Cooperativa Migros Ticino
Società e territorio Il ritratto di trenta atlete per raccontare cinquant’anni di sport svizzero al femminile
ambiente e benessere Una rete di professionisti super partes per preservare il diritto di ogni paziente di essere ben informato: ce ne parla il dottor Thomas Lacina
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 6 aprile 2021
azione 14 Politica e economia Joe Biden lancia un maxi piano di investimenti pubblici. Cosa può andare storto?
cultura e Spettacoli Al m.a.x. museo di Chiasso una mostra celebra le incisioni del Settecento-Ottocento
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Keystone
ricordando Stravinsky
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la globalizzazione incagliata di Peter Schiesser Ogni tanto, un evento ci ricorda che la nostra ipertecnologizzata e globalizzata realtà è tanto complessa quanto fragile. La vicenda della nave cargo Ever Given, lunga 400 metri e pesante 220mila tonnellate, rimasta incagliata nel Canale di Suez per quasi una settimana, è uno di questi. È bastata una tempesta di sabbia e forse qualche errore umano per aver ragione di una delle navi cargo extra large dell’ultima generazione, capaci di trasportare fra i 18mila e i 24 mila container (se ne contano 133 nel mondo e altre 53 sono in costruzione o pianificazione). Un embolo che per quasi una settimana ha condizionato il sistema mondiale dei trasporti marittimi. D’altronde, per il Canale di Suez transita il 12 per cento del commercio mondiale e il 40 per cento delle merci esportate dalla Cina. Il danno stimato inizialmente in 10 miliardi di dollari al giorno per il blocco del Canale di Suez dev’essere ancora confermato, ma ci indica la misura di grandezza. Navi come la Ever Given sono l’emblema della globalizzazione che ha investito il pianeta dalla fine degli anni Ottanta: il progresso tec-
nologico ha reso più rapidi i collegamenti marittimi fra i continenti con navi più capaci, a sua volta ciò ha accelerato la globalizzazione. Non solo sono aumentati gli scambi commerciali ma si è creato un sistema mondiale di produzione in cui risulta più conveniente creare componenti di un oggetto in diversi paesi, assemblarli in un altro ancora e poi distribuirli laddove richiesti. In questo modo si è potuto sfruttare l’enorme bacino di manodopera a basso costo, soprattutto in Cina ma anche in numerosi paesi asiatici e latinoamericani (a detrimento dei lavoratori nei paesi occidentali). Un sistema che, grazie ad abbordabili prezzi finali, ha gonfiato i consumi mondiali. Tuttavia, la vicenda della Ever Given ha mostrato che una catena di produzione dalle maglie così larghe alla fine si dimostra rischiosa: basta un intoppo serio e subito si rischiano ritardi nelle consegne che a loro volta si tramutano in scaffali vuoti, visto che si tende sempre meno a stoccare le merci per lungo tempo in depositi. Questo della supernave cargo non è l’unico esempio negli ultimi decenni, ma ha riportato l’attenzione sui colli di bottiglia presenti nel sistema dei trasporti marittimi mondiali. E non sono pochi, alcuni sono strutturali, altri si creano per contingenze precise: per esempio, leg-
go sul «Tages Anzeiger», da mesi i porti californiani di Long Beach e Los Angeles non riescono a gestire le navi in arrivo, a dozzine restano all’ancora, dapprima a causa delle norme igieniche anti-Covid e delle restrizioni imposte a chi lavora al porto e agli autotrasportatori, poi perché c’è stato un boom di richieste di prodotti dalla Cina da parte dei consumatori americani; la situazione appare più complicata nei porti della Cina, dove le esportazioni sono nuovamente esplose ma non ci sono container a sufficienza, inoltre i marinai sono obbligati a vaccinarsi (con un vaccino cinese) per poter entrare in porto, ciò che provoca ritardi in media di sei giorni. Infine, c’è un altro pericolo per la globalizzazione: l’instabilità politica che deriva dalla guerra fredda fra Stati Uniti e Cina e porta con sé un ripiegamento sul protezionismo. Le grandi industrie americane ed europee diventano consapevoli dei rischi di una catena di produzione che comprenda la Cina ed altri paesi instabili, per cui da una parte aprono siti di produzione in altri paesi asiatici, in parte però la crescente informatizzazione dei processi produttivi rende di nuovo pagante produrre in casa propria. La Ever Given è davvero un’emblema della globalizzazione, oggi un po’ incagliata.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Società e territorio genitori e scuola La Conferenza cantonale dei genitori è un importante punto di riferimento per le famiglie pagina 3
Storie per volare Nel reparto di pediatria del San Giovanni di Bellinzona alcuni attori professionisti interpretano storie per i pazienti, ora il menu di letture è diventato digitale pagina 6
architettura in ticino La nuova sede dell’USI e della SUPSI inaugurata a Lugano lo scorso 22 marzo e il nuovo edificio della SUPSI a Mendrisio: due architetture a confronto pagina 7
cinquant’anni di sport al femminile Pubblicazioni Negli anni 70 le donne
svizzere conquistarono il diritto di voto e iniziarono ad essere sempre più presenti nel panorama sportivo nazionale: in un libro il ritratto di trenta atlete
Natascha Fioretti Cinquant’anni dalla conquista del voto alle donne, cinquant’anni di sport femminile svizzero raccontato da trenta atlete fuoriclasse che hanno scritto la storia dello sport nazionale in diciotto discipline diverse. Dallo sci, al dressage, al tennis, al triathlon, al canottaggio fino all’atletica in carrozzina. L’idea è che ciascuna di queste esperienze possa essere d’esempio per le giovani generazioni, possa insegnare che con l’impegno, la disciplina e la forza di volontà i traguardi possono essere raggiunti e dai fallimenti si può risorgere. Poi naturalmente è inutile farsi illusioni, il mondo dello sport resta marcatamente maschile con i riflettori puntati sulle solite discipline e i pochi, noti atleti. I media e il pubblico seguono poco gli sport femminili e il piatto delle sponsorizzazioni è più povero. Fatta eccezione per il tennis e lo sci anche la disparità salariale è notevole. Un esempio pratico: secondo un articolo della «NZZ am Sonntag» il guadagno complessivo annuale delle 1700 migliori calciatrici al mondo non raggiunge quello del calciatore brasiliano Neymar. Nonostante gli ostacoli però le donne sono capaci di imprese eccezionali e l’immagine in copertina di Nicola Spirig, triatleta olimpica, la dice lunga. Ben venga dunque il libro Frauenpower uscito per l’editore Kebisch, per ora disponibile solo in tedesco, che ha anche il merito di ricordare alle giovani stelle di oggi che le loro opportunità sono il frutto delle pioniere di ieri. Ne parliamo con Marco Keller, giornalista sportivo del «TagesAnzeiger», coautore insieme ai colleghi Monica Schneider e Peter M. Birrer. marco Keller, il libro esce per i 50 anni del diritto di voto alle donne, quale atleta migliore per iniziare a raccontarlo se non marie-thérèse nadig, campionessa olimpica di sci a Sapporo nel 1972, l’anno in cui la Svizzera per la prima volta si presentò con una delegazione femminile. mi pare che le sciatrici in questo libro siano in maggioranza.
Lo sci è sempre stato uno dei nostri sport nazionali e in quell’epoca, dagli anni 70 fino agli anni 90, le donne
hanno vinto tantissimo. Basti pensare alla Figini, alla Hess o alla Schneider, eravamo una nazione di sci. Michela Figini l’ho intervistata a Prato Leventina, nella sua casa natia. Una donna molto positiva e coraggiosa capace di sfidare discese troppo ardite anche per gli uomini.
la nadig ci racconta come ai suoi tempi nello sport non si guadagnasse granché mentre oggi il denaro ha assunto una tale importanza da mettere in secondo piano lo sport. cosa ne pensa?
È così. Martina Hingis, prima stella dello sport svizzero a livello mondiale, quando vinse gli US Open portò a casa un milione di euro. Oggi chi vince gli US Open ne guadagna almeno tre volte tanto. Eppure non le importa, non avrebbe voluto gareggiare in tempi diversi dai suoi solo per guadagnare di più. resta il fatto che le atlete guadagnano meno dei colleghi uomini?
Se guardiamo l’hockey e il calcio non c’è paragone tra i compensi degli uomini e delle donne. A questo si aggiunge che lo sport femminile si è professionalizzato più tardi. Ma proprio qui risiede il valore aggiunto del nostro lavoro. Mostrare, nonostante le difficoltà, quanti traguardi si possono raggiungere. Mostrare quanto è stato fatto dalle pioniere, raccontare i percorsi difficili di atlete come la calciatrice Lara Dickenmann o la ginnasta Giulia Steingruber perché possano essere d’ispirazione. Proprio la Steingruber, prima donna svizzera a vincere una medaglia d’oro europea individuale, rientrata da un lungo infortunio si è sentita chiedere da un giornalista se non ci si possa più aspettare risultati migliori…
Anche per Martina Hingis, numero uno del mondo a 16 anni, il rapporto con i media non è sempre stato facile. Lei stessa ammette che oggi molte cose le formulerebbe in maniera diversa. Molti giornalisti pensano ai click e parlano sempre degli stessi atleti a tal punto – pensiamo ai calciatori – che non resta più nulla da dire. Si parla anche di sport paralimpico, quanta attenzione c’è in Svizzera?
In copertina la triatleta Nicola Spirig.
Edith Wolf racconta entusiasta dei giochi Olimpici di Londra 2012 e dello stadio pieno. L’emozione di gareggiare davanti a 80’000 persone ed essere considerate delle vere atlete. Nazioni come la Gran Bretagna vivono lo sport più intensamente della Svizzera. Avere nel libro la Wolf e la Schaer, mi ha fatto felice, le atlete paralimpiche sono delle vincitrici in partenza.
c’è chi a causa del covid ha perso il proprio compagno, chi come la dressagista christine Stueckelberger, ancora in sella a 74 anni, si è dovuta reinventare. In che modo il covid ha cambiato la vita delle atlete?
Abbiamo cercato di non mettere troppo l’accento ma è stato onnipresente. L’incontro con Erika Hess è stato molto intenso, è stata il mio idolo di gioventù. Quando ad un certo punto ha accennato al marito scomparso non ho potuto non chiederle. Le sono scese le lacrime ma è stata contenta di poterne parlare,
alla fine mi ha ringraziato. Giulia Steingruber aveva pianificato di ritirarsi dopo le Olimpiadi di Tokyo, dunque nel 2020, e ha dovuto rinviare i suoi piani riorganizzando gli allenamenti, la ricerca degli sponsor… Il momento è difficile, bisogna adattarsi. Pensando all’adrenalina che muove le atlete, qual è l’adrenalina del giornalista sportivo?
Oggi tutto va verso la digitalizzazione, nei quotidiani si lavora a ritmi più rapidi e nell’online ci si concentra sui click da raggiungere. Personalmente preferisco lavorare su tematiche di più ampio respiro con la possibilità di approfondire e guardare più lontano. È una delle ragioni per cui è nato questo libro, abituato al mondo del tennis e dell’hockey, mi ha affascinato raccontare diverse discipline sportive.
le carriere sportive finiscono presto. gli atleti spesso diventano allenatori, succede anche alle donne?
No, pochissime donne restano. Tante
per scelta perché dopo la loro carriera scelgono di diventare madri. Altre perché non c’è posto per loro. In altri paesi come gli Stati Uniti in termini di parità e inclusione sono molto più avanti rispetto alla Svizzera.
c’è Florence Schelling, una carriera nell’hockey su ghiaccio, ora alla guida dell’Sc berna. Prima direttrice sportiva al mondo di una squadra maschile di professionisti. non male, mi sembra…
È un passo avanti ma le critiche sono state enormi: è capace di farlo? Si sono chiesti in molti. Non sarebbe mai successo con un uomo.
Prima di iniziare l’intervista mi diceva che le vendite online del libro stanno andando bene?
Ora si trova anche nelle librerie. Tanti gli ordini che stanno arrivando, per il settanta per cento da parte delle donne. Un bel risultato, bisognerebbe però che lo leggessero anche gli uomini.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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l’incontro tra famiglia e scuola
genitori La Conferenza cantonale dei genitori esiste dal 1998 e svolge un ruolo fondamentale nel sostenere,
informare e coinvolgere le famiglie sulle questioni che riguardano la scuola e la genitorialità Stefania Hubmann La voce della Conferenza cantonale dei genitori (CCG), ente mantello delle assemblee dei genitori degli istituti scolastici, si è sempre levata puntuale e credibile sulle questioni che coinvolgono le famiglie e la scuola. A maggior ragione lo ha fatto nel ruolo di interlocutore delle istituzioni durante la pandemia di fronte allo choc della temporanea chiusura delle scuole la scorsa primavera. La CCG, attiva dal 1998, ha continuato da un lato a rimanere all’ascolto dei bisogni delle famiglie attraverso un sondaggio, dall’altro tenendo un dialogo continuo con le istituzioni e l’opinione pubblica. L’emergenza sanitaria ha rappresentato anche per i genitori e la scuola una sfida enorme che ha però permesso a tutti i suoi protagonisti di maturare una nuova consapevolezza dei propri ruoli. Questa riflessione del presidente della CCG, Pierfranco Longo, evidenziata anche nel corso della recente assemblea dell’associazione, trova riscontro in studi dell’Università della Svizzera italiana (USI) presentati nella medesima occasione. La Conferenza cantonale dei genitori ha ribadito con forza il carattere di «servizio pubblico essenziale» della scuola in presenza anche in un comunicato stampa dello scorso gennaio, a seguito di un possibile ritorno all’insegnamento a distanza ipotizzato dagli esperti scientifici. «Non dobbiamo perdere di vista i contenuti, ma nemmeno i numeri dell’universo scolastico», spiega Pierfranco Longo ad «Azione». Sui primi precisa: «La scuola è un luogo fisico indispensabile non solo per la formazione, ma anche per la crescita personale. Oltre alle esigenze di apprendimento, va infatti considerato il bisogno di contatto e confronto diretto con i propri compagni. Questo periodo difficile ha poi accresciuto la consapevolezza di quanto sia essenziale per i giovani il contatto quotidiano con i docenti che, oltre ad essere insegnanti, sono importanti figure di riferimento». I numeri dimostrano invece la portata delle decisioni che riguardano il settore scolastico. Il presidente della CCG: «La scuola garantisce il diritto allo studio e un luogo di cresci-
ta a circa 56mila minori appartenenti a circa 34mila famiglie: è quindi evidente che quasi un terzo della popolazione ticinese è direttamente coinvolto nel mondo della scuola». Anche per questo motivo l’insegnamento a distanza della scorsa primavera, associato al telelavoro degli adulti, ha creato un disagio non trascurabile, prontamente espresso dai genitori nel sondaggio promosso dalla CCG in aprile, al quale hanno aderito oltre 2500 nuclei familiari. Precisa Pierfranco Longo: «Il periodo di chiusura e riapertura parziale della scuola è stato complicato e gravoso per gli allievi, i loro genitori e i docenti, segnatamente per quanto concerne la scuola dell’obbligo. Il lockdown ha imposto a tutti di collaborare e riorganizzarsi velocemente alla continua ricerca di un nuovo equilibrio. Il telelavoro, ad esempio, considerato di principio un’opportunità per meglio conciliare impegni professionali e familiari, in quel contesto si è rivelato un fattore di difficoltà». Il presidente della Conferenza cantonale dei genitori rileva quindi come la decisione delle autorità scolastiche e sanitarie cantonali di garantire la ripresa della scuola in presenza a partire dallo scorso settembre sia stata estremamente positiva per gli allievi e le loro famiglie, con un impatto favorevole anche sul buon funzionamento del resto della società.
Pierfranco Longo, presidente della Conferenza cantonale dei genitori.
La CCG rimane all’ascolto delle famiglie anche attraverso sondaggi online. (www. genitorinforma.ch)
Scuola in presenza/a distanza e uso dei media durante l’emergenza sanitaria sono i temi ai quali è stata dedicata la parte di approfondimento dell’assemblea annuale della CCG, svoltasi in collegamento digitale lo scorso 24 marzo. Sul primo tema si è soffermato il pediatra Giacomo Nobile, presidente dell’Associazione dei pediatri della Svizzera italiana. Anne-Linda Camerini, ricercatrice all’USI, ha invece presentato tre studi e in particolare alcuni dati relativi all’impatto della pandemia sull’uso dei media e su altre attività importanti per lo sviluppo dei giovani. I primi risultati dello studio Corona Immunitas Ticino (iniziato per i giovani e le loro famiglie lo scorso settembre e riferito a prima, durante e dopo il lockdown) confermano che il confinamento ha provocato un notevole aumento del tempo trascorso davanti allo schermo per scopi didattici (scuola a distanza) come pure durante il tempo libero. Rilevata anche una riduzione dell’attività fisica, mentre il tempo passato a dormire è solo leggermente aumentato. «Il campione rappresentativo composto da circa 600 bambini e 400 adolescenti – spiega la ricercatrice – fornisce però anche un’indicazione incoraggiante. Riprendendo a settembre un ritmo di vita normale grazie alla riapertura delle scuole, le abitudini sono infatti tornate al livello precedente
l’emergenza, tranne un leggero aumento dell’uso dei media negli adolescenti, in parte ancora legato a esigenze scolastiche. Lo studio conferma quindi l’importanza della strategia del Cantone di mantenere aperte le scuole e di permettere le attività sportive extrascolastiche per i giovani». L’approfondimento di tematiche attuali legate alla scuola e alla genitorialità con relativa diffusione dell’informazione al pubblico è un’attività caratteristica della CCG. Da segnalare, al proposito, il prossimo 17 aprile la conferenza sul tema «Adolescenza: i segnali del disagio che i genitori non dovrebbero perdere di vista, anche in tempo di pandemia» prevista dalle 9 alle 11.30 via Zoom. L’ente è inoltre impegnato a promuovere il confronto e il dialogo nelle istituzioni e nella società civile, in particolare fungendo da collegamento fra le assemblee dei genitori locali e le istituzioni cantonali sulle questioni principali. Per il suo presidente, entrato in carica nel 2020 dopo alcuni anni di esperienza in qualità di membro, l’aspetto associativo a livello locale è fondamentale ed auspica che questa emergenza possa averlo fatto riscoprire a molti genitori. Aggiunge Pierfranco Longo: «L’anno scorso ci siamo concentrati sugli effetti della pandemia, organizzando diversi incontri tra alcune
assemblee di genitori e la direzione del DECS sulla riapertura della scuola e le direttive per la scuola a distanza. Queste esperienze hanno confermato che le assemblee dei genitori di ogni istituto possono giocare un ruolo fondamentale nell’interesse degli allievi. Esse sono d’altronde riconosciute dalla Legge della scuola tra le componenti di quest’ultima, insieme alle direzioni scolastiche e ai collegi dei docenti. Costituirle non è un obbligo, ma una grande opportunità di crescita collettiva. Per la maggior parte dei genitori il ciclo di maggiori responsabilità familiari coincide con quello di un accresciuto impegno professionale, ciononostante l’impegno profuso nelle assemblee si traduce, oltre che in un’azione immediata a favore dei propri figli e degli adulti di domani, in un valore aggiunto personale». L’interesse e l’adesione dimostrati dalle famiglie in questo ultimo anno dovrebbero quindi rimanere vivi e tradursi – negli auspici della Conferenza cantonale dei genitori – in un impegno concreto a lungo termine per rendere più forte e coesa la comunità educativa e quella locale. Informazioni
www.genitorinforma.ch info@genitorinforma.ch
Viale dei ciliegi di letizia Bolzani alexis deacon, Bilù, editrice Il castoro. da 3 anni Un volume di culto della letteratura per l’infanzia anglosassone, uscito nel 2003 e selezionato tra i migliori dell’anno dal «New York Times», esce ora in italiano dalla casa editrice Il Castoro e, nella sua sapiente semplicità, arriva dritto al cuore di grandi e piccini. Perché è una storia di spaesamento. Come, in fondo, tutte le migliori storie. Sentirsi spaesati, fuori luogo, diversi, è ciò che connota ogni vero eroe, da Ulisse, ai più piccoli e miti eroi, o antieroi, per l’infanzia. Perché ogni bambino è «fuori luogo», e si sente, a tratti, uno spaesato. Bilù è una piccola extraterrestre, quindi incarna letteralmente uno straniamento: è caduta sulla terra per errore, «non doveva trovarsi lì. Si era persa». Cerca di farsi capire, o almeno ascoltare, ma nessuno le dà retta. Lei parla un linguaggio diverso, però con i bambini una qualche forma di comunicazione, fatta di gioco e di abbracci, è possibile. Ed è qui che si
può creare un legame, perché queste sono cose che tutti ci accomunano. E anche perché ciò di cui Bilù ha più bisogno, proprio come ogni bambino di questa Terra, è la sua mamma. Che arriverà a prenderla, nel lieto fine, e a portarla via. Ma Bilù conserverà per sempre un dono che proviene dai bimbi alieni («alieni» rispetto a lei, e questo, per i piccoli lettori, è un bell’esercizio di agilità prospettica): un cerchio rosso, oggetto di un fugace momento di gioco condiviso e al contempo oggetto-ricordo di un amore che resterà, anche a distanza, per sempre.
roald dahl, I Minipin, Salani. da 6 anni È l’ultimo racconto di Roald Dahl e uscì trent’anni fa, un anno dopo la sua morte. Un’avventura dalle coloriture fiabesche, dentro un bosco che ha la funzione di un Altrove incantato, a tratti più tenera e meno caustica di altre storie del grande scrittore britannico, questa storia ci racconta del Piccolo Bill, che un bel giorno, mentre la mamma sta stirando nell’altra stanza, decide di infrangere il grande divieto, uscendo dal giardino e addentrandosi nella temibile «Foresta del Peccato», quel «bosco stregato» del quale si dice che «tanti ci entrano e nessuno è tornato». Ma le avventure, si sa, si reggono sui divieti infranti, e del resto, come Bill sa bene, «tutte le cose permesse erano noiose e tutte le cose proibite erano affascinanti». E così Bill si addentra nella foresta e come in ogni fiaba che si rispetti deve affrontare il Male, che qui è raffigurato da mostri dai nomi in cui si concentra tutta la spassosa creatività linguistica
dell’autore, culminante nel mostro peggiore di tutti, il Terribile Sputacchione Succiasangue Tritadenti Sparasassi. Ma Bill saprà dimostrarsi coraggioso e, come in ogni fiaba che si rispetti, riuscirà a sconfiggerlo. Ciò che dà il tono a tutta la storia è però il piccolo popolo dei Minipin, creaturine minuscole, che vivono negli alberi e che per spostarsi si servono dell’aiuto degli uccelli della foresta, i quali li portano «in groppa». Sono loro, i Minipin, comprimari e aiutanti del protagonista, l’ultima incantevole invenzione di Dahl. Vivono in casine dentro la
corteccia degli alberi e il loro mondo incarna quella «miniaturizzazione» da casa di bambole (o da omini Playmobil) tipica della letteratura per l’infanzia, in cui spesso troviamo personaggi rispetto ai quali i bambini sono dei giganti: come la saga degli Sgraffignoli (The Borrowers) di Mary Norton, o Peter e Petra di Astrid Lindgren, solo per fare due esempi. Minipin era già stato pubblicato in italiano, da Salani (come tutta l’opera di Dahl) nel 2004, con belle illustrazioni di Patrick Benson. Ora Salani lo ripubblica, con più immagini, stavolta a firma di Quentin Blake, artista che ha illustrato quasi tutti i romanzi di Dahl. Una storia perfetta anche da leggere ad alta voce, che si chiude con l’intenso messaggio che il nostro autore ci ha voluto lasciare, e che in fondo racchiude il senso della sua intera opera: «soprattutto osservate con occhi sfavillanti tutto il mondo intorno a voi, perché i più grandi segreti sono sempre nascosti dove meno ve li aspettate. Ma chi non crede nei prodigi non li scoprirà mai».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Idee e acquisti per la settimana
Per una pulizia da «eroi» sostenibile novità Migros introduce alcuni detergenti ecologici per una pulizia quotidiana impeccabile
La marca tedesca «Blaue Helden» (eroi blu) è da poco approdata nei negozi Migros con una selezione di detergenti innovativi e sostenibili per la pulizia della casa. Biodegradabili, vegani, non testati sugli animali e privi di microplastiche, i prodotti «Blaue Helden» contribuiscono a dare un prezioso contributo nel rendere il mondo più pulito e porre un freno all’enorme quantità di plastica monouso utilizzata. Il concetto di «Blaue Helden» è davvero semplice: è sufficiente acquistare uno Starter Set composto da un flacone «degli eroi» e da una Power Tab a scelta. Si riempie il flacone con dell’acqua del rubinetto, si aggiunge la Power Tab e in pochi minuti si ottiene il detergente desiderato per la pulizia efficace del bagno, dei vetri, dei piatti o ancora un detergente universale. Una volta che il flacone è vuoto, basta acquistare una delle quattro Power Tab di ricarica e ripetere l’operazione. Il flacone può essere utilizzato all’infinito, oppure se ne può utilizzare anche uno già in proprio possesso. Inoltre, per ogni Power Tab venduta, «Blaue Helden» raccoglie una bottiglia di plastica dalle spiagge di tutto il mondo per un «Doppio effetto eroico». Questa iniziativa è resa possibile grazie ad una collaborazione con «Plastic Bank», organizzazione che ha dichiarato guerra ai rifiuti di plastica e che lotta anche contro la povertà nei paesi in via di sviluppo. Non da ultimo, grazie ai prodotti «Blaue Helden» si evita di dover portare in giro flaconi pesanti e si risparmia molto spazio in casa.
