediolungo alla sperimentazione di nuovi processi produttivi e alla creatività di prodotto, evitando di aderire alle pressioni del mercato finanziario che, normalmente, vuole investire e generare utili nel corto termine. Il processo di rilancio o di ripartenza, richiede un certo tempo perché le proposte siano accettate dal mercato e per entrare nella fase di crescita auspicata. La durata nei decenni del brand storico, poggia spesso su una proposta semplice da comprendere da parte del

pubblico. BiC è una penna a sfera, Scottex un rotolo di carta da cucina e Gilette un rasoio. Uno degli aspetti pregnanti, ricercati nei prossimi tempi, sarà il posizionamento del brand intorno a un set credibile di valori. In questo contesto, la sostenibilità e la certezza della provenienza sono elementi tangibili di grande importanza. I valori sono cumulabili sotto un unico concetto di rispetto dell’ambiente, delle persone che lavorano e, in fin dei conti, del consumatore che acquista. Infatti, il consumatore, richiede servizi di primo piano e ad alto impatto tecnologico e, nello stesso tempo, desidera un prodotto che sia rispettoso, vero e potenzialmente duraturo. La durevolezza del prodotto è l’elemento che ci consente di ribobinare la storia, per tornare all’affermazione originale di semplicità. Dentro la semplicità risiedono le garanzie che il brand offre al consumatore. Acquistando quel maglioncino con le classiche decorazioni a rombi, accanto all’estetica e alla riconoscibilità del prodotto, mi aspetto delle garanzie che conosco o posso immaginare che siano presenti, grazie al lungo rapporto con il brand che è stato in grado di sedimentare azioni positive, grazie alle quali possiede una solida reputazione. Il risveglio di brand che si sono assopiti è una leva che potrebbe aiutare le imprese a veicolare il proprio messaggio di verità nei prossimi tempi.


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politica e economia

Sta per iniziare un nuovo superciclo delle materie prime? La consulenza della Banca migros Thomas Pentsy

Il prezzo del petrolio è notevolmente aumentato Il prezzo del petrolio è notevolmente aumentato

35 % 30 % 25 % 20 % 15 % 10 % 5% 0% -5 %

Fonte: Bloomberg (al 16.3.2021)

Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros

Dall’inizio dell’anno, la maggior parte dei prezzi delle materie prime ha nuovamente subito un notevole aumento. I prezzi del petrolio superano di nuovo i 60 dollari e i metalli industriali, come il rame e il minerale di ferro, sono scambiati ai livelli più alti degli ultimi anni. Circolano già voci che proclamano l’inizio di un nuovo superciclo delle materie prime, ossia un periodo pluriennale (di solito circa un decennio) di aumento della domanda che supera l’offerta. La Banca Migros vede nell’aumento dei prezzi una ripresa ciclica. Riteniamo prematuro proclamare già il prossimo superciclo delle materie prime. In genere, un superciclo si verifica solo una volta sull’arco di alcuni decenni. Negli ultimi 120 anni, ci sono state solo quattro ampie fasi di boom nei mercati delle materie prime. Ognuna di queste fasi di boom è stata caratterizzata da una forza motrice unica. La fine dell’ultimo superciclo risale a soli dieci anni fa circa. Tra il 2000 e il 2011, interrotto solo brevemente dalla crisi finanziaria del 2008, i mercati delle materie prime hanno registrato un boom, soprattutto sulla scia della rapida ascesa della Cina come potenza economica mondiale. Alcuni dei fattori che hanno alimentato il rialzo delle materie prime

-10 % -15 %

Variazione dei prezzi dall’inizio dell’anno

to fiscale del valore di miliardi, che prevedeva investimenti sproporzionatamente elevati nel settore edile e infrastrutturale ad alta intensità di risorse. Pechino ha già iniziato a ridimensionare una parte dei suoi programmi di stimolo. Lo slancio delle misure

sono solo temporanei e non costituiscono la base per un nuovo superciclo. Lo scorso anno, ad esempio, la ripresa economica della Cina è stata il fattore chiave della domanda di materie prime. Tuttavia, la ripresa economica della Cina ha avuto luogo principalmente grazie a un pacchet-

economiche si attenuerà nell’anno in corso. Non ci sono segnali di un ulteriore pacchetto congiunturale di portata simile. Pertanto, intravediamo dei rischi di una battuta d’arresto per le materie prime che sono più dipendenti dalla Cina, in particolare per alcuni metalli di base. Annuncio pubblicitario

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politica e economia Rubriche

Il mercato e la piazza di Angelo Rossi capitale umano, fattore di crescita L’espressione «capitale umano» è entrata nel linguaggio degli specialisti della gestione delle risorse umane da almeno una trentina d’anni. Si tratta di un concetto che, come molti altri dell’economia aziendale, non sempre corrisponde a qualcosa di preciso e misurabile. Per alcuni il «capitale umano» è solo un sinonimo alla moda da utilizzare al posto di termini più comuni come, ad esempio, l’effettivo dei lavoratori o la popolazione attiva. Per i ricercatori invece il termine capitale umano corrisponde alla somma delle conoscenze, dell’esperienza e delle competenze detenute da un determinato gruppo di lavoratori. Ne consegue che le ricerche empiriche sugli effetti dell’emigrazione di capitale umano devono poter disporre di una misura statistica dello stesso. Tuttavia, come spesso succede, anche nel caso del capitale umano il ricercatore non di-

spone di una misura diretta. La valutazione del capitale umano viene fatta ricorrendo ad indicatori indiretti. Il cumulo delle competenze e delle conoscenze di un gruppo di lavoratori può per esempio essere misurato dal numero di anni di scuola che questi lavoratori hanno frequentato. Ovviamente si pensa che il capitale umano aumenti con il numero di anni di scuola frequentati. L’obiezione che così facendo si sottovaluta l’importanza delle conoscenze acquisite sul posto di lavoro è naturalmente legittima. Per semplificare ancora di più la raccolta di informazioni quantitative sul capitale umano nelle ricerche empiriche si ricorre, invece che agli anni di scuola, ai livelli scolastici. Esiste una definizione, condivisa a livello europeo, che suddivide la formazione scolastica in tre livelli. Il primo livello è quello della scuola dell’obbligo, il secondo quello della formazione

professionale o della scuola media superiore (p. es. il liceo) , il terzo è il livello universitario. A ogni livello corrisponde un certo numero di anni di scolarizzazione. Sapendo quanti sono i lavoratori che hanno terminato la loro formazione a un certo livello è così possibile calcolare il montante degli anni di scuola accumulati da un certo effettivo di lavoratori, per esempio quelli occupati nell’economia ticinese. L’aumento o la diminuzione nel tempo di questo capitale di anni di studio viene utilizzato come misura dell’aumento o della diminuzione del capitale umano. Questo concetto e la sua misura suggeriscono almeno un paio di considerazioni. Dapprima si può notare che, per quel che riguarda l’economia ticinese, una quota importante del capitale umano è importata dalla regione di frontiera. Un’altra grossa fetta è rappresentata da capitale umano pure importato ma

che, con il tempo, tende a insediarsi nel Cantone. Si tratta dei lavoratori domiciliati. Solo il resto – forse meno della metà del totale – è per finire capitale umano formato e residente nel Cantone. In secondo luogo si può ricordare che le discussioni tra i ricercatori vertono attualmente intorno a due questioni. La prima riguarda le disparità in capitale umano tra i Cantoni. Le stesse di solito vengono misurate riferendosi solo al numero di lavoratori che hanno concluso i loro studi a livello terziario. Nello studio La Nuova Lugano, pubblicato nel 2008, per esempio, si ricordava che, nel nuovo comune di Lugano, la quota di persone (in questo caso si tratta quindi della somma degli occupati, dei disoccupati e dei pensionati) che possedevano un titolo o un diploma di livello terziario era, nel 2000, pari al 15%. Questo dato era superiore di tre punti percentuali

alla media cantonale e di due punti percentuali alla media delle macroregioni svizzere. Come dire che, mentre la Nuova Lugano poteva vantare un capitale umano superiore alla media nazionale, in tutte le altre regioni del Cantone il capitale umano era inferiore alla media svizzera. Economicamente parlando, quindi, Lugano era la città maggiormente attrattiva del Cantone e una delle più attrattive in Svizzera. La seconda questione concerne l’impatto della migrazione di cervelli sull’evoluzione del capitale umano del Cantone e delle sue regioni. Studi concernenti altre nazioni europee dimostrano che questo impatto è negativo . Per il Ticino, finora, non disponiamo dei dati necessari per fare questa valutazione. Chissà che qualche studente della facoltà di economia dell’USI, leggendo questo articolo, non si metta di buzzo buono a cercare di riempire questa lacuna?

