Azione 19 del 10 maggio 2021

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Un libro di Raffaele Gaito ci insegna come essere perseveranti in un mondo frenetico

Ambiente e Benessere A ritroso nel tempo, nelle terre dell’Etruria, fra Toscana, Umbria e Lazio

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 10 maggio 2021

Azione 19 pagina 15

Politica e Economia Una guerra per Taiwan? Cina e Usa mirano all’isola, leader nella produzione di semiconduttori

pagina 2

Cultura e Spettacoli Sul filo della memoria: Giorgio Rambelli, sopravvissuto alla strage di Marzabotto

pagina 25

di Francesca Marino pagina 23

Keystone

India, tragedia annunciata

pagina 37

Vaccini, la svolta americana di Peter Schiesser Sospendere la protezione dei brevetti dei vaccini contro il Covid fino a pandemia conclusa: l’appello di mercoledì scorso dell’Amministrazione Biden all’indirizzo della World Trade Organization ha colto tutti di sorpresa. «Questa è una crisi globale e le circostanze straordinarie della pandemia richiedono misure straordinarie» ha spiegato la Rappresentante per il commercio USA Katherine Tai. Sospendendo i brevetti si intende dare uno stimolo alla produzione dei vaccini in molti paesi e superare la pandemia prima che nuove potenti varianti del virus ne sminuiscano l’efficacia. Su pressione internazionale ma anche interna (100 congressisti democratici hanno firmato un appello a Biden in tal senso, fra cui Bernie Sanders ed Elizabeth Warren), il neo-presidente statunitense ha dunque deciso di rompere con la tradizione mettendosi contro l’industria farmaceutica. Gli Stati uniti vanno così incontro alle richieste avanzate da Sudafrica e India al WTO in ottobre, che Trump, l’Unione europea e la Gran Bretagna respinsero. La posizione americana ha un peso rilevante, ma non è scontato

che si riesca a trovare un accordo su scala mondiale, considerato che simili decisioni al WTO si prendono all’unanimità. Dopo una prima discussione (accesa) all’interno dell’organizzazione, la Segretaria generale Ngozi Okonjo-Iweala ha invitato i membri a procedere speditamente con i negoziati sul nuovo testo che India e Sudafrica stanno preparando. La prima reazione del settore farmaceutico americano all’annuncio di Katherine Tai è stata di chiusura: sospendere i brevetti non aiuta a stimolare la produzione dei vaccini, poiché servono specialisti che la maggior parte dei paesi non ha, particolari materie prime e una catena logistica complessa (Pfizer per esempio produce i suoi vaccini con 280 componenti da 86 fornitori in 19 Paesi); inoltre, da un lato si aprirebbe la via alle contraffazioni, dall’altra le grandi farmaceutiche perderebbero interesse a produrre vaccini – ne risentirebbe la ricerca scientifica, che in questa pandemia ha generato i vaccini di nuova generazione mRna. Tuttavia, un compromesso non è impossibile: Moderna per esempio si è già detta pronta in ottobre a condividere la proprietà intellettuale del suo vaccino. Ovviamente, dovrà essere trovata una soluzione che tenga conto degli interessi dei gruppi farmaceutici, poiché non si può fare

a meno dei loro specialisti per implementare la produzione su scala mondiale e per creare adeguate strutture logistiche. Se pensiamo anche solo al fatto che in India persino le bombole di ossigeno sono una rarità (vedi foto), non hanno tutti in torti. Gli Stati uniti dell’era Biden danno ad ogni modo un esempio di alta statura morale. Non solo hanno aderito all’iniziativa Covax che mette a disposizione gratuitamente dei Paesi più poveri una parte della produzione dei vaccini (destinati però solo ad una bassa percentuale di abitanti), ora mostrano di porre il valore universale della salute della popolazione mondiale al di sopra di importanti interessi economici. In questo si distinguono da Russia e Cina, che forniscono i loro vaccini (molto meno affidabili) solo a Paesi in sintonia con i loro interessi geopolitici. La Cina per esempio li distribuisce ai Paesi che fanno parte della Belt and Road Initiative. Resta da vedere se l’Unione europea e la Gran Bretagna (con Astra Zeneca) si allineeranno alla posizione americana e soprattutto se collaboreranno attivamente. E quanto sul serio le multinazionali farmaceutiche prendono l’impegno delle partnership fra pubblico e privato, fra governi e aziende, in un’ottica di salute, e quindi sviluppo, mondiale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Società e Territorio Un mese per l’ambiente Al Centro Professionale Tecnico di Trevano allievi e insegnanti hanno sperimentato un Mese Green pagina 3

Giovani e prospettive future Una larga coalizione di organizzazioni che operano a favore dell’infanzia e della gioventù in Svizzera chiede con un appello soluzioni concrete ai problemi più urgenti dei giovani

Evoluzione e psicologia Secondo gli studi dello psicologo Michael Tomasello la cooperazione sociale è la chiave della nostra unicità e ciò che ci ha distinti dagli altri primati

Un Mese Green a Trevano

Sostenibilità e scuola Al Centro Professionale Tecnico gli allievi hanno partecipato

pagina 9

con entusiasmo al progetto che promuove pratiche e riflessioni sul rispetto dell’ambiente

pagina 7

Da Raffaello a Piranesi Forum elle Prossimi

appuntamenti in calendario

Stefania Hubmann

Forzarci al multitasking e all’ottimizzazione del tempo riduce la concentrazione e le performance: meglio allenarsi alla pazienza. (Shutterstock)

L’arte della pazienza

Intervista Si può essere perseveranti in un mondo frenetico? Secondo Raffaele Gaito, consulente e docente

sui temi del digitale e dell’innovazione, è necessario diventarlo Stefania Prandi È difficile essere pazienti mentre attorno a noi i ritmi sono sempre più frenetici. Sembra quasi impossibile riuscire a non farsi prendere dalla Fomo, acronimo inglese di Fear of missing out, la costante preoccupazione di perdersi qualcosa di importante accompagnata dall’ansia di venire tagliati fuori dalle esperienze gratificanti che fanno gli altri. Una sensazione che spinge a essere sempre connessi attraverso i social network. Al bisogno di rallentare ha appena dedicato un libro Raffaele Gaito, consulente, docente alla Business School de «Il Sole 24 Ore» e relatore sui temi del digitale e dell’innovazione. L’arte della pazienza. Come essere perseverante in un mondo frenetico (Franco Angeli) fornisce consigli concreti e approfondimenti, citando esempi di grandi personalità, da Marco Aurelio ad Alfonsina Strada, che per raggiungere obiettivi importanti hanno saputo aspettare, senza farsi disturbare. Raffaele Gaito, che cos’è la pazienza?

Purtroppo negli anni la pazienza si è fatta una brutta reputazione. Oggi quando pensiamo a una persona paziente ci viene in mente qualcuno di

immobile, di pigro e di innocuo. Niente di più sbagliato. Per me la pazienza è qualcosa di molto concreto, legato all’attività e non all’inerzia. È un mix di costanza, perseveranza e capacità di attendere che risulta fondamentale nel mondo nel quale viviamo oggi. A tal proposito c’è una bella frase di Bruce Lee che io riprendo nel mio libro e che dice: «La pazienza non è passiva. Al contrario, è forza concentrata». Ecco, questa citazione riassume appieno la mia visione di pazienza. Non è tanto aspettare, ma cosa facciamo mentre aspettiamo. Perché la pazienza è importante?

Il mondo digitale nel quale viviamo oggi ci ha abituato a dei tempi rapidissimi. Siamo circondati da aziende il cui unico obiettivo è quello di esaudire i nostri desideri il più velocemente possibile. Apriamo un’app e possiamo avere la cena nel giro di mezz’ora, apriamo un’altra app e una macchina viene a prenderci sotto casa, ne apriamo un’altra ancora e riceviamo la spesa senza muoverci dal divano. Tutto ciò è fantastico, ma se pensiamo di estendere questo concetto di velocità a tutto il resto allora rischiamo grosso. Ad esempio, fare carriera, ottenere dei risultati o raggiungere il successo sono tutte attività che richiedono tempo. È sempre

stato così e sarà sempre così. Ecco perché diventa fondamentale allenare la pazienza. Imparare a ragionare nel lungo periodo ed essere consapevoli che non stiamo partecipando a una gara dei cento metri, ma a una maratona. Quanto è difficile essere pazienti quando sembra che dovremmo tutti aspirare a diventare influencer iperconnessi per essere realizzati?

I social da questo punto di vista non aiutano. Ogni volta che apriamo Instagram siamo circondati da persone con un fisico da urlo, super macchinoni, ville con piscine mozzafiato e chi più ne ha più ne metta. Non ci deve sorprendere il fatto che le nuove generazioni vivano in un costante stato di insoddisfazione. Ci sentiamo tutti un po’ dei perdenti, non all’altezza, in ritardo. In un contesto del genere la pazienza e la costanza diventano delle qualità fondamentali. Dobbiamo essere consapevoli che non c’è nessuna gara, non c’è una data di scadenza sul successo e che ogni storia è diversa. Le uniche persone con cui dobbiamo confrontarci siamo noi stessi. Come ci si allena alla pazienza?

Nel libro fornisco una serie di suggerimenti pratici per coltivare queste abilità, proprio perché vedo la pazienza come un muscolo: tutti ne siamo

forniti, solo che qualcuno si dimentica di allenarlo. Io suddivido la pazienza in quattro elementi: abitudini, obiettivi, sperimentazione e fallimento. Per ognuno di essi c’è qualcosa che possiamo fare per tenerci in allenamento. Il punto di partenza è modificare le nostre abitudini. Occorre, quindi, imparare a definire bene gli obiettivi di breve e lungo periodo. Per farlo è fondamentale acquisire una mentalità rivolta alla sperimentazione continua e, infine, accettare il fallimento come parte inevitabile e necessaria della nostra vita. Trovare il proprio percorso e seguirlo può essere difficile mentre si viene distratti dall’ansia di essere multitasking. Quali sono i suoi consigli?

Il multitasking è una delle più grosse fregature della nostra epoca. Siamo ossessionati dall’ottimizzare il tempo, dal migliorare le performance e dal fare di più. E quindi ci siamo illusi di poter portare avanti tante attività in parallelo. In realtà la scienza ha da tempo scoperto che il multitasking crea l’effetto opposto. La nostra mente non è fatta per lavorare in parallelo, ma gestendo le attività in sequenza, in modo seriale. Forzarci a fare multitasking porta ad abbassare il focus e la concentrazione, a

una riduzione delle nostre performance e, nel lungo periodo, a una maggiore stanchezza. Anche qui, la chiave per un primo passo verso il cambiamento è ricordarci che alcune cose richiedono tempo e non dobbiamo forzarle inutilmente. Il mito dei super uomini e delle super donne fa più danni che altro. A un certo punto descrive il Kintsugi, la pratica giapponese di usare l’oro per riparare gli oggetti di ceramica. Cosa possiamo imparare da questa tradizione?

Con il Kintsugi si tengono insieme i frammenti degli oggetti rotti versando dell’oro liquido nelle crepe. Il Kintsugi porta due grossi vantaggi: l’oggetto aumenta di valore grazie alla presenza del metallo prezioso e si trasforma in qualcosa di completamente unico. Nel libro uso il Kintsugi come metafora per la nostra crescita personale e professionale. Ecco perché invito ad accettare il fallimento come parte inevitabile e necessaria della propria vita. Facciamo un piccolo cambio lessicale e iniziamo a parlare di insegnamento invece di fallimento. In questo modo ad ogni fallimento noi avremo imparato qualcosa di nuovo, saremo cresciuti un po’ rispetto a ieri, saremo persone migliori. Impariamo a versare oro nelle nostre crepe e a mostrarle in giro con orgoglio.

Un mese di immersione in comportamenti rispettosi dell’ambiente e in riflessioni sulle problematiche ad esso collegate per passare dai grandi principi alla pratica quotidiana, per assimilare comportamenti da trasformare in abitudini e in una nuova cultura. È questo lo spirito del Mese Green, promosso lo scorso marzo dal Centro Professionale Tecnico (CPT) di Lugano-Trevano. La scuola, fra le più grandi del Ticino con circa 1500 allievi e oltre 200 docenti, è un laboratorio privilegiato per sensibilizzare giovani e adulti, i quali si dimostrano ricettivi a proposte concrete come quelle avanzate nel Mese Green. Proposte in parte direttamente legate alla sede scolastica e al parco adiacente, in parte in grado di ampliare la visione sulle sfide generali del futuro: dall’inquinamento luminoso alle energie rinnovabili, a un’alimentazione sostenibile. Proposte, ancora, che si tramutano in numerose piccole azioni il cui pregio è quello di essere tangibili e di accompagnare la comunità del centro durante l’intero anno scolastico. Il Mese Green si inserisce infatti in un più vasto progetto di sede denominato CEBe, acronimo di Comunità – Ecologia – Benessere. Spiega al proposito la direttrice Cecilia Beti: «La chiusura della scuola la scorsa primavera e le altre conseguenze della pandemia hanno suscitato in direzione e docenti del CPT il desiderio di un nuovo impegno a favore della salute, dell’accoglienza e della convivenza negli spazi comuni, come pure del rispetto dell’ambiente. Con il settore Benessere il nuovo progetto è entrato nella Rete scuole21 composta da istituti svizzeri attivi nella promozione della salute e nell’educazione allo sviluppo sostenibile. Il Mese Green aveva già conosciuto nella primavera 2019 una prima edizione in formato ridotto scaturita dalle iniziative di alcuni insegnanti. Va infatti precisato che il tema dell’ecologia viene trattato in ogni classe, poiché parte integrante del programma. Le attività messe a punto per il 2020 sono invece state bruscamente interrotte dall’emergenza sanitaria, per cui quella di quest’anno è stata la prima vera edizione durata un mese e con un ottimo riscontro da parte di allievi e insegnanti. Questi ultimi hanno apprezzato in particolare la possibilità di inserire gli appuntamenti del Mese Green nella formazione continua». Tutti hanno inoltre gradito il ritorno ad attività in presenza, a dimostrazione della necessità di un confronto diretto e di momenti aggregativi. Le conferenze sono state ben frequentate con alcuni incontri al completo e una media di 40/45 partecipanti ad evento. Per permettere una maggiore frequenza, essendo il numero massimo limitato a 50 in conformità alle esigenze sanitarie, alcuni appuntamenti sono stati presentati più volte. Curato dalle docenti Verena Dirks, Barbara Thomann e Billy Beninger, il Mese Green

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Agli allievi sono state proposte anche uscite sul territorio, qui in Capriasca tra le antiche varietà di meli.

ha affrontato tematiche generali che possono interessare tutti i destinatari in quanto cittadini e aspetti specifici legati alle professioni per le quali il CPT assicura la formazione. Ricordiamo che l’istituto scolastico ospita tre tipologie di scuola: la Scuola professionale artigianale e industriale (percorso duale scuola e lavoro), la Scuola d’arti e mestieri (a tempo pieno) e la Scuola specializzata superiore di tecnica (postobbligo). Precisa Billy Beninger: «Abbiamo notato che le attività strettamente legate alla formazione professionale sono state stimolanti tanto per gli allievi quanto per i docenti. Ben frequentate anche le uscite, come ad esempio la passeggiata lungo il fiume Cassarate per scoprire alcuni progetti a favore del verde pubblico».

Il Mese Green si inserisce in un più vasto progetto di sede che mette al centro dell’interesse i temi di ComunitàEcologia-Benessere Ricavare tempo per queste attività non è sempre scontato – aggiunge la direttrice – perché il programma federale che si è tenuti a seguire è di per sé già molto intenso. Il valore aggiunto di questi momenti è però elevato. Cecilia Beti: «L’organizzazione di attività pratiche e teoriche differenti rispetto al programma scolastico e alle quali aderire liberamente favorisce un arricchente scambio fra pari impegnati in formazioni eterogenee, come dimostra il focus sulla zanzara tigre presentato dagli studenti stessi o ancora la posa nel Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

parco di casette per gli uccelli costruite dagli allievi della scuola speciale che ha sede al CPT». Un altro confronto interessante si è rivelato quello fra gli apprendisti macellai e la manager ticinese Nina Buffi che opera in un’azienda tedesca specializzata nella produzione di carne in laboratorio. «Ne è nata una discussione proficua – rileva la direttrice – durante la quale i nostri allievi hanno argomentato la loro posizione con rispetto. Un valore, quest’ultimo, essenziale e promosso costantemente dall’istituto». Proprio oggi sarà inoltre reso noto un risultato del Mese Green che tutte le classi attendono. Permetterà di rispondere alla domanda «Quale classe ha raccolto più mozziconi di sigaretta?». Svolta all’aperto con l’incentivo della competizione, l’azione è piaciuta ai giovani che hanno così ripulito gli spazi esterni del Centro da una delle forme più diffuse di littering. Basti pensare che nel complesso sono stati raccolti oltre 28 mila mozziconi. La gara si è svolta a livello nazionale per iniziativa dell’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo con il nome stop2drop. Dai piccoli ma nocivi mozziconi alle giganti riproduzioni di rifiuti disseminate sui vari piani del centro scolastico per evidenziare quanto gli oggetti ingombranti siano fastidiosi e riflettere di conseguenza sull’impatto dell’abbandono dei rifiuti. La soluzione definitiva alla diverse problematiche non è sempre dietro l’angolo – prova ne è il mantenimento in zona discosta del «boschetto dei fumatori» – ma le nostre interlocutrici constatano un cambiamento nel comportamento dei giovani. «Sono più rispettosi degli spazi comuni, si scusano se vengono sollecitati perché hanno dimenticato di gettare un rifiuto, riprendono i compagni maleducati», afferma Billy Beninger

evidenziando che «il confronto con esperti esterni e l’attività pratica sul territorio favoriscono la presa di coscienza dell’impatto di determinati comportamenti da parte del singolo». Il Centro stesso vuole essere un esempio in questo senso. A tale scopo vengono promosse già da alcuni anni iniziative finalizzate ad una maggiore sostenibilità. La direttrice Cecilia Beti cita al riguardo la messa a disposizione di apparecchi per rinfrescare e rendere effervescente l’acqua accompagnata dalla distribuzione di una borraccia a ogni studente e docente, la sostituzione dei bicchieri di plastica con quelli di carta negli apparrecchi di distribuzione automatica di bibite o ancora l’introduzione di un badge per l’utilizzo delle stampanti. Alcuni cambiamenti sono di portata relativa, ma nell’insieme forniscono un contributo non trascurabile nel migliorare il comportamento di ognuno al fine di evitare lo spreco e rispettare l’ambiente. Da rilevare, come queste azioni abbiano un effetto esteso all’intero anno scolastico. Anche diverse proposte a favore degli allievi sono concepite per non esaurirsi nel Mese Green. Ne sono un esempio la raccolta mensile di giocattoli, abiti e oggetti di cartoleria (a favore dell’Ospedale del Giocattolo) e quella degli occhiali che prenderà il via questo mese. Grazie a queste e ad altre iniziative il Mese Green proposto dal Centro professionale tecnico di Lugano-Trevano diventa l’apice di un percorso attraverso il quale promuovere le competenze traversali sulle questioni ecologiche in maniera accattivante. Rimasta quest’anno limitata al CPT per motivi di ordine sanitario, la manifestazione tornerà nelle prossime edizioni coinvolgendo un maggior numero di giovani e adulti, a iniziare da quelli delle sedi scolastiche circostanti.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’262 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Le socie e le simpatizzanti dell’organizzazione femminile di Migros sono invitate a partecipare alle prossime due uscite, entrambe legate al mondo dell’arte. Giovedì 20 e giovedì 27 maggio 2021 è prevista la visita alla mostra Raffaello 3D – Il Divino, ospitata al Castello di Sasso Corbaro Bellinzona. L’entrata, per motivi di distanziamento, è prevista in due gruppi, alle ore 14.00 e alle ore 15.30. L’esposizione interattiva si tiene in occasione delle celebrazioni del 500mo dalla morte dell’artista ed esibisce l’eleganza dell’arte di Raffaello attraverso la rappresentazione tradizionale e la moderna tecnologia multimediale. Costo biglietto d’entrata: CHF 8.– (invece che CHF 15.–). Quota d’iscrizione: CHF 10.– Visita guidata offerta da Forum elle Ticino. Il ritrovo è fissato presso il Castello di Sasso Corbaro. Coloro che necessitassero di una trasferta sono pregati di segnalarlo alla segretaria. Venerdì 11 giugno 2021 ore 14.30 e giovedì 17 giugno 2021 ore 17.00, invece, è prevista la visita all’esposizione La reinterpretazione del classico: dal rilievo alla veduta romantica nella grafica storica, che si tiene al m.a.x. Museo di Chiasso. Costo biglietto d’entrata: CHF 5.– (invece che CHF 10.–). Visita guidata da parte della Direttrice, Nicoletta Ossanna Cavadini, offerta dal m.a.x. Museo alle socie di Forum elle Ticino. Tenuto conto delle normative di sicurezza legate al periodo di pandemia, il numero dei posti è limitato. L’esposizione che s’inserisce nel filone della «grafica storica» ha l’obiettivo di presentare la produzione incisoria dell’Antico nel Settecento e nell’Ottocento ripercorrendo il fenomeno storico della reinterpretazione e della fortuna critica del classico. Il ritrovo è fissato presso il m.a.x. Museo di Chiasso. Coloro che necessitassero di una trasferta sono pregati di segnalarlo alla segretaria. Il programma dettagliato per entrambe le visite è disponibile come sempre sul sito www.forum-elle.ch, sezione Ticino. Per iscrizioni e informazioni

email: simona.guenzani@forum-elle. ch – Tel. 091 923 82 02.

Al m.a.x Museo si possono ammirare le splendide acqueforti di Giovanni Battista e Francesco Piranesi. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Un mese per l’ambiente Al Centro Professionale Tecnico di Trevano allievi e insegnanti hanno sperimentato un Mese Green pagina 3

Giovani e prospettive future Una larga coalizione di organizzazioni che operano a favore dell’infanzia e della gioventù in Svizzera chiede con un appello soluzioni concrete ai problemi più urgenti dei giovani

Evoluzione e psicologia Secondo gli studi dello psicologo Michael Tomasello la cooperazione sociale è la chiave della nostra unicità e ciò che ci ha distinti dagli altri primati

Un Mese Green a Trevano

Sostenibilità e scuola Al Centro Professionale Tecnico gli allievi hanno partecipato

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con entusiasmo al progetto che promuove pratiche e riflessioni sul rispetto dell’ambiente

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Da Raffaello a Piranesi Forum elle Prossimi

appuntamenti in calendario

Stefania Hubmann

Forzarci al multitasking e all’ottimizzazione del tempo riduce la concentrazione e le performance: meglio allenarsi alla pazienza. (Shutterstock)

L’arte della pazienza

Intervista Si può essere perseveranti in un mondo frenetico? Secondo Raffaele Gaito, consulente e docente

sui temi del digitale e dell’innovazione, è necessario diventarlo Stefania Prandi È difficile essere pazienti mentre attorno a noi i ritmi sono sempre più frenetici. Sembra quasi impossibile riuscire a non farsi prendere dalla Fomo, acronimo inglese di Fear of missing out, la costante preoccupazione di perdersi qualcosa di importante accompagnata dall’ansia di venire tagliati fuori dalle esperienze gratificanti che fanno gli altri. Una sensazione che spinge a essere sempre connessi attraverso i social network. Al bisogno di rallentare ha appena dedicato un libro Raffaele Gaito, consulente, docente alla Business School de «Il Sole 24 Ore» e relatore sui temi del digitale e dell’innovazione. L’arte della pazienza. Come essere perseverante in un mondo frenetico (Franco Angeli) fornisce consigli concreti e approfondimenti, citando esempi di grandi personalità, da Marco Aurelio ad Alfonsina Strada, che per raggiungere obiettivi importanti hanno saputo aspettare, senza farsi disturbare. Raffaele Gaito, che cos’è la pazienza?

Purtroppo negli anni la pazienza si è fatta una brutta reputazione. Oggi quando pensiamo a una persona paziente ci viene in mente qualcuno di

immobile, di pigro e di innocuo. Niente di più sbagliato. Per me la pazienza è qualcosa di molto concreto, legato all’attività e non all’inerzia. È un mix di costanza, perseveranza e capacità di attendere che risulta fondamentale nel mondo nel quale viviamo oggi. A tal proposito c’è una bella frase di Bruce Lee che io riprendo nel mio libro e che dice: «La pazienza non è passiva. Al contrario, è forza concentrata». Ecco, questa citazione riassume appieno la mia visione di pazienza. Non è tanto aspettare, ma cosa facciamo mentre aspettiamo. Perché la pazienza è importante?