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la camellia japonica
attualità Il bellissimo ed elegante fiore questa settimana in offerta
speciale alla vostra Migros
ananas sbucciato in soli 20 secondi
attualità I clienti del supermercato Migros di
S. Antonino possono usufruire di un pratico servizio di sbucciatura istantanea dell’ananas
camellia Japonica vaso 18 cm Fr. 13.70 invece di 25.– azione 45% di sconto dal 7 al 12.04
Originaria dell’Estremo Oriente, dove è coltivata da molti secoli a scopo ornamentale e alimentare, la camellia può contare su oltre duecento specie diverse. Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che il tè è ottenuto dalle foglie della Camellia sinensis. La camellia fu introdotta in Europa attraverso la Gran Bretagna e il Portogallo agli inizi del 1700, precisamente la varietà japonica, una delle più popolari e apprezzate dagli amanti dei fiori. Vicino a noi, dalla prima metà del 1800 la pianta si diffuse in modo particolare sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. In questa regione trovò fin da subito le condizioni pedoclimatiche favorevoli alla sua coltivazione, tanto che ancora oggi sono numerosi i floricoltori che si sono spe-
cializzati nella sua produzione e commercializzazione in tutta Europa. La Camellia japonica è un arbusto sempreverde che può raggiungere i sei metri di altezza. Si caratterizza per i suoi fiori dalle forme e colori variegati che vanno dal bianco al rosa, fino al rosso, in grado di sviluppare spesso magnifiche screziature. La fioritura avviene tra febbraio e maggio. È una pianta facile
da coltivare, sia in vaso che in piena terra, e predilige i terreni acidi. Il terreno va mantenuto umido, ma non fradicio. Se piantata in giardino, badare a che sia in una zona non a sole diretto. Per ottenere una bella fioritura, è utile concimare il terreno regolarmente – ca. ogni due settimane – utilizzando un concime per acidofile, che assicura alla pianta gli elementi nutritivi di cui ha bisogno.
Si chiama Pinabar e permette di avere il proprio ananas perfettamente sbucciato e pronto da mangiare in soli 20 secondi. Questo innovativo apparecchio automatico sbuccia-ananas – una prima a livello ticinese - introdotto per il momento come test pilota solo al reparto frutta e verdura del punto vendita Migros di S. Antonino, si caratterizza per la massima semplicità di utilizzo e igiene. Dopo aver inserito il proprio ananas nella macchina, si chiude lo sportello, si colloca un secchiello di plastica nella parte inferiore e si preme il pulsante: in pochissimi
secondi il frutto viene completamente sbucciato e lasciato cadere nel contenitore. Tutta l’operazione può essere osservata attraverso la porta trasparente. Il cliente chiude il secchiello con il coperchio messo a disposizione e può recarsi subito alla cassa, pagando un piccolo supplemento di 1 franco per il servizio. Pinabar vuole essere una risposta alle nuove esigenze dei consumatori che cercano prodotti freschissimi e sani, ma che al contempo siano pratici e veloci da consumare sia a casa, sul posto di lavoro oppure durante il tempo libero.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Idee e acquisti per la settimana
deliziose ali di pollo
attualità Saporito e facile da preparare,
questo taglio del pollo si presta a molte irresistibili ricette
Grigliate, al forno, fritte o in padella, le ali di pollo sono un saporito piacere – da gustare rigorosamente con le mani – a cui pochi sanno resistere. Tra le ricette più famose al mondo che le vedono protagoniste, come non citare le Buffalo Wings della cucina americana, dove le alette vengono prima fritte fino a perfetta doratura e poi immerse in una salsina piccante a base di tabasco e burro. Per regalarvi un’esperienza gustativa a tutto tondo, anche la qualità del pollame gioca un ruolo importante. Scegliendo per esempio le ali di pollo a marchio proprio Optigal potete essere sicuri di scegliere un prodotto eccelso, prodotto in Svizzera per la Svizzera, dove prossimità, particolare rispetto per gli animali e freschezza sono garantite. I rigidi standard di qualità degli allevamenti Optigal prevedono che i polli abbiano sempre accesso ad un’area esterna, ampi spazi per razzolare, posatoi rialzati per riposare e una buona
illuminazione naturale dei pollai. L’alimentazione è costituita esclusivamente da foraggi di origine vegetale, come cereali, semi di girasole, piselli, soia, come pure sali minerali e vitamine. Ecco una semplice ma saporita ricetta per chi ama il piccante: ungere delle ali di pollo con una salsina composta da burro fuso, tabasco, paprica, curcuma, cipolla e aglio in polvere, salsa bbq e lasciare marinare per un’oretta. Mettere in una teglia e infornare nel forno ventilato a 200° per ca. 1 ora, girandole a metà cottura. Infine, salare le ali e servire subito.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Società e territorio
all’ospedale volano storie
Incontri Nel reparto di pediatria del San Giovanni di Bellinzona alcuni attori professionisti
interpretano storie per i piccoli pazienti, ora il menu di letture è diventato digitale Valentina Grignoli Le storie fanno volare. Accompagnano lontano con la fantasia, trascinano via. L’avventura che ha intrapreso Margherita Saltamacchia (attrice di Bellinzona) insieme a Fosca Garattini-Salamina dell’Istituto svizzero Media e Ragazzi è una di quelle belle storie che portano primavera, e che val la pena raccontare. Tutto è nato da una chiacchierata al telefono. «Una mia amica – mi racconta Margherita Saltamacchia – che fa parte di “Insieme con coraggio”, gruppo creato per i genitori che hanno o hanno avuto un figlio con una malattia tumorale, mi ha raccontato di aver sentito un’attrice leggere storie e di esserne rimasta incantata. “Sarebbe così bello se potessi farlo anche tu all’ospedale” diceva... Io mi sono entusiasmata, mi sembrava un bellissimo modo per mettere a servizio il mio mestiere. Ho quindi contattato Fosca Garattini con la quale condivido l’amore per la lettura ad alta voce ed ecco nato il progetto “Storie per volare”!». In quanto ente riconosciuto sul territorio, l’ISMR coordina l’impresa, e con Margherita, tanti altri attori aderiscono all’iniziativa. «Non volevamo che gli attori lavorassero a titolo gratuito però, e allora abbiamo deciso di creare una sorta di gettone simbolico, che il lettore decide se tenere o lasciare alla Lega contro il cancro: ci credi che non l’ha tenuto nessuno?», continua Margherita. Ma sono tante le cose che l’hanno colpita nella creazione di Storie per volare: «La totale comunità d’intenti di tutti i parte-
cipanti: non sarebbe stato possibile senza il piccolo contributo che tutti hanno voluto dare, senza riserve. Io in fondo ho solo detto “hei, perché non leggiamo?” e poi i pezzettini hanno dato forma e concretezza al progetto». Lo scoglio più grande per iniziare a far vivere i racconti per i bambini è stato quello di far accettare il progetto nel reparto pediatrico dell’Ospedale San Giovanni di Bellinzona: «Ci hanno giustamente detto, non siete i primi e non sarete gli ultimi, vediamo se funziona, e se i bambini ne avranno giovamento si continua». Se oggi ne parliamo è perché Storie per volare è diventato una realtà, prima solo nel reparto di oncologia e poi estesa e accolta da tutta la pediatria. «Io cerco di esserci sempre – continua l’attrice – Sono stata sorpresa, a livello personale, dal ritorno inaspettato che ne ho avuto. Sono entrata in ospedale la prima volta pensando di fare una buona cosa che concernesse il mio lavoro, pensando di dare io qualcosa: mi sono ritrovata a ringraziare i bambini! Loro hanno una maniera particolare di attendere quel momento, è un desiderio potente di non voler perdere nemmeno una parola. Ogni volta che torno dall’ospedale ho voglia di recuperare quello scambio di attenzione con i miei figli. Perché quello che mi insegnano indirettamente i piccoli pazienti è l’importanza di avere questa particolare attenzione e cura per ciò che si fa. Quel momento, quello scambio, non è da dare per scontato. Bisogna scegliere cosa fare del proprio tempo con attenzione, e una cosa pic-
Margherita Saltamacchia e Tiziana Bernasconi Guidotti.
cola come può essere “ti leggo un libro” diventa una scelta di qualità». Anche lo spazio non è accessorio, è una sala preparata con cura dall’educatrice e dagli attori per questo scambio di accoglienza reciproca: «come a teatro, io ti accolgo in questo luogo definito dalle luci, dalla scenografia, dal mio baule pieno di libri che tu sceglierai. È importante». Non tutti i bambini però possono accedere alle Storie per volare, e allora sono gli attori che si recano nelle stanze in isolamento: «quando succede lo scambio è ancora più intenso. Il bambino ha scelto di voler stare con noi, di voler fare qualcosa di diverso, di bello. Ma se a teatro io ti invito nel mio luogo e tu
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spettatore sei accogliente nei miei confronti, qui lo scambio è impari e quando finiamo mi sento quasi a dover essere io a pagare il biglietto». Un’esperienza particolare? «Una delle prime volte che siamo stati in ospedale. Una bambina di tre mesi era ricoverata, la mamma giovanissima era parecchio preoccupata e giù di morale, nei corridoi aveva saputo delle Storie per volare e allora e aveva chiesto lei, mamma, una storia, dicendo che se sua figlia era troppo piccola per ascoltare, lei ne aveva estremamente bisogno. È stato molto forte e commovente». Oggi, a causa della crisi sanitaria non si può più entrare in ospedale, come fate? «Da novembre – spiega Margherita – abbiamo dovuto smettere. A Natale ci siamo detti, no, non possiamo lasciare soli i nostri piccoli spettatori e allora abbiamo chiesto ai lettori di incidere i racconti. Abbiamo creato una sorta di menu molto ricco di storie, con i codici QR da scaricare per ascoltarle, che viene fatto girare per le stanze della pediatria. La voce si è sparsa e questo menu è arrivato anche a piccoli pazienti a Zurigo». Chi in ospedale invece continua ad andare e oggi si occupa di fare volare ancora le storie – anche se con gli ascolti digitali – è Tiziana Bernasconi Guidotti, educatrice che da 12 anni si dedica all’animazione, all’educazione, all’intrattenimento dei bambini in reparto. Le ho chiesto cosa significasse per i pazienti ricevere degli attori che leggono loro delle storie: «I bambini hanno accolto positivamente il progetto. Creavamo un ambiente diverso in sala giochi, teatrale, passando la gente se ne accorgeva e ne rimaneva incuriosita. Chi voleva veniva in sala, chi non poteva riceveva nella propria stanza, e il tutto prendeva una dimensione ancora più intima, preziosa. I bambini in isolamento sono quelli che hanno bisogno più di tutti di queste boccate d’aria». Anche i genitori? «Sì, anche a loro fa bene ascoltare storie, distrarsi, oppure approfittare di questi momenti per riunirsi tra genitori e avere uno scambio, necessario». Il reparto accoglie anche adolescenti, come reagivano a questa iniziativa? «Con loro sono sempre stata piuttosto timorosa, mi ricordo di una lettura speciale di Gionata Bernasconi. All’inizio nessuna ragazza voleva assistere e poi tutte attentissime! Lui le sapeva coinvolgere, andava oltre alla storia, è stato bellissimo. Io solitamente già il mattino facevo il giro per le stanze a raccogliere le adesioni e tutti i ragazzi grandi dicevano no, non mi interessa, ma alla fine funzionava, eccome!». E oggi? «Gli organizzatori non si sono dati per vinti, ogni mese c’è un’offerta di letture audio che i pazienti possono scaricare. È diverso, credo che venga utilizzato molto soprattutto quando sono soli. Certo, rispetto alle storie di prima manca tutto l’aspetto dell’accoglienza, della magia, delle coccole. I lettori sono bravi anche così, ma prima era come uno spettacolo. E noi confidiamo di ritrovarlo presto».
migros news migros applica la scala di sostenibilità sui prodotti Migros indicherà presto su tutti i prodotti delle circa 250 marche proprie la valutazione riguardante gli aspetti più importanti della sostenibilità. La scala di sostenibilità funziona come le stelle degli alberghi: se un prodotto reca cinque stelle per una delle sue caratteristiche, significa che è ottimo sotto questo punto di vista. Se invece ottiene solo una stella, potrebbe essere ancora molto migliorato. La valutazione con le stelle si basa su tutto l’assortimento Migros. Il sistema di valutazione poggia su basi scientifiche ed è stato elaborato per Migros da partner autorevoli. Tutti i criteri di valutazione sono esposti in maniera trasparente online. Entro il 2025 tutte le marche proprie Migros, anche quelle del settore Non Food, saranno provviste del nuovo M-Check. Ciò corrisponde a circa l’80% dell’assortimento Migros. È ripreso lortobio Sabato 27 marzo sono iniziate, per il terzo anno consecutivo, le attività del progetto «Giardinieri in erba», sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino. Nonostante le difficoltà create dal periodo pandemico, grazie alle misure di sicurezza introdotte dalle organizzatrici si è potuto riproporre il programma di lavori di giardinaggio e di informazione educativa che si tengono in un appezzamento di terra sul Piano di Magadino. Come ci conferma una delle animatrici, Chiara Buletti, «anche quest’anno senza nessuna difficoltà abbiamo creato un gruppo di 16 bambini entusiasti di poter partecipare: alcuni di loro hanno voluto continuare l’esperienza iniziata l’anno scorso, altri, venuti a conoscenza dell’attività per passa-parola, si sono annunciati spontaneamente...». Al momento i posti sono quindi al completo e tutto fa pensare che l’esperienza potrà felicemente essere continuata anche nei prossimi anni. Per informazioni: www.lortobio.ch la cultura in tempo di pandemia Il Conservatorio della Svizzera italiana, istituzione le cui iniziative culturali hanno goduto del sostegno del Percento culturale di Migros Ticino, promuove un ciclo di tavole rotonde dedicate ai maggiori temi di attualità per i settori dell’arte e della cultura. Nell’attuale contesto di definizione degli interventi di rilancio delle produzioni artistiche nello scenario post-pandemico, gli incontri vedono la partecipazione di alcuni tra i principali esponenti del sistema culturale e della filantropia in Ticino e in Svizzera. Gli incontri si terranno in modalità virtuale e saranno esclusivamente su invito; potranno accedervi alcune personalità di riferimento per il Conservatorio della Svizzera italiana, così come i suoi studenti. Il ciclo si inserisce tra le attività del Master of Advanced Studies in Cultural Management. Il programma degli incontri: Giovedì 8 aprile, 17.00 Filantropia e cultura: la percezione del futuro Intervengono Manuel Bianchi, Christian Bührle, Viviana Kasam. Modera Elisa Bortoluzzi Dubach. Giovedì 6 maggio, 17.00 Relazioni tra istituzioni pubbliche e artisti: creazione e formazione Intervengono Mauro Dell’Ambrogio, Giulia Genini, Carmelo Rifici, Mario Timbal. Modera Giancarlo Dillena. Giovedì 3 giugno, ore 17.00 Processi di trasformazione delle arts vivants: opportunità e sfide Intervengono Luca Dal Pozzolo, Michael Kaufmann, Christian Weidmann. Modera Chiara Tinonin.
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Società e territorio
architetture a confronto USI-SUPSI Una lettura dei due nuovi edifici di Lugano e Mendrisio Alberto Caruso La nuova sede dell’USI e della SUPSI inaugurata a Lugano lo scorso 22 marzo e la nuova sede della SUPSI a Mendrisio, che sarà inaugurata in aprile, sono gli edifici pubblici più importanti costruiti in Ticino negli anni recenti. Ai lettori – in generale già informati dalla stampa quotidiana sulle loro caratteristiche funzionali e architettoniche – proponiamo un piccolo esercizio critico, costituito dal confronto tra i progetti dei due edifici. Essi risolvono lo stesso programma (aule didattiche e laboratori) con atteggiamenti progettuali radicalmente diversi. Il progetto di Lugano utilizza il generoso spazio quadrangolare situato sul bordo del Cassarate, articolando le sue parti intorno ad una corte pedonale. L’edificio di Mendrisio, situato su un lungo terreno sul bordo della ferrovia, distribuisce le aule in due fasce parallele, separate al centro da uno spazio a tutt’altezza esteso quanto l’edificio. Le situazioni oggettivamente differenti hanno guidato i progettisti a studiare impianti distributivi differenti. La loro diversità, tuttavia, non è soltanto questa. A Lugano, il transito del visitatore dal campus USI e dalle strade cittadine verso la corte, attraverso i varchi ricavati al piano terra negli angoli dell’edificio, avviene in maniera distaccata e «naturale», silenziosa, libera dall’ansia di possibili sorprese. Le notevoli variazioni di altezza dell’edificio consentono di intravedere – quando si è ancora all’esterno – il paesaggio interno e di prepararsi alla sua scoperta. Inoltre, la
riproduzione identica della figura dei fronti tra l’esterno cittadino e l’interno della corte offre sensazioni di calma rassicurante. Per questo non si tratta di una vera e propria corte. Nella tradizione europea dei palazzi e dei conventi, infatti, la corte è generalmente caratterizzata da figure frontali differenti rispetto a quelle esterne. La loro opposizione provoca sensazioni differenti: il fronte esterno e pubblico è introverso e difensivo, quello interno è estroverso e aperto, funzionale alle attività specifiche di chi vi abita. Questo spazio dell’USISUPSI, invece, è uno spazio concepito per diventare un luogo pubblico come lo sono gli altri spazi della città. La fitta trama a scacchiera delle bucature dei fronti, ripetuta senza eccezioni sia all’esterno che all’interno, favorisce l’effetto anzidetto. La trama conferisce ai fronti un aspetto non corrispondente ai canoni più consueti della parete piena bucata da aperture allineate, e provoca nel visitatore una sensazione di straniamento, un’atmosfera sospesa. A Mendrisio, la figura dell’edificio è intenzionalmente concepita per essere vista da chi transita in treno. La ripetizione delle lunghe finestre conferisce ai fronti della «fabbrica» una geometria longitudinale portata alle estreme conseguenze. Varcato l’ingresso, l’interno è inaspettato e sorprendente. Il lungo piano inclinato è una promenade architecturale che collega tutti i livelli dell’edificio, si estende dal fronte sud al fronte nord e determina la formazione del grande spazio che separa le due fasce. Ritmato dalle torri degli ascensori che ne interrompono la prospettiva, lo spa-
zio della promenade è il nucleo espressivo di questa architettura. La promenade è una strada urbana che penetra nell’edificio, risalendola si coglie con lo sguardo l’interezza della machine à abiter. È un’interpretazione contemporanea del carattere dell’edificio pubblico, che mostra con trasparenza le parti in cui è articolato, come avviene, per esempio, nella scuola media di Riva San Vitale di Giancarlo Durisch, articolata intorno al cortile coperto. Il riferimento architettonico più evidente di questo impianto è la scala della Alte Pinakotek di Monaco di Baviera (Leo von Klenze, 1836), che collega tutti i livelli occupando uno spazio longitudinale esteso quanto l’edificio. La sua immagine rappresenta iconicamente un caposaldo del classicismo. I riferimenti dell’edificio di Lugano sono più complessi e più lontani dalle figure della storia del razionalismo europeo: la composizione a scacchiera dei fronti richiama figure degli edifici residenziali del cosiddetto modernismo socialista, a loro volta forse eredi dell’immagine della casa moscovita di Konstantin Melnikov, che con le sue bucature romboidali a scacchiera ha rotto con i canoni del funzionalismo occidentale. È l’esperienza sensoriale la grande differenza tra i due edifici. A Lugano, l’avvicinamento dall’esterno verso lo spazio centrale e l’atmosfera che si vive stazionandovi favoriscono lo stato d’animo pacato e imperturbabile di chi deve dedicarsi alla ricerca scientifica e si prepara alla massima concentrazione. A Mendrisio, la vista e la risalita della promenade provoca una vera e
SUPSI Mendrisio, Vista dello spazio della promenade. (supsi)
propria tensione emozionale, che impronta di sé l’esperienza di tutti gli spazi. Il colore contribuisce a sottolineare questa differenza: la tonalità chiarissima del cemento dei fronti di Lugano asseconda l’atmosfera silenziosa, mentre la tonalità intensa del rosso con la quale sono colorate tutte le superfici cementizie di Mendrisio accende le sensazioni. Se è vero che ad ogni opera di architettura corrisponde un tipo di rappresentazione grafica appropriato ad illustrarne le ragioni, possiamo dire che l’edificio di Lugano va rappresentato soprattutto in pianta, che rivela le interessanti peculiarità del suo impianto distributivo. L’edificio di Mendrisio, invece, va rappresentato soprattutto in sezione, che rivela la fluidità spaziale (il Raumplan loosiano)
determinata dallo spazio della rampa. Riguardo al tema, infine, dell’appartenenza di queste opere all’architettura ticinese, alla sua tradizione moderna, possiamo affermare che il lavoro a Mendrisio dello studio ginevrino Bassi Carella Marello rivela l’adesione realista a questo territorio culturale, mentre il lavoro a Lugano di Simone Tocchetti e Luca Pessina fa considerare la loro ricerca più vicina a quella degli architetti ticinesi che provano nuove strade espressive per innovare lo stesso territorio. L’intelligibilità dell’architettura e la rappresentazione leggibile dei concetti spaziali, li accomuna. Certamente sono opere destinate a sollecitare il dibattito ed il confronto aperto, del quale la cultura ticinese ha un grande bisogno. annuncio pubblicitario
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Società e territorio rubriche
l’altropologo di cesare poppi c’è del marcio nella grande mela Il settore dell’opinione pubblica più attento, quello che come i lettori dell’Altropologo merita l’encomio di essere «informato dei fatti», è ben consapevole che il percorso storico di quel peculiare ed indesiderabile status civile che è la condizione di schiavitù abbia incontrato nel corso della storia più di un ostacolo. Questo in attesa che maturasse quel minimo sindacale di coscienza civile collettiva per cui, oggi, si cerca perlomeno di contenere un fenomeno che peraltro perdura. Chi non conosce la vicenda di Spartaco? E certi vi sono che ricordano come la prima «vera» rivoluzione moderna non sia stata la conseguenza della presa della Bastiglia bensì la rivoluzione haitiana di Toussaint Louverture. Quest’ultima peraltro prontamente repressa proprio da chi, ancora fresco di barricate contro l’Ancien Régime, si
domandò se non si fosse andati troppo oltre e la situazione potesse scappare di mano a partire dalle colonie: liberté in casa but not in my backgarden. Lungo le stesse linee, siamo pronti a riconoscere che rivolte di schiavi si siano succedute nelle Colonie delle potenze europee, sinonimo ancor oggi di ritardi ed arretratezza economica e politica. I chilombo brasiliani, i Mapuche del Cile, i Maroons del Suriname, i rivoltosi della nave negriera Amistad già celebrati in questa rubrica ci possono anche stare – là fuori nel mare Oceano e oltre, ma non vicino a noi in quella che è diventata la Porta Accanto della Civiltà. Ai primi del ’700 New York aveva una popolazione di schiavi fra le più numerose del New England. Lavoravano come servi domestici, come bassa manovalanza ma anche come mastri artigiani. Alcuni erano asserviti a da-
tori di lavoro neri di status liberi. Tendevano a vivere in quelli che divennero poi i ghetti, e questo implicava che, al contrario degli schiavi nelle piantagioni, potevano frequentarsi e comunicare liberamente. La memoria della legislazione sugli schiavi relativamente liberal vigente quando New York era colonia Olandese, prima del giro di vite imposto dagli Inglesi, ancora circolava accanto allo spettacolo quotidiano del mercato degli schiavi che la Royal African Company gestiva nelle adiacenze dell’attuale Wall Street e alimentava illecite fantasie. La Grande Mela cresceva in termini demografici ed economici. Ai primi del ’700 un buon 20% della popolazione newyorkese era costituito da schiavi. Furono introdotte misure restrittive dei movimenti e degli assembramenti: non più lontano di un miglio da casa in gruppi di meno di tre
persone e distanziamento sociale dai bianchi nei luoghi pubblici ed in chiesa (proprio così: ogni riferimento a fatti attuali etc…). In questo clima, un gruppo di più di venti schiavi neri si radunò la notte del 6 aprile 1712 ed appiccò fuoco ad una costruzione in Maiden Lane, accanto a Broadway. Quando una folla di Bianchi si organizzò per spegnere l’incendio, i rivoltosi attaccarono con pistole, asce, coltelli e bastoni. Sparirono poi nel nulla per poi farsi trovare, come da regolamento, nelle case dei loro padroni dalle forze di polizia inquirenti. Non bastò: settanta schiavi neri furono arrestati. Sei si suicidarono in carcere. Ventisette furono processati. Di questi ventuno furono dichiarati colpevoli e condannati a morte. Una era una donna incinta: nonostante la pratica dettasse che una donna incinta
non potesse essere messa a morte non scampò al suo fato. Gli altri furono messi al rogo. Uno dei condannati fu giustiziato in pubblico mediante la spettacolare sequenza della Ruota di Santa Caterina: troppo ripugnante per essere descritta su queste pagine, parola di Altropologo. Seguì un periodo di ulteriori restringimenti delle misure sulla «libertà» degli schiavi. Neri e Indiani senza distinzioni. Primo fra tutti il provvedimento che prevedeva la pena di morte per crimini contro la proprietà, stupro e cospirazione contro l’ordine costituito posto che questi fossero stati commessi da uno schiavo. Se poi un padrone di schiavi – ironia – avesse deciso di manomettere (ossia liberare) un suo schiavo per qualsivoglia ragione avrebbe dovuto pagare una tassa superiore all’acquisto dello stesso al mercato. Black lives matter.
