Azione 17 del 26 aprile 2021

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Adolescenti e internet: la nuova commedia di Sky Genitori vs influencer fa riflettere al Caffè delle mamme

Ambiente e Benessere La «Graphic medicine» si sta rivelando particolarmente efficace nell’informazione medica rivolta al pubblico, anche in tempi di pandemia

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 26 aprile 2021

Azione 17 Politica e economia Il progetto della Superlega europea di calcio per ora è fallito. Ha peccato di superbia

Cultura e Spettacoli La Kunsthaus di Zurigo celebra Gerhard Richter, artista fuori dagli schemi

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enrico Martino

Sulle orme dei Chachapoyas

di Enrico Martino pagina 17

Un «liberi tutti» selettivo di Peter Schiesser Dopo la sorprendente decisione di riaprire teatri, cinema, terrazze di ristoranti e bar e altro ancora, entrata in vigore il 19 aprile, mentre tuttora la curva dei contagi e delle ospedalizzazioni resta alta, mercoledì scorso il Consiglio federale ha chiarito la sua strategia per portare il paese oltre la pandemia, presentando delle prospettive concrete: da agosto, quando chiunque lo abbia richiesto avrà potuto essere vaccinato e il grado di vaccinazione nella popolazione avrà raggiunto il 40-50 per cento, le misure restrittive saranno levate. Se dovesse esserci in seguito una recrudescenza della pandemia, le nuove misure restrittive varrebbero però solo per chi non è vaccinato, non è nella categoria guariti, non presenta un test negativo. E questa è una decisione che fa e farà discutere, solleva quesiti etici e legali, poiché si introdurrebbe una discriminazione nei confronti dei vaccino-scettici, i quali si sono immediatamente sentiti sotto ricatto. Diverrebbero cittadini di serie B, ciò che potrebbe radicalizzare ulteriormente i più fanatici. Il Consiglio federale per contro vede nei vaccini la porta d’uscita dalla pandemia, l’unica percorribile

(lasciare libero corso al virus sarebbe fatale), per cui vuole aumentare il più possibile il tasso di vaccinazione nella popolazione; offrire dei vantaggi in termini di libertà è sicuramente un incentivo potente. E poi, dice Berset, vaccinarsi è un atto di solidarietà collettivo. Per cui, completiamo il ragionamento: chi non è solidale, non si aspetti troppa comprensione qualora gli ospedali tornassero a riempirsi. Il Consiglio federale ha tracciato la via strutturandola in tre tappe. Quella attuale, detta di «protezione», che dovrebbe durare fino a fine maggio, in cui l’obiettivo è vaccinare tutte le persone a rischio che lo vogliano; in questa prima fase non sono previsti altri allentamenti, anzi nuove limitazioni se venissero superati i limiti (innalzati) definiti per il numero di contagi (450 per 100mila abitanti), ospedalizzazioni (120 al giorno), posti in cure intense occupati da pazienti Covid (300), indice di riproduzione R a 1,15. Poi da giugno fino a fine luglio è prevista la tappa di «stabilizzazione», nella quale si conta di vaccinare tutti quelli che lo vogliono, e se non verranno superati i nuovi limiti sono immaginabili ulteriori allentamenti. Infine, come detto, da agosto ci sarà una sorta di «liberi tutti», o quasi. Andrà così? Lo stesso Consiglio federale riconosce che la situazione

resta delicata, che si corrono rischi con le nuove aperture, sa che i ritardi nella consegna di vaccini sono all’ordine del giorno e potrebbero rallentare la corsa verso la fine della pandemia. Eppure non mostra tentennamenti, ha deciso di osare, ormai il limite di sopportazione della popolazione e dell’economia è superato e lo si vede a occhio nudo. Così il governo svizzero imbocca una via opposta a quella dei paesi vicini, momentaneamente rassicurato che il numero dei casi di contagio dichiarati e delle ospedalizzazioni per la cosiddetta terza ondata è attualmente stabile, dopo essere raddoppiato rispetto a febbraio. Ma gli scettici non mancano, inoltre alcuni esperti rammentano che possono sorgere nuove e più pericolose varianti del virus, contro cui i vaccini attuali potrebbero essere impotenti, tantomeno è oggi chiaro quanto siano ancora infettive le persone vaccinate. D’altronde in questa pandemia nessuno è nato imparato e ogni decisione comporta sempre dei rischi, enormi è chiaro. E per i virologi è pure chiaro che di questo Coronavirus non riusciremo a liberarci completamente, ci saranno sempre delle sacche di contagio (come ci sono per moltissime altre malattie infettive: si muore persino ancora di peste, oggigiorno!), ma non sarà più pandemia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Attualità Migros

In palestra, veramente protetti Activ Fitness Riaperti i centri ticinesi del benessere, offrono ai loro clienti

Migros news Un grande sostegno allo sport

la possibilità di praticare sport in piena sicurezza A partire dal lunedì scorso, seguendo le indicazioni fornite dal Consiglio federale il 14 aprile, è di nuovo permesso praticare lo sport in palestre chiuse. È stato quindi possibile riprendere l’attività anche per le cinque palestre ACTIV FITNESS dislocate nel nostro cantone, che erano chiuse dallo scorso dicembre. Per tastare un po’ il polso della situazione abbiamo pensato di chiedere a Nico Cice, gerente della struttura di Losone, di spiegarci in primo luogo come è andata la riapertura, e poi che cosa possono aspettarsi i clienti con le misure di contenimento della pandemia che sono state implementate. Nico ci risponde con entusiasmo e manifesta anche con una certa, piacevole sorpresa: «Fin dal momento dell’apertura abbiamo registrato una buona frequenza, segno che le persone avevano certamente voglia di tornare in palestra. Sono colpito dal fatto che abbiamo staccato già nella prima mattina di apertura alcuni nuovi abbonamenti, cosa che ci fa ben sperare per il futuro». Occorre considerare che Nico è il gerente di maggiore esperienza per ACTIV FITNESS in Ticino: «Sì, la palestra di Losone è stata la prima ad aprire nel nostro cantone, nel 2014, e io sono stato in un certo senso un apripista in questa attività. Ho vissuto da zero la realizza-

Nico Cice, gerente della prima filiale ACTIV FITNESS in Ticino.

La sala principale della palestra di Losone.

zione del Centro, partecipando anche alla messa a punto di vari aspetti burocratici, adattando i documenti che erano stati realizzati a livello nazionale». Il fitness per lui è una passione, oltre che una professione: «Mi reputo molto fortunato perché in fondo sono riuscito a fare del mio hobby un lavoro. Sono istruttore di fitness ormai da vent’anni e già prima di lavorare qui passavo in palestra il mio tempo libero cinque o sei volte alla settimana». La situazione attuale, comunque, è sicuramente anomala rispetto al passato. «Certo, siamo contenti della riapertura, ma bisognerà vedere come evolve la situazione. Da parte nostra comunque vogliamo rassicurare la nostra clientela. Abbiamo un piano di prevenzione ad hoc, basato su quello elaborato a livello nazionale con l’associazione di categoria che ci rappresenta (Comunità d’interessi fitness Svizzera). È stato adeguato alla nostra la palestra: a queste regole abbiamo naturalmente aggiunto le prescrizioni attuali, che impongono le mascherine durante tutte le attività e la distanza di sicurezza tra le persone. Devo dire che nessuno ha avuto niente

da ridire: i nostri clienti capiscono la necessita delle misure di protezione... È comunque meglio che stare a casa... Fino ad ora sono davvero tutti contenti». Naturalmente l’attività della palestra è stata modificata dalle nuove regolamentazioni: «Per ora non sono agibili le zone sauna e bagno turco. Le postazioni nelle docce sono utilizzabili ma è stato introdotto un distanziamento di due metri. In tutta la palestra così come pure negli spogliatoi è stata posata una specifica segnaletica a pavimento per garantire la distanza di sicurezza, oltre vari cartelli informativi distribuiti nelle varie postazioni». Per quello che riguarda l’uso degli attrezzi sportivi, anche qui sono state introdotte delle modifiche. «Certo, anche le macchine sono state distanziate secondo regolamento. Di nuovo, è obbligatoria la mascherina sia durante l’allenamento di forza, sia nel programma cardiovascolare. Anche in questo contesto i clienti hanno capito la necessità: non ci sono discussioni, tutti si stanno abituando». E per quello che riguarda le attività di gruppo? «Continuano anche i corsi

di gruppo, adattati alla grandezza della palestra. Qui ha Losone abbiamo previsto una capacità di nove clienti più un istruttore al massimo. Siamo stati un po’ sotto al consentito, che sarebbe di 15 persone, tutti distanziati con mascherina. Del resto, ogni centro ACTIV FITNESS del cantone ha un profilo diverso, a seconda della sua grandezza. A Bellinzona abbiamo previsto quattordici persone, tredici a Vezia, dieci a Losone, Lugano, Mendrisio, istruttore compreso». Per quanto riguarda il periodo di chiusura forzato degli scorsi mesi gli abbonati ACTIV FITNESS non hanno subito nessun danno: «Come già avvenuto in occasione della prima chiusura, alla durata dell’abbonamento sono stati aggiunti il 100% dei giorni perduti ». Ultima informazione pratica da parte di Nico Cice: «Per tornare a frequentare la palestra non è necessario presentare tampone o certificati di vaccinazione. Importante è attenersi alle norme prescritte. La nostra palestra è di per sé un posto in cui tutte le misure sono state rispettate: è un luogo in cui praticare sport in tutta sicurezza. Siamo pronti a ripartire più forti di prima».

Circa 9000 associazioni sportive dilettantistiche hanno partecipato alla promozione «Support your Sport». Tiro alla fune, nuoto, rugby... tantissime le discipline sportive rappresentate. Le associazioni e i loro supporter hanno dato prova di un grandissimo impegno per raccogliere il maggior numero possibile di buoni sport. Sono state inoltre versate complessivamente 7900 donazioni dirette a favore di diverse associazioni sportive dilettantistiche. Con l’iniziativa «Support your Sport», la Migros ha dato una scossa al mondo dello sport amatoriale svizzero. Considerato il successo riscontrato da quest’iniziativa e in segno di sostegno la Migros ha deciso di raddoppiare il fondo di contributi portandolo da tre a sei milioni di franchi. La distribuzione del fondo di contributi funziona secondo il principio: più buoni sport otterrà un’associazione, maggiore sarà la quota a essa spettante del fondo di contributi messo a disposizione da Migros. La classifica attuale delle associazioni sportive partecipanti può essere consultata su: https://supportyoursport.migros. ch/it/classifica. errata Corrige Nel testo dedicato all’avvocato Antonini, pubblicato in questa pagina la settimana scorsa, in una parte della tiratura era presente un errore: l’ex presidente del CdA di Migros Ticino si chiamava Adriano, non Antonio. Ci scusiamo con la sua famiglia, con i lettori e con Ulrico Hochstrasser, che ha dedicato una lettera postuma al suo amico e predecessore alla presidenza della Cooperativa.

La grande festa della danza eventi Durante il mese di maggio oltre 30 città di tutta la Svizzera saranno animate

da un happening gioioso e dinamico Lo scorso anno la Festa danzante, un appuntamento ormai tradizionale del periodo primaverile, non si era potuta tenere. Quest’anno, grazie alle nuove disposizioni emanate dalle autorità, la Festa Danzante potrà finalmente aver luogo anche all’aperto. Naturalmente nel pieno rispetto delle misure di protezione anti Covid vigenti. Come sempre la manifestazione sarà caratterizzata da spettacoli, corsi, incontri e dimostrazioni fornite da scuole di danza. In Ticino la festa si terrà da mercoledì 5 a domenica 9 maggio in cinque località: Lugano, Mendrisio, Ligornetto, Locarno e Bellinzona. È prevista inoltre un’anteprima cantonale giovedì 29 aprile. Lugano sarà quest’anno un po’ il centro nevralgico dell’evento. È previsto qui un ricco programma di corsi e incontri e in collaborazione con Orme

Festival, una masterclass con Annie Hanauer. Grazie al programma Lingua Madre – Capsule per il futuro ideato dal LAC di Lugano e dal FIT Festival, verranno riproposti alcuni progetti con eventi creati ad hoc per la Festa danzante, sia online che in presenza. Tra questi il documentario sulla pluripremiata coreografa e danzatrice Chiara Bersani che presenta la performance sonora Cordata. Rivedremo le Poesie anatomiche dove i versi di Francesca Sangalli si declinano nel corpo di Camilla Parini, diretta da Alessio Maria Romano e il docufilm Aurora, un percorso di creazione sull’omonimo spettacolo del coreografo Alessandro Sciarroni, Leone d’Oro a Venezia nel 2019. Scopriremo nuove culture grazie ai balli della comunità curda, e non mancheranno le danze urbane, con un con-

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Biglietti in palio «Azione», in collaborazione con gli organizzatori della Festa Danzante, mette in palio per i suoi lettori alcuni abbonamenti gratuiti per due persone validi per tutti gli spettacoli previsti nel nostro cantone dal 5 al 9 maggio 2021. Per partecipare all’estrazione basta inviare un’email con oggetto «Festa Danzante» all’indirizzo giochi@ azione.ch entro le ore 24.00 di mercoledì 28 aprile. Buona fortuna!

editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

test dedicato ai giovani fino ai 20 anni, che si sfideranno a colpi di Hip Hop e suoi derivati. PLEASE, HOLD ME, l’ultima creazione di Nunzio Impellizzeri sarà invece presentata al Museo d’arte di Mendrisio, nell’ambito dell’installazione ambientale Arundo 1 e Arundo 2 dell’artista Miki Tallone: si tratta di una performance-installazione partecipativa che mette la danza nelle mani del pubblico. Al Teatro Sociale di Bellinzona sono proposti invece due appuntamenti performativi. Il 6 maggio Alessia Della Casa presenta in prima assoluta Dansonography, mentre l’8 maggio Francesca Sproccati porta in scena la sua pièce EXP: je voudrais commencer par sauter. Grazie alla collaborazione con i Cineclub e Circoli del cinema del TiTiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

cino il cinema incontra la danza in quattro proiezioni di film contemporanei, mentre un film a sorpresa sarà proiettato il 29 aprile, in occasione della Giornata internazionale della danza. Tutte le informazioni e il programma completo del festival (che è sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino) sono disponibili sul sito www. festadanzante.ch/ticino. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Società e Territorio Videogiochi It Takes Two è un originale gioco collaborativo in cui i partecipanti devono affidarsi l’uno all’altro

Le città e il Bilancio partecipativo A Locarno, ma anche a Lugano e Bellinzona, si guarda con interesse all’esperienza di Losanna del Budget participatif, un programma che rafforza la coesione sociale e il senso di cittadinanza

Il gioco di ruolo nell’infanzia Il gioco simbolico è importante per lo sviluppo emotivo, relazionale e cognitivo del bambino, lo spiega la psicologa Emanuela Iacchia pagina 10

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Genitori influencer

Il caffè delle mamme I ragazzi sono attratti

dai social e affascinati dagli influencer, ma hanno soprattutto bisogno di genitori significativi e autorevoli

Simona Ravizza Genitori influencer. Che sia la strada giusta per avere un dialogo con la Generazione Like? Oggi, per chi ancora non lo sapesse, noi siamo dei boomer: nati nel baby boom degli anni Sessanta, comunque vecchi! A Il caffè delle mamme abbiamo già discusso di come per i nostri figli il numero di cuori su un post e di follower su Instagram possa fare la differenza tra chi si sente importante e chi si sente uno «sfigato». Così come ci siamo già interrogate sui rischi dell’incursione incontrollata della tecnologia che può trasformare una famiglia da un insieme a una somma dei suoi componenti. La frustrazione di condividere una stanza con la persona a cui vogliamo bene ma che è come se non ci fosse resta all’ordine del giorno. Ma adesso un altro spunto di riflessione arriva dalla nuova commedia di Sky Genitori vs influencer di Michela Andreozzi. Spoiler della trama: il prof. di filosofia Paolo Martinelli (Fabio Volo) cresce da vedovo e con grande dedizione la figlia Simone, con pronuncia alla francese (interpretata da Ginevra Franceschini), oggi 14enne. Il padre svalvola quando l’adolescente viene rapita dai social. La cena è servita in tavola, ma lei non si stacca dal cellulare (di aiutare ad apparecchiare neanche se ne parla!). Il padre la va a prendere a scuola, ma lei durante il viaggio di ritorno a casa è muta con gli occhi incollati sul cellulare (bei tempi quelli in cui si cantava insieme a squarciagola: «Quanta fretta! Ma dove corri? Dove vai? Se ci ascolti per un momento, capirai. Lui è il gatto ed io la volpe, stiamo in società. Di noi ti puoi fidare» di Edoardo Bennato). Qualsiasi momento è buono per farsi un video da tiktoker: la bambina da 10 e lode che leggeva e non faceva videogiochi non c’è più. Di qui la reazione paterna alla scoperta che l’ambizione della figlia è di diventare influencer: «Gli influencer sono degli imbecilli che non sanno fare altro nella vita, fancazzisti e ignoranti che rovinano la professione di genitore!», urla con uno scopettone in mano il prof. Paolo, papà ormai annientato. L’evoluzione della storia è sorprendente: Simone, che ha filmato col telefonino lo sfogo del padre, lo in-

via alla sua influencer di riferimento, Ele-O-Nora (interpretata da Giulia de Lellis, che lo è davvero anche nella vita reale, con 5 milioni di follower su Instagram, tra le più seguite dopo Chiara Ferragni). Lei lo rilancia e il video diventa virale: Paolo suo malgrado si ritrova genitore influencer, ruolo che dopo qualche ritrosia decide di cavalcare per soldi (gli servono ad acquistare la casa in cui vive con la figlia e a cui l’adolescente è molto legata). Dopo varie vicissitudini, tra cui la nascita scontata di una relazione sentimentale tra Paolo ed Ele-O-Nora, Simone si trova vittima di un attacco di cyberbullismo: per una ripicca d’amore la sua migliore amica fa girare una foto in cui la si vede a seno nudo. Il terrore di Paolo è che la figlia possa farsi del male, Simone invece reagisce postando un video in cui fa suo un vecchio motto del padre: «Siamo noi a dare agli altri il potere di farci male. Io – dice la giovane ai suoi followers – non ve lo permetterò». L’happy end è assicurato, ma passa da un confronto padre-figlia. La ragazzina rapita dai social si ribella al padre a sua volta diventato star del web: «Hai smesso di cucinare, volevi mandarmi a prendere alla festa da un Ncc (auto a noleggio con autista, ndr)». «Ma tu dici che io sono un accollo, che ti tratto come una bambina anche se sei grande». «È difficile da spiegare». «Vuoi che io continui a fare il rompipalle – è la sintesi del padre –, così tu puoi continuare a lamentarti». Insomma, sintetizziamo al Caffè delle mamme, essere genitori influencer non vuole dire mettersi sui social al pari dei 14enni, ma essere autorevoli! Il problema è: come? Chi ha coniato il binomio genitori influencer è a inizio 2019 Matteo Lancini, presidente della fondazione Minotauro, specializzata nel disagio adolescenziale. Lo psicoterapeuta ha intitolato così un ciclo di conferenze e un capitolo del libro Cosa serve ai nostri ragazzi (ed. Utet, marzo 2020). «Gli adolescenti degli anni Zero, usciti da un’infanzia ovattata e ricca di privilegi, non utilizzano più il conflitto e la trasgressione per affermare se stessi. Sono, invece, ostaggio di ideali presto disillusi e aspettative smisurate e scontano la mancanza di figure autorevoli», è il pensiero di Lancini

Gli adulti dovrebbero educare e sostenere gli adolescenti nell’utilizzo della Rete senza demonizzarla. (shutterstock)

che spiega ad «Azione»: «Essere una mamma o un padre influencer vuol dire accettare che i nostri figli adolescenti siano diversi da noi e non volerli a tutti i costi sempre felici e contenti. Dobbiamo dar loro la possibilità di esprimerci qualsiasi dolore e fragilità loro abbiano. Senza che siano frenati dalla paura di vederci, come spesso capita, troppo angosciati perché invece vorremmo sempre tutto perfetto». Ritorna il concetto: «Le ragazze e i ragazzi hanno bisogno e ricercano genitori significativi, davvero autorevoli – scrive Lancini –, capaci di assumersi la responsabilità del proprio ruolo, all’interno di una società complessa e soggetta a trasformazioni rapide e non del tutto prevedibili». Lancini indica una strada alternativa al divieto del cellulare. Una propo-

sta che fa molto riflettere a Il caffè delle mamme: «Non serve identificare il colpevole in internet – spiega Lancini –. Molti provvedimenti spacciati per autorevoli promuovono comportamenti compiacenti da parte di ragazzi e ragazze, oggi più propensi a tenere a bada le ansie genitoriali, piuttosto che a comprenderne le ragioni profonde». Insomma, non esiste la formula perfetta: meno internet, più regole e otterrai figli felici. «Mi sembra sia arrivata l’ora di accettare un fatto: i bambini possono e devono essere controllati – riflette lo psicoterapeuta –, mentre gli adolescenti hanno urgente bisogno di adulti che li educhino e li sostengano nell’utilizzo della Rete». Di qui l’esortazione: «È arrivato il momento di tornare a essere adulti influencer. Oggi, più che mai, è fondamentale che i genitori

si interessino alle scelte virtuali effettuate dai propri figli. Abbiamo bisogno di madri e padri autenticamente incuriositi dai motivi per i quali il figlio o la figlia abbia deciso di frequentare proprio quell’ambiente virtuale. Bisogna avere il coraggio di chiedere: “Come è andata oggi in internet?”, “Stai procedendo in internet o rimani indietro?”, “Trascorri le ore da solo con quei giochini da preadolescente o stai finalmente giocando con qualcuno e facendo nuove amicizie?”». Forse, ci diciamo a Il caffè delle mamme, diventeremo mamme e papà influencer, proprio quando i nostri figli troveranno in noi adulti capaci di accettare che loro sono altro da noi. Senza essere angosciati. Anche se, forse, un po’ un accollo, come dice Simone, dobbiamo rassegnarci ad esserlo. Ed è giusto che sia così.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

La massima qualità bio

Attualità Dietro il marchio Demeter si nasconde un’agricoltura biodinamica orientata

alla natura

Demeter è sinonimo di generi alimentari biodinamici prodotti in armonia con la natura.

Nel 2020 Migros ha fatto registrare un incremento di oltre il 15% nel settore dei prodotti bio. Questo aumento testimonia che sono sempre di più i clienti che richiedono alimenti ottenuti in modo sostenibile. Con l’introduzione di alcuni prodotti Demeter lo scorso autunno, Migros ha voluto soddisfare le richieste di coloro che hanno esigenze ancora più elevate in materia di prodotti bio. Attualmente, l’assortimento Demeter dei principali supermercati di Migros Ticino comprende una selezione di articoli nei settori frutta e verdura, pane, uova, contorni, snack, bevande e alimenti per bebè. L’offerta verrà gradualmente ampliata a seconda della disponibilità.

Cos’è Demeter?

Demeter è il marchio bio più vecchio: la sua nascita risale al 1924, per volere dell’antroposofista austriaco Rudolf Steiner. Al contempo, Demeter è anche il marchio bio con i criteri più severi a livello mondiale (ancora più esigenti rispetto alle ordinanze bio CH/ UE). La base di ogni prodotto Demeter è l’agricoltura biodinamica, dove essere umani, animali, piante e suolo sono in perfetta armonia e sono parte di un ciclo chiuso, naturale e sostenibile. Concretamente, ciò significa per esempio che una fattoria Demeter utilizza compost naturale e letame

animale come fertilizzante sui propri campi; negli allevamenti di bovini agli animali non vengono tagliate le corna e vengono allevati anche i pulcini maschi. Il ricorso a pesticidi/erbicidi chimici e sintetici, come pure a concimi artificiali, è vietato. Si promuove la presenza di fauna e flora ausiliaria, creando un circolo virtuoso dove si allevano solo gli animali che la fattoria può nutrire. Si dà la priorità alla coltivazione di piante autoctone e si utilizzano sementi dell’ultimo raccolto. Alcune procedure come il trattamento UHT o l’omogeneizzazione del latte, sono vietate. Nella lavorazione delicata dei prodotti vengono ammessi solo

pochissimi additivi, al fine di mantenerli il più naturali e genuini possibili. I contadini lavorano in armonia con la natura, rispettando le stagioni e il cosmo, regolandosi anche sulle fasi lunari. Va da sé che l’osservanza di queste rigorose direttive si ripercuote anche sui prezzi dei prodotti Demeter, che risultano un po’ più elevati rispetto agli articoli bio convenzionali. Tuttavia, acquistandoli i consumatori contribuiscono a sostenere un’agricoltura più sostenibile e vicina alla natura. Per saperne di più: migros.ch/demeter

DEMETER la massima qualità bio. Prodotti da agricoltura e produzione biodinamica Direttive rigorose Prodotti naturali e sostenibili Lavorazione delicata Senza coadiuvanti sintetici Massima qualità

Tante vitamine a poco prezzo Riapertura terrazza Attualità Fino al 1° maggio alla Migros vi aspettano imperdibili ristoranti Migros promozioni sulla frutta e verdura, ma non solo

Grazie alla nostra campagna Feel Good, non avrete più scuse per non mangiare in modo equilibrato. Ancora per tutta la settimana troverete infatti alcuni prodotti del reparto frutta e verdura a solo 1 franco la confezione, come pure innumerevoli spunti e idee per fare il pieno di vitamine e altre sostanze vitali a prezzi imbattibili. Alla Migros alimentarsi in modo variato e salutare è incredibilmente facile, dal momento che l’assortimento offre una vastissima selezione di prodotti

che contribuiscono a farvi stare bene, il tutto con un occhio di riguardo per il budget. Oltre agli articoli protagonisti dell’attività «Franco Vitaminico», desideriamo naturalmente porre l’accento anche sull’ampia scelta di bontà in qualità biologica, ossia ottenute in modo rispettoso delle risorse naturali e del benessere animale. Per chi cerca ancora di più, l’offerta Migros annovera anche alcuni prodotti certificati Demeter (vedi sopra), il marchio di qualità sinonimo di un’agricoltura biodinamica che se-

gue gli standard più severi nel campo di una produzione alimentare sostenibile. E naturalmente non mancano gli ortaggi regionali targati Nostrani del Ticino, primizie coltivate sui nostri campi che con l’arrivo della bella stagione giungono freschissimi e in abbondanza ad arricchire la tavola a poche ore dalla raccolta. Insomma, grazie dalla nostra ampia offerta in grado di soddisfare ogni esigenza, l’alimentazione sana ed equilibrata è alla portata di tutti.

Voglia di una pausa caffè all’aria aperta tra un acquisto e l’altro o di uno sfizioso spuntino godendovi i primi tiepidi raggi di sole? In questo caso vi aspettiamo presso i Ristoranti Migros di S. Antonino e Agno, i quali, in conformità alle nuove disposizioni anti Covid in vigore dal 19 aprile 2021, hanno riaperto le terrazze esterne per i propri avventori dalle ore 8.00 alle 14.00. Nel pieno rispetto delle norme contro il coronavirus, informiamo che le consumazioni sono consentite esclusivamente da se-

duti, con la registrazione obbligatoria dei propri dati tramite codice QR applicato sui tavoli. La mascherina deve essere sempre indossata, tranne che durante la consumazione. Sono consentite al massimo 4 persone per tavolo, ad eccezione delle famiglie con figli.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Cura del viso sostenibile

Novità Il marchio Kneipp presenta la nuova

linea Mindful Skin

Formulazioni esenti da microplastiche e principi attivi a base vegetale: lasciatevi stupire dai nuovi prodotti per la cura delicata del viso firmati Kneipp. La pelle possiede una propria forza. Perché non attivarla consapevolmente in modo naturale? Con la nuova linea per il viso Mindful Skin di Kneipp vi prenderete cura della vostra pelle in modo responsabile. Ci sono voluti cinque anni di ricerca di alto livello per sviluppare questi prodotti innovativi. Gli ingredienti naturali di elevata qualità attivano i processi propri di rigenerazione della pelle apportando più idratazione, energia e protezione. D’altronde non c’è da stupirsi che i principi attivi vegetali abbiano un potere tutto loro: sia che si tratti di liquirizia idroattivante, schisandra attivante delle cellule o calendula dall’effetto antiossidante. Tutte le formulazioni sono inoltre senza microplastiche e le confezioni sono sostenibili: le scatole pieghevoli non hanno impatto sul clima, i flaconi e le pompette spray sono realizzate con plastica marina riciclata. I prodotti Mindful Skin sono adatti a tutti i tipi

di pelle – dalle normali fino a quelle più secche. Inoltre, sono disponibili in un assortimento completo, dal gel detergente alla crema occhi, fino al siero.

Kneipp alla Migros Sono oltre 20 anni che Migros propone sui propri scaffali i prodotti Kneipp, rappresentando di fatto uno dei principali rivenditori di questo marchio in Svizzera. Attualmente l’assortimento annovera un centinaio di prodotti nelle categorie bagno, cura del corpo e del viso, tisane e complementi alimentari. I cosmetici Kneipp vengono sviluppati da esperti scienziati secondo il principio «Best of Science – Best of Nature». Tolleranza ottimale, comprovata efficacia e preservamento delle risorse naturali sono tra i punti cardine dell’azienda. I prodotti non contengono paraffina, né silicone, né olio minerale e non vengono testati sugli animali. annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Società e Territorio

La terapia di coppia del dottor Hakim Videogiochi It Takes Two è un originale gioco collaborativo in cui i partecipanti devono affidarsi l’uno all’altro

Davide Canavesi I videogiochi che offrono attività online si concentrano molto spesso su esperienze che mettono i giocatori l’uno contro l’altro, in uno sforzo per arrivare primo o per eliminare il maggior numero di nemici. Tuttavia, non è ovviamente la sola attività condivisa possibile. Si possono anche creare esperienze da condividere in modo cooperativo, in cui due o più persone collaborano per finire il gioco. Oggigiorno queste esperienze vengono proposte via internet, con sistemi come PlayStation Network o Xbox Live. C’è però una terza via, quella della partita cooperativa locale in cui i giocatori condividono lo stesso schermo, solitamente diviso in due in verticale o orizzontale. Uno stile di gioco che andava per la maggiore all’epoca di PlayStation 2, GameCube ed Xbox ma che con l’avvento dei servizi online è passato un po’ di moda. Non per Hazelight Studios, talentuoso team di sviluppo basato a Stoccolma, che per il suo It Takes Two ha deciso che non solo i giocatori dovevano collaborare ma anche che possono (anzi, è raccomandato) giocare in due seduti sullo stesso divano. Perché It Takes Two è la storia di una coppia in crisi, sull’orlo del divorzio, che dovrà imparare a collaborare e a fare affidamento l’uno sull’altra per tentare di salvare un matrimonio e anche per… tornare ad essere umani. It Takes Two, come dicevamo, è la storia di una coppia formata da May e Cody. L’una è sempre occupatissima

con il proprio lavoro di scienziata mentre l’altro si sente sempre più abbandonato. Un sentimento condiviso anche dalla figlioletta Rose, la quale si ritrova spesso a giocare da sola con delle bamboline da lei stessa realizzate con le fattezze dei genitori. Una brutta sera però la giovane li sente discutere apertamente di divorzio e, comprensibilmente sconvolta, si rifugia nel capanno in giardino. Qui trova il Libro dell’Amore del Dottor Hakim, che implora di sistemare le cose tra i genitori. Per qualche misteriosa magia, May e Cody si ritroveranno trasportati nel corpo delle due bamboline, bagnate dalle lacrime di disperazione di Rose, impossibilitati a comunicare con lei o con chiunque altro. Per la coppia in crisi non c’è altro da fare che affidarsi alle parole del dottor Hakim, il quale ha preso vita sotto forma di libro, e superare le molte avversità che li separano dal ritorno alla normalità. In It Takes Two i giocatori controllano ognuno o Cody o May e dovranno collaborare per risolvere enigmi e puzzle ambientali ma anche per combattere nemici e risolvere sequenze più acrobatiche. Durante le nostre avventure all’interno del capanno, nell’albero cavo in giardino, nella stanza da letto di Rose e in altre ambientazioni sempre piacevoli da scoprire, incontreremo vari personaggi assai strani. Saremo invischiati in una lotta tra un gruppo di scoiattoli rivoluzionari e uno sciame di vespe, finiremo a combattere su una nave pirata, dentro un caleidoscopio, addirittura nello spazio.