Il mondo digitale nel quale viviamo oggi ci ha abituato a dei tempi rapidissimi. Siamo circondati da aziende il cui unico obiettivo è quello di esaudire i nostri desideri il più velocemente possibile. Apriamo un’app e possiamo avere la cena nel giro di mezz’ora, apriamo un’altra app e una macchina viene a prenderci sotto casa, ne apriamo un’altra ancora e riceviamo la spesa senza muoverci dal divano. Tutto ciò è fantastico, ma se pensiamo di estendere questo concetto di velocità a tutto il resto allora rischiamo grosso. Ad esempio, fare carriera, ottenere dei risultati o raggiungere il successo sono tutte attività che richiedono tempo. È sempre

stato così e sarà sempre così. Ecco perché diventa fondamentale allenare la pazienza. Imparare a ragionare nel lungo periodo ed essere consapevoli che non stiamo partecipando a una gara dei cento metri, ma a una maratona. Quanto è difficile essere pazienti quando sembra che dovremmo tutti aspirare a diventare influencer iperconnessi per essere realizzati?

I social da questo punto di vista non aiutano. Ogni volta che apriamo Instagram siamo circondati da persone con un fisico da urlo, super macchinoni, ville con piscine mozzafiato e chi più ne ha più ne metta. Non ci deve sorprendere il fatto che le nuove generazioni vivano in un costante stato di insoddisfazione. Ci sentiamo tutti un po’ dei perdenti, non all’altezza, in ritardo. In un contesto del genere la pazienza e la costanza diventano delle qualità fondamentali. Dobbiamo essere consapevoli che non c’è nessuna gara, non c’è una data di scadenza sul successo e che ogni storia è diversa. Le uniche persone con cui dobbiamo confrontarci siamo noi stessi. Come ci si allena alla pazienza?

Nel libro fornisco una serie di suggerimenti pratici per coltivare queste abilità, proprio perché vedo la pazienza come un muscolo: tutti ne siamo

forniti, solo che qualcuno si dimentica di allenarlo. Io suddivido la pazienza in quattro elementi: abitudini, obiettivi, sperimentazione e fallimento. Per ognuno di essi c’è qualcosa che possiamo fare per tenerci in allenamento. Il punto di partenza è modificare le nostre abitudini. Occorre, quindi, imparare a definire bene gli obiettivi di breve e lungo periodo. Per farlo è fondamentale acquisire una mentalità rivolta alla sperimentazione continua e, infine, accettare il fallimento come parte inevitabile e necessaria della nostra vita. Trovare il proprio percorso e seguirlo può essere difficile mentre si viene distratti dall’ansia di essere multitasking. Quali sono i suoi consigli?

Il multitasking è una delle più grosse fregature della nostra epoca. Siamo ossessionati dall’ottimizzare il tempo, dal migliorare le performance e dal fare di più. E quindi ci siamo illusi di poter portare avanti tante attività in parallelo. In realtà la scienza ha da tempo scoperto che il multitasking crea l’effetto opposto. La nostra mente non è fatta per lavorare in parallelo, ma gestendo le attività in sequenza, in modo seriale. Forzarci a fare multitasking porta ad abbassare il focus e la concentrazione, a

una riduzione delle nostre performance e, nel lungo periodo, a una maggiore stanchezza. Anche qui, la chiave per un primo passo verso il cambiamento è ricordarci che alcune cose richiedono tempo e non dobbiamo forzarle inutilmente. Il mito dei super uomini e delle super donne fa più danni che altro. A un certo punto descrive il Kintsugi, la pratica giapponese di usare l’oro per riparare gli oggetti di ceramica. Cosa possiamo imparare da questa tradizione?

Con il Kintsugi si tengono insieme i frammenti degli oggetti rotti versando dell’oro liquido nelle crepe. Il Kintsugi porta due grossi vantaggi: l’oggetto aumenta di valore grazie alla presenza del metallo prezioso e si trasforma in qualcosa di completamente unico. Nel libro uso il Kintsugi come metafora per la nostra crescita personale e professionale. Ecco perché invito ad accettare il fallimento come parte inevitabile e necessaria della propria vita. Facciamo un piccolo cambio lessicale e iniziamo a parlare di insegnamento invece di fallimento. In questo modo ad ogni fallimento noi avremo imparato qualcosa di nuovo, saremo cresciuti un po’ rispetto a ieri, saremo persone migliori. Impariamo a versare oro nelle nostre crepe e a mostrarle in giro con orgoglio.

Un mese di immersione in comportamenti rispettosi dell’ambiente e in riflessioni sulle problematiche ad esso collegate per passare dai grandi principi alla pratica quotidiana, per assimilare comportamenti da trasformare in abitudini e in una nuova cultura. È questo lo spirito del Mese Green, promosso lo scorso marzo dal Centro Professionale Tecnico (CPT) di Lugano-Trevano. La scuola, fra le più grandi del Ticino con circa 1500 allievi e oltre 200 docenti, è un laboratorio privilegiato per sensibilizzare giovani e adulti, i quali si dimostrano ricettivi a proposte concrete come quelle avanzate nel Mese Green. Proposte in parte direttamente legate alla sede scolastica e al parco adiacente, in parte in grado di ampliare la visione sulle sfide generali del futuro: dall’inquinamento luminoso alle energie rinnovabili, a un’alimentazione sostenibile. Proposte, ancora, che si tramutano in numerose piccole azioni il cui pregio è quello di essere tangibili e di accompagnare la comunità del centro durante l’intero anno scolastico. Il Mese Green si inserisce infatti in un più vasto progetto di sede denominato CEBe, acronimo di Comunità – Ecologia – Benessere. Spiega al proposito la direttrice Cecilia Beti: «La chiusura della scuola la scorsa primavera e le altre conseguenze della pandemia hanno suscitato in direzione e docenti del CPT il desiderio di un nuovo impegno a favore della salute, dell’accoglienza e della convivenza negli spazi comuni, come pure del rispetto dell’ambiente. Con il settore Benessere il nuovo progetto è entrato nella Rete scuole21 composta da istituti svizzeri attivi nella promozione della salute e nell’educazione allo sviluppo sostenibile. Il Mese Green aveva già conosciuto nella primavera 2019 una prima edizione in formato ridotto scaturita dalle iniziative di alcuni insegnanti. Va infatti precisato che il tema dell’ecologia viene trattato in ogni classe, poiché parte integrante del programma. Le attività messe a punto per il 2020 sono invece state bruscamente interrotte dall’emergenza sanitaria, per cui quella di quest’anno è stata la prima vera edizione durata un mese e con un ottimo riscontro da parte di allievi e insegnanti. Questi ultimi hanno apprezzato in particolare la possibilità di inserire gli appuntamenti del Mese Green nella formazione continua». Tutti hanno inoltre gradito il ritorno ad attività in presenza, a dimostrazione della necessità di un confronto diretto e di momenti aggregativi. Le conferenze sono state ben frequentate con alcuni incontri al completo e una media di 40/45 partecipanti ad evento. Per permettere una maggiore frequenza, essendo il numero massimo limitato a 50 in conformità alle esigenze sanitarie, alcuni appuntamenti sono stati presentati più volte. Curato dalle docenti Verena Dirks, Barbara Thomann e Billy Beninger, il Mese Green

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Agli allievi sono state proposte anche uscite sul territorio, qui in Capriasca tra le antiche varietà di meli.

ha affrontato tematiche generali che possono interessare tutti i destinatari in quanto cittadini e aspetti specifici legati alle professioni per le quali il CPT assicura la formazione. Ricordiamo che l’istituto scolastico ospita tre tipologie di scuola: la Scuola professionale artigianale e industriale (percorso duale scuola e lavoro), la Scuola d’arti e mestieri (a tempo pieno) e la Scuola specializzata superiore di tecnica (postobbligo). Precisa Billy Beninger: «Abbiamo notato che le attività strettamente legate alla formazione professionale sono state stimolanti tanto per gli allievi quanto per i docenti. Ben frequentate anche le uscite, come ad esempio la passeggiata lungo il fiume Cassarate per scoprire alcuni progetti a favore del verde pubblico».

Il Mese Green si inserisce in un più vasto progetto di sede che mette al centro dell’interesse i temi di ComunitàEcologia-Benessere Ricavare tempo per queste attività non è sempre scontato – aggiunge la direttrice – perché il programma federale che si è tenuti a seguire è di per sé già molto intenso. Il valore aggiunto di questi momenti è però elevato. Cecilia Beti: «L’organizzazione di attività pratiche e teoriche differenti rispetto al programma scolastico e alle quali aderire liberamente favorisce un arricchente scambio fra pari impegnati in formazioni eterogenee, come dimostra il focus sulla zanzara tigre presentato dagli studenti stessi o ancora la posa nel Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

parco di casette per gli uccelli costruite dagli allievi della scuola speciale che ha sede al CPT». Un altro confronto interessante si è rivelato quello fra gli apprendisti macellai e la manager ticinese Nina Buffi che opera in un’azienda tedesca specializzata nella produzione di carne in laboratorio. «Ne è nata una discussione proficua – rileva la direttrice – durante la quale i nostri allievi hanno argomentato la loro posizione con rispetto. Un valore, quest’ultimo, essenziale e promosso costantemente dall’istituto». Proprio oggi sarà inoltre reso noto un risultato del Mese Green che tutte le classi attendono. Permetterà di rispondere alla domanda «Quale classe ha raccolto più mozziconi di sigaretta?». Svolta all’aperto con l’incentivo della competizione, l’azione è piaciuta ai giovani che hanno così ripulito gli spazi esterni del Centro da una delle forme più diffuse di littering. Basti pensare che nel complesso sono stati raccolti oltre 28 mila mozziconi. La gara si è svolta a livello nazionale per iniziativa dell’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo con il nome stop2drop. Dai piccoli ma nocivi mozziconi alle giganti riproduzioni di rifiuti disseminate sui vari piani del centro scolastico per evidenziare quanto gli oggetti ingombranti siano fastidiosi e riflettere di conseguenza sull’impatto dell’abbandono dei rifiuti. La soluzione definitiva alla diverse problematiche non è sempre dietro l’angolo – prova ne è il mantenimento in zona discosta del «boschetto dei fumatori» – ma le nostre interlocutrici constatano un cambiamento nel comportamento dei giovani. «Sono più rispettosi degli spazi comuni, si scusano se vengono sollecitati perché hanno dimenticato di gettare un rifiuto, riprendono i compagni maleducati», afferma Billy Beninger

evidenziando che «il confronto con esperti esterni e l’attività pratica sul territorio favoriscono la presa di coscienza dell’impatto di determinati comportamenti da parte del singolo». Il Centro stesso vuole essere un esempio in questo senso. A tale scopo vengono promosse già da alcuni anni iniziative finalizzate ad una maggiore sostenibilità. La direttrice Cecilia Beti cita al riguardo la messa a disposizione di apparecchi per rinfrescare e rendere effervescente l’acqua accompagnata dalla distribuzione di una borraccia a ogni studente e docente, la sostituzione dei bicchieri di plastica con quelli di carta negli apparrecchi di distribuzione automatica di bibite o ancora l’introduzione di un badge per l’utilizzo delle stampanti. Alcuni cambiamenti sono di portata relativa, ma nell’insieme forniscono un contributo non trascurabile nel migliorare il comportamento di ognuno al fine di evitare lo spreco e rispettare l’ambiente. Da rilevare, come queste azioni abbiano un effetto esteso all’intero anno scolastico. Anche diverse proposte a favore degli allievi sono concepite per non esaurirsi nel Mese Green. Ne sono un esempio la raccolta mensile di giocattoli, abiti e oggetti di cartoleria (a favore dell’Ospedale del Giocattolo) e quella degli occhiali che prenderà il via questo mese. Grazie a queste e ad altre iniziative il Mese Green proposto dal Centro professionale tecnico di Lugano-Trevano diventa l’apice di un percorso attraverso il quale promuovere le competenze traversali sulle questioni ecologiche in maniera accattivante. Rimasta quest’anno limitata al CPT per motivi di ordine sanitario, la manifestazione tornerà nelle prossime edizioni coinvolgendo un maggior numero di giovani e adulti, a iniziare da quelli delle sedi scolastiche circostanti.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Le socie e le simpatizzanti dell’organizzazione femminile di Migros sono invitate a partecipare alle prossime due uscite, entrambe legate al mondo dell’arte. Giovedì 20 e giovedì 27 maggio 2021 è prevista la visita alla mostra Raffaello 3D – Il Divino, ospitata al Castello di Sasso Corbaro Bellinzona. L’entrata, per motivi di distanziamento, è prevista in due gruppi, alle ore 14.00 e alle ore 15.30. L’esposizione interattiva si tiene in occasione delle celebrazioni del 500mo dalla morte dell’artista ed esibisce l’eleganza dell’arte di Raffaello attraverso la rappresentazione tradizionale e la moderna tecnologia multimediale. Costo biglietto d’entrata: CHF 8.– (invece che CHF 15.–). Quota d’iscrizione: CHF 10.– Visita guidata offerta da Forum elle Ticino. Il ritrovo è fissato presso il Castello di Sasso Corbaro. Coloro che necessitassero di una trasferta sono pregati di segnalarlo alla segretaria. Venerdì 11 giugno 2021 ore 14.30 e giovedì 17 giugno 2021 ore 17.00, invece, è prevista la visita all’esposizione La reinterpretazione del classico: dal rilievo alla veduta romantica nella grafica storica, che si tiene al m.a.x. Museo di Chiasso. Costo biglietto d’entrata: CHF 5.– (invece che CHF 10.–). Visita guidata da parte della Direttrice, Nicoletta Ossanna Cavadini, offerta dal m.a.x. Museo alle socie di Forum elle Ticino. Tenuto conto delle normative di sicurezza legate al periodo di pandemia, il numero dei posti è limitato. L’esposizione che s’inserisce nel filone della «grafica storica» ha l’obiettivo di presentare la produzione incisoria dell’Antico nel Settecento e nell’Ottocento ripercorrendo il fenomeno storico della reinterpretazione e della fortuna critica del classico. Il ritrovo è fissato presso il m.a.x. Museo di Chiasso. Coloro che necessitassero di una trasferta sono pregati di segnalarlo alla segretaria. Il programma dettagliato per entrambe le visite è disponibile come sempre sul sito www.forum-elle.ch, sezione Ticino. Per iscrizioni e informazioni

email: simona.guenzani@forum-elle. ch – Tel. 091 923 82 02.

Al m.a.x Museo si possono ammirare le splendide acqueforti di Giovanni Battista e Francesco Piranesi. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Idee e acquisti per la settimana

Sono arrivate le fragole ticinesi!

Attualità I dolcissimi frutti prodotti dalla giovane frutticoltrice Sevenja Krauss sono di nuovo

disponibili a Migros Ticino a perfetta maturazione

Sevenja Krauss vi invita ad assaggiare le sue fragole nostrane, in vendita alla Migros nella vaschetta da 250 grammi. (AdvAgency.ch/Däwis Pulga)

Da gustare in tante golose varianti, le fragole sono tra i frutti più amati dai consumatori, anche nel nostro paese. Stando ai dati dell’Associazione Svizzera Frutta, per quantità le fragole sono la terza più importante frutta da tavola indigena, dopo le mele e le pere. All’incirca un terzo di tutte le fragole consumate da noi annualmente proviene da produzione svizzera, ciò che corrisponde a ca. 7000 tonnellate. Il frutto in Svizzera è coltivato su una superficie corrispondente a oltre 700 campi da calcio. Il maggiore produttore in assoluto è il canton Turgovia, seguito da Argovia, Berna, Vallese e Zurigo. Le prime fragole indigene vengono raccolte a fine aprile e, grazie a

nuovi metodi di produzione introdotti negli ultimi anni, la stagione può protrarsi fino ai primi di autunno. Anche in Ticino da qualche anno ha preso piede questa coltura, anche se rispetto al resto della Svizzera la produzione è ancora relativamente limitata. Quattro anni fa a lanciarsi nella coltivazione delle fragole è stata la ventiduenne Sevenja Krauss di S. Antonino, che può essere definita una vera e propria «figlia d’arte»: la mamma Manuela è infatti da molti anni apprezzata produttrice per Migros di alcuni ortaggi nostrani, tra cui insalate, zucchine, finocchi, melanzane e cavoli rapa. «Tutto è successo quasi per caso: nel periodo in cui aspettavo di acce-

dere ad un’altra scuola, ho cominciato ad aiutare mia mamma in azienda. Pian piano mi sono appassionata al mestiere e la voglia di conoscere tutti i segreti del prodotto è cresciuta sempre di più», afferma la giovane coltivatrice i cui primi frutti di stagione sono giunti la scorsa settimana sugli scaffali dei negozi Migros e saranno disponibili almeno per i prossimi due mesi. Grazie alla vicinanza dell’azienda con la centrale di distribuzione Migros, le forniture avvengono in tempi brevissimi. «La raccolta sul campo – spiega Sevenja – viene effettuata al mattino presto, al pomeriggio consegniamo le fragole alla Migros e il mattino seguente sono già disponibili in tutti i

supermercati. In questo modo viene garantita la massima freschezza e il consumatore può essere certo di trovare un prodotto maturo al punto giusto, nel pieno del suo aroma». Le fragole nostrane vengono coltivate con metodi il più rispettosi possibili dell’ambiente e raccolte rigorosamente a mano, una ad una, dagli abili collaboratori della frutticoltrice: «Non esiste altro metodo per evitare di rovinare questo delicatissimo frutto». Sevenja prevede che quest’anno il raccolto sarà particolarmente abbondante. Ciò significa che i consumatori ticinesi potranno godere a lungo di tutto il profumo e la dolcezza delle fragole a km zero.

Buone anche per la salute Le fragole sono preziose per il nostro benessere. Sono ricche di acido folico e forniscono preziosi sali minerali. Hanno un tenore di vitamina C di 60 milligrammi per 100 g, addirittura superiore a quello delle arance e dei limoni. 150 g di fragole coprono il fabbisogno giornaliero di questa importante vitamina. Povere di calorie, possono essere consumate in grande quantità senza preoccuparsi troppo della linea.

Torta di fragole con gelato alla vaniglia Ingredienti per ca. 8 pezzi (1 stampo di 27 x 18 cm) 1 confezione di miscela per muffin di 290 g 50 g di burro 2 uova 2 cucchiai d’acqua 250 g di fragole 5 cucchiai di miele di fiori liquido 3 cucchiai di succo di limone 8 palline di gelato alla vaniglia Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Foderate la teglia con carta da forno. Preparate l’impasto con la miscela e mescolatela con il burro, le uova e l’acqua (senza i dadini di cioccolato). Versate l’impasto nella teglia e livellatelo. Cuocetelo al centro del forno per ca. 15 minuti. Fatelo raffreddare su una griglia. 2. Dividete le fragole in quattro pezzi, mescolatele con il miele e il succo di limone e fate marinare per ca. 30 minuti in frigorifero. 3. Distribuite le fragole e il succo sulla torta, lasciate riposare brevemente. Tagliate la torta a pezzetti e servite con una pallina di gelato alla vaniglia.


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Idee e acquisti per la settimana

Petto di tacchino svizzero Novità Le maggiori filiali Migros introducono

della carne di tacchino proveniente da allevamenti indigeni rispettosi della specie Il tacchino non solo si presta in cucina a tantissime preparazioni, ma è anche un alimento ideale per chi è attento alla propria alimentazione poiché soddisfa i bisogni nutrizionali di tutti. È infatti una carne con un basso tenore di grassi e facilmente digeribile, pertanto adatta anche per i bambini e anziani. È inoltre ricca di proteine ad alto valore biologico, sostanze che contribuiscono allo sviluppo della massa muscolare e al mantenimento di ossa sane, come pure di zinco e vitamine del gruppo B. Gli amanti di questa delicata carne e della buona cucina saranno contenti di sapere che ora alla Migros è disponibile il petto di tacchino svizzero. Gli animali sono allevati in piccole aziende agricole in ambienti adatti alla specie e secondo le severe direttive del concetto «RAUS», che prevede l’uscita regolare all’aperto su prati naturali durante il giorno e spaziose stalle per il riposo notturno. L’alimentazione è costituita da mangimi naturali senza OGM appositamente sviluppati per i bisogni degli animali.

L’origine svizzera della carne è sempre garantita: tutti i prodotti sono tracciabili, dal punto vendita fino alla fattoria. L’osservanza delle normative è regolarmente verificata da istituti indipendenti. Il petto di tacchino intero è ideale per la preparazione di saporiti arrosti oppure, affettato finemente, è ottimo per cucinare delle scaloppine in tanti modi differenti.

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Società e Territorio

Le prospettive future dei giovani Post-pandemia Una larga coalizione di organizzazioni che operano a favore dell’infanzia e della gioventù

in Svizzera ha lanciato un appello urgente rivolto alle autorità Barbara Manzoni Dall’inizio della pandemia di Covid-19 i giovani hanno dimostrato in più occasioni di essere solidali nei confronti delle fasce della popolazione più a rischio. Tanti ragazzi si sono messi a disposizione di diversi servizi di aiuto o semplicemente hanno dato una mano a familiari e parenti anche con piccoli gesti. Hanno accettato (e sopportato) le misure di contenimento del virus e si sono adeguati con pazienza a nuovi modelli di didattica nei diversi ordini di scuola e nelle università. Il loro è stato un apporto significativo durante questo lungo periodo e a loro ancora si chiede pazienza perché, ad esempio, saranno gli ultimi ad essere vaccinati. Nei giorni scorsi un’ampia coalizione di organizzazioni impegnate nella protezione e nei diritti dell’infanzia e della gioventù ha lanciato un appello urgente al Consiglio federale, all’Ufficio della salute pubblica e alle autorità cantonali. L’appello chiede chiarezza e soprattutto concretezza per le prospettive future delle giovani generazioni, inoltre auspica che sia data più voce ai giovani e che sia messa a punto una strategia post-pandemica che prenda in considerazione tutti i settori: scuola, famiglia, salute e tempo libero. La coalizione comprende l’Associazione mantello svizzera per l’animazione socioculturale dell’infanzia e della gioventù (DOJ), la Fondazione Pro Juventute Svizzera, la Federazione

svizzera delle associazioni giovanili (FSAG), l’UNICEF Svizzera e Liechtenstein e IG Sport Schweiz, ma ne fanno parte anche numerose altre organizzazioni che operano nel settore dell’infanzia e della gioventù, come Pro Familia Svizzera, Infoklick.ch, Intermundo, Fanarbeit Svizzera, Protezione dell’infanzia Svizzera, Movimento Scout Svizzero, Campus Democrazia, CEVI Schweiz, Jungwacht Blauring, Alliance Enfance, Federazione Svizzera dei Parlamenti dei Giovani FSPG, Federazione svizzera per i clubs e festivals di musica PETZI. Nella presentazione della loro iniziativa le organizzazioni sottolineano la loro insoddisfazione, a loro avviso «le recenti misure di allentamento prese dal Consiglio federale il 19 aprile 2021 non hanno dato molto rilievo alle serie preoccupazioni e alle importanti richieste delle giovani generazioni. Nel modello in 3 fasi presentato dal Consiglio federale, manca completamente una considerazione specifica per i bambini, gli adolescenti e i giovani adulti». Ilario Lodi, direttore della Fondazione Pro Juventure Svizzera italiana, spiega come è nata l’idea di un appello urgente: «Le organizzazioni che si sono coordinate per lanciare l’appello sono coloro che hanno la responsabilità di richiamare l’attenzione sulla complessità della situazione che i giovani vivono attualmente. Vogliamo fare in modo che venga loro prestata maggiore attenzione perché sono quelli più esposti e quel-

L’auspicio è di poter guardare al futuro con più certezze. (Shutterstock)

li nei confronti dei quali abbiamo meno strumenti per poter agire. Le politiche dell’infanzia e della gioventù in Svizzera sono perlopiù di competenza cantonale, ognuno agisce indipendentemente dagli altri. Questo porta a perdere una “visione dall’alto” di quella che è la situazione dei bambini e dei giovani nel nostro Paese. Perciò chiediamo che le politiche dell’infanzia e della gioventù entrino nell’agenda del politico con pari dignità di quelle dell’economia o dell’ambiente. Siamo convinti che di fronte alla crisi pandemica i problemi

siano talmente complessi da non poter più essere affrontati a livello famigliare e cantonale: devono essere affrontati a livello globale, per questo motivo chiediamo l’intervento del Consiglio federale». «Se non investiamo ora molte risorse – continua Ilario Lodi – la paura è quella di ritrovarci in uno scenario in cui dovremo sanare delle ferite che scopriremo essere molto più profonde di quanto immaginiamo». L’appello lanciato online propone soluzioni concrete ordinate in otto grandi aree: Prospettive chiare per il

futuro, Strategia post-coronavirus per tutte le generazioni, Inclusione dei bisogni nei processi decisionali, Solidarietà in entrambe le direzioni, Rapido sostegno per crisi e problemi psicologici, Case management per il passaggio al mondo del lavoro, Maggiori opportunità fino ai 25 anni e Rafforzare le strutture di supporto. Le organizzazioni impegnate nella protezione e nei diritti dell’infanzia e della gioventù chiedono dunque all’unisono risorse e soluzioni concrete ai problemi più urgenti dei giovani e ribadiscono che «bisogna agire ora per assorbire le tensioni sociali, la sofferenza individuale e gli ulteriori danni connessi alla “nuova normalità” post-pandemica. Dopo tutto, sono in gioco i bambini e i giovani, e con loro il futuro della nostra società». Un futuro che per tanti giovani e giovanissimi può oggi apparire oltremodo incerto: molti incontrano difficoltà nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro o non hanno una prospettiva valida di formazione o impiego. Senza contare che il debito nazionale che si sta accumulando li colpirà più duramente rispetto alle altre generazioni. Informazioni

Chiunque volesse leggere l’appello nella sua versione integrale lo trova sul sito www.projuventute.ch, l’obiettivo delle organizzazioni è raccogliere 10’000 firme. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Al tempo in cui diventammo umani

Evoluzione S econdo lo psicologo Michael Tomasello la cooperazione sociale è la chiave della nostra unicità

Lorenzo De Carli Accadde molto probabilmente 400’000 anni fa, con Homo heidelbergensis, che cessammo di avere una relazione esclusivamente competitiva con gli altri e sviluppammo, viceversa, l’inclinazione verso uno scopo congiunto e un’attenzione congiunta, vale a dire l’abilità di vedere le cose anche dal punto di vista degli altri. Fino ad allora eravamo come tutte le altre antropomorfe. Sapevamo, certo, che anche gli altri che vivevano nella stessa nostra comunità avevano un punto di vista individuale, erano cioè degli agenti intenzionali, però non eravamo in grado di coordinarci in un’azione collettiva, priva dello scopo strettamente individuale di soddisfare i nostri, personali, obbiettivi. Quando cacciavamo assieme lo facevamo come ancora oggi fanno gli scimpanzé: agivamo in parallelo, in modalità pressoché privata, consapevoli che la preda sarebbe stata disorientata dalla simultanea presenza di così tanti predatori, ma senza un piano e con il solo scopo di essere tra quelli che, per caso, avrebbero messo i denti sulla preda per primi, scacciando poi tutti gli altri, ai quali avremmo lasciato i resti – quando ormai sazi. La percezione degli altri come agenti intenzionali, capaci anche loro di avere rappresentazioni schematiche della realtà e di fare delle deduzioni basate sul principio di causa/effetto, faceva parte del corredo della nostra intelligenza. Come tutte le altre scimmie antropomorfe, questa consapevolezza l’avevamo evoluta per meglio manipolare gli altri, coerentemente con un atteggiamento esistenziale totalmente orientato alla competizione. Non fosse sopraggiunta la svolta cooperativa che caratterizzò gli ominidi di 400’000 anni fa, saremmo ancora una delle antropomorfe delle savane africane.