prime righe: vuota la casa, vuoto il tuo animo dopo la morte di un padre teneramente amato e con dedizione accudito. Ma il vuoto non è il nulla e può diventare lo schermo sul quale proiettare il futuro, lungo o breve che sia. Col tempo il rapporto genitori-figli è destinato a invertirsi e chi ha dato alla fine riceverà. Il padre, la madre inizialmente sovrastano il bambino e appaiono ai suoi occhi eroi inscalfibili ed eterni, eppure viene il momento in cui l’età tarda li rende piccoli e deboli, bisognosi di assistenza e di cura. Rispondendo a questo appello, i figli saldano un debito doveroso. Ma non è solo fatica in quanto dà la sensazione di essere nel giusto, di seguire il naturale succedersi delle generazioni nel ciclo della vita, sino a quando verrà anche per loro il momento di chiedere e ricevere aiuto e conforto. Ma prima che questo accada vi sono anni in cui i «non più giovani» possono riprendere in mano quel che resta della loro vita. Non per chiudersi in se stessi in un malinconico isolamento ma per aprire un colloquio interiore che li induca a guardare il mondo con occhi nuovi. Finché i figli restano in casa, la famiglia si concentra di solito sui suoi bisogni, sui suoi progetti, ma quando,
come nel tuo caso, i ragazzi crescono diventando autonomi e indipendenti, ecco che lo sguardo corre fuori, al di là delle pareti domestiche dove si apre una dimensione più ampia, quella della comunità. Le virtù, le competenze, gli atteggiamenti morali messi a punto nella vita privata possono allora essere spesi nella vita pubblica. Probabilmente l’associazione pro Juventute e la ludoteca c’erano anche prima, ma ora senti che ti riguardano e avverti che hanno bisogno di te. Ci saranno certamente persone che le portano avanti con impegno professionale. Ma il volontariato è un’altra cosa, la gratuità rende totale il dono di sé. Anch’io, dopo il pensionamento, ho donato le energie residue a istituzioni di cultura e di cura e, anche se sono stanca, mi sento utile e appagata. L’eccessiva concentrazione sull’io e sul mio, come accade nei casi di narcisismo ed egoismo, finisce con far implodere le energie fisiche e psichiche all’interno dell’organismo provocando malattie psicosomatiche insensibili ai farmaci. Siamo animali socievoli e le relazioni sono il nostro habitat naturale. Come mostra in modo convincente Beatrice: chi dona riceve. Se confrontiamo la nostra vita con quella di tante popolazioni che man-
cano, non solo del superfluo, ma del necessario, ci accorgiamo di quanto siamo fortunati ad abitare la metà del mondo più affluente, meglio organizzata e, seppure con mille carenze, più solidale. Certo il progresso morale e civile resta incompiuto ed è giusto e opportuno che tu, cara lettrice, impegnata nella dimensione politica della tua città, esorti con l’esempio anche gli altri a scendere in campo. Tua mamma ha sofferto di depressione e di solito questo malessere si riverbera sulla figlia predisponendola alla depressione. Se questo non è avvenuto è perché hai saputo riconoscere l’incidenza del passato senza lasciartene contagiare. C’è sempre un margine di libertà, uno spiraglio di libero arbitrio che ci permette di decidere chi si vuol essere, che cosa si vuol fare. In un periodo di emergenza questo è più difficile, ma non impossibile, basta volerlo. Grazie di testimoniarlo.
sulla figura del politico in generale: qualcosa che, sia pure in termini ben diversi, concerne anche la realtà svizzera e persino ticinese. Questione di stile, insomma. Da chi vogliamo essere rappresentati nei parlamenti e al governo? Meglio il modello Draghi, poche parole e concretezza, completamente assorbito dalla propria carica e senza concessioni di sorta, sul versante personale? È sposato, ma della moglie, della famiglia, di eventuali svaghi, non si sa nulla. Ciò che, in tempi di social e di talk shows, a cui il Super Mario è allergico, rappresenta un’eccezione. E, addirittura, può sembrare un ritorno al passato. Qualcosa che era la regola per i comportamenti dei politici di casa nostra, in un’epoca, dove pubblico e privato erano ambiti rigorosamente separati.
Soltanto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si cominciò a parlare d’immagine. I politici si trovarono costretti a comparire attraverso le foto grigie sui giornali e qualche dibattito televisivo, ma poco altro. Tutt’al più un pettegolezzo, sotto banco. Nei loro confronti doveva svilupparsi un diffuso rimpianto che, complice la nostalgia che va di moda in ogni ambito, li ha idealizzati, forse anche al di là dei loro meriti effettivi. Sui quali, per carità, non sono in grado di esprimermi. Sta di fatto che quei politici dell’anteguerra e del primo dopoguerra, per non parlare dei loro predecessori ottocenteschi, passati alla storia come esempi di serietà e onorabilità, avevano goduto il privilegio di operare in un ambito a parte. Come dire che erano al riparo dalle interferenze di un elettorato sem-
pre più esigente e impertinente qual è l’attuale. Insomma, le virtù del riserbo, del rigore, della dedizione totale a un lavoro-missione rimangono sempre ammirevoli: questione di stile, appunto. In pratica, però, non servono più. Ne occorrono altri. Si pensi all’importanza della comunicazione, ineludibile dovere del politico, in questa stagione all’insegna della pandemia. Trovare le parole e i modi giusti per rendere digeribili lockdown, vaccinazioni al rallentatore, frontiere bloccate: il compito supera, evidentemente, le capacità dei politici, non solo i nostri. Persino Draghi stenta a superare la prova. Con ciò rappresenta pur sempre il meglio in quanto a stile. L’alternativa, più diffusa, è il politico che rincorre la popolarità, a costo del ridicolo e della volgarità.
la stanza del dialogo di silvia vegetti Finzi la libertà di decidere chi si vuol essere Cara Silvia, leggendo lo scritto sulla Stanza del dialogo dell’8 marzo mi sono permessa di riflettere a lungo prima di scrivere quanto sto scrivendo. Sono anche io un’insegnante da poco in pensione e con un papà che è venuto a mancare proprio nei primi mesi della mia pensione (preciso che viveva con me e le cure che necessitava mi occupavano molto). Senza potermene accorgere e senza potermi preparare mi son trovata immersa in un gran vuoto. Le mie figlie vivono lontano e ora la casa è vuota. Non ho permesso alla mia testa di affliggersi. Ho scoperto che pro Juventute ha bisogno di mentori, la ludoteca del paese ha bisogno di volontari e (questa è più rischiosa perché molto impegnativa e, non spiego qui il perché) mi son impegolata nella politica…. dove cerco di trovare un posto nel quale si agisca, ci sia trasparenza ed azione! Intendo avvengano gesti ed azioni positive per il pianeta ed i suoi abitanti. Con questo non posso dire di non aver mai avuto le lagrime agli occhi. Quando necessito un momento di malinconia me lo permetto dandomi un tempo e restando o sola o scelgo una persona disponibile. Siamo in una società all’avanguardia,
abbiamo tutto tanto e niente: le nostre emozioni son sempre lì, non vale la pena metterle in mano agli altri perché è pericoloso. Possiamo condividerle ed apprezzare di essere in un luogo dove c’è pace, dove possiamo ancora scegliere. Queste sono parole che vorrei far arrivare a Gabriella. Un’ultima cosa. Mia mamma era una donna depressa e questo ha fatto soffrire tutta la famiglia.... non giudico mia madre, scelgo di essere diversa sebbene a volte non sia facile. Buona giornata! / Beatrice Cara Beatrice, le tue parole mi sono giunte forti e chiare e mi hanno colpito particolarmente, tanto che vorrei condividerle con i lettori. Troppe dichiarazioni esprimono principi generici come «siamo tutti sulla stessa barca», «ci salviamo tutti o nessuno» , «dopo saremo migliori» che suonano apparentemente rassicuranti ma poi si disperdono nel brusio delle tante voci che ci frastornano. Tu invece hai deciso di entrare nella Stanza del dialogo come una persona che vi porta semplicemente la sua esperienza, che dice: «io ho fatto così», senza nascondere difficoltà e momenti di debolezza. La parola «vuoto» risuona sin dalle
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
mode e modi di luciana caglio Politica è anche stile: ma quale? Si accumulano, nelle cassette della posta e sui telefonini, i messaggi autopromozionali dei candidati alle comunali del 18 aprile. E si accumulano, nei pensieri e nei sentimenti degli elettori, le perplessità di fronte a una scelta, più che mai imbarazzante. Lo è, soprattutto, per una categoria di cittadini, in incessante crescita, cui appartengo. Si tratta non soltanto delle donne, prive dei diritti politici sino al 1971, ma della moltitudine di cittadini per i quali il voto rappresenta qualcosa da inventare di volta in volta. Un impegno che, invece, non spetta ai militanti per nascita, cioè gli eredi di una tradizione familiare partitica e ideologica, da continuare senza se e senza ma. Quest’anno, poi, anche il Covid ha avuto la sua parte. Contribuendo, anche alle nostre latitudini, ad allargare il distacco fra noi e
loro: noi cittadini che subiamo i provvedimenti illiberali che loro emanano. Da qui il fenomeno, ormai di dimensioni mondiali, dei politici sotto processo che, nei paesi democratici, rischiano di perdere non soltanto la popolarità ma addirittura la poltrona. Traballa persino quella di Angela Merkel, emblema di stabilità e buon governo. Se l’è cavata, un po’ da saltimbanco, l’estroso Boris Johnson, con un’inversione a 180 gradi che ha assicurato al Regno Unito la vittoria sul virus. Mentre in Italia, i malumori provocati dalle gestione della pandemia, e relativi ristorni, sono costati la presidenza a Conte, sostituito da Draghi. Come dire, un glamorous premier all’italiana cede il posto a un austero alto funzionario europeo. Ora questo cambio della guardia, così radicale, apre interrogativi proprio
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ambiente e benessere mille chilometri australiani Nel 1932 Lennie, di dieci anni, e il suo cavallo Ginger Mick partirono per la loro avventura
Big Bench Community Project Promuovere il turismo locale lento e di prossimità è una delle finalità del progetto: ma le panchine per essere «certificate» devono soddisfare criteri imprescindibili
l’ottimo brunch di Pasqua Nidi di treccia di pane: crosta dorata, mollica fragrante, un uovo colorato... cosa chiedere di più a una buona colazione?
nel cuore degli Slovacchi La ragazza dei Monti Tatra, Petra Vlhová, ha conquistato la Coppa del Mondo di sci
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Il diritto alla chiara informazione
consenso informato Avvalersi di due pareri
medici è un diritto del paziente utile e sancito dal legislatore
Maria Grazia Buletti «Il paziente ha il diritto di essere informato in maniera chiara e appropriata sul proprio stato di salute, sugli esami e sui trattamenti proposti, sulle conseguenze e sui rischi eventuali che implicano, sulla prognosi e sugli aspetti finanziari del trattamento…». Il Dipartimento Sanità e Sport (DSS) così sintetizza il diritto all’informazione di ogni paziente da parte del medico a cui si è affidato, il quale a sua volta troverà tempo e risorse adeguate per spiegargli a fondo ogni aspetto della sua situazione di salute e la relativa proposta terapeutica. Ma può capitare che il paziente si senta insoddisfatto o poco convinto della proposta terapeutica, e tentenni sulla decisione da prendere nel cosiddetto consenso informato che dovrà sottoscrivere prima di procedere. «Sarebbe allora opportuno chiedere un secondo parere medico» afferma Thomas Lacina, medico nel reparto di radiologia della Clinica Ars Medica di Gravesano, sottolineando come questo diritto sancito dal legislatore non vada interpretato come un atto di sfiducia nei confronti del medico che ha espresso il primo parere, ma è votato a migliorare e chiarire le informazioni del paziente, «affinché egli possa decidere con cognizione di causa se acconsentire o no un trattamento proposto». L’Ufficio Federale della Sanità pubblica (Ufsp) conferma il «diritto del paziente, se lo desidera, di consultare un altro medico di propria scelta, come un passo indicato in particolare per interventi chirurgici non urgenti o per trattamenti impegnativi», e ricorda altresì al paziente di «informarsi prima se la propria assicurazione assume i costi per questo secondo parere medico», cosa di norma consentita dagli assicuratori malattia. «Spesso la visita del paziente si svolge in quello che viene percepito come poco tempo in cui il medico deve proporgli cosa andrebbe fatto, spiegandogli ogni aspetto del percorso terapeutico o dell’intervento chirurgico. Una chiacchierata medico-paziente che dovrebbe fugare ogni dubbio e qualsiasi perplessità da parte di quest’ultimo il quale, ovviamente,
vive un’asimmetria informativa dovuta alla complessità dell’arte medica di cui il suo curante detiene giocoforza abilità ed esperienza professionale», afferma Lacina che così giustifica ampiamente la possibilità del paziente di fare capo a una seconda opinione, migliorando il suo grado di informazione e la sua capacità di prendere una decisione in modo assolutamente consapevole. «Affrontare in modo informato e convinto un trattamento o un intervento permette spesso di evitare malintesi», ne è convinto il nostro interlocutore che, insieme a Christopher Jackson (che pure partecipa al nostro incontro) ha fondato Isom (Istituto di seconda opinione in medicina). «Abbiamo creato un istituto indipendente (senza alcun conflitto di interessi) che fa capo a una rete di professionisti specialisti super partes: professori universitari elvetici con spirito medico-scientifico e di collaborazione a cui indirizziamo per un secondo parere chi ne fa richiesta, sia esso il medico di famiglia, sia il paziente stesso che lo desideri», riassume Christopher Jackson (Ceo di Isom), ricordando altresì un dato statistico che non deve passare inosservato: «Il punto 5 del documento Sanità 2020 del CF indica che in Svizzera gli esperti ritengono che i costi delle prestazioni potrebbero essere ridotti del 20 per cento, pari a 6 miliardi di franchi circa pagati dagli assicurati nel 2020; tema trattato nel 2019 dalla Società svizzera di ortopedia che, durante il congresso annuale di Baden, aveva disquisito su “Operazioni non necessarie”, proprio per riflettere e discuterne». Entrambi i nostri interlocutori concordano che la richiesta di un secondo parere medico non è un atto di sfiducia verso il primo medico. A questo proposito, il radiologo sottolinea l’importanza di poter consultare medici al di sopra delle parti: «È la nostra idea di coordinazione: centralizzare in modo indipendente e autorevole un gruppo di specialisti che si rende disponibile in un tempo ragionevolmente breve (due settimane circa) per avere un parere da un professore universitario che, dunque, si prende il tempo di studiare il caso, la qualità, e controllare l’indicazione per quei pazienti che
Il dottor Thomas Lacina, specialista in Radiologia (FMH) e Terapia del Dolore (SSIPM). (stefano spinelli)
ancora non sono convinti di quale sia la migliore strada terapeutica percorribile». Una sorta di «controllo di qualità» che, egli dice, «in Svizzera non esiste propriamente e l’unico vero controllo di qualità di cui possiamo disporre è per l’appunto la seconda opinione medica». Resta da capire come richiederla e quali siano i criteri di scelta del secondo medico. Congiunto, e più volte ribadito, l’invito del dottor Lacina e di Jackson ad affidarsi dapprima al prezioso supporto del medico di famiglia: «Egli ha esperienza e profonda conoscenza del proprio paziente e del suo vissuto». È inteso che «il paziente può liberamente decidere se informare il medico a cui chiede il secondo parere
del fatto che già si era rivolto a un primo professionista, il quale già aveva dato una precedente indicazione in merito al trattamento o intervento chirurgico e alla sua necessità». Resta da capire quali domande sarebbe opportuno porre al secondo medico. Il dottor Lacina così riassume i punti salienti che andrebbero toccati: «Perché questo trattamento o questo intervento è necessario? Ci sono alternative? Se sì, quali i rischi e benefici per rapporto al primo proposto? Quali i benefici e quali i rischi potenziali, compresi quelli riabilitativi? Quale lo scenario se decidessi di non intervenire? Il trattamento è scientificamente fondato?». E infine, a tutti verrebbe certamente da chiedere un’ultima cosa
molto significativa con cui il medico conclude la serie di domande da porre sul tavolo: «Al mio posto, lei si sottoporrebbe al medesimo trattamento? Lo proporrebbe ai suoi famigliari? Se no, per quali motivi?». È importante ribadire l’importanza della scelta del secondo medico a cui ci si affida: «Dobbiamo avere la certezza di rivolgerci a un professionista autorevole e indipendente, per avere la certezza di un secondo parere oggettivo che non vada a distruggere la fiducia del paziente nei confronti del primo operatore, perché non è certo compito del secondo medico influenzare la decisione ultima del paziente, il quale alla fine dovrebbe discutere il da farsi con il proprio medico di famiglia».
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ambiente e benessere
a cavallo attraverso l’australia Viaggiatori d’occidente L’avventura straordinaria di Lennie Gwyther e Ginger Mick
I luoghi di nietzsche bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Il capitano Leo Tennyson Gwyther, eroe della Prima guerra mondiale carico di ferite e di gloria, viveva con moglie e figli in una piccola fattoria sulle colline di Leongatha, a sud-est di Melbourne, nello Stato australiano di Victoria. Ma all’inizio del 1932, proprio quando avrebbe dovuto arare i campi e prepararli per la semina, si ruppe una gamba e fu portato in ospedale per alcune settimane. In quel difficile frangente Lennie, il maggiore dei cinque figli ma pur sempre un bambino di nove anni, prese in mano la situazione sbrigando tutti i lavori agricoli con l’aiuto del suo cavallo marrone Ginger Mick. I due erano inseparabili da quando Lennie lo aveva ricevuto in dono dal nonno per il suo secondo compleanno. Quando il padre tornò finalmente a casa, tutti erano d’accordo nel premiare adeguatamente il ragazzino, ma la sua richiesta fu sorprendente: Lennie aveva seguito con passione sul giornale la costruzione del Sydney Harbour Bridge, il più grande ponte a campata unica del mondo, lungo mezzo chilometro, interamente in acciaio, e chiese di poter assistere all’inaugurazione, prevista dopo alcune settimane. Nient’altro sembrava interessarlo: quando le informazioni erano scarse avevano questa straordinaria capacità d’accendere l’immaginazione.
Al loro arrivo a Sydney lo accolsero il sindaco Sir Samuel Walder, 25 poliziotti e oltre diecimila persone Con il padre convalescente però il bambino sarebbe dovuto andare solo, con Ginger Mick. La madre Clara naturalmente era spaventatissima all’idea, ma a poco a poco si lasciò convincere (e questa per me resta la parte più stupefacente dell’impresa). Lennie disegnò una mappa del percorso e il 3 febbraio 1932 partì per il suo viaggio straordinario di mille chilometri da Leongatha a Sydney, scivolando lungo la costa dell’Australia sino al Nuovo Galles del
«Finalmente in Svizzera: i primi anni a Basilea, il Maderanertal, un’altra guerra ma da apolide, idillio Tribschen a casa dei Wagner, quella notte d’inverno a Flüelen con Mazzini, le vette dell’Oberland, poi a Lugano tra i carbonari…».
Lennie Gwyther and Ginger Mick. (leongatha chamber of commerce)
sud. Aveva con sé solo una coperta, una bottiglia d’acqua, una bisaccia con lo spazzolino da denti e abiti di ricambio. Il viaggio non fu facile. Spesso la strada era poco più di un sentiero attraverso la spoglia prateria australiana. Freddo, nebbia, pioggia resero il cammino più faticoso e non mancarono i pericoli: le minacce di un vagabondo pochi giorni dopo la partenza e un incendio improvviso nel bush. Nel frattempo, però, la notizia dell’impresa si diffuse nel giovane Paese e i giornali cominciarono a occuparsi di lui. In quel 1932 l’Australia era stretta nella morsa della Grande depressione, la moneta aveva perso un terzo del suo valore, un uomo su tre era senza lavoro, agli agricoltori si offriva una miseria per la lana e il grano. C’era un bisogno disperato di buone notizie e Lennie, con la sua fiducia in sé stesso e la sua determinazione, diventò il simbolo di una nazione sprofondata in tempi bui e tuttavia ancora capace di superare gli ostacoli, di porsi obiettivi ambiziosi. Col sopraggiungere della fama il viaggio diventò più facile, sempre più
persone gli offrirono vitto e alloggio. In una Canberra ancora ai primi passi come nuova capitale del Paese (le pecore pascolavano intorno agli edifici pubblici), Lennie prese il tè nel Parlamento con il Primo ministro Joseph Lyons. Al suo arrivo a Sydney lo accolsero il sindaco Sir Samuel Walder, venticinque poliziotti e oltre diecimila persone. Lennie fu portato in giro per la città come una celebrità, dalla nota spiaggia di Bondi Beach al gigantesco Taronga Zoo, dove poté cavalcare un elefante. Infine il 19 marzo 1932 Lennie e Ginger Mick parteciparono alla grande parata inaugurale del nuovo ponte, attraversandolo per primi insieme a gruppi indigeni, veterani di guerra, scolaresche e operai delle imprese di costruzione. Due giorni dopo allo stadio del cricket incontrò un suo idolo, Donald Bradman, che gli regalò una mazza firmata. Anche il viaggio di ritorno, durante il quale Lennie compì dieci anni, fu una marcia trionfale, conteso tra scuole e autorità. E, oltre quattro mesi dopo la partenza, ottocento concittadini lo accolsero il 10 giugno al suo arrivo a Leongatha.
Dopo la magnifica impresa, il bambino e il suo cavallo tornarono alla vita di sempre nel loro piccolo angolo di mondo sulle colline. A diciannove anni Lennie fu arruolato nell’esercito australiano impegnato contro i giapponesi nella Seconda guerra mondiale e combatté nel Pacifico. Al ritorno dal fronte si laureò in ingegneria e si trasferì a Melbourne, dove trovò lavoro in uno stabilimento della General Motors, si sposò e crebbe una figlia. In questa nuova vita, Ginger Mick non ebbe più parte; restò nella fattoria Gwyther dove visse fino a ventisette anni. È curioso pensare che i giorni migliori della tua vita possano capitarti a solo nove anni. Di certo la quotidianità non spense la passione di Lennie per le grandi imprese. Quando morì di cancro nel 1992, a settant’anni, stava costruendo con le sue mani uno yacht per navigare verso la Tasmania e la Nuova Zelanda. E a cent’anni dalla sua nascita, di nuovo in un momento difficile, la sua storia è un invito a coltivare i propri sogni e realizzarli con coraggio, senza curarsi troppo delle avversità.