May e Cody, la coppia in crisi protagonista del gioco. (electronic arts)

Otterremo vari poteri come un fucile spara fiammiferi da usare in concomitanza con uno spara resina infiammabile, avremo uno sparachiodi, poteri magici, potremo rallentare il tempo e teletrasportarci. Ad ogni angolo, It Takes Two sa sorprendere con meccaniche e situazioni sempre diverse. Non è un gioco solo ma una decina abbondante di generi diversi che si intersecano, costringendoci a cambiare il modo in cui collaboreremo. Attraverso la crescita dei due personaggi a schermo impareremo a fidarci un po’ di più del nostro compagno di partita, sul quale dovremo fare affidamento per forza. I poteri fornitici dal gioco sono infatti sempre e solo complementari e non permettono mai a un giocatore di

prevalere (o abbandonare) l’altro. Tuttavia, c’è anche una componente competitiva, visto che per tutta la durata dell’avventura ci imbatteremo in minigiochi creati per mettere alla prova le nostre abilità individuali in diverse piccole sfide. Una sorta di veloce cambio di prospettiva per divertire ma anche per far salire un po’ la tensione tra i due, in modo da spingerli entrambi a fare sempre meglio. It Takes Two è un gioco deliziosamente realizzato, sia dal punto di vista tecnico (abbiamo giocato su PlayStation 5 e condiviso l’esperienza con un amico dotato di PlayStation 4) che da quello artistico e di design. L’unica pecca è forse che non c’è il doppiaggio in italiano, per cui dovremo accontentarci

dei sottotitoli. A parte questo dettaglio ci sembrerà di stare all’interno di un film di Pixar, Toy Story è forse quello che ci viene in mente per primo. Ambientazioni che in apparenza possono sembrare banali vengono sovvertite dalla prospettiva di due bamboline alte 15 centimetri per cui anche una semplice ranocchia può diventare un fido destriero. Insomma, questo gioco è una vera e ottima sorpresa del 2021, non solo per la tematica affrontata ma anche per l’intelligenza dell’offerta proposta. In più, solo uno dei due giocatori deve acquistare il titolo, l’altro può condividere l’esperienza senza spendere un centesimo. Raccomandato a chiunque cerchi un’esperienza un po’ diversa dal solito. annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Società e Territorio A Losanna i progetti presentati nell’ambito del Budget participatif sono sottoposti al voto della popolazione. (ville de lausanne/ Marino trotta)

Incontri al parco per pranzare e pensare insieme A Villa Saroli «Essere differente»

è il tema dei «pranzi filosofici» ideati da Silvio Joller in collaborazione con l’associazione Ricciogiramondo Guido Grilli

Le idee dei cittadini Bilancio partecipativo In Ticino si guarda con interesse

all’esperienza di Losanna del Budget participatif, un programma che rafforza la coesione sociale e il senso di cittadinanza

Stefania Hubmann Permettere agli abitanti di assumere un ruolo attivo nella promozione e nella realizzazione di progetti pubblici per migliorare la qualità di vita nei loro quartieri è una forma di innovazione democratica in fase di sviluppo in Svizzera e che si vorrebbe introdurre anche in Ticino. Pioniere a livello nazionale del Bilancio partecipativo – un fondo assegnato annualmente a queste iniziative – è la Città di Losanna che lo ha introdotto due anni or sono. Funzionamento del processo e relativi risultati sono illustrati direttamente dalla capoprogetto del Budget participatif losannese, Julie Erard. Quest’ultima è stata ospite lo scorso mese di marzo del ciclo locarnese di incontri online «I Verdi a colloquio con gli specialisti». Nel frattempo I Verdi di Locarno si sono attivati anche sul piano politico, presentando al Municipio una mozione generica a favore dell’introduzione di questo strumento, attuabile in forme diverse. Iniziative analoghe sono state promosse negli ultimi mesi anche a Lugano e Bellinzona da parte di forze politiche di sinistra. Il Bilancio partecipativo è un concetto che capovolge la ricerca e l’implementazione di soluzioni a favore della comunità promuovendole dal basso verso l’alto e non viceversa. Per Francesca Machado-Zorrilla, organizzatrice della conferenza con Julie Erard, la partecipazione è un elemento base della democrazia. Precisa al riguardo: «Alla disaffezione, come pure alla tendenza a delegare compiti e responsabilità, è necessario contrapporre iniziative che coinvolgano direttamente i cittadini, permettendo loro di sviluppare un senso di appartenenza. In questo modo si favoriscono il rispetto reciproco e una maggiore considerazione dei beni pubblici». La serata locarnese ha suscitato entusiasmo, evidenziando come non sia sempre necessario ricorrere a progetti complessi e dispendiosi per rendere più piacevole la convivenza. «Chi vive nel quartiere sa cosa manca e come ovviare a questa carenza». Julie Erard conferma da parte sua questo principio che vede concretizzarsi con regolarità a Losanna. Come prende avvio un progetto del Budget participatif? Risponde la nostra interlocutrice: «Una nuova iniziativa per il quartiere, legata a eventi o infrastrutture, può essere proposta da un minimo di tre abitanti, i quali devono cercare innanzitutto nel loro stesso quartiere dieci persone che la sostengano». Elaborarla ed eventualmente concretizzarla non è però sempre così semplice. «La procedura garantisce

un accompagnamento per queste due fasi», spiega Julie Erard aggiungendo che «il progetto, presentato attraverso un formulario, viene dapprima esaminato dai servizi della Città per assicurarne la conformità tecnica e legale. Superata questa tappa, è sottoposto assieme agli altri progetti al voto della popolazione. Gli autori devono quindi attivarsi anche per promuoverlo in modo che raccolga voti sufficienti e riceva il finanziamento da parte del Budget participatif, il quale sovvenziona le proposte in ordine di gradimento fino ad esaurimento della somma disponibile. Sono sempre colpita dall’impegno profuso dai promotori in questa fase, un impegno che li porta a incontrare gli altri residenti del quartiere e a stringere alleanze. Si realizza così uno degli obiettivi dell’intero programma che è quello di rafforzare la coesione sociale e il senso di cittadinanza. In quest’ottica si inserisce il sostegno fornito dalla Commissione federale della migrazione per la fase di accompagnamento. A livello della Città di Losanna il bilancio partecipativo si inscrive nella politica dei quartieri del municipale David Payot, a capo della Direzione infanzia, gioventù e quartieri». Gli esempi di progetti conclusi o in corso di realizzazione non mancano. Spaziano da orti e pollaio urbani ad attività di lettura e scrittura, a proposte di scambi, riparazioni e riciclaggio. Per la coordinatrice del Budget participatif sono significativi, ad esempio, il corso di cucina inteso quale formazione per i migranti, l’apiario pedagogico per sensibilizzare la popolazione sull’importanza e sui bisogni delle api o ancora gli atelier di cucina contro lo spreco alimentare. Precisa la coordinatrice: «A dipendenza del progetto – prosegue Julie Erard – i tempi per implementarlo variano da un minimo di sei mesi a circa un anno, soprattutto se è legato a un ritmo stagionale». Partito nel 2019 dopo diverse sollecitazioni da parte di più forze politiche, il Budget participatif della capitale vodese sta dimostrando il suo valore, per cui l’ammontare a disposizione è cresciuto di anno in anno. Precisa la capoprogetto: «Siamo partiti con 100mila franchi, aumentati a 150mila nel 2020 e a 175mila quest’anno. È invece rimasta invariata la somma destinata a ogni progetto, pari a 20mila franchi. Nel caso i costi siano maggiori, il gruppo promotore può trovare il resto dell’importo presso fondazioni o altri enti di sostegno esterni alla Città». Per quanto riguarda il numero dei progetti, nel 2019 ne sono stati depositati 34 di cui 19 approvati, mentre nel 2020 i primi erano 29 e i secondi 26. Lo scar-

to fra le proposte presentate e quelle approvate si è ridotto grazie a una migliore comprensione del funzionamento del programma e a un più marcato accompagnamento dei gruppi promotori. Accompagnamento che dall’anno scorso è stato esteso anche alla fase realizzativa. L’iniziativa di Losanna si affina quindi ad ogni edizione facendo tesoro delle esperienze precedenti. La pandemia, che nel 2020 ha fatto slittare la consegna dei progetti da aprile a settembre, ha mostrato come questa scelta permetta di garantire una migliore elaborazione delle idee. Il calendario dello scorso anno è stato quindi mantenuto per l’edizione 2021. L’esperienza del Bilancio partecipativo – lanciata per la prima volta nel 1989 nella città brasiliana di Porto Alegre e ripresa con formule diverse in più parti del mondo – muove quindi i primi passi anche in Svizzera. All’attività svolta a Losanna si è interessata dapprima la Città di Zurigo, dove il progetto è stato avviato lo scorso anno su scala di quartiere con Wipkingen a fare da apripista. Altre città romande sono pure in contatto con la capitale vodese. Per Julie Erard è una soddisfazione constatare che tutte le regioni del Paese si interessano a questa formula di azione e decisione degli abitanti sulle priorità di investimento nei loro quartieri. I cittadini sono in prima linea e collaborano direttamente con l’amministrazione comunale. Un aspetto, quest’ultimo, che va sottolineato in quanto richiede spirito di apertura e un nuovo approccio da parte dei servizi amministrativi. La nostra interlocutrice afferma al proposito che «si tratta di una vera e propria innovazione democratica. Se una Città intende promuovere il Bilancio partecipativo, deve essere consapevole delle sue implicazioni e disposta a stare al gioco, vale a dire accettare il capovolgimento del modo di procedere e la nuova forma di cooperazione con i cittadini». Dall’esperienza di Losanna le altre Città svizzere possono trarre preziosi insegnamenti, adattando il modello alle loro esigenze. Uno dei vantaggi del Bilancio partecipativo è proprio quello di non essere ancorato a uno schema fisso. Invariato ed essenziale resta invece sempre il principio di offrire ai cittadini la possibilità di impegnarsi per aumentare il benessere della località dove vivono usufruendo di risorse riservate a questo scopo.

I partecipanti portano il proprio pranzo al sacco. L’incontro, gratuito e aperto a tutti gli interessati, avviene all’aperto, al Parco di Villa Saroli a Lugano. Non occorre iscriversi, basta presentarsi sul posto alle 12.30. Sono i «pranzi filosofici» ideati con originalità da Silvio Joller, 43 anni, mediatore culturale del LAC, di formazione filosofo e già assistente alla cattedra di Estetica all’Accademia di Mendrisio. «Essere differenti. Pranzi per stare e pensare insieme» è il titolo del ciclo di incontri, in agenda il 29 aprile, il 13 e il 27 maggio e il 10 giugno. La proposta appare interessante sin dalla sua premessa contenuta nell’invito: «è venuto il momento di riattivare le nostre relazioni, coltivarle, mettere in moto la nostra capacità di arricchirci a vicenda, discutendo e pensando».

Le riflessioni sulla diversità seguiranno una prospettiva non solo filosofica, ma anche religiosa e antropologica Come nasce l’idea di pranzi filosofici? «Dopo questo anno di pandemia passato lontani e distanti e che tuttora perdura, mi sembra che la cosa migliore sia di provare a rimetterci in moto. Anche perché penso che alla fine, stare distanti ci renda un po’ disabituati a vivere con gli altri. Mi sembrava un buon momento per provare a riavvicinarci, a sforzarci di condividere momenti. Da oltre una decina di anni propongo pratiche filosofiche in biblioteche, piuttosto che in luoghi chiusi, e allora mi è sembrato interessante in questo momento sfruttare questo agio di poterci ritrovare all’aperto con altre persone per proporre questo tipo di attività, che non differisce di molto dai classici “Café philo”». La «prima» del ciclo si è svolta il 15 aprile. Con quale esito? «È andata bene. Non eravamo tantissimi, una decina, anche perché il tempo non era troppo bello. Abbiamo mangiato un panino e discusso di “diversità”, interrogandoci su come la percepiamo e come la facciamo percepire agli altri

dal profilo culturale. “Essere differenti” è il tema degli incontri. Il primo spunto ha riguardato la differenza culturale, etnica. Gradualmente mi piacerebbe arrivare ad affrontare una differenza esistenziale, individuale sul percorso delle nostre vite». A proposito di «differenze», si può dire che noi tutti ci siamo ritrovati con la pandemia a dover cambiare il nostro paradigma quotidiano. «Assolutamente sì. Il presupposto è proprio quello, che in realtà è anche un momento per pensare come siamo cambiati noi in questo periodo e come si vivrà in futuro, visto che sicuramente non torneremo indietro nello stesso modo in cui eravamo prima. Fa bene pensarci e rifletterci. Durante gli incontri, attraverso alcune domande, cerco di stimolare una riflessione che diventi di natura filosofica». I partecipanti sono dunque invitati a intervenire? «Esatto. L’attività presuppone una partecipazione. Non si tratta di lezioni frontali, io sull’arco di un’ora parlo 10 minuti al massimo. Introduco la discussione e sollevo domande sulle quali si può partire magari con una riflessione. È un modo diverso per passare la pausa del pranzo». C’è un campionario di filosofi o di testi che si sentirà di proporre durante gli incontri? «Sicuramente accennerò al periodo assiale di Jaspers – questo filosofo ha individuato che intorno al V secolo a.C. e il II d.C., le culture hanno sviluppato una mentalità capace di condividere e coinvolgere più popolazioni insieme. Poi si parlerà di Schopenhauer, in alcuni casi di Nietzsche». I prossimi incontri vedranno già temi specifici o tutto sarà votato alla spontaneità del momento? «Questo dipenderà anche dal gruppo di persone. Tenendo presente il tema della diversità, sicuramente ci saranno discussioni più improntate sui momenti di passaggio della vita, al loro significato filosofico. Le tematiche seguiranno una prospettiva non solo filosofica, ma anche religiosa, antropologica». I «pranzi filosofici» si svolgono in collaborazione con l’Associazione Ricciogiramondo, biblioteca interculturale di Lugano. In caso di maltempo, consultare il sito www.ricciogiramondo. ch dove saranno annunciati eventuali cambiamenti di sede degli incontri.

Informazioni

www.lausanne.ch/budget-participatif www.quartieridee.ch

Una pausa pranzo diversa nel bel parco di Villa Saroli a Lugano.



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Società e Territorio I giochi di ruolo servono anche a mettere in scena situazioni che nella vita reale farebbero paura. (shutterstock)

Notizie brevi I fumetti dedicati ai matematici Sul nostro sito è online da oggi la nuova puntata dei fumetti creati nell’ambito del progetto Matematicando del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi. Le storie raccontano dei viaggi nel tempo che la giovane Ellie compie grazie agli occhiali virtuali costruiti in laboratorio dal geniale zio Angelo. La giovane protagonista incontra così di volta in volta i personaggi che nel passato hanno fatto la storia della matematica. Questa nuova puntata è dedicata ad Archimede. I fumetti si trovano sul sito www. azione.ch/societa, sezione «Vivere oggi» (oppure inserendo la parola «matematicando» nel campo di ricerca del sito).

Facciamo finta che...

Infanzia Il gioco di ruolo o gioco simbolico è importante per lo sviluppo emotivo, relazionale

e cognitivo del bambino. Ne abbiamo parlato con la psicologa Emanuela Iacchia

Alessandra Ostini Sutto «Facciamo che io ero Superman e tu il cattivo?», «facciamo che io ero la veterinaria e tu il cagnolino?»; fare finta di essere qualcun altro è uno dei giochi preferiti dai bambini. Si chiama gioco di ruolo, o gioco simbolico, e consiste nel calarsi in ruoli, appunto, diversi dai propri; unico limite, la fantasia. I giochi di ruolo si possono svolgere da soli, con un peluche o una bambola, con un amico reale o immaginario oppure con mamma e papà. In ogni caso sono importanti per lo sviluppo emotivo, relazionale e cognitivo del bambino.

Il gioco simbolico può svelare molto sulle paure, i sentimenti e i desideri dei nostri bambini «Il gioco di ruolo si sviluppa verso i 24 mesi e coincide con la capacità del bambino di rappresentarsi mentalmente oggetti e persone – spiega Emanuela Iacchia, psicologa e psicoterapeuta con competenze specifiche nell’età evolutiva – Jean Piaget, che ha studiato a lungo il gioco simbolico, scrive che esso si sviluppa in un momento evolutivo particolare, che va dai 2 ai 7 anni, e che definisce “fase del pensiero preoperatorio”. In tale momento il piccolo mette in atto delle imitazioni differite, replica cioè comportamenti osservati in altre situazioni e spesso tenuti da adulti di riferimento. Oltre a replicare i gesti, il bambino utilizza degli oggetti che imitino la situazione che vuole riprodurre: ad esempio utilizza una scatola di cartone e fa il gesto di guidarla». Come qualsiasi altro gioco, anche quello simbolico evolve parallelamente allo sviluppo del bambino. Come appena visto, imitare i genitori ne è la prima e più semplice forma, che si sviluppa tra i 2 e i 3 anni, fase in cui di fatto i bambini si interessano alle attività svolte da mamma e papà. Successivamente, tra i 3 e i 6 anni, il gioco di ruolo assume forme più complesse, pur continuando ad attingere alle situazioni familiari e note ai piccoli. Eccoli così per esempio mettere a nanna una bambola secondo il rituale seguito dai genitori oppu-

re sgridare un pupazzo per aver fatto il cattivo. Non di rado giocano anche a svolgere un determinato mestiere, magari quello di uno dei genitori, o ad impersonare il personaggio di un libro o di un film. «Al di là di questo periodo, il desiderio di giocare impersonando personaggi o situazioni di fantasia prosegue per tutta la vita: in ogni fascia d’età il gioco di ruolo può essere utile, ad esempio, per mettere in scena situazioni che nella vita reale farebbero paura, ma anche solo per divertire», aggiunge Emanuela Iacchia. Ad una certa età i bambini si stufano infatti dei classici giochi di ruolo. Attorno ai dieci anni non è però escluso che apprezzino quelli del filone Pen & Paper, che combinano le caratteristiche di giochi da tavolo e giochi di narrazione. Ma questa non è l’unica tipologia di gioco di ruolo che può piacere a ragazzi ed adulti. Accanto a quelli da tavolo, vi sono infatti quelli dal vivo e quelli online. Quale che sia il mezzo utilizzato, in questi giochi i partecipanti – guidati spesso da un capo gioco – assumono il ruolo di uno o più personaggi e tramite la conversazione creano uno spazio immaginario, dove avvengono fatti fittizi, avventurosi, in un’ambientazione che può ispirarsi a un romanzo, un film, un avvenimento storico o ancora essere una pura invenzione. Le regole del gioco indicano in che modo il giocatore possa influenzare lo spazio immaginato. «In questo ambito il fil rouge che collega piccoli e grandi è il bello e il desiderio di personalizzare e sviluppare il proprio personaggio come meglio si crede all’interno di una storia, sia essa semplice, come giocare sul divano pensando che sia una barca, oppure una vicenda fantastica ben articolata – commenta la psicoterapeuta – durante l’infanzia, il gioco simbolico è infatti di fondamentale importanza per lo sviluppo del pensiero astratto». Oltre a ciò, aiuta il bambino nella conoscenza del complesso mondo emozionale in quanto permette, attraverso l’imitazione e l’identificazione, la sperimentazione di emozioni e modelli relazionali. «Il gioco simbolico aiuta pure ad elaborare situazioni vissute, rivivendole da un’altra prospettiva o cambiando il finale. Il bambino può per esempio diventare quell’insegnante che mette timore e assegnare tanti voti belli», continua Iacchia. Per questo tipo di attività ai bambini non serve molto, visto che la loro

fantasia è alla base di ogni nuova avventura. Se però la vogliamo incentivare, una buona idea è quella di mettere a loro disposizione indumenti ed accessori che non usiamo più, utensili da cucina e altri oggetti di uso quotidiano. Anche scatoloni, lenzuola e coperte sono perfetti per improvvisare un gioco simbolico. A questo punto, lasciamoli liberi di potersi immedesimare ed osserviamoli: il gioco simbolico può dirci molto sulle paure, i sentimenti e i desideri dei nostri bambini. A volte, i piccoli infatti non sanno o non vogliono esternare alcune emozioni, mentre tramite il gioco di ruolo è come se affidassero ad altri la comunicazione dei loro stati d’animo. «Per un bambino una situazione difficile come la permanenza in ospedale di un familiare o un litigio con un amico può essere fonte di angoscia. Non avendo ancora gli strumenti per affrontarle, tenderà ad elaborare i suoi stati d’animo attraverso giochi di ruolo. In tal caso i genitori dovranno dedicargli tutta la loro attenzione e aiutarlo a superare la situazione», spiega la psicologa. I genitori possono pure «utilizzare» i giochi di ruolo per aiutare i bambini a fronteggiare situazioni per loro delicate. Se un bambino timido è invitato ad una festa di compleanno, possono impersonare quello che sarebbe il suo ruolo per mostrargli come si potrebbe comportare; con i figli, d’altronde, l’esempio resta il migliore insegnamento. Nella stessa ottica, i giochi di ruolo vengono usati nella pratica professionale di psicologi e psicoterapeuti. «Si può usare il roleplay terapeutico immergendo i bambini in avventure che creano pressione o ansia, esattamente come molte situazioni sociali della vita di tutti i giorni. Vivendo tale situazione “per finta”, in un ambiente sicuro, protetto e accanto ad un adulto di riferimento, il bambino può sperimentare le sue emozioni e prepararsi ad affrontarle poi dal vero – afferma Emanuela Iacchia – il gioco di ruolo in terapia aiuta poi bambini e adolescenti a costruire ed articolare una moralità e una motivazione anche al di fuori di tale contesto». Non solo all’interno di una terapia, il gioco di ruolo assume infatti pure la valenza di strumento d’apprendimento, nella fattispecie di norme sociali e comportamenti adeguati alle varie situazioni. Delle volte gli stessi bambini «sfruttano» inconsapevolmente questi

momenti per rappresentare conflitti che hanno con il mondo esterno. Se non hanno il permesso di fare qualcosa, nel gioco possono auto-aiutarsi ad accettare il divieto spiegandolo ad un altro. «Ma la cosa più bella è che il gioco simbolico diverte molto – sintetizza la psicoterapeuta – anche usare giochi che permettono di essere mossi dal vivo, come le Barbie, è importante, specialmente oggi che anche i più piccoli trascorrono quotidianamente del tempo davanti a tablet o altri dispositivi elettronici». Giocare con bambole e simili ha effetti benefici sul cervello. «Le Barbie stimolano la fantasia, dal momento che i bambini si immagino di essere la protagonista o un suo amico – continua Emanuela Iacchia – questo gioco porta i bambini in un mondo dei grandi, stimolando l’avventura, mentre il bambolotto stimola l’accudimento». Tornando ai giochi di ruolo, ogni bimbo ha le sue preferenze e indubbiamente ve ne sono di più creativi e fantasiosi che amano maggiormente questo tipo di attività. In genere comunque il bambino ha un’idea di partenza e, una volta sviluppata una trama, assegna un ruolo a ciascun compagno di gioco. Se questo siete voi, accettate di buon grado. Per un adulto, infatti, partecipare ad un gioco di ruolo può rivelarsi un’esperienza interessante, soprattutto in considerazione del fatto che i grandi hanno in genere poche occasioni per lasciar correre la fantasia come fanno i piccoli in queste occasioni. Importante però è lasciare la regia al bambino. Spetta a lui presentare le regole per il mondo inventato e restarne a capo. Così facendo ai genitori viene inoltre data una diversa opportunità per comprendere i propri figli, riconoscerne le esigenze ed eventualmente pure le insicurezze e le paure. «Giocare con i genitori è sempre bellissimo per i bambini; l’importante è che i genitori si divertano, così il gioco è più vero – aggiunge la psicologa – se invece il gioco di ruolo è svolto con dei compagni, si sviluppa anche la capacità di trovare un accordo». In questo caso il bimbo deve infatti trattare per stabilire come vadano ripartiti i ruoli e come debba procedere la storia. Ciò presuppone sia la capacità di imporsi che di tenere presenti le idee altrui e scendere a compromessi. Attraverso i giochi di ruolo il bambino sviluppa così importanti competenze sociali.

L’estate con Infovacanze 2021 L’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani del Dipartimento della sanità e della socialità ha da poco reso disponibile l’edizione 2021 di Infovacanze – Colonie, campi e soggiorni di vacanza estivi. L’opuscolo informa sulle colonie, i campi, i soggiorni, le animazioni e i corsi estivi di vacanza organizzati dagli enti che operano in Ticino e permette di conoscere alcune iniziative promosse al di fuori dei confini nazionali. Contiene inoltre gli indirizzi e i recapiti telefonici per ottenere informazioni in merito alle colonie e i soggiorni di vacanza organizzati fuori Cantone.

Le condizioni per svolgere le varie attività, informa l’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani, possono cambiare a seconda dell’evoluzione della situazione epidemiologica. Oltre all’impegno richiesto per garantire a bambini e giovani delle esperienze educative significative, gli organizzatori delle attività introdurranno tutte le misure necessarie per ridurre al minimo i rischi attraverso piani di protezione conformi a quanto previsto dalle autorità federali e cantonali. Le attività descritte nell’opuscolo potrebbero comunque subire delle modifiche, gli interessati sono invitati a rivolgersi direttamente agli enti organizzatori. Eventuali annullamenti saranno segnalati sul portale www. ti.ch/infogiovani (sezione «politiche giovanili», rubrica «pubblicazioni»). L’opuscolo è disponibile in formato PDF sul sito www.ti.ch/infogiovani, può essere richiesto telefonando allo 091 814 71 51 oppure inviando un’email all’indirizzo di posta elettronica ufficiodeigiovani@ti.ch.


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Società e Territorio rubriche

Approdi e derive di lina Bertola La filosofia sta negli occhi dei bambini Il Piccolo Principe ha appena compiuto 75 anni. Era il 6 aprile 1946 quando Gallimard ne pubblicò la prima edizione in lingua originale, mentre una traduzione in inglese era apparsa a New York, già prima della scomparsa del suo autore, Antoine de Saint-Exupéry. Dopo 75 anni continua ad essere il bambino che riesce a spalancare davanti a noi infiniti mondi. Mondi sconfinati in cui sono custodite magiche verità. Le magiche verità di quel bambino dai capelli d’oro abitano silenziose le sue strane domande e ci trasportano in un universo dai mille linguaggi inesplorati. Ogni frammento del racconto profuma, per così dire, di sacro, ovvero di ciò che sta al di qua di distinzioni, separazioni e misure di cui la ragione ha bisogno per pensare la realtà e i suoi significati. Perché la ragione accoglie il visibile e il dicibile e abbandona l’invisibile al suo silenzio, o all’immaginazione, sua eterna compagna di viaggio. Eppure è possibile sostare sulla

soglia di questi confini di senso senza mai attraversarli: è ciò che accade ai poeti, ai folli, e appunto ai bambini. È una vertigine inquietante ma insieme una straordinaria apertura sul «non ancora visto». «Quando gli parlate di un nuovo amico, dice il bambino, mai si interessano delle cose essenziali. Non si domandano mai: Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle? Ma vi domandano: Che età ha? Quanti fratelli ha? Quanto pesa? Quanti soldi guadagna suo padre». È bello che tanti lettori, e per così tanto tempo, abbiano continuato a navigare con lui tra pianeti e asteroidi fantastici e continuino ad accompagnarlo in dialoghi rarefatti con la sua amata e fragilissima rosa, o a piangere con la volpe addomesticata o, ancora, a farsi disegnare pecore invisibili. A lasciarsi avvolgere, insomma, in incontri fino a quel momento impensati e forse anche impensabili, per sentirli poi risuonare

dentro di sé. Perché, proprio come dice lui, «solo i bambini sanno quello che cercano». Questo straordinario racconto è anche un invito a guardare un po’ meglio dentro i loro occhi perché in quella luce particolare è custodito qualcosa di grande. C’è la meraviglia, da cui nasce tutto: l’incanto e la domanda vera. I nostri bambini, quando sappiamo ascoltarli, assomigliano tutti al Piccolo Principe, perché tutti assomigliano alla sua fragile forza nel desiderio di aprirsi alla realtà portando dentro gli occhi anche i battiti del cuore. È in questo incontro con la realtà che nascono le loro domande. I bambini conoscono la potenza e il senso del domandare. Oggi viviamo in un mondo pieno di tante risposte di cui abbiamo dimenticato le domande, risposte che con la loro accecante visibilità soffocano il nostro sguardo. Capita così che nel loro stupore, in quell’incantamento che illumina gli occhi dei bambini con

i loro perché, spesso non sappiamo riconoscere un invito, non riusciamo a cogliere le vibrazioni di un dono: un dono straordinario che ci interpella, che interpella il nostro stare al mondo. Capita così che questo loro invito rimanga inascoltato, mentre restiamo prigionieri della totale visibilità di un mondo dato, di un mondo pieno di dati che riempiono i nostri occhi con la loro ineluttabile presenza. Pensiamo dentro pensieri già pensati in cui anche le nostre eventuali domande sono solo un rituale imprigionato. Sarebbe bello se qualcuno mi chiedesse se faccio collezione di farfalle ma ha ragione il Piccolo Principe, nessuno mai lo farà. Eppure l’incantamento di quel domandare che nasce e cresce negli strati più profondi del nostro animo è un grande valore che dovremmo imparare a riconoscere, ad accogliere e a coltivare come una straordinaria risorsa per il nostro vivere e convivere.