Tomasello ha messo al centro dei suoi studi i processi cognitivi e le abilità sociali dei bambini piccoli e dei primati Lo studioso che, in questi anni, sta tentando di ricostruire l’evoluzione del pensiero umano ottenendo i risultati più convincenti è Michael Tomasello, direttore del Max Planck Institute di Lipsia, dove coordina il dipartimento

Per Michael Tomasello la svolta cooperativa ha caratterizzato gli ominidi di 400’000 anni fa. (Shutterstock)

di Antropologia evolutiva, lavorando accanto a Svante Pääbo, il maggior esperto del genoma dell’uomo di Neanderthal. Tomasello, psicologo di formazione, ha pubblicato diversi saggi divulgativi, l’ultimo tradotto in italiano è Diventare umani (Raffello Cortina). Al centro dei suoi interessi ci sono i processi cognitivi dei bambini piccoli e dei primati allo scopo di individuare quali sono le caratteristiche comuni tra la cognizione umana e quella delle altre antropomorfe, e quindi individuare il punto dell’albero evolutivo che abbiamo in comune a partire dal quale noi abbiamo cominciato a divergere dalle altre scimmie per intraprendere un cammino evolutivo molto peculiare. A giudizio di Tomasello fu una pressione ecologica a spingere Homo heidelbergensis ad agire in maniera nuova, intuendo il vantaggio evolutivo della cooperazione. Se pensiamo a quanto potente doveva essere stata la forza con cui il desiderio di competizione aveva fino a quel momento guidato le azioni di tutti i primati, non solo – come scrive Tomasello in Unicamente umano. Storia naturale del pensiero – «l’uso dell’intenzionalità congiunta per risolvere concreti problemi di coordinamento sociale creò un tipo di pensiero radicalmente nuovo», ma

fu per così dire l’inizio della nostra autodomesticazione. La prima tappa evolutiva fu quindi «caratterizzata dallo sviluppo di un nuovo tipo di collaborazione su piccola scala nella ricerca di cibo». In un certo senso, cominciammo ad essere umani quando iniziammo a coordinarci in maniera tale da essere un soggetto plurale, un «noi». Le dimensioni sociali del nostro pensiero – secondo la ricostruzione di Tomasello – s’imposero subito: «la necessità di coordinare ruolo e prospettive portò all’evoluzione di un nuovo tipo di comunicazione cooperativa basata sui gesti naturali dell’indicare e del mimare». È stato proprio lo studio della comunicazione negli altri primati e nei bambini a convincere che, durante questa prima tappa evolutiva, non era necessario possedere il linguaggio: «la comunicazione indirizzava l’attenzione o l’immaginazione del ricevente, per via gestuale e/o simbolica, verso qualcosa di “pertinente” alla loro attività comune». Se l’intenzionalità congiunta, una specie di collaborazione di tipo duale, fu la caratteristica della prima tappa evolutiva, l’intenzionalità collettiva – che emerse circa 200’000 anni fa con Homo sapiens – fu caratterizzata da una cultura orientata al gruppo, soste-

nuta da una comunicazione convenzionale. Nella prima fase, tra piccoli gruppi, era possibile comunicare a gesti, ancorando la comunicazione al terreno comune, luogo degli obbiettivi condivisi; nella seconda fase, a mano a mano che andò accumulandosi il bagaglio di gesti simbolici per designare non solo referenti presenti ma anche lontani nel tempo e nello spazio, emersero vocalizzi convenzionali e poco per volta il linguaggio. Tomasello più volte sottolinea che fummo umani ben prima di sviluppare il linguaggio così come lo conosciamo, e che anche per pensare – per esempio per compiere inferenze – non avevamo affatto bisogno del linguaggio perché ci caratterizzava la facoltà di comprendere gli altri per mezzo dell’identificazione nei loro bisogni, i quali – spesso – coincidevano con i nostri. Fu lo sviluppo di comunità più ampie ad esercitare una pressione evolutiva in favore di forme di verbalizzazione sempre più complesse. Nei 200’000 anni che separano le due fasi evolutive individuate da Michael Tomasello cambiò anche il nostro modo di valutare la nostra adeguatezza sociale. Se ai tempi di quella che Tomasello definisce «intenzionalità condivisa» percepivamo adeguata la nostra condotta in base all’apprezzamento

dei nostri partner – per esempio quelli di caccia; nella fase dell’«intenzionalità collettiva» la circolazione del linguaggio permise alle menti dei primi Homo sapiens di sviluppare un «automonitoraggio normativo», la capacità, cioè, di saper valutare autonomamente ciò che la collettività ritiene adeguato o no – in un certo senso di pensare il pensiero, vale a dire di avere parole per le intuizioni o le preoccupazioni che avevamo vive, sì, ma mute. È a questo punto che poterono emergere le pratiche culturali convenzionali, fortemente aiutate dal fatto che «gli esseri umani hanno una spiccata mentalità in-group/out-group che, molto verosimilmente, è peculiare della nostra specie»: il linguaggio permise cioè di tener vive dentro ciascuno di noi le norme che regolavano la vita collettiva del nostro gruppo. L’aspetto nuovo della ricostruzione evolutiva compiuta da Michael Tomasello sta nella centralità data alla capacità di cooperare. Non fu il linguaggio a distinguerci dagli altri primati e neppure l’abilità a produrre utensili: fu la cooperazione sociale resasi necessaria dai cambiamenti ecologici. Non avessimo appreso ad articolare la nostra azione con la prima persona plurale – «noi» – non saremmo mai diventati umani. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Le chiusure invisibili Si apre? Ma quando si apre? E perché ancora non si apre? Di questi tempi la parola apertura è diventata il generatore simbolico di molti significati, un orizzonte di senso condiviso per leggere e per interpretare le vicende e le attese che attraversano questo nostro inedito presente. Certo, di una bella parola si tratta, una parola che indica il desiderio di dare più spazio alla vita. Una parola che sa aprire la nostra immaginazione anche su orizzonti sconfinati, proprio come quell’insettone strano con le zampe allargate che abbiamo potuto vedere recentemente in tanti video e che in realtà era l’ombra di un minuscolo elicottero in volo su Marte. Quell’immagine è diventata una potente metafora: aprirsi ad un cielo che finora non ci apparteneva. Così, l’apertura di terrazze e musei, di biblioteche, cinema e palestre, attesa, desiderata, rinviata, può essere lo specchio di un bisogno e di un desiderio

esistenziali più profondi, lo specchio di un’apertura dell’animo. Guardiamo allora dentro questo specchio perché forse proprio nella sua luce riflessa possiamo capire una cosa importante, ovvero che il mondo comincia dentro di noi e da quel nostro luogo intimo possiamo reimparare a vederlo. Reimparare, sì, perché il mondo ci appare oggi tutto esibito nella sua ineluttabile presenza, un presente su cui spesso percepiamo di non avere più molta presa e rischia perciò di diventare insignificante, incapace di interpellarci sul senso delle cose. Perché l’insignificanza non è tanto nella mancanza di senso delle cose, quanto piuttosto nella mancanza del desiderio di ricercarlo. È qui che nasce il disincanto provato da molte persone, anche da tanti giovani che si aprono alla vita, come mostrano alcune attuali ricerche psicologiche. Questo disincanto, che spegne le domande e ci consegna all’indifferenza,

può provocare altre chiusure, ben al di là di quelle, pur dolorose, di ristoranti e luoghi vari di aggregazione. Chiusure della mente e del cuore; chiusure verso i volti, i colori e i profumi della vita che potrebbero sorprenderci e invitarci ad andare oltre; e chiusure anche verso il volto e la parola dell’Altro che facciamo fatica a riconoscere come parte di noi. Rischiamo così di portare a spasso tante solitudini, soli in mezzo a tanti altri, tutti in attesa di aperture di spazi e luoghi, fragile promessa di nuovi improbabili incontri. Perché è di altre aperture che abbiamo davvero bisogno. Di quelle aperture che abitano gli strati più profondi della nostra umanità, quei luoghi intimi in cui ci sentiamo davvero a casa nostra. Abbiamo bisogno di accogliere nella nostra dimora interiore ciò che ci attende sull’uscio giorno dopo giorno. Accoglierlo per farlo risuonare in noi. Come accade alla parola che invita il silenzio come luogo

del suo ascolto, o come accade alle note di un concerto quando riescono a reinventare la loro musica dentro un animo che desidera accoglierle, apertura è riconoscere e sentire le nostre risonanze interiori quando camminiamo nella vita, quando incontriamo l’Altro, sul lavoro, nei sogni e perché no, anche su terrazze finalmente aperte. Il filosofo Hartmut Rosa ha riflettuto molto sul valore dell’esperienza della risonanza come risorsa per contrastare il vuoto e l’indifferenza che a volte si impadroniscono delle nostre vite. E a ragione sottolinea l’importanza di entrare in una relazione di reciprocità con il mondo. Sentire la presenza del mondo dentro la propria pelle, reimpararne le voci, lasciando andare le sue mute evidenze. «Nulla vale la durata di una vita / ma se mi alzo e divoro con un urlo il mio tempo di respiro / lo faccio solo pensando alla tua sorte (…) mia aperta poesia /

che mi scagli al profondo / perché ti dia le risonanze nuove». Questa poesia di Alda Merini è come un canto, un canto innamorato del risuonare in noi della vita, straordinaria sorgente di apertura. Ancora una volta, situazioni inattese, che continuano a metterci alla prova, si offrono come una possibile occasione per entrare più in contatto con noi stessi, allo specchio del nostro modo di vivere e di convivere. Situazioni difficili che possono diventare occasioni per porci qualche buona domanda, sempre che abbiamo voglia di ascoltarla. Eccone una: perché i ristoranti chiusi ci preoccupano di più delle chiusure del cuore e della mente? I ristoranti chiusi sono ben visibili, le porte del cuore e del pensiero restano, e per fortuna, invisibili. Eppure sono proprio queste chiusure invisibili che ci rendono più fragili, incapaci d’interrogare e di comprendere il nostro malessere di fronte alle difficoltà del presente.

quale si sofferma a lungo nel suo saggio introduttivo al catalogo della mostra Enigma Helvetia (2008) intitolato L’isola dell’altrove. Risalgo il Ranft non tornando sui miei passi ma costeggiando il torrente lungo il quale ci sono tanti cairn votivi. E poi su, a caso, per un ripido sentiero tra i faggi che sbuca in cima vicino all’Hotel Paxmontana (728 m). Appena entrato nella camera numero quattrocentonove, già la vista del magnifico balconcino in legno, sotto una loggia, color giallo maionese e rosso ketchup, che si affaccia su un panorama bucolico obvaldese, è a dir poco tranquilizzante. Seduto poi su una delle due sediole in legno e ferro battuto, la vista da lì, ritrovando come l’incanto del palco all’opera, con lo scampanio stordente delle mucche, l’aria pura, è tutta una storia. Perdipiù, al posto della televisione, c’è un binocolo sul tavolo. E potrei dunque raccontarvi ogni minimo dettaglio del panorama un bel pomeriggio ai primi di maggio, come quella macchina d’epoca bianco ostrica che corre tra i campi o i filari di frassini lungo i riali o l’espressione

placida di quelle mucche laggiù, la geografia maculata tipica dei boschi che s’intervallano ai prati, l’angolo iperdistensivo del lago di Sarnen, la religiosità degli alberi di melo in fiore. Mi viene anche in mente La finestra sul cortile (1954) di Hitchcock dove James Stewart, grazie al binocolo, assiste a un delitto. Qui sulla sinistra si eleva la torre a campanile e la coppia che mi sorride dal balcone non sembra però un possibile caso criminale, chissà però cosa covano nelle fattorie dei dintorni. Opera di Walter Schumacher (18721941) e Othmar Schnyder (1849-1928), restaurata qualche anno fa dallo studio di architetti Pfister Schiess Tropeano già incontrato per via di Villa Patumbah, l’hotel Paxmontana tiene alto il suo nome e più che una pace montana mi viene sonno. Ispirato da «san Niklaus von Flüe che visse diciannove anni e mezzo in un eremo senza mai mangiare» come scrive Aldo Buzzi nella Pastina in brodo della pensione presente in L’uovo alla kok (1979), vado a letto senza cena.

automaticamente testi e podcast partendo da dati strutturati provenienti da diverse fonti. Insomma, l’intelligenza artificiale è già tra noi, ce lo dice anche Francesco Marconi, autore del saggio Newsmakers: Artificial Intelligence and the Future of Journalism, già responsabile ricerca e sviluppo del «Wall Street Journal» e collaboratore della startup Applied XI sviluppatrice di strumenti per automatizzare la raccolta dati per i giornalisti. In un’intervista di qualche settimana fa su «Wired» dal titolo L’intelligenza artificiale può cambiare il modo di fare giornalismo, Marconi parla di un nuovo tipo di giornalismo, il giornalismo computazionale, che aspira a spiegare i fatti di cronaca con rigore scientifico. «L’esplosione dei dati sul web, quelli raccolti dai dispositivi mobili e dai satelliti, e poi le nuove possibilità di calcolo messe a disposizione proprio dalle intelligenze artificiali stanno creando l’ambiente ideale per

trasformare il giornalismo». A suo avviso l’integrazione dell’intelligenza artificiale nel mondo dell’informazione che va poi a costituire quello che Pratellesi chiama «modello di informazione ibrido uomo-macchina», è un processo dal quale nasce un giornalismo molto più veloce e affidabile. Insomma, grazie all’apprendimento automatico e all’elaborazione del linguaggio naturale presto troveremo e raccoglieremo notizie in modo automatico a una velocità oggi impensabile. Ma quante redazioni oggi utilizzano l’intelligenza artificiale? A questa e altre domande risponde lo studio New powers, new responsibilities. A global survey of journalism and artificial intelligence di Charlie Beckett direttore di Polis, think thank della London School of Economics. Dei risultati di questa ricerca in cui sono coinvolte 71 testate di 32 paesi parleremo sempre qui tra due settimane. Vi aspetto.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’hotel Paxmontana di Flüeli-Ranft Balza subito sempre un po’ agli occhi, da queste parti, la quantità di verde rispetto alle case e fattorie. Verde psicoattivo dei prati che m’invoglia, invece di prendere la posta alla stazioncina di Sachseln, a salire a piedi. Il paesaggio agreste di questa passeggiata al centro della Svizzera, a un certo punto incontra, lassù in cima, un curioso hotel tipo castello fiabesco soprannominato da qualcuno «Il Ritz del silenzio». L’hotel Paxmontana, sorto nel 1896, prende il suo attuale aspetto caratteristico, dettato dalle due torri con tetto conico come campanili, nel 1906. Tra Heimatstil e Jugendstil, una grande veranda-ristorante, quattro piani, la bandiera svizzera che svetta, le montagne innevate dietro che risaltano scintillanti. Una di queste, fino al 1956, dà il nome all’hotel – Kurhaus Nünalphorn – fondato da Franz Hess (1865-1948) di Kerns, paesino a quattro chilometri da qui. FlüeliRanft, località panoramica del canton Obvaldo dove m’imbatto, nei pressi del Paxmontana, in un vecchio chalet imbrunito dai secoli e indicato come la

casa di Nicolao della Flüe (1417-1487): contadino analfabeta diventato nel 1947 santo patrono della Svizzera. C’è anche la casa dove è nato, però l’attrazione maggiore, meta di pellegrinaggio, rimane il suo eremo giù nelle gole dove scorre la Grande Melchaa. Tra cartelli e souvenir presenti al chiosco, percepisco un’atmosfera da santuario a metà strada tra Ballenberg e Club Med. In sette minuti, scendendo verso il fiume, ecco la cappella nota come Obere Ranftkapelle con una specie di stalla annessa. È l’eremo dove San Nicolao – non c’entra niente con il San Nicolao stile Babbo Natale sull’asinello che il sei dicembre porta mandarini e spagnolette ai bambini nelle scuole ma crea in tanti molta confusione – della Flüe ha digiunato per vent’anni. Quasi tutti gli ex voto appesi sono in legno: alcune targhette con impresse, a fuoco, parole di ringraziamento in caratteri gotici, qualche tronco sezionato con corteccia orribilmente laccata e atroci fiorellini dipinti. Un ritratto, a matita, mostra il volto provato di Niklaus von Flüe noto anche più familiarmente

come Bruder Klaus: mi ricorda molto certi tossici ai tempi del Platzspitz. Una scaletta conduce nella scomodissima cella-eremo. Salto la visita a uno chalet che vende souvenir di Fratello Nic che dopo aver abbandonato moglie e figli si è conquistato un posto d’onore nella mitologia svizzera al pari di Guglielmo Tell grazie a un presunto ruolo come «mediatore federale» nella Dieta di Stans del 1481. E non solo, come risulta dal delirante affresco che si vede, se vi voltate, appena entrati nella Untere Ranftkapelle. Un gigantesco ex voto macabro-grottesco-caricaturalenaïf dipinto nel 1921 dal trio Robert Durrer, Albert Hinter, Hans von Matt per conto dell’Associazione popolare cattolica svizzera. La Svizzera, raffigurata come un’isola-montagna, con ai suoi piedi una marea di teschi – alcuni con maschere antigas, fez, kepì, e molto altro ancora – viene risparmiata dalla prima guerra mondiale proprio grazie a San Nicolao della Flüe. «Ciò che vi è rappresentato è, a dir poco, sconvolgente» scrive Pietro Bellasi a proposito dell’affresco-ex voto sul

La società connessa di Natascha Fioretti Un robot in redazione Conosco Marco Pratellesi da tanti anni, ho seguito diversi suoi interventi al Festival del giornalismo di Perugia, è stato ospite di diverse lezioni all’USI quando lavoravo all’Osservatorio europeo di giornalismo ed è stato protagonista di una serata sui Panama Papers organizzata dall’Associazione ticinese dei giornalisti quando era capo redattore responsabile del sito dell’«Espresso». Tra i pionieri del giornalismo digitale, condirettore fino al 2020 di Agi, Agenzia Giornalistica Italia, da tempo seguo le sue attività sui social media. Ultimamente ha pubblicato diversi post sull’applicazione dell’intelligenza artificiale al giornalismo e come spesso mi accade sui social, vedo delle cose che mi interessano, non ho tempo di leggerle o approfondirle in quel momento e dunque me le segno per non dimenticarle e tornarci in un’altra occasione. Quell’occasione è arrivata e ho sco-

perto un suo interessante contributo intitolato Robot in redazione cogliete l’attimo uscito su «Prima Comunicazione». Per spiegarne il taglio e il tenore basta forse una citazione: «Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata di questa innovazione che può regalare un vantaggio competitivo a chi la adopera, senza dimenticare le competenze etiche e deontologiche alla base del buon giornalismo». Come consumatori di notizie ma anche come giornalisti, non è facile pensare al connubio tra AI e informazione ma a guardarci dentro si scoprono cose davvero interessanti e soprattutto si scopre che l’AI è già al lavoro in alcune redazioni. Dreamwriter realizzato dal gigante cinese TenCent è il nome di un robot giornalista capace di scrivere una storia di mille battute in un minuto e sfornare 500mila articoli l’anno. Testi che un tribunale di Shenzhen ha ritenuto qualificati per la protezione del copyright. Il «New

York Times», il «Washington Post» e «El País» hanno introdotto la moderazione automatizzata dei commenti agli articoli per liberare risorse giornalistiche e lavorare sul coinvolgimento dei lettori. Passo reso possibile da programmi di Machine learning come Perspective, strumento open source sviluppato da Jigsaw, incubatore di tecnologie di Alphabet. Altra iniziativa interessante è quella lanciata dal «Sole24Ore» in collaborazione con Dataninja, il Centro di tecnologie del linguaggio naturale dell’Università di Pisa e con il sostegno di Google nell’ambito del programma Google News Initiative. Si tratta di due podcast quotidiani, uno aggiorna gli ascoltatori sulle chiusure delle principali borse europee e mondiali, l’altro aggiorna sulla pandemia e la campagna di vaccinazione in Italia e nel mondo. Il sistema che rende possibile quest’operazione si chiama AI Anchor e produce


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Ambiente e Benessere Un viaggio nella storia In Etruria, girovagando fra Toscana, Umbria e Lazio alla ricerca di antiche necropoli

GTX, la scommessa Volkswagen La casa automobilistica tedesca lancia il modello elettrico che con il tempo sostituirà la GTI pagina 17

Antichi cerimonieri In epoca romana nasce la figura del Magister bibendi, l’antesignano del moderno sommelier pagina 18

pagina 15

Fame di movimento Dopo le limitazioni imposte dalla seconda ondata di Covid, Pro Senectute Ticino e Moesano reintroduce la ginnastica all’aperto

pagina 21

Il dottor Pietro Cippà, a sinistra, e la dottoressa Jennifer Scotti Gerber con un paziente. (Stefano Spinelli)

Covid – I pazienti ad «alto rischio»