In&outlet di Aldo Cazzullo La mancanza di opportunità e l’irriducibilità della vita Le due generazioni che hanno pagato il prezzo più alto alla pandemia sono state quella degli anziani e quella dei giovani. Dico anziani, e non nonni, anche se a volte tendiamo (me compreso) a chiamare genericamente nonni signori che magari nonni non sono diventati o, in ogni caso, sono nonni soltanto dei loro nipoti. Nonno è una parola dolcissima, come lo è l’amore a cerchio di vita tra le generazioni. Però è una parola privata, o comunque intima. Ci sono persone che amano essere chiamate così, altre che restano indifferenti, altre che ne sono infastidite. Nel linguaggio delle burocrazie, e più in generale in quello della discussione pubblica, si dovrebbe forse essere più cauti. Perché il rischio è quello di edulcorare, con un termine consolatorio, una condizione esistenziale che può essere senz’altro ricca o almeno serena, ma anche amara e angosciante. Dicevamo che anziani e giovani pagano il prezzo più alto. Ma se per gli adolescenti e i ventenni si tratta di fare qualche rinuncia, per quanto

frustrante e dolorosa, per gli anziani significa dover temere una morte orribile, separati dai propri cari. Anche per chi sta bene, l’attesa di essere chiamato per i vaccini è stressante: sarebbe necessario e opportuno indicare almeno una data per la convocazione. L’incertezza di questi giorni certamente non aiuta. Oltretutto gli anziani hanno spesso problemi di salute di altro genere, che con gli ospedali intasati vengono trascurati. L’unica risposta è mettere ordine nelle opinioni, nelle cifre contraddittorie e accelerare la campagna di immunizzazione. Magari così ci meriteremo il diritto di chiamarli, se vorranno, nonni. In ogni caso, a me le scene degli anziani che vanno a vaccinarsi piacciono moltissimo, e non solo perché vedo in loro i miei genitori, che hanno entrambi più di ottant’anni, e rivedo i miei nonni di quando ero bambino. Mi piace moltissimo il loro amore per la vita, la loro fiducia nella scienza, la loro speranza nel futuro. Ho adorato una signora che con un bell’accento

milanese ha detto con orgoglio alle telecamere: «Ho centodue anni!». Ho trovato elegantissima Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz, quando ha abbassato la spallina del suo bel vestito nero per farsi vaccinare. Che pena profonda per quelli che l’hanno insultata. Poverini, devono essere molto infelici, perché non è per Liliana Segre, è per se stessi che non hanno rispetto. Molti ottantenni hanno visto andarsene i compagni di una vita, senza poter dire loro addio. Qualcuno non ce l’ha fatta, qualcuno ha sconfitto la Covid, tanti l’hanno evitata ma a prezzo di grandi sacrifici: chiudersi in casa, evitare di vedere figli e nipoti, rinunciare ad andare in chiesa. Certo, anche i giovani hanno sofferto, e avendo più dosi a disposizione sarebbe stato giusto iniziare le vaccinazioni in entrambi i sensi, partendo sia dal più grande sia dal più piccolo. Come quando si scava un tunnel o si costruisce un ponte, e le due squadre cominciano a muoversi contemporaneamente da entrambe

le parti. I giovani non ne possono più, e per qualche imbecille che si dà appuntamento nei parchi pubblici per picchiarsi e mettere in Rete le sue imprese ce ne sono milioni che non vedono l’ora di ripartire. Ma in quelle code di anziani che ne hanno viste di tutti i colori, e ora devono confrontarsi pure con la Covid senza volergliela dare vinta, vediamo l’irriducibilità della vita. A difesa dei più giovani va ricordato che in mezza Europa le scuole sono state a lungo chiuse. Gli adolescenti hanno sicuramente perso qualcosa sia in termini di apprendimento – per quanto molti professori abbiano fatto miracoli per continuare a insegnare online – sia in termini di socialità. E i loro fratelli maggiori, i ventenni, hanno perso contatto con l’università e faticano a prendere contatto con le aziende, visto che non hanno potuto fare stage o esperienze di lavoro. Il «Recovery plan» europeo dovrebbe pensare innanzitutto ai giovani. Purtroppo non mi pare che il loro ingresso nel mondo del lavoro sia conside-

rata una priorità. Vi racconto un fatto che mi è accaduto: in Italia sono stato additato sui social come un affamatore del popolo per aver proposto un piano per consentire ai neodiplomati e ai neolaureati di fare esperienze di lavoro nelle aziende e nelle pubbliche amministrazioni. Si tratta ovviamente di intendersi sul significato della parola stage: se si tratta di un periodo di apprendistato, di un’occasione per imparare offerta a una persona che non ha mai lavorato, è un po’ difficile attendersi uno stipendio pieno. Se invece, come accade purtroppo spesso, lo stage magari rinnovato più volte è un escamotage per far lavorare gratis o quasi persone già formate, è una forma di sfruttamento ovviamente da denunciare. Ma per cortesia non pensiamo che il problema dei giovani siano gli «apericena» o gli «happy hour» perché questo significa fare la caricatura della condizione giovanile oggi in Europa, specie in Italia. Che era già molto difficile prima della pandemia e ora rischia di farsi drammatica per mancanza di opportunità.

Ciò riconosciuto, occorre tuttavia tener d’occhio il rovescio della medaglia. Sono le ombre che spesso sfuggono, specie alle nuove generazioni nate e cresciute in ambiente urbano. Il primo lato è la progressiva omologazione dell’orizzonte visivo. Le conurbazioni che danno vita alla «città Ticino» hanno via via abraso la trama sottostante, ovvero il patrimonio storico, linguistico, etnografico e devozionale che ha preceduto l’attuale corsa all’edificazione. Di questo passato sono sopravvissuti solo segni sparsi, interstizi, lembi di terra, resti individuabili solo aguzzando la vista: filari assediati dal cemento armato, terrazzi e campetti inselvatichiti, muretti a secco in parte crollati, stallette diroccate, qualche pianta da frutto ormai esausta… Non è questione di nostalgia. A giudizio di molti psicologi e filosofi, ma anche di scrittori, fotografi e cineasti, nasce proprio qui, in questo

«spaesamento» il disagio – un tempo si diceva l’«alienazione» – che affligge noi contemporanei. L’esplosione dello spazio costruito ha quasi cancellato ogni memoria rurale, quel substrato che per secoli ha permesso agli abitanti di orientarsi nel territorio attraverso il fitto reticolo dei toponimi. Il secondo lato oscuro riguarda l’anonimato che ormai caratterizza molti comuni della cintura urbana. Sulle colline circostanti sono spuntati complessi residenziali di foggia sanatoriale, destinati ad accogliere le famiglie logorate dalla frenesia cittadina, oppure provenienti da contrade lontane. Presenze perlopiù estranee alle tradizioni del luogo, più interessate alla quiete della campagna che alla vita comunitaria. Si spiega anche così la decrescente partecipazione agli appuntamenti elettorali comunali, tendenza che il voto per corrispondenza non ha certo contribuito ad arrestare.

Bisognerebbe, per rianimare lo spirito pubblico, mettere in campo processi d’integrazione, iniziative di graduale inserimento dei nuovi venuti nei consessi patriziali, scolastici, sportivi e ricreativi. Impresa ardua, destinata a scontrarsi con resistenze ataviche, ma anche con logiche che le amministrazioni comunali non riescono più a controllare, perché determinate dalle strategie d’investimento dei grandi gruppi finanziari ed immobiliari. Eppure il comune è una cellula che deve rimanere vitale, un «plesso nerveo» come amava dire Carlo Cattaneo dal suo osservatorio di Castagnola: «I comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà. (…) È un errore che l’efficacia della vita comunale debba farsi maggiore colla incorporazione di più comuni in un solo, vale a dire, con una larga soppressione di codesti plessi nèrvei della vita vicinale».

cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Lunga vita ai comuni Chissà se il comune è ancora principio e culla della democrazia, come si insegnava un tempo nelle scuole durante l’ora di civica. Di certo la popolazione di questo cantone è rimasta a lungo aggrappata ai simboli dell’appartenenza locale (municipalismo), fonte di incessanti rivalità (campanilismo). Questo costume ha nutrito per decenni una copiosa letteratura; i quadretti di paese più sapidi e divertenti uscirono dalla penna di autori come Giovanni Anastasi, don Francesco Alberti, Sergio Maspoli. Commedie, fogli volanti, opuscoli anonimi e composizioni satiriche («bosinate») proliferavano soprattutto alla vigilia della consultazione comunale, alimentando il chiacchiericcio nelle osterie e sui sagrati nel dopo messa. Ogni partito si dilettava a schernire la parte avversa, in un clima di certame senza fine. Il fatto che nelle comunità piccole e medie tutti si conoscessero rendeva

la contesa un duello rusticano e la cittadinanza una vociante tifoseria. D’un tratto riapparivano gazzette di cui s’era persa memoria, nonché figure come il politicante dalla lingua sciolta e il «galoppino» spedito a persuadere gli indecisi o gli ignavi. Nel corso degli ultimi quarant’anni questo ecosistema politico si è via via disgregato, in conseguenza dell’accresciuta mobilità e dell’ipertrofia delle aree urbane. I comuni rurali si sono ritrovati dinanzi a ostacoli non più sormontabili con le proprie forze. Privati delle energie fresche, migrate in città, non rimaneva che una soluzione: l’aggregazione. Pur fra mille perplessità e obiezioni, il programma aggregativo è andato avanti, permettendo a parecchi nuclei di sopravvivere, a volte di rinascere, come accade alle vallate alle spalle dei grossi centri, diventate valvole di sfogo e rifugio specialmente in quest’epoca di pestilenza.


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Idee e acquisti per la settimana

Succosa, tenera e saporita In primavera, e a Pasqua in particolare, la carne di agnello è molto apprezzata. Cucinare tagli di agnello con l’osso, come carré o gigot, offre numerosi vantaggi Testo Claudia Schmidt

1. collo 2. petto 3. Spalla 4. rack, costolette, lombatine 5. Schiena 6. Gigot o cosciotto 7. Stinco 8. pancia

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emmeno i grigliatori professionisti hanno dubbi in proposito: la carne risulta particolarmente gustosa, tenera e succosa quando viene cucinata con l’osso. Ciò vale non solo per la classica T-Bone steak di manzo, bensì anche per il carré di maiale, di vitello o, appunto, il rack di agnello. In molti sostengono che questo sia anche il metodo migliore per preparare il gigot. E molti argomenti giocano a favore. Bisogna prima di tutto sapere che la carne con l’osso in genere necessita di più tempo per cuocere, poiché l’osso conduce meno calore. Ciò non costituisce uno svantaggio: al contrario, il metodo di cottura risulta più delicato e la carne ha più tempo per sviluppare il suo aroma. Il maggior tempo di cottura permette inoltre al collagene delle ossa di trasformarsi in gelatina, che legandosi ai liquidi della carne la mantiene più succosa. Questo effetto è rafforzato dallo strato di grasso presente sull’osso, che sciogliendosi durante la cottura fa sì che la carne non si secchi troppo rapidamente.