Il filosofo Martin Heidegger ci ha regalato un’idea molto bella: il domandare è la pietà del pensiero, perché avere pietà significa prendersi cura delle cose. La domanda nasce dal fatto che il mondo si dà a noi e, di fronte a questo dono, il nostro domandare assume i colori di un ringraziare. C’è una bellezza nel vivere la domanda che ci trasporta dalla meraviglia di fronte a ciò che si offre a noi fino alla contemplazione di qualcosa che ci svela infine il suo segreto. Arriverei allora a dire che la domanda è il cuore della filosofia e che la filosofia sta negli occhi dei bambini. Le domande sono filosofiche, non tanto per ciò che chiedono, quanto piuttosto per ciò che muovono in noi, per ciò che desiderano incontrare e comprendere e per come sono abitate dal pensiero e dalle emozioni. Le domande dei bambini custodiscono per noi la speranza, e insieme la promessa, di nuove aperture sempre possibili sul nostro cammino.

nell’abbondante legno alle pareti, pavimento, porte: noce, ciliegio, olmo, quercia. La carta da parati floreale del salone, tra l’oro e il verde con sprazzi di blu e rosso, un po’ stile William Morris, rappresenta tutti gli stadi del melograno. Esco fuori nel parco dirigendomi verso il pavillon. Voltandomi vedo, chiara e netta, la simbiosi tra la grande magnolia giapponese in piena fioritura e la Patumbah. La tinta rosea dei fiori si accorda con i colori minerali Keim dei materiali imitati sulla facciata, ritrovata in tutta la sua eccentricità dopo l’attentissimo restauro orchestrato, tra il 2010 e il 2013, dallo studio di architettura Pfister Schiess Tropeano. Il parco, all’epoca capolavoro di Evariste Mertens, è stato amputato di molto. Venduto dalle diaconesse che lo avevano ricevuto in regalo, assieme alla villa, dalla vedova Anna Dorothea Grob-Zundel e le figlie Margrit e Anna Carolina (morte entrambe zitelle prima dei cinquantanni), forse per espiare le colpe colonial-negriere del marito e rispettivo padre. La passeggiata perciò, non ricorda più certi passaggi letti tra

le pagine di L’arte di andare a passeggio (1802) di Karl Gottlob Schelle, in compenso però noto con piacere che si trovano in giro, nomadi, delle graziose sediuole da giardino. Il nomadismo di queste composizioni casuali di sedie mi ricorda, per un attimo, certi parchi parigini in primavera. Ne scelgo una, accanto al pavillon in ghisa con zoccolo in mattoni rossi e giallo crema. E mi siedo, così, per un picnic essenziale fuori orario (a meno che gli orari non siano madrileni): asparagi e uova sode. Lancio lo sguardo là verso la fontanatridacna gigante oceanica che magari può risultare anche una stupidata kitsch ma a me piace da matti, quasi più di Villa Patabum. Patapunfete e patapim e patabam, mi vengono in mente ora come altre parole onomatopeiche simili. Plop è il suono di un fiore di magnolia appena caduto. Il rumore adesso della ghiaietta, nel settore sottostante di questo parco cittadino nel cuore del quartiere di Riesbach che costeggia la Mühlebachstrasse, quando passa una signora in carrozzella trainata da tre levrieri russi, non saprei.

mercato internazionale o quando i nostri dispositivi tecnologici manipolano la nostra attenzione, ci tengono incollati ai nostri schermi influenzando le nostre ricerche, le nostre letture, le immagini che vediamo. Diventiamo degli oggetti ogni qual volta interagiamo con testi e voci generati dalle macchine perché per essere compresi possiamo rispondere soltanto in modi che possano comprendere. Un assistente virtuale che ci offre la sua amicizia ci riduce ad una linea di codice. Intanto i tecnologi, per sfruttare al meglio i programmi, ci invitano a trattarli come se fossero degli umani. Così facendo, ci dice l’antropologa del cyberspazio, eleviamo le macchine e sminuiamo noi stessi. Iniziamo a dire che le relazioni tra le persone e le macchine sono interpersonali e non c’è un senso in questo ma un grande pericolo. Fa l’esempio degli anni Settanta, di quando il suo collega Joseph Weizenbau

arrivò nel suo ufficio arrabbiato perché la segretaria e gli studenti preferivano interagire con ELIZA, un programma in grado di fingere una conversazione sul modello della psicoterapia Rogeriana. Era chiaro che ELIZA non potesse comprenderli ma non sembrava importante. Oggi la tecnologia che abbiamo a disposizione ha più fantasia ed è più accattivante ma le nostre vulnerabilità sono le stesse. Cosa fare allora? Interrompiamo l’esperimento. Distanziamoci dalle macchine. Siamo esseri umani fatti di corpo, storie emotive e sociali. Abbiamo bisogno di empatia e di connessione umana e questo non si traduce in un numero maggiore di app a disposizione. Siamo noi le app empatiche e per stare bene abbiamo bisogno gli uni degli altri e la pandemia ce lo sta ricordando. Non ci resta allora, come suggerisce Sherry Turkle, che rimodellare il digitale perché sia al servizio dell’uomo.

Passeggiate svizzere di oliver scharpf Villa Patumbah a Zurigo A passo distratto, dopo esser sceso dal tram numero quattro, vado verso quella che è stata definita dalla «Neue Zürcher Zeitung» come «la casa più pazza di Zurigo». Patumbah: il nome di questa villa del 1885 mi fa venire in mente un capitombolo onomatopeico tipo patabum, con il tocco finale esotico-perplesso dell’interiezione bah. In realtà, in malese antico, significa «un luogo dove ci si sente bene». Patumbah si chiamava anche una delle piantagioni di tabacco sull’isola di Sumatra che hanno arricchito a dismisura, con l’ombra dello schiavismo, il suo committente: Carl Fürchtegott Grob (1830-1893). Omino dall’aspetto insignificante con una faccia simile a un furetto. Al numero centoventotto dalla Zollikerstasse, m’imbatto in Villa Patumbah (418 m) che non passa di certo inosservata. Stucchi a festoni con cornucopie, il rosa macchiettato del granito di Baveno, pietra d’Istria color ocra pallido, falso marmo verde o viola, marmo di Carrara, Mercurio e Flora in due nicchie a conchiglia, foglie di tabacco affrescate, una tigre e un

leone scolpiti, il nome a caratteri d’oro su in cima: Patumbah. Opera storicista del duo di architetti Chiodera & Tschudy – autori tra l’altro della sinagoga di Zurigo e dello Schauspielhaus – formato da Alfred Chiodera (1850-1916) e Teophil Tschudy (1830-1893), è un bel mix di stile neorinascimentale, postbarocco, gotico orientaleggiante. Il cielo coperto attenua la follia architettonica di questa villa ampollosa di tre piani dove entro un primo pomeriggio verso la fine di aprile. Sede oggi dell’Heimatschutz svizzera, per decenni è stata casa per anziani in mano alle diaconesse di Neumünster che avevano ridotto il giardino all’inglese del famoso architetto paesaggista Evariste Mertens (1846-1907), a un orto in cui si coltivavano esclusivamente zucchine enormi, da concorso. L’occhio, ormai agguerrito a trovare figure fantastiche in giro, non fatica a catturare un cane alato dipinto sul muro delle scale che purtroppo non si possono salire. Visitabile solo al piano terra, a meno che non prenotiate l’unica visita guidata che si svolge l’ultima domenica

del mese. La prima grande sorpresa allevia un po’ la delusione di non poter vedere i piani superiori che hanno nella cupola-pagoda vetrata in cima, il suo pezzo forte. È l’occhio del drago: un oblò nel soffitto che spinge lo sguardo magicamente su fino al soffitto luminoso del terzo piano dove guardano giù, vitree e coloratissime, diverse figure grottesche. E alcune cineserie, come in un caleidoscopio. Sempre a naso all’insù, incontro una natura morta con melone, dipinta sul legno del soffitto a cassettoni che mostra anche una moltitudine di draghi. Ma è una magnifica magnolia rosa che si vede dalle finestre, nel parco, a ridosso della villa, a rapire lo sguardo che però si meraviglia sul serio solo quando incontra la fontana-ostrica gigante. Si tratta di una spettacolare Tridacna gigas proveniente dall’oceano indopacifico, portata a casa dal Fürchtegott Grob come mastodontico souvenir, in mezzo alla quale c’è una rocaille da cui sale il getto d’acqua. Ancora stucchi, sul soffitto affrescato con cieli azzurri, nuvole, putti. Intarsi a non finire

La società connessa di natascha Fioretti Siamo noi le app empatiche Sherry Turkle c’era, era al posto giusto nel momento giusto in quegli anni di grande innovazione e cambiamento, gli anni Settanta, in cui andavano delineandosi quegli strumenti e quella cultura tecnologica che oggi determinano e condizionano sempre di più le nostre vite. In The Empathy Diaries racconta del suo incontro con Xerox Alto, la prima workstation che concettualizzava l’interazione uomo-macchina attraverso un personal computer. Una visione che cambiò la sua vita proprio come accadde a Bill Gates e Steve Jobs. A proposito del fondatore di Apple, diverte l’aneddoto in cui Sherry racconta del suo tentativo di organizzare una cena per Steve. Nella primavera del 1977 Michael Dertouzos, direttore del Laboratory for Computer Science e pioniere nel campo dell’IT, le chiede di organizzare la serata invitando naturalmente anche un gruppo di selezionati colleghi del MIT.

Si raccomanda di scegliere un menu adatto, Steve notoriamente è vegetariano e difficile da accontentare. Sherry si impegna e opta per una cena a base di riso e sushi vegetariano con tanto di pasticcini francesi per dessert. Una serata perfetta. Alle otto nel salotto di casa sua sono riuniti i nomi più famosi delle scienze computazionali dell’epoca intenti a condividere cibi deliziosi e amabili conversazioni. Peccato per il ritardo di Steve che da un lato si concede poco dall’altro alla vista del cibo si limita a dire «questo tipo di vegetariano non va bene» e se ne va. Non solo Michael Dertouzos e Steve Jobs, i compagni di viaggio della carriera e della vita di Sherry Turkle sono stati anche Seymour Papert e Marvin Minsky. Tra gli esponenti principali del costruzionismo, in particolare per gli apporti forniti alla didattica e alle tecnologie dell’istruzione, Seymour Papert considerava il compu-

ter come uno strumento di simulazione e di supporto per l’apprendimento anche dei bambini. Collaboratore di Piaget all’istituto di epistemologia genetica di Ginevra nel 1964 insieme a Marvin Minsky fonda al MIT il Laboratorio di Intelligenza Artificiale. Sherry è sempre stata in disaccordo con Marvin e la sua idea di fondo, così radicata anche nella cultura tecnologica mainstream, per cui è cosa buona e giusta avere dei dispositivi capaci di disabituarci alla dipendenza gli uni dagli altri. Marvin non riteneva necessario portare il fardello derivante dai legami e dalle relazioni umane, promuoveva invece l’idea di un incontro tra l’uomo e la macchina al punto che l’uno diventasse l’altra e viceversa. Ma noi non siamo oggetti, ci dice Sherry Turkle nell’ultimo capitolo del libro, anche se sempre di più ci lasciamo trattare come tali. Ad esempio quando vengono presi e venduti i nostri dati sul


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Ambiente e Benessere Ossa al Bosque de nieblina Cinquecento siti archeologici censiti sulle Ande peruviane in un labirintico bosco da esplorare

Un gran carico a zero emissioni È bastato prendere un mezzo nato spazioso come il pullmino Mercedes, e realizzarne una versione elettrica pagina 19

Tra canederli e smalzade Il viaggio gastronomico attraverso le regioni italiane arriva alla tavola del Trentino pagina 23

pagina 17

Dove dimorano i gatti L’etologo Roberto Marchesini spiega il modo in cui un felino si relaziona con l’uomo e la casa

pagina 25 Immagini tratte dall’anteprima di lancio del Graphic medicine manifesto. (pennsylvania state univ pr)

Salute e malattia viste con un fumetto editoria La «Graphic medicine» è un mezzo semplice, versatile ed efficace per esprimere con parole

e immagini il mondo della medicina Sergio Sciancalepore È possibile raccontare e rappresentare la malattia usando mezzi espressivi diversi da quelli più tradizionali e noti come libri, narrazioni, fotografie? È possibile farlo in un modo innovativo, molto efficace e coinvolgente che mette insieme testi e disegni: è la «Graphic medicine», una tecnica di comunicazione che utilizza gli strumenti propri dell’arte dei fumetti, i ben noti «comics». La medicina raccontata attraverso i disegni e i testi nasce dall’esperienza della Medicina narrativa, ampliandola con l’utilizzo di disegni, frasi inserite nei classici «fumetti» e soluzioni grafiche del tutto particolari. Lo scopo non è solo quello del racconto, della testimonianza offerta da chi vive o ha vissuto la malattia in modo diretto o indiretto. La Graphic medicine «mostra» la malattia con straordinaria immediatezza (in modo «viscerale», a volte), rende evidenti alcuni suoi aspetti che la parola fatica o non riesce a esprimere, come i cambiamenti del corpo, le difficoltà nella relazione con il medico (per esempio, quello che non si riesce a dire durante una visita o un percorso di cura) e con i famigliari: inoltre, è un mezzo straordinariamente efficace per la divulgazione e l’informazione sulla salute perché usa canali di

comunicazione visiva e testuale di facile comprensione e impatto sul pubblico. La Grapich medicine nasce nel 2007 alla Columbia University di New York: l’ideatore è il medico e disegnatore di fumetti Ian Williams, al quale si uniscono in breve tempo altre persone a vario titolo coinvolte nella medicina, nella grafica, nella creazione di storie illustrate: nel 2015, esce il Grapich Medicine Manifesto (vedi nel sito www. graphicmedicine.org) che raccoglie le idee e le proposte formulate nel corso del primo dei convegni annuali (Londra, 2010), le «Comics & Medicine Conferences». Gli esempi di Grapich medicine sono ormai numerosi, trattano malattie diverse con soluzioni grafiche e testuali adatte ai vari scopi e contesti: malattie psichiche (depressione, disturbi alimentari), malattie degenerative come l’Alzheimer o il Parkinson, il cancro e altre. I primi e significativi esempi di narrazione grafica che hanno fatto da modelli – in seguito sviluppati e arricchiti – agli altri fumetti dedicati alla malattia, sono Cancer Vixen di Marisa Acocella Marchetto (c’è anche un’edizione in italiano, edita da Salani) e Mom’s Cancer di Brian Fies. Marisa Acocella è una affermata cartoonist statunitense: a 43 anni, tre

settimane prima delle nozze, scopre di avere un cancro al seno e decide di raccontare e illustrare la sua esperienza, fortunatamente conclusasi con la guarigione. Un giorno, la Acocella e la mamma, vanno dal medico che dovrà eseguire la biopsia per confermare la diagnosi: il medico illustra ampiamente la tecnica, le possibili complicazioni e i successivi sviluppi, un’informazione ampia e dettagliata. Tuttavia, di tutto quel che dice il medico, che cosa realmente rimane in mente, cosa colpisce l’attenzione delle due donne? La situazione è ben illustrata dalla vignetta: il contesto (la visita, il discorso del medico) è descritto in due pannelli di colore verde, mentre ciò che le due donne afferrano sono solo pochi termini specialistici («cancro, lumpectomia, può non essere invasivo, linfonodi»), tutto il resto del discorso è come se non esistesse: questo afferrare solo alcune parole è illustrato usando segmenti ondulati, onde sulle quali «galleggiano» isolati quei pochi termini specialistici che impressionano le due attonite ascoltatrici. A sottolineare lo stato di grande ansia che non permette di comprendere l’informazione data dal medico, Acocella e la mamma sono raffigurate con una espressione rigida, gli occhi sbarrati. In Mom’s Cancer, Brian raffigura

una conversazione telefonica con il padre, a proposito della mamma malata di cancro. I due parlano della malattia della donna, le loro frasi sono riportate nei fumetti, mentre nei pannelli in basso sono riportate le parole non dette, solo pensate: in modo immediato, il lettore ha simultaneamente accesso a quello che si dice apertamente e a quello che si pensa in realtà e si fa fatica o non si riesce a dire a proposito di un famigliare gravemente ammalato. Nella stessa narrazione, una sequenza di immagini rappresenta un episodio di «assenza» della mamma, causato dal progredire della malattia: la donna appare sempre più estraniata e questo è ben descritto dal progressivo inscurimento del fondo, dal primo piano del volto e dagli occhi che diventano bianchi. La Grapich medicine usa anche singolari espedienti per dare rilievo a situazioni e stati d’animo, come le dimensioni diverse dei caratteri del testo: in Cancer Vixen, le domande e i dubbi della Acocella sono riportate in modo più efficace rispetto a un semplice elenco narrativo. Il corpo dei caratteri evidenzia le preoccupazioni della donna, non solo riguardo la malattia ma anche gli aspetti economici (tutt’altro che trascurabili, specie negli Stati Uniti): «Basterà la mia assicurazione o dovrò firmare

degli assegni?», è il pensiero ultimo (e dominante, sottolineato dai caratteri grandi) della paziente. La Graphic medicine si sta rivelando particolarmente efficace nell’informazione medica rivolta al pubblico: un testo ben scritto, sintetico è più immediato e comunicativo se è integrato da immagini a effetto. Analogamente, quando si vuole condividere con altri la propria condizione di malati, niente è più comunicativo di un disegno: in La parentesi di Élodie Durand, una grafica francese, il disegno – incerto, «brutto», astratto – si fa autentica e immediata rappresentazione di come la malattia ci può cambiare. In tempi di Covid-19, anche la Graphic medicine ha elaborato una «visione» del contagio. Monica Lalanda (in Spagna) e Shirlene Obuobi (negli USA) – entrambe medici e fumettiste – hanno realizzato storie illustrate sulla pandemia, raccontando le esperienze personali, dei loro pazienti e famigliari: non solo, hanno anche affrontato il tema della «invisibilità» del contagio, dando informazioni chiare ed efficaci sui modi di trasmissione del virus e come difendersi. La distanza fisica imposta dall’epidemia non impedisce di rimanere «connessi», e anche un fumetto può servire allo scopo.



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Il Popolo delle Nubi

Ambiente e Benessere

Reportage Da Purumachos a Sachapuyos, oggi noti con il nome di Chachapoyas: sono i vecchi selvaggi del Perù

Enrico Martino, testo e fotografie Sguardi ancora intensi, affiorano dai volti dipinti di grandi sarcofagi antropomorfi impastati di canne e fango secco sospesi sul vuoto di una parete rocciosa. I Purumachos, «i vecchi selvaggi» guardati con timore atavico da generazioni di abitanti del villaggio di Karajia, hanno protetto per secoli le mummie di guerrieri e sacerdoti prima che gli huaqueros, tombaroli con doti alpinistiche, li riducessero a gusci vuoti esposti alla pioggia e alle intemperie. Emergono qui, d’improvviso, le presenze del mondo perduto dei Sachapuyos, il «Popolo delle Nubi» come li avevano ribattezzati gli Incas, affrettandosi come ogni impero che si rispetti, a cancellarne il vero nome. Nonostante tutto, i Chachapoyas, il nome con cui oggi li conosciamo, abitano ancora tra queste montagne, o almeno le loro ossa sparpagliate tra oltre cinquecento siti archeologici censiti, senza contare quelli ancora sconosciuti. Si trovano nascosti tra gli anfratti più sperduti del bosque de nieblina, la foresta pluviale che ricopre il versante orientale delle Ande peruviane dove nuvole cariche di pioggia che risalgono dall’Amazzonia creano nebbie sfuggenti come la più misteriosa cultura andina. Per incontrare i fantasmi dei Chachapoyas in questo labirinto di montagne, dove ancora oggi sulle vecchie mappe campeggia la scritta datos insuficientes, mi sono imbarcato su uno scassato microbus a Cajamarca, dove il conquistador spagnolo Francisco Pizarro sconfisse, imprigionò e fece assassinare Atahualpa, ultimo sovrano di quell’impero inca che pochi decenni prima aveva sottomesso i Chachapoyas. Un cartello ammonisce «senōr conductor, conceda alla sua famiglia la gioia di vederla ritornare» annunciando una strada che si srotola lungo una ragnatela di gole, mentre più in basso il Rio Marañon nasconde dietro un fiumiciattolo di montagna l’altisonante destino di contribuire alla nascita del Rio delle Amazzoni. A Jalca Grande, il primo pueblo fondato dagli spagnoli nel territorio dei Chachapoyas, un infreddolito segretario comunale sta inventariando montagne di casse di birra per la prossima festa. Tra queste stradine acciottolate apparentemente non c’è più alcun legame con un passato che sembra giocare a nascondino con un puzzle mobile di nuvole, tra squarci di boschi e rocce che nascondono anche una città dei morti. L’avevo cercata a lungo, scrutando la montagna con un binocolo senza vedere le chullpas di Revash, case-tomba di tre piani incassate in una parete verticale di roccia, poi Gandhi mi ha guidato fino a questi muri fradici di pioggia che rivelano ancora i rossi, i gialli e gli ocra del mondo Chachapoya. «Li

hanno messi lassù perché i loro morti vedessero qualcos’altro, oltre al verde dei boschi e al grigio delle nuvole e delle montagne» ipotizza dall’alto di un nome decisamente improbabile in questo angolo di mondo. Fino a quando ho incontrato Lincoln, Edison, e le scritte elettorali rosso fuoco di Hitler, aspirante sindaco in cerca di consenso, e ho capito che quei nomi famosi, senza legame con la storia, sono sogni di genitori di un futuro diverso per i loro figli. Una gigantesca ellisse di pietra incorona un’altra montagna, è la cittadella di Kuelap, una semisconosciuta Machu Picchu del nord costruita a oltre tremila metri tra la cordigliera e il mare verde dell’Amazzonia con le sue mura alte venti metri, e spesse altrettanto, un’immagine di potenza arcana che rievoca il set abbandonato di un film di fantascienza vintage. Centomila blocchi di pietra intagliata e venticinque milioni di metri cubi, il triplo della Grande Piramide di Cheope, una «scatola delle meraviglie» la definiscono gli archeologi che hanno trovato oltre un centinaio di sepolture nascoste tra le mura, un’usanza abituale nel mondo andino per proteggere una città. La vera sorpresa è arrivata quando le analisi hanno confermato che si trat-

In un museo, 225 mummie e oltre 2000 reperti trovati nel Lago dei Condor.

Sono molti i ritrovamenti attorno al Lago dei Condor.

I colorati edifici funebri arroccati su una scogliera e dipinti con pittogrammi rossi. (su www.azione.ch si trova una galleria fotografia più ampia)

tava di uomini alti e forti, di carnagione chiara, un enigma che lascia disorientati perché a parlarne sono archeologi che lavorano sul campo, non leoni da tastiera in cerca di alieni venuti dallo spazio. Una coincidenza straordinaria con i resoconti dello studioso italiano Antonio Raimondi, che nel 1860 aveva trovato uno scheletro di due metri di statura e alcuni crani con tracce di ca-

Francisco, uno degli ultimi sciamani del villaggio di Yerbabuena.

pelli rossi, e le descrizioni del conquistador Pedro Cieza de Leon di «indios bianchi belli come sovrani, con gli occhi azzurri e di carnagione più chiara degli stessi spagnoli». All’interno di Kuelap, abbandonata intorno al 1300 dopo Cristo, ne vivevano oltre tremila in circa quattrocento edifici circolari di cui sopravvivono solo i basamenti di pietra tra le radici degli alberi. Uno degli ultimi ritrovamenti, una quarantina di mummie probabilmente vittime di un incendio, è solo un altro capitolo di un’archeologia ancora in progressione che è arrivata a scatenare una «guerra delle mummie» degna di Indiana Jones. Tutto iniziò nel 1997 quando l’archeologo Federico Kauffmann Doig scoprì oltre duecento mummie in un sito della remota Laguna de los Condores. Pochi mesi dopo, quando tornò sul posto con il progetto di creare un’area archeologica protetta, le mummie erano svanite nel nulla, o più precisamente erano state trasportate a dorso di mulo nella cittadina di Leymebamba per essere collocate in un nuovo museo. Da allora Kaufmann non ha smesso di tuonare contro quello che ha chiamato uno «scandalo archeologico finanziato dagli archeo-dollari di Di-

scovery Channel», che avrebbero sovvenzionato l’operazione in cambio di un’esclusiva. L’altra protagonista della storia, l’antropologa Sonia Guillen, esperta di mummie, fondatrice del museo di Leymebamba e nel 2019 anche ministro della cultura, ha preferito sorvolare elegantemente quando con il necessario tatto le ho chiesto cosa ne pensasse. «Un conto è quello che si dice, un altro quello che si fa. Subito dopo la scoperta sono iniziati i primi saccheggi, bisognava proteggere in un luogo adeguato queste mummie, le prime praticamente intatte in un ambiente umido andino. Erano personaggi inca di alto rango, conservati con gli stessi procedimenti utilizzati per le mummie reali inca ma avvolti in tessuti funerari Chachapoya, un contesto molto utile per capire come l’impero inca assimilava i popoli vinti, arrivando all’occupazione culturale e psicologica dei cimiteri da cui sfrattava i loro morti per metterci i propri». Misteri, teorie, scontri tra archeologi, alla fine proprio le mummie restano gli unici punti fermi di questo mondo di ombre, sfuggente come la luce delle candele che Francisco, uno degli ultimi sciamani del villaggio di Yerbabuena, usa per interpretare il mondo.

Lungo la strada tra Chachapoyas e Leymebamba.


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Ambiente e Benessere

Un eQV per viaggiare green Motori Il primo Van al cento per cento elettrico targato Mercedes

Mario Alberto Cucchi Come fanno otto persone a viaggiare tutte in un solo veicolo senza consumare neppure un litro di carburante? Sembra quasi un indovinello di quelli a cui non si trova una risposta sensata, e invece questa volta la soluzione c’è. Si chiama EQV ed è il primo Van al cento per cento elettrico targato Mercedes.

Tra gli accessori c’è addirittura il «pacchetto cuccetta» in cui la panca a tre posti della seconda fila posteriore si trasforma con pochi gesti in un letto lungo 1,93 metri e largo 1,35 Per molti veicoli a zero emissioni si pone il problema della riduzione della capacità di carico dovuta proprio alla presenza delle batterie. Ecco allora che la soluzione è prendere un mezzo che nasce spazioso come il pulmino Mercedes, e realizzarne una versione elettrica. Le batterie di EQV sono indubbiamente di grande capacità: ben 90 kWh. Ciò nonostante, l’abitacolo non è stato penalizzato grazie al posizionamento di queste ultime sotto il pianale.

Accumulatori importanti sono necessari per muovere la massa non indifferente, EQV è alto quasi due

metri (1,910 mm). Oltre cinque metri sono quelli della sua lunghezza, per essere precisi 5,140 mm per la versione long e 5,370 per quella extra long, con un passo di 3,430 mm e un peso in ordine di marcia di ben 2,874 kg. Indubbiamente una stazza importante che si riflette su un’autonomia che appare buona, ma non eccezionale. Mercedes dichiara tra i 302 e i 378 chilometri. Pianificando un viaggio, per essere più tranquilli è bene fare tappa circa ogni 280 chilometri. In soccorso vengono i tempi di ricarica veloci. Solo quarantacinque minuti per passare dal 10 per cento all’80 per cento utilizzando una stazione di ricarica rapida con potenza fino a 110 kW. Dalla presa di casa invece una notte intera di ricarica potrebbe anche non bastare. Parliamo di prestazioni. Di certo non manca la potenza, EQV può

contare su 204 cavalli con una coppia massima di 362 Nm. La velocità massima è autolimitata a 140 orari e in opzione può salire sino a 160 km/h. EQV è un mezzo che ipoteticamente potrebbe viaggiare anche oltre i 200 orari, ma andando forte consumerebbe le batterie in un baleno. Ecco allora che ci si rende conto di come la velocità non sia importante. Più si va piano meno si consuma e più chilometri si possono fare. Piuttosto di guadagnare dieci minuti accelerando, evitiamo di fermarci a ricaricare più frequentemente. D’altra parte, una volta il viaggio rappresentava il piacere di muoversi, di scoprire nuovi luoghi magari guardando dal finestrino. Valori importanti che fanno di un trasferimento un’esperienza, proiettandoci in un futuro che è già presente. Se nell’utilizzo

quotidiano, sulle brevi e medie distanze, non ci si pone il problema dell’autonomia, la quale resta in ogni caso più che sufficiente, è nei viaggi che si capisce come la velocità ideale per EQV sia inferiore ai limiti autostradali. Viaggiando a 100 km/h il silenzio regna sovrano. EQV è modulabile in diverse configurazioni, su tre file di sedili si possono avere sei poltrone singole come quelle di un aereo, oppure due divani da tre. Lo spazio è davvero tanto, basti pensare che tra gli accessori c’è addirittura il «pacchetto cuccetta» in cui la panca a tre posti della seconda fila posteriore si trasforma con pochi gesti in un letto lungo 1,93 metri e largo 1,35, perfetto anche per dormire. Insomma, quasi una casa ecologica su quattro ruote, che si può già comprare con 78’610 franchi svizzeri. annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il peso della menopausa

La nutrizionista Per mantenersi in forma serve più esercizio di prima e una sana igiene alimentare Laura Botticelli Cara Laura, per la sua interessante rubrica avrei la seguente domanda: come tante altre donne, dopo l’insorgere della menopausa, chi più chi meno si ritrova a fare il conto con i chili superflui. Io mi ritengo fortunata perché al mio peso forma stabile per 50 anni ho aggiunto solo 6 chili in 6 anni, ma ho amiche sformate. Tutte incapaci, comunque, di perdere questi chili: perché è particolarmente difficile perderli in questo periodo? Diete, movimento, nutrizione sana servono apparentemente a poco o a niente. Il corpo, se prima aveva delle forme, adesso è diventato un «tubo». Perché? E cosa consiglia? / Maria Cara Maria, la ringrazio molto per la sua domanda, sicuramente interesserà molte lettrici ma non solo: invito pure gli uomini a leggere l’articolo perché riguarda anche loro. La menopausa è un processo biologico naturale che segna la fine dell’era fertile; le ovaie non producono più ormoni, non avviene più il ciclo e non si possono più avere figli in maniera naturale. Normalmente avviene in un’età compresa tra i 49 e 52 anni. Può essere accompagnata da moltissimi sintomi fisici: dalle vampate – le più conosciute – alle palpitazioni e insonnia. A livello psicologico il processo può innescare alcune patologie (depressione e ansia, per citare le principali) di gravità variabile. Ogni donna è diversa e pure la sua esperienza con la menopausa è unica. Anche l’aumento di peso è un possibile indicatore ed esistono diverse spiegazioni a tal proposito. Innanzitutto, esistono degli studi su animali che mostrano una correlazione tra i livelli di estrogeni più bassi e l’aumento di peso. Si è visto che con l’abbassarsi degli ormoni, gli animali da laboratorio tendono a mangiare di più e a essere meno attivi fisicamente. Gli estrogeni ridotti possono anche abbassare il tasso metabolico, la velocità con cui il corpo «brucia» calorie o meglio converte l’energia immagazzinata in energia di lavoro. È possibile che la stessa cosa accada alle donne quando i livelli di estrogeni diminuiscono dopo la menopausa. La mancanza di estrogeni può anche cau-

Ogni donna è diversa e pure la sua esperienza con la menopausa è unica. (pxhere. com)

sare al corpo un uso meno efficace degli amidi e dello zucchero nel sangue, il che aumenterebbe la conservazione del grasso soprattutto in zona addominale, con l’aggiunta di una maggior difficoltà a perdere peso. Un’altra possibile causa è legata al fatto che con la menopausa si perde pure massa muscolare. Questo processo rallenta il metabolismo e può rendere ancora più difficile mantenere un peso sano. Inevitabilmente, anche l’invecchiamento gioca la sua parte e per tutti, sia donne sia uomini, fa diminuire la massa muscolare e aumentare il grasso. Per questo diventa particolarmente difficile perdere peso dopo una certa età: se una persona continua a mangiare come ha sempre fatto ma non aumenta la sua attività fisica, è probabile che ingrassi. Altri fattori sono la completa mancanza di esercizio fisico, il mangiare malsano e il sonno insufficiente. Quando le persone non dormono abbastanza, tendono a fare uno spuntino di più e ad assumere più calorie.