Salute Persone sotto dialisi o che hanno subito un trapianto di reni hanno dovuto affrontare con grande cautela

l’anno di pandemia Maria Grazia Buletti

«Sono stato trapiantato da poco e ricordo la telefonata notturna del 5 febbraio scorso nella quale dall’Ospedale universitario di Zurigo mi hanno informato di avere un rene per me. Ero in lista d’attesa da 5 anni, anche se ho dovuto sospendere un periodo per questioni di salute, e temevo che la situazione creata dal Coronavirus avrebbe potuto ritardare ulteriormente il trapianto». Così non è stato per il nostro interlocutore che racconta come ha trascorso, prima da paziente dializzato e poi da trapiantato, il periodo della pandemia in cui si è compreso che l’insufficienza renale è un fattore di alto rischio di complicazioni per chi contrae il Covid: «Sapevo che se avessi preso il Covid avrei corso più rischi di altre persone e ho sempre fatto attenzione a chi frequentavo, cercando di capire chi fosse e se si comportava responsabilmente. Ad esempio ho chiaramente intimato di stare alla larga a una persona che non rispettava l’isolamento malgrado avesse il Covid. Non mi sono lasciato sopraffare dalla paura nemmeno quando mi recavo in ospedale 4 volte alla settimana per sottopormi a emodialisi: medici e sanitari hanno saputo mettere a proprio agio tutti noi dializzati, anche nella trasferta di mesi all’Ospedale Regionale di Bellinzona perché Locarno era di-

ventato un centro Covid. Una grande famiglia, in cui ci siamo sentiti a nostro agio e siamo stati aiutati a capire come proteggerci. Sarò vaccinato tra poco, perché, a causa dei farmaci antirigetto, bisogna aspettare circa tre mesi dopo il trapianto perché il vaccino sia efficace». Egli ha vissuto consapevolmente la sua condizione durante l’anno di pandemia che lo ha visto passare da paziente emodializzato a trapiantato. L’emodialisi (dal greco àima – sangue, e diàlysis – scioglimento) è una terapia fisica sostitutiva della funzionalità renale a cui si devono sottoporre più volte alla settimana pazienti nei quali essa è fortemente ridotta, mentre il trapianto renale è l’intervento chirurgico che consiste nel prelevare un rene sano da un donatore (deceduto o donatore vivente) e impiantarlo in una persona con insufficienza renale terminale. Per chi è affetto da insufficienza renale irreversibile, il trapianto di rene costituisce un’alternativa alla dialisi in grado di assicurare la sopravvivenza anche grazie all’assunzione di farmaci antirigetto che però, per evitare il rigetto dell’organo, inibiscono il sistema immunitario. «Ciò spiega l’alto rischio che corrono questi pazienti più delicati a fronte di agenti patogeni come il Coronavirus», esordisce il dottor Pietro Cippà, primario di nefrologia EOC. La sua capo clinica Jennifer Scotti Gerber

ribadisce: «L’insufficienza renale è un fattore di rischio importante nei pazienti Covid e si può comprendere quanto pesante sia stato quest’anno per i nostri pazienti». Dal canto suo Cippà ricorda: «Un anno in cui tutto il sistema sanitario ha dovuto rivedere le proprie priorità, soprattutto durante la prima ondata in cui ancora poco o nulla si sapeva, e in brevissimo tempo abbiamo dovuto assistere e trovare il modo per proteggere tutti i pazienti dializzati, ad esempio trasferendo verso l’Ospedale Regionale di Bellinzona tutti quelli della dialisi di Locarno. Quei primi mesi il programma trapianti era stato sospeso, suscitando parecchie preoccupazioni dei nostri pazienti». In Ticino, le persone bisognose di emodialisi sono oltre 200, mentre i trapiantati 10 – 15 all’anno, fra i quali ora c’è pure il paziente che ci ha raccontato l’esperienza vissuta nel periodo di pandemia. Il primario di nefrologia è soddisfatto del bilancio di questi mesi complicati: «Ci siamo occupati di tutti gli aspetti sanitari, sostenendo e curando correttamente i nostri pazienti, senza dimenticare i rapporti coi centri trapianti della Svizzera interna per assicurarci che tutto potesse comunque proseguire, in attesa del vaccino». Una gestione delle risorse che ha lasciato spazio a un nuovo assetto per assicurare le cure necessarie, racconta Gerber: «Abbiamo curato e

visitato i nostri pazienti trapiantati che, soprattutto nelle prime fasi post trapianto, vanno seguiti assiduamente». Una presa a carico per nulla banale dei primi mesi, resa possibile dalla gestione condivisa fra i centri trapianti e il Ticino che oggi dispone delle necessarie competenze, sottolinea Cippà: «Questo attraverso una multidisciplinarietà funzionale assicurata da figure curanti e specialisti per la gestione di tutti i casi: un sistema sviluppato negli ultimi anni che, con l’arrivo del Covid, ci ha permesso di curare tutti i nostri pazienti nel migliore dei modi evitando frequenti trasferte in treno e i relativi rischi aumentati durante la pandemia». L’immunosoppressione è pure un tema complesso per rapporto al Covid, spiega Cippà che parla di «dati un po’ discordanti» anche nella letteratura scientifica: «Sappiamo che le infezioni nel paziente immunosoppresso portano a esiti negativi, ma in certi contesti si sono usati immunosoppressivi a scopo terapeutico per evitare il decorso Covid in parte legato a un’esagerata risposta del sistema immunitario. Oggi possiamo affermare che il rischio, per i pazienti immunodepressi non è estremamente più alto, ma abbiamo comunque consigliato ai pazienti trapiantati di proteggersi con mascherine, disinfezione e attenzione». Sin dall’inizio, l’estrema cautela e l’accurata gestione hanno per-

messo di proteggere adeguatamente la maggior parte dei pazienti: «Abbiamo giocato d’anticipo con la prevenzione, applicando le misure di quando ci sono rischi aumentati». Resta il discorso del vaccino cui ora possono accedere i pazienti ad alto rischio: «La gestione rigorosa ed efficace da parte delle autorità e degli organi competenti ha permesso di dare, laddove necessario, una priorità a quei pazienti che sarebbero dovuti essere presto trapiantati perché poi, a causa dell’alta immunosoppressione, si sarebbe dovuto aspettare tre mesi dal trapianto: un periodo già troppo critico per rischiare di contrarre anche il Covid, a scapito della riuscita del trapianto stesso, e una misura a beneficio della collettività». L’efficacia del vaccino nei dializzati è pure un tema: «Il loro sistema immunitario è meno efficace di quello della popolazione sana e all’EOC stiamo svolgendo uno studio di monitoraggio sierologico con tutti i pazienti dei centri dialisi (prima, durante le ondate Covid e ora, dopo il vaccino). I dati mostrano un’efficacia un po’ minore che nella popolazione, ma potremo comunque valutarli per rapporto a cosa aspettarci dai vaccini con questi pazienti». Pazienti che pensano al vaccino con un certo sollievo: «Permetterà a parecchi di loro di ritrovare una certa normalità».


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Ambiente e Benessere

In Etruria, viaggiando nel tempo Viaggiatori d’Occidente Nelle terre degli Etruschi, vagando dalla Toscana al Lazio passando per l’Umbria

Pitigliano, provincia di Grosseto. (Paolo Brovelli)

Paolo Brovelli In quest’epoca strana di cammini interrotti, di sguardi di sbieco e di strette di mano scansate, di fronte a spazi pieni di barriere, i soli viaggi consentiti, legali, salubri, forse anche etici, sembrano essere nel tempo: anziché seguire il senso orizzontale della geografia, ci muoviamo nel senso verticale della storia. E spesso, viaggiando nella storia, scopriamo un’altra geografia. Per esempio là dove oggi trovi tre regioni nel cuore d’Italia − Toscana, Umbria e Lazio – io ho viaggiato in Etruria, nei secoli prima di Cristo e di Roma. Il mio viaggio comincia a Firenze. È lì che sorge Fiesole, una delle più antiche città etrusche, vicino al capoluogo toscano, che ai tempi ancora non c’era. Da sotto le sue mura d’epoca, accrocchiate poi con le romane, la mia strada serpeggia verso sud, coronata, una settimana dopo, dalla meritata visita finale al Museo di Villa Giulia, nella Città Eterna, il più grande fondo etrusco del pianeta. Lungo il cammino, tra ampie vallate, colline e vitigni, tra orridi e laghi vulcanici, tra torri, murate e grotte di tufo, mi faccio strada in quel mondo sepolto, in cerca del nocciolo d’una manciata di città e di borghi di cui già avevo assaggiato la polpa. Sì, perché l’Etruria vive ancora, in superficie, anche solo nella calata dell’italiano di Toscana (la cosiddetta gorgia, per via delle consonanti aspirate) e forse anche nei volti, come mostrano le urne e gli affreschi. Un viaggio tra gli etruschi è soprattutto un viaggio per necropoli, nei boschi di Norchia, per le scarpate misteriose delle Vie cave di Sovana, tra i tumuli erbosi di Cerveteri… Le città dei morti ci suggeriscono quelle dei vivi, e i volti e le opere dei vivi, di rimando, quelli di chi non c’è più da millenni. Si nota anche nell’orgoglio della gente, specie nelle città che in modo più marcato sbandierano la loro origine tirrena. Ci sono taverne etrusche, affittacamere, persino delivery, con nomi ed effigi etrusche. A Veláthri per esempio, la petrosa e medieval Volterra, l’orefice di piazza mi mostra pezzi d’alabastro incastonato con motivi ispirati a quelli del vicino museo Guarnacci, fondamentale per il passato cittadino. «Guardi questi due delfini», dice brandendo un paio d’orecchini. «C’è un’urna qui che ne ha di uguali-uguali. Perché, sa, ‘noi’ etruschi eravamo anche grandi marinai» mi spiega portandomi sull’uscio, per far rilucere le pietre con-

Vista sul mare da Tarquinia, Lazio. (Paolo Brovelli)

Necropoli della Banditaccia. (Paolo Brovelli)

Le necropoli si trovano a volte nelle immediate vicinanze dei borghi. (Paolo Brovelli)

Necropoli etrusca della Banditaccia, a nord di Roma. (Paolo Brovelli)

tro il sole algido d’ottobre. «Ci spartivamo il mare con i cartaginesi e i magnogreci, quando i romani erano ancora neonati. Anche l’Elba era etrusca e col suo ferro ci facevamo le armi per combatterli». Dai coperchi delle mille urne del Guarnacci i defunti, in ritratti magistrali tra triclini e libagioni (perché è bello rimembrare nella morte i momenti felici della vita), mi suggeriscono d’andare a curiosare tra le loro case, sottoterra. Forse allora tutto mi sarà più chiaro, che nonostante il luogo comune non c’è nulla di misterioso in questa civiltà, della quale conosciamo anche la lingua e la scrittura, per quanto le testimonianze siano scarse, roba di elogi funebri o compravendita di terreni. A Chiusi, Clevsins, la pioggia torrenziale per le vie selciate mi spinge subito alla mia prossima visita, sottoterra. Scalpicciando a testa china nella penombra umida dell’arenaria del Labirinto di Porsenna, ripenso alla descrizione di Plinio il Vecchio del leggendario mausoleo di questo lucumone (re, gran sacerdote), ai suoi occhi di romano anche troppo magnifico per un capo etrusco, e nemico. In realtà questi cunicoli erano solo un sistema idrico, ma la suggestione mi risveglia il ricordo di quei tempi eroici nelle letture della scuola, e dei Tarquini, ultimi re di Roma che tanto d’etrusco diedero alla città prima che diventasse Eterna. Alla patria loro, Tarchna, giungo col vento scendendo d’Appennino verso il mare, lasciandomi alle spalle i temporali d’un autunno fin troppo precoce. Tarquinia m’irretisce prima con

le strade e i palazzi del color del sasso, che poco hanno da invidiare a ciò che ho appena visto a Orvieto (Velzna) e a Perugia (Phersna). Ma poi mi spinge ai margini dell’abitato, nella necropoli etrusca dei Monterozzi, Patrimonio Unesco, una spianata erbosa sotto la quale si cela la maggiore raccolta di opere pittoriche del mondo preimperiale. Le tombe visitabili (una ventina) sono rettangolari, scavate in fondo a scalinate di diversi metri sul modello delle loro case antiche. È un’atmosfera strana, che di questi tempi ci si va uno alla volta, s’accende una luce a tempo e nel silenzio s’osserva il mondo variopinto che prende vita innanzi a noi, attorno e sopra i letti di pietra per il sonno dei defunti. I leopardi e le leonesse che ornano certi frontoni, i musici e i giocolieri, i cacciatori e i pescatori, i cavalli e i tori, e i banchetti, e gli amplessi… La vita e la morte ti sfilan davanti, lì sotto, e non ne sei mai pago, ti scuoti solo quando finisce il tempo che ti è concesso, che altri hanno diritto d’ammirar l’eterno. Città dei morti, nei paraggi, ce ne sono tante. E preziose. Una per tutte, quella di Cerveteri, alla Banditaccia. Con le sue tombe a tumulo simili ai kurgan che ho visto in tutta l’Eurasia, pare sia la maggiore del Mediterraneo. L’antico mondo etrusco tracima dal centro Italia, dove pur le città-stato eran decine. Fèlsina (Bologna), anche, oltre Appennino, e Mantua (Mantova), e Spina, sull’Adriatico. E poi anche a meridione, giù fino a Capua e quasi al golfo di Napoli… Ma io mi fermo a Roma, che fu la sua fine; e al tempo stesso un nuovo inizio.


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Idee e acquisti per la settimana

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Ambiente e Benessere

Entra in scena la GTX

Motori Con l’ambizione di diventare leader mondiale nella mobilità elettrica entro il 2025,

Volkswagen lancia il modello che sostituirà con il tempo la GTI Mario Alberto Cucchi In Volkswagen i modelli più sportiveggianti da decenni si fregiano della sigla GTI, Gran Turismo Iniezione. Una sigla che, con le varie Golf che si sono succedute, ha fatto sognare molti appassionati. Insomma, un evergreen. GTI non va in pensione per ora, ma oggi nasce GTX. L’occasione è il debutto della versione più potente di tutte le ID.4, un modello a trazione integrale che porta in dote la neonata sigla GTX. D’ora in poi andrà a identificare tutte le varianti ad alte prestazioni alimentate solo dagli elettroni. La lettera X rappresenta l’anello di congiunzione con la mobilità del futuro. Secondo Volkswagen «ecocompatibilità e sportività non si escludono a vicenda, ma si integrano». È così che prosegue la corsa all’elettrificazione del costruttore tedesco. A pochi mesi dall’arrivo nelle concessionarie di ID.3, segue la più grande ID.4. A prima vista potrebbe sembrare una versione più moderna ed elettrica della popolare Tiguan, in realtà è molto di più. Il secondo modello della nuova famiglia green rappresenta infatti un nuovo passo della «way to zero». Questo il nome dato al progetto che vuole portare la Casa automobilistica a diventare entro il 2050 completamente «carbon neutral», ovvero con l’obiettivo di emettere esclusivamente emissioni riassorbili dall’ambiente lungo tutta la filiera. Il 2050 sembra lontano, ma i tede-

schi sono convinti che non ci sia tempo da perdere. Ecco allora che prima di ampliare la gamma con GTX, hanno lasciato ai clienti giusto il tempo di leggere il listino prezzi della nuova ID.4. Per la cronaca, parte da 39’050 franchi per la versione Pure da 148 cavalli. Ma da cosa si distingue la versione più sportiva? Innanzitutto ID.4 GTX è equipaggiata con due motori elettrici: uno sull’asse posteriore e uno su quello anteriore. I due propulsori sviluppano insieme una potenza massima di 220 kW, ovvero ben 299 cavalli, e sono in grado di funzionare in sinergia come una trazione integrale elettrica. Tutto ciò si traduce in prestazioni brillanti per ciò che concerne lo scatto, per una vettura lunga 4,58 metri. Il cronometro si ferma in 6,2 secondi sullo 0-100 km/h. La velocità massima è invece autolimitata a 180 orari. Considerando il suo buon coefficiente aerodinamico, con un cx pari ad appena 0,29 ci si potrebbe aspettare di più. Va detto che limitare la velocità massima è una tendenza sempre più diffusa tra le auto elettriche, dettata sia dalla sicurezza, sia dal fatto che all’aumentare della velocità il consumo delle pile diventa esponenziale. La batteria di GTX mette a disposizione 77 kWh di energia, garantendo così un’autonomia realistica fino a 480 km secondo il ciclo WLTP. Grazie a una potenza di carica massima pari a 125 kW, può essere ricaricata anche attraverso i punti ultrarapidi.

La nuova ID.4 GTX. (Volkswagen)

Il SUV ID.4 GTX debutterà sui mercati europei nell’estate 2021. In Germania il prezzo base è di 50’415 Euro. In Svizzera non è ancora stato comunicato, l’ipotesi è che non sia molto distante. L’anno scorso la Casa di Wolfsburg ha più che triplicato le vendite dei propri modelli completamente elettrici. Entro il 2025 punta a conquistare la leadership sul mercato mondiale per quanto riguarda la mobilità elettrica. Ci riuscirà?

Un dettaglio dell’interno. (Volkswagen)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Ambiente e Benessere

Magister bibendi, il cerimoniere

Scelto per voi

Vino nella storia Abbandonando il ruolo di moderatore nei dibattiti filosofici che aveva

nel symposion greco, rimane la figura del «simposiarca» che però a Roma si chiama Magister bibendi, che tende ad assumere in modo più marcato il profilo di vero e proprio antenato del sommelier Davide Comoli Come nella lingua greca, dove vengono usati due distinti termini: àeraton per il vino puro e òinos per la bevanda a cui era stata aggiunta acqua, anche nella lingua latina, durante la cerimonia di preparazione del vino da servire, troviamo due voci diverse. Merum era il vino puro, derivato dalla vendemmia e conservato in anfora, vinum era invece la bevanda che miscelata con acqua, veniva servita a tavola. E come accadeva presso i greci, sulle tavole di Roma, nessuno beveva del merum senza allungarlo con l’acqua a meno che l’annata fosse stata funestata da piogge torrenziali e quindi il mosto che ne usciva, dato la povertà delle uve, era già stato allungato in cantina (Marziale ep. 1,56). L’acqua con cui tagliare il merum doveva essere di ottima qualità, e a questo punto vorremmo far notare ai lettori come nessun popolo abbia mai avuto a disposizione giornalmente tanta acqua quanto i romani, soprattutto in epoca imperiale, si parla di ca. 1000 l al giorno per cittadino. Ci permettiamo di citare i principali acquedotti che fornivano Roma: Aqua Appia (312 a.C.), Anio Venus (272 a.C.), Aqua Marcia (146 a.C.), Aqua Julia (35 a.c.), Aqua Virgo (22 a.C.), Aqua Claudia e Anio Nova (38-52 d.C.), volute da Caligola e da Claudio.

Il travaso e filtraggio del merum in recipienti da tavola era una vera cerimonia, celebrata dal magister bibendi Il merum che saliva dalle cantine contenuto nelle anfore di una forma che potevano essere trasportate per mano o nei pithoi di dimensioni più piccole. In media erano dei contenitori della capacità di 20-30 litri, resi impermeabili con strati di pece o resina, spalmato sulle pareti interne, dai quali al momento del

Il culto del vino si estendeva a tutto l’impero romano, come mostra il mosaico ritrovato a Jerash, Giordania. (Shutterstock)

consumo, il merum veniva travasato in recipienti da tavola filtrandolo con appositi colini. Il travaso era una vera e propria cerimonia e come tale veniva celebrata dal magister bibendi, e vissuta dai commensali che assistevano. Era insomma l’occasione, come succede oggi in certe degustazioni, per esibire un po’ di teatro. La filtrazione era molto importante, non solo per separare il liquido dalla feccia, che nel tempo si era andata a depositare sul fondo dell’anfora, ma anche per eliminare i frammenti di pece o resina che si erano eventualmente staccati dalle pareti interne, ed anche perché a quel tempo non esistevano i tappi né cavatappi, aprendo quindi la bocca dei contenitori si doveva per forza far cadere all’interno dello stesso dei pezzetti di argilla, calce o ceralacca con cui erano state tappate. Il magister bibendi su di una tavola attingeva da un’hydria l’acqua, versandola in dosi che reputava giuste in un «cratere» mischiata al merumpreparando così il vinum. Sul pianale c’erano pure delle ciotole contenenti miele per addolcire il vinum e diversi aromi vari come il finocchio selvatico, farina di mandorle, origano, artemisia, ecc.,

inoltre c’era una serie impressionante di mescoli e altri colini. La preparazione del vinum da parte del magister bibdendi, potrebbe essere paragonata alla performance fatta da un abile sommelier dei giorni nostri, durante la decantazione di un vino maturo. Una volta completata e resa omogenea la miscela, la si poteva attingere direttamente dal «cratere» oppure servito in un oinoche, per mezzo di uno schiavo detto minister vini, che lo versava nei vari vasi potori. In ogni banchetto era presente un arbiter costui stabiliva la quantità d’acqua da aggiungere. Lo faceva per evitare che una ubriacatura collettiva facesse degenerare il convivio. L’arbiter veniva scelto di volta in volta tra i commensali, ma siccome aveva l’obbligo di restare assolutamente astemio, di certo possiamo affermare che la carica non fosse molto appetita. Andò che alla fine si decise di affidare la designazione ad un sorteggio per mezzo di dadi. Simile al nostro bicchiere era il poculum, all’inizio di legno o di terracotta e più tardi di metallo o vetro. Molto usato per il vino era anche lo scyphus, una coppa fornita in anse.

Per i raffinati c’era la phiala, una piccola coppa senza anse, ma in argento o addirittura in oro, un po’ meno popolare e meno larga della «patera», usata più che altro in ambito liturgico. Il calix spesso fornito di anse, era molto simile alle odierne (un po’ passate di moda) coppe per il moscato, ed è entrato a far parte della liturgia cristiana, così come il ciborium, una coppa modellata sul baccello di un frutto proveniente dall’Egitto (colocasia). Di capacità superiore al calix era il canthàrus (che era attribuito a Dioniso nelle varie raffigurazioni) ed era una coppa su un piede elevato così come il carchesium, caratterizzato dalle grandi anse che dal bordo scendevano fino alla base. Inoltre c’erano il cymbium e lo scaphium, sorta di bicchieri dalla forma di barca, riservato ai vini più pregiati, per le fastose cerimonie liturgiche veniva usato il rhytium un corno ornato d’oro. Per la ristretta cerchia delle persone ricche, per bere venivano usate le diatretae, delicatissime coppe di cristallo. Senza la pretesa di formulare giudizi, ci sembra di poter arguire che la bevanda chiamata vinum sorseggiata dai romani (ne parleremo prossimamente in modo dettagliato), aveva ben poco in comune con il vino a cui si è abituato il nostro palato. Nell’85 d.C. a Roma nel Forum Vinarium (possiamo affermare che fu la prima Enoteca al mondo), si elencavano più di 155 vini di diversa provenienza. Nei giudizi del più conosciuto studioso di problemi agricoli dell’epoca Columella Lucio Giunio Moderato (Cadice I sec. a.C. – Roma I sec. d.C.), che ci ha lasciato un trattato che riveste enorme importanza «L’arte dell’agricoltura» sta scritto: «Siamo costretti a bere il vino delle Cicladi, delle contrade iberiche e della Gallia. L’agricoltura sta infatti decadendo proprio perché quel poco che si fa è affidato agli schiavi, grandi proprietari non si occupano di niente se non di gozzovigliare e i cittadini non amano più il lavoro della terra».

Sauvignon

Le origini dell’Abbazia di Novacella risalgono al 1142, quando il vescovo Hartmann ne fece la sede dell’Ordine Agostiniano. Novacella è la zona vitivinicola più a settentrione d’Italia: sui pendii che circondano il complesso, da secoli le vigne regalano pregiate uve bianche vinificate nella cantina dell’Abbazia. Questa settimana abbiamo scelto per le vostre tavole questo profumatissimo Sauvignon. Il vino si presenta con un colore giallo paglierino e all’olfatto si percepisce un bouquet di rara complessità, con aromi erbacei-varietali. Si percepiscono infatti profumi florealifruttati che s’intrecciano a note minerali e spezie dolci. Al palato stupisce la sua freschezza avvolgente, supportata da una lunga persistenza gusto-olfattiva tipica dei vini di questa zona altoatesina. Visto il periodo raccomandiamo di abbinarlo alle varie preparazioni dove l’ingrediente principe è «l’asparago», ma anche sui vari sformati di prodotti dell’orto. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 23.50. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Ambiente e Benessere

I tesori dell’Umbria in tavola Gastronomia Una cucina forgiata dall’eredità degli etruschi, dai contatti con Marche, Lazio, Toscana

Parliamo oggi della cucina dell’Umbria: una regione con meno di 900 mila abitanti, ma che propone una tradizione gastronomica di tutto rispetto. L’eredità di antichi popoli, tra cui gli etruschi, i contatti con le regioni limitrofe di Marche, Toscana e Lazio (i cui confini sono stati labili e mutevoli in passato) e la ricchezza di prodotti terricoli hanno forgiato la gastronomia contadina, dalla semplicità un po’ rustica ma genuina, di questa piccola e verde regione dell’Italia centrale. Il clima mite ha favorito lo sviluppo dell’agricoltura, uno dei pilastri dell’economia locale: il territorio è ricco di veri e propri tesori della natura, ben gestiti dagli uomini, a cominciare dalle distese di olivi, da cui si ricava il prezioso e raffinato olio extravergine di oliva, principale condimento di tutte le ricette umbre e molto venduto in Italia e anche all’estero.