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Carne con l’osso, per esempio: carré di agnello 100 g al prezzo del giorno

Il servizio al banco

E naturalmente il grasso contribuisce a insaporire la carne, conferendole un aroma più intenso. Nel caso della carne di agnello si addice la cottura con l’osso non solo del rack, bensì anche del gigot. Frollatura a secco per intenditori

Dry aged, vale a dire la frollatura a secco della carne all’osso, per molti appassionati costituisce il non plus ultra dei piaceri. Durante questo particolare processo di stagionatura a secco, nel corso di un periodo che dura più settimane la carne perde liquidi e peso, spesso fino al 30 per cento di quello originale. A seconda della temperatura e dell’umidità, il processo di frollatura conferisce alla carne il caratteristico sapore pieno e aromatico. Anche la consistenza del taglio ne risulta ottimizzata, con una polpa piacevolmente tenera. Quando si cucina uno di questi ottimi tagli di carne è importante tenere in considerazione che non andrebbero preparati appena tolti dal frigorifero, bensì lasciati riposare, coperti e a temperatura ambiente, per una o due ore.

Illustrazione Getty Images

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Oltre alla carne con l’osso, al banco si possono acquistare anche altri tagli selezionati, che hanno beneficiato di una lunga frollatura e che sono particolarmente teneri: dall’entrecôte al filetto, i macellai tagliano la carne con lo spessore desiderato. In alcune filiali è proposta anche la carne in qualità dry aged. I professionisti dietro al bancone offrono un servizio completo: l’arrosto è perfettamente arrotolato e lardellato. Su richiesta la carne può essere marinata o messa sotto vuoto, per essere conservata più a lungo. È inoltre possibile fare le proprie ordinazioni in anticipo, ciò che permette di risparmiare tempo quando si fa la spesa prima delle festività. I macellai vi sanno consigliare anche sui quantitativi necessari per un banchetto in famiglia o con gli amici. E conoscono tutti i trucchi per una preparazione ottimale, che su richiesta condividono volentieri con i clienti.


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carré d’agnello in crosta di pistacchi con yogurt alla menta Ingredienti per 4 persone 2 carré d’agnello 2 cucchiai d’olio per la cottura 1 uovo 1 cucchiaio di senape sale ras el hanout ½ mazzetto di timo 50 g di pistacchi tritati Salsa allo yogurt e alla menta 2 rametti di menta 1 cucchiaino di senape 1 vasetto di yogurt greco al naturale sale ras el hanout preparazione 1. Scalda il forno a 200 °C. Rosola brevemente la carne nell’olio. Sbatti l’uovo e mescolalo con la senape, poi condisci con poco sale e ras el-hanout. Sfoglia il timo, tritalo finemente con i pistacchi e distribuisci tutto in un piatto piano. Passa i carré d’agnello dapprima nell’uovo, poi nei pistacchi. Accomodali in una pirofila e cuocili al centro del forno per ca. 20 minuti, fino a raggiungere una temperatura interna della carne di 55 °C. Sforna e lascia riposare la carne per ca. 5 minuti. Taglia la carne tra le ossa in costolette. 2. Nel frattempo, per la salsa, trita finemente la menta e mescolala con lo yogurt e la senape, poi condisci con sale e ras el-hanout. Servi la salsa con il carré d’agnello. Suggerimenti Al posto del ras el-hanout, puoi usare un’altra miscela di spezie orientali. Ottimo con cuscus e verdure al forno. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + cottura in forno ca. 20 minuti + riposo in forno ca. 5 minuti per persona ca. 37 g di proteine, 29 g di grassi, 5 g di carboidrati, 1850 kJ/450 kcal

Decorazioni da mangiare Con le erbette utilizzate per la preparazione del menu di Pasqua si possono creare con facilità delle decorazioni per la tavola che possono essere consumate. Avvolgere le posate con un nastro colorato, quindi decorare con un mazzetto legato con un bel fiocco e composto da erbette come aneto, prezzemolo e timo con l’aggiunta di fiori commestibili come violette e margheritine.


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cultura e Spettacoli D’Anna d’acciaio Nel suo recente lavoro il fotografo Marco D’Anna ritrae la produzione dell’acciaio pagina 37

con la forza delle drag queen Il divertente e irriverente format RuPaul’s Drag Race riesce a calamitare l’attenzione sulle tematiche care alla comunità LGBTQ+

come ti finisco il Glauser Con Le vacanze di Studer ad Andrea Fazioli è riuscita una coraggiosa iniziativa letteraria

omaggio alle streghe La serie Stryx intende portare alla luce la triste sorte delle donne accusate di stregoneria

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Vincenzo Vela: verità e sentimento

mostre A Ligornetto si celebra il bicentenario

della nascita dello scultore Alessia Brughera Pochi artisti sono stati uomini profondamente calati nel proprio tempo come Vincenzo Vela. Durante tutta la sua esistenza lo scultore ticinese si è sempre collocato dalla parte della libertà e della giustizia sociale, intervenendo attivamente nel contesto culturale e politico della sua epoca. L’immagine di artistapatriota pronto ad abbandonare senza esitazione la tranquillità dell’atelier per combattere in prima persona sul campo, in difesa dei più nobili ideali delle sue due terre, la Svizzera e l’Italia, ha senza dubbio contribuito a conferirgli grande notorietà. D’altro canto va detto che, proprio a causa di questo incondizionato impegno sul fronte civile, Vela, la cui mitizzazione è iniziata quando era ancora in vita ed è proseguita poi, ampliandosi, dopo la sua morte, ha sofferto non poco di critiche negative, che hanno a volte messo in secondo piano la carica innovativa della sua opera scultorea. Con un approccio tanto disinvolto quanto rigoroso, fondato prima di tutto su un’eccezionale abilità artistica e mosso da una tenace volontà di autonomia rispetto alla tradizione, Vela si è fatto portavoce di un linguaggio d’impronta marcatamente realista capace però anche di esprimere la componente lirica e intima della rappresentazione. Ai suoi allievi dell’Accademia Albertina di Belle Arti a Torino, dove nel 1856 gli viene assegnata la cattedra di scul-

poesie per Vela Nel 2020 è stata pubblicata l’antologia Poeti per Vincenzo Vela, che raccoglie testi in versi e in prosa dedicati all’artista scritti da 32 autori della Svizzera italiana. Il Museo Vela ha realizzato, in collaborazione con la RSI, un progetto di video-letture in cui i brani contenuti nel volume vengono declamati da Margherita Coldesina, Anahì Traversi, Daniele Bernardi, Marko Miladinovic e Massimiliano Zampetti, ripresi dal videomaker Giona Pellegrini. I reading sono stati raccolti in quattro episodivisibiliaiseguentilink: ■ Facebook: https://www.facebook. com/museovincenzovela ■ Youtube: https://www.youtube. com/user/MuseoVincenzoVela

tura, così si rivolgeva: «Guai all’artista che considera l’arte soltanto come un mezzo di lucro, e l’abbassa al livello di una semplice manualità! Guai se la fa annighittire nei facili trovamenti di una maniera convenzionale!». Con questa salda persuasione, lo scultore ticinese, nato da una famiglia di umili condizioni costretta ad avviare molto presto tutti i figli a guadagnarsi da vivere, arriva a essere un artista acclamato a livello internazionale, tanto ricercato dall’élite aristocratica e borghese da dover allestire ben tre atelier e circondarsi di numerosi collaboratori. Arriva a partecipare ai più esclusivi circoli culturali, come quello milanese raccolto intorno ad Alessandro Manzoni, a frequentare gli uomini più potenti dell’epoca, come Massimo d’Azeglio e Cavour, e a condurre un’intensa vita sociale, seppur sempre funzionale all’attività professionale, tra battute di caccia ed eventi mondani organizzati dal re Vittorio Emanuele II. Dalla sua Ligornetto di poveri contadini Vela si allontana giovanissimo. A proiettarlo subito ben oltre la dimensione della terra d’origine è il suo sorprendente talento. Dopo aver appreso i rudimenti del mestiere nelle botteghe dei lapidici di Besazio e di Viggiù, a soli quattordici anni viene invitato a Milano dal fratello Lorenzo, già brillante scultore, tra i primi a comprenderne l’innata predisposizione alla lavorazione della pietra. Da qui la carriera di Vela è tutta in ascesa. Opera nel cantiere della Fabbrica del Duomo, studia all’Accademia di Brera e frequenta l’atelier del carrarese Benedetto Cacciatori. I riconoscimenti si fanno via via sempre più importanti e così le commissioni, provenienti soprattutto dalle nuove leve dell’aristocrazia e della borghesia imprenditoriale e intellettuale italiana, legata ai valori del Risorgimento. Le convinzioni progressiste e democratiche di Vela trovano sfogo nella partecipazione alla guerra del Sonderbund, all’insurrezione di Como e alla Prima guerra d’indipendenza e non mancano, ovviamente, di segnare con forza anche la sua produzione artistica. Valga per tutti il celeberrimo Spartaco presentato all’Esposizione di Brera nel 1851, l’anno prima dell’espulsione dell’artista dal Lombardo Veneto e del suo approdo a Torino, città in cui vivrà per quindici anni lavorando in un clima favorevole ai suoi ideali liberali e in cui darà anche una svolta alla sua vita