Questi sono i motivi che rispondono alla sua domanda sul perché sia particolarmente difficile perdere peso in questo periodo e perché il corpo tende a perdere le forme. Dieta, movimento e nutrizione sana apparentemente servono a poco? La risposta è no, ma devono essere seguite nella giusta misura, con perseveranza, costanza e pazienza. Poiché il metabolismo rallenta, diminuisce anche la velocità con cui è possibile utilizzare l’energia (calorie) durante l’esercizio fisico. Per utilizzare la stessa energia del passato e ottenere quindi la perdita di peso, potrebbe essere necessario aumentare la quantità di tempo e l’intensità dell’esercizio, indipendentemente dai livelli di attività fisica passati. Per la maggior parte degli adulti sani, gli esperti raccomandano un’attività aerobica moderata, come camminare velocemente, per almeno 150 minuti a settimana o un’attività aerobica vigorosa, come lo jogging, per almeno 75 minuti a settimana. Inoltre, gli esercizi di allenamento della forza sono

raccomandati almeno due volte a settimana. Se infine si vuole raggiungere specifici obiettivi di fitness, si potrebbe aver bisogno di esercitarsi ancora di più. Ricordo che non è un problema di estetica, col sovrappeso e l’avanzare dell’età possono comparire anche molte malattie metaboliche (diabete di tipo 2, ipertensione, ipercolesterolemia eccetera). Cosa consiglio con la dieta? Mangiare di meno, riducendo le porzioni e strutturandole meglio. Per ridurre le calorie senza lesinare sulla nutrizione, si deve prestare attenzione a ciò che si mangia e beve. È bene scegliere più verdura, frutta e cereali integrali, in particolare quelli che sono meno lavorati e contengono più fibre. La carne, come la carne rossa o il pollo, dovrebbe essere mangiata in quantità limitate ed essere sostituita da legumi, noci, soia, pesce e latticini a basso contenuto di grassi. Sostituire il burro e la margarina con olio d’oliva o di colza ma ricordandosi di non consumarne più di circa un cucchiaio e mezzo a pasto. Evitare lo zuc-

chero, i dolci e limitare l’alcool. Insomma, seguire i principi della piramide alimentare con un approccio un po’ più vegetariano. Spero di essere stata esaustiva e mi permetto di ricordare che non per forza ci si deve recare dalla dietista per perdere peso, ma anche, come nell’esempio di questo articolo, per essere accompagnate in un processo di vita assolutamente naturale anche dal punto di vista nutrizionale. Non per forza, infine, si deve arrivare a elaborare «lutti culinari», e la soluzione potrebbe essere un piacevole e nuovo compromesso. Cambiamo noi, e dunque forse anche alcune abitudini devono cambiare. È la vita. Informazioni

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Ambiente e Benessere

Da secoli terra di vino

Scelto per voi

Bacco Giramondo Cuore della cultura mediterranea, la Puglia è ideale per la viticoltura

Davide Comoli La collocazione strategica della Puglia rivolta a oriente ha influenzato nel bene e nel male lo sviluppo di questa regione. Se da una parte ha favorito i contatti con altre civiltà, l’ha però sottoposta a pericolose scorribande di invasori. I mercanti fenici, che sbarcarono in Puglia nel 2000 a.C. circa, apportarono l’introduzione di nuovi vitigni e tecniche di coltura più efficienti. Un ulteriore apporto simile lo dettero anche i coloni greci, molto probabilmente colti da meraviglia nel trovare lussureggianti vigne e buoni vini. L’occupazione romana trovò dunque un territorio dove la viticoltura donava vini sicuramente gradevoli, tant’è che furono lodati da Orazio che li paragona al Falerno, da Plinio che lodò in particolare i vini di Taranto, e dal poeta Marziale che esaltò i vini di quelle «felici vigne». Anche dopo la caduta dell’Impero Romano, la viniviticoltura pugliese non subì forti tracolli e addirittura, nel 1194, con l’illuminato regno di Federico II di Svezia (grande appassionato tra le altre scienze di viticoltura) furono favorite la sperimentazione e la diffusione di nuovi vitigni. Incessante fu nei secoli successivi l’attività vitivinicola che trovò addi-

rittura un particolare impulso quando nel XIX secolo l’Europa viticola fu messa in ginocchio dalla devastazione fillosserica. Ma anche in Puglia, un po’ più tardivamente, nel 1919, si abbatté infine il terribile flagello: ci vollero decenni con un’instancabile attività da parte dei viticoltori per ripristinare l’antico patrimonio vitivinicolo. Negli anni Settanta iniziò la riscossa enologica della Regione. Con i suoi quasi 87mila ettari vitati (il 15% del totale italiano), oggi il vigneto pugliese si distribuisce anzitutto in pianura 70% e in collina 29,5%. Negli ultimi anni si sta diffondendo il sistema d’allevamento a spalliera, anche se soprattutto nel Salento e in qualche zona del Barese resiste l’alberello e, per l’uva da tavola, il tendone. È da qualche anno ormai che si sente parlare di rinascita o se preferite rivoluzione del vino pugliese, questa regione che rappresenta il cuore della cultura mediterranea, è il luogo ideale per produrre vino, senza dimenticare la produzione dell’olio extravergine di ottima qualità. Dal punto di vista ampelografico c’è una valorizzazione sempre più convinta dei vitigni autoctoni. Tra le varietà a frutto nero ricordiamo, il Negroamaro, il Primitivo (forse imparentato, ma la questione è

Vigneti di Andria, sullo sfondo il Castel del Monte. (Deblu68)

controversa, con lo Zinfandel della California), la Malvasia Nera, il Bombino Nero, il Somarello, l’Aleatico e l’Ottavianello, l’Uva di Troia e poi i soliti internazionali con il Montepulciano d’Abruzzo e il Sangiovese. L’inserimento di vitigni internazionali, le tecniche in vigna e in cantina perfezionate nel corso degli anni, hanno portato una crescita qualitativa anche nella produzione di uve a bacca bianca, tra le quali citiamo la Malvasia Bianca, la Verdeca, il Bombino Bianco, il Trebbiano Toscano, il Pampanuto, il Fiano Minutolo che non ha nulla a che fare con il Fiano campano, ma su sfondo leggermente muschiato; sul vino prodotto, percepiamo note di fiori bianchi, camomilla, bergamotto e litchi, molto interessante da provare con le tipiche «orecchiette con le cime di rapa». Non dobbiamo però dimenticare soprattutto, per la loro finezza dei profumi e la loro fragranza, i vini Rosati. Dai primi rosati da Negroamaro e Malvasia Nera prodotti nel 1943, oggi questi vini dai colori che passano dal cerasuolo al corallo, sono molto richiesti e sono spesso i protagonisti nei matrimoni con la cucina della Regione, fatta di gustosi piatti di terra e di mare, da provare con le «zuppe di pesce» sia a Gallipoli sia a Brindisi. Appena superato il confine con il Molise, si entra nella Capitanata (l’antica Daunia) che corrisponde alla provincia di Foggia. Qui troviamo denominazioni consolidate come quella di San Severo alla quale da non molto si è aggiunta la D.O.C. Tavoliere delle Puglie. Le due zone stanno molto valorizzando la varietà locale a bacca nera chiamata in loco Sumarello, ma a tutti conosciuta come Uva di Troia, usata per la produzione di ottimi rossi e rosati in purezza. Quasi alle porte di Foggia di Lucera, troviamo il Cacc’e Mmitte (leva e metti) prodotto con Uva di Troia, Montepulciano e altre varietà a bacca rossa, usando un’antica pratica di vinificazione; è un po’ raro da trovare, ma se avete la fortuna provatelo con formaggi come il «canestrato», il caciocavallo podolico o con un pecorino stagionato. Il comprensorio settentrionale della provincia di Bari è dominato dall’antico castello di Federico II. Il Castel del

Monte è un’area degradante della Murgia. I vini rossi più longevi e più complessi nascono da Uva di Troia e Aglianico, oppure da un «blend» tra una di queste varietà con il Montepulciano. Da provare pure l’ottimo rosato prodotto con il Bombino Nero, come pure i vari bianchi prodotti con Bombino Bianco, Pampanuto e i vari Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvignon Blanc. Se potete, fermatevi poi a Trani a gustare il Moscato dolce dai profumi di zagara. Nella parte inferiore della Murgia Centrale, troviamo le D.O.C. Gravina, Gioia del Colle, Martina Franca e Locorotondo (sempre in provincia di Bari), i vini più prestigiosi sono prodotti con il Primitivo che dona prodotti molto eleganti. Nella I.G.P. Murgia e Valle d’Itria, che si trova a cavallo tra le province di Bari, Taranto e Brindisi, con i vigneti Verdeca, Malvasia Bianca, Minutolo, Bianco d’Alessano, si producono gradevolissimi vini bianchi da abbinare alla classica «burrata» pugliese. Nelle soleggiate terre intorno al Golfo di Taranto, il Primitivo tocca vette di assoluto rilievo; a Manduria antichi ceppi di questo vitigno offrono vini imperdibili, ottimo con il «capretto al rosmarino» e se volete deliziarvi, provate pure il Primitivo di Manduria Dolce Naturale, con «fichi secchi mandorlati ricoperti di cioccolato fondente». Passando attraverso le Colline Joniche Tarantine si arriva nel Salento, a Salice Salentino, con le uve di Negroamaro lasciate sovra-maturare nella vigna, per donare la tannicità del vino prodotto, abbiamo gustato vini eccellenti. Qui nell’Alto Salento la terra è votata in modo particolare alla viticoltura, siamo in provincia di Brindisi e la Malvasia Nera con il Primitivo e il Susumaniello, per i vini rossi e rosati, la Malvasia Bianca, il Fiano, il Minutolo, per i bianchi, offrono un ventaglio eccezionale di degustazione. Non lasciate questi luoghi senza aver provato lo «strudel di ciliege» con l’Aleatico dolce. Nel Basso Salento, in provincia di Lecce, il Negroamaro regna incontrastato; ottimi pure i vini bianchi prodotti con vitigni locali, il Sauvignon e lo Chardonnay, da provare con piatti che trovate sulla costa a sud di Gallipoli, dove la gastronomia profuma di sapori mediterranei.

Scalandrino – Vermentino

In provincia di Grosseto troviamo la Maremma per eccellenza, accogliente angolo di natura da scoprire, con la sua campagna suggestiva e dai suoi paesi in tufo. A Magliano in Toscana (località Banditaccia), troviamo la fattoria Mantelassi, all’interno di un paesaggio costellato di ulivi e vigneti. Accanto ai vini classici che riescono a esprimere un’idea precisa del territorio, qui troviamo lo Scalandrino, un Vermentino della Maremma. Fermentato in botti di rovere 4/6 settimane, è di un giallo paglierino intenso. Fragrante e molto fruttato, con note di pesca bianca, frutta esotica e accenti di pietra focaia, fresco, dal gusto salino, di buon corpo e vogliamo aggiungere di «pericolosa» bevibilità, da continuare a berne. Lo raccomandiamo per accompagnare un’insalata di mare o un risotto alla marinara; noi l’abbiamo provato con una frittura di mare, una meraviglia! / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 12.80. annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Sapori di bosco e agricoltura

Ingredienti caratteristici della cucina del Trentino sono quelli provenienti dal bosco (mirtilli e altri frutti, funghi, selvaggina), dall’allevamento bovino e suino e dall’agricoltura (cereali come il grano saraceno e l’orzo, patate, cavoli e, soprattutto, mele). Le zuppe sono primi piatti molto diffusi; e tra queste di certo la zuppa d’orzo, detta anche orzetto, che richiede una grande quantità di verdure, finemente tagliuzzate; spesso accompagnata anche da speck, lardo, costine o carne affumicata.

Tra le portate più note: zuppe, gnocchi e canederli, ma soprattutto la polenta di mais o grano saraceno Particolarmente gustosi sono sia gli gnocchi di patate, conditi con ricotta affumicata, salvia e burro, sia due tipi di gnocchi, di grosse dimensioni, prodotti con un impasto a base di pane raffermo: i canederli (di forma ovale, preparati con uova e speck) e gli strangolapreti (verdi, a base di spinaci, uova e grana), serviti con burro fuso o in accompagnamento allo spezzatino e agli stufati. La polenta costituisce una vera e propria roccaforte: di sola farina di mais oppure mescolata con mais bianco o grano saraceno (come la smalzada, condita con formaggio, burro e acciughe o costine cotte al forno e getti di rape bianche, bolliti), è spesso accompagnata dal formaggio, in particolare dal puzzone di Moena. E non la si consuma solo in modo tradizionale, bensì, la polenta nella regione del Trentino può anche essere mescolata con un passato di patate lesse insaporite da cipolla e pancetta; viene poi servita con formaggi o stufati. Una specialità trentina è la carne

salada, preparata tagliando una coscia di vitellone a fettine, poi disposte in un grande recipiente e alternate con sale grosso, pepe nero, aglio, ginepro, rosmarino, alloro e scorze di limone: il tutto posto sotto un peso, alla quale, dopo una settimana circa, si aggiunge vino, per evitare che la carne si asciughi; pronta dopo una ventina di giorni, viene servita cruda o cotta sulla piastra. Sempre di manzo, ma anche di maiale, è il grostl, piatto a base di carne di manzo scelta, passata in padella con patate e cipolle e servita, una volta divenuta croccante, con speck e crauti o avanzi di bollito. Molto apprezzata è la selvaggina, dal capriolo, che può essere cotto in forno con funghi, ginepro e completato da una spruzzata di gin, al cervo, cucinato invece in padella con alloro e ginepro. Nel panorama gastronomico trentino si annoverano anche trote e altri pesci d’acqua dolce, che compaiono in tavola insieme al baccalà, cucinato preferibilmente con patate e cipolle. Quanto ai dolci, influenzati dalla gastronomia delle nazioni di lingua tedesca, i trentini gustano prima di tutto il classico strudel con le mele; tipici sono poi i ciarancè (una sorta di tortelli fritti avvolti da un involucro di farina, patate lesse schiacciate con uovo e ripieni di una farcia di marmellata), il fortaies (realizzato con un impasto semifluido di farina, uova, latte e grappa, rovesciato a spirale, con l’aiuto di una tasca da pasticciere, in una padella con burro caldo) e la pinza trentina (un dolce di recupero, non per questo meno gustoso, a base di pane vecchio bagnato nel latte, zucchero, fichi secchi e farina). Tipici del periodo di carnevale sono i crostoli, simili ai cenci toscani, ma più sottili e croccanti; mentre a Natale si gusta lo zelten, traboccante di frutta secca. La pasta lievitata mescolata con un passato di patate e farcita con marmellata, infine, dà luogo ai chifelini, dolcetti a forma di mezzaluna a base di farina, patate, uova e vanillina.

CSF (come si fa)

pxhere.com

Allan Bay

pixabay.com

Gastronomia La cucina del Trentino esalta anzitutto i profumi della terra cogliendone i frutti più saporiti

I tournedos sono medaglioni ricavati dal cuore del filetto di bovino adulto. Le fette sono spesse 3 cm, e hanno un peso medio di 200 g. Si cuociono o a fuoco vivo in padella con burro oppure alla griglia. A fronte di questi due semplici metodi di cottura, la cucina offre tuttavia moltissime salse e finiture per accompagnare quello che è universalmente riconosciuto come il taglio di carne più pregiato. I piatti più famosi sono quelli detti alla

Rossini – ne abbiamo parlato tempo fa – in onore del celebre compositore che li apprezzava serviti su una fetta rotonda di pane fritta, guarniti con tartufi, una fetta di fegato grasso e fondo di cottura. Vediamo come si fanno due ricette, una classica e una mia. Tournedos alla perigordina (con ingredienti per 4 persone). Dorate 4 fette di pane con poco burro. Fate sciogliere una noce abbondante di burro in una casseruola e cuocete 4 tournedos – lasciate per almeno 3 ore a temperatura ambiente prima di metterle in padella –, a fuoco allegro per 30 secondi per lato. Togliete la carne, tenetela al caldo e versate nella casseruola 1 dl di salsa al Madera e 1 tartufo nero tagliato a dadini. Fate ridurre, mescolando, per 2’, quindi mettete nei piatti i crostoni di pane, unite i filetti e nappate con la sal-

sa. Per la salsa: prendete 1 litro di brodo di manzo e riducetelo a 2 dl di fondo. Mettete in un pentolino 2 dl di Madera con il fondo, unite 4 cucchiai di soffritto di cipolle e 1 punta di zucchero, quindi cuocete per 5’. Addensate con 50 g di roux e cuocete a fuoco dolcissimo per 10 minuti. Regolate di sale e di pepe. La variante personale (per 4 persone). Nella mia ricetta la salsa è la pearà, senza tartufo nero. Sciogliete in una casseruola 25 g di burro e 25 g di midollo di bue tritato. Amalgamateci 200 g di pangrattato leggermente tostato, mescolando, poi versate a filo 2 dl di brodo di manzo bollente e cuocete coperto a fuoco molto basso per 1 ora. Scoprite e cuocete ancora per 30’ mescolando. Regolate di sale e di pepe e servite la salsa calda, mescolata col fondo di cottura dei tournedos.

Ballando coi gusti Oggi due omelette, che sono frittate sottili, farcite su metà frittata e poi chiuse a libro, facendo debordare la guarnizione. Molto eleganti, sempre. Omelette di funghi e salsiccia

Omelette di pomodoro e mozzarella

Ingredienti per 2 persone: 4 uova · 200 g di funghi misti (porcini, champignon, chiodini) · 1 salsiccia · 1 cucchiaio di prezzemolo tritato · 1 spicchio di aglio · zucchero · vino bianco · burro · sale e pepe.

Ingredienti per 2 persone: 4 uova · 120 g di mozzarella · 2 pomodori medi · basili-

Sciacquate velocemente i funghi, tamponateli con carta da cucina e tagliateli a fettine. Scaldate 1 noce di burro con l’aglio pelato e schiacciato e aggiungete poco zucchero prima di portarli a cottura fino ad ammorbidirli. Fuori dal fuoco unite il prezzemolo e mescolate. Spellate la salsiccia e sgranatela con una forchetta; poi rosolatela senza l’aggiunta di alcun grasso e sfumatela con 2 cucchiai di vino. Unite la salsiccia ai funghi e regolate di sale e di pepe. Sbattete le uova in una ciotola con poco sale e pepe. Fate sciogliere in una padella 1 noce di burro, versatevi la metà delle uova e spargete il composto con una spatola. Non appena l’omelette inizia a rapprendersi in superficie, fatela scivolare verso il bordo opposto al manico. Farcite l’omelette con la salsiccia e i funghi; poi piegatela a metà e lasciatela dorare per poco ancora. Fate la seconda nello stesso modo. Servite subito.

co · grana · burro · olio di oliva · sale e pepe.

Tagliate la mozzarella a cubetti e fateli scolare in un colapasta per 20 minuti, poi tamponateli con carta assorbente da cucina. Tagliate i pomodori a cubetti, irrorateli con l’olio, salateli e profumateli con le foglie di basilico. Sbattete le uova in una ciotola con poco sale e pepe. Fate sciogliere in una padella una noce di burro, versatevi la metà delle uova e spargete il composto con una spatola. Non appena l’omelette inizia a rapprendersi in superficie, fatela scivolare verso il bordo opposto al manico. Farcite con gli ingredienti, poi piegatela a metà e lasciatela dorare per poco ancora. Fate la seconda nello stesso modo. Servite subito.


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Ambiente e Benessere

Me ne vado di casa

Mondoanimale Animali indipendenti, i gatti spariscono di casa spinti da varie motivazioni

Maria Grazia Buletti «Non è mai successo che Anais stesse via di casa per ben cinque giorni, anche se lei se ne va sempre a zonzo ed è una gatta che definirei un po’ altezzosa e molto indipendente», il proprietario di questa gatta di razza Maine Coon di circa undici anni, racconta l’esperienza vissuta quest’inverno, proprio quando cominciava a nevicare e Anais è sparita letteralmente di casa per un periodo che è parso così lungo da far vacillare in lui la certezza che stavolta sarebbe ritornata. «Quella sera è arrivata a mangiare dopo una delle sue solite passeggiate in giro fra i boschetti dietro casa e chissà dove. Lei decide sempre autonomamente quando posso avvicinarmi o accarezzarla e perciò, mentre mangiava, ho pensato di bloccare con il piede un rovo aggrovigliato nel suo lungo pelo, per poterlo districare». Nulla di più sbagliato pensare che la gatta avrebbe collaborato e forse proprio da quel gesto è nato il suo impulso ad andarsene di casa, indignata dell’imboscata tesa seppur a fin di bene: «Sentendosi bloccata dal mio piede sul rovo, Anais ha tirato e strappato con tutta la sua forza, lanciandomi uno sguardo carico d’odio che mi ha fatto desistere. Appena libera se n’è andata, proprio quando cominciava a nevicare». Cinque lunghi giorni con tanta neve caduta e la speranza che si fosse rifugiata in chissà quale posto dal quale, forse, non poteva uscire a causa della neve: «L’ho cercata, ho chiesto ai vicini, tracce nella neve non se ne vedevano, ho immaginato che si fosse diretta verso il

boschetto a nord della mia abitazione e sono andato lì a chiamarla sperando che mi sentisse e che si facesse viva. E invece no: forse la neve l’aveva proprio coperta, forse non c’era stato modo di trovarla perché era finita in un buco». Chi vive con un gatto si sarà facilmente riconosciuto in un racconto come questo. Anche perché, come dice l’etologo Roberto Marchesini: «Vivere con un gatto vuol dire riconoscere il modo in cui si relaziona con l’uomo e come vive la sua dimora». In effetti ci sono molti luoghi comuni quando si parla di gatti, ma è certo che il mondo felino ha sempre trascinato con sé un alone misterioso e allo stesso tempo affascinante per la natura un po’ schiva e difficilmente prevedibile che lo fa sembrare un po’ una creatura magica, a cominciare dalle sue fughe da casa difficili da comprendere. Ma l’etologo mette in guardia: «Attenzione a non cadere nei luoghi comuni spesso alimentati da un’errata abitudine a interpretare il linguaggio del gatto, il suo comportamento e la sua socialità usando come metro di confronto il cane o l’essere umano». Ne è cosciente il proprietario di Anais che, sebbene un po’ preoccupato della sua lunga assenza da casa, ben sa che questo tipo di relazione è molto diversa da quella che si può instaurare con un cane: «La mia gatta si avvicina a me nei suoi momenti di relax, lo decide lei e me lo fa capire con le fusa, grattandomi con la zampa, mi picchietta con la testa miagola e vuole essere accarezzata solo sulla testa perché sul corpo non lo accetta e non si fa assolutamente toccare la pancia. Certo

La gatta Anais, al sicuro nei pressi della sua dimora. (stefano spinelli)

che non era mai stata via da casa così a lungo…». L’etologo avvalora le sue ragioni: «Si tratta di un animale in grado di costruire legami affettivi, ma in modo discreto e meno morboso, preferendo un approccio più moderato e con i suoi tempi: si avvicina all’uomo quando vuole godersi un momento di rilassamento, e lo fa con atteggiamenti anche di regressione infantile quando ad esempio “impasta” o fa le fusa». Sebbene Marchesini ne ricordi pure la relazio-

Giochi Cruciverba Tra amici: «Ho chiesto alla mia vicina separata se le andava di uscire questa sera, mi ha detto di sì…» Scopri il resto della frase a cruciverba ultimato, leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 1, 3, 2, 3, 9, 2, 6) ORIZZONTALI 1. Libro del Vecchio Testamento 5. Un’agile saltatrice 9. Cosa in latino 10. Pesci d’acqua dolce 12. Gazzetta Ufficiale 13. Pronome personale 14. Sulle spalle 15. Altare pagano 16. Unità di misura dell’elettricità 17. Un pasticcio in cucina... 18. Sono presenti... per le feste 19. Persona di stirpe indoeuropea 21. Processioni 23. Fiume toscano 24. Battenti 25. Universo 28. Desinenza di diminutivo plurale femminile 29. Ha la chiglia affusolata 30. Di stoffa... fine 31. Simbolo chimico del sodio 32. Copri costumi Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Dunque, i motivi per cui i gatti spariscono di casa anche per giorni sono diversi e si rifanno alla loro natura di felini che, come tali, sono molto curiosi e amano conoscere tutto ciò che li circonda. Ma oltre alla curiosità vi sono altri motivi: «Può sparire perché malato e vuole stare da solo, può essere confuso e non riuscire a rientrare a casa, può protestare perché è arrivato un estraneo che non gradisce, sia esso un nuovo amico a quattro zampe o una persona, potrebbe essere in calore…». Sul da farsi, nell’attesa, si consiglia sempre di mettere da parte l’ansia e provare a cercarlo, e così ha fatto il proprietario di Anais che l’ha vista rientrare a casa proprio quando la neve ha cominciato a sciogliersi: «Erano passati cinque giorni e posso solo immaginare che si sia riparata in qualche rustico o in un buco da qualche parte visto che la neve era così alta da non permetterle di trovarsi un varco». Una storia a lieto fine, quella di Anais, che insegna qualcosa a tutti, come spiega l’etologo che nel suo libro L’identità del gatto invita ad approfondire le sue capacità relazionali, definendolo «un solista (non un animale solitario!), perché quando è in attività ama fare le cose da solo e cerca a tutti i costi la propria individualità e privacy». Fatti ampiamente dimostrati da Anais che ha saputo cavarsela in una situazione oggettivamente difficile facendone tesoro, afferma il suo proprietario: «La ragazza pare abbia imparato la lezione perché quando ha nevicato la seconda volta è rimasta ben bene nei dintorni di casa!».

ne «molto forte con la dimora che non è solo casa ma un luogo a cui affida la propria esistenza», egli afferma che «il gatto ha bisogno di vivere l’ambiente in una dimensione sociale, costruendo situazioni ricche di interazioni in cui si sente protagonista, trasformando il territorio in un luogo pieno di vita in cui gestisce autonomamente le proprie iniziative». Anche quella di andarsene da casa per un po’, coerente con la sua natura felina senza eccessi di affettività e stimolazione sensoriale.

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33. Trovata comica 34. Pronome personale 35. Un mammifero domestico

Verticali 1. Ripido, scosceso 2. Capovolto aumenta della metà 3. Bocca in latino 4. Leoni marini 5. Servizio di vigilanza 6. Cibele lo mutò in pino 7. Termine di paragone... 8. Nome femminile 11. Così è a volte la sorte 12. Frumento I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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14. Isola greca 15. Detto anche danese 16. Resistente, vigoroso 17. Serve nella sottoscrizione 18. Figura nelle carte da gioco 20. A rischio chi si muove sul suo filo 21. Il secondo uomo 22. Cadde al primo volo 26. Un quinto di five 27. Si forma da una depressione della

superficie terrestre 29. Poiché in francese 30. È un... patito 32. Due in posa 33. È dura in guerra

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Soluzione della settimana precedente

GLI SCHERZI DELLA MENTE – Chi soffre di antofobia ha una… Resto della frase: …PAURA IRRAZIONALE DEI FIORI.

Z A N E N E R I O I T A F

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Politica e economia Il clima, tra America e Cina I buoni propositi di Joe Biden sulle emissioni e il ruolo del gigante cinese in crescita pagina 29

L’europa e le sue fragilità L’Ue non riesce a imporsi come soggetto internazionale di primo piano. Come mai? Il problema sta nei vertici pagina 32

Verso un’imposta mondiale L’OCSE è vicina ad un accordo per una tassazione globale delle multinazionali. Ueli Maurer speranzoso di evitare il peggio

pagina 33

Le masse e i fascismi La psicologia delle masse è studiata fin da Freud e Canetti, ma l’avvento dei social aggiunge una dimensione nuova

pagina 35 Tifosi del Chelsea che protestano a Londra. (Keystone)

Quando la superbia non va in rete

Il caso Il progetto di una Superlega europea di calcio è naufragato in un lampo. I promotori hanno pensato

soprattutto al denaro e sottovalutato la reazione dei tifosi. A pesare anche la discesa in campo di Boris Johnson Lucio Caracciolo La paradossale vicenda della Superlega di calcio, lanciata con un blitz mediatico di domenica notte e naufragata poco dopo, racconta il tempo in cui viviamo. Sotto almeno tre profili: l’elitismo, la geopolitica europea e il senso dello sport. L’operazione era infatti quanto di più elitistico si possa concepire. I padroni dei principali club spagnoli – ispirati dal presidente del Real Madrid, Florentino Pérez – italiani, con la Juventus di Andrea Agnelli in testa, e inglesi avevano deciso di organizzarsi un para-campionato su misura. Un golpe vero e proprio, che avrebbe cancellato un secolo di calcio europeo, basato orizzontalmente sui campionati nazionali e, verticalmente, su un sistema di tornei comunicanti, dai dilettanti alla Serie A ed equivalenti, in cui almeno in teoria si parte tutti alla pari e vince chi per merito, fortuna o altro batte l’avversario.

Quel che colpisce in tanta operazione di supermiliardari che gestiscono club in profondo rosso è la totale mancanza di senso del loro prodotto. Conta per loro solamente il lato finanziario. Ma i soldi, nel calcio come in qualsiasi altra industria, non sono variabile indipendente. Dipendono ancora dal prodotto. Le bolle finanziarie, ovvero la produzione di denaro per mezzo di denaro, prima o poi scoppiano. E scoppiano in faccia a chi ne è rimasto affascinato, senza nemmeno aver studiato la dinamica classica dello «schema Ponzi» (un modo di ingannare gli investitori che prende il nome da un emigrante italiano, Charles Ponzi, che all’inizio del Novecento truffò decine di migliaia di persone negli Usa). Nel caso, i signori del pallone non avevano capito che il calcio esiste e funziona in quanto ci sono i tifosi. I quali ci sono perché pensano, credono, si illudono che le partite comincino tutte dallo zero a zero. Un calcio sul modello

americano, stile National basketball association (Nba), è impensabile. Le gare sarebbero semplici esibizioni, prive di pathos, con accompagnamento musicale e pubblicitario tale da togliere ogni slancio agonistico alle partite. Peccato di elitismo, dunque. Sarà bene tenerlo a mente in un’epoca in cui le élite transnazionali, ovvero chi si riconosce nel suo pari ceto di un altro Paese piuttosto che negli altri ceti del proprio, hanno inventato il marchio del «populismo» o delle «fake news» cui impiccare chi non condivide le loro tesi. Alimentando proprio quel fenomeno di rivolta, prima ancora di repulsione popolare, che intenderebbero condannare. Quanto alla geopolitica. A far crollare il castello di carta è stato Boris Johnson. Il premier inglese, che la sua gente conosce bene, ha un progetto e un marchio: Global Britain. La sua Inghilterra è uscita dall’Unione europea per rilanciare la potenza e con essa

l’identità britannica (nel caso di Johnson, inglese). Operazione anche e soprattutto di soft power. Ora, che cosa di più potente ha oggi Londra, quanto a soft, della Premier league? La Superlega ne avrebbe decretato la morte. Johnson ha cavalcato l’umore dei tifosi, quelli che la sera stessa di domenica sono scesi in piazza a Londra – specie se del Chelsea – con cartelli tipo «I want my cold evenings in Stoke back», «Rivoglio le mie fredde serate a Stoke» (riferimento allo Stoke city, squadra di provincia inglese). Anche il presidente francese Emmanuel Macron e Mario Draghi, presidente del Consiglio italiano, hanno stigmatizzato l’idea. Per dire: si può appartenere alle élite e allo stesso tempo essere intelligenti. Ovvero capire il proprio tempo e il proprio popolo. Questo per stabilire, nel caso ve ne fosse bisogno, che non esiste un’opinione pubblica europea (come pensavano i maghi della Superlega) ma resistono le

opinioni nazionali (e locali). E su quelle si fondano, fra l’altro, le democrazie liberali europee. Infine, lo sport. Siamo talmente abituati alla virtualità da avere talvolta perso di vista la concretezza dell’agonismo. Che non potrà mai essere surrogata da qualsiasi messinscena mediatico-pubblicitaria. L’uomo e le collettività che forma hanno e avranno ancora bisogno di miti. Di leggende da raccontarsi. Lo sport è sempre stato, da Olimpia in poi, veicolo privilegiato dei miti. Florentino Pérez e associati sembrano averlo dimenticato. Non si curano che dei soldi. Per contrappasso, ne stanno perdendo tanti. Succede a chi volge l’economia in economicismo, cioè in ideologia di sé stessa. Un’ideologia che, qualche volta, dura il tempo di poche notti. Speriamo che almeno quell’autogol possa servire a rimettere il calcio con i piedi per terra. Prima che affondi nel fango.