Paolo Pagani spiega meglio di ogni altro come le teorie di un filosofo, di uno storico, di uno scienziato o di un economista siano strettamente legate ai luoghi nei quali ha vissuto e pensato. E dunque non è possibile comprenderlo a pieno senza aggirarsi tra città, biblioteche, università e private dimore. Su questo fondamento Pagani ha costruito il suo libro precedente, I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo, e ora mostra come neppure il genio ribelle e iconoclasta di Friedrich Nietzsche faccia eccezione. Il pensiero di Nietzsche si dispiega in tre diversi spazi geografici, ciascuno legato a una fase ben precisa della sua esistenza e della sua filosofia. Dapprima la Germania, patria del pensatore antitedesco per eccellenza, dove tutto comincia e tutto finisce. Poi una parte svizzera semplicemente fondamentale: dieci anni di insegnamento a Basilea, la frequentazione di Richard Wagner a Tribschen (Lucerna), la scoperta di Sils-Maria, la passione per Lou von Salomé, l’incontro con Zarathustra, un sorprendente dialogo con Giuseppe Mazzini nella hall dell’albergo Imhof di Flüelen, sulla via per Lugano. E può sembrare paradossale che proprio nella tradizionale, pacifica e neutrale Svizzera Nietzsche abbia messo a fuoco le sue teorie più incendiarie. Infine, la scoperta del sud, del sole mediterraneo, un’esperienza già insidiata dalla pazzia che lo coglierà un giovedì, il 3 gennaio 1889, nella Piazza Carlo Alberto di Torino. / CV bibliografia
Paolo Pagani, Nietzsche on the road. Quattromila chilometri verso la follia, Neri Pozza, 2021, pagg.400, € 18.–. annuncio pubblicitario
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ambiente e benessere
con le gambe a penzoloni Passeggiata Riscoprire il territorio con le panchine giganti anche dette Big Bench
Vince Cammarata
Il designer e ideatore della Big Bench Community Project, Mr. Chris Bangle. (© Fosphoro)
© Fosphoro
verso l’Europa data la presenza di una panchina gigante addirittura in Scozia. Da noi, purtroppo, ancora non ce ne sono, ma forse l’idea potrebbe piacere a qualcuno… Di fatto i «panchinisti» sono ormai centinaia fra seguaci e sostenitori, più una quantità potenzialmente infinita di fruitori che attraverso i social e un sistema che prevede un passaporto dove collezionare credenziali, simile a quello dei cammini, orbitano, supportano e soprattutto godono del paesaggio dalle Big Bench. Promuovere il turismo locale, di prossimità e lento è una delle finalità del progetto: ma le panchine per essere «certificate» devono soddisfare criteri
© Fosphoro
Immaginate di sedervi su una panchina, una di quelle rosse che stanno nei parchi o magari in riva a uno dei nostri laghi e da cui si può godere, da soli o in compagnia, il paesaggio. All’improvviso la panchina sotto di voi si fa sempre più grande, più alta, tanto che i piedi non toccano più terra e che, disorientati, non capiate più se è lei che si fa grande o se, invece, siete voi a farvi piccoli, a ritornare bambini, con le gambe che penzolano dal bordo e con lo sguardo di chi vede per la prima volta l’acqua del lago, i cigni, le barche a vela colorate con i monti un po’ più in là a fare da sfondo. Ecco. Questo è quello che Mr. Chris Bangle – designer americano che dal 2009 vive in Piemonte, a Clavesana per l’esattezza – ha provato quando si dev’essere seduto per la prima volta sulla sua Numero Uno, che ha fatto costruire nel giardino di casa, vista Langhe. Siamo in terra di Dolcetto. Le vigne circondano la sua casa-studio. Dieci anni fa decise di regalare alla moglie Catherine, svizzera di Zurigo, una panchina fuori scala, gigante, dalla quale godere il meraviglioso paesaggio offerto dai filari di vigneti, dalle colline e dalle Alpi che nelle giornate serene abbracciano tutto il panorama dominato dal Monviso. E così, con l’aiuto di un suo vicino di casa, un viticoltore bravo con gli attrezzi realizzò il progetto della Number One, una Big Bench rossa che disegnò sul cartone d’imballaggio di un frigo. Arrivarono i primi visitatori e, con loro, le richieste di duplicare il manufatto altrove: da lì partì l’esigenza di dare un nome a quello che oggi è diventato un vero e proprio movimento: il «Big Bench Community Project» (www.bigbenchcommunityproject. org). L’idea, infatti, non consiste semplicemente nel duplicare qualche panchina, ma nel dare una struttura a un’associazione no-profit, che di fatto identifichi sia il network delle panchine giganti (BBCP - Big Bench Community Project) sia la relativa community. Oggi sono 128 le panchine sparpagliate tutte in Italia (la più a sud in Basilicata). Ci sono però segnali di apertura
imprescindibili. Ad esempio, l’attrazione turistica dev’essere già presente sul territorio: è il paesaggio, quello che abbonda in bellezza sia in Italia sia nel nostro territorio e che a volte è ormai invisibile agli indigeni e nascosto al turismo degli itinerari convenzionali. D’altro canto, di panchine giganti nel mondo ce ne sono sicuramente altre, ma per la prima volta qui si dà importanza all’esperienza, al contesto. Esiste anche un turismo «Instagrammabile»: si va in un determinato posto, creato per essere fotografato, un paio di pose, qualche selfie e poi si confeziona la storia o il post acchiappa like. A prima vista anche questo progetto potrebbe rientrare in questa casistica: effettivamente sui social le Big Bench hanno un ottimo seguito, gli hashtag si sprecano, ma c’è qualcosa di molto più profondo e lo si capisce dalle parole di Mr. Bangle: «le panchine sono realizzate esclusivamente senza uso di denaro pubblico: è un atto – privato – di responsabilità sociale che un sostenitore può fare per il pubblico. La comunità locale e i visitatori si assumono, a loro volta, la responsabilità, sociale di prendersene cura», è spiegato nel progetto. Oltre questa presa di coscienza collettiva, la panchina rappresenta comunque un simbolo e detiene anch’essa una certa responsabilità, non si tratta solo di semplici attrazioni da fotografare, si rischierebbe di fare come lo stolto, finendo per guardare il dito e non la luna: questione di punti di vista, e la panchina, di fatto, ci invita a prendere posizione e ad avere un punto di vista sul territorio. Qui si parla di un progetto condiviso, più sociale che social: un modo virtuoso e tangibile di pensare la community. Il tutto si auto-sostiene coinvolgendo, non solo il quartier generale di Clavesana – che approva e fornisce gratuitamente i disegni e le indicazioni per le nuove panchine – ma anche gli artigiani, i promotori, le realtà ricettive, i sostenitori, i «Bench tourists» – o «panchinisti» – e i curiosi. Grazie a un’idea così semplice quanto geniale, basata su uno dei meccanismi fondamentali del pensiero creativo – il cambio di scala – e al giusto contesto, il sistema sinergico innescato
da Mr. Bangle contribuisce a produrre valore: valore culturale ed economico per il territorio e valore olistico, fisico e spirituale, per chi ne usufruisce. Adesso siete ancora lì, seduti sulla vostra panchina gigante, smettete per un attimo di oscillare le gambe e vi riempite gli occhi della bellezza che sta
intorno a voi, a bocca aperta. Anche ora che sapete tutto di questo progetto, di quella panchina gigante rossa, la cosa che più vi affascina è l’esperienza che state vivendo: poesia e magia, certi che non è più la panchina ad essersi fatta gigante, ma voi ad essere tornati nuovamente bambini. annuncio pubblicitario
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ambiente e benessere migusto la ricetta della settimana
Uno spezzatino ciambelle pasquali d’agnello speciale Piatto principale Pasticceria
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 circa persone: 6 pezzi: 800500 g digspezzatino di farina · d’agnello, 1 c di zucchero ad esempio di canna spalla · 1½· sale cc di· pepe sale · ·20 2 cucchiai g di lievito d’olio fresco di ·colza 3 dl di HOLL latte tiepido · 4 spicchi · 60d’aglio g di burro · 2 cipolle morbido grosse · 1 ·uovo 8 pomodori · farina secchi per modellare sott’olio··granella ½ cucchiaio di zucchero di farina per· decorare 4 dl di brodo · 6 uova di manzo sode colorate. · 50 g di olive nere snocciolate · 4 fette di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone. 1. Per la pasta, mescolate in una scodella la farina con lo zucchero e il sale. Fate 1. sciogliere Conditeil la lievito carnenelcon latte sale e incorporatelo e pepe e rosolatela alla farina beneinsieme nell’olioalin burro. una Sbattete padella. Dimezzate l’uovo. Mettetene l’aglio,da tritate partegrossolanamente un po’ per i nidi,lecoprite cipolle. e tenete Aggiungete in frigo. aglio, Incorporate cipolle e pomodori il resto dell’uovo alla carne, alla spolverizzate massa e impastate con latutto farinafino e bagnate a ottenere conuna il brodo. pastaMettete liscia e il omogenea. coperchioCopritela e stufate con a fuoco un canovaccio medio-basso umido per circa e lasciatela 50 minuti. lievitare Lasciate a temperatuil coperchio ra ambiente, leggermente finché aperto raddoppia per permettere di volume.al vapore di fuoriuscire dalla padella, in modo 2. Dividete che il la liquido pasta si inriduca. 12 parti uguali. Su poca farina formate dei filoni lunghi 2. circa Tagliate 30 cm. le Intrecciate olive e i cipollotti due filoni a rondelle alla volta sottili, e formate il prosciutto una ciambella. a dadini. Le Ricavate ciamdelle belle listarelle dovrebbero dalla avere scorza undel diametro limone.interno Mescolate di circa tutto. 5 cm. Unite le estremità 3. premendole Spremete lainsieme. metà delAccomodate limone. Condite le ciambelle lo spezzatino su unacon teglia il succo foderata di limone, con carta sale edapepe forno. e distribuite la gramolata sulla carne. 3. Spennellate le ciambelle con l’uovo messo da parte e cospargetele di granella Un piatto gustoso che può essereaaccompagnato pasta oalsemplicemente cone di zucchero. Accendete il forno 200 °C, infilatecon la teglia centro del forno fette di pane. cuocete le ciambelle per 20-25 minuti, mentre la temperatura del forno aumenta. Sfornate e lasciate raffreddare su una griglia. Sistemate un uovo sodo al centro Preparazione: circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. di ogni ciambella. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati, 520 kcal/2150 kJ. Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 20-25 minuti; lievitazione: circa 1 h e 30 minuti. Per persona: circa 21 g di proteine, 18 g di grassi, 71 g di carboidrati, 550 kcal/ 2300 kJ.
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ambiente e benessere
Petra e Peter sulla sommità dell’olimpo
Sport Petra Vlhová conquista l’affetto della tifoseria raggiungendo la notorietà del suo connazionale Peter Sagan,
tre volte campione mondiale di ciclismo; ma non sono mancate le polemiche
Giancarlo Dionisio Petra è una vincitrice degna, così come lo è Alexis Pinturault. Il francese, dopo essersi più volte inchinato allo strapotere dell’austriaco Marcel Hirscher, lo scorso anno è stato gabbato dal Covid, che ha interrotto la stagione, proprio mentre il transalpino stava rimontando sul norvegese Aleksander Kilde. Petra e Alexis non hanno rubato nulla. La FIS (Fédération Internationale de Ski), sì. Ha scippato spettacolo ed emozioni al pubblico, agli atleti, e alle televisioni che avevano acquistato i diritti di diffusione. Se, ad esempio, la sera della finale di Champions League, un tornado si abbattesse sullo stadio di Istanbul, l’Uefa, la rinvierebbe di 1 o 2 giorni. Se necessario, la sposterebbe altrove, in Papuasia, in Capo al Mondo, su Marte, ma quella finale passerebbe agli annali, con tanto di foto dei vincitori che sollevano al cielo la Coppa dalle grandi orecchie. Con la Sfera di cristallo è andata diversamente. Ed è un peccato. Soprattutto per uno sport che, complice il riscaldamento del pianeta, è a rischio di estinzione più di quanto non lo siano il pipistrello delle Seychelles o il rinoceronte di Sumatra. Sono bastati due giorni di neve e nebbia per paralizzare il meccanismo proprio nel momento in cui avrebbe dovuto girare come la ruota del Trocadero. Il pubblico ha fatto fatica a cogliere le ragioni per le quali la FIS non
abbia semplicemente anticipato Slalom e Gigante, più facilmente gestibili, per lasciare Discesa e Super G al week end, quando già si sapeva che la meteo sarebbe stata più clemente. Gli appassionati non hanno capito neppure perché la Federazione Internazionale di Sci ha deciso di non annullare il poco attraente Team Event del venerdì, per fare posto almeno a una delle due prove veloci. O ancora, ci si chiede – in assenza di pubblico, a causa delle restrizioni antipandemia, con il settore alberghiero tutt’altro che sotto pressione – sarebbe stata una follia sforare nella settimana successiva? Attraverso i microfoni e i taccuini di mezzo mondo, i delegati FIS hanno fatto sapere che il regolamento delle Finali di Coppa del Mondo, sottoscritto da tutti i paesi, non prevede cambiamenti di programma. In altri sport, come ad esempio il ciclismo, quando la meteo condiziona la corsa, la Giuria riunisce tutti i responsabili delle squadre per informarli che quattro Gran Premi della Montagna vengono cancellati, oppure che la tappa verrà accorciata o allungata. Nessuno batte ciglio. Non sarebbe stato possibile convocare tutti nel quartier generale FIS a Lenzerheide, per proporre una deroga al regolamento? Qual era il dubbio? Che i delegati slovacchi e francesi avrebbero boicottato le gare? Io credo di no. Sono convinto che la sportività avrebbe prevalso. Se Petra Vlhová e Alexis Pinturault avessero perso la Grande Coppa
La sciatrice alpina slovacca Petra Vlhová. (rolandhino1)
a favore di Lara Gut-Behrami e Marco Odermatt, ne sarebbero comunque usciti vincenti sul piano etico. E se invece fossero riusciti a contrastare la rimonta dei due Svizzeri, la loro luce ne sarebbe uscita centuplicata. Immagino le standing ovations trasversali, da Lenzerheide a Oslo, da Parigi ai Monti Tatra, ovunque, dove c’è qualcuno che ama le sfide. Sarebbe stato l’epilogo più entusiasmante dopo un decennio, ad
eccezione dello scorso anno, cloroformizzato dai trionfi di Marcel Hirscher e Mikaela Shiffrin. In prospettiva, c’è da riflettere. Ripetere l’errore di quest’anno, potrebbe avere effetti preoccupanti in termini di credibilità. Il mondo dello sci si sta interrogando. Sia su questo, sia su altri temi, come quello di una più equa distribuzione delle varie discipline nel calendario di Coppa del Mondo.
Quest’anno i numeri parlavano di un leggero vantaggio (+due) delle prove tecniche su quelle veloci. Se però è vero che il prossimo anno sono previsti undici Slalom a fronte di cinque Super G, proprio non ci siamo. Non ci sono ragioni tecniche e, soprattutto, non ci sono ragioni di equità sportiva. Si intuiscono per contro, delle chiare motivazioni finanziarie. Il numero delle località turistiche che si offrono per organizzare uno slalom è nettamente superiore a quello dei luoghi in grado di ospitare una Discesa o un Super G. Perché neve, vento, pioggia e nebbia, difficilmente riescono a bloccare uno slalom, mentre uno solo di questi elementi è in grado di paralizzare una prova veloce. Forse, queste iniquità di trattamento, a meno di un’auspicabile, ma difficilmente prevedibile controtendenza climatica, verranno risolte quando si potrà gareggiare solo oltre i 3000 metri, su ciò che resterà dei sempre più striminziti ghiacciai in via di scioglimento. Quando il mercato del turismo non detterà più legge. Perché? Perché il pubblico si godrà le gare comodamente seduto, al caldo, sul divano di casa, e tra un gruppo di sciatori e l’altro, oltre agli spot pubblicitari, le TV diffonderanno delle «Clip Nostalgia» relative ai tempi in cui si poteva andare a Garmisch, Wengen, Kitzbühel, Courchevel o Vail. Mi auguro però che questo sia solo uno scenario fantascientifico.
giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
cruciverba
orIZZontalI 1.Contrappostoa«Evviva» 7.Simbolochimicodelsodio 8.Anticamonetaspagnola 9.Ilbracciodegliinglesi 11.Tornaseoranonc’è... 12.Ungustonelgelato 15.L’atmosferadelCarducci 16.Nomemaschile 20.Confidente 21.Generemusicaledeglianni80 22.Preposizione 24.AmòLeandro 26.Duequintidicento 27.Caddealprimovolo 30.L’unodeidueperilatini 32.Compostibinaridell’ossigeno 33. Aspra,acidula
Sai perché il koala ama stare abbracciato agli alberi? Per… Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 9, 2, 11, 8)
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VertIcalI 1. Albero tropicale 2. Aste da leva 3. Le iniziali dell’attore Roncato 4. Un anagramma di tesa 5. Fiume polacco... sul calendario 6. Nel volume e nel fascicolo 10. Semplice, pura 13. Che non dimenticano 14. Prua 16. Servizio vincente a tennis 17. La patria di Abramo 18. Motoscafo da competizione 19. La Scala dei parigini 23. In alcune espressioni... 25. Si fa allo stadio 28. Le iniziali dell’indimenticabile Sordi 29. Annodare nel mezzo 31. Sigla di notiziari TV Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
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Vivere bene è semplice
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Politica e economia nel caos brasiliano Crisi di Governo e dimissioni tra i vertici militari mentre Jair Bolsonaro si aggrappa al potere
Siriani in ginocchio La miseria dilaga nel Paese dopo dieci anni di guerra e uno di pandemia mentre gli aiuti diminuiscono. Resta la paura del fondamentalismo islamico pagina 23
moutier passa al giura Dopo l’ennesima votazione, questa volta con un esito chiaro, la cittadina del Giura bernese ha deciso di cambiare cantone, chiudendo un’annosa diatriba pagina 24
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la fase due del nuovo roosevelt
Stati uniti Joe Biden lancia un piano
di 2 mila miliardi di dollari in investimenti pubblici, anche in funzione anti-cinese, ma le incognite sul futuro non mancano
Federico Rampini Riportare l’America al dinamismo degli anni 60, quando la ricerca pubblica guidava la corsa allo spazio, gli investimenti federali erano un motore di crescita. È uno dei temi che ispirano la fase due di Joe Biden. Comincia da un maxi-piano di 2000 miliardi di dollari in investimenti pubblici, concentrati soprattutto sulla ricostruzione e modernizzazione delle infrastrutture, una nuova politica industriale a favore delle tecnologie avanzate, la sostenibilità e le energie rinnovabili. La Cina incombe: tra le ragioni di questo piano c’è l’urgenza di contrastare gli sforzi di Xi Jinping per la leadership nelle tecnologie avanzate e nelle energie rinnovabili. La fase due di Biden ha un nome: «Build back better», ricostruire meglio. Duemila miliardi d’investimenti in 10 anni sono solo una parte del progetto, e per questo primo capitolo c’è un nome specifico: «The american jobs plan». La scelta degli slogan riecheggia il nazionalismo di Donald Trump e infatti Biden è deciso a strappare al suo predecessore la rappresentanza delle classi lavoratrici, con un neo-nazionalismo di sinistra, senza mollare il protezionismo verso la Cina. La sfida con Pechino vuole vincerla nei fatti costruendo un’America più efficiente, più competitiva. Seicentocinquanta miliardi per le infrastrutture «fisiche» tradizionali, ormai spesso fatiscenti e inadeguate: strade e autostrade, porti e aeroporti, ferrovie. Altre centinaia di miliardi per la rete idrica, la rete elettrica, il wi-fi ad alta velocità, le telecom 5G, la distribuzione sul territorio di punti di ricarica per auto elettriche. Nei settori chiave della sfida cinese sulle tecnologie – semiconduttori, intelligenza artificiale, robotica, 5G, biotecnologie – ci saranno 300 miliardi per la politica industriale. A differenza della manovra assistenziale e redistributiva già varata (quella da 1900 miliardi), che era tutta in deficit-spending, Biden
stavolta vuole una copertura degli investimenti con nuove tasse. Chiederà al Congresso di rialzare il prelievo sugli utili societari dal 21% al 28% e la global minimum tax per i profitti esteri delle multinazionali dal 13% al 21%. L’aliquota dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sullo scaglione più elevato dei redditi dovrà risalire dal 37 al 39,6%. Il «Wall Street Journal» sottolinea l’enorme portata politica delle due manovre che Biden ha presentato: è la demolizione di tutta la rivoluzione neoliberista che ebbe inizio con Ronald Reagan nel 1980. Biden di fatto ha messo insieme un grande piano di lotta alla povertà e redistribuzione dei redditi a favore del ceto medio (come tentò Lyndon Johnson con la «Great Society» negli anni Sessanta) e ora un rilancio in grande stile di investimenti pubblici in infrastrutture che riecheggia il «New Deal» di Franklin Roosevelt negli anni Trenta. È un ribaltamento ideologico, una riabilitazione del ruolo dello Stato. Un anno che sembra un secolo, ha smentito così tante previsioni, ha distrutto così tante reputazioni, ha ribaltato così tanti giudizi, da infliggerci una lezione di umiltà. Ricordo che appena 12 mesi fa Biden era circondato dal disprezzo dei media progressisti. Troppo vecchio e moderato. Un uomo del passato, con un bagaglio ingombrante, accusato di razzismo (da Kamala Harris!) e di avere gesti troppo affettuosi verso le donne (un estroverso cattolico irlandese, a disagio nell’ondata di #MeToo). Nelle primarie democratiche aveva esordito collezionando sconfitte, gli opinionisti tifavano per tutti fuorché per lui: maschio bianco eterosessuale, fuori moda di fronte a tante candidate e candidati neri, donne, gay. Biden non ispirava sogni o speranze, era solo «un avanzo di Obama». Un anno dopo Biden viene descritto come il nuovo Roosevelt dagli stessi che esprimevano scherno verso di lui. Non siamo ancora arrivati al centesimo giorno dall’Inauguration day e il
Un anno fa Biden non ispirava sogni o speranze, era considerato «un avanzo di Obama». (shutterstock)
bilancio sembra esaltante su almeno tre fronti. Primo, la campagna vaccinazioni sta andando bene. Anche perché Biden ha avuto l’intelligenza politica di non contestare le giuste scelte del suo predecessore, che aveva finanziato in maniera tempestiva e generosa l’industria farmaceutica. Secondo, la ripresa economica è vigorosa e molti disoccupati ritrovano lavoro. La ripartenza era iniziata sotto Trump ma Biden ha mascherato come «salvataggio» («American rescue plan») quello che in realtà è un gigantesco piano di ridistribuzione dai ricchi ai ceti medio-bassi. Terzo, dopo la ridistribuzione arriva la ricostruzione. In meno di tre mesi siamo già alla fase due di Governo, con la seconda manovra di spesa pubblica, tutta destinata a investimenti. Che cosa può andare storto? Se in questi ultimi 12 mesi abbiamo dovuto rivedere in meglio i giudizi su Biden,
ora dobbiamo evitare l’eccesso opposto. Il tempo è stato galantuomo con lui. Il tempo potrebbe trasformarsi in un crudele tiranno. Un punto debole del suo «New Deal» rooseveltiano è proprio il calendario. Se fosse Xi Jinping a dover realizzare un piano decennale, per un leader «auto-elettosi a vita» sarebbe più facile. In America il mandato del presidente dura 4 anni; la sua capacità di governo può durare la metà. Se nel novembre 2022 dovesse tornare una maggioranza repubblicana al Congresso dopo le legislative di midterm, che fine farà il «New Deal»? Altre incognite non sono diverse da quelle che incontrerà il «Recovery fund» europeo: capacità di spendere presto e bene, impatto ambientale dei cantieri, resistenze della burocrazia o della società civile verso le grandi opere. L’alta velocità ferroviaria della California, una beffa crudele che viene
promessa da 20 anni e finora ha solo ingoiato fondi, è la prova che anche negli Usa non possiamo dare per scontata l’efficienza dello Stato. Un’osservazione critica riguarda l’abbinamento fra grandi opere infrastrutturali e sostenibilità. Tutti questi cantieri, se aperti e gestiti con le tecnologie attuali, sono inquinanti. Biden saprà anche far nascere una nuova generazione di macchine movimento terra a motore elettrico? Cantieri che non siano delle fabbriche di polveri sottili? È solo un esempio di come l’anima verde di questa presidenza e la sua anima operaia possano entrare in rotta di collisione. Infine c’è la classica obiezione della destra liberale: la copertura fiscale di questo «New Deal» non impedirà, almeno nella prima fase, un ulteriore aumento dei deficit pubblici. Come reagiranno i mercati, il dollaro, gli investitori nazionali e stranieri sono punti interrogativi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Politica e economia
governo e militari allo sbando
brasile Dopo i ministri silurati o dimissionari anche l’esercito perde pezzi mentre il Paese è in ginocchio a causa
della pandemia e della crisi economica. Bolsonaro fa carte false per la riconferma del mandato ma Lula è risorto
Angela Nocioni I vertici militari brasiliani si sono dimessi in blocco martedì scorso per protestare contro le crescenti pressioni del presidente Jair Bolsonaro che vuole coinvolgerli a tutti i costi nella sua personale battaglia politica per la rielezione. Questa rinuncia collettiva, sommata alla destituzione del ministro della Difesa e alle dimissioni di quello degli Esteri, ha aperto una crisi ulteriore, tutta interna al potere militare, proprio nel momento in cui il Governo appare allo sbando, spianato da un improvviso rimpasto che ha fatto fuori altri 6 ministri la settimana scorsa mentre il Paese è in piena pandemia con 5 mila morti al giorno. Cifra calcolata al ribasso considerando che gran parte dei decessi a causa della Covid-19 non viene conteggiata come tale.