Sulla tavola non possono mancare il raffinato olio di oliva extravergine, paste casalinghe, focacce, tartufi, olive e una vasta scelta di insaccati Tra i piatti preparati artigianalmente compaiono spesso focacce e paste casalinghe. Le prime possono essere semplici impasti di pane lievitato, come la torta al testo, cotta su apposite piastre di cotto o di metallo e servita con salumi e formaggi. In alternativa si possono assaporare le gustosissime cresce, simili alle piadine ma più sfogliate, e la pizza di farina gialla, realizzata con farina di mais, uova, olio e formaggio. Nel periodo pasquale si prepara invece la pizza di Pasqua, un impasto

lievitato arricchito da uova e pecorino in abbondanza; l’aspetto finale è quello di una colorita pagnotta, da servirsi preferibilmente con il capocollo. Ciriole o umbrici e strangozzi fanno parte dell’assortimento dei primi piatti, insieme a tagliolini e tagliatelle. I primi sono grossi spaghetti di acqua e farina, tipici dell’area ternana; i secondi, caratteristici di Spoleto, sono preparati allo stesso modo, ma arrotolati intorno a un ferro. Per condimento, è adatto a entrambi un semplice sugo di pomodoro, oppure ragù di carne, o ancora sugo di castrato. I maccheroni di Natale, gustati il giorno della vigilia, sono tagliatelle fresche, in genere preparate senza uovo, condite con cannella, zucchero, noci tritate, pangrattato, cacao e scorza di limone, e servite fredde. Il tartufo nero, molto diffuso nella zona di Spoleto e di Norcia, insaporisce il risotto alla norcina e gli spaghetti alla nursina, del cui condimento fanno parte inoltre olio e acciughe. Con il pregiato tubero si preparano anche saporite salsine da spalmare sul pane tostato; può inoltre essere accompagnato dalla salsa di olive nere e servito come antipasto. Le olive possono essere inoltre aromatizzate con scorza d’arancia, aglio e alloro prima di essere presentate tra gli antipasti, insieme allo squisito assortimento di insaccati umbri; ne sono un esempio: le salsicce di cinghiale o suino, da consumarsi fresche previa cottura (una ricetta autunnale ne prevede il passaggio in padella con acini di uva bianca) o secche, tagliate a fette; la corallina, un piccolo salame dalla carne tritata finemente; i «coglioni di mulo», realizzati non con testicoli bensì con carne magra e grassa di suino; il pregiato prosciutto di Norcia, capitale della salumeria umbra, al punto che in Italia centrale l’esperto nell’arte di macellare il maiale e preparare insaccati è detto «norcino». Come secondi piatti predominano le carni, ovviamente. Ma lo spazio incalza, arrivederci alla prossima puntata.

CSF (come si fa)

Shutterstock

Allan Bay

Shutterstock

e dalla ricchezza dei prodotti della terra

Come sapete io stravedo per la trippa. Che è il prestomaco degli animali da macello, anche se è prevalentemente bovina, di manzo e di vitello, e viene venduta già pulita e parzialmente lessata. Ho un problema: è un taglio molto magro, anche se in troppi pensano che sia un taglio grasso. Solo che il grasso dà sapore a una preparazione. Per ovviare a questo problema, ho messo a punto una ricetta, la trippa con le

puntine, l’ho scritta qui su «Azione» un paio di anni fa. Eccone un’altra, la trippa con biancostato e cipolle. Vediamo come si fa. Ingredienti per 6/8 persone: trippe miste di vitello e di manzo kg 1, biancostato g 500, cotenne g 100, cipolle kg 1, concentrato di pomodoro, vino bianco secco, brodo vegetale saporito, alloro 2 foglie, prezzemolo, sale e pepe Il brodo aiuta ad avere un piatto più completo, se non l’avete va benissimo anche l’acqua. Mondate le cipolle e spezzettatele, non troppo piccole. Il biancostato tagliatelo a pezzetti. Tagliate a julienne le cotenne. Tagliate la trippa a striscioline, più o meno grandi: a me piace che i pezzi siano piuttosto grandi, ma ognuno fa a piacer suo. Riempite il lavello di acqua e mettete le trippe e il biancostato

a mollo per almeno 1 ora, poi scolate. Mettete in un’ampia pentola le trippe con il biancostato, coprite a filo di brodo o acqua, portate al bollore a fuoco medio schiumando al meglio. Unite le cipolle, le cotenne, 1 bicchiere di vino, abbondante prezzemolo tritato e l’alloro, e fate sobbollire a fuoco dolce, parzialmente coperto con un coperchio, a lungo: il minimo è 4 ore, se sono 6 è meglio, unendo altro brodo o acqua se e quando fosse necessario. Quando inizia a bollire, stemperate 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro: serve solo a dare un colore più «bello» al piatto. A cottura, levate l’alloro, regolate di sale e di pepe e servite appena non è più rovente. Se avanza, quando è tiepida mettetela nel frigorifero. Il giorno dopo riscaldatela: è più buona.

Ballando coi gusti Oggi due hamburger, ma fatti senza carne, anzi sono del tutto vegani. Ceci e piselli vanno bene quelli in scatola, se li cuocete voi da secchi è meglio. Hamburger di piselli croccanti

Hamburger di ceci e spinaci

Ingredienti per 4 persone: piselli in scatola g 600 · patata lessa g 100 · corn flakes integrali g 150 · 1 spicchio di aglio · 1 cucchiaio di prezzemolo grattugiato · pane da hamburger · pomodori · 1 cucchiaio di farina di riso · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: ceci in scatola g 600 · spinaci freschi g 100 · 2 zucchine · pane da hamburger · 1 cucchiaio di senape dolce · ½ cipolla tritata fine · foglie di salvia fresche · farina · 2 cucchiai di pane grattugiato · salsa allo yogurt · ketchup · 1 cucchiaio di farina di riso · olio di oliva · sale e pepe .

Sciacquate più volte i piselli e mettetene 500 g nel bicchiere del frullatore. Aggiungete la patata lessa a pezzetti, l’aglio, il prezzemolo, il sale e il pepe. Frullate a intermittenza fino ad avere un composto omogeneo. Trasferitelo in una ciotola, unite gli altri piselli e la farina di riso e amalgamate. Con le mani inumidite formate gli hamburger. Passateli nei corn flakes sbriciolati e sistemateli sulla placca foderata di carta da forno. Cuocete in forno a 200° per 15 minuti o fino a doratura, girandoli a metà cottura. Servite gli hamburger nel pane caldo. Completate con i pomodori.

Mescolate ketchup con salsa allo yogurt. Pulite gli spinaci, lavateli, lessateli con la sola acqua di scolatura con poco sale e le foglie di salvia per 5 minuti. Scolateli, strizzateli e tagliateli sottili. Sciacquate i ceci più volte e frullateli. In una ciotola mettete il pane grattugiato, bagnatelo con 3 cucchiai di acqua calda in cui avrete sciolto la senape. Unite al pane i ceci, la farina di riso e gli spinaci. Regolate di sale e pepe, mescolate e formate gli hamburger. Infarinateli leggermente e cuoceteli in una padella con olio 4 minuti per lato, fino a dorarli. Tagliate il pane da hamburger e scaldatelo. Servite gli hamburger nel pane caldo con la salsa preparata e zucchine grigliate.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Idee e acquisti per la settimana

Pausa caffè spensierata Godetevi la pausa al lago o al parco con un caffè freddo Lattesso. Adesso sono disponibili tre nuove varianti di tendenza, senza lattosio o con poco zucchero

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versione «Fit» contiene il 2 percento di fruttosio ed è perciò leggermente dolce, ma con calorie ridotte e senza lattosio. «Protein» ha un contenuto di caffeina di 140 grammi e al contempo fornisce 17 grammi di proteine del latte di alto valore. Tutte le bevande al caffè di Lattes-

so sono prodotte senza additivi artificiali e non vengono utilizzati stabilizzatori e leganti. Inoltre, si impiegano chicchi di caffè certificati dalla Rainforest Alliance. Infine, le varietà Lifestyle recano il marchio aha! e pertanto sono indicate per le persone con allergie e intolleranze.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Ambiente e Benessere

Riequilibrare l’età

Sudo

Sport e salute P ro Senectute Ticino e Moesano dopo la seconda ondata di pandemia ripropone agli anziani

stimolanti offerte sportive

Schema

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mentale che mi sono ritrovato a fare subito dopo l’inizio della pandemia», «La fortune sourit aux audacieux. La commenta Jean Baldensberger. «Ho infortuna sorride agli audaci» – esclama fatti cercato di capire come avrei potuto sorridendo Jean Baldensberger, prima impostare le mie giornate per ritrovare di interrompere i suoi esercizi di equili- una routine stimolante, anche se diverbrio per incamminarsi verso di me. sa da quella precedente… un déjà vu, Baldensberger percorre ancora insomma» – aggiunge sorridendo il noqualche metro; il bosco diventa prato. stro interlocutore. «Lo scorso anno ci è Siamo nei pressi delle piscine di Tesse- stata tolta la nostra lezione di ginnastica rete. È qui che ci siamo dati appunta- che da anni svolgevamo a Tesserete con mento. Eccolo. Portamento retto. Un’e- Pro Senectute Ticino e Moesano». E con tà biologica che lo rende decisamente essa si è indebolita quella rete sociale più giovane rispetto a quella anagrafica. che si era piano piano creata attraverso Nato nella città di Calvino, il gine- e grazie alle lezioni. Quel caffè al bar, vrino è ticinese di adozione da oltre 30 con gli amici. Le quattro chiacchiere anni. E oggi non poteva mancare alla serie ma non troppo. Quel trafiletto di sua ora di ginnastica all’aria aperta, giornale, commentato ad alta voce, che organizzata da Pro Senectute Ticino e accendeva una discussione. Moesano. Dicevamo, dunque, un Jean BalAssieme a lui e accompagna- densberger che come tanti altri ha doti dall’istruttrice di Pro Senectute vuto reinventarsi. «Sì, innanzitutto mi Thérèse Cadisch, una decina di par- sono posto come obiettivo di mantetecipanti, tutti over 65. Di anni, Bal- nermi in forma fisica. Tutte le mattine densberger, ne ha 85, l’ultimo dei quali dedicavo una mezzora all’allungavissuto, come ben possiamo immagi- mento muscolare e allo svolgimento di nare, in modo singolare a causa della si- esercizi di equilibrio. Con il bello e con tuazione pandemica. il brutto tempo mi obbligavo ad uscire «Si, quello appena trascorso è stato per una passeggiata nel bosco. Inoltre un anno davvero particolare», ci dice mi sono comperato una nuova pianola. il nostro interlocutore, che durante il Leggevo molto e tutte le sere ascoltavo primo lockdown, come del resto i suoi della musica classica». amici del gruppo sportivo, ha dovuto Anche Sibilla Frigerio, responreinventarsi le sue giornate, scandite da sabile del settore sportivo presso Pro nuovi ritmi e abitudini. Un compito nel Senectute, come molti altri è rimasta 1 2 3 4 5 6 7 8 9 quale dice di essersi già cimentato una inizialmente spiazzata dalla chiusuvolta nella sua vita, nel momento in cui ra dei propri corsi. Ben 156 su tutto il è andato in pensione. «Più di vent’an-11 territorio 12 ticinese, oltre 100 istruttori 10 ni fa ho svolto esattamente l’esercizio per circa 2500 partecipanti. «L’arrivo Davide Bogiani

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della pandemia in Ticino ha portato con sé anche un’ondata di panico tra alcuni dei nostri partecipanti», spiega Frigerio. «Abbiamo quindi spostato i nostri istruttori sul fronte della comunicazione con gli anziani, per rassicurarli e per contenere, nel limite delle nostre capacità, il loro isolamento sociale. Con il tempo abbiamo percepito in molti di loro il grande desiderio di trovarsi di nuovo a svolgere attività in gruppo, nonostante nel frattempo alcuni, come il Signor Jean Baldensberger, si fossero reinventati una nuova e indipendente quotidianità». Ecco dunque arrivare la soluzione di Pro Senectute Ticino e Moesano, alla fine del primo lockdown: spostare temporane-

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21. Pronome personale N. 13 22. Avverbio di luogo 23. Differente, diverso 25. Le prime delle ultime... 8 26. Veniva donata allo sposo 27. Li invocano i pagani 29. Nome femminile 5 3 30. Uno dei fiumi più lunghi del mondo 2 VERTICALI 1. Avverbio di tempo 2. La cantante Tatangelo 6 1 3. Le iniziali dell’attore Eastwood 7 9 4. Tra le Calende e le Idi 5. Tirare faticosamente un carico 7. Momenti caratteristici di un (N. 18 - Londra e Budapest) N.14 fenomeno 1 2 3 4 5 6 7 8 9 9. Tutt’altro che valorosi 5 10 11 12 11. Elementi del perimetro 7 berretto16lungo di 1312. 14In inglese 15 17 lana 4 15. Tre19romani20 18 21 8 16. La Lanfranchi della tv (Iniz.) 23 24 22 17. Fungo parassita di numerose9piante 3 19. Zero per i tedeschi 25 26 27 2 20. Cambia ogni giorno 28 29 6 23. Pronome latino 31 24. Composizioni30poetiche 7 26. Preposizione 32 9 28. Articolo spagnolo

(N. 19 - ... centonovanta litri di liquidi) 2

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amente le lezioni all’aria aperta. Detto fatto. «A fine estate 2020 avevamo già 23 gruppi sparsi su tutto il territorio 5 ticinese – ci spiega Sibilla Frigerio. Parallelamente, per chi non era in grado di spostarsi o di svolgere attività 7 fisica all’esterno, abbiamo mantenuto delle lezioni specifiche nei Centri diurni, 4 perlopiù svolti sulle sedie». L’arrivo della seconda ondata ha però decretato la 8 sospensione anche di queste attività. Per quattro lunghi mesi Sibilla Frigerio con il tuo Team ha tenuto 9vivo il3contatto con i molti partecipanti ai corsi proponendo delle lezioni sulle varie piatta2 forme internet. «Certo, quella messa in atto da Pro

N.14

P A L C O O R A L E A C A P I I N E6 S 9 8 D una P delleN3 carte E Rregalo O da 50 Cfranchi A T7con il 3cruciverba Vinci e una R delle E E2 carteNregalo O da R 50 Mfranchi A L9conE il sudoku ORIZZONTALI E R B A SSudoku I A N.E15S 1. Quiete assoluta 4. Le iniziali della ballerina Titova Soluzione: U O D A 1 4 6. Un quinto di five Scoprire i 3 T 7. Per a Londra numeri corretti 8. La domenica su Rai uno inserire 7 N dacaselle P nelleI R8 E 9. Priva di utilità colorate. 10. Venti equatoriali S A T I R1 A 3 8 13. Il fiabesco Babà 14. Esplode... con la glicerina 18. Eletti da Dio per - Maggio 2021 C U T A Sudoku N Stefania E5 “Azione” OSargentini 20. Un’esortazione

Cruciverba 25 27 I nostri reni sono i depuratori più26straordinari che esistono, infatti ripuliscono ogni giorno circa… 29 Termina la frase risolvendo il28cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. 30 31 (Frase: 12, 5, 2, 7)

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Giochi per “Azione” - Maggio 2021 Stefania Sargentini

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Attualmente i gruppi all’aperto sono una quarantina. (Pro Senectute)

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teggiati tra i partecipanti che avranno 3 4 5 6 fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 8 10

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nell’apposito 7 formulario pubblicato 8 del sito. 8 sulla pagina 9 1 Partecipazione postale: la lettera o 10 11 la cartolina postale che riporti la5so6

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Senectute è stata una bella idea – com1 Jean Baldensberger. Ma sapevamenta mo che era un palliativo. Il mio forte desiderio, così come2quello 4 7 di molti miei amici coetanei, era quello di poterci ritrovare di nuovo tutti assieme, 5 7 8 fisicamente». E finalmente il 19 aprile 2021 il 6 1 decide che sono di Consiglio Federale nuovo consentite le attività sportive fino ad un massimo persone. Riaprono 3 4di 15 1 le palestre, tuttavia a crescere è il numero di gruppi outdoor. Attualmente i 8 gruppi all’aperto sono una quarantina. «Abbiamo notato un forte interesse per la pratica sportiva all’aperto,5dove, con pochi accorgimenti, è possibile allenare sia la condizione fisica, 4 in particolare la forza, sia le capacità coordinative, tra cui, molto importante, l’equilibrio», 3 spiega Sibilla Frigerio. Con pochi accorgimenti e una buona dose di fantasia (che certo non manca ai monitori di Pro Prenectute Ticino e Moesano, ndr) è stato messo in piedi un programma com8 pleto, volto anche alla prevenzione delle cadute. «Durante il lockdown – spiega Sibilla 2 Frigerio – l’Ufficio 6 prevenzione degli incidenti ha registrato un aumento degli infortuni dovuti soprattutto alla 3 perdita di equilibrio. Ciò non era imputato solamente ad una mancanza di con9 anche ad una carenza dizione fisica, ma di stimoli cognitivi e una certa negatività che6contrassegnava le giornate di molti anziani. Gli incidenti sono dunque aumentati. Lo scopo ora è di riuscire 1 9 ad invertire la rotta attraverso l’allenamento di gruppo all’aperto».

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Politica e Economia È battaglia per Taiwan L’isola, leader mondiale nella produzione di semiconduttori, fa gola a Pechino e Washington

La Francia in crisi di identità I militari minacciano il golpe per fermare il «separatismo islamico» mentre Macron perde consensi e Le Pen avanza

La tomba dei migranti Nel Mediterraneo si continua a morire mentre gran parte dell’Europa resta indifferente

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Il presidente della svolta? Al Credit Suisse si chiude l’era Rohner, costellata di numerosi fallimenti, e dalla Banca Lloyds arriva Antonio Horta-Osorio pagina 29

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I colpevoli del disastro indiano

Pandemia I corpi si ammucchiano nelle

strade e chi resta non sa come curarsi. Il sistema sanitario pubblico è un rudere. Intanto le feste continuano, il Governo minimizza e gli sciacalli fanno affari d’oro

Francesca Marino È bene, stavolta, non cominciare dai numeri. Perché i numeri sono numeri, e per quanto spaventosi siano i 2-300 mila morti dell’India, sono soltanto numeri. Non hanno voci né volti. Non hanno nomi, occhi che ti guardano e mani che ti implorano. Respiri mozzati in cerca d’aria. Dei numeri hanno parlato in tanti. Numeri sottostimati, non tanto per volontà del Governo ma perché ancora, in gran parte dell’India, si nasce e si muore senza che i registri ufficiali ne portino traccia. «Guardavo dalla finestra ieri mattina e sono ancora sotto shock. Mi sono chiesta che cosa ci facesse una donna stesa nel mezzo della strada sotto il sole che già bruciava. Ho capito quasi subito che era morta. Aveva ancora indosso sari e mascherina, nessuno l’aveva toccata. In India nessuno è mai da solo. Nemmeno da morto, perché il corpo di una persona è circondato da parenti e amici che lo accompagnano nell’ultimo viaggio. La vista di un corpo abbandonato in strada, senza nessuno attorno, mi ha spezzato il cuore. Da giorni ormai bruciano corpi dietro casa mia. Pochi al principio, ora si tratta di un flusso costante e ininterrotto». La donna si chiamava Anjali, per la cronaca. Non era un numero. E queste righe sono tratte da una mail mandata da una mia amica di Benares. O Varanasi, come la chiama la burocrazia. La città sacra, la città della morte. La città che ha eletto per ben due volte il premier Narendra Modi. A Benares, da sempre, la morte fa parte della vita quotidiana. È il posto in cui ogni hindu desidera morire, perché morire a Benares interrompe il ciclo delle rinascite e ti ricongiunge all’Assoluto. I ghat crematori sono due e si trovano al centro della città. L’amica che mi ha mandato queste righe, però, non vive nei pressi di nessuno dei due. Un altro posto per le cremazioni è stato improvvisato sulle rive del Gange oltre i confini ideali della città sacra, a Naghwa, per far fronte all’emergenza. I crematori lavorano a ciclo continuo ma non bastano più, lavora anche il crematorio elettrico che in genere a Benares

usano soltanto i poverissimi. La città di Shiva, come il resto dell’India, non ha più mezzi per far fronte né alla morte, né alla vita. I vivi lottano per trovare un letto in ospedale o un cilindro di ossigeno, per procurarsi medicine. Per i morti la legna comincia a scarseggiare, così come lo spazio. I cittadini sono furibondi, accusano il Governo in generale e Modi in particolare per essere stati abbandonati. Vero. Vero anche però che, come avrebbe detto lo scrittore e giornalista italiano Ennio Flaiano, la situazione è grave ma non seria. Mentre le pire funebri bruciano ininterrottamente e i morti giacciono al ciglio della strada infatti, i benarensi, dopo aver celebrato la festa di Holi in grande stile e la festa di Shivaratri con cortei oceanici e bevute di bhang (una bevanda sacra tratta dalla cannabis), continuano a celebrare matrimoni opulenti «per non perdere l’anticipo già versato». E non sono i soli. Il 5 maggio in Gujarat una folla di migliaia di signore, rigorosamente senza mascherina, celebrava allegramente la festa religiosa di Gangaur. Nel Bengala occidentale, dove come da previsioni Mamata Banerjee ha sconfitto per l’ennesima volta il partito al Governo dopo una campagna elettorale svolta all’insegna degli assembramenti, squadristi dell’una e dell’altra parte si danno la caccia a vicenda inscenando furibonde risse e stupri di gruppo. Mentre la pandemia impazza. Nonostante, a questo punto, tutti abbiano perso un parente o un amico. Alcuni giornalisti indiani passano le giornate su Twitter cercando di procurare un letto in ospedale o una bombola d’ossigeno a gente che non sa più a che santo votarsi. «Per la prima volta nella storia dell’India – dice uno dei reporter investigativi migliori del Paese – non conta chi conosci o quanto sei disposto a pagare». Barkha Dutt, una brava giornalista indiana, non è riuscita a trovare un letto d’ospedale e un respiratore per suo padre, che è morto due giorni dopo. Una coppia di colleghi, a Delhi, ha cercato disperatamente per giorni bombole d’ossigeno e medicinali da portare al locale ospedale pediatri-

Ospedale improvvisato a Ghaziabad, nello Stato dell’Uttar Pradesh. (Shutterstock)

co che era rimasto senza. Se i numeri li guardi negli occhi, se stringi le loro manine, non riesci a girarti dall’altra parte. O ad andare al ristorante, aperto nonostante tutto. Il Governo, invece, ci riesce benissimo. Continua a negare che ci sia carenza d’ossigeno, sostiene di avere solo problemi nel trasportarlo e distribuirlo. Il mio amico Rajiv, che per poco non moriva in un ospedale pubblico di Uttarkashi, si sente sollevato, adesso. Peccato che a lui, come agli altri pazienti, l’ossigeno servisse giorni fa accanto a un letto d’ospedale, non nei depositi governativi. Gli unici che sembrano non avere problemi sono gli sciacalli che vendono bombole d’ossigeno al mercato nero. La loro rete di trasporti e distribuzione funziona benissimo, infatti. E fanno affari d’oro. Come fanno af-

fari d’oro quelli che hanno nascosto carichi di farmaci anti Covid, mentre negli ospedali i medici sono costretti a curare il virus con farmaci scaduti o generici. E mentre mezzo Paese lotta contro la pandemia, l’altra metà gioca al gioco delle responsabilità, dei se e dei ma. O continua a negare che esista un’emergenza, etichettando come «anti patriottico» chiunque provi a chiedere risposte o cercare soluzioni. Il vero problema, però, è un altro. Nessun Governo, da quando esiste l’India e anche da prima (basta leggere le cronache sull’epidemia di Spagnola nel Paese), ha messo mano a una vera e propria riforma sanitaria o costruito una sanità pubblica degna di questo nome. Gli ospedali pubblici sono dei ruderi, le attrezzature sono a dir poco antiquate e funzionano per metà. Le

condizioni igieniche approssimative. E, oltretutto, negli ospedali dello Stato sono gratis soltanto il posto letto e la parcella del medico. Tutto il resto, dalle medicine al cibo, agli esami specialistici e generici, si paga. Se sei povero e ti ammali: muori. Se appartieni alla classe media e non hai un’assicurazione, devi vendere la casa. E così in marzo, mentre timidamente gli esperti lanciavano l’allarme per la nuova ondata imminente, Delhi dichiarava sconfitta la pandemia. Gli ospedali pubblici venivano lasciati nell’abituale desolante condizione in cui si trovano, le vaccinazioni le facevano soltanto i (relativamente) pochi illuminati responsabili mentre il Governo distribuiva vaccini ai Paesi confinanti e all’Africa. Ah, il vaccino costa 1’500 rupie: una settimana di cibo per una famiglia media.