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Politica e economia

L’ombra cinese sul clima

Il summit Joe Biden punta a dimezzare le emissioni nocive americane entro nove anni ma i suoi sforzi sono legati

a doppio filo alla direzione della crescita asiatica. Intanto Pechino diventa leader nella produzione di pannelli solari Federico Rampini A che punto è la lotta all’emergenza climatica, e quanto è legata alle sorti della rivalità strategica fra America e Cina? Un quadro della situazione è stato fornito la scorsa settimana dal summit virtuale sulla lotta al cambiamento climatico convocato da Joe Biden nell’Earth day. Il presidente Usa lo ha aperto lanciando un nuovo impegno: il suo Governo punta a tagliare del 50 per cento le emissioni carboniche degli Stati uniti entro la fine di questo decennio, cioè nell’arco di 9 anni, rispetto al livello che queste emissioni avevano raggiunto nel 2005. È quasi il doppio di quanto aveva promesso Barack Obama firmando gli accordi di Parigi nel 2015. Se mantiene questa promessa, l’America farebbe la sua parte per limitare il riscaldamento climatico a 1,5 gradi, la soglia massima indicata dalla comunità scientifica e accolta negli accordi di Parigi. Ma il raggiungimento dell’obiettivo dipende da molte condizioni. Anzitutto se gli stessi Usa saranno davvero in grado di centrare l’obiettivo indicato da Biden. E poi dipende dagli altri, Cina in testa: ormai responsabile di una creazione di CO2 doppia rispetto agli Stati uniti. Il summit presieduto da Biden riuniva i leader europei, i suoi omologhi cinese Xi Jinping e russo Vladimir Putin, 40 capi di Governo, tra cui i 17 leader delle Nazioni responsabili per l’80 per cento delle emissioni di CO2. La questione cinese domina su tutto, anche per i suoi riflessi nel dibattito politico americano. Un autorevole esponente del partito repubblicano, il deputato Garret Graves che è il capo dell’opposizione all’interno della Commissione parlamentare sul clima, ha dichiarato: «Tutto quello che facciamo noi sarà annullato al quadruplo dai cinesi, se non fermano la loro crescita incontrollata delle emissioni». Purtroppo è la verità.

L’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) lancia l’allarme: il 2021 rischia di essere segnato da un record tragico, il secondo anno più dannoso della storia per la quantità di CO2 rilasciata nell’atmosfera. La causa è prevalentemente la crescita asiatica, in particolare cinese. Le emissioni a fine anno potrebbero aumentare di 1,5 miliardi di tonnellate, raggiungendo i 33 miliardi, l’aumento più grosso dal 2010, secondo le stime Aie. È un brutale capovolgimento rispetto al 2020 che invece aveva visto un calo di emissioni, legato alla recessione da lockdown (non in Cina però, dove hanno continuato a crescere). Il 2020 si era chiuso con un calo del 6 per cento. Ma con la ripresa delle economie asiatiche e di quella americana nel 2021 il consumo di energia dovrebbe crescere del 4,5 per cento tornando ad avvicinarsi al record storico del 2014. Il problema è che la parte più dinamica dell’economia mondiale, cioè la Cina e le Nazioni asiatiche più legate al suo ciclo, aumenteranno il consumo di carbone, del 4,5 per cento. Un leggero aumento nel consumo di carbone è previsto anche in Europa e negli Usa. A fronte di queste proiezioni risulta ancora più cruciale la posizione della Cina. Xi Jinping ha proclamato che il suo Paese «raggiungerà il picco delle emissioni nel 2030 e da quel momento inizierà il declino», il che significa che per altri 9 anni la situazione è destinata a peggiorare, per il mondo intero. L’altro obiettivo annunciato dal presidente cinese è quello di raggiungere la neutralità carbonica nel 2060: da più parti viene criticato perché è distante nel tempo e molto vago (il percorso per arrivarci non viene spiegato). La Cina sta continuando a costruire nuove centrali a carbone in casa propria e ad esportarne altre nei Paesi emergenti dove si diramano i suoi investimenti infrastrutturali della «Belt and road initiative»

Il presidente Usa parla durante il summit virtuale sulla lotta al cambiamento climatico. (shutterstock)

(nuove vie della seta). Quindi esporta un modello produttivo insostenibile anche fuori dai propri confini. Un altro protagonista controverso del summit è Putin. La Russia ha un’economia molto piccola rispetto a Usa, Cina, Ue e India. Però è uno dei massimi esportatori di energie fossili. Inoltre la Russia beneficia del cambiamento climatico: lo scioglimento dei ghiacci nella regione artica ha aperto per Mosca nuove opportunità economiche, per esempio le rotte navali per trasportare gas naturale liquefatto. Il Brasile è uno dei capofila dei Paesi emergenti ed è rappresentativo della loro posizione: Jair Bolsonaro chiede un miliardo di dollari di aiuti per tagliare del 40 per cento la deforestazione. L’India incalza, ricordando ai Paesi ricchi l’impegno di fornire 100 miliardi di dollari di aiuti annui per finanziarne la conversione a modelli di crescita sostenibili. Un’altra contraddizione

mescola la lotta all’emergenza climatica alla rivalità Usa-Cina. Il paradosso della sostenibilità per gli Stati uniti è questo: più investono nelle energie rinnovabili più arricchiscono la grande rivale. Almeno nel breve termine, non si sfugge a questa contraddizione. La Cina, con metodi controversi, si è conquistata una supremazia schiacciante nella produzione di pannelli solari low cost, oppure nella fabbricazione di materiali e componenti essenziali per quei pannelli. Per esempio, proviene dalla Cina l’80 per cento del polisilicone, materiale usato in molti pannelli solari per assorbire l’energia. Gli Usa e l’Ue rappresentano il 30 per cento della domanda mondiale di pannelli solari, ma la loro capacità produttiva si è indebolita, proprio come conseguenza della concorrenza cinese. Nel corso degli ultimi 20 anni il Governo cinese ha sovvenzionato i suoi produttori nazionali nel solare e nell’eolico, permet-

tendogli così di vendere sottocosto nel resto del mondo. Molte aziende americane in questi settori sono fallite o hanno ridotto la loro capacità produttiva. A complicare la situazione, buona parte dei produttori di pannelli solari (o componenti) in Cina hanno gli stabilimenti nella regione dello Xinjiang e sono accusati di sfruttare manodopera in detenzione, prigionieri condannati ai lavori forzati. La sfida economica delle rinnovabili incrocia il dramma dei diritti umani, in una regione dove il regime di Pechino reprime la minoranza uigura di religione islamica. Ma se Biden vuole raggiungere l’obiettivo di generare tutta l’elettricità americana da fonti rinnovabili entro il 2035, partendo dal livello attuale che è solo del 40 per cento, gli Usa dovranno più che raddoppiare il ritmo d’installazione di nuovi pannelli solari. Il che significa, nel breve termine, rafforzare l’egemonia cinese in questo settore.

Messico, rifugio di migranti e piccoli fantasmi

L’analisi Molti latino-americani che sognavano gli Usa perdono le speranze e chiedono l’asilo nel Paese al confine

dove vive un esercito di minori non accompagnati. Raggiungere gli Stati uniti rimane difficile, anche senza Trump Angela Nocioni «C’è una qualità che vi accomuna tutti: il coraggio!». Con queste parole il presidente degli Stati uniti Joe Biden ha salutato qualche settimana fa un centinaio di immigrati durante una cerimonia per la conquista della cittadinanza statunitense. Finiscono qui le belle notizie per le migliaia di persone che premono alla frontiera sud degli Usa in attesa di entrare. Per il momento alla loro speranza di una inversione di marcia sulle politiche d’accoglienza suscitata dall’uscita di scena di Donald Trump non corrisponde una concreta e decisa apertura. È ancora incerta, ad esempio, la sorte che toccherà ai beneficiari dello «status di protezione temporanea» sopravvissuto in scampoli all’Amministrazione Trump. Alcune cose, certo, sono cambiate con l’arrivo di Biden, ma riguardano una percentuale minima dei tanti in attesa di ingresso. Chi si trova già in un processo avviato di riconoscimento del diritto di asilo può entrare negli Stati uniti, non è costretto ad aspettare oltre frontiera come accadeva con l’ex presidente americano. E le famiglie che hanno attraversato illegalmente il confine, una volta intercettate dalla polizia, vengono detenute, processate e poi lasciate libere negli Stati uniti. Purché, però, possano vantare il «formato famiglia». Se sono singoli individui, no. Succede

anche che moltissimi funzionari statunitensi continuano ad usare una regola d’emergenza adottata durante l’era Trump consistente nell’espulsione rapida di tutti gli adulti soli sorpresi come illegali oltre frontiera. Quindi a molti, anche con partner e figli, succede che se vengono fermati in solitaria non viene dato loro il tempo di dimostrare di avere la famiglia in territorio statunitense perché vengono espulsi alla svelta. Per di più gli adulti soli sono la gran maggioranza dei migranti, quindi il sistema spiccio di Trump continua a riguardare moltissime persone. Intanto decine di migliaia di latino-americani si stanno accalcando al

Minore accolto in un ostello a Ciudad Juárez. (schutterstock)

confine. Per il dramma attuale ci sono spiegazioni di congiuntura politica: non solo l’illusione che un presidente democratico alla Casa Bianca possa essere più accogliente di un presidente repubblicano, ma anche la crisi economica aggravata dalla pandemia da Coronavirus al sud del Rio Bravo, le disgrazie causate dal passaggio di uragani in Centro America (in Honduras c’è tanta gente che ha perso tutto) e la crescente paura del crimine organizzato in molti Paesi vicini alla frontiera. Soltanto nel mese di marzo circa 9 mila persone hanno chiesto asilo al Governo messicano. Si tratta di un record. Mai c’erano state tante richieste in un mese solo, da notare che nell’ultimo trimestre la metà dei richiedenti l’asilo in Messico sono stati honduregni in fuga dalle macerie lasciate dagli uragani passati nel loro Paese nel 2020. Per i migranti il Messico è diventato un approdo finale, non più una tappa del viaggio verso nord. La ragione essenziale è che in Messico è facile entrare, negli Stati uniti no. Ed è anche più facile essere accettati come rifugiati. Il Governo Trump ha accelerato il processo di conversione del Messico in una tappa finale del viaggio verso nord di molti migranti. La strategia più efficace è stata obbligare chi cerca asilo negli Stati uniti ad attendere in Messico l’esame della richiesta da parte delle autorità statunitensi. Aspetta e spera. Questo sistema, denominato «Pro-

tocolli di protezione dei migranti» (Mpp nella sigla inglese), ha di fatto accampato in Messico una quantità sempre crescente di gente, molta della quale finisce per decidere di rimanere lì dove si trova. Durante l’amministrazione Trump il numero delle domande di asilo in Messico è schizzata dalle circa 14’600 del 2017 alle 70’400 del 2019, secondo i dati del Governo messicano. La pandemia da Coronavirus ha frenato inizialmente i flussi, c’è stata una decelerazione in tutto il mondo e anche in Messico, dove l’anno scorso sono state presentate più o meno 41’200 richieste d’asilo. È aumentato però di molto il numero degli incarti negli ultimi tre mesi. La Commissione messicana di aiuto ai rifugiati (Comar) spiega che il Messico non è più una seconda opzione di rifugio per molti migranti attratti sia dalla possibilità di riunirsi con familiari e amici che, messisi in viaggio anni fa, non sono riusciti ad arrivare negli Usa e si sono fermati prima di varcare il confine, sia dal fatto che comunque anche in Messico esiste una grande domanda di manodopera a basso costo. Oltretutto il tasso di approvazione delle richieste di asilo in Messico è molto più alto che negli Stati uniti: 73 per cento di richieste accolte nei primi tre mesi del 2021 e un altro 7 per cento dei richiedenti ha ricevuto altri tipi di protezione umanitaria. Tra honduregni poi, in fuga dalla miseria post ciclone, il tasso

di approvazione delle richieste di asilo ha sfiorato il 90 per cento. Un capitolo a parte in questa storia riguarda il dramma delle migliaia di minori centro-americani che arrivano da soli alla frontiera nord del Messico. Quasi tutti contano di poter raggiungere un loro genitore negli Stati uniti. Ma quelli fermati prima di attraversare il confine vengono il più delle volte espulsi. Rispediti da dove provengono, da soli. Aspettano in ostelli in Messico per mesi che vengano completati i loro dossier e poi vengono rispediti indietro. La maggior parte dei minori in attesa ha dagli 11 ai 15 anni, ma ci sono anche bambini di 5 anni. Nel 2018, rende noto il Governo messicano, sono stati oltre 1’300 i bimbi di cui si è registrata l’entrata negli ostelli per minori non accompagnati a Ciudad Juárez, la città limbo tra le due Americhe. Nel 2019 il numero è stato di oltre 1’500 ed è sceso sotto i mille l’anno scorso, causa Covid. Nei soli primi tre mesi del 2021 si sono già contati oltre 570 ingressi di minori non accompagnati a Ciudad Juárez. Perché continuano ad arrivare se è noto che oltre il 70 per cento dei casi si conclude con un ordine di espulsione? Perché esiste un’ultima chance: non presentarsi all’udienza. È quello che fanno quasi tutti gli adolescenti in attesa di verdetto. Scappano e si fermano in Messico. Senza documenti e senza protezione. Un esercito di piccoli fantasmi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Politica e economia

C’è ancora odore di morte

Il reportage Gli orrori del recente passato emergono dalle fosse comuni scoperte a Tarhouna, città libica a sud

di Tripoli dominata per anni dalla milizia dei fratelli Al-Kani ed ex base strategica del generale Khalifa Haftar Francesca Mannocchi Um Alzuhr entra nella stanza con suo figlio. Lei tiene sei cornici strette tra le braccia, lui uno striscione bianco lungo tre metri. Um Alzuhr lo srotola, lo sistema con cura lungo la parete in fondo alla stanza, poi dispone le cornici, come un altare. Ognuna contiene un volto d’uomo, quasi tutti sui 40 anni, tranne i due più adulti. Uno, spiega, era un capo tribù. Sono gli uomini della sua famiglia, tutti fatti sparire e trovati torturati e uccisi nelle fosse comuni di Tarhouna, città a sud-est di Tripoli, in Libia. Um Alzuhr ha 40 anni e tre figli. Oggi divide la casa con le sue sorelle e cognate – vedove come lei – e i bambini, sopravvissuti come lei. Insieme a loro, a riempire il vuoto della casa, c’è l’eco del lutto, la paura da cui non riescono a liberarsi, l’ombra minacciosa della presenza dei fratelli Al-Kani, a capo di una milizia che per 6 anni ha dominato la città.

L’Ue ha imposto sanzioni ai fratelli AlKani ma loro vivono, impuniti e sprezzanti, nell’est del Paese «Ogni casa ha almeno una persona da piangere», dice la donna, mentre cerca in un sacchetto di plastica verde le prove che quello che dice sia vero, come se la guerra oltre a privarla dei suoi cari, l’avesse privata anche del diritto a essere creduta e cercare giustizia. «La prima volta sono arrivati e hanno portato via 4 uomini. Hanno buttato giù la porta, chiuso noi e i bambini in una stanza e trascinato via i nostri mariti e fratelli che cercavano di resistere. Poi abbiamo cominciato a cercare di capire se volessero un riscatto, volevamo indietro le nostre famiglie. Allora per intimidirci hanno raggiunto la fattoria di famiglia e hanno sparato a mio fratello minore, che era l’unico uomo adulto rimasto». Piange Um Alzuhr, con il riserbo antico delle donne, piange piano per non ingombrare con il suo dolore lo spazio dei bambini nella stanza e piange con pudore, come chi ha timore di non ricevere la fiducia dei presenti. Apre un taccuino estratto dalla plastica, dentro c’è un foglio piegato con il timbro dell’ospedale. È il certificato di morte del fratello più giovane, Ibrahim, accanto c’è scritto: morto per incidente. «Gli uomini della milizia dei fratelli Al-Kani lo hanno portato in ospedale per aspettare che altri uomini di famiglia arrivassero per visitarlo. Così avrebbero potuto ucciderli. Ma gli uomini lo sapevano e non sono andati, eravamo solo noi donne a recarci da

Um Alzuhr – nella foto – ha 40 anni e tre figli. Vive con le donne sopravvissute come lei. Piange piano per non ingombrare con il suo dolore la stanza. (romenzi)

Ibrahim, finché un giorno hanno trascinato via la barella e staccato l’ossigeno che lo teneva in vita». Poi, racconta Um Alzuhr, per restituire il corpo alla famiglia hanno imposto che le sorelle firmassero un foglio che attestava una morte per incidente stradale. Non potevano fare altrimenti. «Così abbiamo firmato. Almeno abbiamo una tomba su cui piangere al cimitero. Ma non potremo denunciarli, né avere giustizia». La storia di Um Alzuhr è, purtroppo, una storia comune a centinaia di famiglie a Tarhouna. Centinaia di persone scomparse, delle cui sorti si è venuto a sapere solo a giugno dell’anno scorso, quando le truppe del Governo di accordo nazionale di Tripoli – sostenuto dalle Nazioni unite e presieduto da Fayez Al-Sarraj – hanno riconquistato Tarhouna, che era diventata una base strategica delle milizie del generale Khalifa Haftar (uomo forte della Cirenaica lanciato alla conquista del potere) e dei suoi sostenitori internazionali, proprio grazie all’appoggio dello spietato esercito dei fratelli Al-Kani. Quando la scorsa primavera l’impegno del

presidente turco Erdogan a sostegno di Al-Sarraj si è tradotto, non solo nell’addestramento dei soldati libici, ma anche nella presenza di mercenari provenienti dal nord della Siria e soprattutto nell’arrivo dei droni armati di produzione turca, le truppe dell’est della Libia hanno capito che la guerra di Tripoli era persa. Così, poche settimane prima che la spericolata offensiva lanciata il 4 aprile del 2019 dal generale Haftar per conquistare Tripoli finisse, i fratelli Al-Kani hanno preferito fuggire che combattere e hanno lasciato Tarhouna in tutta fretta in direzione di Bengasi, dove tuttora vivono sotto la protezione degli uomini di Haftar. Prima di scappare però hanno dato fuoco a palazzi e negozi, fabbriche e prigioni, sia quelle legali sia quelle clandestine. Hanno ucciso brutalmente e senza pietà, per capriccio. Hanno rapinato banche e saccheggiato case. L’eredità degli anni di dominio della milizia giace nella cenere che rimane, dopo mesi, nei buchi delle campagne, dove da un anno lavorano senza sosta i team dell’Autorità nazionale per la ricerca

Fossa comune a Tarhouna. Ne sono state scoperte una ventina. (romenzi)

delle persone scomparse. Dopo la fuga dei fratelli Al-Kani, infatti, donne come Um Alzuhr hanno preso coraggio per chiamare le forze dell’ordine e suggerire movimenti, raccontare stragi e torture. Hanno raccontato degli uomini rapiti e uccisi, dei corpi lasciati all’entrata della città in vista e come monito per tutti, nell’incrocio da allora denominato «triangolo della morte». Hanno raccontato dei riscatti, dei rapimenti degli imprenditori della città costretti a intestare le aziende ai fratelli Al-Kani e poi uccisi. E hanno raccontato dei rumori notturni, degli strani movimenti delle scavatrici, intorno alle fattorie, a 10 chilometri dal centro città. Le fosse comuni scoperte finora sono una ventina, oltre 160 i corpi rinvenuti, molti meno quelli a cui è stato possibile dare un nome e una sepoltura. Ma sono centinaia le persone di cui si sono perse le tracce. Mohamed Ali Kosher, un funzionario che ha il compito di amministrare la città, visita spesso le fosse comuni. Da lì sono emersi anche i corpi di due dei suoi cugini, uccisi dalla milizia di Al-Kani per una vendetta tribale. «Dominavano ogni aspetto della città in una modalità essenzialmente mafiosa, questo era un loro feudo. Abbiamo vissuto nel terrore che ci privassero di ogni bene e nel terrore di essere uccisi a bruciapelo», dice mentre mostra le bandierine rosse sistemate sulla sabbia, in prossimità delle buche dove sono stati ritrovati cadaveri oppure resti di abiti e capelli. L’odore della morte nella zona è persistente, viene dai tessuti decomposti dei corpi nella terra. Ali Kosher cammina e racconta, con foga, come chi porta sulle spalle l’incarico della memoria: «Ci vorrà almeno un anno per scavare tutti i siti sospetti. Poi abbiamo bisogno di indagini trasparenti e affidabili, perché il dramma di Tarhouna non deve e non può restare impunito». Lo dice ben sapendo che è la sfida più difficile. Mentre la città piange i suoi morti e cerca gli scomparsi, i ministri degli Esteri dell’Unione

europea hanno imposto sanzioni per gravi violazioni dei diritti umani ai fratelli Al-Kani che però continuano a vivere, impuniti e sprezzanti, nell’est del Paese. Ali Asaid Abu Zweid ha trent’anni. È nato e cresciuto a Tarhouna. Nel 2016 ha combattuto a fianco delle truppe di Misurata a Sirte, per liberare la città dall’occupazione dello Stato islamico. Pensa che questa sia la spiegazione della sua cattura: la storica inimicizia tra Tarhouna e Misurata. Non riesce a spiegarsi i due mesi nella prigione di Da’ar altrimenti. Oggi ha il volto segnato dalla mancanza di sonno, quando chiude gli occhi – dice – tornano a fargli visita i fantasmi. Ali Asaid Abu Zweid è stato rinchiuso in un laboratorio agricolo che i fratelli Al-Kani avevano adibito a carcere. In una grande stanza del complesso c’erano sette scomparti, grandi poco più di metro quadrato, ogni dei quali conteneva a malapena un uomo interamente accovacciato. Sul bancone che copriva gli scomparti ci sono ancora i cumuli di cenere. Infatti i miliziani usavano trasformare le minuscole celle in veri e propri forni. Abu Zaib è stato torturato così per settimane. Dentro e fuori il piccolo scomparto. Ha visto e sentito morire decine di persone intorno a lui. Per due mesi non ha parlato con nessuno. Troppa la paura di essere tradito, troppa l’angoscia. L’amministrazione di Tarhouna ha deciso di non pulire le celle, di lasciarle intatte come sono state trovate a memoria di quello che è stato. Sui muri sono incisi nomi e date, sono le identità dei prigionieri, trasformati in fantasmi. Centinaia le scomparse non denunciate. Ali Asaid Abu Zweid dice che molte famiglie sono minacciate anche a distanza e che la paura serpeggia ancora, anche se la guerra è finita, anche se i fratelli Al-Kani sono fuggiti. «È rimasta la scia di terrore che hanno seminato, cammina nascosta lungo le strade di Tarhouna».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Politica e economia

La debolezza dell’europa

Fra i libri di Paolo A. Dossena

L’opinione Bruxelles colleziona smacchi, dal complicato viaggio di Josep Borrell a Mosca

ROBeRTA VILLA, Vaccini. Mai così temuti, mai così attesi. Chiarelettere, 2021. È appena accaduto negli Stati uniti: il dottor Anthony Fauci si è scontrato con il politico di turno, Jim Jordan, sul problema del Coronavirus. L’eminente immunologo sosteneva le ragioni della sicurezza, il politico quelle della libertà. A seguito di questo scontro, il 18 aprile Fauci è stato intervistato dall’emittente televisiva Cnn, dove ha confessato tutta la sua frustrazione davanti alle posizioni della politica. La dottoressa Roberta Villa, medica chirurga e giornalista scientifica bergamasca, ha avuto un’esperienza anche peggiore, scontrandosi con il ritardo culturale di tutto il sistema politico e mediatico italiano. Villa – nel suo libro – racconta di aver «osservato sgomenta la politica che sembrava ignorare tutto quello che la ricerca aveva concluso, soprattutto nel campo della comunicazione». Quanto all’informazione, la gente aveva paura a causa di «tante voci contraddittorie che arrivavano dai media». Occorreva dunque dare risposte e informazioni precise, far capire esattamente di cosa si stesse parlando. Cosa sono i vaccini? Fanno bene o fanno male? Fanno bene, occorre sostenere le campagne per la vaccinazione. I vaccini sono tutti uguali? Non lo sono. Per esempio in Svizzera il vaccino di Astrazeneca non è stato ancora approvato, in Danimarca è stato abbandonato e in Francia (dopo una decina di casi di trombosi atipiche nel mese di aprile) è somministrato solo agli under 55. A questo punto è probabile che l’Unione europea non rinnovi i suoi contratti con la multinazionale anglo-svedese che lo produce. A tal proposito si suggerisce uno dei capitoli più interessanti del libro di Roberta Villa: «Il pasticciaccio del vaccino Astrazeneca». Sotto certi aspetti questo capitolo è già stato superato dalle notizie di aprile sopra riportate. Infatti il saggio è uscito il 25 marzo ma scrupolosamente la dottoressa avvisa che la sua opera contiene un capitolo sulle cose che non sappiamo, «che sono tante». «Data la rapidità con cui corre la ricerca sulla Covid-19, quando il volume sarà stampato alcune di queste domande avranno forse già avuto una risposta, e non mi stupirebbe che nel frattempo se ne fossero aperte altre». Questo è il modo di procedere dei ricercatori seri e preparati che, sui due lati dell’Atlantico si imbattono in politici e giornalisti di ogni specie e orientamento.

al «Sofagate», passando per la gestione disordinata dell’approvvigionamento dei vaccini

Marzio Rigonalli Nei primi mesi di quest’anno, l’Unione europea ha vissuto alcuni episodi che mostrano quanto le è difficile imporsi come soggetto internazionale di primo piano. Ne citiamo tre: la visita a Mosca in febbraio di Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’ormai celebre «Sofagate» avvenuto nel palazzo presidenziale ad Ankara, il 6 aprile, e l’insieme delle decisioni adottate per realizzare il piano delle vaccinazioni. Borrell si è recato a Mosca con l’intento di migliorare le relazioni tra l’Ue e la Russia, che Mosca aveva danneggiato con le misure repressive impiegate nei confronti di Alexei Navalny, il principale oppositore di Vladimir Putin. Durante il suo soggiorno Borrell ha dovuto incassare due affronti diplomatici. Ha avuto notizia che la Russia aveva deciso di espellere alcuni diplomatici europei e durante la conferenza stampa con il suo omologo russo, Sergei Lavrov, si è sentito dire che l’Unione europea non è un partner affidabile sul piano internazionale. Episodi che testimoniano la poca considerazione che i dirigenti russi nutrono nei confronti dell’Ue e la loro continua azione tendente a creare divisioni all’interno dell’Unione. Le immagini giunte dal palazzo presidenziale di Ankara, con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel seduti uno accanto all’altro, mentre la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen veniva costretta prima a rimanere in piedi e poi ad accomodarsi su un divano, hanno fatto il giro del mondo, provocando l’indignazione di molti Governi e osservatori, nonché un’ondata di critiche, soprattutto in Europa. Sono immagini che, oltre alla tracotanza del presidente turco nei confronti delle donne e alla totale assenza di savoir-faire del presidente Michel, evidenziano come il vertice del potere europeo sia diviso, tra il Consiglio e la Commissione, e non è capace di mostrare quell’unità e quella fermezza che sono necessarie per svolgere con successo una missione. La strategia infine adottata per garantire l’approvvigionamento dei vaccini contro la pandemia e per agevolarne la distribuzione ha messo in evidenza un buon numero di sbagli, inadempienze e disfunzioni. Il punto di partenza è stato buono, con la centralizzazione dell’acquisto dei vaccini. Si è voluto impedire che singoli Stati

Ursula von der Leyen messa da parte ad Ankara: «Mi sono sentita sola come donna ed europea». (Keystone)

membri potessero accaparrarsi importanti quantità di vaccini a scapito di altri. L’applicazione pratica della strategia si è però rivelata insufficiente. Le trattative con le società produttive dei vaccini sono state lunghe e i risultati ottenuti non hanno impedito i ritardi nelle consegne. La Commissione europea si è ritrovata senza esperienza, in una situazione completamente nuova, decisa a spendere bene i soldi pubblici che deve amministrare. Ne è scaturita una gestione ordinaria, rispettosa delle procedure burocratiche e senza quello slancio e quella determinazione che la situazione richiedeva. Ci sarebbero voluti una buona dose di pragmatismo, la disponibilità di assumersi dei rischi, la capacità di superare gli ostacoli burocratici e l’appoggio dei Governi degli Stati membri. Condizioni che non si sono verificate e che hanno spinto alcuni Governi nazionali ad acquistare vaccini in modo autonomo, rompendo così la solidarietà iniziale. Quali conclusioni si possono trarre da questi episodi? La prima riguarda le persone che occupano il vertice del potere europeo, la seconda l’organizzazione e il funzionamento di quello stesso vertice. I dirigenti europei vengono scelti dai Governi nazionali. Quasi mai si opta per le persone più capaci e brillanti, bensì si punta su quei nomi

che non disturbano nessuno, che non creano opposizioni e che costituiscono una sorta di minimo comune denominatore. Nella sua già lunga storia la Commissione europea ha avuto una sola volta un presidente che ha saputo guidarla con mano forte e che è riuscito a farsi valere sul piano internazionale: il francese Jacques Delors, tra il 1985 e il 1994.

Le possibili soluzioni? Snellire il vertice della piramide del potere europeo e scegliere dirigenti più capaci Gli attuali dirigenti dell’Ue: Charles Michel, ex primo ministro belga, Josep Borrell, ex ministro degli Affari esteri spagnolo e la tedesca Ursula von der Leyen, ex ministra della Difesa, hanno dimostrato di non essere in grado di gestire situazioni difficili e di non riuscire a far fronte ad autocrati come Erdogan e Putin. È difficile immaginare che con questi dirigenti l’Unione europea possa, un giorno, riuscire a diventare un forte attore geopolitico capace di affrontare l’intransigenza di potenze come la Cina e la Russia. La scelta dei

dirigenti è un passo significativo che i Governi europei non dovrebbero compiere tenendo conto soltanto delle loro rivalità interne. La seconda conclusione che conviene trarre concerne il funzionamento delle principali autorità europee. La prima istituzione che viene chiamata in causa è il Consiglio europeo. Per soffocare le divergenze e per non creare spaccature, le principali decisioni del Consiglio vengono prese all’unanimità. Ciò significa che ben pochi sono i passi che si possono compiere. Perdipiù il «Sofagate» di Ankara ha mostrato anche l’assenza di armonia tra la Commissione e il Consiglio, ossia tra due istituzioni che dovrebbero lavorare fianco a fianco, senza nessuna rivalità. Per essere migliorata, la situazione richiederebbe lo snellimento del vertice della piramide del potere europeo. Per esempio rinunciando al voto all’unanimità e optando per il voto a maggioranza qualificata e a maggioranza semplice in seno al Consiglio europeo. Oppure dando più possibilità d’azione alla Commissione europea, che dovrebbe essere guidata dalle persone più capaci. Questi passi, e probabilmente anche altri, sono necessari se si vuole raggiungere una maggiore coesione istituzionale, politica e se si vuol dare più forza all’Ue.