Molti temono il costante scivolamento verso l’abitudine a calpestare le norme a tutela della democrazia Le forze militari brasiliane sono fortemente politicizzate da tempo, in loro è sedimentata l’eredità di cultura autoritaria e antidemocratica della dittatura militare terminata poco più di trent’anni fa. Molte cose sono rimaste intatte da allora, tra queste anche la formazione dei militari. Ciò ha contribuito a far sì che nell’esercito brasiliano la posizione contraria all’ideologia di sinistra sia prevalente. Con un presidente della Repubblica di ultra destra che non perde occasione per fare allusioni alla necessità di un colpo di mano e per rimpian-
gere i tempi del Governo militare, la parte più estrema di questa destra sa di avere briglia sciolta e ne approfitta. Nell’ambiente democratico che pure esiste nel pianeta militare tutti i giorni vengono denunciati timori non tanto di un colpo di stato classico ma di uno scivolamento costante verso l’abitudine a calpestare le norme a tutela della democrazia dentro e fuori l’esercito. È per esempio costume abituale ormai affermare anche in occasioni pubbliche che il primo aprile del 1964 non ci fu un golpe militare ma la necessaria presa di responsabilità da parte dei militari per mettere ordine nel caos del Paese. Tutto ciò avviene mentre Bolsonaro minaccia spesso di voler applicare l’articolo 142 della Costituzione che, secondo un’interpretazione contestata da molti giuristi, consentirebbe l’intervento delle forze armate contro i poteri dello Stato e mentre lo stesso presidente invita a organizzare manifestazioni contro il Tribunale supremo, massima autorità giudiziaria brasiliana, quando da lì arrivano decisioni a lui sgradite. In Brasile si vota nell’ottobre del 2022 e la campagna elettorale è stata aperta, di fatto, dalla doppietta di decisioni giudiziarie con cui il Tribunale supremo ha nelle scorse settimane annullato i processi contro l’ex presidente Lula (Luiz Inácio) da Silva, rilevando la non imparzialità del giudice Sergio Moro che lo arrestò togliendolo di mezzo dalla corsa per le presidenziali del 2018 nelle quali risultava favoritissimo. Quell’arresto spianò la strada verso la vittoria all’attuale presidente Bolsonaro che premiò il giudice Moro, nominandolo ministro della Giustizia. Le due decisioni del Tribunale supremo hanno stravolto le prospettive politiche del Brasile rimettendo
in campo l’ex presidente Lula da Silva, leader dell’intera sinistra latinoamericana e uscito dal Governo nel 2010 con un consenso popolare che superava l’80 per cento. È questo dato che preoccupa Bolsonaro. E sono quelle decisioni giudiziarie ad aver determinato il terremoto politico di questi giorni. Il presidente, che nel frattempo ha litigato furiosamente con l’ex giudice Sergio Moro dimessosi dal Ministero di giustizia in polemica con lui e pronto a candidarsi a sua volta per le elezioni del 2022, era infatti pronto a cominciare la battaglia per la riconferma del mandato giocandosela contro Moro. Immaginava un duello tutto a destra: Bolsonaro contro Moro. Il presidente pistolero contro il giudice sceriffo. Il fatto che ora Lula sia candidabile e Moro con ogni probabilità no, rovina a Bolsonaro tutti i piani già confezionati per una riconferma del mandato. Li rovina a lui e, soprattutto, al grande blocco di potere conservatore che lo sostiene, fatto di lobby delle armi, lobby del latifondo e potere evangelico (gli evangelici sono un gigantesco potere trasversale in Brasile e contano su tantissimi numeri in Parlamento). Occhio, però. Non entrambe le sentenze pro Lula del Tribunale supremo sono state fatte in favore dell’ex presidente di sinistra. Al contrario. Al di là delle apparenze, la prima sentenza, quella che ha annullato il processo di Moro contro Lula, è stata fatta dal giudice monocratico Edson Fachin per salvare Moro e rendergli possibile la candidatura alla presidenza della Repubblica. C’è infatti una grande battaglia politica interna al potere giudiziario e una parte dei giudici voleva favorire Sergio Moro. L’inziativa del giudice Gilmar Mendes, vecchio nemico di Lula ma determinato a punire l’uso
Jair Bolsonaro ha pericolosamente sottovalutato la crisi sanitaria. (Keystone)
politico della magistratura compiuto da Moro, ha rovinato i piani del salvataggio in extremis di quest’ultimo e ha avuto come effetto finale la resurrezione di Lula che ora, potendo correre alle prossime elezioni presidenziali, con la sua sola presenza in campagna elettorale stravolge tutta la politica, anche quella delle nomine governative. Tra i nuovi capi appena nominati spicca quello dell’esercito. Si tratta del generale Nogueira de Oliveira, mai stato tra i favoriti di Bolsonaro. Finora il generale era il responsabile della salute
nell’esercito e, in totale contrasto con la negazione della pericolosità del virus proclamata da Bolsonaro, aveva organizzato una strategia di contenimento dell’epidemia. La strategia del generale ha funzionato, la percentuale dei soldati ammalati è molto più bassa rispetto a quella nazionale (0,3% contro il 2,5% tra la popolazione civile) e Bolsonaro, vistosi con l’acqua alla gola, ha fatto buon viso a cattivo gioco e l’ha chiamato al Governo nel tentativo di frenare il diffondersi della pandemia e di riposizionarsi in campagna elettorale.
Un blocco orientale in difesa della tradizione
Prospettive Dopo l’Ungheria e la Turchia adesso anche la Polonia pensa di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul
contro la violenza sulle donne e intanto lavora a un trattato alternativo imperniato su valori più conservatori Luisa Betti Dakli Anche la Polonia potrebbe lasciare la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, redatta a Istanbul nel 2011. Come già la Turchia e l’Ungheria, da poco uscite dall’accordo, il Governo polacco guidato da Diritto e giustizia (Pis), un partito conservatore di destra, si muove in questa direzione fin dalla ratifica nel 2015, sotto l’egida dell’Esecutivo europeista PO/PSL. Questa volontà si sta concretizzando: settimana scorsa il Sejm, la Camera bassa del Par-
lamento, si è espressa favorevolmente sulla proposta di legge «Sì alla famiglia, no al gender» relativa all’opposizione alla Convenzione di Istanbul e all’impegno del Governo polacco a iniziare i lavori per la nuova «Convenzione internazionale sui diritti della famiglia». La discussione ora prosegue all’interno delle Commissioni parlamentari. Al posto della Convenzione di Istanbul firmata da 45 Paesi, insomma, la Polonia vuole una legge in cui siano chiari i diritti di coniugi, genitori, bambini e «misure per contrastare la violenza lesiva della vita familiare».
Anche in Polonia sono le donne ad essere le principali vittime della violenza. (shutterstock)
Una legge che mette sullo stesso piano violenza su donne, uomini, bambini, anziani, disabili e cancella la nozione alla base della Convenzione di Istanbul per cui la violenza maschile sulle donne sia un fenomeno strutturale, endemico nel mondo, derivante dalla disparità tra i sessi all’interno della società e perpetuato da una cultura che tollera e giustifica la violenza di genere. Un cambio di prospettiva che non trova corrispondenza nella realtà dato che, anche in Polonia, le vittime di violenza sono soprattutto donne, il 74 per cento. Ma quali sono le critiche mosse alla Convenzione di Istanbul? Per il viceministro alla Giustizia polacco Marcin Romanowski l’accordo lede il diritto dei genitori di allevare i figli, anche se in realtà vieta solo di «picchiare, umiliare, molestare». Inoltre sarebbe in contraddizione con la Costituzione del Paese che, all’articolo 18, afferma come il matrimonio e la genitorialità siano sotto la protezione della Repubblica. Ma è la nozione di genere a sollevare il polverone più grosso, perché «il termine genere indica che la femminilità e la mascolinità sono costrutti sociali» e non biologici. Critiche condivise dall’Episcopato polacco, in quanto la Convenzione attaccherebbe la religione malgrado affermi solo che quest’ultima non può essere invocata per giustificare abusi e molestie. In estate il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro ha presentato al Mi-
nistero per la famiglia la richiesta per un procedimento sul ritiro dalla Convenzione, denunciata anche al Tribunale costituzionale dal primo ministro Morawiecki, che ha deciso di mandare una lettera a Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Croazia per la stesura di un «trattato alternativo» fondato sui diritti delle famiglia. Lettera che introduce concetti di «delitto contro la famiglia», diritto del bambino al concepimento, protezione del matrimonio tra donne e uomini. Iniziativa che ha suscitato l’interesse di Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Lettonia, Lituania e che potrebbe creare un’alleanza nell’Europa centro-orientale, bloccando l’espansione dei diritti. Il comitato d’iniziativa per la legge «Sì alla famiglia, no al gender», che ha raccolto 150 mila firme, è composto dal Congresso sociale cristiano e dall’Istituto giuridico ultraconservatore Ordo iuris, con Life and family foundation e St. Benedict co-organizzatori. Ma sono gli avvocati di Ordo iuris ad aver redatto il disegno di legge, come già avevano steso la proposta del 2016 che introduceva di fatto il divieto totale di interruzione di gravidanza (respinta dal Parlamento) e le argomentazioni giuridiche presentate al Tribunale costituzionale che tempo fa ha vietato l’aborto anche in caso di malformazione del feto. Ordo iuris lavora anche alla «Convenzione dei diritti della famiglia», in cui si indica l’indebolimento della fa-
miglia tradizionale come causa della violenza domestica che può essere risolta riducendo l’interferenza dello Stato nella vita familiare, dando ai genitori un maggior controllo sui figli, rifiutando relazioni omosessuali e aborto. Le cause della violenza, secondo il documento sono da ricercare in deviazioni come pornografia, alcool, droghe e sessualizzazione delle donne nei media. Ordo iuris ha ramificazioni in Estonia, Slovacchia, Croazia e altri Paesi europei ed è legato a Tradition, family and property: una rete transnazionale di ultraconservatori fondata in Brasile nel 1960 da Plinio Corrêa de Oliveira, che riunisce 40 organizzazioni cattoliche e che da anni collabora con l’estrema destra, a partire dai regimi dell’America Latina. Nato nel 2012 in Polonia, Ordo iuris è strettamente legato al partito di Governo (PiS) ed è in grado di sviluppare pacchetti legislativi complessi infiltrandosi in contesti di potere. Anche se il disegno è molto più ampio e prevede il «Restoring the natural order», un patto del 2013 tra attivisti statunitensi ed europei per portare al rifiuto di alcuni diritti da parte di una rete chiamata Agenda Europa, impegnata nel «ripristino dell’ordine naturale» che riunisce organizzazioni di 30 Paesi i cui scopi sono: cancellare il divorzio, l’accesso ai contraccettivi, la riproduzione assistita, l’aborto e i diritti della comunità lesbica, gay, bisessuale, transessuale e intersessuale (Lgbti).
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Politica e economia
Siria, la miseria e lo spettro dell’Isis
Il punto Dopo dieci anni di guerra e uno di pandemia il Paese è al collasso mentre gli aiuti finanziari diminuiscono.
Peggiorano le condizioni nel campo di Al hol che ospita 60 mila persone, per lo più familiari di fondamentalisti
Francesca Mannocchi La comunità internazionale è tornata a riunirsi per la crisi siriana che raggiunge quest’anno il decimo anniversario dall’inizio del conflitto. Iniziata come una rivoluzione, un’ondata di protesta contro il regime di Bashar al Assad, si è trasformata in una guerra civile che ha causato dal 2011 quasi mezzo milione di morti e milioni di sfollati. È per sostenere questi ultimi e i Paesi che li ospitano che 50 Nazioni, 30 organizzazioni tra agenzie umanitarie e istituzioni finanziarie internazionali sono tornate a riunirsi a Bruxelles: troppo gravosi gli impegni e troppo incerto il destino per distrarsi.
Le Nazioni unite stimano che nel Paese nove persone su dieci vivono nella povertà più estrema A rendere più complicate rispetto al passato la gestione degli aiuti e la stesura dei progetti è stato l’anno di crisi globale segnato dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica che ha investito la Siria ma anche i Paesi donatori, i cui impegni finanziari erano già diminuiti prima del 2020 ma che corrono il rischio di precipitare come reazione alla Covid-19. In Siria la crisi sanitaria ha esasperato la peggiore crisi economica dall’inizio del conflitto, il valore della moneta è precipitato mentre i prezzi dei beni primari, soprattutto i prodotti alimentari, sono saliti vertiginosamente, più del 200 per cento rispetto all’anno scorso per effetto dell’inflazione. Secondo l’Onu in Siria 9 persone su 10 vivono in povertà estrema e nella zona più segnata dal conflitto, la parte nord del Paese, 4 milioni di persone vivono in una situazione che non permette loro di soddisfare le esigenze alimentari. È ai 15 milioni di persone bisognose di supporto – il 20 per cento in più rispetto allo scorso anno – che la comunità internazionale è chiamata a dare
risposte. Le Nazioni unite chiedevano una decina di miliardi di euro per le questioni umanitarie più critiche: cibo, alloggio, scolarizzazione, progetti di lavoro. Quattro miliardi per gli aiuti interni e il resto per i 6 milioni di persone che vivono nei Paesi limitrofi: il Libano, la Giordania, l’Iraq e la Turchia (che da sola ospita 3 milioni e mezzo di siriani). È anche a queste comunità che hanno condiviso con i profughi siriani i servizi pubblici e il già difficile mercato del lavoro che è destinata una parte degli aiuti, perché l’Ue sa che, se viene meno la tenuta sociale delle Nazioni ospitanti, il rischio è una nuova ondata migratoria verso l’Europa come quella che ha visto protagonista la rotta balcanica nell’estate del 2015. Ecco perché da solo il Fondo fiduciario regionale dell’Ue ha disposto 2 miliardi e mezzo di euro tra il 2014 e il 2021. «La situazione per i siriani nel loro Paese e nei Paesi vicini è peggiore di quanto non sia mai stata negli ultimi 9 anni», ha detto il capo degli affari umanitari dell’Onu Mark Lowcock. «C’è meno violenza ma più sofferenza». La conferenza di Bruxelles, però, non si è conclusa come sperato. I Paesi donatori hanno promesso aiuti per 6,5 miliardi di dollari, a fronte dei 10 richiesti. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri, ha dichiarato: «Un decennio dopo che i siriani sono scesi pacificamente in piazza chiedendo libertà, giustizia e prospettive economiche, quelle richieste sono ancora insoddisfatte. Il Paese è nel caos». Alla vigilia della Conferenza, il Movimento della Croce rossa e della Mezzaluna rossa siriana aveva diramato un comunicato per sensibilizzare i partecipanti al meeting di Bruxelles, invitandoli a essere conseguenti agli impegni presi e garantire i finanziamenti di cui il Paese ha bisogno. «I bisogni in Siria sono enormi – osservava – e i servizi umanitari rimangono un’ancora di salvezza. Nonostante le sfide alla sicurezza e le difficoltà politiche, dobbiamo continuare a trovare modi per riparare le infrastrutture distrutte e assicurarci che le persone abbiano accesso a servizi di base come l’acqua
Sono soprattutto donne e bambini ad essere ospiti del campo profughi di Al hol. (aFp)
potabile, l’elettricità e i servizi sanitari: cliniche e ospedali». La Mezzaluna siriana e le delegazioni della Croce rossa hanno risposto ai bisogni degli sfollati dall’inizio del conflitto e tuttora assistono ogni mese quasi 5 milioni di persone. Il rischio però è che la violenza dell’anno pandemico spinga i Paesi donatori alla tutela delle comunità interne e li renda disattenti al resto. Preoccupazione espressa da Francesco Rocca, presidente della Federazione internazionale delle società di Croce rossa e Mezzaluna rossa: «Negli ultimi 10 anni c’è stata un’enorme generosità e solidarietà nei confronti della Siria e dei Paesi vicini. Purtroppo oggi le donazioni stanno diminuendo, mentre la crisi umanitaria peggiora ogni giorno di più. I finanziamenti sono più che mai necessari per garantire che i siriani possano mantenere una vita dignitosa».
Non è solo la crisi economica, purtroppo, ad affliggere la Siria, ma anche quello che resta della sconfitta dello Stato islamico. Dopo la riconquista dell’ultima roccaforte siriana, il villaggio di Baghuz, nel 2019, migliaia di seguaci del gruppo fondamentalista si sono riversati nel campo di Al Hol, che da allora si è trasformato nella versione in scala minore del progetto dell’Isis. Oggi nel campo vivono 60 mila persone, 30 mila iracheni, 25 mila siriani e migliaia di altre nazionalità, per lo più familiari di foreign fighters arrivati in Siria e in Iraq a combattere nelle fila dell’Isis. L’Onu stima che il 93 per cento dei profughi di Al Hol è composto da donne e bambini. Di recente un’operazione congiunta delle forze militari curde che controllano la zona (Sdf), coadiuvate dal supporto logistico delle forze della coalizione internazionale, ha tratto
in arresto Abu Saad al Iraqi, un noto reclutatore ricercato da anni, e altre 8 persone. Cinquemila uomini delle forze di sicurezza sono entrati nel campo, sgominando cellule del gruppo terroristico, scovando 200 telefoni cellulari, laptop, hard disk pieni di informazioni sensibili e una scorta di uniformi militari che sarebbero servite ai sostenitori dell’Isis per camuffarsi e fuggire, forse seguendo piani folli di attentati. La situazione nel campo sta precipitando al punto che, solo negli ultimi tre mesi, all’interno sono state uccise quasi 50 persone, segno del deterioramento della situazione, della mancanza di progetti di deradicalizzazione ma anche della negligenza dell’Europa che ancora, a distanza di 3 anni, stenta a rimpatriare i familiari dei foreign fighters, soprattutto i bambini, abbandonati così a un destino di devianza e stigmatizzazione. annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Legga la storia di Sidra e della sua famiglia: caritas.ch/sidra-i
Sidra, 10 anni, dalla Siria, è nata quando nel suo Paese è scoppiata la guerra. Vuole diventare medico per alleviare le sofferenze degli altri.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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Politica e economia
moutier dice addio a berna
Questione giurassiana Domenica scorsa, gli abitanti di Moutier hanno deciso che in futuro il loro comune farà
parte del canton Giura. Inizia ora un processo di riconciliazione per sanare un conflitto che si trascina da decenni Luca Beti Sulla piazza davanti alla stazione di Moutier ci sono decine e decine di bandiere rosse e bianche. Non c’è quasi vento, ma gli stendardi fremono. Dalle prime ore del pomeriggio di domenica 28 marzo, alcune migliaia di separatisti si sono radunati fuori dall’Hôtel de la Gare, il loro quartiere generale. Sono in attesa del risultato della votazione sull’appartenenza cantonale della cittadina industriale, chiusa tra le porte del Giura nella valle della Brisa: rimanere con l’orso, come viene spesso definito il canton Berna, oppure accasarsi nella Repubblica e nel canton Giura. Alle 18.00, la piazza si zittisce. Claude Mottaz, il capo dell’ufficio elettorale, si presenta davanti ai microfoni e legge meccanicamente il risultato dello scrutinio: numero di «sì» 2114, numero di «no» 1740. Moutier cambia cantone. La gioia diventa irrefrenabile sulla piazza della stazione. L’annuncio suona come una liberazione per i pro-giurassiani, i Béliers (in italiano, gli arieti, organizzazione giovanile nata nel 1963): grida, petardi, fumogeni, abbracci e lacrime di gioia. E poi le note de «La Rauracienne», l’inno del canton Giura. Per i separatisti è un momento storico, atteso da oltre quarant’anni. Per i pro-bernesi, i Sangliers (in italiano, i cinghiali, organizzazione giovanile fondata nel 1973), è invece la fine. Con il capo chino assistono alla festa con lo sguardo vuoto. Con il 54,9 per cento di «sì» e 347 voti di differenza, il verdetto è troppo netto per sperare in un ricorso che potrebbe riportare tutti alla casella di partenza. «Il 28 marzo 2021 ha sancito la fine della questione giurassiana», ha ricordato con rammarico il presidente del governo bernese Pierre Alain Schnegg. «È una decisione inoppugnabile», ha evidenziato dal canto suo Nathalie Barthoulot, presidente del Consiglio di Stato del canton Giura. Quello di domenica è stato un dejàvu. Il 18 giugno 2017, Moutier aveva già deciso di cambiare cantone d’appartenenza, allora con soli 137 voti di scarto.
Festeggiamenti non proprio conformi alle regole sulla pandemia a Moutier. (Keystone)
La gioia dei separatisti era stata però di breve durata. Il 5 novembre 2018, la votazione venne infatti annullata dal Tribunale amministrativo del canton Berna per irregolarità nel registro elettorale e durante la campagna. Affinché il voto di domenica 28 marzo si svolgesse secondo le regole, sono state rafforzate le misure di controllo definite nel quadro della Conferenza tripartita sul Giura, presieduta dalla consigliera federale Karin Keller-Sutter e alla quale hanno partecipato le delegazioni dei governi bernesi e giurassiani e del comune di Moutier. La Confederazione lo ha definito lo scrutinio più complesso mai tenuto in Svizzera. Il materiale di voto era filigranato per evitare contraffazioni, l’Ufficio federale di giustizia ha controllato minuziosamente il registro di voto, ha consegnato personalmente le schede a circa 200 persone anziane e ha inviato 18 osservatori federali affinché monitorassero lo spoglio. Precauzioni volte a cancellare sul nascere qualsiasi dubbio sulla regolarità del voto, l’ultimo di una lunga serie iniziata oltre sessanta anni fa.