Vincenzo Vela, calco dal vero di una schiena virile, modello per lo Spartaco, ca. 1848, gesso, Ligornetto, Museo Vela. (© Museo Vincenzo Vela – Foto Mauro Zeni)

privata sposando Sabina Dragoni, conosciuta giovanissima nello studio di Cacciatori dove posava come modella. Alla sua Ligornetto Vela ritorna nel 1867, all’apice del successo, trasferendosi nella monumentale dimora eretta pochi anni prima. Divenuto ormai un vero e proprio artista «alla moda», sommerso di incarichi e insignito di onorificenze, continua ancora per quasi venticinque anni la sua febbrile attività di scultore. Trascorsi due secoli dalla nascita del maestro ticinese, nel 2020 il Museo Vela di Ligornetto ha inaugurato una mostra celebrativa, visitabile per tutto l’anno corrente, concepita come un ampliamento della ricca collezione permanente di opere dell’artista esposta al piano terra. La rassegna si concentra soprattutto sul metodo di lavoro duttile e rivoluzionario dello scultore, da sempre volto a una rappresentazione del reale intrisa di sentimento, e sulla sua immagine di uomo pienamente coinvolto nella temperie culturale e politica del proprio tempo. Nell’indagare questo duplice aspetto, il percorso espositivo si avvale di sculture, disegni, stampe e fotografie, più di trecentocinquanta in totale,

dispiegandosi in una dozzina di sezioni che si focalizzano ora su alcuni dei momenti salienti della carriera di Vela (come gli esordi o il periodo di insegnamento all’Accademia Albertina di Torino), ora su tematiche a lui care e in certi casi un po’ meno note al pubblico (come la ritrattistica d’infanzia), ora su alcuni dei suoi lavori e progetti più significativi. È il caso ad esempio del Monumento a Carlo II di Brunswick, mai realizzato a causa di divergenze con i committenti ma importante per comprendere il modus operandi dell’artista. Tra le opere radunate per l’occasione spiccano gli studi di nudo collocati nella sala che rievoca l’atelier di Vela, disegni che testimoniano l’abilità dell’artista anche con la matita (non a caso i critici dicevano di lui che disegnava come un pittore e non come uno scultore) e che spiegano quello stile «pittoricista» della sua produzione plastica che tanto lo ha distinto dai colleghi. Interessante è poi la nutrita sezione sulla fotografia, che per Vela, tra i primi scultori ad averne compreso il grande valore, diventa non soltanto un insostituibile supporto al suo mestiere ma anche un appassionante oggetto da collezione, come documen-

tano alcuni scatti esposti in mostra provenienti dalla raccolta dell’artista, la più antica del Canton Ticino. Se la rassegna ha il merito di approfondire la storia professionale di Vela, offrendo numerosi spunti di riflessione, quello che invece manca e che sarebbe stato stimolante far emergere proprio in occasione del bicentenario è la sua vicenda privata. Lo scultore ticinese ha avuto una vita molto intensa, dedicata soprattutto, è vero, alla sua attività di artista militante. Ci sarebbe piaciuto però scoprire anche qualcosa sull’aspetto più intimo di Vela, quello degli affetti familiari o delle amicizie, e magari sulla sua animata vita sociale, quella delle frequentazioni dei circoli intellettuali e delle feste di corte più esclusive, dove lui, geniale artista proveniente da un’umile famiglia di Ligornetto, si sentiva perfettamente a proprio agio. Dove e quando

Vincenzo Vela (1820-1891). Poesia del reale. Museo Vincenzo Vela, Ligornetto. Fino al 5 dicembre 2021. Per i giorni e gli orari di apertura consultare il sito www.museo-vela.ch


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cultura e Spettacoli

I marmi Torlonia, capolavori in mostra

mostre Ritorna a disposizione del pubblico lo straordinario patrimonio di statuaria classica della famiglia Torlonia;

una risorsa culturale urbi et orbi al cui cospetto si rimane a lungo con piacere

Tommaso Stiano Tra una chiusura e l’altra, in quel di Roma siamo riusciti a visitare una mostra straordinaria, I marmi Torlonia. Collezionare capolavori che, coronavirus permettendo, resta aperta fino alla fine di giugno. Dopo l’astinenza culturale di questi mesi, di fronte ad una tal parata di marmi, pur senza cadere nella sindrome di Stendhal, qualche capogiro ci viene comunque e cominciamo a dare i numeri: 2020, 620, 92. Il primo corrisponde all’anno scorso con una selezione della Collezione Torlonia che è tornata dagli abissi del tempo grazie a una virtuosa collaborazione tra la Fondazione omonima e il Ministero per i beni culturali italiano; il secondo ci informa che tutta questa formidabile raccolta di statuaria antica si compone di 620 pezzi; l’ultimo è la parte dei marmi in bella mostra nei nuovi spazi espositivi dei Musei Capitolini, aperti presso l’adiacente Villa Caffarelli. E, quella di Roma, è solo la prima di un lungo viaggio a tappe che questo patrimonio farà in celebri musei europei e statunitensi per concludersi poi di nuovo nella Città Eterna nel futuro Museo Torlonia di cui si sta individuando una sede permanente che possa accogliere l’intero tesoro artistico; stando alle ultime voci ufficiali potrebbe essere Palazzo Silvestri-Rivaldi vicino al Colosseo per la cui ristrutturazione sono già stati stanziati 40 milioni di euro. Genesi della collezione Torlonia

Se dal profilo cronologico con il termine «classico» s’intende genericamente che appartiene al periodo ellenistico e romano dagli albori fino al IV sec. d.C. (mille anni circa), oppure se s’intende semplicemente che ha qualità di prim’ordine ed è d’importanza fondamentale come modello di un genere, allora la Collezione Torlonia è sicuramente una raccolta che assolve sia il criterio temporale sia quello qualitativo, ai quali bisogna aggiungere quello quantitativo, non per nulla figura come la più importante a livello internazionale nel collezionismo privato e compete a pari titolo anche con quello pubblico. Essa vede la sua origine nella passione per l’arte, classica appunto,

di diverse generazioni della famiglia Torlonia, un nobile casato romano, che sostanzialmente ha collezionato collezioni preesistenti. Parallelamente agli acquisti, nella seconda metà del XIX secolo, i Torlonia avevano promosso tutta una serie di scavi archeologici nei loro possedimenti suburbani giungendo così ad un patrimonio scultoreo di 620 oggetti, catalogati e fotografati già nell’Ottocento; nel 1875 questi sono confluiti nel Museo di scultura antica in via alla Lungara che la Famiglia apriva a pochi visitatori e studiosi e che è stato chiuso definitivamente nel 1976 e successivamente trasformato in miniappartamenti di lusso. Da quel momento la collezione accatastata alla rinfusa è piombata nell’oscurità di qualche scantinato e ha anche rischiato di finire nelle mani di magnati americani. Ma adesso la Fondazione – creata nel 2014 da Alessandro Torlonia (deceduto nel 2017) per dare un futuro al lascito – apre questo straordinario patrimonio di bellezza incarnata nel marmo agli appassionati d’arte ma anche ai curiosi che vorranno approfittare della rassegna di Villa Caffarelli per rifarsi gli occhi e non solo. L’itinerario espositivo ha come motivo conduttore la storia del collezionismo di matrice privata che piano piano è sfociato nella nascita di istituti museali pubblici, il cui prototipo furono proprio i Musei Capitolini, primi al mondo ad aprire le porte ai visitatori già nel 1734. Anche nel caso in questione, accondiscendendo al principio di utilitas publica che assegna all’arte un valore sociale, la Collezione Torlonia, pur restando proprietà privata, è destinata a diventare bene culturale collettivo nel futuribile museo di Roma espressamente dedicato a questo tesoro. Il percorso della mostra

La rassegna dell’affascinante mondo greco-romano si articola a ritroso nel tempo in cinque sezioni (14 sale). Nella Sezione I viene rievocato il Museo Torlonia del 1875 con un’impressionante sequenza di busti maschili e femminili che testimoniano l’usanza di quel tempo nel lasciare immagini degli antenati che avevano rivestito cariche pubbliche importanti, in primis l’imperatore e i

Rilievo di Porto, Bassorilievo con veduta del Portus Augusti, età imperiale, ca. 200 d.C. (© Fondazione Torlonia, foto T. Stiano)

suoi familiari; in questa sala menzioniamo il bel simulacro di Germanico, l’unico bronzo dell’esposizione. Nella seconda sezione troviamo due insigni esempi di sarcofagi in marmo greco, altorilievi e tre statue di atleti, una Ninfa e un Satiro scovati durante gli scavi nelle proprietà Torlonia. Straordinario qui è il Bassorilievo con veduta del Portus Augusti (200 d.C.) che era il principale approdo della Roma imperiale. Molto spesso nell’etichetta delle statue compare la dicitura «replica di…». A tal proposito, va ricordato che le sculture greche dell’età classica sono conosciute nella maggior parte dei casi grazie alle copie marmoree di età romana, gli originali sono andati perlopiù persi. La Sezione III è dedicata invece ai fondi settecenteschi Cavaceppi e Albani acquisiti dai Torlonia; qui troviamo crateri (grandi vasi), cariatidi, busti, altorilievi e statue come l’Ulisse sotto il montone (I sec. d.C.).