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Politica e economia

Tassazione globale delle multinazionali: l’OCSe vicino ad un accordo Fiscalità Gli Stati Uniti spingono per un tasso elevato, che però mette in difficoltà i paesi più piccoli. La Svizzera

potrebbe sopportare un tasso medio, come già fanno molti Cantoni

Ignazio Bonoli Le discussioni nell’ambito dell’OCSE per una tassazione globale minima delle multinazionali stanno prendendo una direzione che non sarà tanto gradita ai paesi più piccoli. Tra le grandi nazioni sta infatti prendendo piede la posizione americana che chiede un tasso internazionale minimo del 21% sugli utili globali delle multinazionali. I paesi che non possono contare su un grande mercato interno tentano infatti di attirare le sedi di grandi aziende con altri fattori, tra cui anche l’aspetto fiscale. Di fatto oggi è in atto una specie di tolleranza internazionale che permette ai paesi più piccoli di applicare tassi d’imposta sugli utili delle multinazionali, di regola, tra il 10 e il 12%. Ora la proposta americana, che sembra possa essere appoggiata anche dall’Unione Europea, è molto lontana da questi minimi. Il suo tasso non sembra tanto pensato per punire le oasi fiscali, che accettano sul loro territorio anche «società bucalettere» che non pagano imposte, come si voleva in un primo tempo, quanto piuttosto per cercare un’unità di intenti dei grandi paesi per impedire alle multinazionali di cercare sedi in paesi fiscalmente più favorevoli. Cioè imposte che sono pensate anche e soprattutto nell’ottica di attirare nuovi investimenti, che di

regola comportano anche un indotto importante. Dietro pressione dei grandi paesi, l’OCSE vorrebbe, entro la metà di quest’anno, decidere nuovi principi per la tassazione delle grandi aziende internazionali. L’idea è quella di fissare un minimo di 750 milioni di euro di cifra d’affari per sottoporre le aziende ai nuovi principi. Dopo di che verrebbe applicata la regola della distribuzione del gettito fiscale tra i paesi sede della società e quelli dei loro mercati di smercio. Nella prima fase delle discussioni si sono incontrate difficoltà di tipo tecnico e anche di tipo politico. Infatti, la Svizzera, che è un paese piccolo, ma con parecchie multinazionali, si troverà confrontata con due grandi: gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Il risultato finale decreterà chi avrà guadagnato e chi avrà perso. Per la Svizzera si tratterà soprattutto di vedere come dovrà perdere. Per cui è importante un accordo di fondo, poiché l’alternativa sarebbe un aumento delle tasse unilaterale e, per molte aziende, il pericolo della doppia tassazione e un aumento della burocrazia. Per la Svizzera sarà però importante anche l’ammontare del tasso minimo concordato. Oggi, in Svizzera, questo tasso oscilla tra l’11,5 e il 21%. La maggior parte dei Cantoni è comunque al 16%, con possibilità di ac-

Ueli Maurer è fiducioso di poter limitare i danni per le aziende svizzere. (Keystone)

cordi per tassi inferiori. Se il tasso minimo concordato sarà del 12% (come sembra probabile), la spinta all’adeguamento non sarà forte. Si teme però che le autorità americane vogliano aumentare la pressione fiscale in generale, anche a causa dei debiti dovuti alla lotta contro la pandemia. La Svizzera non ha armi adeguate per combattere questa tendenza. Può mantenere basse le tasse per le multi-

nazionali, ma altri Stati ne approfitterebbero per aumentare le loro tasse. Potrebbe perciò decidere un aumento, invece di lasciar partire i gettiti delle tasse verso l’estero. Si applicherebbe il principio secondo cui quanto non percepito da un paese, che non rispetta il minimo concordato, può essere percepito da altri paesi mediante un aumento mirato delle loro imposte. Non è un caso che la nuova ministra delle finanze

USA, ex direttrice del FMI, abbia infatti confermato l’appoggio alle tesi sostenute dalla nuova Amministrazione Biden. L’aumento colpirebbe in ogni caso alcune centinaia di aziende con sede principale in Svizzera e una buona parte di quelle straniere con filiali nel nostro paese. Ma con un tasso generalizzato al 12% i Cantoni ne sarebbero avvantaggiati e la piazza economica svizzera sarebbe meno esposta alla concorrenza di paesi oggi fiscalmente favorevoli, come il Lussemburgo, l’Olanda o l’Irlanda. Comunque si potrebbero limitare i danni riducendo altre imposte come l’imposta preventiva, le tasse di bollo o anche le imposte sui redditi, per mantenere l’attrattività della piazza. Per questo il responsabile delle finanze federali Ueli Maurer, reduce dall’incontro di Parigi, all’inizio di aprile, del gruppo dei 20 maggiori paesi nell’ambito dell’OCSE, ha cercato di rassicurare gli interessati svizzeri. Anche se il minimo standard di tassazione non è ancora deciso e il tasso potrebbe variare fra 10 e 20%, la situazione potrebbe essere ben sopportata. Le imposte non sono il solo fattore di localizzazione per un paese. Se la Svizzera dovesse perdere di attrattività su questo fattore, potrebbe recuperarla agendo sugli altri. I tempi sono però abbastanza stretti, poiché un accordo vincolante potrebbe essere raggiunto già entro la fine dell’anno. annuncio pubblicitario

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Le masse e il Führer nell’epoca digitale

Politica e economia

Analisi Il comportamento delle masse, facile preda di estremismi, è stato studiato a fondo in passato,

da Sigmund Freud a Elias Canetti, ma ora con l’irruzione dei social nel discorso politico si aggiunge una dimensione nuova Nidesh Lawtoo* Nel 1921, esattamente cento anni fa, Sigmund Freud pubblicò un testo intitolato, Psicologia delle masse e analisi dell’io. Molte cose sono cambiate in un secolo, ma la tendenza psicologica degli umani a comportarsi come gli altri quando sono presi in dinamiche collettive di massa rimane radicata in noi, soprattutto se la massa si trova sotto il potere di un leader autoritario dotato di prestigio. Ben prima dell’ascesa del fascismo e del nazismo, nel suo saggio, Freud denominò questo leader con il termine di «Führer». La sua domanda era la seguente: perché persone che si comportano in modo razionale individualmente possono facilmente cadere preda di un legame emotivo inconscio, irrazionale e contagioso se sono parte di una massa? La presenza di un leader, secondo la tesi di Freud, gioca un ruolo preponderante in questa trasformazione psicologica. Visto il numero crescente di populismi d’estrema destra in varie parti del mondo che si appoggiano su leader con tendenze autoritarie per indurre emozioni contagiose la domanda di Freud rimane non solo di grande attualità; richiede pure di essere ripensata nell’epoca digitale dove le emozioni si diffondono online prima di sfociare in azioni potenzialmente violente offline. Psicologia delle Masse e analisi dell’io, appartiene ai saggi culturali dell’ultimo Freud ed è, tra gli altri, quello più politico e attuale. Come indica il titolo, in sostanza Freud applica la teoria psicoanalitica, che si occupa di psicologia individuale (l’«io»), alla sfera più generale della cultura, della politica, e dei legami sociali che Freud raggruppa sotto la categoria della «massa» (Masse). Non era certamente il primo a parlare di psicologia di massa. Come spiego nel mio saggio, (Neo)Fascismo: Contagio, Comunità, Mito (Mimesis ed., 2020), Freud si appoggia su una lunga tradizione di pensatori della psicologia delle folle, come Gustave LeBon e Gabriel Tarde che lo precedono e a cui fa costantemente riferimento. Lo scopo è dunque di recuperare le lezioni principali di questa tradizione di pensiero psicologica un po’ dimenticata nel secolo scorso, riconsiderandola da una prospettiva presente, attenta ai sovranismi, populismi di estrema destra, o come li chiamo io, (neo)fascismi, nel loro abile manipolare le emozioni collettive.

Perché individui razionali possono facilmente cadere preda di un legame emotivo inconscio e contagioso se sono parte di una massa? Cosa dice Freud? In sostanza, concorda con la tradizione psicologica che lo precede: l’individuo in una massa è stranamente preda di comportamenti inconsci, contagiosi e mimetici che lo rendono un ingenuo, credulone, irrazionale, preda di emozioni aggressive e potenzialmente pure capace di azioni violente, soprattutto se viene suggestionato da un leader dotato di prestigio o carisma. Come diceva già Gustave Le Bon in un libro intitolato Psicologia delle folle (1895) che Freud cita e che serve da punto di partenza per la sua diagnosi: «Annullamento della personalità cosciente, predomi-

Nell’epoca digitale le emozioni si diffondono online prima di sfociare in azioni violente nella realtà. (Keystone)

nio della personalità inconscia, orientamento determinato dalla suggestione e dal contagio dei sentimenti e delle idee in un unico senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite, tali sono i principali caratteri dell’individuo in una folla». Aggiungo che Freud non utilizzerebbe il termine «suggestione» che è vicino all’ipnosi e all’imitazione, una tradizione da cui il padre della psicanalisi vuole prendere le distanze. Al suo posto, Freud propone una teoria edipica del corpo sociale basata su due legami diversi che legano la Masse al Führer, amore e identificazione, una divisione che viene dal triangolo edipico e che bisogna forse ripensare in chiave contemporanea. Se Freud nega l’esistenza di un legame affettivo diretto tra leader e massa basato sulla suggestione, ipnosi o imitazione, la tradizione che lo precede postula invece una tendenza mimetica innata nel cervello che ci porta a imitare inconsciamente gli affetti altrui, nella massa ma non solo. La scoperta dei neuroni specchio negli anni 1990 riscopre in un certo senso la tradizione dell’inconscio che precede Freud e che io raggruppo sotto il concetto di inconscio mimetico (cf. Il Fantasma dell’Io: La Massa e l’inconscio mimetico, Mimesis ed. 2018). Quel che trovo interessante in chiave culturale e politica attuale è che la suggestione o l’imitazione implica uno stato alterato di coscienza, una predisposizione a credere persone dotate di potere anche se mentono, in cui le idee di un leader possono essere tradotte in azioni, incluse quelle violente e antidemocratiche, sia online che offline. L’attacco al Campidoglio del gennaio scorso negli USA, per esempio, è un caso di suggestione collettiva di massa. Una menzogna (frode elettorale) ripetuta da un leader e amplificata sui social può portare ad atti d’insurrezione violenti, anti-democratici e (neo) fascisti. Visto che il rischio di attacchi simili a quelli che abbiamo osservato lo scorso 6 gennaio è grande nell’epoca digitale, vale dunque la pena di ritorna-

re a riconsiderare dei classici della psicologia di massa, di cui il testo di Freud fa parte ma non è l’unico. Alla luce dei recenti fatti di Washington, riflettere su quanto nel secolo scorso ha provocato il potere della mimesi sia un passo necessario per contrastare le minacce amplificate dai nuovi media nel nostro secolo. Nell’analisi della psicologia delle masse odierna, è infatti importante includere i nuovi media e le nuove situazioni politiche di cui Freud non poteva essere a conoscenza, ma che ci permettono di comprendere le dinamiche di contagio affettivo nel presente. Il potere dei social sulla formazione di forme collettive di suggestione che si basano sul culto della personalità, va ripensato in una maniera più dinamica rispetto al passato, così come il passaggio dalla «massa» freudiana al pubblico virtuale soggetto ad attacchi e movimenti affettivi che io chiamo ipermimetici. Freud nella sua opera si limita a considerare la psicologia di «massa» perché non viveva nell’epoca digitale. Un suo precursore, il sociologo francese Gabriel Tarde (1843-1904), vedeva più lontano quando diceva che stiamo entrando nell’era del pubblico, che definiva come una «massa virtuale» connessa «a distanza». Sulla traccia di Tarde, ho spiegato come i nuovi media nell’epoca digitale rendano instabile la linea di demarcazione tra finzione e realtà, menzogna e fatti, che da netta diviene permeabile e «porosa». Una menzogna o una finzione che si dissemina nel mondo virtuale online ha, infatti, il potere di generare effetti reali nella vita offline. Chiamo questo processo «ipermimesis», perché nuovi social media come Facebook o Twitter amplificano gli effetti dell’imitazione sul nostro inconscio che vi è già predisposto naturalmente. I social, YouTube e Internet in generale, utilizzano infatti algoritmi che raccolgono dati sulle nostre preferenze (acquisti, divertimenti, ricerche, ma pure ideologie e teorie cospiratorie) per poi inviarci verso contenuti a cui siamo già disposti a credere, in una

spirale che, specialmente in periodi di crisi, può facilmente portare ad abbracciare ideologie violente e a compiere azioni (neo)fasciste. Ne abbiamo pure avuto testimonianza proprio durante un seminario online sul fascismo come condizione mentale organizzato dal collettivo italiano Settima Lettera a cui ho partecipato lo scorso marzo. Siamo infatti stati vittime di un attacco hacker o zoombombing che mi ha dimostrato i limiti della teoria di Freud. Questa intrusione (neo)fascista nella nostra aula Zoom, ha sfortunatamente interrotto la presentazione di un mio collega con dei simboli fallici osceni ma pure nazisti come la svastica. Ha pure confermato i poteri dei nuovi media digitali o new media di introdurre nuove forme di fascismo (o new fascism) di cui ho discusso durante la mia presentazione. Oltre a darmi l’occasione di mostrare che la teoria ha un potere d’anticipo su pericoli reali, mi ha permesso di andare oltre una visione dell’inconscio proposta da Freud che sta alla base non solo del suo saggio sulla massa ma di tutta la sua teoria e con cui non possiamo più pienamente concordare. In un’analogia famosa nelle Lezioni introduttive alla psicanalisi, Freud paragona la dinamica dell’inconscio a uno studente che disturba la classe e che deve essere messo alla porta, per permettere che la lezione continui. Semplificando, l’aula della lezione starebbe per la coscienza, il professore starebbe per l’io, lo studente indisciplinato buttato fuori starebbe per l’inconscio o la massa che in fondo per Freud sono la stessa cosa. Il meccanismo di espulsione starebbe per la repressione delle pulsioni inconsce, che è il concetto o ipotesi su cui si regge tutto l’edificio della psicoanalisi. Non si tratta quindi di un esempio qualunque. Visto che lo scopo del seminario era quello di ripensare il testo di Freud e la psicoanalisi in genere in un’ottica contemporanea, ho dovuto far notare ai miei colleghi psicanalisti che l’attacco hack (lo studente indisciplinato e l’inconscio mimetico che entrano violentemente in

classe) ci obbliga a ripensare le fondamenta stesse della psicoanalisi. Il problema è che, rispetto ai tempi di Freud, oggi esiste uno spazio «digitale» dove non ci sono porte da chiudere. Le porte dell’inconscio mimetico sono aperte o, meglio, non ci sono nemmeno!

Il potere dei social sulla nascita di forme collettive di suggestione che si basano sul culto della personalità va ripensato in maniera più dinamica rispetto a ieri I (neo) fascisti che ci hanno interrotto in modo aggressivo durante il seminario, non hanno dovuto neppure bussare per entrare, e gli organizzatori non hanno potuto «buttarli fuori» mentre sono loro che hanno buttato fuori noi. Abbiamo dovuto cambiare aula Zoom. In sostanza, lo hack ha dimostrato che il pericolo del (neo)fascismo è reale, fin troppo reale. Non si tratta di un problema d’accademici o da divano psicanalitico. Ci hanno pure dato una lezione preziosa che ci obbliga a ripensare le basi dell’inconscio che io chiamo mimetico perché produce dei fenomeni imitativi che si disseminano a grande velocità nell’epoca digitale. Naturalmente, questa non vuol dire che i nuovi media non possano essere usati per fini democratici, anti-fascisti, e costruttivi. Al contrario, si può combattere il (neo) fascismo con gli stessi new media utilizzati in uno spirito critico. * L’articolo del mesolcinese Nidesh Lawtoo, professore di letteratura inglese e filosofia all’università di Leuwen in Belgio, è parte di un progetto di ricerca europeo intitolato «Homo Mimeticus» e finanziato dal Consiglio Europeo per le Ricerche (ERC).


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Politica e economia

Prosegue l’ascesa delle borse mondiali La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy

I mercati azionari hanno iniziato a gonfie vele 14% 12% 10% 8% 6% 4% 2% 0%

S&P 500

Nasdaq Composite

SPI

Euro Stoxx 50

Topix

MSCI World MSCI Emerging Markets

Performance dall’inizio dell’anno

europee hanno altre carte vincenti. Vi sono numerose imprese di qualità, soprattutto nei settori ciclici e nel settore delle esportazioni, che beneficeranno in misura sproporzionata dell’accelerare della crescita globale nei prossimi trimestri. Ciò dovrebbe tradursi in un aumento significativo

degli utili societari e in una crescita dei corsi azionari. Anche il mercato azionario svizzero, con il suo orientamento globale e i suoi titoli ciclici di alta qualità nel segmento dei valori a piccola e media capitalizzazione, è uno dei beneficiari della ripresa. Il lento avanzare della vaccinazione

Fonte: Bloomberg (aggiornato al 7.4.21)

Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros

Grazie ai progressi compiuti nelle vaccinazioni e ai prevedibili allentamenti delle misure di protezione per contrastare il coronavirus, l’economia vivrà una fase di rilancio a livello globale nei prossimi mesi, crescendo quest’anno presumibilmente del 5% circa. Le imprese beneficeranno fortemente di questa dinamica di crescita e aumenteranno i loro profitti in modo significativo, il che conferirà ulteriore slancio ai mercati azionari. Nel 2021 l’economia statunitense registrerà una crescita particolarmente vigorosa, sostenuta dalla rapida introduzione dei vaccini e dal pacchetto congiunturale dell’amministrazione Biden di 1900 miliardi di dollari. Con l’aumento della crescita degli utili societari, le valutazioni talora importanti delle azioni statuni-tensi, in particolare nel segmento IT, dovrebbero continuare a ridimensionarsi. È vero che nel primo trimestre i titoli tecnologici hanno risentito maggiormente del leggero aumento dei tassi a lungo termine, tuttavia, sulla scia della tendenza alla digitalizzazione, la quotazione dei titoli dovrebbe continuare a salire nel corso dell’anno. In Europa è ancora secondario il ruolo svolto dal settore delle tecnologie dell’informazione, ma le borse

della popolazione in Europa rappresenta effettivamente un certo rischio per la congiuntura e quindi anche per i mercati azionari. La Banca Migros prevede tuttavia che la campagna di vaccinazione prenderà slancio verso la metà dell’anno, aprendo la strada a quotazioni azionarie più elevate. annuncio pubblicitario

La Svizzera ha buon occhio.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Politica e economia rubriche

Il Mercato e la Piazza di angelo rossi Comuni: un Ticino con tre marce diverse Gli elettori dei Comuni ticinesi, dopo il rinvio del 2020, dovuto agli impedimenti del Coronavirus, hanno finalmente potuto votare per eleggere i loro municipi e i loro consigli comunali. Ora, per gli eletti, si tratterà di mettersi al lavoro. Chi scrive, per inveterato interesse alla politica, ha seguito sui giornali la campagna elettorale venendo così a conoscere quasi tutti i candidati ai municipi dei Comuni più grossi, il loro carattere, le loro doti, nonché i loro propositi. Quel che invece mi è venuto a mancare è il commento politico. Ho letto pochissimi articoli che illustrassero la situazione generale dei Comuni e, soprattutto, le particolarità del momento politico nel quale stiamo vivendo. Il Comune non è solo la cellula della nostra democrazia, ma è anche un agente economico di

primaria importanza. Anno sì, anno no, sono più di 200 milioni di franchi di investimenti che vengono realizzati dai nostri Comuni e che sicuramente, in più di un caso, contribuiscono a sostenere le economie locali. Il Comune è poi un importante datore di lavoro. Sono migliaia le persone impiegate presso le amministrazioni e le aziende comunali del nostro Cantone. In terzo luogo il Comune è un grosso dispensatore di servizi pubblici come, per fare solo due esempi, la scuola elementare e l’acqua potabile. La legge tratta i Comuni tutti allo stesso modo, nel senso che le sue misure vengono applicate ai Comuni come se gli stessi fossero tutti uguali. Invece i Comuni si distinguono molto per dimensione, capacità finanziaria e per i problemi ai quali devono accudire. Tenendo conto

di queste differenze, i Comuni ticinesi possono essere suddivisi in tre gruppi che, attualmente, viaggiano con tre marce diverse. Abbiamo dapprima i Comuni di grande taglia come Lugano, Bellinzona, Locarno, Mendrisio, Chiasso, che sono anche centri regionali. Lo sviluppo di questi Comuni possiede un carattere contradditorio. Essi sono infatti, da un lato, i veri e propri motori dell’economia ticinese, in particolare del settore dei servizi. Dall’altro, invece, questi comuni sono quelli che conoscono i problemi sociali e ecologici più gravi. Una quota molto importante dei disoccupati e degli assistiti del Cantone sono domiciliati in questi Comuni. La quota delle persone sole nella loro popolazione è la più alta del Cantone. Parte di questi Comuni soffrono, in misura

superiore alla media, del fenomeno dell’invecchiamento. Per il rallentamento delle attività economiche questi Comuni si trovano, chi più chi meno, a dover affrontare grosse difficoltà. La seconda categoria di Comuni con problemi è quella formata dai Comuni rurali e delle valli, in particolare di quelli delle Valli superiori che, da decenni, conoscono una tendenza alla decadenza. Ridotta a poca cosa l’agricoltura, praticamente scomparsa l’industria, con un turismo di residenze secondarie che pure tende alla stagnazione, minacciati dalle conseguenze del cambiamento climatico e dalla ristrutturazione dei servizi delle aziende pubbliche federali, ora privatizzate, questi Comuni sembrano non avere che un avvenire di zone residenziali, almeno là dove il pendolarismo quotidiano verso

i posti di lavoro dei centri resta ancora possibile. Per favorire l’insediamento di nuova popolazione questi Comuni non hanno a disposizione che il fisco. Occorrerebbe che il Cantone, anche dal punto della politica fiscale, desse loro una mano. Infine, la terza categoria è quella formata dai Comuni suburbani e periurbani nei quali si sono concentrati, nel corso degli ultimi 60 anni, una parte importante della popolazione e, soprattutto, una larga proporzione dei posti di lavoro. Di conseguenza questi Comuni, pur dovendo affrontare importanti problemi legati allo sviluppo demografico e delle attività economiche, si trovano in una buona situazione economica e finanziaria. Possono, in generale, affrontare l’avvenire con tranquillità.

dato priorità agli americani – sono americane Pfizer, Johnson&Johnson, Moderna – rispetto al resto del mondo (ma noi europei cosa avremmo fatto al loro posto?). Resta il fatto che, senza le esasperazioni di Trump, Biden ha affrontato il tema dell’indipendenza produttiva e tecnologica degli Stati uniti e sta lavorando per continuare a riportare in patria pezzi di filiera industriale. Tutto questo cosa insegna a chi americano non è, ma dall’America non può prescindere? Che il centrismo non è morto. Che un leader e un Paese non sono costretti a scegliere tra gli estremisti del sovranismo, tipo Donald Trump e Steve Bannon ma anche Orban e Le Pen, e i radicali della vecchia o nuova sinistra, vedi Corbyn e Ocasio-Cortez. Che lo scontro, in un’America mai così polarizzata, può essere ricondotto alla dialettica tradizionale della politica e delle istituzioni. Inoltre dietro il volto di Biden traspare il dinamismo del sistema americano. Che ha retto all’impatto del trumpismo. Che ha dimostrato di avere anticorpi formidabili. Che conferma la propria forza inclusiva.

Per quale motivo, nonostante l’ascesa della Cina e dell’India, nonostante la spregiudicatezza dell’immensa Russia e delle autocrazie regionali, nonostante le potenzialità dell’Europa, se c’è una scoperta scientifica, un’innovazione tecnologica, una moda culturale – si pensi alla rivoluzione dell’entertainment con Netflix, Amazon, lo streaming – viene sempre e comunque dagli Stati uniti? Perché è un Paese attrattivo, dove gli stranieri colti e preparati trovano il modo di entrare ed essere valorizzati, dove le minoranze – nonostante gli insopportabili eccessi ideologici della cancel culture – possono dare il meglio di loro stesse. In una parola, perché l’America è una democrazia. E questa democrazia, dopo la stagione tormentata di Trump, ha saputo scegliersi un nuovo leader. Magari destinato a deludere, come quasi tutte le leadership politiche, in un tempo in cui la politica non sembra più contare molto e dà l’impressione di non incidere sulla realtà. Ma un leader che ha avuto senz’altro un avvio superiore alle aspettative.

differenza che non tornano più; il flusso dall’Italia si è interrotto, tranne nel caso dei frontalieri: probabilmente siamo di fronte ad un effetto di sostituzione che colpisce soprattutto le maestranze estere domiciliate. E comunque lo statuto del frontaliere sembra giovare ad entrambe le parti, sia agli imprenditori che ai lavoratori. Il quadro statistico non è sempre nitido, come spesso succede quanto si tratta di fissare sulla pellicola una realtà in continuo movimento. La tendenza al calo è comunque evidente (chi volesse conoscere i dati può consultare i materiali raccolti nel sito www.coscienzasvizzera.ch, come pure gli scritti di Elio Venturelli su «Azione»). Già sin d’ora sarebbe però utile chiedersi quali saranno gli effetti di queste curve discendenti. Tra qualche anno la piramide dell’età (oggi a dire il vero sempre più panciuta) diventerà simile ad un’anfora, se non addirittura ad un triangolo rovesciato. Più

o meno si riescono a prevedere le ripercussioni sul sistema previdenziale e assistenziale, sull’organizzazione socio-sanitaria, sulla pianificazione delle case di riposo. Ma come sarà vivere in un cantone «bianco per canuto pelo»? Quali le conseguenze per l’economia, la politica, la formazione, l’offerta culturale? La popolazione nella terza (o quarta) età è solitamente misoneista; diffida delle innovazioni e dei miracoli promessi dalle nuove tecnologie; preferisce conservare l’esistente piuttosto che gettarsi in avventure dall’esito incerto. Da qui un altro interrogativo: quanto è probabile la prospettiva di un Ticino senile nel corpo e nella mente, incapace di progettare il domani sullo slancio di energie fresche? Insomma, la materia di studio non manca. L’augurio è che le intelligenze collettive presenti sul territorio (USI-SUPSI, Accademia di Architettura, centri di competenza) contribuiscano ad allestire mappe utili a correggere la rotta.

In&outlet di aldo cazzullo Le sorprese di Biden e il centrismo che non muore L’ultimo tassello è il rilancio sul clima: gli Stati uniti rientrano negli accordi di Parigi, riprendono a collaborare con la comunità internazionale per combattere il riscaldamento del pianeta. Insomma, l’America ritorna nel consesso delle Nazioni, dopo i quattro anni un po’ folli di Donald Trump. E il merito è del nuovo presidente. Riconosciamolo: un po’ tutti noi europei abbiamo guardato a Joe Biden come a un attempato gaffeur, buono per battere un leader divisivo come Donald Trump, non certo per fondare una nuova stagione. Un uomo di transizione, tra Barack Obama e Kamala Harris. Nonostante questo – o forse proprio per questo – Biden ha avuto un avvio folgorante. Ovviamente può essere discusso. Non è detto che le cose che ha fatto siano tutte giuste, ma comunque impressiona la decisione con cui si è mosso. L’attenzione del mondo si è concentrata sul grande piano di rilancio dell’economia. Non si tratta di un cambio di rotta: già l’amministrazione repubblicana aveva messo mano alla borsa, anzi al bazooka. Quando c’è

da risalire la china, l’America non ha timore di fare debito. Tuttavia Biden ha impresso un’accelerazione notevole all’intervento dello Stato nella ripresa. E non è tutto qui. Lo sprint della campagna vaccinale. I toni duri con la Turchia di Erdogan, con la Cina di Xi Jinping con la Russia di Putin, definito addirittura «assassino». Il ritiro dall’Afghanistan, già impostato da Trump, ma reso definitivo da Biden non in un’ottica di disimpegno, di fuga dal resto del mondo, ma di dislocamento della forza là dove serve (gli Stati uniti non abbandoneranno né il Medio Oriente, né l’Ucraina pressata dai russi, né l’Africa dov’è sempre più invasiva la presenza cinese). E la proposta di un livello minimo di tassazione sulle imprese in tutti i Paesi dell’Ocse, per cancellare i paradisi fiscali, o almeno renderli meno accessibili. Ovviamente qualsiasi bilancio è prematuro. Questo però lo possiamo dire fin da ora: se il giovane Obama fu condizionato da una cautela che inevitabilmente finì per deludere molte delle aspettative suscitate dalla sua straordinaria vicenda personale, il

vecchio Biden – il presidente eletto più anziano della storia americana – si sta muovendo con una decisione che non tutti ci aspettavamo da lui, e che invano avevamo cercato in Obama. Al punto che viene spontaneo il paragone con un altro presidente considerato di transizione, non più giovane e assai navigato, che però ha impresso nella storia un segno più marcato del fascinoso John Kennedy: Lyndon Johnson. Qualcuno si è spinto a evocare papa Giovanni, annunciato come pontefice di passaggio, che invece cambiò la storia della Chiesa; ma qui il paragone appare eccessivo. Come si diceva un tempo: «Scherza con i fanti e lascia stare i santi». Poi, certo, quando si parla di America, la Nazione più potente della terra con un Terzo mondo di esclusione e di povertà in casa, emergono sempre gravi contraddizioni: si pensi alla questione razziale, sempre pronta a riaccendersi, e non solo nell’epicentro di Minneapolis; al problema del controllo delle armi; all’enorme potere accumulato dai padroni della Rete; o alla spietatezza con cui le multinazionali del farmaco, peraltro d’intesa con Biden, hanno

Cantoni e spigoli di orazio Martinetti Come sarà vivere nel Ticino canuto? È un vero peccato che le restrizioni imposte dalla pandemia abbiano azzoppato molte iniziative espositive. Qui si vorrebbe ricordare quella promossa dal Cantone, attraverso il programma «Cultura in movimento», un grappolo di manifestazioni legate al tema del viaggio e del paesaggio mirante, tra l’altro, a «mobilitare» sia le scuole che la cittadinanza. Il calendario contemplava tre mostre, allogate a Lugano, Locarno e Bellinzona. Palazzo Reali ha ospitato fino al 12 aprile le fotografie di Vincenzo Vicari, sotto il titolo «Il Ticino che cambia»; il Museo Casorella alcuni dipinti di artisti confederati e stranieri attivi nella regione nel secolo scorso («Occhi sul Ticino»), e infine Castelgrande ha omaggiato la tradizione fotografica cisalpina sviluppatasi dalla metà dell’Ottocento in poi («Il Ticino, i ticinesi e i loro fotografi»). Purtroppo le prime due hanno chiuso i battenti; solo la terza rimarrà aperta ai visitatori fino al prossimo 2 maggio.

Colpisce, di questa rassegna, la ricorrenza del termine «Ticino». Non siamo di fronte, crediamo, ad una ripresa del culto dei luoghi in un’ottica «cantonalnazionalistica», ma al sintomo di un disagio sempre più frequente, diffuso ma non facilmente definibile e identificabile. Uno stato d’animo annidato negli interstizi della società, ma anche nella psiche di ogni singolo individuo, alle prese con un quadro di riferimento caleidoscopico. Come sappiamo, il Ticino ha iniziato la sua corsa negli anni Sessanta del Novecento, un’accelerazione che non si è mai interrotta, anche se ha conosciuto momenti di stasi. Negli ultimi anni, l’orizzonte si è infittito di costruzioni, viadotti, gallerie, edifici di ogni foggia e funzione; si è fatto metropolitano, un organismo integrato e interconnesso, concentrato nel triangolo Locarno-BellinzonaLugano, con propaggini nel Mendrisiotto, a ridosso della «città infinita» lombarda. Nel frattempo anche la

popolazione ha cambiato pelle, i ticinesi di antico lignaggio (i «patrizi») sono diventati una minoranza all’interno di un consorzio umano sempre più multietnico, plurilingue e pluriconfessionale. Di qui l’ipotesi che andrebbe verificata tramite un’inchiesta d’ordine psico-sociologico: in che misura l’esperienza dello sradicamento dentro un paesaggio sempre meno riconoscibile ha modificato lo stare al mondo delle persone? Detto altrimenti: che significato ha preso l’abitare in un cantone che nel giro di pochi decenni ha assunto una fisionomia prettamente urbana, dopo secoli di ruralità? Ultimamente, all’allarme per il vecchio Ticino morente, travolto dai flutti del progresso, si è aggiunto un altro fattore ansiogeno: quello del declino demografico. I nostri principali centri perdono abitanti, molti giovani riprendono il treno per Zurigo come già avevano fatto i loro genitori per ragioni di studio e di lavoro, con la


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

AVVeNTURe IN BICICLeTTA

andare in bicicletta con le peso leggero crosswave prime rider è un gioco da bambini. Basta scegliere la giusta misura e infine il colore preferito Quando le temperature si alzano, anche ai bambini ritorna la voglia di andare in bicicletta. E farlo è più divertente se la bicicletta è della giusta dimensione e ben si adatta al bambino. Alcuni genitori si pongono allora delle domande: quando è il momento adatto per iniziare ad andare sulla due ruote? Come scegliere la

misura più idonea e quale attrezzatura è importante? Le rotelle sono utili oppure sono addirittura d’ostacolo? Di seguito le principali indicazioni di cui tenere conto e la presentazione di alcuni modelli, con le indicazioni di età e altezza per i quali sono adatti, affinché ogni scampagnata in bicicletta risulti un’avvincente avventura.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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CROSSWAVe PRIMe RIDeR

come scegliere la giusta bicicletta Qual è il momento in cui un bambino è pronto per andare in bicicletta?