Il 5 luglio 1959, il 67,2 per cento dei Prévôtois – questo il nome degli abitanti di Moutier, termine risalente al periodo in cui la città era il capoluogo di una prepositura, baliaggio del principato vescovile di Basilea – ha detto no alla creazione di un nuovo cantone. Anche nell’ambito del plebiscito del 23 giugno 1974, la cittadina industriale rispose «no», con soli 70 voti di scarto, alla domanda: «Volete creare un nuovo cantone?». Nel computo totale, invece, il popolo dei sette distretti accettò la creazione di un nuovo cantone con 36’802 voti a favore e 34’057 voti contrari. Fu l’atto costitutivo dello Stato giurassiano. Per i distretti del sud, che decisero di restare nel canton Berna, nel 1975 si tengono altre consultazioni, accompagnate a Moutier da atti di violenza. Il 29 novembre 1998, viene organizzato un voto consultivo sull’appartenenza cantonale. I Prévôtois rimangono fedeli a Berna per soli 41 voti. Ma gli equilibri sono cambiati, anche perché gli autonomisti hanno da anni la maggioranza in consiglio comunale e dal 1986 il municipio è retto da un sindaco pro-
giurassiano. Per la prima volta, il 24 novembre 2013, il 55,4 per cento dei votanti di Moutier si dice favorevole all’apertura di un processo volto a riunire la città al canton Giura. In quell’occasione i voti di differenza furono 389. Il voto di domenica mette quindi la parola fine a una questione che si trascina da anni, con Moutier come terra di scontro tra Béliers e Sangliers. Nel suo libro Der Jurakonflikt – Eine offene Wunde der Schweizer Geschichte, edito da NZZ Libro, il giornalista Christian Moser presenta le varie tappe del conflitto che l’esperto definisce «una ferita aperta della storia svizzera». Oltre a ricordare dettagliatamente le gesta del terrorista Marcel Boillat, convinto che la «liberazione» del Giura si potesse ottenere solo con il fuoco e le bombe, Moser ricorda le tensioni a vari livelli tra i due schieramenti. Nelle oltre 200 pagine, l’autore scrive anche di piccole schermaglie e rancori, episodi sintomatici di un conflitto latente nel Giura bernese che si riaccendeva ad intervalli regolari. Per esempio, nel 1979 un insegnante del piccolo co-
maudet sconfitto, per ora
buoni risultati nonostante il covid
elezioni ginevra Battuto dalla verde Fischer, ma primo
fra i candidati borghesi – Potrebbe meditare di ricandidarsi fra 2 anni Marzio Rigonalli Pierre Maudet, l’«enfant prodige» del partito liberale radicale ginevrino, è stato accantonato. L’esito dell’elezione suppletiva al Consiglio di Stato del canton Ginevra, favorevole alla verde Fabienne Fischer, ha chiuso un lungo periodo travagliato della politica ginevrina. Un periodo, durante il quale le sentenze giudiziarie e le menzogne si sono intrecciate con i colpi di scena. L’arrivo della rappresentante verde favorirà il ritorno ad una situazione politica più distesa, consentirà ai membri del governo di operare in un clima più sereno, aiuterà a migliorare l’immagine del cantone in Svizzera e riproporrà il tradizionale confronto politico tra la sinistra, che ora detiene 4 seggi su 7 nel governo, e la destra, che conserva la maggioranza in seno al parlamento cantonale. Ginevra ha dunque voltato pagina, si è tentati di dire. Se si osserva attentamente l’esito dei due turni elettorali svoltisi in marzo, conviene però ammettere che in realtà si è forse soltanto di fronte ad una tregua, ad una pausa, e non di fronte alla fine della vicenda centrata su Pierre Maudet. Comincia probabilmente un intervallo,
che potrebbe durare due anni, fino alle prossime elezioni cantonali del 2023, prima di sfociare di nuovo in un braccio di ferro. Due almeno sono le ragioni che inducono a pensare in questa direzione. La prima deriva dal risultato elettorale di Pierre Maudet. Non dimentichiamo che l’ex consigliere di Stato è stato condannato in prima istanza dal Tribunale di polizia di Ginevra, che l’ha giudicato colpevole di accettazione di vantaggi in seguito al viaggio con la famiglia ad Abu Dhabi nel 2015, e che è tutt’ora confrontato con richieste del fisco. Inoltre, l’ex giudice federale Jean Fonjallaz, incaricato dal Consiglio di Stato, in un rapporto sulla struttura ed il funzionamento del dipartimento che Maudet dirigeva, è giunto alla conclusione che l’ex candidato al Consiglio federale non era idoneo a dirigere un dipartimento. Infine, il partito liberale radicale ginevrino, di fronte alla tempesta politica e mediatica che si era scatenata, decise di espellerlo dal partito. Mai finora in Svizzera un membro di un governo cantonale è stato espulso dal suo partito. C’erano dunque sufficienti accuse e prove contro Maudet per non ridargli la fiducia nelle urne. Gli elettori, però,
tennero conto soltanto in parte della situazione venutasi a creare e furono sensibili all’efficace campagna elettorale che l’ex consigliere di stato seppe condurre, dichiarandosi pronto ad aiutare le persone e le ditte colpite dalle misure legate alla pandemia. Al primo turno, il 7 marzo, Maudet giunse secondo, battendo chiaramente il candidato del suo ex partito, Cyril Aellen, ed al secondo turno giunse di nuovo secondo, con il 33,6% dei voti, e primo fra i tre candidati della destra. Un risultato lusinghiero per un candidato senza partito. La seconda ragione che spinge a considerare un possibile futuro ritorno di Pierre Maudet risiede nella sua personalità. Dopo la sconfitta, egli ha dichiarato che continuerà la lotta politica ed ha fissato un appuntamento, ad una data non precisata, con gli oltre 37 mila elettori che l’hanno votato al secondo turno. La sua ambizione politica è grande, immensa, come ha dimostrato la sua candidatura al Consiglio federale nel 2017, quando aveva soltanto 39 anni. È una trainante locomotiva elettorale, un buon oratore, un grande lavoratore ed emerge facilmente in un contesto politico, soprattutto se non vi sono forti personalità. Sono
mune pro-bernese di Sornetan si giocò l’incarico dopo essersi espresso a favore della concessione della cittadinanza a un francese, tacciato di essere filogiurassiano. Un anno dopo, l’assemblea comunale decise di mettere il suo posto di lavoro a concorso, un atto di ritorsione nonostante il consiglio scolastico ne avesse proposto la riconferma all’unanimità. Visto che la decisione era nell’aria, la sala venne invasa dai Béliers, con conseguente rissa e scazzottata, conclusa solo grazie all’intervento della polizia. In seguito, l’associazione bernese degli insegnanti prese le difese dell’affiliato e invitò i suoi membri a non candidarsi. In mancanza di altri pretendenti al posto, il maestro poté ritornare in aula a Sornetan, senza però i figli del sindaco e di un’altra famiglia perché mandati nella scuola di un comune vicino. L’anno dopo, l’assemblea comunale decise di chiudere la scuola per evitare la riconferma dell’insegnante. Domenica scorsa si è chiuso un capitolo, quello istituzionale, della questione giurassiana, nove anni dopo la dichiarazione d’intenti tra i cantoni Berna e Giura volta a mettere fine definitivamente al conflitto che ha le sue radici nel Congresso di Vienna del 1815. Se il risultato della votazione non sarà impugnato davanti alla Prefettura del Giura bernese e se tutti i ricorsi saranno respinti, i cantoni negozieranno un concordato con i dettagli pratici del passaggio di Moutier al canton Giura. La convenzione dovrà poi essere approvata dai cittadini di entrambi i cantoni e poi dall’Assemblea federale. L’obiettivo del governo giurassiano è di abbracciare ufficialmente la città prévôtoise entro il 1° gennaio 2026. Questo è il processo istituzionale. Ce n’è un altro ben più difficile che non può essere risolto a tavolino. A Moutier bisognerà curare molte ferite che al momento sembrano insanabili. Per i Prévôtois è iniziato un lungo cammino per ritrovare serenità e lasciarsi finalmente alle spalle le tensioni che hanno spaccato a metà un comune di circa 7500 abitanti.
gruppo migros
Parti di mercato e vendite online in crescita
Pierre Maudet ha raccolto oltre 37mila preferenze il 28 marzo. (Keystone)
tutte qualità che possono riproporlo al centro della scena politica ginevrina fra due anni, quando si tornerà a rinnovare il governo ed il parlamento cantonali. Forse egli si riproporrà come candidato indipendente, o come leader di un nuovo partito o, addirittura, se ci dovesse essere una riconciliazione, come esponente del partito liberale radicale. Soltanto il futuro potrà confermare o meno queste ipotesi. Intanto a Ginevra, nei prossimi mesi, l’attenzione si porterà sull’azione del governo, nel quale la sinistra ha conquistato la maggioranza. È la seconda volta che succede nella storia del cantone.
Il Gruppo Migros chiude positivamente l’esercizio 2020 nonostante l’emergenza Covid. È riuscito ad acquisire quote di mercato grazie all’ampliamento di un’offerta più vicina alla clientela e a investimenti nella qualità dei prodotti e nella convenienza dei prezzi. Il fatturato è aumentato del 4,4% attestandosi a 29,947 miliardi di franchi. L’utile del Gruppo è pari a 1,757 miliardi di franchi, ed è da ricondurre principalmente alla cessione di Globus e del centro commerciale Glatt. Al netto di questi ricavi eccezionali, Migros ha segnato un utile di 555 milioni di franchi, nonostante importanti settori, come viaggi, gastronomia e tempo libero, abbiano registrato pesanti flessioni. Nell’ecommerce il Gruppo Migros è riuscito a consolidare la posizione di leader in Svizzera. Il fatturato del commercio al dettaglio online ha avuto una crescita record del 45,5%, raggiungendo 2,995 miliardi di franchi. Inoltre, Migros ha investito 159 milioni di franchi in cultura, formazione, tempo libero, progetti pionieristici e lavori di sviluppo.
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Politica e economia rubriche
Il mercato e la Piazza di angelo rossi la difficile lotta contro l’isola dei prezzi Nella sessione che si è chiusa di recente il nostro parlamento ha approvato un controprogetto all’iniziativa per i prezzi giusti. Il problema è conosciuto: un consumatore ticinese può comperare appena fuori dal confine, in Italia, prodotti di marca a un prezzo che è inferiore dal 30 al 50% al prezzo che pagherebbe se lo comperasse in Svizzera. Questo perché il produttore straniero giudica che sia giusto praticare per il mercato svizzero, dove il potere di acquisto è notevolmente più elevato che in Italia, un prezzo superiore. Con il diffondersi degli acquisti via internet questa situazione è poi andata complicandosi perché le aziende straniere applicano spesso il bloccaggio geografico, vale a dire deviano i clienti svizzeri su Website che praticano prezzi più elevati. Questa situazione aveva dato luogo, qualche anno fa, a una rivolta
dei grossi distributori svizzeri che si erano rifiutati di continuare a vendere prodotti di marca stranieri che venivano rincarati per il mercato svizzero. Alcuni di questi prodotti erano effettivamente scomparsi dagli scaffali dei supermercati per ricomparire però, quasi in blocco, qualche mese dopo con il prezzo di sempre. L’iniziativa per i prezzi giusti intende riprendere questa lotta. Le sue rivendicazioni sono state ora integrate, quasi interamente, stando ai commentatori, nel controprogetto approvato dal parlamento federale. Non c’è dubbio che nella futura votazione o l’iniziativa o il controprogetto, o ambedue i testi, verranno approvati dall’elettorato. In futuro, quindi, le aziende straniere con potere di mercato dovranno praticare anche per il mercato svizzero i prezzi che richiedono per altri mercati europei. Tutto bene quel
che finisce bene, dunque? Sì, a sentire i rappresentanti delle organizzazioni dei consumatori e quelli dei commercianti importatori. No, invece, ad ascoltare le argomentazioni di chi vigila perché le regole dell’economia di mercato siano sempre rispettate. Ma quali sono queste obiezioni a una regolamentazione che, i fautori ne sono convinti, dovrebbe andare a beneficio di tutta la popolazione e di molte aziende? In primo luogo si sostiene che lo Stato non ha nessun diritto di intervenire a modificare i prezzi stabiliti in una contrattazione tra agenti privati. Se due aziende, una straniera e una svizzera concludono un contratto di fornitura la fissazione del prezzo è affare loro e non dello Stato. Diverso sarebbe il caso se più produttori si accordassero per fissare un prezzo più elevato per il mercato svizzero. Allora gli si potrebbero applicare le disposi-
zioni della legge contro i cartelli. Alla stessa, invece, non si può far ricorso se il produttore in questione è uno solo. Di qui la necessità per il legislatore di creare le premesse legali per un intervento. Il controprogetto, appena approvato, risolve questo problema introducendo la nozione di «potere di mercato». In pratica lo Stato potrà intervenire per correggere il tiro se il distributore svizzero del prodotto straniero è praticamente obbligato a comprare il prodotto offerto al prezzo che intende praticare il produttore straniero. È questo il caso di quasi tutti i prodotti di marca. I commentatori che criticano il controprogetto parlamentare aggiungono ancora che non sarà facile accertare il possibile eccesso di potere di mercato di un produttore straniero. Adottando questo principio si arrischia così di creare nuove pratiche burocratiche
che, per finire, non conseguiranno il risultato desiderato. A questo proposito si cita il caso tedesco. La nuova norma sull’eccesso di potere di mercato si ispira a disposizioni introdotte in Germania negli anni Settanta. Stando ai critici di questa norma queste disposizioni non ebbero praticamente nessun effetto rilevabile sui prezzi dei prodotti importati. Questa era anche l’opinione del Consiglio federale nel messaggio concernente l’iniziativa sui prezzi giusti. Siccome non c’è dubbio che la norma sull’eccesso di potere di mercato verrà introdotta, per effetto dell’approvazione dell’iniziativa o per effetto dell’approvazione del controprogetto, avremo modo, tra qualche anno, di misurarne l’efficacia. Come consumatori non ci resta che sperare che non sia un’ulteriore grida spagnola.
ci impedisse di vedere come finisce, in un colpo secco, una democrazia con ancora tantissimo da fare. La parata di sabato 27 marzo, giorno in cui finisce anche l’anno lunare birmano e quindi sarebbe davvero un giorno di festa, ha dato forma a questo paradosso, ed è per questo che la strage che c’è stata quasi in contemporanea ha scioccato tutto il mondo. Più di cento morti, immagini raccapriccianti, anche tecnicamente ora è un colpo di stato. Come spesso accade in queste storie di violenza, potere e transizioni complicate, il primo a non farsi «sequestrare» dal paradosso è stato un birmano che come mestiere rappresenta il suo Paese all’estero, in particolare alle Nazioni unite. Kyaw Moe Tun, cinquantuno anni, gel nei capelli, diplomatico di carriera, il 26 febbraio è andato al Palazzo di vetro di New York per tenere un discorso sullo stato delle cose nel suo Paese: tutti si aspettavano una difesa dell’operato dei militari, essendo lui il rappresentante della giunta. Senza avvertire nessu-
no e senza un minimo di incertezza nella voce, Moe Tun ha denunciato in dodici minuti «i crimini contro l’umanità commessi dalla giunta ai danni del popolo birmano». Dopo aver chiesto il sostegno della comunità internazionale – non ci lasciate soli, non distraetevi, abbiamo bisogno di voi – ha pronunciato l’ultima parte del discorso in birmano, voleva farsi capire bene dai suoi datori di lavoro, e alla fine ha alzato le tre dita in alto, il simbolo della protesta contro i militari. Poco dopo la giunta ha licenziato il suo diplomatico e ha nominato il suo vice, il quale però si è dimesso anche lui: così per l’Onu ora l’ambasciatore continua a essere Moe Tun. Moe Tun, che nel 1988 voleva partecipare alle rivolte studentesche ma i suoi genitori glielo impedirono, rappresenta bene la cosiddetta transizione birmana: ha sempre lavorato con i militari e, quando è arrivata San Suu Kyi con la sua proposta di compromesso e
collaborazione, ha sposato la sua causa. Ma la convivenza è stata sempre scomoda, perché a livello locale il regime ha sempre cercato di boicottare le iniziative dei cosiddetti civili. «Tutte le sconfitte che abbiamo avuto sono sempre state determinate dai militari», ha detto Moe Tun. Si sapeva che la convivenza era fragile, non che ci fosse un continuo boicottaggio interno. O meglio, non abbiamo voluto vederlo e ci siamo persi invece nel denunciare la trasformazione di San Suu Kyi, da paladina del popolo birmano a collaborazionista della giunta. Eppure, nonostante i morti, Moe Tun non vede un’alternativa alla coabitazione: spera ancora in un dialogo, chiede a Stati uniti e Cina di patrocinarlo, dice che il ribaltamento della giunta non ci sarà, si può soltanto provare a riavvicinarsi. Considerando che Stati uniti e Cina non vanno d’accordo più su nulla, la convivenza è tutta da costruire e da garantire.
tinua a inanellare conferme su quanto prospettavano quasi due anni fa gli autori: Luca e Francesca Balestrieri, lui esperto di tv satellitari e dirigente Rai, la figlia una matematica ricercatrice al Max Plank Institut di Bonn, uniti per esporre con chiarezza esemplare conoscenze e teorie riguardanti tecnologie, economia e geopolitica. Avevo già segnalato il loro libro nel novembre 2019. L’ho ripreso in mano alla luce dei sempre più chiari e impressionanti dati della potenza finanziaria dei giganti del Big Tech, nonché dell’inasprirsi della contesa (scontri e tensioni crescono quasi ogni giorno) in atto fra Cina e Stati Uniti, come pure le forzature della nuova amministrazione Biden per riposizionare gli alleati storici. Va però ricordato che, proprio all’interno dell’Unione europea, la supremazia tecnologica e finanziaria dei Big Tech e il nuovo espansionismo cinese continuano a suscitare timori. In particolare a preoccupare sono i pericoli legati a usi e abusi dei dati personali per potenziare misure di sicurezza, controllo delle infor-
mazioni eccetera, valori che, sia pure con finalità diverse, Stati Uniti e Cina considerano «sacrificabili» sull’altare dello sviluppo commerciale, mentre da noi – e giustamente – a prevalere è la necessità di garantire libertà individuali e sicurezza personale, come pure eque imposizioni fiscali e vigilanza sulla disinformazione. Torno alle strategie del gruppo FAGMA (l’acronimo con cui gli esperti definiscono Facebook, Apple, Google, Microsoft e Amazon), per dire che negli scorsi giorni nella newsletter di un analista finanziario ho trovato interessanti conferme sul fatto che ormai tutte le grandi aziende tecnologiche mirino sempre più a diversificare (qualcuno pensa per sfuggire a future accuse di attività monopolistiche) operando colossali investimenti e acquisizioni mirate non solo nel settore della componentistica riguardante la guida autonoma, ma anche nella costruzione di autoveicoli. Dall’analisi si evince che la Apple, forte del suo primato di maggior azienda hi-tech mondiale punta al lancio di una propria vettura
entro il 2024 e conduce anche una politica aziendale basata sullo «shopping compulsivo»: potendo contare su oltre 200 miliardi di dollari di liquidità, l’ad Tom Cook è come un giocatore di Monòpoli che compra tutto ciò che si muove, cioè acquista startup o imprese già affermate potenzialmente in grado di procurare nuove tecnologie o nuove idee alla Apple o di sottrarle alla concorrenza. Si dirà: in fondo sono strategie riscontrabili anche in altre multinazionali, impegnate a favorire con la loro potenza finanziaria sinergie industriali o a eliminare gli ostacoli (talvolta anche geopolitici) che possono minacciare o intralciare i rispettivi campi di influenza. Però sono strategie che stanno segnando anche l’agire delle grandi imprese farmaceutiche impegnate contro la pandemia sui mercati mondiali dei vaccini. E vedere le multinazionali dei «vaccini privati» statunitensi concorrenziare a tutti i costi i «vaccini di Stato» di Cina, Russia, India e Europa, getta qualche ombra in più sui futuri scenari della geopolitica.
affari esteri di paola peduzzi Il diplomatico birmano ribelle Sono oltre cinquecento i morti in Birmania da quando il primo febbraio scorso c’è stato un colpo di stato – almeno 35 sono bambini, dice l’Unicef – e le immagini che arrivano dalle proteste sono ogni giorno meno digeribili. Il regime dei militari ha organizzato anche una parata per festeggiare le forze armate e la resistenza contro l’occupazione giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Sembrava la scena di un film tanto l’ordine e le canzoni della manifestazione stonavano con il caos che va avanti da due mesi, alimentato da quegli stessi militari che si autocelebravano. Il capo della giunta, Min Aung Hlaing, vestito di tutto punto con la divisa bianca e le mostrine, è anche stato più minaccioso del solito. State attenti voi che protestate, ha detto, potreste finire con un proiettile in testa. Esattamente come la parata, sembrava che stesse parlando di un altro luogo, di un altro Paese, non dei colpi alla testa sparati dalle forze che comanda lui stesso.
La giunta birmana ci ha «sequestrati» tutti in un paradosso. Pur avendo messo Aung San Suu Kyi in prigione – lei e molti esponenti della Lega nazionale per la democrazia, il suo partito che a novembre aveva vinto le elezioni – e pur avendo da quel momento escluso ogni possibilità di dialogo intensificando sempre più la repressione, continua a comportarsi come se stesse esercitando un potere legittimo, perché in fondo la Birmania non è una democrazia, perché in fondo anche San Suu Kyi faceva parte del Governo. Complice il deteriorarsi in Occidente della figura stessa della «signora», come viene chiamata da tutti, a causa delle violenze sulla comunità dei rohingya, per settimane alcuni hanno persino avuto delle remore a definire quel che stava accadendo un colpo di stato. «Tecnicamente non è così», dicevano molti esperti, come se l’annientamento dell’opposizione e gli spari sulla folla fossero una questione tecnica, come se la transizione verso la democrazia
Zig-Zag di ovidio Biffi Storie di monopòli e monòpoli Ripasso (personalissimo) di due secoli di storia geopolitica. Il passato: imperi costruiti sui commerci e sulle materie prime «coloniali» (dalla seta alle spezie e all’oppio) con all’apice prima la Compagnia delle Indie orientali, imitata da Itt e United Fruit in America latina, poi l’Anglo-Iran Oil e i cartelli petroliferi fino a metà del secolo scorso. Il presente: le grandi multinazionali e i colossi finanziari (dalla «Billionairs United» di Buffet, Gates, Bezos e pochi altri sino ai fondi ormai sovrani anche degli Stati) che dall’abbrivio del secolo scorso in poi, passando da orrori e macerie di due guerre, disastri politici e ripetute crisi finanziario-economiche, hanno soppiantato prima i baroni inglesi e il complesso militar-industriale prussiano, poi il comunismo. Ci sono riusciti vincendo guerre con armi sempre più distruttive (dai carri armati ai bombardieri, dai missili nucleari ai droni), poi con invenzioni assai meno distruttive (macchine, soprattutto auto, aerei, televisori, personal computer, ma anche padelle in teflon, lavatrici ecc.) altrettanto efficaci per dominare
economie, mercati e consumatori del mondo intero. Ora, tutto fermo da un anno per pandemia, si guarda al futuro scenario geopolitico dando per possibili, perlomeno a parole, cambiamenti in grado di generare etica nell’impero finanziario e sostenibilità in quello commerciale. Nei fatti, come potenziale nuova «Compagnia delle Indie Orientali», all’orizzonte si staglia già una «macchina da guerra» gestita dai giganti Big Tech statunitensi, operante come sorta di monopolio da Ventunesimo secolo e facilmente trasformabile in controllore della scacchiera geopolitica mondiale. Incontra un solo grande ostacolo: il «capitalismo di stato» della Cina che, impiegando le mirabolanti armi copiate dal capitalismo occidentale e abbinando concorrenze spietate a mire espansionistiche, in pochi anni si è ritagliato supremazie in tutto il Sud-est asiatico, in Africa e ora cerca di attivarle anche in un’Europa disunita e in un’America latina disperata. Approdo a questi scenari dopo aver riletto Guerra digitale, libro che con-
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Idee e acquisti per la settimana
alta ToLLerabilità
azione 20% sull’intero assortimento aha! dal 6 al 19.04
Frequenti dolori addominali, regolare flatulenza o diarrea possono avere cause diverse. Tra queste l’intolleranza al lattosio o al glutine. di seguito scopriamo cosa comportano per il corpo e cosa si può fare al riguardo Testo pia Teichmann
tine u l g a z sen Intolleranza al glutine Nel caso di reazioni ai cereali contenenti glutine, come il grano, la segale e il farro, si distingue fra intolleranza (celiachia) e sensibilità alla proteina. Si stima che circa l’1 per cento della popolazione soffra di celiachia e dal 6 al 10 percento di sensibilità al glutine. La celiachia è una malattia autoimmune. L’ingestione di glutine comporta un danno alle mucose dell’intestino tenue. Le persone affette da celiachia devono assolutamente evitare di consumare alimenti contenenti glutine. La sensibilità al glutine solleva ancora molti interrogativi. I sintomi includono problemi digestivi, mal di testa, dolori alle articolazioni e depressione.
Pizza con pomodori cherry La classica pizza italiana: grazie alla mozzarella e alla miscela di farina aha!, senza lattosio e senza glutine.
Cosa si può fare? Chi non tollera il glutine può ricorrere ai cereali senza glutine, i cosiddetti pseudocereali: grano saraceno, miglio, mais, riso e quinoa, che appunto non contengono glutine. Il marchio aha! certifica tra l’altro i prodotti senza glutine. La gamma comprende per esempio farine, pasta, muffin, pane e pasta pronta per preparare torte, biscotti e pizza.
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crostini ai ravanelli Ingredienti per 4 persone 1 dl di panna intera “aha!”, senza lattosio 30 g di crescione 1 mazzetto di ravanelli 200 g di quark magro “aha!”, senza lattosio Sale, pepe 12 fette di pane Twister Rustico dal forno a pietra
t tosio a l a z n se Intolleranza al lattosio
Cosa si può fare?
Il lattosio è lo zucchero del latte. Chi soffre di intolleranza al lattosio non riesce a digerire questo zucchero, poiché l’enzima digestivo nell’intestino tenue non è presente in quantità sufficiente. Nell’intestino crasso, poi, i batteri presenti portano a una fermentazione del lattosio, ciò che comporta flatulenza, dolori addominali e diarrea. In Svizzera circa una persona su cinque soffre di intolleranza al lattosio.
In caso di intolleranza al lattosio bisogna optare per prodotti alimentari che non ne contengono. L’assortimento aha! comprende anche prodotti quali il latte, il cottage cheese, il quark e persino la mozzarella. In alternativa è anche possibile assumere l’enzima digestivo mancante, la lattasi, grazie al quale i latticini vengono tollerati meglio.
Preparazione Montate la panna ben ferma. Mettete un poco di crescione da parte per guarnire e tritate grossolanamente il resto. Tagliate i ravanelli a fette. Mescolate il quark con la panna e il crescione. Condite con sale e pepe. Spalmate il quark sulle fette di pane, farcite con le fette di ravanelli e guarnite con il crescione messo da parte.