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Politica e Economia

Per Taiwan si rischia di morire L’analisi L’isola è una delle prime venti economie mondiali e domina la produzione di semiconduttori, di importanza

strategica per ogni industria tecnologica. Nelle mire di Cina e Stati uniti, sarà la scintilla che darà inizio alla guerra?

FedericoRampini Morire per Taiwan? L’interrogativo si porrà, se non per gli europei, per una generazione di giovani americani, o almeno per quelli che indossano la divisa? La questione di Taiwan è lontana dalle preoccupazioni prioritarie di oggi. Molti europei non arrivano neppure a immaginarne l’importanza. In America, invece, almeno la Casa bianca e il Pentagono dedicano un’attenzione acuta al dossier. Quell’isolotto potrebbe diventare il focolaio del prossimo «cigno nero» o «rinoceronte bianco», due immagini metaforiche usate per designare eventi improbabili, imprevisti, e capaci di infliggere shock globali. La prossima crisi a coglierci impreparati sarà una deriva incontrollata verso lo scontro militare fra le due superpotenze? E perché dovrebbe essere proprio Taiwan la scintilla iniziale? Gli interrogativi sul futuro di quell’isola rivelano come stia cambiando il mondo. Evidenziano una crescente asimmetria nelle traiettorie della Cina e degli Stati uniti, in favore della prima. Infine anche sul fragile destino dell’unica «democrazia cinese» – perché questa è la vera originalità di Taiwan – si scopre che l’Occidente non arriva compatto alla sfida, anzi. Crede sempre meno nei propri valori e soffre divisioni interne che aggravano i suoi handicap.

L’Occidente non arriva compatto alla sfida, anzi. Crede sempre meno nei propri valori e soffre divisioni interne Taiwan è un territorio di soli 24 milioni di abitanti, situato a 120 chilometri dalle coste meridionali della Cina. Ha una superficie di 36 mila chilometri quadrati, cioè meno di una volta e mezza la Sicilia. Eppure il suo prodotto interno lordo ha superato quelli della Svezia, dell’Arabia saudita, innalzandola tra

le prime 20 economie mondiali. Se poi guardiamo alla potenza tecnologica, pochi Paesi al mondo possono competere. Non possiamo permetterci di ignorare l’unica democrazia cinese, la sua importanza geopolitica, il groviglio di ambiguità diplomatiche che la circondano. Per cominciare, ecco una delle tante ragioni per cui si rischia di «morire per Taiwan». Quell’isola così piccola è riuscita in un capolavoro tecnologico e industriale che ci riguarda tutti. Concentra nelle sue aziende e sul suo territorio una porzione dominante della produzione mondiale di semiconduttori: dal 40 al 65 per cento a seconda delle categorie di microchip che includiamo, e fino all’85 per cento nei semiconduttori più avanzati, d’importanza strategica per tutte le altre industrie tecnologiche inclusi gli armamenti. Un microchip onnipresente lo conosciamo e lo maneggiamo tutti: è la scheda del nostro telefonino, dove possiamo vedere i circuiti integrati «stampati» su una specie di foglietto minuscolo e sottile. Quell’oggetto così leggero contiene una memoria prodigiosa. I suoi parenti più evoluti e più potenti pilotano gli aerei, controllano il ciclo delle macchine utensili nelle fabbriche o la sicurezza dei reattori nelle centrali nucleari. Che cosa può succedere se qualcosa va storto a Taiwan, hanno cominciato a percepirlo nel 2021 tutte le case automobilistiche del mondo, colpite da una penuria di semiconduttori che ha provocato chiusure di fabbriche o tagli e rallentamenti di produzioni a catena. Oggi anche le più banali autovetture sono piene di elettronica e senza i semiconduttori non funzionano. Dall’industria automobilistica la penuria ha allargato i suoi effetti nefasti alla produzione di cellulari e apparecchi elettronici di ogni genere, dall’Asia all’America all’Europa. La Cina accaparra semiconduttori per il timore di quel che può accadere. In America Joe Biden ha lanciato un piano di politica industriale con 50 miliardi di dollari di aiuti per rafforzare la propria produzione. Ma ci vorran-

Una vista di Taipei, la capitale dell’unica «democrazia cinese». (Shutterstock)

no anni per ridurre la dipendenza di tutti gli altri da Taiwan. Nel 2021 questa crisi ha avuto cause contingenti: le ripercussioni di pandemia e lockdown (boom di acquisti di apparecchi digitali), più una siccità a Taiwan che ha razionato l’acqua ai produttori (la lavorazione del silicio consuma enormi riserve idriche). La Taiwan semiconductor manufacturing company (Tsmc) è il numero uno mondiale nei semiconduttori. Proviamo a immaginare come si trasformerebbe questo scenario, se invece di una semplice penuria – rimediabile con il tempo – ci fosse un’invasione cinese di Taiwan che bloccasse il mercato dell’esportazione. Se si fermano le forniture da Tsmc, ci fermiamo tutti. È una storia incredibile, e anche questa nostra dipendenza strategica da una piccola isola vulnerabile non l’aveva prevista nessuno: donde l’allegoria del cigno nero o del rinoceronte bianco. I semiconduttori furono uno dei segreti della superiorità americana nell’informatica e in tutta l’economia digitale. Intel, nella Silicon valley, era la regina di questa produzione, circondata da altre concorrenti più piccole

e in prevalenza americane. La Silicon valley si chiama così perché i circuiti integrati sono stampati sul silicio. Una delle chiavi per spiegare le ultime rivoluzioni tecnologiche fu individuata nel 1965 nella Legge di Moore che codificava l’aumento esponenziale nella capacità di calcolo dei circuiti integrati, la base dei semiconduttori, le «memorie» o i «neuroni» dei cervelli di ogni apparecchio. Il fatto che un telefonino oggi abbia molta più potenza di calcolo, memoria e intelligenza artificiale di tutti i supercomputer che la Nasa usò per lo sbarco sulla luna nel 1969, è una delle manifestazioni visibili della Legge di Moore: i semiconduttori continuano a diventare da una generazione all’altra sempre più minuscoli e sempre più potenti. Purtroppo non li facciamo noi. Né li fabbrica più la Silicon valley, almeno per adesso la California è relegata a un ruolo secondario. La geografia di questa tecnologia strategica è cambiata in modo impressionante e quasi con la stessa rapidità con cui agisce la legge di Moore. La taiwanese Tsmc era un attore marginale fino a quando venne «allevata» da Ap-

ple: dal 2012 è la sua fornitrice per i microchip degli iPhone. Il numero due tra i suoi clienti, dietro Apple, è Huawei, campione cinese nelle telecomunicazioni. Tsmc in un decennio ha fatto balzi così prodigiosi che oggi i concorrenti americani come Intel le attribuiscono dieci anni di vantaggio su di loro. Bisogna immaginarsi un’azienda così pregiata da essere indispensabile per il futuro tecnologico di americani e cinesi, però situata a pochi minuti di volo per un jet militare di Pechino, a 11 mila chilometri dalla California. Asimmetria. Una corrente di realismo politico dice al presidente Biden che è ora di prenderne atto, rinunciando all’impegno di difendere Taiwan in caso di aggressione. Un’ala dell’Amministrazione Biden vorrebbe fare il contrario, spingendosi fino al riconoscimento diplomatico di Taipei come Stato autonomo. Però contro questi «falchi» che promuovono una linea dura verso Xi Jinping si è levato un coro di allarme. Il 6 maggio 2021 un commentatore del «New York Times» definiva questa linea «irresponsabile», accusando Biden di trascinare il mondo verso la guerra.

Generali francesi contro la «deriva islamista» Il caso L’emergenza Covid ha esasperato la crisi che investe una società sempre meno coesa. I militari minacciano

il golpe e una buona parte della popolazione è dalla loro parte. Intanto il presidente Macron perde ancora consensi

Lucio Caracciolo «L’ora è grave, la Francia è in pericolo di morte. Noi che, anche quando nella riserva, restiamo soldati di Francia, nelle circostanze attuali non possiamo restare indifferenti alle sorti del nostro bel Paese. (…) Il nostro onore impone oggi di denunciare la disgregazione che colpisce la nostra patria. (…). Se non si farà nulla, se il lassismo continuerà a diffondersi nella società, provocherà alla fine un’esplosione e l’intervento di nostri camerati in servizio attivo in una perigliosa missione di difesa dei nostri valori di civiltà e di salvaguardia dei nostri compatrioti sul territorio nazionale». Questo avviso di pronunciamiento militare è apparso il 14 aprile sul sito «Place d’armes» e sulla rivista «Valeurs actuelles», riferimenti della destra ultraconservatrice e reazionaria francese. Seguiva la firma di oltre un migliaio di ufficiali e soldati, quasi tutti pensionati, fra cui 25 generali. Altre migliaia di firme si sono aggiunte nei giorni successivi. La data del proclama ricordava volutamente il fallito putsch dei gene-

rali che il 14 aprile 1961 intendeva bloccare il processo di distacco dell’Algeria dalla madrepatria gestito da Charles de Gaulle. Insomma, una vera e propria minaccia di colpo di Stato. Di più. Secondo un sondaggio la maggioranza dei francesi concorda col manifesto dei generali. La rilevazione di Harris per il «Financial Times» stabilisce che il 24 per cento dei loro connazionali «concorda fortemente» con i militari, il 34 per cento «abbastanza», mentre i dissenzienti sono il 42 per cento, divisi a metà fra gli «abbastanza» e i «molto critici». L’area dei simpatizzanti va ben oltre il Rassemblement national di Marine Le Pen, che ha subito supportato, con qualche distinguo, la proclamazione degli ufficiali. Quasi la metà dei macroniani (La République en marche), dei socialisti e della France insoumise, il movimento di Mélenchon, approva in tutto o in parte la clamorosa uscita, subito condannata dal primo ministro e dal ministro della Difesa. Emmanuel Macron ha almeno inizialmente evitato di buttarsi nella mischia. Il segnale è quindi di estrema gravità. La Francia è in evidente crisi d’i-

dentità. Il «separatismo» dilaga. Con questo termine il presidente bolla le enclave monoetniche e monoreligiose – su base maggioritariamente maghrebina e fondo musulmano – che si stanno moltiplicando nell’Esagono. Buona parte del territorio nazionale e

Il futuro dell’Esagono si chiama Marine Le Pen? (Shutterstock)

delle stesse grandi città, Parigi inclusa, è fuori del controllo diretto dello Stato. Per un Paese statolatrico e centralista, il colpo è duro da assorbire. Il progetto di assimilazione, alla radice del concetto francese di cittadinanza, è fallito. Il massimo che la République si può attendere è un graduale avvio all’integrazione dei figli dei nuovi immigrati, che implica una fase più o meno lunga di convivenza multiculturale. Contromodello della Francia moderna e contemporanea. La Francia è forse il Paese più politico del mondo. Il gusto del dibattito dissacrante si sposa però male con la religione dello Stato. Di qui ricorrenti esplosioni di rabbia sociale o di aperta rivolta, ultimo caso i gilets jaunes. L’emergenza Covid, accentuata dalle deficienze del sistema sanitario, ha esasperato la crisi che investe una società sempre meno coesa. Dove una combattiva quota di nostalgici di Giovanna d’Arco, della radice bianca e cristiana della Grande Nazione, mal sopporta, o non sopporta affatto, il caotico separatismo punteggiato di atti di violenza e attentati terroristici.

Se a tintinnare le sciabole sono i militari, sia pure in pensione, il quadro diventa drammatico. Problema che Macron si porta dietro dai primi giorni di presidenza, quando con una decisione senza precedenti licenziò il capo di Stato maggiore delle forze armate, generale Pierre de Villiers, accusato di insubordinazione. La ferita non è stata rimarginata. L’appello degli ufficiali ne è dimostrazione. Le punizioni e le epurazioni fra i militari in servizio che hanno firmato il documento del 14 aprile saranno più o meno dure, ma non potranno certo spegnere il malessere diffuso fra i soldati di Francia, condiviso da tanta parte del popolo. Sintomo interessante della crisi di consenso del presidente, tutt’altro che certo della riconferma alle elezioni dell’anno prossimo. Sarebbe davvero curioso – eufemismo – se nel futuro vicino il duo franco-tedesco fosse rappresentato al vertice da due donne che più diverse non si possono immaginare: Marine Le Pen, ipernazionalista francese, e Annalena Baerbock, verde tedesca. Come minimo, non ci annoieremmo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Politica e Economia

Tra spinte isolazioniste e aperture al mondo Corsi e ricorsi D ue opposte tendenze caratterizzano la storia

Alan Kurdi, nel murale accanto realizzato a Francoforte, ha perso la vita nel tentativo disperato di raggiungere Kos. (Keystone)

americana. Viaggio dalla nascita dello Stato federale a Joe Biden Alfredo Venturi Una politica estera moderata e consapevole. Sono parole di Henry Kissinger, che illustra così il cambio di passo degli Stati uniti sulla scena internazionale dopo che a stretta maggioranza gli americani hanno affidato a Joe Biden la Casa bianca, chiudendo il controverso quadriennio di Donald Trump. L’ultranovantenne ex segretario di Stato implica ovviamente, al di là del misurato linguaggio diplomatico, che la politica estera del presidente uscente non era né moderata né consapevole. Se collochiamo questa successione e le sue conseguenze in una prospettiva storica, la vera novità di fondo appare con grande chiarezza: è il passaggio dall’isolazionismo al multilateralismo, dall’America first di Trump all’America is back di Biden. Isolazionismo e multilateralismo sono gli estremi fra i quali da sempre oscilla il pendolo che segnala le priorità del rapporto americano con il mondo. Un paio di decenni dopo l’indipendenza il nuovo Stato federale, sorto sulle ceneri delle 13 colonie di sua maestà britannica, non volle impegnarsi al fianco della Francia rivoluzionaria stretta d’assedio dalle potenze legittimiste d’Europa. Eppure la nascita degli Stati uniti doveva molto all’appoggio francese e molti americani avrebbero voluto restituire il favore. A parte un rinchiudersi in sé stessi legato alla necessità di consolidare una potenza ancora in fasce, la linea ufficiale faceva notare che quel debito di riconoscenza non riguardava la Francia giacobina, semmai il Governo monarchico, prima vittima della rivoluzione. Il suo debito, l’America lo pagherà oltre un secolo più tardi, quando le truppe del generale John Pershing sbarcheranno nella Francia duramente impegnata durante la prima guerra mondiale. Con la formula «Eccoci, Lafayette!» quel decisivo intervento sarà dedicato al più celebre fra i volontari francesi che si batterono al fianco di George Washington. Con la dottrina Monroe l’isolazionismo si dà una nuova veste. In un suo celebre discorso del dicembre 1823 James Monroe, quinto presidente degli Stati uniti, fa sapere al mondo che le Americhe non sono più terre da colonizzare e che qualsiasi intervento europeo nel Continente sarà considerato una minaccia alla pace e alla sicurezza. A parte le situazioni di fatto, cioè i domini coloniali ormai cristallizzati dalla storia, l’Europa stia dunque alla larga, così come gli Stati uniti si asterranno da ogni intervento negli affari europei. Ma sarà soltanto alla fine del secolo e

agli inizi del Novecento che la dottrina acquisterà il carattere di volontà egemonica degli Usa sull’intero Continente americano. Questa egemonia continentale associata a una visione anti-colonialista non poteva che sfociare nella guerra. Sospinta dallo spirito del suo «destino manifesto» la giovane Nazione americana strapperà territori al Messico allargandosi nel Texas e nell’ovest fino al Pacifico, mentre dall’altra parte del globo arriverà a impadronirsi delle Filippine spagnole. Di questa politica assertiva, in particolare della guerra contro la Spagna, è interprete soprattutto Theodore Roosevelt, l’uomo del big stick («se vuoi andare lontano parla pacatamente, ma porta con te un grosso bastone») che pure riceve il premio Nobel per la pace dopo avere esercitato con successo un ruolo di mediatore nel conflitto russo-giapponese. Quanto alla dottrina Monroe, nell’interpretazione del primo Roosevelt significa una sola cosa: giù le mani dal Continente americano!

È il secondo dopoguerra a consacrare la vocazione mondiale degli Usa e la loro funzione di gendarme A questo punto l’approccio è ben definito, sono ormai lontani i tempi in cui il dramma di una sanguinosa guerra civile costrinse l’America a concentrare lo sguardo all’interno di sé stessa, bloccando per forza di cose il pendolo sull’estremità isolazionista. Eppure già si profila una dicotomia destinata a segnare il secolo: mentre i governi di quella che ormai è divenuta una superpotenza cominciano a trovarsi impegnati sulla scena mondiale, il Paese profondo resiste, difendendo gelosamente una tranquillità domestica che le avventure oltremare rischiano di compromettere. Non a caso la partecipazione alle due guerre mondiali viene per così dire innescata da altrettante provocazioni: in realtà l’affondamento del transatlantico Lusitania nel 1917, con un migliaio di passeggeri americani a bordo, e soprattutto l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941 trascinano su lontani campi di battaglia un Paese che certamente avrebbe preferito stare a guardare. Testimonia questo rapporto dialettico fra un’opinione pubblica tendenzialmente isolazionista e una diri-

genza politica sedotta dal potenziale ruolo planetario l’amaro destino del ventottesimo presidente, il democratico Woodrow Wilson. Interprete di una grandiosa visione pacifista, è il promotore della Società delle Nazioni che lancia con l’ultimo dei suoi quattordici punti, ma nonostante le sollecitazioni presidenziali il Congresso non approva la risoluzione che impegnava gli Stati uniti a entrare nell’organizzazione ginevrina. E così proprio la grande nazione di Wilson non ne farà mai parte. Assieme alla mancanza di potere coercitivo e alla necessità del voto unanime, proprio questa assenza renderà fallimentare, dopo qualche successo iniziale, la breve vicenda della Società delle Nazioni. È il secondo dopoguerra, inaugurato dai bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, a consacrare la vocazione mondiale degli Usa e la loro discussa funzione di gendarme internazionale, accentuandone da un lato la presenza in Asia, dall’altro il confronto attivo con l’Urss ingigantita dal contributo determinante dell’Armata rossa alla capitolazione nazista. Nonostante il disastro vietnamita, l’America continua a esercitare questa sua funzione, con un bilancio stratosferico di spese militari e una corsa agli armamenti che alla fine contribuirà al collasso sovietico. Dai democratici John Kennedy e Lyndon Johnson ai repubblicani Ronald Reagan e Bush padre e figlio, i presidenti che si avvicendano alla Casa bianca sono indotti prima dalla guerra fredda, quindi dalla sfida terroristica, a tenere alta la guardia, soprattutto in Asia e nel Medio Oriente. Eppure nel profondo della società americana continua a pulsare il vecchio cuore isolazionista. Soprattutto nella sterminata provincia, negli Stati della Bible belt, nelle aree industriali minacciate dalla terziarizzazione, nell’America insofferente delle sofisticate idee moderniste che sono di casa in California, nel New England, a New York City. È precisamente l’America nella quale Donald Trump ha raccolto la sua straripante messe di consensi. È il Paese al quale Joe Biden ha saputo contrapporre la società metropolitana che guarda al futuro, agli alleati, alle relazioni col mondo, alla necessità di contribuire al salvataggio del pianeta ormai sull’orlo della catastrofe ambientale. E così il pendolo americano, che l’introverso elettorato di Trump aveva fatto oscillare verso l’isolazionismo, è tornato nella posizione del mondialismo multilaterale, suggerita se non imposta dalle dimensioni storiche della superpotenza.

E adesso? Siamo passati dall’«America first» di Trump all’«America is back» di Biden. (Shutterstock)

Dove annegano i sogni dei bambini Mediterraneo Continua la strage di migranti

e buona parte dell’Europa resta a guardare Alfio Caruso Quanti ricordano Alan Kurdi? Quanti ricordano il suo corpicino riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, la faccia appiccicata alla terra, la maglietta rossa rialzata sul torace, i pantaloncini azzurri, gli scarponcini? Alan era il bambino siriano di etnia curda annegato, nel settembre 2015, assieme alla madre e al fratello nel disperato tentativo di raggiungere su un gommone sovraccarico l’isola di Kos. Da lì sarebbe cominciato il lungo trasferimento verso il Canada, la terra promessa di quest’ennesima famiglia di disperati. Tutto travolto in quel breve tratto di mare. Davanti alla foto di Alan molti ebbero un soprassalto d’indignazione. Fu naturale sentirsi in debito verso il bimbo, verso la madre, verso il fratello al di là del ruolo giocato dal padre nella tragedia. Purtroppo tale sentimento non è sfociato in alcun progetto organico di assistenza, benché Alan sia soltanto uno dei tanti fanciulli inghiottiti dal Mediterraneo in una delle più terribili ondate migratorie della storia. Quanti ricordano il quattordicenne partito dal Mali con la pagella scolastica cucita nella tasca dei pantaloni, che secondo la madre avrebbe dovuto rappresentare il suo lasciapassare nell’Europa colta e civilizzata? Lui, il ragazzo senza nome, è perito il 18 aprile 2015 nell’imbarcazione rovesciatasi prima dell’arrivo dei soccorsi: 1’100 morti, numeri da naufragio della Seconda guerra mondiale. «Il Foglio» ha avuto il merito di ospitare in prima pagina una rabbrividente vignetta di Makkok, la nuova penna del disegno satirico italiano. Ritraeva un giovanotto riccioluto dallo sguardo perso che seduto sul fondo del mare mostrava la sua pagella al polipo, al delfino e agli altri pesci venuti a curiosare. Purtroppo in quelle acque somiglianti a un grande lago si continua a scomparire nell’indifferenza generale. E la morte arriva quando il traguardo appare a un passo, dopo mesi se non anni di sevizie, di violenze, avendo pagato migliaia di dollari, a loro volta proventi di altri sacrifici. Anche l’appello del Papa – «un mare così bello divenuto la tomba di coloro che cercano soltanto di sfuggire alle condizioni disumane della loro terra» – non è stato raccolto, anzi è servito a rinfocolare le contrapposizioni fra i partiti. Il conto, approssimativo per difetto, è di 17 mila morti dal 2014. Il bollettino dell’ultima settimana parla di centinaia di vittime con il sospetto di ritardi voluti, di navi che potevano presentarsi in tempo senza il consueto balletto delle competenze. Tuttavia per Matteo Salvini la colpa è dei buonisti del Partito democratico «che di fatto invitano e agevolano scafisti e trafficanti a mettere in mare barchini e barconi stravecchi pure con pessime condizioni meteo». La sua so-

luzione sono i respingimenti, anche tenendo quei disgraziati segregati sulle navi come capitò nel 2019 con i 147 migranti bloccati per giorni e giorni sulla Open arms al largo di Lampedusa. Un provvedimento che gli è costato il rinvio a giudizio per sequestro di persona. A eccezione della Germania, l’Europa rivolge sguardi distratti al Mediterraneo. E si fa attenta quando c’è da scaricare sull’Italia l’onere dell’accoglienza. L’Italia è combattuta fra la voglia di aiutare e la cattiva politica, che dà voce ai peggiori istinti di chi ha spesso bisogno di un nemico per sfogare la propria rabbia. Malgrado Salvini non sia più al Governo, la sua intolleranza dettata principalmente da fini elettorali ha lasciato il segno. Nel nome fittizio di un’immigrazione gestibile e operosa emerge il disegno di rimandare a casa il maggior numero possibile di questi sventurati. Così che l’opinione pubblica oscilla fra la partecipazione emotiva ai drammi individuali e il fastidio di dover affrontare un problema descrittole come irrisolvibile e pericoloso. Eppure l’immigrazione africana e asiatica al 90 per cento non si ferma in Italia: punta alla Francia e alla Scandinavia. E quella che cerca un riparo nel Belpaese non crea particolari problemi. La malavita straniera è infatti gestita da rumeni, albanesi e slavi. Non esiste concorrenza neppure a livello di manodopera, non viene cioè «rubato» alcun posto di lavoro. I nuovi arrivati si accontentano delle mansioni che gli italiani non vogliono più svolgere, quando non sono occupazioni da moderni servi della gleba: raccolta dei pomodori in Puglia e in Campania, della frutta in Emilia e Romagna, rider sottopagati nella consegna del cibo a Milano, Roma, Torino, Bologna. Sperare nella collaborazione libica è pura utopia. Manca un Governo centrale. Le camarille di Tripoli e di Bengasi inseguono traguardi opposti e spesso sono coinvolte nella gestione dei lager, in cui vengono detenuti i poveracci da caricare poi sopra le carrette del mare. Nel traffico operano a braccetto contrabbandieri, agenti del vecchio servizio segreto di Muammar Gheddafi, personale dell’amministrazione pubblica. D’altronde, assieme al petrolio è l’unico business di quel Paese e pare irragionevole ipotizzare una rinuncia volontaria. Non hanno dato riscontri visibili gli investimenti dell’Italia nel fornire motovedette e nell’istruire il personale militare. La marina libica è stata accusata di aver aperto il fuoco contro le imbarcazioni. Recenti immagini hanno immortalato alcuni guardacoste intervenire in mare con i bastoni per convincere gli occupanti di un gommone a rientrare in un porto libico. Adesso che si annuncia la bella stagione, ogni giorno ha in serbo la sua potenziale catastrofe. E al momento non s’intravede alcun lieto fine.