16 pollici

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Appena il bambino ne esprime il desiderio. Di solito accade fra i tre e i quattro anni. Prima il bimbo può iniziare ad esercitare l’equilibrio con una bici senza pedali.

Le rotelle sono un aiuto? No, di solito le rotelle laterali sono controproducenti. Quando un bambino ha già pratica con una bici senza rotelle, spesso bastano pochi minuti affinché trovi il giusto equilibrio sulla bicicletta. Nel caso i pedali rappresentino un disturbo, nei primi giorni si possono svitare.

Freno a pedale o a mano?

20 pollici

altezza 110-130 cm, lunghezza del cavallo da 50 cm, età: ca. 5-7 anni, 9 kg, Fr. 399.–

Freno a mano. Perché prima o poi ogni bambino comincerà a utilizzare una bicicletta con i freni a mano. E anche perché alle prime esperienze il freno a contropedale risulta poco pratico. Le ruote anteriori e posteriori di tutti i modelli Prime Rider sono dotate di freni a V facili da azionare con leve a misura di bambino.

Quanto è importante il peso?

Foto zVg

Più la bicicletta è leggera, maggiore è il piacere nel suo utilizzo. Rispetto a modelli paragonabili di biciclette per bambini, le Prime Rider sono considerevolmente più leggere.

la giusta misura per ogni età: i modelli crosswave prime rider sono disponibili in tutte le filiali sportXX, su sportxx.ch o bikeworld.ch

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altezza 135-160 cm, lunghezza del cavallo da 60 cm, età: ca. 10-14 anni, 11,3 kg, Fr. 499.–

Come va regolata la bicicletta per bambini? Sulla bicicletta il bambino deve stare seduto in posizione relativamente eretta, in modo da avere una buona visione d’insieme. Dovrebbe inoltre poter toccare il suolo con entrambi i piedi. Ecco il motivo per cui è importante avere sufficiente margine per poter regolare sella e manubrio.


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Cultura e Spettacoli Royal holidays Al Museo nazionale di Svitto una mostra racconta le vacanze dei reali nel nostro Paese

Storie di povertà Vollmann ha realizzato un’affascinante e inquietante riflessione sulla povertà

Incontri e storie in emilia Romagna Intervista a Marco Belpoliti di cui Einaudi ha appena pubblicato l’ultimo lavoro, Pianura pagina 49

Dante e i suoi luoghi Giulio Ferroni ha ripercorso tutti i luoghi citati da Dante nella Commedia

pagina 47

pagina 43

pagina 51 Gerhard Richter, Ice, 1981. (collection ruth Mcloughlin, Monaco)

Paesaggi incantati Mostre Gerhard Richter al Kunsthaus di Zurigo

Gianluigi Bellei Ho scritto di Gerhard Richter su queste colonne nel 2012 in occasione della grande esposizione alla Neue Nationalgalerie di Berlino intitolata Panorama. Mostra organizzata per i suoi ottant’anni con 130 opere, selezionate assieme all’artista, che prima era stata presentata alla Tate Gallery di Londra per terminare al Centre Pompidou di Parigi. Ho accennato alla «crisi della memoria» nei confronti del nazismo. I Tedeschi dell’Ovest nel dopoguerra assumono un atteggiamento di oblio e quelli dell’Est, al contrario, ritengono di non essere coinvolti. Richter, dicevamo, sceglie di stare dalla parte dei vincitori; ma non nel dramma esistenziale dell’Informale bensì nel Pop di Rauschenberg. A Berlino viene esposto Oktober 18, dedicato alla vicenda Baader-Meinhof e alla «sete (auto)distruttiva delle nuove generazioni». Il miglior modo per entrare nelle opere di Richter è leggere il volume La pratica quotidiana della pittura a cura

di Hans Ulrich Obrist del 2003. Un libro pieno di interviste e, soprattutto, testi scritti dall’artista stesso sotto forma di note. Le opere di Richter sono modelli eterogenei e, scrive Obrist, occupano un punto in cui la «distinzione tra foto-realismo e astrazione si dissolve». «Sfoco le cose, scrive l’artista nel 1964, per renderle ugualmente importanti e ugualmente non importanti». Nel 1982 si scaglia contro il mondo dell’arte che «è un immenso covo di miserie, bugie, falsità, depravazione, squallore, stupidità, nonsenso, impudenza». Poi anche contro le scuole d’arte e le Accademie, dove gli artisti risiedono come parassiti; i professori con la loro imbecillità e incompetenza. Poi stigmatizza chi organizza le mostre definendoli mercanti di tappeti, magnaccia e paragonandoli ai politici, impotenti e inetti, nauseanti. Si definisce anti-ideologo e grida il suo profondo disgusto per coloro che «pretendono di possedere la verità». Infine afferma di brancolare nel dubbio umano. In questi giorni, e fino al 25 luglio,

il Kunsthaus di Zurigo espone 140 suoi paesaggi: 80 quadri con disegni, collage fotografici, fotografie pitturate, stampe e libri d’artista. I paesaggi sono una delle forme che Richter utilizza accanto alla figura umana. Tipico Emma. Nudo che scende le scale del 1966. Lavora sulle fotografie che utilizza per realizzare dei dipinti sfocati. Per lui, comunque, non c’è distinzione fra pittura astratta, monocroma, di figura, d’après, gestuale, iperrealista: dipinge tutto contemporaneamente. Nel 1986 scrive che «i miei paesaggi non sono belli o nostalgici, con la coda romantica o classica dei paradisi perduti, ma sono soprattutto bugiardi». E questo significa glorificare la natura perché essa è spesso contro di noi, senza un significato preciso, pietà o sensibilità. In un’intervista di Benjamin H.D. Buchloh del 1986 dice che «era attratto dalle città morte e dalle Alpi, in entrambi i casi si tratta di deserti di pietra, roba arida». L’esposizione zurighese è divisa in cinque sezioni. La prima si intitola Paesaggi di se-

conda mano. Richter non rappresenta paesaggi bensì fotografie di paesaggi, ritrovabili nei dettagli di ogni immagine. Splendido nella sua maestosità impressionante Cascata del 1997. In Casa nella foresta del 2004 oltre a una rigogliosa vegetazione in primo piano, nell’angolo destro quasi di sfuggita, troviamo l’edificio per il personale del celebre hotel di Sils Maria. Segue Innesti di ispirazione romantica. A volte le sue opere tendono al sublime o a qualcosa che possa assomigliargli. In catalogo si associa parte del suo lavoro al romanticismo, anche se lui lo ha sempre negato. In ogni caso lo scorcio del lago di Lucerna del 1969 ha qualcosa di particolarmente grandioso, come Vesuvio del 1976. La terza sezione è intitolata Paesaggi nell’astrazione e presenta dipinti che paiono astratti ma che in realtà non lo sono, con città viste dall’alto – che sembrano particolari del Plan de Turgot – palme, intrichi vegetali, parchi verdi o vertiginose alpi innevate. Segue Paesaggi come costrutti fitti-

zi dove la realtà non è più tale, né oggettiva, ma può essere un’altra cosa. L’ultima sezione è Paesaggi sopraverniciati dove i paesaggi vengono in parte coperti con del colore, raschiati o spatolati, magari con la racla tipografica, sempre però con una componente astratta e quindi spaesante, come negli scorci di Firenze. Magari, chissà, con una piccola forzatura teorica si possono associare questi ultimi dipinti all’idea relativa al periodo geologico odierno dell’antropocene dacché l’uomo, in questo caso la sua mano, condiziona la natura modificandola inserendo elementi, come il colore chimico, alieni al paesaggio. In ogni caso il risultato è ugualmente bello. Per ora… Dove e quando

Gerhard Richter. Paesaggio. A cura di Hubertus Butin e Cathérine Hug. Kunsthaus, Zurigo. Fino al 25 luglio 2021. Catalogo Hatje Cantz Verlag, D,E, CHF 48.–. www.kunsthaus.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Cultura e Spettacoli

HRH goes Swiss

Mostre I Reali hanno sempre amato la Svizzera, così come gli svizzeri amano i Reali Marinella Polli Die Royals kommen, l’accattivante mostra in corso al Forum Schweizer Geschichte di Schwytz (che fa parte del Museo Nazionale Svizzero), racconta di re e regine che negli ultimi due secoli ci hanno fatto visita. La curatrice Pia Schubiger, coadiuvata dallo storico e scrittore Michael van Orsouw (suo il libro Blaues Blut – Royale Geschichten aus der Schweiz), suddivide queste visite in ufficiali, di piacere o di esilio: dalla Regina Vittoria a Sissi, dall’imperatore Guglielmo II alla Regina Astrid. La rassegna è corredata da fotografie, documenti, articoli di giornali, diari, cartine, abiti, elmi e uniformi. Persino un pelo del cappello di pelliccia di leone di Hailé Selassié staccato dal bodyguard svizzero durante la visita dell’imperatore etiope. La Svizzera, luogo incantato

Ludwig II di Baviera, ad esempio, stregato dai nostri fiabeschi paesaggi, e in genere da fiabe, leggende, arte e teatro, in specie dal Guglielmo Tell di Schiller, visita il nostro Paese nel 1865 e nel 1881. La Regina Vittoria decide invece di passarvi del tempo nel 1868. Un soggiorno non ufficiale, il suo, ma da lei voluto in ricordo del consorte Principe Alberto che amava molto la Svizzera. La regina è in incognito, ma i preparativi di dignitari e diplomatici fervono già da due anni. Visita Lucerna, Rigi, Pilatus, il Furka, legge molto, scrive e dipinge acquerelli. Da noi sono molte le piazze, alberghi e battelli che portano il suo nome. Vittoria, notoriamente, non influenza solo letteratura e religione, ma anche moda e costume, e sulle sue tracce molti suoi concittadini, che prima si erano spinti sulle nostre montagne solo per viaggi di av-

Acquerelli della Regina Vittoria realizzati nella Svizzera Centrale nell’estate del 1868. (© Museo nazionale svizzero)

ventura o di scoperta, inaugureranno una nuova fase del dinamico turismo britannico. La Svizzera luogo di esilio

Louis-Napoléon Bonaparte, fuggito nel 1815 con la madre Hortense de Beauharnais, vive dapprima nel castello Arenenberg sul lago di Costanza. Per prepararsi alla carriera militare, frequenta poi la Scuola militare di Thun. Nel 1838, dopo il tentativo di colpo di stato contro il re francese, la Francia ne richiede l’estradizione e minaccia

l’attacco contro la Svizzera se questa si rifiuta. Per evitarlo, Bonaparte segue il consiglio di Henri Dufour, già suo istruttore, e lascia la Svizzera. L’importanza dei media

La mostra illustra anche l’importanza avuta da giornali e rotocalchi nella divulgazione virale delle notizie riguardanti questi viaggi. Per esempio, benché Sissi, ovvero Elisabetta Imperatrice d’Austria e d’Ungheria, nel 1898 si trovi a Ginevra in incognito, tutti i giornali ne sono al corrente, e

quando il 10 settembre l’imperatrice lascia l’Hotel Beau Rivage e sul Quai du Mont Blanc viene assassinata dall’anarchico Luigi Licheni, la notizia fa il giro del mondo. Molti accusano la Svizzera di essere troppo liberale nei confronti degli anarchici, per cui si deciderà di estradarne 36. Di grande impatto anche la visita, nel 1912, di Guglielmo II, Imperatore di Germania e Re di Prussia, il quale vuole garantirsi l’egemonia politica anche controllando che la Svizzera sia davvero neutrale. Manovre hanno luogo a Kirchberg/SG e Gugliel-

mo II viene omaggiato da centinaia di persone anche a Zurigo e a Berna. Ad eccezione dei giornali dei lavoratori e della stampa romanda, le reazioni sono positive. Altro evento mediatico è la tragica morte di Astrid del Belgio a Küssnacht am Rigi. Nell’estate del 1935 la notizia che l’auto della giovane regina va a sbattere contro un albero si divulga in un baleno anche grazie a Willy Rogg che vende alla Associated Press di Londra le foto scattate sul luogo dell’incidente. Come la principessa Diana, anche Astrid diventa un mito, al punto che nei pressi di Küssnacht viene eretta una cappella in suo ricordo, oggi meta obbligata per i turisti belgi. A Svitto sono attesi molti visitatori, e non solo le scuole del cantone, per le quali sono previste visite guidate lungo un percorso cronologico e tematico. Tutti potranno inoltre sedersi sul trono dei desideri, con tanto di scettro e corona. Malgrado queste abbiano perso molto peso negli ultimi secoli, un Paese democratico come il nostro senza teste coronate ne subisce sempre il fascino. Ciò è forse dovuto proprio al fatto che non abbiamo una tradizione monarchica, insomma che, come ci diceva divertito un amico inglese, «non ne avete in casa». E invece ne abbiamo, eccome. Ce lo dice anche l’esposizione svittese: per esempio lo «Schwingerkönig» della lotta svizzera e la pattinatrice artistica Denise Biellmann, la Principessa sul ghiaccio. Dove e quando

Die Royals kommen, Svitto, Forum Schweizer Geschichte Schwyz (Zeughausstrasse 5), orari: ma-do 10.0017.00; lu chiuso. Fino al 3 ottobre 2021. forumschwyz.ch

Non accadeva nulla anche se accadeva tutto Narrativa In Carambole, romanzo dello svizzero Jens Steiner, una serie di esistenze strane e insolite Luigi Forte Non l’alienazione e il caos delle grandi metropoli, ma il vuoto e il torpore di un anonimo paesino svizzero diventa la problematica cifra dell’esistenza in Carambole. Un romanzo in 12 round dello svizzero Jens Steiner, uscito nel 2013 ed ora proposto dalla casa editrice Scritturapura nell’ottima versione di Massimo Bonifazio. Steiner, nato a Zurigo nel 1975, a suo tempo insegnante e lettore, si era fatto conoscere due anni prima con Hasenleben (Vita di lepre), la drammatica storia di una giovane donna con due figlioli, alla ricerca di stabilità e sicurezza che la vita le preclude. Ora il ritratto di un mondo senza speranza, afflosciato fra gesti e rituali esangui in cui il futuro sembra inseguire il passato, assume una dimensione corale. Steiner scava nell’infelicità anche se tra i suoi protagonisti ci sono Igor, Fred e Manu, tre adolescenti alla fine dell’anno scolastico che s’aggirano con occhi curiosi e tanta voglia di dare un senso alle loro giornate. Cercano d’inventarsi un salto vigoroso dentro l’esistenza ascoltando le storie di Schorsch con la sua aria da spirito dei boschi e un «sorriso nodoso», che parla della Corsica e dei banditi di laggiù, mentre trotterella verso il fienile dove nutre i gatti randagi o sentenzia come il peggiore dei nichilisti: «Rallegratevi della vostra stoltezza – dice ai ragazzi –, perché dietro di essa c’è l’infelicità che vi aspetta. E dietro l’infelicità non c’è più niente». Ma a loro basta poco, girellando fra quelle quattro case o immaginando, come Fred, la

compagna Renate, magari distesa sulla sdraio in bikini, una bomba che «fa tic tac» e di lì a poco verrà catapultata via disegnando un arco in aria e lui allora la prenderà, mentre il suo sguardo vaga nel giardino del signor Freysinger e gli amici gli si accodano in questa fantasia erotica e surreale. In tutto il romanzo vibra la sensazione di un’esistenza pronta a deflagrare, l’attesa di un mutamento repentino, la prospettiva di un orizzonte oltre il confine quotidiano. È un tuono improvviso, l’esplosione di un serbatoio del gas nella fabbrica del paese che disegna in cielo un fungo di fumo nero e ritorna a più riprese nel racconto come un leitmotiv: il segnale della vita che si azzera, forse per ricominciare. Ammesso che prima o poi un inizio ci sia, perché nelle pagine di Steiner tutto sembra confondersi fra le ombre quotidiane. Non è un caso che il suo racconto proceda avanti e indietro,

e gli stessi fatti siano colti da prospettive diverse e amplificate a seconda dei personaggi. È quest’epica del quotidiano con una buona dose di stimolanti riflessioni che coinvolge il lettore fin dall’inizio in una carrellata di improbabili personaggi. Come Heinz, detto il nano, il coboldo, un garzone senza lavoro che vive in una tenda su un prato del comune, e di giorno si aggira qua e là e talvolta si fa vivo nella birreria da Hirscheneck, dove gli habitué ripetono le stesse storie all’infinito. Come quella dei due fratelli che dopo l’incidente mortale dei genitori si «presero a cornate» per l’eredità. La meglio ce l’ebbe quello che, come il vecchio padre, intrecciava e vendeva ceste, che all’improvviso si trovò accanto una giramondo, Marisa, figura un po’ fiabesca arrivata dal niente, in scarponcini, jeans e maglietta batik. Un amore strambo e improvviso che un bel giorno riprese il suo zaino e sparì.

Con Carambole Steiner ha vinto il Premio svizzero del libro. (Wikipedia)

Certo in quel borgo la felicità non è proprio di casa. Anche Edgar e sua moglie, i genitori di Renate, non riescono a creare un equilibrio familiare: lui va a piangere nel capanno degli attrezzi e lei si chiede, in preda alla disperazione: «Ma qual è la forza che ci strappa gli uni dagli altri?». E poi c’è chi scava una buca in giardino per costruire una piscina cercando di evitare la propria moglie e di non pensare ai suoi due figli, il maschio che combina poco, e la ragazza senza diploma, nessun marito e tre marmocchi. C’è solo da augurarsi che quei colpi di pala portino alla luce una scintilla di felicità, scoprendo nel profondo l’altro suo Io in cui infilarsi «come in una tuta da supereroe». Forse il mondo è meglio vederlo attraverso il telescopio, come fa il giovane sulla sedia a rotelle, per verificare se tutti i pezzi del presente sono ancora disponibili. Laggiù c’è Hirschenbeck e il negozio della signora Munzinger, la fontana e i tigli. Questo è il giusto involucro della sua vita dopo il terribile incidente d’un tempo. La terapia migliore è proprio la distanza, e ne sanno qualcosa i tre membri della troika, Ricardo, Giorgio e Gustavo, che mangiano e bevono in una loggia vetrata sul tetto di una casa, pensando ai loro nemici più intimi: il passato, il presente e il futuro. Gustavo è un paleontologo appassionato di Epitteto, mentre Ricardo un tempo curava una coltivazione biologica, ma ora lavora in una segheria e continua a leggere e a citare Gramsci, così come Giorgio ama raccontare storie di Capraia e del pescatore che partiva ogni volta «convinto

di non tornare». Del resto, è difficile attraversare il turbinio dell’esistenza senza mai provare un impulso di fuga. Loro lo proiettano nel gioco del «carrom», che viene dall’India e che Ricardo chiama Carambole. Su una tavola da gioco si spingono con una piccola pedina rotonda altre pedine in alcuni buchi posti agli angoli. Una serie di mosse come i round del romanzo che non garantiscono alcuna certezza e meno che mai una vittoria, perché a volte la pedina giusta, guarda caso, è proprio quella sbagliata. Jens Steiner ha oscurato il futuro nel suo romanzo e sembra condividere l’opinione di Schorsch che quello non sia un paese, bensì una prateria. «Siamo andati tutti via da tanto tempo. Non ci siamo più», dice in preda a un raptus quello strambo affabulatore di strada che finirà misteriosamente i suoi giorni nel fienile dei suoi gatti. Singolare romanzo Carambole, tra il conte philosophique e un realismo nutrito di figure sorprendenti e disilluse, preda del vuoto e in attesa che qualcosa accada. Ecco la segreta speranza che in un pomeriggio estivo attraversa il paese che non vuol perdere la propria anima né incepparsi in un presente indesiderato. E l’enigma è in quel finale che rimbalza su sé stesso: «Non accadeva nulla. Accadeva tutto». Bibliografia

Jens Steiner, Carambole. Un romanzo in 12 round, traduzione di Massimo Bonifazio, Scritturapura, 2020, p. 145, € 16.–.


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Cultura e Spettacoli

A ogni età il suo divieto

Musica Il direttore d’orchestra e compositore russo Roždestvenskij non ebbe vita facile per quanto riguardava

la sua libertà di movimento

Giovanni Gavazzeni Si dice che Stalin parlò una sola volta di musica nelle sue apparizioni nell’expalco degli zar al Teatro Bol’šoj di Mosca. Dopo il primo atto dell’opera Ivan Susanin di Glinka (Una vita per lo zar riscritta secondo i dettami realisticosocialisti dal poeta ex-simbolista Sergej Gorodetskij), Stalin convocò il direttore d’orchestra Sumuel Samossoud. «Mi è piaciuto tutto, ma nel primo atto mancano bemolli. Inserite bemolli». «Grazie del suggerimento, Iosif Vissarionovič», rispose il conterraneo georgiano Samossoud, «provvedo subito. Ma bisognerà prolungare l’intervallo». «Perché?» «Per spiegare all’orchestra che dobbiamo inserire i bemolli». «Bene, fatelo subito; non ho tempo da perdere». «Al secondo atto tutto era a posto. La quantità voluta di bemolli aveva fatto la sua apparizione! Tutti erano contenti», commenta con ironia gogoliana il maestro Gennadij Roždestvenskij (1931-2018 – cognome impronunciabile per gli italofoni che potremmo tradurre con «Di Natale») nelle conversazioni-autobiografia per temi Les bémols de Staline (Fayard, pp. 333, € 24). Bruno Monsaingeon l’ha realizzata con materiale accumulato in ben quattro splendidi documentari (visibili sul sito di www.medici.tv) dedicati alla figura a un tempo colta-istrionica-riservata del grande direttore russo dall’insaziabile curiosità.

Viandante musicale e sostenitore di compositori umiliati dal regime (Alfred Schnittke, Sofiya Gubajdulina, Edison Denisov), formatore di orchestre e docente insuperabile, accompagnatore prediletto di David Ojstrach e Mistislav Rostropovič (cui tentò di dare consigli per dirigere meglio), riesumatore di capolavori dimenticati come il Naso di Šostakóvič, come tutti i balletti, le sinfonie e le cantate di Prokof’ev, padre e marito di insigne violinista (Sasha) e pianista (Viktoria Postnikova). La vita di Roždestvenskij («la rifarei con poche correzioni») sintetizza quello che Monsaingeon chiama l’affascinante paradosso dell’Unione Sovietica: «in un contesto di estrema difficoltà, di terrore, si è sviluppata una delle vite musicali più intense e ricche del Ventesimo secolo. Compositori maggiori, interpreti immensi hanno offerto i loro talenti per sessant’anni in situazioni di pericolo e precarietà quasi surreali, sempre estreme». E con la paura, il grottesco. Non si potevano ottenere visto e passaporto se non si aveva concordato il programma con la Commissione Programmi. Per un’esecuzione della Missa Solemnis di Beethoven a Sofia, raggiunto per telefono da una funzionaria, Roždestvenskij le fece leggere la lista alfabetica degli autori graditi. Dopo ben mezz’ora, arrivato al nome del compositore kazako Rakhmadiev, scelse un pezzo che sapeva durare 5 minuti, Festa al villaggio.

Gioia della funzionaria: «E dire che mi avevano messo in guardia! Si dice che siate una persona scomoda, che crea problemi dappertutto, che rifiuta tutto quello che gli si chiede. E invece avete deciso così velocemente!». Poi la funzionaria domandò in quale posizione avrebbe eseguito Rakhmadiev. «Dove volete, anche in mezzo!». Telegrafarono a Sofia che insistevo per aggiungere la Missa Solemnis a Festa al villaggio. L’incompetenza musicale dell’apparato gli consentì di comunicare alla Commissione che avrebbe eseguito il ventunesimo concerto per contrabbasso di Beethoven o l’ouverture per la festa del lavoro di Debussy. A ogni età il suo divieto: da studente era impossibile trovare una partitura di un musicista «formalista» (i massimi: Šostakóvič, Prokof’ev, Miaskovskij, Chačaturjan); dopo il Disgelo non si poteva eseguire quanto il boiardo dell’Unione dei Compositori Tichon Nikolaevič Chrennikov (un incrocio russo «fra Tayllerand e Fouché») non gradiva: «non posso autorizzare quello che non ho vietato». Eppure in quell’Arcipelago Gulag, il maestro «Di Natale» riuscì a crearsi una propria libertà nelle profondità interiori. Libertà intellettuale valida sempre, perché «la violenza mostruosa che ci circonda riveste numerose forme. Quella del potere è una violenza ufficiale che reclama un’ideologia pretendente fondamenti e giustificazioni».

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Cultura e Spettacoli

Quattro dollari al giorno

editoria Lo scrittore statunitense William T. Vollmann attraverso la sua inchiesta cerca di rispondere

a una lunga serie di domande scomode e annose, poiché di difficile risposta Roberto Falconi Quattro dollari al giorno. È questa la soglia fissata dalle Nazioni Unite per stabilire la povertà di un individuo. Basta davvero questo numero? Sunee vive in Thailandia, fa la donna delle pulizie e guadagna tre dollari e cinquantasei centesimi al giorno. È dunque povera. Ma sua madre, che conduce più o meno la stessa vita, può essere considerata meno povera solo perché ha in casa qualche elettrodomestico? E il pescatore di tonni yemenita che sostiene di non avere bisogno di nulla e si dichiara felice? È povero anche lui? Più o meno di Sunee? Come reagire di fronte a poveri che spiegano la propria condizione riferendosi al karma o ad Allah, se non al fatto che i soldi vanno dove vogliono loro? E come la mettiamo con Montaigne, per il quale vivere con la paura di diventare poveri spesso equivale a vivere con maggiore angoscia degli stessi poveri? È per tentare una risposta a queste domande che William Vollmann è partito per un viaggio che l’ha portato dalle Filippine al Messico, dal Kenya alla Russia, per incontrare poveri ai quali chiedere essenzialmente due cose: perché sei povero? perché alcuni sono ricchi e alcuni sono poveri? Il risultato è un libro po(n)deroso uscito nel 2007 (ora disponibile anche in italiano grazie alla traduzione approntata da Cristiana Mennella), la cui caratteristica principale risiede nella dialettica, va-

riamente declinata, tra ricerca di senso e ammissione di uno scacco conoscitivo attorno al motivo della povertà. Ad apparire opaca è anzitutto la posizione dello stesso Vollmann, personaggio e scrittore. È lui a incontrare i poveri e a scegliere la forma dell’intervista, pagandoli perché si raccontino, proprio per evitare l’illusione di una simbiosi comunque impossibile con un mondo cui si può guardare con empatia solo, paradossalmente, affermandone l’alterità. Non a caso il libro è dedicato alle indispensabili figure degli interpreti, quasi che l’autore volesse sottolineare la distanza incolmabile che lo separa dai destini degli intervistati, evitando dunque il limite del volume che Agee ed Evans dedicarono ai poveri della Grande Depressione. Poi c’è il Vollmann scrittore, che si interroga incessantemente sulle possibilità etiche ed estetiche di raccontare una materia così incandescente, dando vita a un testo ibrido, tra inchiesta giornalistica, saggio e racconto, in cui i discorsi diretti (liberi) dei poveri si mescolano alle osservazioni autoriali. Soprattutto, si tratta di un libro che, pur presentando delle linee interne di continuità, appare fortemente destrutturato. Un racconto scandito in capitoli, sfaccettato e plurale senza tuttavia riuscire a farsi collettivo, proprio a mimare la difficoltà (l’impossibilità?) di una definizione univoca della povertà, ma nel quale tornano a volte gli stessi personaggi (Sunee è spesso la pietra di paragone per descri-

Molti sono i volti della povertà. (shutterstock)

vere la condizione di altri poveri). Allo stesso modo, all’instancabile indagine condotta corrisponde la pluralità di paratesti sostanzialmente autonomi benché in fitto dialogo tra loro: la tabella delle entrate, le note al testo, le (asistematiche) fonti bibliografiche, fino, soprattutto, al ricco apparato di 128 fo-

tografie scattate dallo stesso Vollmann alle persone incontrate. Materiali che possono essere percorsi autonomamente, tanto da fare de I poveri, in fondo, più libri in uno. Le teorie (in larga parte marxiste) affermate e le dimensioni riconosciute dalle Nazioni Unite (vita breve, analfa-

betismo, esclusione, mancanza di strumenti materiali) appaiono allo scrittore sostanzialmente insufficienti per risolvere la povertà («Come viene calcolato l’indice di povertà umana? Lasciamo perdere. Non renderà i poveri più ricchi»), tanto da rendere necessaria la creazione di altre categorie: invisibilità (i disperati della metropolitana di Budapest), deformità (il vecchio senza braccia al passaggio pedonale di Bangkok), indesiderabilità (i poveri sono preziosi solo in caso di necessità immediate, come le guerre, poi di nuovo respinti ai margini), dipendenza, vulnerabilità (la prostituta australiana che tossisce accovacciata sul portone umido dove ha dormito), dolore, torpore (spesso l’unica strategia per sopravvivere), separazione (da cui le proverbiali «guerre tra poveri»). Vollmann destruttura anche il tempo (che procede con andate e ritorni continui, dal 1992 al 2005) e lo spazio, anche se il libro delinea una sorta di ideale ritorno a casa dell’autore dopo tanto peregrinare: a Sacramento ritrova i poveri che vivono nel parcheggio del suo studio e con i quali, benché incutano paura e vengano pertanto tenuti fuori da una robusta porta blindata, è possibile instaurare un rapporto di umana solidarietà. Bibliografia

William T. Vollmann, I poveri, Roma, minimum fax, 2020. annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Raccontare la Pianura Intervista Esce da Einaudi l’ultimo libro di Marco Belpoliti,

un viaggio letterario attraverso l’Emilia Romagna e la sua storia Alessandro Zanoli Uno scrittore che decide oggi di scrivere a proposito della Pianura padana sembra non possa prescindere dall’esperienza di Gianni Celati, dalle sue esplorazioni tra paesaggio e scrittura, dai suoi film... In Pianura invece lei dà un profilo diverso, direi più «letterario», alla pianura Padana. Marco Belpoliti, come ha scelto le tappe del suo «viaggio» tra Milano e Ravenna?

I libri dedicati da Celati alla pianura padana, Narratori delle pianure e Verso la foce, sono racconti; il primo una raccolta di novelle e il secondo un diario di esplorazione di quel territorio. Il mio libro è piuttosto una esplorazione nel tempo, oltre che nello spazio, e se la dimensione del racconto è ben presente, tuttavia narra storie di persone esistite nel passato ed esistenti nel presente. Per lo più sono miei amici. Questa dimensione amicale è uno dei tratti più evidenti del libro. In questo modo rispondo alla domanda che mi pone: ho viaggiato seguendo le storie della mia vita, dei miei rapporti con amici che hanno un posto particolare nella mia esistenza, passata e presente. Di alcune sono più amico, di altre meno, ma la differenza non ha molta importanza. Sono tutti «personaggi» di un viaggio nel tempo e nello spazio, come ho detto. Le tappe sono venute fuori così, viaggiando all’indietro con la memoria e andando ora a trovare queste persone nel presente. Ad esempio, il breve viaggio a Campiano, vicino a Ravenna, era per vedere la casa e il luogo natale di Ermanna Montanari, attrice del Teatro delle Albe. Un luogo di cui abbiamo parlato per decenni tra noi due, ma che, nonostante i viaggi ripetuti nel corso di oltre trent’anni a Ravenna, non avevo mai visitato. Poi Ermanna qualche anno fa ha scritto un libro, Miniature campianesi, che avevo letto man mano che lo scriveva in parallelo con Celati, altro suo amico. Allora non ho potuto più rimandare quel viaggio. Nel libro è raccontato in un capitolo insieme a Ermanna stessa. C’è quindi anche una casualità, un lasciarsi andare a quello che capita in queste esplorazioni, sia che avvengano nella memoria che nella realtà quotidiana.