Foto e Styling Veronika Studer; (Food) Getty Images
prOdOTTI L’assortimento aha! è pensato per le persone con allergie o intolleranze. A chi ne è colpito il marchio qualitativo aha! del Centro Allergie Svizzera offre sicurezza nella scelta degli alimenti. Il marchio viene assegnato dall’ente indipendente di certificazione Service Allergie Svizzera SA. Contraddistingue i prodotti che sono fabbricati, etichettati e commercializzati con una speciale attenzione nei confronti di chi ha problemi di allergie e intolleranze. Alla base del marchio linee guida rigorose che vanno oltre i requisiti di legge.
ESSErE INFOrmATI Chi sospetta di avere un’intolleranza è importante che faccia i necessari passi per chiarirlo, soprattutto nel caso della celiachia. Il primo passo è parlare dei propri dubbi con il medico di famiglia. Maggiori informazioni sulla celiachia sono disponibili su migros-impuls.ch/celiachia
Maggiori informazioni su aha! e le intolleranze: migros.ch/aha
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Idee e acquisti per la settimana
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Pane campagnolo integrale
Grazie alla sua forma uniforme, il pane campagnolo integrale è ideale per preparare dei gustosi sandwich. La sua ricetta semplice regala al pane un sapore delicato che fa risaltare al meglio gli ingredienti preferiti combinati strato per strato
lo sapevate? Integrale La denominazione integrale non ha niente a che fare con una varietà di cereali, bensì con il grado di macinazione. Per i pani integrali vengono lavorati insieme la crusca, l’endosperma e il germe con tutte le loro fibre, vitamine, oli e sali minerali.
come gustarlo Formaggio fresco il pane integrale si sposa particolarmente bene con il formaggio fresco: quark, ricotta, cottage cheese o anche feta.
Green Sandwich Ingredienti per 4 persone 1 pane campagnolo da 400 g 1 avocado ½ cetriolo da insalata 1 peperone verde 1 mazzetto di erba cipollina 4 cucchiai di formaggio fresco 1 mazzetto di rucola sale, pepe.
Preparazione Tagliare il pane in 8 fette. Dimezzare l’avocado ed eliminare il seme. Estrarre la polpa e schiacciarla grossolanamente. Affettare il cetriolo. Dimezzare il peperone e privarlo dei semi. Tagliarlo a listarelle. Tagliare finemente l’erba cipollina. Spalmare metà delle fette di pane con il formaggio fresco e l’avocado. Guarnire con gli altri ingredienti. Condire con sale e pepe. Coprire con il resto del pane e servire
Pane campagnolo integrale 400g Fr. 3.20
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cultura e Spettacoli Il riflesso dello specchio Doug Aitken è solo l’ultimo di una serie di artisti che si sono occupati di specchi e riflessi pagina 30
In onore di Stravinsky Il 6 aprile 1971 moriva il compositore e direttore d’orchestra Igor Stravinsky che nel corso della sua lunga carriera visitò anche il Ticino pagina 31
Spelterini e la mongolfiera Nei suoi numerosi viaggi lo svizzero Eduard Spelterini fece conoscere il mondo attraverso i suoi arditi voli in pallone aerostatico pagina 33
la modernità dell’antico mostre A Chiasso va in scena
la reinterpretazione del classico nelle incisioni del Settecento e dell’Ottocento
Alessia Brughera Esauriti il gusto per lo sfarzo e l’esuberanza dell’epoca barocca, intorno alla metà del XVIII secolo l’Europa è alla ricerca di nuovi modelli culturali ed estetici attraverso cui poter riconquistare la sobria eleganza delle origini. Gli occhi e lo spirito invocano adesso un ritorno ai principi di armonia e di proporzione, quegli stessi principi che animavano il mondo della classicità greco-romana. Ecco allora che proprio l’antico diviene in questo periodo una preziosa fonte di ispirazione, una sorta di faro capace di guidare il presente verso un sicuro approdo ai più alti ideali di bellezza. La riscoperta del ricco patrimonio dell’arte greca e di quella romana è incentivata dai numerosi ritrovamenti archeologici del tempo, primi fra tutti quelli delle città di Pompei e di Ercolano, di Villa Adriana a Tivoli e dei templi di Paestum, testimonianze che destano l’ammirazione nei confronti di civiltà ormai scomparse ma stupefacenti. L’antichità viene così recuperata per la sua valenza estetica ed etica, con la convinzione che solo emulandola sia possibile ottenere quell’equilibrio tra uomo e natura in grado di produrre un’arte vicina alla perfezione. Profondamente persuaso da questo pensiero è il bibliotecario, archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann, massimo teorico del Neoclassicismo, per cui «l’unica via per divenire grandi e, se possibile, insuperabili, è l’imitazione degli antichi». Attingere al passato, nelle forme e nei contenuti, significa per l’erudito tedesco trovare un prezioso modello da rapportare alle istanze stilistiche e morali della sua epoca, al fine di rintracciare un fondamento razionale al bello e raggiungere quella «nobile semplicità» e quella «quieta grandezza» che avevano caratterizzato soprattutto l’arte ellenica. Sulla scia delle idee di Winckelmann, diffondere il grande patrimonio artistico dell’antichità diventa una prassi adottata da molti incisori del Settecento e dell’Ottocento, che, cogliendo appieno lo spirito del tempo, restituiscono attraverso l’espressione grafica monumenti e opere d’arte del periodo classico permettendone lo studio e l’approfondimento. La rappresentazione fedele di queste «tracce» costituisce così l’avvio della valorizzazione dell’antico nell’ottica di comprendere il passato per poterlo rielaborare e attua-
lizzare a beneficio della crescita intellettuale della società moderna. A ripercorrere il fenomeno della reinterpretazione del classico tra XVIII e XIX secolo attraverso la produzione incisoria è la mostra allestita negli spazi del m.a.x. museo di Chiasso, una rassegna curata da Susanne Bieri e Nicoletta Ossanna Cavadini che si avvale di quasi duecento opere provenienti da prestatori pubblici e privati. L’esposizione prende avvio proprio con una selezione delle incisioni volute da Winckelmann per i suoi Monumenti antichi inediti, una pubblicazione immane, a cui lo studioso lavora per sette anni, che raccoglie molti dei reperti da lui ammirati nelle collezioni della sua cerchia di cultori della classicità, prima fra tutte quella del cardinale Albani. Edita nel 1767 e scritta in lingua italiana, in essa tutte le descrizioni delle opere d’arte sono accompagnate dalle relative grafiche, in una visione assolutamente innovativa per l’epoca dove narrazione e illustrazione godono di un rapporto del tutto paritario. Quanto Winckelmann credesse in questo progetto lo dimostra il fatto che abbia pagato di tasca propria, con il suo non certo cospicuo stipendio di bibliotecario, l’onerosa parte iconografica, curata nei minimi dettagli affinché potesse emergere il concetto di idealizzazione mitica dell’arte greca. Le opere presenti nella rassegna mostrano difatti come gli incisori abbiano utilizzato un tratto nitido e pulito, con un chiaroscuro poco contrastato, proprio per rappresentare al meglio la purezza della classicità. In questi lavori il monumento o l’oggetto antico appaiono sempre decontestualizzati, così come da direttiva dello stesso Winckelmann, che tra l’altro costringe tutti gli autori all’anonimato, eccezion fatta per Nicolas Mosmas, artista di fama a cui viene concessa la possibilità di firmare la splendida incisione a bulino, esposta in mostra, raffigurante il giovane greco Antinoo. Caratterizzate da un’intonazione più drammatica sono le tavole dell’artista veneziano Giovanni Battista Piranesi, approdato nella Città Eterna nel 1740 e da quel momento impegnato a celebrare con la sua potenza immaginifica la grandiosità dell’arte romana. Le sue opere raccolte a Chiasso, tra cui spiccano alcune incisioni delle Vedute di Roma, le Lapides Capitolini con Antichità di Cora e Castello dell’Acqua Giulia nonché grafiche tratte da quel capolavoro di libertà compositiva che
Nicolas Mosman, Antinoo, bassorilievo presente nella villa del Cardinale Alessandro Albani, incisione inserita in J.J. Winckelmann Monumenti Antichi inediti n. 180, 1767, incisione all’acquaforte. (collezione d’arte m.a.x. museo, chiasso)
sono Le Carceri, introducono il visitatore nella querelle che infervora il Settecento, ovvero il dibattito tra due differenti visioni dell’antico, quella filoellenica incentrata sul bello ideale, di cui Winckelmann si fa promotore, e quella legata alla supremazia estetica romana, che vede proprio il Piranesi in prima fila. L’artista italiano, difatti, è fermamente convinto della superiorità dell’architettura della Roma repubblicana e non manca di esaltarne le impeccabili tecniche di costruzione e la grande inventiva: nelle sue incisioni dal chiaroscuro accentuato, nate da una precisa presa di posizione politica e sociale, egli esprime così il sublime sentimento di magnificenza del passato di Roma, capace di stimolare l’immaginazione degli autori contemporanei. A proseguire la strada battuta dal maestro veneziano è un altro incisore italiano ben documentato in mostra, Luigi Rossini, artista ravennate giunto a Roma nel 1813 e diventato subito
il principale stampatore della città, da tutti considerato «il nuovo Piranesi». È con lui che fa la sua comparsa nella grafica del tempo il paesaggio emozionale: nelle opere di Rossini l’esaltazione dell’antico (con una predilezione per la Roma imperiale) si accompagna infatti a una raffigurazione della natura circostante già pervasa dalle suggestioni del Romanticismo. Di grande interesse sono anche le incisioni in cui l’artista dà vita a fantasie architettoniche ottenute attraverso l’assemblaggio di vari monumenti simbolici, con effetti che raggiungono il Pittoresco. Ormai ampiamente superate le vedute oggettive degli esordi neoclassici, l’ultima parte della rassegna ci conduce verso le prime rappresentazioni romantiche del panorama, in cui l’illusionismo visivo la fa da padrone. Con la nascita della litografia, tecnica più economica che offre la possibilità di grandi tirature, nella prima metà dell’Ottocento prendono vita incisioni scenografiche dal tratto sottile ed
edulcorato, capaci di soddisfare una nuova borghesia non più legata soltanto al circuito convenzionale del Grand Tour ma interessata anche a scoprire nuovi luoghi ameni, come la terra dei laghi insubrica o le località marine e montane. Ecco allora, tra le altre, le vedute di Johann Jakob Wetzel, genio svizzero della cromolitografia, o le incisioni dal taglio stretto e allungato dell’artista francese Nicolas-Marie-Joseph Chapuy, come il bel Panorama de Gènes che campeggia a fine percorso, emblema di una forma d’arte che, di lì a poco, l’avvento della fotografia avrebbe fatto scomparire. dove e quando
La reinterpretazione del classico: dal rilievo alla veduta romantica nella grafica storica. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 12 settembre 2021. Orari: ma-do 10.00-12.00/14.00-18.00. www.centroculturalechiasso.ch
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cultura e Spettacoli
Specchio delle mie brame
arte Nel mondo dell’arte contemporanea lo specchio riveste un ruolo particolare grazie alle sua capacità riflettenti Ada Cattaneo Mai la scelta di collocare opere d’arte in ampi spazi aperti è stata più indovinata. Visibili senza problemi di sovraffollamento, sfuggono a qualsiasi restrizione e sono la conferma che l’arte è una presenza per noi immanente, che ci accompagna in qualsiasi situazione. A qualche chilometro dall’abitato di Gstaad, per due anni è stata visibile l’opera Mirage dell’artista statunitense Doug Aitken. Un edificio interamente coperto da specchi, circondato dai prati, a poca distanza dalle fattorie circostanti. Solo il pavimento è ricoperto da legno, così da facilitare la visita degli spazi interni, perché anche qui gli specchi creano un effetto caleidoscopio di continuo rimando delle immagini riflesse. Aitken, insignito del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, non è nuovo alla riflessione sull’architettura. Qui la forma dell’edificio – a un solo piano, con tetto a doppio spiovente con comignolo, finestre rettangolari e veranda laterale – condensa gli elementi della casa di periferia americana. La «ranch style house» si diffonde nell’intero Paese nel periodo del boom economico e demografico, fra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Se inizialmente il modello si rifaceva alle idee di funzionalità di Frank Lloyd Wright e allo sforzo di quest’ultimo per rendere l’architettura un elemento coerente con il paesaggio, in seguito viene ampiamente travisato e adoperato soprattutto in forza della sua sem-
Visioni caleidoscopiche grazie ai giochi di specchi: la «casa» di Aitken a Gstaad. (Keystone)
plicità di realizzazione. L’autore certo ambisce a suscitare quel senso di straniamento che deriva dal vedere questa forma, prototipo dell’urbanizzazione sistematica, in un ambiente tanto rarefatto e lontano come quello della campagna bernese. Lo conferma l’idea del miraggio, illusione ottica a cui accenna il titolo, e anche la precedente versione dell’opera, che era stata collocata nel deserto fuori da Palm Springs, in California. L’utilizzo della superficie specchiante trasforma quest’opera in quella che l’autore definisce «la somma del paesaggio attorno ad essa… che cambia
forma, quasi alla maniera di un camaleonte», assumendo di volta in volta le sembianze che le stagioni conferiscono al territorio, dai bagliori della campagna innevata ai colori dei prati estivi. Lo specchio, d’altra parte, è una superficie che l’arte contemporanea ha utilizzato di frequente. Nelle diverse epoche ha assunto di volta in volta significati diversi. Soprattutto nell’antichità – quando la sua fabbricazione presupponeva un sapere tecnico molto sviluppato e il suo valore era altissimo – quest’oggetto assumeva la capacità quasi sovrannaturale di mostrare l’ani-
ma di chi vi fosse riflesso. Oggi è un oggetto quasi banale, nella misura in cui è fin troppo normale poter osservare la nostra figura. Eppure gli artisti continuano a coglierne le possibilità. Un caso ormai storicizzato sono i «Quadri specchianti» che nei primi anni Sessanta valsero la fama internazionale a Michelangelo Pistoletto, tra i massimi esponenti dell’Arte povera: superfici che includono direttamente nell’opera anche l’osservatore e sulle quali l’autore interviene riportando immagini fotografiche, anche a grandezza naturale, moltiplicando quindi la possibilità
dell’opera di rappresentare il contesto mutevole che la circonda. L’americana Joan Jonas, pochi anni più tardi, introduce invece lo specchio quale elemento della body art e della performance, utilizzandolo come strumento per indagare il coinvolgimento e le contraddittorie reazioni del pubblico davanti all’azione artistica dal vivo. L’utilizzo della superficie riflettente quale medium strutturale per creare environment si deve invece all’artista concettuale Dan Graham, anch’egli strettamente concentrato sui temi dell’architettura. Nelle sue opere predilige l’uso di specchi semiriflettenti – o falsi specchi – che al contempo lasciano passare e trattengono le immagini, mostrano e nascondono. Più recente è l’esperienza di Anish Kapoor che nelle sue sculture specchianti ha usato la capacità riflettente dello specchio specialmente in connessione al concetto di anamorfosi, illusione per la quale le parti di una forma sono progettate per essere dislocate e poi riassemblate dall’occhio umano. L’immagine quindi muta pur nella più completa permanenza dello stato di fatto. Già Lacan si era soffermato su questo fenomeno ottico, identificandolo come una struttura esemplare per i meccanismi tramite i quali un’opera d’arte seduce e attrae lo spettatore. È quindi proprio nel tentativo di sciogliere l’interrogativo creato da quest’illusione, da questo miraggio, mentre tentiamo di comprendere l’opera, che il nostro sguardo rimane affascinato e forse intrappolato.
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cultura e Spettacoli Igor Stravinsky in prova a Lugano in una foto scattata dallo strumentista Charles Eskenhazy.
Stravinsky: idee di teatro
anniversari Nel cinquantesimo della morte del compositore e direttore d’orchestra Igor Stravinsky (1882-1971)
Carlo Piccardi Probabilmente quando Igor Stravinsky e Charles-Ferdinand Ramuz si accinsero a dar vita all’Histoire du Soldat non immaginavano di creare un’opera destinata a riprodursi a distanza di anni con frequenza sulle scene. La motivazione della scelta di un teatro da camera (anzi di un teatro di fiera che pretendeva di fare a meno addirittura del consueto spazio scenico) si richiamava allo stato di necessità che nel 1918, a guerra non ancora conclusa, teneva il musicista relegato in Svizzera durante la paralisi internazionale della vita musicale e dello spettacolo. I Ballets russes di Djagilev, per i quali Stravinsky aveva composto i suoi primi capolavori, avevano sospeso la loro attività e nulla lasciava presagire una ripresa. Perché allora non fare di necessità virtù, perché non scrivere qualcosa che potesse fare a meno di una grande sala, di grandi mezzi e di un vasto pubblico? In attesa che le circostanze permettessero la ripresa del normale corso degli eventi (quindi anche dei concerti e degli spettacoli) un teatro in miniatura, di piazza, economico, poteva costituire un’operazione transitoria e addirittura rivelarsi un affare per artisti disoccupati com’erano allora il musicista e il librettista. L’esperimento in verità dimostrò proprio il contrario. Messa in scena nel settembre del 1918 a Losanna sotto la direzione di Ernest Ansermet a capo di una minuscola compagnia composta da svizzeri e da artisti rifugiati in Svizzera, L’Histoire du Soldat dovette in pratica fermarsi alla prima rappresentazione. Il teatro ambulante e la sua troupe non riuscirono ad andare oltre la prima tappa. Proprio come la pandemia del coronavirus oggi, la grippe spagnola che cominciava a imperversare scoraggiò l’organizzazione della tournée, mentre, a guerra conclusa, disordini sociali e perfino avvisaglie rivoluzionarie affacciatisi nei paesi vicini ne ostacolarono il tentativo di esportazione fuori dei confini svizzeri. Solo a partire dall’ultimo dopoguerra L’Histoire du Soldat ha ricominciato a circolare, vuoi per la modernità dell’assetto teatrale coincidente con i principi estetici acquisiti dalle compagnie dedite alla ricerca che della sintesi e della stilizzazione usano fare lo scopo
preminente, vuoi per la pratica comodità di un allestimento economicamente sostenibile e facilmente decentrabile anche in luoghi privi di attrezzature. A questo punto molto ci sarebbe da dire su questo capolavoro stravinskiano che, nei termini minimali in cui è stato concepito, si presenta come la quintessenza del suo primo stile. Il compositore creò un intreccio basato su due racconti ispirati vagamente al mito di Faust (Il soldato disertore e il diavolo e Un soldato libera la principessa), tratti da una raccolta di fiabe popolari russe di Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev, pubblicata fra il 1855 e il 1864. Al di là del significato quale approfondimento dell’esperienza
russa del suo autore (peraltro tipica del russo cosmopolita aperto a ogni forma di contaminazione da parte di suggestioni estranee evidenti, musicalmente parlando, nel tango, nel valzer, nel ragtime e nel corale presi a modello per gli interventi strumentali), l’opera è significativa come ripensamento della funzionalità della musica, intesa come musica di scena. Non si tratta infatti di teatro operistico e nemmeno in fondo di teatro di prosa con musiche di commento relegate in sottofondo com’era uso nel teatro ottocentesco. Per molti versi L’Histoire du Soldat è anticipata da Renard, benché inscenato dai Ballets Russes all’Opéra di Pari-
gi anni dopo (il 18 maggio 1922, con la coreografia di Bronislava Nižinskaja, le scene di Michail Fëdorovič Larionov e la direzione di Ernest Ansermet). Pure composto nel periodo svizzero tra il 1915 e il 1916 (anch’esso tratto da racconti russi di Afanas’ev ma in versione francese pure curata da CharlesFerdinand Ramuz) era il risultato di un incarico ricevuto dalla Principessa Edmond de Polignac. Esso fu pure pensato dal compositore per un teatrino ambulante (trétaux), interpretato da clown, danzatori o acrobati con l’orchestra sullo sfondo (in secondo piano). Quasi un decennio prima di Bertolt Brecht Stravinsky concepì quindi
l’idea di un teatro basato su funzioni distinte e complementari con il testo primeggiante laddove è necessario il suo intervento, con la musica chiamata in causa nel momento in cui può farsi rappresentazione, senza dimenticare la danza (assente nella concezione brechtiana) sicuramente per gli inevitabili agganci col fantastico che comportava, ma che nel mondo stravinskiano (nella sua capacità di richiamarsi a un rituale originario) assume il ruolo universale di archetipo. Per queste sue indicazioni fondamentali e moderne, non ancora superate da concezione altrettanto radicale, si spiega la fortuna rimasta intatta nel tempo dell’Histoire du Soldat.
Di questa presenza prestigiosa Otmar Nussio, allora direttore della Radiorchestra e organizzatore dei Giovedì musicali, parla nella sua autobiografia: «Da un lato si dimostrava impaziente nello spiegare i suoi ritmi complicati, dall’altro la sua tecnica direttoriale era troppo difettosa per riuscire comprensibile di primo acchito. Io avevo preparato con l’orchestra i pezzi dello Stravinsky con la massima esattezza e coscienziosità, senza risparmiare né tempo né energie. Ma quando arrivò lui e iniziò le prove, invece di migliorare, la situazione sfociò in momenti caotici. […] d’improvviso si arrestò e ordinò: «Il programma stabilito è troppo lungo: bisogna sopprimere Dumbarton Oaks e il Settimino». […] Togliere dal programma l’una o l’altra opera sarebbe stato senz’altro interpretato come una insufficienza da parte nostra di fronte alle note difficoltà di esecuzione dei diversi pezzi. Mi mantenni calmo e, dominando la mia agitazione interiore, dissi al maestro che «la sua volontà sarebbe stato senz’altro rispettata». Poi, così, come se fosse un mio piccolo desiderio personale, aggiunsi: «Però Le sarei grato, maestro, se domani avesse la cortesia di provare con l’orchestra i due pezzi che vuole sopprimere, essendo mia intenzione eseguirli spesso, sia qui che all’estero. Mi interesserebbe sapere se lei è d’accordo
con i tempi e l’interpretazione che ho dato alle sue musiche». Stravinsky emise un grugnito che significava un debole consenso, dopo di che m’accomiatai dandogli appuntamento per venirlo a prendere l’indomani mattina con la macchina. Quando lo rividi l’umor nero ancor perdurava. Arrivati allo studio vi fu la solita presentazione all’orchestra con il solito benvenuto da parte dei musicisti. A questi avevo già fatto pervenire la notizia del pericolo che su di noi incombeva, pregandoli di darsi la massima fatica onde distogliere il maestro da un proponimento che avrebbe certamente nuociuto altamente alla nostra reputazione. Sul podio direttoriale stava già aperta la partitura di Dumbarton Oaks. Stravinsky cominciò a dirigere. Man mano che la lettura procedeva, il volto del maestro vieppiù si spianava. Alla fine del pezzo, raggiante e felice esclamò: «Mais ça va très bien: il faut absolument le jouer». Gli ricordai ancora il Settimino. Per un attimo il suo viso si rabbuiò, ma poi borbottò fra i denti: «Bon, on va essayer aussi ça». Come già il Dumbarton Oaks, anche il Settimino lo soddisfece completamente, cosicché tirai un bel sospirone di sollievo e mi rallegrai» (Otmar Nussio, una vita «tutta suoni e fortuna», a cura di Tania Giudicetti Lovaldi, Armando Dadò editore, Locarno 2011, pp. 224-225).
le presenze di Stravinsky a lugano Stravinsky fu due volte a Lugano nell’ambito dei Giovedì musicali, alla testa dell’Orchestra della Radio della Svizzera italiana: il 29 aprile 1954, con un programma di musiche sue in cui figurava la prima esecuzione svizzera del suo Settimino (composto l’anno prima), e il 28 aprile 1955 in un secondo concerto che praticamente completava la presentazione delle sue opere per piccola orchestra. Una sintesi di questi programmi è stata edita in un CD della casa Ermitage nel 1995. «Azione», 6 maggio 1954, p. 6 (Angelo Barvas) «Il pubblico distinto che affollava il teatro rimase sorpreso d’ammirazione dell’inatteso e più tipico linguaggio musicale dei nostri tempi e scattò in interminabili ovazioni all’indirizzo del grande musicista il quale ne faceva merito alla sua orchestra: «sua» perché quella sera la nostra radiorchestra, innanzi alla personalità del compositore ed il fulgore della esecuzione, apparve come trasfigurata». «Giornale del popolo» 3 maggio 1954, p. 2 (ali) «La serata è stata un vero trionfo. Strawinski è stato chiamato ripetutamente alla ribalta e le manifestazioni d’ammirazione hanno assunto, tal-
volta, il carattere di autentico «tifo». Fra gli spettatori non c’era solo quello che le cronache mondane chiamano il «pubblico distinto» – chissà poi perché! – ma anche gente di modesta condizione. E noi crediamo che sia proprio questa gente semplice, ma, per abitudini di vita modesta, alle evasioni nella libera natura, che meglio di tutti possa comprendere e ammirare Stravinski. […] Tenere assieme queste note, che potrebbero per disattenzione o altro, andare anche per proprio conto, creando il caos, è la principale fatica del direttore d’orchestra. Che lo sforzo non sia lieve l’abbiamo potuto misurare dal volto di Stravinsky che al termine di ogni pezzo appariva disfatto». «Azione», 5 maggio 1955 (Vinicio Salati), p. 6 «Serata trionfale e memorabile di un pubblico distinto, che gremiva il Teatro del Kursaal di Lugano, manifestando il suo più vivo entusiasmo in prolungate e frenetiche ovazioni. […] Va notato inoltre il particolare elogio fatto da Strawinsky al violinista Luis Gay des Combes che superò se stesso negli assoli dell’Apollon Musagète. Anche agli otto esecutori dell’Ottetto apparsi impareggiabili virtuosi, l’autore manifestò il suo più vivo consenso e sincero plauso».