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Politica e Economia

Swissness: una buona soluzione

Tutela dei consumatori La legislazione sull’origine geografica per prodotti effettivamente fabbricati in Svizzera

o per servizi provenienti dalla Confederazione, entrata in vigore il 1° gennaio 2017, è complessa ma efficace

Mirko Nesurini Secondo il parlamentare e presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM) Fabio Regazzi la normativa è ottima nella misura in cui «contribuisce a tutelare i consumatori e favorisce una concorrenza leale» e ovviamente «l’indicazione di provenienza può essere utilizzata solo nella misura in cui vengano soddisfatti alcuni criteri legali». A grandi linee, per stabilire la provenienza svizzera di un prodotto industriale sono determinanti due criteri: almeno il 60 per cento dei costi di produzione deve essere stato realizzato in Svizzera e la fase di produzione più significativa deve essersi svolta in Svizzera. Nel caso delle derrate alimentari e dei prodotti naturali, i criteri variano in base al tipo di prodotto. Erich Rava, Responsabile della comunicazione IPI, l’istituto che si occupa della proprietà intellettuale in Svizzera, informa che non vi sono cifre esatte riguardanti i casi di abuso sanzionati, ciò che risulta sul territorio nazionale sono «in media, 3-4 sentenze all’anno pronunciate negli ultimi quattro anni» che riguardano «l’uso improprio dello stemma svizzero». Come evidenzia l’avvocato Luca Trisconi «il soggetto che dà indicazioni inesatte sulla propria ditta può essere punito» laddove «intenzionalmente avesse usato l’indicazione di provenienza non pertinente e/o avesse usato una designazione che può essere con-

fusa con un’indicazione di provenienza non pertinente». Per le aziende operative sul territorio elvetico che lavorano materiali provenienti dall’estero e, negli stessi stabilimenti, realizzano prodotti interamente svizzeri, o perlomeno che rispettano i parametri sopraccitati, si apre il classico pentolone. La normativa si applica al prodotto o alla azienda che realizza quel prodotto? Secondo Luca Trisconi «bisogna analizzare caso per caso» e tentare di comprendere se c’è o no l’intenzione, da parte di un’impresa, di danneggiare i concorrenti definendosi elvetica, anche laddove una parte della produzione non corrisponda alla normativa in oggetto. Laddove un’azienda si senta danneggiata dall’agire del suo concorrente, oppure un consumatore avesse dubbi sensati sulla provenienza del prodotto acquistato, avrebbe il diritto di rivolgersi alla giustizia per esporre la propria ipotesi di reato. I mercati oggi sono davvero complessi e quindi prima di denunciare è bene tenere conto di una serie di fattori. Intanto la normativa si applica ai «prodotti» che vengono commercializzati sul mercato tra aziende (B2B) e sul mercato dei consumatori finali (B2C). Molte imprese svizzere non vendono i loro prodotti direttamente ai consumatori, si limitano a produrre, affidando la vendita a intermediari. Tali intermediari devono essere correttamente informati dalle imprese elvetiche circa la provenienza dei prodotti che in

seguito commercializzeranno. Nel 99% dei casi l’informazione avviene tramite «schede descrittive di prodotto» che contemplano tutta una serie di contenuti, tra i quali la loro provenienza. Escluderemmo l’evenienza in cui, un soggetto estero acquisti prodotti Swiss made per poi rivenderli senza l’intenzione di esporne la provenienza. Il brand Svizzera è tanto potente da essere a volte un fattore vincente nella competizione commerciale. Altro discorso è quello del «furbo» che potrebbe acquistare prodotti che svizzeri non sono da un fornitore svizzero e li potrebbe distribuire sul mercato indicando una provenienza elvetica a questo punto mendace. In quel caso quel distributore avrà violato la normativa e quel produttore, che male avrà informato il distributore, pure. Nel caso in cui la controparte svizzera abbia correttamente informato il distributore tramite corrette schede prodotto, in linea di principio, non dovrebbe temere sanzioni: la scorrettezza in quel caso sarebbe solo del distributore. In questa prima fase di applicazione della normativa, l’IPI non ha presentato né una denuncia penale né una causa civile; «le aziende ammonite dall’IPI sono state collaborative e hanno rimosso le false indicazioni svizzere di provenienza», conclude Rava. Negli ultimi 4 anni L’IPI ha trattato 312 casi in Svizzera. Gli abusi all’estero, invece, sono più numerosi, L’IPI è intervenuto 855 volte. La normativa Swissness ha inne-

Per certi prodotti, il dubbio se siano svizzeri o meno non esiste. (Keystone)

scato dinamiche positive sull’economia elvetica. Studi condotti da istituti indipendenti di consulenza e ricerca economica mostrano che la legislazione Swissness ha avuto un effetto moderatamente positivo sull’economia svizzera. In termini assoluti ciò corrisponde a circa 1,4 miliardi di franchi all’anno o 163 franchi pro capite. Switzerland global enterprise pubblica, sul suo sito (s-ge.com), un lungo elenco di classifiche in cui la Svizzera ha conquistato la prima posizione

e tra queste «Paese più innovativo al mondo» e «Paese più attrattivo per talenti globali». Alla domanda, come va il marchio Svizzera? Ovviamente le risposta è: benissimo. Tutto quanto riportato sopra ha ricevuto supporto da un nuovo alleato, si tratta dell’associazione Swissness enforcement, un’iniziativa mista tra settore privato e pubblico che ha l’obiettivo di combattere efficacemente l’abuso delle indicazioni di provenienza svizzere all’estero.

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Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch

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Politica e Economia

Un nuovo presidente per risanare una situazione delicata Credit Suisse Perdite miliardarie costringono la banca a un grosso sforzo in un ambiente internazionale

che sta diventando di nuovo difficile per la Svizzera

Ignazio Bonoli Il Credit Suisse, la seconda banca svizzera per importanza, sta di nuovo conoscendo grossi problemi. Forse non era questo il momento più opportuno, alla vigilia del cambio del presidente del Consiglio d’amministrazione Urs Rohner, che lascia il posto al capo della Banca Lloyds Antonio Horta-Osorio. La banca svizzera era da poco uscita da un affare poco chiaro di spionaggio interno, il cui seguito è comunque costato il posto al capo della direzione generale Tidjane Thiam. Ma il periodo di difficoltà viene anche da più lontano. Per esempio il 20 maggio 2014 si viene a sapere che la banca è colpita da una multa di 2,8 miliardi di dollari negli Stati Uniti, a causa di «attività criminali». Ma le difficoltà non finiscono qui. Da quando, nel 2011, Urs Rohner assume la presidenza del CdA, tra multe e spese giudiziarie ha dovuto sborsare oltre 13 miliardi di franchi, secondo una valutazione della piattaforma informatica «The Market». Ma altri grossi impegni finanziari si presentano alla banca, dovuti alle disavventure di due fondi d’investimento. Il «Financial Times» ha valutato questi impegni in circa 7 miliardi di dollari. Ma può una banca perdere così tanto denaro in così poco tempo? Un vecchio adagio borsistico recita

lapidario «Non ci sono guadagni senza rischi». E il Credit Suisse aveva un grande bisogno di guadagnare per sollevarsi dalle precedenti disavventure. Non solo, ma il fatto di far parte , in Svizzera, della ristretta cerchia dei «Too big to fail», cioè le banche sistemiche, la costringe ad aumentare le garanzie e le liquidità. Il tentativo di risolvere il problema ha portato il comparto «Investimenti» del CS a investire somme ingenti, dapprima nel britannico «Greensill Capital» e poi nell’americano «Archegos Capital Management», entrambi collassati, trascinando con sé anche altri grandi istituti come la giapponese Nomura e la stessa UBS. L’altra grande banca svizzera ha infatti dovuto annunciare perdite per 774 milioni di dollari. Le reazioni sui mercati non si sono fatte attendere. Ma mentre UBS ha potuto segnalare un eccellente risultato trimestrale, il CS ha già dovuto registrare parte della perdita nei propri risultati. Il corso dell’azione del CS, in una decina d’anni, ha perso circa il 70%. Dire poi che i riflessi mondiali sulla piazza finanziaria svizzera non siano dei migliori è lapalissiano. Così, mentre il fisco americano ha annunciato un nuovo procedimento contro il CS per aiuti a frodi fiscali, lo stesso presidente Joe Biden ha nuovamente catalogato la Svizzera fra i paradisi fiscali, alla stregua delle isole Cayman.

Antonio Horta-Osorio: ha vissuto molte crisi, ma mai una come questa. (Keystone)

Pronta in questo caso la reazione di Berna, che segnala che la Svizzera si è adeguata da tempo alle norme internazionali sul riciclaggio di denaro, la trasparenza e anche sulla fiscalità, contrariamente a quanto avviene negli Stati Uniti o, perlomeno, in alcuni Stati federali. Ma per tornare alla vicenda del Credit Suisse, il presidente uscente Urs Rohner, in occasione dell’assemblea degli azionisti, si è scusato per quanto

avvenuto, pur non assumendosene la responsabilità. Anche in questa occasione alcune teste dirigenti sono cadute, ma l’errore di fondo di lasciare troppa libertà al comparto «Investimenti» non è stato (ancora) risanato. Se ne rende conto il nuovo presidente Antonio Mota de Sousa Horta-Osorio come sia lungo e difficile ricostruire quanto si può perdere in una notte. Il quale, rivolgendosi per la prima volta all’assemblea, ha detto di aver vissuto parecchie

crisi bancarie, ma mai come quella che si è trovata fra le mani in solo otto settimane. Il 56enne portoghese gode di una vasta esperienza bancaria e ha già messo il dito nelle piaghe da risanare. Intanto ha visto che la gestione dei rischi da parte del Management competente avviene caso per caso. Si dà però che «i casi» siano numerosi e i due citati sono solo gli ultimi di una serie. Da qui deve passare l’opera di risanamento, rendendo ogni collaboratore responsabile e riportando alla banca intera la responsabilità dei rischi. Si dovrà rimettere in causa il modello di banca, che può passare dalla «One Bank Strategy» a varie altre possibilità, compresa la scorporazione dell’unità svizzera dal resto delle attività mondiali. Non ha risparmiato critiche al Consiglio d’amministrazione, che è mancato al suo dovere di sorveglianza, in particolare proprio nel settore dei rischi. Da rivedere anche la struttura delle rimunerazioni, non abbastanza collegate al successo della banca. Ha inoltre citato i grandi azionisti, spesso favoriti dal CdA, sul sostegno dei quali si poteva in seguito sempre contare. Riuscirà il nuovo responsabile a risolvere i molti problemi connessi? Nel mondo finanziario internazionale c’è chi dice che proprio in queste situazioni HortaOsorio mostra le sue migliori qualità. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

L’inflazione sta sfuggendo di mano? La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy

I prezzi al consumo statunitensi aumentano sensibilmente 3.50 % 3.00 % 2.50 % 2.00 % 1.50 % 1.00 % 0.50 % 0.00 % -0.50 % -1.00 %

Inflazione annua

precedente sono eccezionalmente bassi (o elevati), l’inflazione annua è di conseguenza elevata (o molto bassa). A causa dello scoppio della pandemia del coronavirus, i prezzi al consumo statunitensi sono scesi da marzo a maggio 2020, comportando una bassa base di paragone con cui ora vengono misurati i dati

Fonte: Bloomberg

Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros

Da qualche tempo, lo spettro dell’inflazione si aggira tra i mercati. I recenti dati sull’inflazione provenienti dagli Stati Uniti alimentano le preoccupazioni inflazionistiche. A marzo l’indice dei prezzi al consumo statunitense è aumentato dello 0,6% rispetto al mese precedente: non si assisteva a un tale rialzo dal 2012. L’inflazione annua è salita al 2,6% ed è quindi nettamente superiore all’obiettivo d’inflazione del 2% fissato dalla banca centrale statunitense. La Banca Migros non vede tuttavia alcun motivo di preoccupazione. Gran parte della spinta inflazionistica è dovuta ai prezzi dell’energia. Questa componente dell’indice dei prezzi al consumo è particolarmente volatile. A marzo, ad esempio, i prezzi della benzina sono aumentati del 9,1%. Ma la spinta al rialzo dei prezzi dell’energia è destinata a svanire nei prossimi mesi. Negli ultimi mesi, infatti, i prezzi del petrolio sono stati relativamente stabili e la produzione sta aumentando a causa del consolidamento della domanda. Inoltre, l’effetto di base svolge un ruolo importante. L’inflazione è misurata come variazione dell’indice dei prezzi al consumo rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Se i valori dell’anno

Inflazione mensile

sull’inflazione di quest’anno. In aprile e maggio questo effetto provocherà probabilmente un’analoga distorsione dei dati sull’inflazione. Di conseguenza, è probabile che l’inflazione negli Stati Uniti superi il 3% a breve termine. Tuttavia, a partire dall’inizio dell’estate, questo effetto di base diminui-

rà. Infine, nonostante i notevoli progressi compiuti, il mercato del lavoro statunitense è ancora relativamente debole e lo sfruttamento delle capacità produttive rimane basso in molte imprese. A medio termine la Banca Migros prevede che l’inflazione si stabilizzi appena al di sopra del 2%. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Perdiamo popolazione per colpa di Milano? Nel corso degli ultimi 50 anni, in Europa come in altre parti del mondo, la crescita demografica ha interessato soprattutto le città e gli agglomerati urbani. Dal punto di vista demografico le zone rurali hanno invece perso popolazione. Non è che il fenomeno sia nuovo, ma nuova è certamente la sua portata territoriale in quanto oggi la tendenza all’urbanizzazione si manifesta praticamente dappertutto, anche in piccole Nazioni come sono Malta e l’Islanda. Motivati a studiare le ragioni del calo demografico che si è manifestato negli ultimi anni nel nostro Cantone, i ricercatori dell’Osservatorio dello sviluppo territoriale dell’Accademia di Mendrisio hanno così pensato di concentrare la loro analisi per il periodo 2010-2019 proprio sull’evoluzione della popolazione urbana, presentendo che la diminuzione della

stessa poteva essere la conseguenza di un indebolimento del processo di crescita delle città di media e piccola dimensione. Per essere più precisi ricorderemo che l’analisi del processo di urbanizzazione a livello europeo mette in luce, attualmente, due tendenze contradditorie. Una alla crescita, che tocca le metropoli più grandi del Continente, e una al declino che interessa le città di media e piccola taglia situate nell’hinterland delle metropoli. È come se lo sviluppo demografico delle città fosse diventato un gioco a somma nulla. A guadagnarci sono le metropoli, a perderci sono invece i centri di media e piccola grandezza che le circondano. Se accettassimo questa ipotesi potremmo spiegare il recente declino demografico del Ticino come segue: la popolazione ticinese non cresce più perché ristagna la popo-

lazione dei suoi agglomerati urbani che, nel declino, condividono la sorte di tutti i centri medi e piccoli che si trovano nell’hinterland della regione metropolitana di Milano. Nell’articolo che hanno pubblicato il mese scorso nella rivista «Extra Dati» i ricercatori dell’Osservatorio mendrisiense non si sono contentati di formulare questa ipotesi, ma hanno anche cercato di validarla. Essi hanno così mostrato che l’evoluzione demografica dell’ultima decade della Svizzera (con l’eccezione dei Cantoni Ticino e Neuchâtel) è stata positiva, mentre quella delle province lombarde (con l’eccezione di Milano) è stata negativa. In relazione all’evoluzione della popolazione a sud delle Alpi si è dunque manifestato il gioco a somma nulla di cui abbiamo parlato qui sopra. Sembrerebbe che la popolazione dei centri medi e piccoli si sia

spostata verso la metropoli milanese. Anche se il Ticino è separato dalla metropoli lombarda da una frontiera nazionale, le tendenze al declino demografico dei centri di media e piccola dimensione si sono manifestate anche nel nostro Cantone. Per gli autori dello studio questa constatazione è sufficiente per indurli a concludere che gli indicatori demografici dimostrano che l’evoluzione demografica dei centri urbani ticinesi, negli ultimi anni, «si è ulteriormente avvicinata agli andamenti dei poli intermedi della megalopoli padana». E aggiungono che «di fatto è come se Milano rispetto al passato abbia acquisito una ulteriore e maggiore influenza sui destini del Ticino urbano». Un Ticino a rimorchio di Milano dunque? L’ipotesi dei ricercatori dell’Osservatorio dello sviluppo territoriale è certamente da

ritenere, ma andrebbe approfondita. La statistica del movimento migratorio ci dice, per esempio, che il saldo con l’estero è diventato negativo, nel corso degli ultimi anni, non perché siano diminuiti gli arrivi di stranieri ma perché sono aumentate le partenze. Sarebbe utile poter sapere quali siano le destinazioni ultime delle persone che lasciano il Ticino per l’Italia. In particolare sarebbe importante, per verificare l’ipotesi dell’Osservatorio, poter determinare i flussi migratori del Ticino (e dei suoi centri urbani) con Milano. Comunque, già nello stato attuale, la verifica dell’ipotesi della dipendenza dalla metropoli milanese basta per consentirci di concludere che il declino demografico del Ticino ha sicuramente altre radici – e quindi dovrebbe avere altre terapie – di quello del Canton Neuchâtel.

milioni e mezzo di follower, più dei voti ottenuti dal centrodestra (Lega più Forza Italia più Fratelli d’Italia) alle ultimi elezioni. Sua moglie, Chiara Ferragni, ne ha quasi il doppio. Che gusto c’è a possedere decine di milioni di seguaci e non farci un po’ di chiasso attorno? Qualcuno già dice che i Ferragnez, come vengono chiamati, vogliano fondare un partito. Dopo Forza Italia, nata dalla Tv, e il Movimento 5 Stelle, sorto dalla Rete, nascerebbe il partito dei social, che avrebbe uno spazio enorme non solo nel centrosinistra (cui ormai appartengono i grillini, che dopo una legislatura passata al Governo hanno perso molto dell’appeal antisistema sulla cui spinta erano cresciuti). In realtà non credo che Ferragni e suo marito intendano davvero fondare una forza politica. Semplicemente lei è una donna che si è inventata un mestiere che non c’era – l’influencer – e ora si è posta il problema di fare un ulteriore passo, di non essere solo

un’imprenditrice che vende pubblicità in modo nuovo. Le sue foto dagli Uffizi hanno fatto discutere, come il suo intervento sull’assassinio di Willy Monteiro, il ragazzo massacrato da un gruppo di picchiatori a Colleferro in provincia di Roma, e pure la sottoscrizione lanciata con Fedez all’inizio della pandemia, in sostegno dei malati di Covid. Anche il modo in cui è iniziata la loro storia d’amore è significativo. Ha raccontato Ferragni: «Era il dicembre 2015. Un amico comune mi dice: c’è questo rapper superpolitico che dice e fa cose interessanti, secondo me dovreste conoscervi. Così organizziamo un pranzo. Federico era con la sua ex, io con il mio. Poi ci perdiamo di vista. L’agosto del 2016 lo passo da single, in giro. Quando torno scopro che Fedez ha scritto il tormentone dell’estate e all’inizio della canzone mi cita. Proprio il giorno in cui sto rientrando a Milano, mi arriva un suo messaggio in cui propone di rivederci. Io all’epoca non avevo casa in città, stavo all’hotel Parigi, e lo invito a cena

da me, per evitare di essere paparazzata. In realtà ci paparazzano lo stesso. Io do la colpa a lui, lui si arrabbia con me… Fatto sta che ci mettiamo insieme». Nel marzo 2018 nasce Leone, che diventa pure lui subito una star dei social, seguito dalla sorellina Vittoria, già seguitissima. Sono i social, bellezza, e tu non puoi farci nulla. Soprattutto se sei la televisione pubblica generalista. Una cosa del secolo scorso. Ne volete una prova? Matteo Salvini, che era il vero bersaglio del monologo di Fedez dal palco del primo maggio, è stato attento a evitare lo scontro frontale con lui. Non si è lamentato più di tanto. Ha invitato l’artista a prendere un caffè per discutere insieme come tutelare meglio le minoranze, senza varare norme liberticide. Insomma l’ha considerato un interlocutore, non un avversario. E il motivo è semplice: anche Salvini è sui social, ma di follower su Instagram ne ha poco più di due milioni. Un sesto di quelli di Fedez.

deporre le armi e di stipulare una tregua, ossia riesaminare le condizioni per finalmente veder nascere un centro autogestito, non definito e controllato da una centrale amministrativa. Ciò che sbalordiva e risultava inconcepibile era quest’improvvisa eruzione di violenza nella city della finanza e del lusso ostentato, un fenomeno che indusse le autorità federali a chiedere lumi alla Commissione federale per la gioventù, presieduta dal ginevrino Guy-Olivier Segond. Un primo rapporto uscì nel dicembre del 1980, suscitando reazioni opposte. Per gli uni aveva il merito di andare oltre le apparenze e di scavare nel disagio giovanile, per gli altri di giustificare eccessivamente atteggiamenti qualificabili solo come teppismo. Istruttivo, ancora oggi, è tornare sulla polemica che vide duellare due filosofi, Jeanne Hersch ed Erich Saner: entrambi allievi di Karl Jaspers, giunsero a conclusioni opposte. Hersch insistette sulla deri-

va nichilista degli adolescenti ribelli, Saner sulle pulsioni creative e libertarie che animavano gli autonomi, irriducibili agli schemi del pensiero dominante. Non è che, quarant’anni dopo, le tensioni siano rientrate. Da quella stagione sono tuttavia nate iniziative che a Zurigo (Rote Fabrik), Berna (Reithalle) e Basilea (Kaserne) si sono acclimatate, arricchendo l’offerta culturale con proposte, appunto, alternative. È quanto si vorrebbe vedere anche a Lugano, ossia la costituzione di uno spazio in cui sia possibile sperimentare una sorta di «antiLac». Non un ghetto, ma un luogo aperto alla cittadinanza, di ogni età, origine e condizione sociale. La grande Lugano dovrebbe finalmente collocarsi in una dimensione che sia all’altezza delle sue ambizioni di polo quasi metropolitano. Ma anche gli autonomi devono aprirsi alla società e guadagnarsi il consenso e le simpatie del pubblico con uno stimolante calendario underground.