La quarta sezione è suddivisa in altrettante sale di cui una enorme con i ritratti di dodici imperatori; assieme alle effigi di Medusa, Iside, Meleagro, Afrodite e due Satiri, nella sala 9 compare uno straordinario Rilievo con scena di bottega, marmo funerario che documenta la professione di una ricca signora del II secolo d.C. La V Sezione centra l’attenzione sulle raccolte di marmi del QuattroCinquecento appartenenti a famiglie aristocratiche romane come la Tazza Cesi del I sec. a.C. o il bellissimo Sarcofago a colonne con coperchio del 170 d.C. L’ultima sala di questo settore presenta un Ercole ricomposto da 112 frammenti antichi e moderni, lasciati in vista apposta, e su un ripiano è pure visibile una copia del magnifico catalogo datato 1884 con tutte le 620 opere dei Torlonia riprodotte in fototipia (chiaro su fondo scuro). Se il ruolo dell’arte è quello di creare e diffondere bellezza, intesa come

manifestazione che appaga l’animo umano, questo evento assolve pienamente il suo compito, le opere provocano un po’ di vertigini sia per la straordinaria fattura sia perché ci ricordano che «ars longa, vita brevis» (la vita è breve, l’arte è duratura). Non c’è che dire, una mostra coinvolgente, un viaggio nel tempo e nel tempio della scultura, un sollievo in questi momenti di smarrimento sanitario e di obsolescenza programmata degli oggetti: segno che la classicità sa parlare ancora, anche ai contemporanei. Dove e quando

I marmi Torlonia. Collezionare capolavori, Musei Capitolini-Villa Caffarelli (Campidoglio), entrata da Via di Villa Caffarelli, Roma. Fino al 29 giugno 2021. Per aperture, orari, norme sanitarie e prenotazioni online obbligatorie consultare il sito: www. museicapitolini.org

Il peso specifico dell’acciaio

Fotografia Il ticinese Marco D’Anna ha compiuto un’attenta ricerca su questo importante materiale Giovanni Medolago Molti lettori sapranno che lo pseudonimo di Iosif Vissarionovič Džugašvili, e cioè Stalin, significa «uomo d’acciaio», dal vocabolo russo «stali». Pochi viceversa saranno a conoscenza del

fatto che il Ticino è una delle più importanti piazze internazionali nel trading di questo materiale: si stima che a Lugano venga commercializzato ben il 40% della produzione mondiale! Umile e malleabilissimo, l’acciaio s’affaccia discretamente nel nostro quotidiano:

Marco D’Anna, Lipetsk, 2019. (Marco D’Anna)

quando saliamo in auto o su un treno, quando le chiavi ci permettono di varcare la soglia di casa nostra. Il fotografo luganese Marco D’Anna si è chiesto cosa stia all’origine di questa importantissima lega e ha voluto indagare sui moderni modi di produzione dell’acciaio: industria indubbiamente pesante e oggi confrontata con nuove esigenze legate all’ecologia e alla salvaguardia ambientale del pianeta. Si è spinto dapprima in Siberia, dove sin da inizio ’900 si ottiene l’indispensabile carbone. Da qualche anno, lassù l’estrazione si accompagna alla riqualifica del terreno usurpato con la messa a radice di decine di migliaia di alberi, nel lodevole tentativo di lasciare alle generazioni future un ambiente quasi intatto. Prima scoperta: le miniere di carbone nel tempo «si prolungano», con imprevedibili propaggini che – scovate a suon di timide esplosioni – ricordano il lento scorrere delle anse di un fiume. Da Kemerovo D’Anna ci offre immagini che spaziano dalla mera documentazione (legittimo pensare agli «Industrial Sites» di Luca Campigotto) a un astratti-

smo reso pregnante dalla sempiterna incisività del bianco&nero: colate d’acciaio che sembrano i mari in tempesta rievocati nei romanzi di Joseph Conrad. Poi ha seguito il processo produttivo a Lipetsk, città della Russia europea, circa 450 km a sudovest di Mosca, dove già nel 1702 lo zar Pietro il Grande ordinò la costruzione di una acciaieria. «Entrare in quell’enorme altoforno alto più di 80 metri – ricorda D’Anna – è stato come visitare il set di Guerre stellari tenendo tra le mani un libro di Isaac Asimov». Qui D’Anna ricorre al colore con immagini che ricordano i lavori di Edward Burtynsky. Ma se il suo illustre collega canadese ricorre sovente all’utilizzo di droni per realizzare le sue colossali fotografie, D’Anna non ha esitato a sfidare, in prima persona, temperature che vi lasciamo immaginare, cercando nel contempo di mantenere i piedi ben saldi su un terreno a dir poco scivoloso. Grazie alla particolare angolazione di alcune sue inquadrature, D’Anna riesce altresì a «riassumerci» gli smisurati magazzini – lunghi oltre due

chilometri… – dove vengono depositate le gigantesche bobine di alluminio, in attesa d’essere trasportate verso committenti sparsi nell’Europa intera. Partono principalmente dal porto di Murmansk, la più grande città posta a nord del Circolo polare artico, dove si conclude l’ennesima avventura socio/ economica/artistica di Marco D’Anna. Il quale, dall’alto di una pluridecennale esperienza in ogni angolo del mondo, ha fatto della fotografia uno strumento per indagare anche sull’animo umano. Ci racconta infatti dell’empatia creatasi con tanti addetti alla produzione dell’acciaio e della loro serena rassegnazione di fronte a una vita che contempla un solo immutabile percorso: casa, fabbrica, casa. Proprio come ai tempi di Stalin, l’uomo di acciaio. Dove e quando

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Questione di genere?

cultura e Spettacoli

Arte Il drag, una forma d’arte che stravolge il binarismo sessuale

Muriel Del Don Diciamolo pure da subito, la comunità LGBTIQ+ è sempre stata marginalizzata o rappresentata in modo stereotipato e grottesco da un mainstream che l’osserva dall’alto con malcelata superiorità. Basti pensare a film diventati ormai (tristemente) culto quali, per non citare che gli italiani, Il vizietto e La patata bollente per rendersi conto di quanto i personaggi queer siano per l’industria dello spettacolo un mero prodotti di consumo, un «altro» del quale prendersi gioco perché inadatto e per molti versi ridicolo. Fortunatamente, con gli anni, la settima arte e gli immancabili mastodonti dello streaming Netflix e HBO hanno cambiato le carte in tavola proponendo al grande pubblico produzioni decisamente più inclusive e realistiche, rispettose e audaci quali le serie TV Pose e Euphoria che trattano temi sensibili quali la transidentità e il razzismo, senza dimenticare perle cinematografiche del calibro di Hedwig and the Angry Inch (Cameron Mitchell) o più recentemente Sauvage di Camille Vidal-Naquet e Un couteau dans le coeur di Yann Gonzalez.

Il fortunato format RuPaul’s Drag Race dimostra come la comunità LGBTI+ sia ancora stigmatizzata e considerata una minoranza Detto questo, molto resta ancora da fare per raggiungere una vera parità di trattamento e rappresentazione che permetterebbe finalmente ai personaggi queer di uscire allo scoperto (out of the closet), di scrollarsi di dosso il ruolo del parente scomodo dalle abitudini bizzarre. È lecito chiedersi se la comunità queer riuscirà mai ad imporre la propria identità, la propria presenza sulla scena pop. Ma soprattutto, è importante domandarsi se

quest’ipotetico traguardo non rischi forse di stravolgere l’essenza sovversiva di un movimento che della «diversità» ha fatto la sua forza. Uno degli esempi più emblematici di questo stravolgimento della cultura popolare in chiave queer è rappresentato dal reality show statunitense RuPaul’s Drag Race. Il programma, prodotto in un primo momento da Logo TV e successivamente da VHI, è stato creato dalla matrona del drag RuPaul Charles, diventata negli anni una delle personalità televisive più incisive e brillanti della stratosfera. In onda dal 2009 (e ormai alla sua quattordicesima edizione), il reality show propone una gara a colpi di tacchi a spillo e tuck per aggiudicarsi l’ambito titolo di America’s next top drag queen. RuPaul’s Drag Race non si limita però a una serie di scenette nelle quali i concorrenti mostrano i loro (innumerevoli) talenti: recitazione, danza, sartoria, trucco e soprattutto lip sync (il cantare in playback). Quello che la competizione propone è piuttosto un viaggio inaspettato e autentico all’interno della comunità LGBTIQ+, un condensato di storie personali spesso difficili, marcate da discriminazione razziale e di genere, omofobia e transfobia. Per il grande pubblico RuPaul’s Drag Race lo è di certo, basti pensare al successo planetario delle ultime edizioni seguite sugli schermi dei bar (gay ed etero) da fan sfegatati pronti a battersi per la loro drag queen preferita. Un successo che non ha però influito sullo spirito stesso del programma, da ormai più di dieci anni portaparola della comunità queer. Grazie a Mama Ru (come amano chiamarla le sue regine) le questioni sessuali e di genere sono affrontate in prime time, ricordandoci che il mondo non è (fortunatamente) fatto solo di eteronormatività e conformismo ma anche di splendente «diversità», da intendersi non come anormalità o stranezza, ma come apertura verso la molteplicità dell’essere. La popolarità dello show, nonché la presenza di giudici devoti dal lussuoso pedigree quali Lady Gaga, Amy Sedaris, Dita von Teese, La Toya Jackson e

La drag Raven, partecipante alla 13esima stagione di RuPaul’s Drag Race. (YouTube)