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cultura e Spettacoli
Il mondo dall’alto
come una platea nel salotto
Personaggi Storia di un «pioniere aerostatico»: le vedute aeree
di Eduard Spelterini, eroe della mongolfiera che dalla Svizzera trasvolò (letteralmente) mezzo mondo
In scena Teatro e cabaret in streaming
negli spettacoli di Chiasso e Locarno
Benedicta Froelich Per chiunque viva nel Ventunesimo secolo, immerso nelle realtà dell’odierna tecnologia aerospaziale, è certo difficile immaginare quale rilevanza abbia avuto, tra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, un mezzo oggi apparentemente obsoleto quale la mongolfiera. Sperimentato per la prima volta dai fratelli Montgolfier nel lontano 1783, il cosiddetto «pallone aerostatico» sarebbe stato per anni al centro di incredibili e favoleggiate esplorazioni – dai romanzi di Giulio Verne a imprese disperate quali il viaggio al Polo Nord dell’ingegnere svedese S.A. Andrée (1897). E sebbene, negli ultimi anni, la tecnica del volo in pallone sia stata riscoperta dai nostalgici, la natura stessa del mezzo – un fragile e ingovernabile involucro di seta, in balìa di venti atmosferici che il passeggero non può in alcun modo controllare o influenzare – ha fatto sì che la mongolfiera mantenesse un’aura essenzialmente demodé. Forse per questo, molti dei pionieri che, negli anni d’oro, tentarono eroicamente di controllarne le rotte sono stati, ahimé, perlopiù dimenticati dal grande pubblico; e tra essi vi è anche una vera e propria icona rossocrociata quale Eduard Spelterini, svizzero D.O.C. (il suo vero nome era Eduard Schweizer) che, tra una trasvolata e l’altra, si sarebbe fatto un nome non soltanto come abile balloonist, ma anche in qualità di dotatissimo fotografo – producendo una serie di incredibili vedute a volo d’uccello di paesaggi di tutta l’Europa e del Medioriente, fotografati grazie alle possibilità panoramiche offerte dal suo mezzo di trasporto. Poco si sa degli anni giovanili di Spelterini: nato nel 1852 a Bazenheid (canton San Gallo), da bambino si sarebbe trasferito in una non meglio precisata località comasca, a cavallo del confine svizzero, frequentando le scuole a Lugano. La scelta del cognome italofono «Spelterini» è probabilmente dovuta alla sua iniziale ambizione di divenire cantante d’opera, presto soffocata da problemi di salute che, infine, lo convinsero a ripiegare su una disciplina quantomeno «ardimentosa»: nel 1877, a Parigi, si diplomò infatti come pilota di palloni aerostatici presso l’Académie d’Aérostation Météorologique de France. A partire dal 1887, acquistato un
Giorgio Thoeni
Spelterini davanti alla Mongolfiera Stella, 1904. (Wikipedia)
pallone personale (l’Urania) e impratichitosi tramite innumerevoli voli, Eduard decise di sfruttare il crescente interesse del pubblico per il mezzo aerostatico: oltre a trasportare passeggeri paganti, stabilì un sodalizio con la trapezista americana Leona Dare – la quale, sospesa dal cesto dell’Urania, si esibiva in evoluzioni acrobatiche durante il volo. La loro lunga tournée attraversò (in pallone, naturalmente!) tutta l’Europa orientale, fino a giungere in Russia. Ma Spelterini aveva progetti più ambiziosi, e nel 1893 iniziò a dedicarsi a un nuovo obiettivo: quello di immortalare dettagliatissime vedute panoramiche, scattando fotografie con prospettiva a volo d’uccello dalla sua mongolfiera. Poiché all’epoca le immagini aeree costituivano una rarità assoluta, tale prezioso lavoro ha permesso di preservare il ricordo di interi territori nella loro forma di allora: oltre a sorvolare la Svizzera (famose le sue vedute di Zurigo), l’ormai poliglotta Eduard avrebbe trasvolato Romania, Grecia, Egitto, Turchia e Italia, spingendosi fino al Sudafrica; il suo archivio fotografico, che va dalle cime della Jungfrau fino alla necropoli di Giza, sarebbe stato al centro di innumerevoli conferenze e presentazioni. Un risultato sorprendente, soprattutto considerando i lunghi tempi di esposizione (nonché il peso) delle ingombranti apparecchiature fotografiche di allora, che lo stesso pilota svizzero impugnava, sporgendosi temerariamente dal cesto della mongolfiera.
Non solo: nel 1898, Spelterini sarebbe anche stato il primo aviatore a sorvolare le Alpi, partendo da Sion con il suo secondo pallone, il Wega – un’impresa che avrebbe ripetuto più volte, accompagnando scienziati e studiosi (tra cui Ferdinand Graf von Zeppelin). Nonostante ciò, gli anni non sarebbero stati gentili con Spelterini: l’avvento della Grande Guerra e la chiusura degli spazi aerei lo costrinsero a interrompere i voli, e le cose non migliorarono nemmeno con la fine del conflitto; lo sforzo bellico aveva fatto dell’aeroplano la nuova «stella dei cieli», e l’interesse nei confronti dei voli aerostatici era scemato. Colpito duramente dall’inflazione postbellica, Eduard si ritrovò a far volare i suoi passeggeri sopra il Parco Tivoli di Copenaghen; e quando, nel 1926, tentò un ultimo volo sopra Zurigo, un improvviso malore rischiò di far finire tutto in tragedia. Dopo di allora, Spelterini non volò più, e nel 1931 morì in povertà a Zipf, in Austria, dove insieme alla moglie Emma aveva acquistato una piccola fattoria. Ma la magia della sua opera fotografica, da molti considerata immortale, è giunta intatta fino a noi, in parte preservata nella collezione della Biblioteca Nazionale Svizzera – spingendo le Ferrovie Federali a battezzare in suo onore uno degli Intercity RABDe 500: un privilegio che il pilota condivide con Le Corbusier e Henri Dunant, a imperitura memoria di un pioniere oggi ingiustamente dimenticato.
La lodevole, necessaria, straordinaria decisione del Consiglio Federale di aiutare il mondo della Cultura (Danza, Teatro, Cinema e Letteratura) lascia ben sperare in attesa di prossime ulteriori importanti decisioni. Nel frattempo l’offerta digitale per salvare il salvabile del mondo dello spettacolo continua a reggere e produrre su più fronti e dimensioni. Un impegno per dare prospettive in un contesto di fruizione dove lo spettatore è unico e incontestabile protagonista nell’arena dell’interesse. Se lo vuole, ovviamente, e se riesce a vincere la catatonia da video-dipendenza… Così i Teatri di Chiasso e Locarno hanno concluso la rassegna 2 teatri in salotto mettendo a disposizione gratuitamente in rete le ultime due proposte: Ri-Chiamerolla Milano dei DuperDu e una standup comedy di Ippolita Baldini con Mia mamma è una marchesa. Un’ora e mezza di duetto a spron battuto per camera fissa (o quasi) ha contraddistinto la prima offerta, una sorta di teatro-canzone-urbano scritto e interpretato da Marta Maria Marangoni e Fabio Wolf, coppia d’arte e nella vita con all’attivo molte partecipazioni e collaborazioni artistiche di pregio. Estro e verbosità conditi da canzoni su misura al pianoforte nutrono la lunga performance dei due artisti nella veste di improbabili ciceroni. Guide turistiche per un tour attraverso una Milano da riscoprire fra luoghi, aneddoti, leggende, abitudini, personaggi e curiosità con l’aiuto di interventi videoregistrati di Leonardo Manera alle prese con interviste a passanti su svariati temi: da cosa pensano dei famosi tagli su tela di Lucio Fontana o dello ius soli, rasentando il politically correct alla ricerca della comicità fino a come rim-
picciolisce il membro dell’uomo con l’avanzare dell’età… Un passatempo a buon mercato per una non facile prova di nostalgica mediolanità in stile cabarettistico nonostante un instancabile duo per cui l’assenza di reazioni della platea si traduce in una linfa vitale tutta da reinventare. Coraggio e verve anche con la proposta di Ippolita Baldini (nella foto). Di solida formazione accademica (la Silvio D’Amico di Roma) e di discendenza nobile (la mamma è una marchesa), l’attrice si è fatta le ossa con i monologhi nelle scuderie televisive di Zelig e Colorado. Non nega di ispirarsi alle grandi del teatro italiano che fu, come Anna Marchesini (di cui è stata allieva), Franca Rame e Franca Valeri. In Mia mamma è una marchesa, scritto con la collaborazione di Emanuele Androvandi, ritroviamo similitudini stilistiche delle compiante artiste. C’è un po’ di tutto, dalla sdrammatizzazione di ambienti aristocratici, ricordi autobiografici, ironia su contesti mondani… Protagonista è Roberta, il vero nome della Baldini, attrice da loft, personaggio eclettico e talentuoso, nutrito da enfasi generosa ma farcita di ingenuità teatrali e, crediamo, dalla consapevolezza di dover ancora macinare esperienze oltre i clichés monologanti nati dal sogno americano. Nonostante un’indubbia bravura, ci vuol farina del proprio sacco, come canta la Vanoni. Chiudiamo ricordando che Book is a Book is a Book di Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl della compagnia Trickster-p è stata selezionata per le giornate 2021 dell’Incontro del teatro svizzero previste a Friburgo dal 5 al 9 maggio: un’importante vetrina nazionale a cui la compagnia ticinese aveva già preso parte nel 2017 con l’installazione teatrale Twilight.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2021 • N. 14
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cultura e Spettacoli rubriche
In fin della fiera di Bruno gambarotta Pubblicità (subliminale) «Tu per chi tieni?» «Per AstraZeneca» «Io invece per Pfizer». È in corso di svolgimento il campionato dei vaccini che sono fra i nomi più citati alla radio e alla tivù. Un tempo alla Rai le norme di comportamento vietavano la citazione di un marchio, invece di pronunciare la parola AstraZeneca si sarebbe detto «vaccino prodotto da una nota azienda farmaceutica europea» e così via per tutti gli altri. Sul pianoforte a gran coda presente nel concerto mandato in onda dall’auditorium su un canale televisivo si doveva incollare un adesivo nero sul marchio Steinway, per evitare che lo spettatore fosse tentato di uscire di corsa dal suo monolocale per andare a comprarsene uno. Per gli elettrodomestici non era sufficiente nastrare il marchio perché ogni ditta aveva un suo design riconoscibile, così il frullatore era schermato da una pila di piatti o da un vaso di fiori. Come fare con le automobili se lo sceneggiato le pretendeva? La regola: usare un modello italiano se la storia prevedeva che l’auto
funzionasse alla perfezione. Se invece avesse dovuto manifestare un guasto o peggio ancora subire o provocare un incidente, la direttiva era noleggiare l’auto di un marchio straniero. Se il messaggio pubblicitario è annunciato come tale, chi subisce lo spot si mette sulla difensiva per cercare di reprimere il desiderio di procurarsi il prodotto reclamizzato. Diverso è il caso della pubblicità subliminale che agisce sullo spettatore indifeso. Esistono molti modi per esercitare il piacere di guardare un film. Confesso che non seguo la trama, tutta l’attenzione è concentrata nello scoprire la presenza della pubblicità occulta. Nella storia del cinema ci sono capolavori nei quali in ogni inquadratura troviamo un tentativo di sedurci come consumatori in pectore. Il cosiddetto «product placement» ha una storia antica. Prima che fosse proibito fumare nei cinema, sullo schermo fumavano tutti inducendo gli spettatori ad accendersi una sigaretta. Perché il tavolino del bar è inquadrato dal basso?
La risposta la danno i boccali di birra spumeggiante allineati in primo piano. Anche Gino Cervi nelle vesti del commissario Maigret ha fatto impennare i consumi di birra. Mentre il commissario raccontava alla moglie Andreina Pagnani sempre chiusa in casa gli avvenimenti che noi avevamo già visto, l’80% degli spettatori uomini si alzava per andare a prendere in frigo una bottiglia di birra. E il Consorzio dei produttori di birra ringraziava. Facciamo un esempio: la trama del film prevede che due dei protagonisti si diano un appuntamento per ritrovarsi in una strada lontano da orecchie indiscrete. Con tanti ambienti a disposizione sempre due sole sono le location prescelte: lo spiazzo di un distributore di benzina o un parcheggio davanti a un supermercato. Non è colpa di nessuno se i rispettivi marchi sono leggibili, mica potevamo farli smontare. Collaboratore in incognito alla sceneggiatura di un film che non prevedeva appuntamenti stradali, ho dovuto inventare la necessità
di un incontro all’aperto perché alla produzione faceva comodo il sostegno di un produttore di carburante. Per dare inizio alla cena gli interpreti consultano il menù: è colpa dell’operatore se in bella evidenza figura il marchio del ristorante? Nel 2008 ricorre il centenario della nascita di Cesare Pavese e un piccolo produttore cinematografico ottiene da una fondazione uno stanziamento per realizzare un docufilm di un’ora sulla vita dello scrittore. Siccome il compenso previsto è minimo, affida a me l’incarico di scrivere soggetto e sceneggiatura. La prima stesura prevede di ricostruire passo passo la vita dell’autore de La luna e i falò. Subito scartata perché realizzarla con auto, costumi e ambienti d’epoca costerebbe troppo. Ricorriamo alla solita furbata: non più Vita di Cesare Pavese ma Sopralluoghi per un film sulla vita di Cesare Pavese. Con due vantaggi: giriamo ai giorni nostri senza bisogno di mascherare nulla e i componenti della finta troupe tratteranno sotto forma di
civile conversazione i vari aspetti della vita del Nostro mentre sono nel suo paese natale. Il produttore esulta: il titolare di una distilleria contribuirà all’impresa con 5mila euro. Bisogna trovare il modo di far sapere che lo scrittore amava la grappa, prodotto d’eccellenza del nostro mecenate. Pavese era praticamente astemio, mi rifiuto di firmare un falso storico. Soluzione: il titolare del ristorante dove la finta troupe va a pranzo accoglierà i suoi ospiti impugnando due bottiglie con l’etichetta leggibile. Ora nei film e telefilm, cellulari e computer sono sempre in bella vista, è un gioco da ragazzi inquadrarli con il marchio in primo piano. A proposito di computer, sono sicuro che i nostri lettori sono ansiosi di conoscere le modalità operative che utilizzo per scrivere. Li accontento: lavoro su un portatile MacBook della Apple. Con la speranza che la rubrica venga letta dal direttore marketing di una «nota azienda californiana che produce computer».
Aveva provato a fare un passo indietro. Non c’era riuscita. Quindi era diventata vicedirettore della filiale romana di una banca d’investimenti tedesca, sentendosi fuori posto. Eppure, era proprio grazie a quella volgarità maschile, il potere dei soldi, così meno elegante di quello della seduzione, che si trovava seduta davanti a quel quarantenne da premio. Gli piaceva tutto di lui: le spalle ampie, la magrezza, lo sguardo affamato e quella tensione muscolare che soltanto un’ambizione sfrenata e frustrata può provocare in un uomo. Per distrarsi dal desiderio (era una magnifica novità, ma andava represso) rise alle invettive di Tom sui colleghi registi più fortunati di lui, ometti che si erano venduti al demone del mercato, e che non conoscevano il cinema. Gente per cui il massimo del classico è Quentin Tarantino, di cui non sanno, comunque, riconoscere la parentela con Godard eccetera eccetera. Pensò
che stava ascoltando quella lezioncina di cultura cinefila perché gliela stava ammannendo un uomo che volentieri avrebbe spogliato. Un uomo dalle mani grandi e dagli occhi penetranti. Benedetto da una timidezza sfrontata. Esther, la cara e bizzarra Esther, gliel’aveva detto senza perifrasi: mio figlio è un ragazzo buono e sveglio, ma non dà niente per niente. Del resto: tutti quelli della sua generazione sono così. Fanno troppa fatica a far fruttare i loro talenti, in un mondo in cui il posto è poco e gli aspiranti sono troppi, perciò, dopo i primi tentativi, li seppelliscono e vanno a scavare altre strade. Noemi si era profusa in complimenti per tanta lucidità, non avendo figli era abituata a considerare le madri come delle invasate convinte, tutte, d’aver messo al mondo il Bambin Gesù. Poi era arrivato, inatteso, proprio il figlio in questione. Bello, trasandato, sofferente, e aveva subito raccontato di aver litigato con la moglie, facendole
ridere, come uno stand-up comedian abituato a fare dello spirito sulle disgrazie della famiglia umana. Si era sentita, improvvisamente, fragile, le era salita, come una febbre, quel senso di debolezza che preludeva all’innamoramento. E quando Tom aveva incominciato a parlare del documentario per cui non riusciva a trovare uno straccio di finanziamento, le era parso giusto, inevitabile, necessario, offrirgli un prestito, a un tasso agevolato e senza tante garanzie. Non si aspettava che, pochi giorni dopo, lui l’avrebbe invitata a pranzo. Tanto meno che pagasse il conto. Ma Tom fu irremovibile. «Tu sei una donna e io sono un uomo», disse. Livia sentì un brivido sotto la pelle per quella frase apparentemente elementare. «Ma io sono più grande», disse, arrossendo. Tom stava per confessare: «Tranquilla: il bancomat è di mia madre», invece disse: «Le donne belle non hanno età».
rete, con spregiudicatezza e velocità a noi sconosciute. In un simile quadro la tv generalista deve cambiare con urgenza pena la condanna a un ruolo sempre meno centrale. Anche se un modello economico per l’over-the-top tv è tutt’altro che chiaro: in rete c’è grande fame di contenuti audiovisivi, il web può rappresentare un enorme archivio on demand, ma come si regge, alla fine, il sistema, visto che lo spettatore è sì disposto a consumare contenuti, ma molto meno a pagarli (dal momento che esistono ancora strade illegali)? E allora, l’altra grande spinta a forgiare l’ambiente della convergenza deriva dalle imprese mediali, con i loro interessi, con le loro strategie e, soprattutto, con la loro capacità – più o meno sviluppata – di inserirsi creativamente e tempestivamente su un terreno in costante evoluzione. La cosa più curiosa è che questo grande processo tecnologico in atto non espelle il pubblico, non lo relega irrimediabilmente al ruolo di «utilizzatore
finale», anzi. Il pubblico può conquistarsi un ruolo da protagonista nello scenario della cultura convergente. Da un lato, perché i canali tv cercano sempre di più di costruire dei touchpoint, dei punti di contatto «emotivi» con lo spettatore, pensati per accrescerne il coinvolgimento. Dall’altro, perché la tv è sempre stata oggetto di condivisione sociale, ma solo oggi diventa concretamente smontabile, commentabile, soprattutto grazie alla rete. Il dato può stupire, ma la centralità della tv nel sistema dei media è confermato, come abbiamo visto, dalla presenza esorbitante di tv sul web: la tv si guarda sul web (pensiamo ai contenuti su YouTube o altri aggregatori audiovisivi), la tv si commenta sul web (pensiamo ai discorsi sulla tv fra forum, blog, Twitter, Facebook e altri social). Se mai lo è stato realmente, oggi lo spettatore non è più passivamente sprofondato sul divano: utilizza di continuo la tv come risorsa, sia materiale che simbolica, per orientarsi, per discutere, per interagi-
re, tanto online quanto offline. Ma noi, come ci attrezziamo per affrontare un simile rivolgimento? Consideriamo la tecnologia come un gadget prezioso di cui non si può fare a meno? La convergenza è un fenomeno che cambia le nostre abitudini di consumo o cambia anche le abitudini cognitive? Il passaggio universale al digitale terrestre è il più consistente cambiamento che la tv ha affrontato negli ultimi venti o trent’anni, anche soltanto per il numero di persone coinvolte. Ma il digitale terrestre, pur essendo la tecnologia di accesso-base alla tv, si sta già dimostrando obsoleto, a favore dello streaming. Quel che emerge è una moltiplicazione dei possibili percorsi che connettono chi produce e distribuisce i contenuti tv e chi li consuma. La verità è che oggi, nel mondo della comunicazione, si compiono operazioni così vertiginose da essere state vagheggiate solo da qualche scrittore di fantascienza.
Quaderno a quadretti di lidia ravera le nuove povertà/17 Quando Tom entrò nel ristorante «da Pierluigi» Noemi era già seduta a un piccolo tavolo rotondo lontano dalla luce. La vide subito, ma finse di non vederla e si passò una mano fra i capelli. Livia alzò un braccio, sorridendo alla porta. Tom pensò che sicuramente era stata, a suo tempo, una vera bellezza. Come un passaporto , quel che restava di quel passato lusinghiero, permise a Noemi di varcare la soglia misteriosa della relazione uomo-donna senza ulteriori intoppi. Come nelle cene di corteggiamento mangiarono poco, bevvero il più possibile e ostentarono una sovrana indifferenza per l’ottimo filetto in crosta, ordinato da Livia e accettato da Tom senza commenti. Proprio lui che, ai tempi in cui ancora aveva i soldi per portare a cena fuori Betta, investiva un minimo di quaranta minuti a studiare il menù. E contrattava le mezze porzioni. «Ottimo, va bene anche per me», disse, sofisticato e distratto, poi prese
a parlare di Rossellini con deferenza e passione, dei cosiddetti rosselliniani, con meditato sospetto. Li accusò di aver fondato il neo-irrealismo, falsificando la realtà con le buone intenzioni. Noemi decise di dedicargli il suo antico sguardo, un concentrato di femminilità d’antan: occhi sgranati , lenti a contatto verde bottiglia, ciglia pesanti di mascara, palpebre immobili, labbra semiaperte. Una simulazione di rapimento intellettuale e parossistica curiosità che le aveva fruttato in altri tempi la gratitudine degli uomini e che non esercitava da qualche anno. Non tanto perché, nonostante le punturine di acido ialuronico cui si sottoponeva ogni mercoledì, era invecchiata, quanto perché aveva fatto carriera. Senza volerlo, senza farci veramente caso, quasi ostacolando sé stessa, varcata la dolorosa menopausa, ancora bella com’era , si era spaventata dell’ipotesi di cadere dal cuore degli uomini per l’inevitabile aumento di potere e stipendio.
a video spento di aldo grasso di tv e nuove vertigini Per oltre 70 anni, la televisione ha avuto una sua precisa collocazione e ha alimentato un’esperienza tanto diffusa quanto condivisa per lo spettatore, riassumibile nella semplice espressione del «guardare la tv». Lo scenario attuale di trasformazione e convergenza tecnologica ha comportato anche una mutazione nell’identità del telespettatore, oggi virtualmente chiamato a dare vita a un’eterogeneità di pratiche e modalità di visione differenti. Per prima cosa, non dobbiamo cedere all’ingenuità della retorica secondo cui «la tv non esiste più», si è trasformata in qualcosa di radicalmente diverso e totalmente nuovo, è stata inevitabilmente surclassata da altri mezzi di comunicazione più «personali» e «leggeri» (come tutti quelli che si appoggiano al web come piattaforma distributiva). In realtà, la tv sopravvive eccome, sebbene il suo statuto sia attraversato da fenomeni di innovazione e cambiamento. Il dibattito pubblico si è molto esercitato sulla centralità dei
nuovi media, che avrebbero in molti modi «reso obsoleta» la tv, e sull’affermazione di un nuovo modello di «tv senza editore», sempre più affrancato dalle tradizionali logiche produttive e ispirato a una dispersione multipiattaforma. Senza troppo entrare in un discorso tecnico, sul mercato si confrontano ora non tanto i singoli canali, quanto le piattaforme di offerta, entità complesse in cui si incrociano tecnologia, modelli di business, modi di organizzare i contenuti televisivi. Non a caso due colossi come Apple e Google si stanno trasformando in media center, con lo scopo ben preciso di «linkare» sempre più le loro tecnologie con i contenuti della tv. L’apparato può essere immaginato come un grande smartphone per la tv: ci sono le applicazioni, i video, la musica e i siti web ottimizzati per essere visualizzati al meglio sullo schermo del televisore. Ci sono nuovi colossi come Amazon e Netflix che si fanno largo grazie alla
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