L’autore esplora la regione italiana sulle tracce di amici, di letture o di esperienze vissute negli anni Una cosa affascinante nella sua scelta è il riferimento all’eredità «visiva» lasciata da Luigi Ghirri, che è riassunta in modo splendido nella copertina del suo libro.

L’immagine di copertina del libro raffigura un’edicola della Madonna e a fianco un albero. L’ho scelta, come racconto nel libro, guardando sullo schermo di un computer a casa di Ghirri le fotografie che lui ha scattato nei suoi ultimi giorni di vita. L’ultimo rullino. Me lo hanno mostrato Daniele, il suo assistente, un fotografo lui stesso, e Maria, che insieme ad Adele, la figlia di Luigi, custodiscono fisicamente l’eredità di Luigi. Ora quell’edicola nella nebbia è simile a quella che mia nonna paterna riempiva di fiori soprattutto a maggio. Era credente e insieme votava per il Partito Comunista. La mia famiglia era una famiglia di socialisti e poi di comunisti dopo la fine della Resistenza e la guerra mondiale. Perciò quando ho visto quella foto sullo schermo del computer a casa Ghirri ho pensato: è questa. Poi c’è la nebbia, che

è quanto di più padano ci sia. Una dimensione misteriosa, inafferrabile, che sfuma le cose e ci fa immaginare cosa c’è lì davanti. Non vedi bene più nulla, brancoli nel nebbione, a piedi o in auto, non importa. Questo ti fa «vedere» di più, ti fa immaginare. La dimensione del mistero, che è quello della vita, dello smarrimento, del desiderio di guardare… Insomma la realtà della Pianura è questa. Chi è Ghirri per me? Uno che ti fa vedere quello che c’è, anche se lo hai già visto un milione di volte. Fa vedere e insieme immaginare. E poi agisce con la memoria, con i ricordi del luogo, le mille volte che sei stato nella nebbia o hai attraversato un campo o una distesa coltivata o hai guardato una casa colonica abbandonata: visione, immaginazione e memoria.

Pianura è costruito narrativamente su un dialogo con un personaggio che si capisce esserle molto caro. Si può dire chi è questa persona? Al di là di questo accorgimento, la forma dialogica sembra riecheggiare la familiarità con cui lei tratta i vari autori di cui si occupa, personalità esemplari sorte sul territorio naturalculturale dell’emilia che lei sente molto vicine alla sua sensibilità. Da Opicino a Giovanni Lindo Ferretti, da Tondelli a Delfini, qual è il filo che lega i personaggi esemplari da lei scelti?

La persona esiste; è un amico, un mio compaesano, uno come me, della mia età, che fa un mestiere diverso dal mio, con cui ho condiviso varie cose nel presente come nel passato: uno spirito guida. Naturalmente è anche un tu immaginario. Gli ho attribuito cose che forse non sono sue, mi sono servito di lui per imbastire questo dialogo io-tu. Un personaggio letterario. Lui ha letto il libro una volta stampato e mi ha detto: buona cosa essere stato per te un motivo letterario. Ha capito che era un personaggio. Sul suo nome mantengo il segreto, non perché non voglia dirlo, perché è lui e insieme non è lui. Chi lo conosce lo ha anche riconosciuto. Ma poi ha capito che era anche una invenzione narrativa. Ha ragione, l’aspetto dialogico è quello prevalente in Pianura, il dialogo con gli altri è una delle caratteristiche della mia esperienza. Ho rubato qualcosa a tutti, anche a Opicino de’ Canistris, che è vissuto nel 1300. Uno scrittore è un ladro di vite, non di tutta la vita degli altri, ma di quello che gli serve per scrivere. I personaggi del libro sono tutti abitanti della pianura, anche se sono nati altrove, poi sono amici, o persone con cui ho avuto una relazione di amicizia e con cui continuo a essere amico, anche se non sono più vivi. C’è un altro suo libro che ho trovato molto interessante perché in modo analogo, anche se con un taglio analitico del tutto diverso, coniuga letteratura e storia sociale italiana. Settanta è un volume, vorrei dire, che molti della mia generazione, formatisi in quegli anni, dovrebbero conoscere, per riuscire a trarre una sintesi di quel periodo che lei chiama «decennio lungo all’interno del secolo breve». In quel libro vengono convogliati i risultati di molte delle sue ricerche letterarie, su Calvino, Sciascia, Piovene, Pasolini, eco e altri. Trovo molto significativo in particolare il suo segnalare la frattura fondamentale nella storia italiana data dall’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il libro viene costantemente aggiornato e ristampato, e ciò sembra proprio significare che suscita un interesse particolare. Se lo aspettava?

Settanta è un saggio e insieme un romanzo: sono le storie di un lungo decennio che comincia nel 1968 e finisce

nel 1978, con qualche salto nel passato, e anche nel futuro. Romanzo perché sono racconti di scrittori e di libri, delle loro relazioni. Il libro è stato scritto in oltre un decennio, a conclusione di una ricerca e di un ripensamento che durava da almeno tre decenni. Scritto quasi di getto, un capitolo dopo l’altro usando materiali che avevo accumulato; anche parti già scritte – non molte, ma ci sono – anni prima: articoli, appunti, riflessioni. L’antefatto sta nel 1978: l’uccisione di Moro, per cui avevo subito scritto delle pagine mai pubblicate destinate a una rivista. Le cose per me maturano lentamente, anche se poi non si può dire che non sia rapido a scrivere. C’era un testo pubblicato in una rivista d’arte diretta da Elio Grazioli, «Ipso facto». Era diviso in due parti: una dedicata alla lettura delle foto di Moro scattate dai brigatisti e un’altra che analizzava opere di artisti contemporanei dedicate al delitto Moro. Negli anni Novanta con Elio ho cominciato a fare una rivista-libro, «Riga». Ho riscritto varie volte il saggio sulle foto, che è uscito da Nottetempo: è un piccolo libretto sulle immagini che mi avevano colpito nel 1978 e di cui nessuno parlava in termini di oggetti di studio. Poi il lavoro ha avuto vari cambiamenti ed è uscito da Guanda fino alla pubblicazione qualche anno fa di Da quella prigione che contiene il saggio iniziale, poi altri brevi scritti sul tema delle polaroid: Moro, le Brigate Rosse e Andy Warhol. Settanta non è

Nato a Reggio Emilia, è scrittore, giornalista, critico letterario. (vimeo)

più aggiornato da un bel po’, ma continua ad avere lettori. Non avevo previsto nulla, impossibile dire se un libro sarà letto oppure no, se avrà un peso nella letteratura o negli studi letterari. Non ero consapevole di nulla.

La sua attività letteraria, osservata oggi, è davvero di grande impegno e respiro. Colpisce la sua attenzione parallela rivolta sia all’ambito letterario, sia alle arti figurative. In Pianura quest’attitudine è evidente, con i capitoli dedicati a Opicino e Ghirri. L’esempio però ancora più chiaro di questo interesse sta appunto nella già citata rivista «Riga», che mi sembra starle particolarmente a cuore: nell’epoca di Facebook c’è ancora spazio per una rivista letteraria così «anni Settanta»?

Non definirei «Riga» un libro-rivista «anni Settanta». Si tratta di volumi monografici su un tema, o anche su un autore. I lettori ci sono, anche se non numerosissimi. Ogni volume avrà venduto nel corso del tempo non più di 1500-2500 copie, ma sono quasi tutti esauriti. Lo hanno comperato e letto gli studiosi di un dato tema o autore, i

curiosi, gli specialisti, gli studenti dei corsi di laurea che hanno adottato il volume. I social sono un’altra cosa, un altro regno, parallelo e forse confinante, oppure no. Del resto Facebook, come dice mia figlia, è il web dei vecchi; i giovani preferiscono Instagram, che è composto di immagini. Oggi le immagini dominano su tutto. Ma era già così in passato: si pensi alla Bibbia dei poveri, ossia le pitture sui muri delle chiese, i quadri di santi e Madonne. C’è sempre stata più gente che guarda che gente che legge. Oggi ci sono tante nicchie, tanti frammenti di un quadro che non si ricompone più in un unico spazio. Neppure il web copre tutto, qualcosa sfugge sempre. Il mondo è diventato molecolare e la teoria più adatta a definirlo o a capirlo è quella della fisica quantistica, di cui la maggior parte di noi capisce ben poco, come la teologia nel Medioevo. La fisica dei quanti ha preso il posto della Summa Teologica di San Tommaso. Tutti fanno segno di sì col capo, ma la maggior parte non ne comprende molto. Non era forse così con la teologia medievale che studiamo ancora oggi? annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 aprile 2021 • N. 17

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Cultura e Spettacoli

Peregrinazioni nell’Italia di Dante

La lenta ripresa dei teatri

Letteratura Il diario di viaggio di Giulio Ferroni nei luoghi della Commedia

In scena Timidi

segnali qua e là annunciano un ritorno

Pietro Montorfani «Poeta del mondo terreno» era, per il filologo tedesco Erich Auerbach, l’autore della Commedia («divina» in una successiva aggiunta di Giovanni Boccaccio). Ne sa qualcosa Giulio Ferroni che per ripercorrere tutti i luoghi d’Italia citati nel poema ultraterreno ha impiegato tre anni assai terreni, in un viaggio molto concreto e molto fisico, come è la poesia di Dante. Mosso da una lontana passione giovanile per la geografia, un vasto appetito di baudelairiana memoria («Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes, / l’univers est égal à son vaste appétit», Le voyage), Ferroni ha dovuto attendere la conclusione della sua lunga carriera professionale presso l’Università «La Sapienza» di Roma per poter finalmente dare corpo – è il caso di dirlo – a questo sogno, sostenuto e promosso dalla Società Dante Alighieri a ridosso del settimo centenario dalla morte del poeta. Messi in fila tutti i toponomi della Commedia e organizzati per grandi aree geografiche, da sud a nord, da est a ovest dello Stivale, e in alcuni casi persino oltre, l’autore li infila tutti uno per uno in una sorta di grande diario di viaggio che potrebbe essere un perfetto Baedeker dell’Italia del 2021, non fosse per la mole del libro decisamente imponente, oltre 1200 pagine, non adatto quindi a essere trasportato in un tascapane (ma già si annunciano prodotti digitali costruiti con i medesimi contenuti). L’intenzione era innanzitutto quella di verificare la consistenza di questi luoghi, la loro sopravvivenza nel tempo, la loro valenza culturale e naturalistica, spesso ancora molto presente nonostante la distanza intercorsa dai tempi di Dante: si leggano ad esempio i paragrafi dedicati alla Pietra di Bismantova (citata nel IV canto del Purgatorio) o alla Cascata dell’Acquacheta («Come quel fiume c’ha proprio cammino / prima dal Monte Viso ’ nver’ levante», Inf XVI), due luoghi tra gli altri che hanno lasciato il segno nel pellegrino di oggi. Che l’operazione sia al contempo

Forse, finalmente, in fondo al tunnel c’è una luce. Sfogliando gli scarni programmi dei luoghi preposti all’aggregazione culturale, ossia teatri, cinema e sale da concerto, troviamo alcuni timidi segnali di ripresa che ci fanno ben sperare. Si ricomincia a cercare di organizzare un settore come quello artistico-culturale, colpito in modo particolarmente duro dalla pandemia. Dopo Emanuele Santoro, che ha omaggiato Giorgio Gaber con Dimenticando Gaber (il 27-28 aprile sarà al Foce con Caligola(S)Concerto) e la commedia assurda In alto mare (andati in scena al Teatro del Gatto di Ascona) e la presentazione da parte di Markus Zohner del suo Totentanz (al Foce di Lugano), anche il Teatro Sociale di Bellinzona riapre i battenti martedì 27 aprile (ore 20.45) con una versione aggiornata de Il dolore di Marguerite Duras. La Pietra di Bismantova, fra i luoghi citati da Dante, si trova nell’Appennino reggiano. (Wikipedia)

molto razionale, perché condotta con il rigore e il metodo di uno studioso, e molto personale, con le movenze più tipiche di un lettore appassionato, traspare già dalla prima tappa, un luogo non immediatamente dantesco come Napoli, eppure così legato alla struttura stessa del poema: tradizione vuole infatti che nella città partenopea sia stato seppellito Virgilio, nel cui segno, dopo quelli di Maria e Beatrice, si iscrive il grande viaggio. Alla prima guida di Dante anche Giulio Ferroni ha voluto dunque affidarsi, per poi procedere verso Roma, Firenze, l’Umbria e le Marche e, attraverso l’Appennino tosco-emiliano, scendere verso l’Adriatico e tornare di nuovo sul Tirreno, senza dimenticare Sicilia e Sardegna, luoghi nei quali Dante non fu mai, ma che pure facevano parte della sua geografia mentale («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, / fin nel Morocco, e l’isola d’i Sardi», nelle parole del viaggiatore Ulisse, nel XXVI canto dell’Inferno). Non ho voluto contarle, ma ho il

sospetto che se rimontassimo tutte le citazioni in esergo con cui si inaugurano i moltissimi capitoli del libro, avremmo una Commedia quasi completa: Dante in sostanza «vive» nel libro di Ferroni, con le sue parole e la sua lingua, nella concretezza dei suoi riferimenti puntuali, storici, culturali. L’impressione è che, in controtendenza rispetto a mode recenti, qui non si sia voluto fare a meno di Dante, e si sia rinunciato a una traduzione-parafrasi per affidarsi ancora alla magia del testo originale, pur nella difficoltà (relativa) che esso ci impone. Nonostante questo, il volume riesce a essere anche molto leggero, personale, sentito, perché alterna all’erudizione necessaria la piacevolezza del diario, a volte persino troppo schietto: nei suoi giudizi su scrittori viventi, ad esempio, o di colleghi italianisti. Invano si cercherebbe nelle utilissime piantine del libro, ma è «colpa» di Dante e non di Ferroni, un pur breve accenno all’attuale Svizzera di lingua

italiana. La geografia della Commedia purtroppo non ci contempla: si avvicina da est, dalle parti del lago di Garda, «a piè de l’Alpe che serra Lamagna», e soprattutto da sud, a Milano e Pavia. In San Pietro in Ciel d’oro, davanti alle tombe di Sant’Agostino e Boezio, Ferroni si è sentito un piccolo pellegrino della nostra grande cultura, in fila dietro a Dante e Petrarca e a tutti i grandi autori del passato che si riconoscono nella medesima tradizione letteraria. La chiusa del libro è invece un insperato ritorno a Firenze, vista da lontano, dal poggio settentrionale dell’Uccellatoio, lungo la via bolognese. Una vista che è anche un sogno, quello del Dante esiliato, quello di tutti noi, viaggiatori di un altro tempo ma di una medesima condizione terrena. Bibliografia

Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia, Milano, La nave di Teseo, 2020.

Saltamacchia, in scena al Sociale.

Protagonista e regista dello spettacolo sarà Margherita Saltamacchia, accompagnata dalla voce di Raissa Avilés e dal violino di Rocco Schira. Come afferma la stessa Saltamacchia nella presentazione dello spettacolo: «Il dolore (..) è uno spettacolo sull’attesa che ci dice molto anche su questo tempo sospeso che stiamo vivendo. Lo abbiamo riallestito (..) comprendendone nel lockdown nuove sfumature. Ci sembra lo spettacolo giusto per ripartire». Lo spettacolo è gratuito, ma a causa della situazione sanitaria il numero di posti sarà limitato. Per informazioni e prenotazioni telefonare all’Ufficio turistico di Bellinzona: Tel. 091 825 48 18.

Quello che vogliono davvero

editoria Emmanuele Jannini cerca di capire cosa piaccia davvero alle donne in un uomo

Eliana Bernasconi Uomini che piacciono alle donne è un recentissimo libro che nel titolo promette di trattare dell’attrazione uomo-donna, dei misteri dell’amore e del sesso, dei sentimenti e della passione, dei rapporti di coppia. Mantiene la promessa ma lo fa da un’angolatura ben precisa: Emmanuele A. Jannini è sessuologo, endocrinologo e specialista in andrologia, è stato presidente dell’Accademia italiana della salute della coppia, fondatore della prima cattedra italiana di sessuologia. Il suo, ci avverte, è solo il balbettante linguaggio della scienza, gli è impossibile sostituirsi ai veri cantori dell’amore, i poeti, i romanzieri e gli artisti davanti ai quali si inchina. Il libro rientra nella collana «Scienze per la vita» ed. Sonzogno, che fa divulgazione scientifica autentica. I 16 capitoli descrivono, è vero, gli uomini che piacciono alle donne ma spaziano su vari e diversi argomenti, come innamoramento, rituali

di corteggiamento, poligamia e monogamia, canoni della bellezza, crisi di mezza età, fedeltà e tradimenti, segreti delle unioni lunghe, identikit del nuovo maschio, controrivoluzione del finto macho. Tra biologia e scienza del comportamento, spiegazioni evoluzionistiche e accenni di genetica, traspare lo specchio del nostro tempo dove si ridisegnano i rapporti uomo donna e i ruoli sociali e sessuali, dove tecnologia e cambiamenti sociali sono interconnessi e dipendenti. Ogni argomento procede su dati statistici raccolti in laboratori di respiro internazionale, su ricerche effettuate dal gruppo di ricerca di Jannini o tratte da articoli di prestigiose riviste del settore. L’impostazione scientifica non impedisce all’autore di usare esempi ricavati dalla sua esperienza clinica, con saggezza e divertita ironia. Ci viene spiegato che per la definizione della malattia e la sperimentazione sui farmaci, fino a oggi ci si è riferiti troppo al modello

maschile, mentre dati incontrovertibili dimostrano che donne e uomini sono tanto uguali quanto diversi. Nei 20’000 geni del genoma la variazione fra i sessi è inferiore all’1% ma influenza ogni cellula nervosa che determina le scelte, donne e uomini hanno cervelli diversi dal punto di vista biochimico. Se volete sapere perché le strategie usate dagli uomini per attrarre l’attenzione delle donne non si differenziano molto da quelle del mondo animale, (il pavone, tanto per fare un esempio) si veda il capitolo sui rituali di corteggiamento, mentre analizzando la tipologia maschile apprendiamo che alle donne purtroppo piacciono pericolosi mascalzoni che le faranno soffrire, ma non resistono al loro fascino magnetico. Vengono descritti Don Giovanni, Casanova, Ulisse, gli innamorati di loro stessi o gli allergici alla coppia. La maggioranza delle donne pare divisa tra quelle sensibili al fascino atavico dell’uomo cacciatore che seduce con l’intraprendenza vincente e

quello sempre atavico del contadino antico, capace di accudire e sostenere la donna e la famiglia. Il libro fornisce conoscenze utili ed evidenze cliniche, vuole sfatare comportamenti stereotipati e qualche luogo comune su quanto viene socialmente ritenuto giusto o sbagliato. Si parla molto di aree cerebrali e di ormoni che scortano i sentimenti: quando la passione si accende, il corpo è sotto l’azione di dopamina, noradrenalina e feniltilamina, quando si calma entra in gioco l’ossitocina, l’ormone dell’attaccamento. In appendice al libro troviamo alcune significative date sulla rivoluzione sessuale degli ultimi sei decenni. Nel lungo girovagare sui mille aspetti che governano l’attrazione, apprendiamo qual è il modello fallocentrico perdente nella relazione con le donne, ancora dominante in alcune sottoculture: è quello degli uomini che intendono la sessualità solo come erezione, che parlano di «possedere» le donne; alle donne non piace essere

Un saggio con molte conoscenze utili ed evidenze cliniche.

possedute ma amate, anche se questa strada è impegnativa e lunga. Il libro conclude che alle donne piacciono gli uomini che le sanno ascoltare e non temono la loro emancipazione che permette anche a loro di crescere, quelli che sono al loro fianco in questa rivoluzione storica che lasceranno ai figli, e ai figli dei loro figli. Bibliografia

Emmanuele A. Jannini, Uomini che piacciono alle donne, Sonzogno 2021.


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Novità

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Aktifit Emmi Fragola o pesca, per es. alla fragola, 6 pezzi, 390 ml


25% 1.65 invece di 2.20

20% 1.40 invece di 1.75

Grana Padano DOP, stagionato 16 mesi in conf. da 700 g/800 g, per 100 g, confezionato

20% 1.95 invece di 2.45

Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» prodotta in Ticino, per 100 g

20% 1.60 invece di 2.–

Formagín ticinés (Formaggini ticinesi) prodotti in Ticino, per 100 g, confezionati

20% Le Gruyère dolce, AOP

Tutte le fete e i formaggi per insalata

ca. 450 g, per 100 g, confezionato

per es. formaggio di pecora Léger, 200 g, 2.20 invece di 2.75

og he se Formag g io portse midura a de lic ato a past

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Novità

4.20 Migros Ticino

Fette di formaggio Limiano 200 g

20% 4.30 invece di 5.40

20% Camembert Suisse Crémeux Baer 300 g

Leerdammer a fette Original e Lightlife, per es. Original, 350 g, 5.– invece di 6.30

Offerte valide solo dal 27.4 al 3.5.2021, fino a esaurimento dello stock


Scorta

Veloce preparazione, lunga conservazione

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Tutte le salse Bon Chef

Salse Heinz

per es. salsa alla cacciatora, in busta da 46 g, 1.30 invece di 1.60

disponibile in diverse varietà, per es. Smokey Baconnaise, 220 ml, 3.15, in vendita solo nelle maggiori filiali

Maionese, Thomynaise, senape dolce o concentrato di pomodoro Thomy per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 3.90 invece di 5.–

Col tivazione e lavorazione equi

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Novità

9.95

Caffè in chicchi Café Royal Honduras, Fairtrade Espresso, Crema o Crema Intenso, per es. Espresso, 500 g

Migros Ticino

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Tutti i tè e le tisane (Alnatura esclusi), per es. foglie di ortica Klostergarten bio, 20 bustine


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30% Lasagne M-Classic alla bolognese o alla fiorentina, in conf. multiple, per es. alla bolognese, 3 x 400 g, 9.– invece di 12.90

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IDEALE CON

Pizza M-Classic margherita o del padrone, per es. margherita, 4 x 380 g, 10.90 invece di 16.80

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Couscous M-Classic

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3.80

Crostata di spelta agli asparagi Anna's Best

invece di 2.95

Pomodorini ciliegia a grappolo Spagna/Italia/Ticino, vaschetta da 500 g

31% 1.10 invece di 1.60

Cosce inferiori di pollo speziate Optigal Svizzera, in vaschetta di alluminio, per 100 g

200 g, confezionato

Migros Ticino

Offerte valide solo dal 27.4 al 3.5.2021, fino a esaurimento dello stock


Bevande

Risparmiare e dissetarsi

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33% Evian in confezioni multiple, per es. 6 x 1,5 l, 3.95 invece di 5.95

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Rivella Rossa o blu, 6 + 2 gratis, 8 x 500 ml, per es. rossa

33% 5.95 invece di 8.95

Red Bull Energy Drink o Sugarfree, per es. Energy Drink, 6 x 250 ml

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Novità

Tutte le birre analcoliche delle marche Feldschlösschen, Eichhof e Erdinger

Tutto l'assortimento Sarasay

per es. Feldschlösschen Lager, 10 x 330 ml, 7.95 invece di 11.90

Radler Eichhof 0.0% senz’alcol, 330 ml o 10 x 330 ml, per es. 330 ml, 1.20

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Novità

El Tony Mate & Mint Tee 330 ml

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Bevanda a base di tè di canapa e tè verde Herbtie 330 ml

Fever-Tree Mediterranean Tonic Water 200 ml o 4 x 200 ml, per es. 200 ml, 1.90


g e t ic o Drink e ne rut ine se n z a g l r a t i né c a r b o i d

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Red Bull Summer Edition Frutto del drago 250 ml

2.40

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Bang Energy Drink Peach-Mango, Black-CherryVanilla o Rainbow-Unicorn, per es. Peach-Mango, 500 ml

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Gatorade Cool Blue, Red Orange o Mandarine, 750 ml, per es. Cool Blue

2.90

Con i tre amminoaci d esse nziali le uc ina , i valina e isoleucina

lampone o arancia, 330 ml, per es. lampone

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Novità

Novità

1.25

Capri-Sun & Bubbles

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2.95

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Novità

Bevanda proteica Amira+ Soda yuzu-pompelmo o mangococco, 500 ml, per es. yuzupompelmo, in vendita solo nelle maggiori filiali

1.40

Cannabis Ice Tea C-Ice 250 ml

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Novità

2.50

Novità

Bevanda alla mela Nocco 330 ml

1.20

Mitico Ice Tea Tropic

alla fragola o alla menta, 495 ml, per es. alla fragola

4.95

Peach, Mint o Yuzu, 500 ml, per es. Peach

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Novità

Sciroppo Morand

Mitico Ice Tea Simply Fresh

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Novità

1.30

500 ml

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8.90

Novità

Novità

Sciroppo al gusto di limone e zenzero bio 500 ml

Sciroppi Orange Zero o Mojito Fragola, 750 ml, per es. Orange Zero, 2.80

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Dolce e salato

Per i piccoli momenti gustosi della giornata

Da subito ne ll ’ assor timento Mig ros

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Novità

Tutto l'assortimento Lindt per es. al latte finissimo, 100 g, 2.40

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conf. da 4

25% Tortine disponibili in diverse varietà, per es. all'albicocca M-Classic, 4 x 75 g, 3.75 invece di 5.–

Migros Ticino

Novità

3.20

Chiocciole alla cannella Gifflar 260 g, confezionato


at i A romat izz re c o n g r u yè conf. da 2

20% Cioccolato Ovomaltine disponibile in diverse varietà e in conf. speciali, per es. Ovo Rocks, 2 x 120 g, 6.70 invece di 8.40

a partire da 2 pezzi

–.60 di riduzione

conf. da 2

Tutto l'assortimento Blévita

20%

per es. Gruyère, AOP, 6 x 38 g, 3.– invece di 3.60

Biscotti M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. Wafer Viennesi, 2 x 150 g, 4.40 invece di 5.50

50% 7.20 invece di 14.40

Migros Ticino

Gelati da passeggio alla panna surgelati, disponibili in diverse varietà e in conf. speciale, per es. alla vaniglia, 24 pezzi, 24 x 57 ml

LO SAPEVI? Gli amati gelati alla vaniglia sul bastoncino con il motivo della foca esistono già dal 1975. Questa mitica creazione viene tutt 'oggi prodotta dall'impresa Midor AG di Meilen con panna e latte svizzeri. I gelati con la foca fanno così parte dei circa 10 000 prodotti Migros realizzati dai collaboratori Migros nelle aziende dell'Industria M in Svizzera. Offerte valide solo dal 27.4 al 3.5.2021, fino a esaurimento dello stock


Bellezza e cura del corpo

Per sentirsi bene dalla testa ai piedi

Per un look uniforme e duraturo

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Tutto l’assortimento per la depilazione Veet e I am

Tutto l’assortimento Covergirl

(confezioni multiple escluse), per es. crema depilatoria I am Sensitive, 150 ml, 5.30 invece di 6.60

per es. Pressed Powder Honey 720, il pezzo, 7.45 invece di 10.60

Rilassa in 2 fasi grazie alla terapia fre ddo-c aldo

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Novità

Balsamo del cavallo Dr. Jacoby's Medic 200 ml

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Balsamo del cavallo Dr. Jacoby's Medic 350 ml

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Balsamo del cavallo Dr. Jacoby's Medic con canapa bio 200 ml

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25% Balsami o prodotti per lo styling Nivea per es. spray per capelli Volume Care, 2 x 250 ml, 5.90 invece di 7.90

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Shampoo Nivea per es. Classic Care Mild, 3 x 250 ml

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Prodotti per la rasatura femminile Gillette Venus e BiC in conf. multiple e speciali, per es. lame di ricambio Gillette Venus Smooth, 8 pezzi, 19.50 invece di 24.40

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Novità

Schiuma per i muscoli con magnesio Dr. Jacoby's

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Capsule Glucosamin Plus Doppelherz

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Capsule Hair + Skin + Nails Doppelherz conf. da 30 pezzi

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Compresse silicio + collagene Doppelherz conf. da 30 pezzi

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Varie

Grande scelta, piccoli prezzi Catt ura e filt ra il colore e lo sporco

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Panni Total Color Protect 2 x 30 pezzi

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Salviettine umide Hakle, FSC pulizia delicata o classica, per es. pulizia delicata, 4 x 42 pezzi

Hit

25% Padelle e casseruola Titan Cucina & Tavola Limited Edition, disponibili in grigio chiaro, blu e verde e in varie misure, Ø 16–28 cm, per es. padella a bordo basso, grigio chiaro, Ø 28 cm, il pezzo, 44.95 invece di 59.95

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Casseruola a un manico Cucina & Tavola Titan Limited Edition, disponibile in grigio, blu o verde, Ø 16 cm, per es. blu, il pezzo

Sott ile, le gg ero e con sc he rmo ad alta ri soluzione

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Schermo IPS Full HD da 10,1", corpo in metallo, processore Octa-Core, Wi-Fi AC, memoria interna da 16 GB, slot per microSD (fino a 256 GB), il pezzo,

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Fiori e giardino

40% Tutto l’assortimento di calzetteria da donna e da uomo (articoli SportXX esclusi), per es. Ellen Amber Vision, color porcellana, tg. M, il pezzo, 5.85 invece di 9.80

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Minirose M-Classic, Fairtrade mazzo da 20, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. rosse, il mazzo

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Tulipani Arlecchino M-Classic mazzo da 20, disponibili in diversi colori, il mazzo

disponibili in antracite o blu marino, n. 35–42, per es. antracite, n. 35-38

pulizia delicata, naturale o seducente, in confezioni speciali, per es. pulizia delicata, 30 rotoli, 17.75 invece di 29.65

20% Tutto l'assortimento di lettiere per gatti Fatto per es. Plus, 10 litri, 5.65 invece di 7.10

Migros Ticino

Hit 49.95

Trolley da viaggio di Central Square disponibili in diversi colori, 54 cm, per es. rosa, il pezzo

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Dipladenie vaso, Ø 10 cm, disponibili in diversi colori, per es. pink, il vaso

Offerte valide solo dal 27.4 al 3.5.2021, fino a esaurimento dello stock


Sapori originali d’Italia.

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Tutti i tipi di aceto e i condimenti Ponti per es. aceto balsamico di Modena, 250 ml, 3.60 invece di 5.20

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Berliner con ripieno di lamponi in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g, Azione valida dal 29.4 al 2.5.2021.

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40% Pasta Agnesi penne rigate, spaghetti o tortiglioni, in confezioni multiple, per es. penne rigate, 2 x 500 g, 2.50 invece di 4.20

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Abbracci Mulino Bianco 350 g

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Mini cervelas TerraSuisse 2 x 8 pezzi, 400 g, offerta valida dal 29.4 al 2.5.2021

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Salatini da aperitivo Gran Pavesi

ravioli ricotta e spinaci o tortellini prosciutto crudo, in conf. speciale, per es. ravioli, 500 g

disponibili in diverse varietà e in conf. speciali, per es. cracker salati, 560 g, 3.25 invece di 4.35

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Rösti Original 3 x 750 g, Azione valida dal 29.4 al 2.5.2021.


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