Chaz Bono, mostrano ai media che le tematiche LGBTIQ+ hanno il diritto, anche commercialmente parlando, di impadronirsi della scena mediatica per così dire popolare. RuPaul ci mostra quanto la comunità LGBTIQ+ sia stata e continui ad esser stigmatizzata e considerata simbolicamente come una «minoranza» quando invece una «minoranza» non lo è di certo. Quello che rende il successo dello show ancora più sorprendente è l’arte stessa sulla quale si basa: il drag, considerato come una delle espressioni artistiche queer più sovversive e underground. Nessuno si sarebbe mai aspettato di vederlo apparire sugli schermi televisivi o esportato sulle scene di importanti teatri e istituzioni artistiche, invece è proprio quello che è successo grazie alla sincerità di RuPaul e delle sue queens. Utilizzato sin dalle sue origini come mezzo per interrogare il binarismo di genere attaccando la presunta

immutabilità della società eteronormativa patriarcale, il drag è riuscito a uscire, grazie alla sincerità di molte/i artiste/i e al carisma delle loro interpretazioni, dalle mura delle ballroom imponendosi a livello planetario. L’elegante e androgina Sasha Velour, le alternative e gender fluid Yvie Oddly e Sharon Needles, o ancora la giunonica Bob the Drag Queen (tutte ex regine di RuPaul), senza dimenticare la britannica Juno Birch e il suo universo surreale tra camp, kitsch, alieni e Muppet Show o ancora il/la regina della techno queer Lewis G. Burton e il mito del drag berlinese Pansy sono solo alcuni esempi recenti della potenza di un’arte che merita di brillare di luce propria. Oltre che nei club di mezzo mondo il drag è riuscito a imporsi anche sulle scene teatrali e nelle gallerie d’arte grazie a personalità innovative e sovversive quali l’artista bulgaro Ivo Dimchev che si metamorfizza su scena interpretando personaggi volutamente am-

bigui in transizione perenne, o Arca, la super diva della musica elettronica made in Venezuela, o ancora, più vicino alle nostre latitudini il performer bulgaro ma losannese d’adozione Krassen Krastev che utilizza i codici propri al drag e al cabaret per rendere visibile la fabbricazione sociale dei corpi e dei generi, o ancora Lukas Beyeler che grazie ai suoi body iper avvolgenti offre un’altra rappresentazione della così detta «mascolinità», senza dimenticare il performer Nils Amadeus Lange che utilizza il proprio corpo come mezzo per decostruire le convenzioni, i modelli sociali e gli stereotipi di genere o ancora l’icona del drag zurighese Evalyn Eatdith e il collettivo ginevrino GeneVegas. Insomma, che si esprima nell’oscurità dei club underground o sotto i riflettori degli studi televisivi il drag non ha perso nulla della sua forza sovversiva e questo è un miracolo che accogliamo con devota riconoscenza. Annuncio pubblicitario

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cultura e Spettacoli

Un gioco di specchi sulla collina di Ascona

nuove capsule teatrali In scena Soluzioni

inedite per contrastare questo periodo

Letteratura Andrea Fazioli in dialogo ironico con Friedrich Glauser

Pietro Montorfani Non un’impresa semplice quella a cui si è accinto Andrea Fazioli, stimolato da una proposta quasi «indecente» dell’editore Casagrande di Bellinzona, nel continuare e portare a conclusione un manoscritto lasciato incompleto da Friedrich Glauser, il cosiddetto Ascona Roman. Ha potuto farlo grazie alla lunga esperienza di scrittore noir (meno noir di Glauser, d’accordo, diciamo grigio scuro) che gli ha permesso di trovare la chiave, il giusto meccanismo per gestire una materia che a prima vista deve essergli parsa alquanto caotica: l’abbozzo di un romanzo poliziesco ambientato negli anni Venti nei dintorni del Monte Verità e subito interrotto dall’autore, che per giunta offrì

tre diversi incipit della stessa storia, con differenze sostanziali nei dettagli delle scene e nei nomi dei personaggi. La vita tormentata di Glauser, tra legione straniera e internamenti forzati in cliniche psichiatriche, non favorì la conclusione dell’opera. Che fare? Un sano distacco ironico e una vasta conoscenza delle tecniche del genere «giallo», favorita anche dalla sua esperienza di docente nelle scuole di scrittura, hanno permesso a Fazioli di uscire in qualche modo dall’impasse e continuare così quel lontano lavoro del primo autore svizzero di romanzi polizieschi. A conti fatti, dei 34 capitoli brevi che compongono il libro, sono di Glauser soltanto sette della prima sezione, più due montati ex novo a partire da brani originali prelevati qui e là, da car-

Particolare della copertina: Marianne Werefkin, Il danzatore, 1900.

teggi e altri testi pubblicati in varie sedi in anni recenti. Il resto è opera dello scrittore di Bellinzona, che partendo da un binario dato (in realtà tre) immagina una storia dentro una storia dentro una storia, il cui cuore gravita attorno a un manoscritto ritrovato che potrebbe, chissà, essere proprio quello di Glauser, e a una ragazza straniera trovata morta nei boschi sopra Ascona. La maestria di Fazioli si palesa proprio laddove il plot sembrerebbe essere il più tradizionale e scontato possibile – da Manzoni in giù – perché nel susseguirsi dei capitoli è facile illudersi che il manoscritto di Glauser si allunghi e si complichi, arrivando quasi a lambire i nostri giorni, in una girandola di personaggi veri e fittizi che comprendono lo stesso Fazioli, ma anche una redattrice di Casagrande, qualche personaggio storico (la pittrice Marianne von Werefkin e alcuni dei più noti balabiott) e naturalmente l’immancabile commissario Studer, principale creazione letteraria di Glauser, le cui vacanze vengono funestate da un misterioso delitto. Dire di più equivarrebbe a togliere ai lettori il piacere della scoperta, che deve essere stata anche dell’autore (novecentesco) nei suoi sporadici contatti con la stralunata realtà asconese, tra riti ancestrali e danze apotropaiche, non meno che del continuatore contemporaneo che si è voluto documentare a fondo per completare con cognizione di causa, usando di fatto quasi la stessa materia, una storia ambientata in un ben preciso contesto culturale (ticinese soltanto per geografia, molto lontano invece dalla realtà locale, di allora come di oggi). Chi conosca lo stile di Fazioli lo vedrà crescere in questo ultimo libro, prendere spazio e forza pagina dopo pagina, man mano che il testo si allon-

tana dai brani originali di Glauser per addentrarsi in una diversa dimensione, salvo rientrare nell’alveo del primo romanzo non appena si palesi un nuovo frammento. È un gioco consapevole, dentro e fuori da un tempo storico, in un’epoca – per fare soltanto un esempio – che conosceva appena le impronte digitali, ma non ancora le indagini genetiche sul DNA. Qualcosa di simile in fondo aveva provato Andrea Camilleri, con il giovane Montalbano e con i più datati gialli in costume, nella Sicilia del secondo Ottocento. Il finale funambolico delle Vacanze di Studer, a tratti ironico e a tratti invece molto serio, con tanto di sosta in chiesa e una quasi-redenzione del colpevole, non scioglie tutti i nodi (o forse sì?) e lascia nei lettori più curiosi la voglia di tornare allo Start e ripercorrere di nuovo tutti i passaggi di questo originale esercizio di filologia creativa, per ricostruire gli incastri narrativi e capire bene chi ha scritto cosa, se Glauser, Fazioli o la traduttrice (bravissima) Gabriella de’ Grandi. Provare per credere: «Nella mia vita di nomi diversi ne ho avuti anch’io... Un’amica mi chiamava Momo, all’università ero Spig... e oggi molte persone non sanno se sono Spiegel o Spigl. Io dico sempre che sono quello al cui nome mancano due “e” per essere puro come uno specchio... ammesso che gli specchi siano puri». Chi lo ha scritto? Sulla copertina uno splendido quadro del 1909, opera di una delle protagoniste di questo romanzo fatto di molti specchi. Bibliografia

Andrea Fazioli, Friedrich Glauser. Le vacanze di Studer, tr. di Gabriella de’ Grandi. Edizioni Casagrande, 2020.

Le parole sono importanti pubblicazioni In Parole contro la paura la sociolinguista femminista Vera Gheno

offre una riflessione su ciò che è accaduto alle parole in seguito alla pandemia

Laura Marzi I tentativi di raccontare la pandemia, il lockdown, questa condizione di portata epocale in cui ci troviamo tutte e tutti, sono moltissimi. Si tratta di un fenomeno più che comprensibile: qualcosa di veramente nuovo e inquietante sta accadendo all’umanità. Ovviamente, bisogna essere particolarmente cauti nell’accogliere i molteplici prodotti narrativi che vengono «sfornati» – è proprio il caso di dirlo – durante questa pandemia. Quello di Vera Gheno, sociolinguista femminista, docente all’Università di Firenze, è per esempio un esperimento particolarmente interessante, perché genera una riflessione che continuerà nel tempo. A partire dalla sua disciplina, la linguistica, Gheno ha deciso di iniziare un piccolo dizionario della pandemia. Il suo punto di partenza, essendo lei allieva di Tullio Mauro, è che l’analisi del linguaggio non può che avvenire studiando che uso ne fanno i parlanti. Per questo, ha iniziato una ricerca all’interno della rete e poi dei suoi contatti, per stilare un elenco di parole che, secondo le persone interpellate, rappresentasse una sorta di vocabolario minimo della pandemia. Ovviamente all’interno di questo e-book Parole contro la paura edito da Longanesi ritroviamo molti lemmi che riconosciamo come fondamentali di

questo periodo. Il testo è infatti strutturato come un vero e proprio dizionario, in cui le parole sono rigorosamente in ordine alfabetico. Allora non ci stupiamo di trovare: «mascherina», per esempio, o «virus». È molto interessante, però, prima di tutto che Gheno ci fornisca per ognuno di questi vocaboli, che ormai utilizziamo quotidianamente, l’etimologia, e non solo. Da sociolinguista quale è, Gheno analizza l’uso del vocabolo che si faceva prima dell’arrivo del Covid-19 e quello successivo. Ogni parola considerata ha quindi due sezioni: una definizione che comprende l’origine della parola e il suo utilizzo corrente, e una che si chiama «Zeitgeist» (spirito del tempo), in cui lo stesso vocabolo viene illustrato a partire dal senso e dalla diffusione che ha acquisito durante la pandemia. A queste due sezioni, poi, se ne aggiunge una terza che Gheno definisce «della nuvola». Per stilare un elenco di lemmi dalla A di «attesa» alla Z di «zombie», l’autrice ha ovviamente selezionato le parole che hanno avuto, nella sua ricerca, la maggiore frequenza. I vocaboli che sono rimasti fuori, ma che pure erano stati indicati dai parlanti come fondamentali, fanno parte della «nuvola»: un sottoinsieme di espressioni che appartengono allo stesso campo semantico e che le persone interpellate hanno dichiarato essere rilevanti.

