Cooperativa Migros Ticino
società e territorio Amare è una scelta, non un dono del destino: nel suo ultimo libro la psicoterapeuta Stefanie Stahl ci spiega come avere una vita affettiva appagante
ambiente e benessere «Una donna su otto si ammala di tumore al seno»: Francesco Meani, responsabile clinico del Centro di Senologia della Svizzera Italiana dell’EOC, ci parla di prevenzione
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 19 aprile 2021
azione 16 Politica e Economia Criptovalute e semiconduttori. Sono queste le ultime frontiere della sfida tra Cina e Stati uniti
cultura e spettacoli Omaggio ad Adam Zagajewski, il grande poeta scomparso lo scorso mese di marzo
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di Giancarlo Dionisio pagina 21
ti-Press
lassù sulla montagna...
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un nuovo roosevelt? di Peter Schiesser E costui sarebbe Sleepy Joe, come amava definirlo Donald Trump? Dopo neppure 100 giorni in carica, qualcuno si chiede piuttosto se sarà il nuovo Franklin Delano Roosevelt. Da Barack Obama nel 2008, galvanizzati dal suo Yes we can, si è atteso e preteso molto, troppo, non ha potuto (dopo due anni i repubblicani hanno riconquistato la maggioranza in entrambi i rami del parlamento) e non avrebbe mai potuto soddisfare le aspettative. Ci ha poi pensato Trump a demolire i risultati e la visione del suo predecessore. Ma da Joe Biden non ci si aspettava molto. Entrato in carica in un momento critico per gli Stati Uniti, ancora in piena pandemia e reduci dall’assalto al Congresso del 6 gennaio, ci si augurava che almeno riuscisse a lenire un poco le divisioni che la presidenza di Trump aveva reso ancora più evidenti. Invece ha stupito tutti. Non solo i democratici e la stampa a loro vicina, secondo i sondaggi anche molti altri, indipendenti e repubblicani, approvano il suo operato (2 su 3). Certo, ha potuto approfittare della mastodontica operazione di vaccinazioni pianificata e lanciata sotto il suo predecessore (quasi il 40
per cento della popolazione ha avuto la prima dose, uno su quattro anche la seconda). Ma trova approvazione anche la sua visione, di riammodernare gli Stati Uniti, con una marcata presenza dello Stato nell’aiutare a realizzare il vastissimo programma e nel sostenere quella fetta della popolazione che la globalizzazione ha reso perdente e il coronavirus ha castigato ancora di più. I 1900 miliardi di dollari di aiuti per chi ha perso lavoro a causa della pandemia sono stati il biglietto da visita. I 2000 miliardi da investire in infrastrutture, scuole, ricerca, tecnologie, con un occhio alla sostenibilità, all’ambiente, al clima, sono invece una sfida più formidabile. Si tratta da una parte di fermare il declino infrastrutturale e sociale del paese e dall’altra di riaffermarsi come prima potenza mondiale, non lasciandosi superare dalla Cina. I repubblicani hanno già promesso resistenza e di annullare i progetti di Biden se fra due anni riconquisteranno la maggioranza al Congresso, ma se il gradimento popolare restasse dalla parte del presidente, questi potrebbero anche ritrovarsi nella posizione opposta, di perdere quel blocco di seggi sufficienti per fermare piani ancora più ambiziosi. Non sappiamo se Joe Biden riuscirà a imporre la sua visione, ma di
certo sta gettando le basi per una rivoluzione culturale, del modo di intendere il ruolo dello Stato. Lo testimonia la scelta di alzare le tasse ai ceti più abbienti, per pagare il piano di investimenti, e di spingere anche gli altri Stati industrializzati ad accettare una tassa globale sulle imprese che impedisca loro di sfuggire al fisco – sostanzialmente in linea con sforzi in atto all’interno dell’OCSE (cui in Svizzera si guarda con preoccupazione). La catastrofe economica che la pandemia ha rischiato di provocare, evitata solo grazie agli interventi statali ovunque in Occidente, mette seriamente in discussione il credo liberista che si è affermato alla fine degli anni Settanta, di cui Ronald Reagan e Margaret Thatcher sono stati i massimi alfieri. Oggi è chiaro che c’è bisogno di uno Stato forte, lungimirante e non tronfio, che per finanziarlo occorrono soldi e che non è più accettabile che i più ricchi al mondo siano diventati ancora più ricchi. Non è la fine del capitalismo, ma forse l’inizio della fine del pensiero del meno-Stato, del mercato che si autoregola e arricchisce tutti. Il protezionismo iniziato da Trump stava già assestando seri colpi alla globalizzazione, ora si aggiunge il tentativo di cambiare i paradigmi della politica economica da parte del nuovo presidente americano.