Questo primo piccolo dizionario pandemico non ci dà solo la misura di quanto abbiamo tutte e tutti condiviso la stessa esperienza e quindi le stesse parole per nominarla, questo lo sapevamo già. Ci insegna delle cose: quanto sia ancora attuale il concetto di antilingua illustrato da Italo Calvino nel 1965, per esempio. L’antilingua secondo il grande scrittore italiano è quel linguaggio che viene creato e utilizzato per lo più dai burocrati, che nasce dal «terrore semantico cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato [...] Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente». Gheno riprende questa definizione geniale di Calvino per indicare le tantissime parole vuote di significato che vengono utilizzate in questa pandemia, soprattutto dagli esperti, ma anche dai governanti e più in generale da coloro che credono che utilizzando questo tipo di espressioni diventeranno più credibili. Ognuno può facilmente trovare un elenco di esempi di antilingua che circolano attualmente, per esempio: «dpcm», «congiunti», l’invito a «svolgere l’attività motoria nei pressi della propria abitazione»... Le parole sono importanti dice Nanni Moretti in una battuta del film

La sociolinguista Vera Gheno nel corso di un TED. (You Tube)

Palombella rossa (1989) divenuta proverbiale. Lo sono, sia perché raccontano la realtà in un certo modo, ma anche perché seppur immateriali, lasciano tracce indelebili. Le parole sono un insieme di segni, di significati che si stratificano, restano nella memoria e contribuiscono a creare la nostra visione del futuro. Bibliografia

Vera Gheno, Parole contro la paura, Longanesi, 2020, pp. 100.

Giorgio Thoeni In amore, per ogni gaudenza ci vuole sofferenza. È il titolo di un popolare film del 1971 di Gianfranco De Bosio ispirato a La Betìa del Ruzante (al secolo Angelo Beolco), una commedia legata al filone delle farse matrimoniali, genere poco discosto dai contrasti giullareschi del ’500. Lo prendiamo in prestito, anche se può far sorridere, per parafrasare l’impegno richiesto in campo digitale per sopperire all’assenza della liturgia teatrale tradizionale. È una soluzione immateriale, talvolta ambiziosa, orientata verso scenari oggi opportuni e necessari per alimentare la fiamma del desiderio prima di uscire dall’inquietudine generata da un lungo fioretto pandemico. Dunque, come per ogni atto d’amore vero, continuiamo a soffrire alla ricerca del piacere con proposte messe in rete. E fra le iniziative più sostanziose, ma anche piuttosto impegnative per la loro dimensione concettuale, certamente sono da annoverare quelle di Lingua Madre, il progetto creato e prodotto dal LAC. Dopo il debutto delle Poesie anatomiche di Francesca Sangalli con i movimenti di Camilla Parini e di Aspettando una nuova aurora di Cosimo Terlizzi, le capsule per il futuro del polo culturale luganese hanno proseguito la loro gemmazione digitale con Ci guardano. Prontuario di un innocente di Carmelo Rifici e Uncanny Valley di Stefan Kaegi. Con la prima l’autore punta la videocamera di Olmo Cerri (RAC) sugli allievi della Scuola «Luca Ronconi» del Piccolo di Milano per illustrare altrettanti monologhi. Un volo metaforico sull’essenza del teatro, sul linguaggio, sul corpo ma soprattutto sulla parola che circonda l’atto sacrificale alle origini della rappresentazione, fra il sacro e il profano, attraverso l’evocazione di temi e personaggi analizzati dal regista in questi ultimi anni. È un flusso di coscienza, come annota Rifici, che lascia trasparire la dimensione primordiale, onirica, cosmica e religiosa del teatro: da Isacco a Ifigenia, da Telemaco a Emily Dickinson, da Gesù Cristo a Artaud passando per Alfredino Rampi con belle e studiate immagini che rivivono la dimensione pittorica e simbolica di Velasquez, rincorrendo le origini del mito. Un lavoro altamente professionale in cui, accanto alle poetiche care al regista, emergono le qualità dei giovani interpreti insieme all’eccellente realizzazione filmata, curata nei minimi dettagli. Se questa produzione è ancora visibile sul sito, e la consigliamo, Uncanny Valley di Stefan Kaegi (Rimini Protokoll) è stato purtroppo lasciato in visione solo per un giorno ma verrà replicato il 22 aprile (22.00-23.00). Scritto con il drammaturgo Thomas Melle, affronta il tema degli androidi e della loro somiglianza agli esseri umani. Il video, in inglese sottotitolato in italiano, documenta il lavoro teatrale.


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cultura e Spettacoli

L’utopia di David Byrne

musica A poco più di un anno dal debutto a Broadway, «l’utopia americana» dell’ex Talking Heads

viene rivisitata in DVD in una versione d’autore Benedicta Froelich Per chiunque segua David Byrne fin dai tempi della sua militanza nell’indimenticabile formazione dei Talking Heads (tra il 1975 e il ’91), l’attività solista dell’eccentrico cantante scozzese ha sempre offerto apprezzate sorprese, soprattutto grazie alla costante capacità di reinventarsi e sperimentare sentieri inesplorati. Così, quando, nel 2018, l’artista ha pubblicato l’ottimo American Utopia, suo decimo album, non si è accontentato di farlo seguire da una tournée tradizionale; in linea con il proprio personaggio, ha preferito dare vita a un’esperienza dal vivo quantomeno singolare, oggi documentata da un elegante e patinato film musicale semplicemente intitolato David Byrne’s American Utopia. Diretto nientemeno che da Spike Lee e appena pubblicato sotto forma di DVD, il «tour movie» documenta la versione dello show presentata nell’ottobre 2019 all’Hudson Theatre di Broadway, dal format maggiormente affine a quello di un musical incentrato su temi di rilevanza sociale. La premessa di base dietro entrambe le versioni dello spettacolo – quella del world tour originale del 2018, come la reinterpretazione teatrale del 20192020 – è semplice quanto rivoluzionaria: fare del palco una sorta di pista circense, all’interno della quale l’intera band si muove costantemente nello spazio, componendo elaborate coreografie da avanspettacolo senza che i musicisti mantengano alcuna postazio-

L’eclettico David Byrne nel film musicale American Utopia. (YouTube)

ne fissa – tanto che, al pari che in una banda militare, perfino i percussionisti portano gli strumenti su di sé. L’intera performance assume così il carattere dinamico e liberatorio di un estemporaneo happening artistico, forse in un tentativo di rievocare l’irriverente genialità degli ausilii teatrali impiegati dai Talking Heads dei tempi d’oro e documentati dal regista Jonathan Demme nell’eccezionale documentario musicale Stop Making Sense (1984). Come detto, stavolta a fare di questa nuova esibizione un’opera cinematografica è invece Lee; ma bisogna dire che, per quanto intrigante, l’effetto generale della più recente creazione non regge del tutto il confronto con i fasti del passato – principalmente perché, alla lun-

ga, l’impressione che si ricava dall’impianto scenico di American Utopia è quella di uno show a tratti degno di una crociera del Club Mediterranée, in cui i poveri animatori di turno sono costretti a sfiancarsi in innumerevoli e infinite coreografie più o meno riuscite. Ciò è principalmente da imputarsi al fatto che ai tempi di Stop Making Sense, la presenza scenica e fisicità di Byrne erano dichiaratamente intrise d’irriverente ironia, eppure, allo stesso tempo, caratterizzate da grande semplicità – laddove invece i virtuosismi ossessivi di American Utopia finiscono per prendersi un po’ troppo sul serio, con il risultato di dare vita ad attimi di involontaria ilarità. Tuttavia, i punti di forza dello

spettacolo originale del 2018 restano, infine, i medesimi che il DVD offre allo spettatore: su tutti, il carisma e la presenza scenica degli eccellenti Tendayi Kuumba e Chris Giarmo, principali vocalist e figuranti nella numerosa band che accompagna Byrne sul palco; e l’ottimo effetto d’insieme offerto da una scaletta equilibrata, che passa con disinvoltura da classici dell’epoca d’oro dei Talking Heads come This Must Be the Place (Naive Melody) e Burning Down the House al più recente catalogo solista di Byrne. Purtroppo, come alcuni hanno lamentato, lo stile di regia impiegato da Lee mostra una grave ingenuità di base: nell’insistenza su primi piani e zoomate a fronte palco, trascura l’im-

portanza dell’effetto d’insieme, che nelle intenzioni di Byrne era invece un punto cardine del concept scenico. Il colpo d’occhio di cui lo spettatore del tour originale poteva godere dal proprio posto a sedere era infatti volto a enfatizzare l’effetto coreografico, grazie alla possibilità di percorrere con lo sguardo l’intero palco e apprezzare così la mimica e l’intricato arabesco di movimenti di ogni performer – cosa che invece si perde nelle riprese di questo film, spesso riducendo i vocalist e musicisti a sagome indistinte al limitare dell’inquadratura. A parte ciò, il DVD è naturalmente impeccabile dal punto di vista tecnico, anche grazie al fatto che il contesto dell’austero teatro newyorchese si rivela particolarmente favorevole alla realizzazione di un’opera di questo genere: anche per questo, l’estetica delle date di Broadway è stata gestita in modo consapevole e attento, così da fare dell’esperienza dal vivo un impeccabile prodotto audiovisivo – il tutto riuscendo comunque a mantenere l’entusiasmo ed «effetto sorpresa» delle più spontanee serate della tournée del 2018, a cui chi scrive ha avuto la fortuna di assistere. In tal senso, David Byrne’s American Utopia rappresenta un’opera più che riuscita, in quanto nuova, preziosa testimonianza della forza dell’immaginario tuttora fanciullesco del suo creatore, qui immortalato in tutta la sua freschezza – e che, con il senno di poi, presenta un vero e proprio potere salvifico. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 marzo 2021 • N. 13

43

cultura e Spettacoli

Le streghe che streghe non erano

Serie In giugno inizieranno le riprese di Stryx, la serie web in sei puntate di Camila Koller e Thania Micheli

che vuole sondare il ruolo avuto dall’Inquisizione nelle nostre terre

Daniela Delmenico Nel loro manuale per la caccia alle streghe, il Malleus Maleficarum, del 1487, i domenicani Institor e Sprenger scrivevano che «la credenza che esistono esseri quali le streghe è parte così essenziale della Fede cattolica che il sostenere ostinatamente l’opinione opposta sa manifestamente di eresia». L’idea che esistessero donne che, dopo aver rinnegato la fede e aver stretto un patto con il diavolo, praticavano magia oscura divenne all’epoca estremamente diffusa. A queste donne erano attribuite sciagure e incidenti di ogni tipo: malattie, morti, ma anche raccolti scarsi e animali che fuggivano dai loro recinti. Dal Cinquecento, si intensificò dunque, in tutta Europa, il fenomeno della caccia alle streghe. Anche i baliaggi italiani che oggi costituiscono il Ticino furono teatro di numerosi processi e condanne: le difficili condizioni di vita degli abitanti di quelle terre, la povertà, l’alto tasso di mortalità e le condizioni climatiche spesso sfavorevoli trovavano una loro spiegazione nell’azione del demonio e delle sue «collaboratrici», le streghe. L’Inquisizione colpì dunque duramente anche il Ticino, e in particolare le sue zone più discoste e rurali, come le Tre Valli. È questo il contesto nel quale è ambientata Stryx, una serie web in sei episodi ideata dalle attrici ticinesi Camila Koller e Thania Micheli, che narra, tra realtà storica e finzione, le vicende di

Thania Micheli, Camila Koller e Flavio Sala su quello che sarà uno dei set di Stryx.

due presunte streghe e dell’arrivo nel loro villaggio dell’arcivescovo Carlo Borromeo, figura chiave della lotta all’eresia nelle terre ticinesi della fine del Cinquecento. Come raccontano le due ideatrici, «la scelta della tematica nasce dall’unione di due aspetti: il nostro interesse per temi legati all’occulto e alla magia, e lo spunto dato da un volume che racconta le visite di Borromeo in Mesolcina e dunque la tematica

storica locale, forse ancora poco conosciuta, del ruolo dell’Inquisizione nella Svizzera italiana». Le due ideatrici spiegano che la scelta di distribuire la serie online risponde ad alcune necessità: «la prima è sicuramente quella di poter raggiungere anche un pubblico internazionale: in generale il nostro desiderio è quello di arrivare a sempre più persone senza paletti. Inoltre l’online, soprattutto

nell’ultimo anno di pandemia, ha mostrato tutte le sue potenzialità, ed è la forma che, in vari ambiti, è diventata predominante». Alla base del progetto vi è anche la promozione del territorio, con la scelta di location ticinesi, tra cui le valli Maggia e Bavona e la chiesa San Nicolao di Giornico, e il sostegno ad artisti locali: «abbiamo selezionato un cast di attori professionisti ticinesi, tra cui Flavio

Sala, che vestirà i panni di Carlo Borromeo». Camila Koller e Thania Micheli spiegano che «il progetto è interamente indipendente: abbiamo a tal proposito creato un’associazione, la Kaylah Films, che ci permette di produrre autonomamente i nostri lavori». L’idea, d’ispirazione anglosassone, è soprattutto quella di ridurre il più possibile le tempistiche di realizzazione: «il nostro obiettivo è quello di girare tra giugno e luglio. Al momento siamo a buon punto, dobbiamo solo occuparci di alcuni aspetti burocratici e soprattutto della raccolta fondi». Lavorare in maniera indipendente e con tempistiche rapide permette anche di contenere i costi, nonostante si tratti di un prodotto di qualità: «utilizziamo materiali di seconda mano, prestati, riciclati e, appunto, facciamo quasi tutto noi... però dei costi ci sono comunque. Per questa ragione, con l’intento di coinvolgere tutti coloro che lo desiderano e che credono nel nostro progetto, abbiamo creato un crowdfunding, che si può trovare sul sito www.eroilocali.ch/stryx». Quella della caccia alle streghe è una tematica che, pur appartenendo a un passato lontano, è anche attualizzabile: «è un termine che oggi usiamo in molti contesti, legati alla discriminazione e alla paura del diverso, che nasce dall’ignoranza, proprio come cinquecento anni fa». In fondo, come scrisse Voltaire, «le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle». Annuncio pubblicitario

miseria & cumbia netflix Non sono più qui, il capolavoro

messicano alla conquista degli Oscar Simona Sala Non sono più qui, recita il titolo del lungometraggio messicano di Fernando Frías de la Parra, candidato come miglior film straniero ai prossimi Oscar, che si terranno, ovviamente in «modalità covid», il 25 aprile. Un’assenza, quella annunciata nel titolo, che non è solamente fisica, ma che tende a rappresentare quel vuoto di senso e di speranza che contraddistingue a volte le vite degli ultimi e dei dimenticati. Siamo a Monterrey, in Messico, in un quartiere dominato dalla miseria e in cui i cartelli della droga prendono ogni giorno più piede, non da ultimo perché, a differenza dello Stato, si fanno carico di approvvigionare la popolazione di cibo garantendo al contempo una forma di sicurezza. Il protagonista Ulises (recitato dallo straordinario Juan Daniel García Treviño), inconfondibile zazzera da

La cumbia come danza della vita.

galletto e vestiti larghissimi, vive solo per la cumbia, genere di danza originariamente proveniente dalla Colombia. Fa parte dei terkos, una piccola gang di quartiere tutto sommato innocua, appunto perché si dedica prevalentemente alla danza. Le sue giornate trascorrono serene fino al giorno in cui la sua umile ma poetica traiettoria entra in conflitto con quella delle persone sbagliate, catapultandolo così in una situazione di pericolo tale da doversi mettere in salvo – clandestinamente, va da sé – negli USA. La pellicola, fortemente amata da Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro (che hanno fatto di tutto per candidarla agli Oscar) e Almodóvar (che l’ha definita la migliore dell’anno), grazie a una fotografia quasi sospesa e alla bravura interpretativa di García Treviño, senza alcuna formazione attoriale, ma preso direttamente dalla strada, già dopo poche scene si rivela per quello che è: un piccolo capolavoro della contemporaneità, dove la violenza e l’inderogabilità di un certo tipo di destino, sono contrastate dall’arma più potente ed efficace che si possa immaginare, la musica. Diventano quindi quasi ipnotiche le bellissime scene di danza d’insieme, dove ballerine e ballerini dimenticano per un istante l’incerto quotidiano, per sprofondare con dedizione quasi mistica in uno stato di ipnosi collettiva. Ya no estoy aquí, ora su Netflix, si trasforma dunque in un bruciante ritratto dell’attualità, delle problematiche legate ai flussi migratori, alle gang e all’alienazione personale, ma è anche grande cinema in stato di grazia. Per quelle atmosfere, che non dimenticheremo tanto facilmente, e per una storia, che più intima e meglio raccontata di così non si poteva.

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Carne e salumi

Ogni boccone una delizia

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30% Cosce di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, 4 pezzi, al kg, 9.– invece di 13.–, in self-service

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Migros Ticino

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Mini filetti di pollo Optigal Svizzera, in conf. speciale, per 100 g

Costine carré di maiale Svizzera, per 100 g, in self-service

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Entrecôte di manzo Black Angus M-Classic Uruguay/Paraguay, in conf. speciale, 2 pezzi, per 100 g

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Pesce e frutti di mare

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PUNTI

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Sugo pronto allo scoglio con pomodoro Esca, MSC, ASC surgelato, 450 g

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Filetti Gourmet Potato Pelican, MSC prodotto surgelato, 380 g


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Filetto gourmet alla bordolese Alnatura prodotto surgelato, 320 g

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Twister alle patate dolci cotto su pietra TerraSuisse Limited Edition, 400 g, prodotto confezionato

Filetti di salmone con pelle Pelican, bio surgelati, 250 g

Migros Ticino

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Formaggi e latticini

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Migros Ticino


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Sbrinz, AOP per 100 g, confezionato

Il Grana Padano grattugiato è perfetto per insaporire pasta e zuppe. Questo formaggio extra duro già grattugiato può essere congelato e usato direttamente dal congelatore. Si conserva per 3-4 mesi.

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Grana Padano grattugiato 3 x 120 g

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Couscous M-Classic

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20% Tutta la pasta fresca Garofalo per es. Girasoli funghi Porcini, 250 g, 5.20 invece di 6.50

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3.95 Migros Ticino

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Pizza al tonno Gustavo Gusto surgelata, 475 g

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marmorizzate o al limone, per es. marmorizzate, 2 x 225 g

Bretzeli, croccantini alle mandorle o snack al burro, per es. Bretzeli, 3 x 100 g, 5.30 invece di 7.65

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Migros Ticino

Biberli d'Appenzello 6 pezzi, 450 g, prodotto confezionato

Pom-Bär Original e alla paprica, in conf. speciale, per es. Original in edizione primavera, 200 g

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Fiori e giardino

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Phalaenopsis, 2 steli, decorata in vaso di ceramica, Ø 12 cm, il vaso

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Erbe aromatiche vaso, Ø 9 cm

Rose M-Classic, Fairtrade

Riempire per alcuni centimetri il vaso di acqua fresca (mai ghiacciata) e aggiungere il conservate accluso. Tagliare i tulipani con un coltello in perpendicolare e infilarli nel vaso. Attenzione: i tulipani hanno molta sete e necessitano spesso di nuova acqua.

mazzo da 10, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. gialle e arancioni, il mazzo

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Meraviglia di tulipani M-Classic mazzo da 20, disponibili in diversi colori, per es. gialli-gialli e rossi-rossi, il mazzo

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