In&outlet di Aldo Cazzullo I Ferragnez e il partito dei social Il concertone del primo maggio è una tradizione italiana, così come le polemiche che ne seguono. In teoria il primo maggio è la festa del lavoro. In realtà diventa un podio per artisti impegnati e legittimamente in cerca – oltre che di audience per le loro battaglie e le loro idee – di visibilità e autopromozione. Il punto è che l’autopromozione di Fedez, in occasione di quest’ultimo primo maggio, è stata smaccata, cioè fin troppo evidente. Il cantante – ancora lo si chiama rapper ma è andato a Sanremo con una canzone melodica, oltretutto bella, e ha pure rischiato di vincere il festival – ha preparato un monologo, non particolarmente urticante, a sostegno del disegno di legge Zan contro l’omofobia e la discriminazione delle minoranze, già approvato alla Camera e in attesa al Senato. Quindi non un testo eversivo. Norme sì discusse e discutibili, ma che in teoria dispongono di una maggioranza in Parlamento, tra gli eletti dal popolo. Alla difesa del provvedimento, Fedez

ha aggiunto la critica a posizioni espresse da esponenti minori della Lega, alcuni dei quali hanno avuto parole di odio per gli omosessuali («se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno») che dovrebbero essere condannate da tutti, indipendentemente dalle loro idee politiche. Dov’è quindi lo scandalo? In realtà la polemica non è esplosa tanto sul monologo di Fedez, quanto sulla registrazione della sua telefonata con un autore e una vicedirettrice di Rai tre, che Fedez ha prontamente messo in Rete e resa così pubblica. Palesemente, tutto era orchestrato, con il cantante che grida «io sono un artista e dico quello che voglio!» e i burocrati che balbettano dall’altra parte. In realtà la vicedirettrice dice a Fedez che non intende esercitare alcuna censura, ma la frase in questione è stata tagliata nel video diffuso dall’artista sui social. E, se la partita si gioca sui social, la Rai contro Fedez è Davide contro Golia. Fedez infatti ha su Instagram dodici

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Centro autonomo: la lezione degli anni Ottanta A Lugano, alla vigilia del rinnovo dei poteri comunali, è riscoppiata la questione del centro autogestito giovanile, ora collocato nell’ex-Macello, un’area pregiata che certamente fa gola ai costruttori. Tra le parti sono volate parole grosse, con il Municipio, ma non all’unanimità, deciso questa volta a sgomberare l’area per mano della polizia. Archiviate le elezioni, si preme per una conciliazione, per un dialogo che spiani la via a una soluzione condivisa. Il fronte degli intransigenti continua tuttavia ad invocare le maniere forti: sono voci che spesso provengono da quello stesso movimento politico che nei suoi primordi non ha esitato a violare il principio di legalità. Come mai un polo urbano ora «grande» come Lugano non è riuscito negli anni a far pace con i giovani dissidenti che la abitano? Sono pochi, d’accordo, ma non per questo meritano giudizi sprezzanti o alzate di spalle, come tara di un organismo che si autoreputa bello fuori e sano

dentro. Probabilmente questo succede perché, al di là dei primati di cui mena vanto, la città non si capacita di ospitare nel suo seno una cellula diversa, irregolare, non allineata con il cartellone culturale tradizionale ampiamente sostenuto da contributi pubblici e privati. Insomma, non si è mai rassegnata all’idea di dover fare i conti con una minoranza che si dichiara estranea alle categorie di cui si nutre la politica culturale cittadina. Non siamo dinanzi a un fenomeno originale. In Svizzera i primi conflitti sull’opportunità o meno di fondare un centro autonomo giovanile («AJZ») non ai bordi estremi delle conurbazioni affiorarono sul finire degli anni Settanta del secolo scorso. Allora le autorità, per soddisfare i bisogni dei giovani, ritenevano sufficiente sovvenzionare ostelli e impianti sportivi. Nessuno immaginava che nelle pieghe del tessuto urbano potessero formarsi isole in grado di raccogliere un’eterogenea e varia umanità non riconducibile

alle agitazioni del ’68. I contestatori vecchio stile si erano ridotti a sparuta frangia. I più si dicevano allergici alle astruserie ideologiche, alle teorie dei francofortesi, tanto raffinate quanto incomprensibili. Semmai traevano ispirazione dal pensiero anarchicodadaista, agli sberleffi degli indiani metropolitani del ’77 italiano, al moto anticonformista che aveva accompagnato la nascita delle radio libere. Fu così che nell’estate del 1980 la rivolta esplose a Zurigo, epicentro dei disordini, per poi allargarsi a Basilea, Berna e Losanna: una lotta senza quartiere con le forze di polizia, equipaggiate con manganelli, scudi, lacrimogeni e micidiali proiettili di gomma, in grado di cavare un occhio. Tumulti del genere non si erano mai visti nell’«ubbidiente e paciosa Elvezia», osservò la stampa internazionale, sorpresa da tanta brutale violenza. La guerriglia andò avanti, tra alti e bassi, per alcuni anni, finché entrambi gli schieramenti non decisero di


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Cultura e Spettacoli Per non dimenticare Giorgio Rambelli ci racconta i terribili giorni della strage di Marzabotto pagina 37

Quale futuro per i musei Il museo di Vallon compie vent’anni: un’occasione importante per riflettere sul valore delle istituzioni espositive

Trasgressione forever Anniversari e una nuova uscita con l’irriverente Vincent Damon Furnier, alias Alice Cooper

Dante e le donne Le donne e la quotidianità ai tempi di Dante in un libro postumo di Marco Santagata

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«Portateci gli stracci, ne faremo vestiti»

Narrativa Un pezzo di storia berlinese

nel romanzo di Brigitte Riebe

Natascha Fioretti Ricordo ancora quando mia nonna mi portava al Grande magazzino Karstadt in Hermannplatz a Berlino. Era sempre un evento e Inge mi diceva «qui hanno sempre tutto, troveremo quel che cerchiamo». Era una golosa, adorava le caramelle e i cioccolatini e la prima meta era sempre il reparto con l’angolo dei dolci sfusi. C’era naturalmente anche il ristorante e come da tradizione, dopo le nostre ore di shopping, facevamo pausa pranzo tra risate e cose buone. Nel periodo natalizio era d’obbligo un giro al KaDeWe, il Kaufhaus des Westens, per ammirare (senza comprare! Troppo cari), gli addobbi e le decorazioni natalizie. Non si andava sempre nei grandi magazzini, solo per le occasioni speciali. Potete immaginare quale meraviglia abbia provato nel leggere i destini della famiglia Thalheim proprietaria dell’omonimo Grande magazzino in Kurfürstendamm, il viale berlinese che tra gli inizi del Novecento e il Terzo Reich ha avuto un periodo di tale splendore che ancora oggi rieccheggiano suoni e voci di quella stagione fortunata. Qui pullulavano e convivevano in grande armonia caffè di lusso e locali popolari, gallerie d’arte e balere, teatri seri e cabaret. Senza dimenticare i caffè letterari, principale luogo di incontro delle avanguardie intellettuali e artistiche durante il primo trentennio del XX secolo. Uno per tutti il Cafè des Westens all’angolo tra Kurfürstendamm e la Joachimsthalerstrasse. Chiuso nel 1919, i suoi locali ripresero vita nel 1932 con l’insediamento del Cafè Kranzler. È questo il primo elemento che ho apprezzato del romanzo di Brigitte Riebe, storica di formazione, di casa a Monaco, autrice di numerosi romanzi e gialli. L’attenzione per i dettagli storici e topografici della città. Una vita da ricostruire è il suo primo lavoro uscito in italiano, in questo caso per Fazi editore. C’è stato dunque un tempo, in cui a Berlino nascevano e crescevano con successo i grandi magazzini. Wertheim, Kaufhaus des Westens, Hertie, erano i templi lussuosi del consumo moderno nati a immagine e somiglianza dei «Department Stores» americani di cui gli imprenditori europei conobbero potenzialità e opportunità alla Columbian Exhibition di Chicago nel 1893. Quella formula per cui in un solo luogo il ceto

medio poteva trovare di tutto – dall’alta moda, ai bottoni fino allo spazzolino da denti – piacque e fu importata. Non solo shopping: nei grandi magazzini berlinesi ci si dava appuntamento, ci si incontrava e si condividevano momenti di piacere e leggerezza. Il primo a Berlino inaugurato nel 1896 fu il grande magazzino Wertheim a Leipziger Platz, a pochi passi da Potsdamer Platz. Non solo contenitori di moda e articoli di vario genere, questi edifici erano dei gioielli architettonici. Quello disegnato da Alfred Messel con le sue facciate gotiche e i grandiosi cortili a lucernario fu un successo. Il 27 marzo del 1907 aprì il KaDeWe in via Tauentzienstraße a pochi metri dal grande magazzino Thalheim & Weisgerber di cui ci racconta il romanzo. L’idea fu di Adolf Jandorf, già proprietario di diversi grandi magazzini, che con questo volle fare la differenza, creare cioè un tempio del consumo che potesse soddisfare l’elite guglielmina. In poco tempo divenne uno degli indirizzi commerciali più quotati della città, tanto da trasformare la Tauentzienstraße in un boulevard di negozi. A pochi isolati di distanza, intanto, tutto il quartiere attorno alla Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche diveniva un crocevia internazionale. Così in pochi anni la cultura dei grandi magazzini – a partire da Leipzigerstrasse passando per la Tauentzienstraße fino a Kurfürstendamm – conquistò Berlino. Una storia di benessere, moda e successo bruscamente interrotta dal nazismo e dalla Seconda guerra mondiale. Ma tuffiamoci ora nelle vite coraggiose delle tre sorelle: Rike, Silvie e Florentine. Il primo incontro con loro avviene nella Berlino del 1932, è il giorno della riapertura dei Grandi magazzini Thalheim & Weisgerber dopo le importanti ristrutturazioni e gli ampliamenti. «In piedi nel foyer, Rike rovescia la testa indietro e guarda in alto ma fatica a riconoscerli tanto sono cambiati. Luci così brillanti che quasi l’accecano. Colori, un tripudio di colori». Tutta la famiglia è riunita per il grande evento a partire da papà Friedrich, mamma Alma, zio Carl, zia Lydia, il socio Markus Weisberger e, appunto, le tre sorelle. La saga si apre in gran festa con ricchi brindisi. Nel 1933 salgono al potere i nazisti che notoriamente odiavano i grandi magazzini, in particolare quelli degli ebrei come Adolf Jandorf o

Veduta dei piani alti del Kurfürstendamm a Berlino. (Shutterstock)

Markus Weisgerber. E se per un attimo l’autrice ci delizia in apertura con scene di vita gioiosa e benestante, un attimo dopo ci catapulta nella Berlino distrutta del 1945. La città è un cumulo di macerie, tra i tanti simboli della disfatta spicca la Gedächtniskirche, chiesa della commemorazione Kaiser Wilhelm, colpita dai bombardamenti insieme a tutti gli altri edifici antichi della piazza. Grandi magazzini Thalheim compresi. È qui che entriamo nel vivo della trilogia dedicata alle sorelle del Ku’damm, una storia di coraggio, intelligenza, impegno e resilienza femminile. Rike, Silvie e Florentine, sfollate dalla loro villa di famiglia, private di tutto, in un’epoca di stenti ma anche di ricostruzione, si rimboccano le maniche per dare vita a un sogno: riaprire l’attività di famiglia riportando colore, gioia e speranza nella tetra Berlino del dopoguerra con tessuti elaborati e di alta moda. Tra le prime iniziative importanti delle sorelle Thalheim c’è senz’altro la sfilata, la prima organizzata a Berlino nel secondo dopoguerra. «Portateci gli stracci, ne faremo vestiti» risuona il loro slogan, d’altronde di necessità bisognava fare virtù, stoffe e materie prime scarseggiavano, le persone possedevano poco o niente, ci voleva una moda adatta ai tempi e accessibile a tutte. Silvie, destinata a una carriera in radio, in quell’occasione fa gli onori di casa: «Signore e signori, benvenuti di cuore alla prima sfilata berlinese tra le macerie. Dietro di noi, all’angolo tra

il Ku’damm e la Budapesterstrasse, si ergevano un tempo i Grandi Magazzini Thalheim. Purtroppo nel 1943 sono stati rasi al suolo da un attacco aereo, ma come l’araba fenice la nostra nuova moda risorge in tempi di pace». Al di là delle emozioni, dei personaggi tratteggiati magnificamente, delle tensioni umane e degli intrecci, del protagonismo femminile che mette in luce come non sia più prerogativa degli uomini prendere in mano le redini di famiglia e condurre gli affari, a rendere il romanzo affascinante è la fotografia che Brigitte Riebe ci restituisce della Berlino del dopoguerra fino agli anni Cinquanta. Con le sorelle Thalheim attraversiamo l’intera città dal Ku’damm a Savignyplatz, al quartiere olandese di Potsdam per poi fare un salto alle Freie Universität a Dahlem e ritorno. Brigitte Riebe ci racconta delle tessere annonarie e delle lunghe file per ricevere irrisorie razioni di cibo e beni di prima necessità, oppure delle «Trümmerfrauen», le donne delle macerie, che rimossero le macerie degli edifici nelle città tedesche distrutte dai bombardamenti, per liberare le strade o recuperare i materiali per nuove costruzioni. Non manca il riferimento al processo di denazificazione, l’iniziativa alleata volta a liberare la società, la cultura, la stampa, l’economia, la giustizia e la politica tedesca da ogni resto dell’ideologia nazionalsocialista. Nella famiglia Thalheim si assiste a uno scontro tra le vecchie e le giovani generazioni, le prime chiedono

conto alle seconde dei loro misfatti e delle loro responsabilità. Friedrich Thalheim era stato costretto a entrare nel Volkssturm, nella milizia popolare nazionalsocialista creata per decreto di Hitler agli sgoccioli del Terzo Reich per cambiare le sorti del conflitto. Intanto Rike riuscirà a realizzare il sogno e a salvare le sorti economiche della famiglia grazie al lascito del nonno materno. Lascito che la condurrà a Zurigo dove il nonno si era ritirato vedendo nella Svizzera «l’ultimo paese rifugio sicuro in tutta Europa» e dove incontrerà il grande amore italiano. Come scrive Ursula März su «Die Zeit», «nei romanzi di Brigitte Riebe accadono molte cose: una svolta fatale attende il lettore a ogni angolo». E come ha confidato la stessa autrice in un’intervista spiegando perché il romanzo sia ambientato a Berlino e non a Monaco «Quale città dopo il 1945 può eguagliare Berlino?» Nessun’altra è così avvincente. Fatto non secondario, Berlino è sempre stata il grande amore di Brigitte Riebe. Come non essere d’accordo? Se amate dunque la storia europea del secolo scorso, i racconti di riscatto e coraggio femminile e non disdegnate i buoni sentimenti, allora questo romanzo – che in Germania ha venduto 200’000 copie e ha scalato tutte le classifiche – vi conquisterà. Bibliografia

Brigitte Riebe, Una vita da ricostruire, Roma, Fazi Editore, 2021.


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Cultura e Spettacoli

1944, annus horribilis

Sul filo della memoria Giorgio Rambelli racconta la sua esperienza di sopravvissuto alla terribile

e spietata strage nazifascista di Marzabotto

Alessandro Zanoli Il Signor Giorgio ha 84 anni. Ne sono passati oltre settantacinque da quei giorni. Ma ancora oggi i visi li rivede con grande chiarezza. «Non sono fisionomista, se domani ci reincontriamo per strada, è meglio che sia lei a salutarmi e a ricordarmi che ci siamo conosciuti. Ma certe facce e certe fisionomie sono incancellabili». Se gli si chiede di incubi ricorrenti, di paure e ansia, così come riportano altre persone che condividono la sua esperienza, lui glissa scuotendo la testa. «Ci sono situazioni che mi danno particolarmente fastidio, come entrare in una sala dove si sta festeggiando un compleanno e tutti sono allegri e contenti. O come il Natale, una festa che non festeggio volentieri e aspetto con sollievo che passi, vero?» dice voltandosi verso la moglie, che annuisce. Il tutto ha un riscontro preciso con la sua storia. Il Natale del 1944 Giorgio l’aveva passato nascosto, con la madre e con i membri di molte altre famiglie, in un tunnel ferroviario dismesso sulla linea della Porrettana, la ferrovia che collega Bologna a Firenze. La sua abitazione, un casello che la sua famiglia condivideva con i militi di guardia alla linea, non era molto lontano da lì, ma era presidiata dai tedeschi. Il Signor Giorgio vi si era trasferito con i suoi genitori qualche tempo prima. Il padre, Ugo, romagnolo di Bagnacavallo, era ferroviere a Bologna, ma non avendo voluto aderire al Partito fascista era stato declassato ad ausiliario e trasferito in quella località discosta. «I primi tempi le cose erano andate abbastanza bene, avevamo fatto amicizia con i contadini che vivevano lì vicino e ci eravamo inseriti. Ma poi arrivarono i fatti dell’autunno del 1944». Qui è necessario aprire una parentesi storica: in quell’anno la Seconda guerra mondiale si avviava alla conclusione. In Italia, le truppe di occupazione tedesche erano lentamente sospinte verso nord dall’esercito americano e dai loro alleati. Sul crinale degli Appennini, tra Toscana ed Emilia Romagna, era stata fissata la linea di difesa tedesca, la cosiddetta «Linea Gotica». Mantenere la compattezza di quel fronte era una questione essenziale per i tedeschi, mentre la manovra degli alleati puntava proprio ad attraversare le montagne da sud per dirigersi su Bologna. Le valli del fiume Reno e del fiume Secchia, a sud della città, erano quindi presidiate dai tedeschi ma oggetto di attacco da parte di formazioni partigiane, che si erano attestate sulle montagne. Disturbati dalle loro frequenti incursioni, i tedeschi decidono di compiere una potente offensiva per spazzarle via. E la tecnica che utilizzano è quella del massacro, già messa in atto in altri scenari della stessa guerra: la popolazione civile deve essere intimidita in modo da evitare qualsiasi appoggio ai partigiani.

Anche Giorgio Rambelli fu vittima della furia nazifascista. (Sala)

Giorgio racconta: «I partigiani scendevano a valle per chiedere da mangiare: confiscavano animali, prendevano quello che trovavano. Lasciavano in cambio delle ricevute che i contadini avrebbero potuto farsi rimborsare dagli alleati, al momento della liberazione. Tutti naturalmente le distruggevano subito: farsi trovare con quelle ricevute dai tedeschi sarebbe stata una condanna sicura».

«Io non ce l’ho con i tedeschi, ce l’ho molto di più con i fascisti, che parlavano anche il nostro dialetto» Negli ultimi giorni di settembre, quindi i tedeschi iniziano una feroce manovra di rastrellamento nella regione centrale della Valle del Reno alle pendici del Monte Sole e attorno al comune di Marzabotto. «Mio padre e altri uomini furono usati come animali da soma per trasportare armi e munizioni sulle montagne adiacenti. Alla fine del lavoro egli fu ucciso con tutti i suoi compagni, e bruciato. Dopo la guerra mia madre fu chiamata per identificarne i resti e dai pochi rimasugli pensò di averlo trovato». Ugo Rambelli, padre del Signor Giorgio, era stato ucciso presumibilmente il 29 settembre 1944. Aveva 34 anni. Il suo corpo fu ritrovato nel dicembre del 1946.

Il ritaglio d’epoca con l’annuncio della morte di Ugo Rambelli.

Nei giorni seguenti poi l’offensiva contro i civili della regione prese dimensioni sempre più cruente. Si calcola che alla fine dell’azione, il 5 ottobre, i civili trucidati nelle maniere più disumane fossero 770 , di cui 216 bambini, 316 donne, 142 anziani sopra i 60 anni. In un calcolo a posteriori si può dire che 115 località vennero attaccate, con villaggi isolati e chiese. Le abitazioni furono date alle fiamme e distrutte, uccisi anche gli animali. Fino al 18 ottobre si calcola siano state uccise 955 persone. Tutto questo massacro viene oggi ricordato sotto il nome di «Strage di Marzabotto». I resti dei caduti sono stati raccolti in un sacrario, nella cittadina emiliana. Il Signor Giorgio continua il suo racconto: «A un certo punto siamo stati catturati anche noi: eravamo un gruppo di donne con bambini. I tedeschi hanno appeso noi bambini a dei pali. Poi chiedevano alle donne: “Quello lì è tuo figlio? Se non ci dici dove sono i partigiani lo uccidiamo”. Le donne naturalmente non sapevano cosa rispondere e quelli sparavano. Quando è toccato a me, il caso ha voluto che mi colpissero solo a una gamba. Io per la paura e il dolore sono svenuto. Loro mi hanno preso per morto e così mi sono salvato...». Giorgio racconta queste cose con lucidità e calma, con un controllo di sé che è ormai allenato dal tempo e dalla distanza degli eventi. Si capisce perché, oggi, le manifestazioni di gioia e di allegria lo mettano in difficoltà: «Per noi sopravvissuti torna regolarmente il senso di colpa: ci si pone la domanda “perché io mi sono salvato e gli altri no?”». Le scene a cui il Signor Giorgio e gli altri sopravvissuti hanno assistito sono di una violenza e di una assurdità inconcepibili: «Io non penso che l’uomo sia necessariamente buono, ma quello che abbiamo subìto basta a cambiare il modo di vedere il mondo per tutta la vita». Il sentimento vissuto dal Signor Giorgio è condiviso da molti altri sopravvissuti che solo di recente sono riusciti a esprimere pubblicamente le loro testimonianze personali. Chi fosse interessato può ad esempio visionare il documentario Quello che abbiam passato, realizzato dalla Scuola di pace Monte Sole e pubblicato su Youtube all’indirizzo www.youtube.

com/watch?v=U31yeOqQ9hg. Il video si concentra sulle esperienze vissute da tre bambini di allora, che abitavano nella zona attorno alla frazione di Casaglia, una delle località più colpite e teatro di un’azione di grande efferatezza, in cui decine di persone furono trucidate all’interno di un cimitero. Una scena così drammatica da essere riprodotta in uno dei film più noti realizzati di recente attorno ai fatti di Marzabotto, L’uomo che verrà di Giorgio Dritti. «Sono voluto andare a vederlo» racconta il signor Giorgio «ma non ne sono stato impressionato, non mi ha toccato in modo particolare. Piuttosto, negli ultimi vent’anni, dopo aver provato per tanto tempo a dimenticare, sono tornato alcune volte in quella zona, a cercare i riferimenti di cui ricordavo, a cercare magari persone che avevo conosciuto». Il ricordo del passato è comunque sempre legato a un sentimento che è anche rancore «istituzionale»: «La cosa che mi ha sempre fatto male è rendermi conto che, dopo quello che abbiamo passato, non siamo mai stati aiutati in nulla. Da un lato, il fatto che mio padre fosse stato declassato per motivi politici, ha impedito in seguito a mia madre di poter avere una pensione decente con cui sopravvivere. Io stesso, come orfano di guerra, non sono mai stato sostenuto. Ho dovuto arrangiarmi e, a conti fatti, sono fiero di esserci riuscito». Il Signor Giorgio, infatti, raggiunti i 18 anni è entrato in servizio militare come Guardia di Finanza. È stato dislocato in un primo tempo a Rodero, piccola dogana tra Stabio e Cantello, poi trasferito a quella di Ponte Chiasso. Al termine della ferma ha trovato lavoro in una grande ditta di spedizioni di Chiasso, e lì è rimasto per oltre 40 anni, fino al pensionamento. Oggi vive con la moglie a Stabio e la sua «normalità» di pensionato non lascia trasparire nulla della sua esperienza, così drammatica. Resta però in qualche modo la necessità per noi, suoi concittadini, di fare in modo che quello che ha vissuto non venga dimenticato, che rimanga come insegnamento. «Non partecipo alle commemorazioni ufficiali, anche perché nessuno mi ha mai invitato. Ho avuto l’impressione che in molte situazioni anche una tragedia di queste dimensioni sia stata strumentalizzata per motivi politici.

Ma al di là di questo, è importante che il ricordo si conservi e non si perda». Sul tavolo davanti a noi il Signor Giorgio ha accumulato varie pubblicazioni, tra cui ritagli di giornali dell’epoca che riportano della tragica morte di suo padre, libri, opuscoli, cartine geografiche. Sono tutte annotate con appunti, nomi di persone, luoghi, numeri di telefono. Il luogo in cui si trovavano il suo tunnel rifugio e il casello ferroviario è evidenziato col pennarello arancione, sulla «Carta delle località degli eccidi nazifascisti nei Comuni di: MarzabottoMonzuno-Grizzana Morandi». Se gli si chiede se ripensando alla sua esperienza provi oggi un rancore particolare verso i criminali che l’hanno compiuto lui risponde con molta chiarezza: «Posto che il comandante delle truppe coinvolte, Walter Reder, è stato condannato all’ergastolo, dopo la guerra, si può dire che quelli coinvolti nella strage non erano veri soldati. Era una banda di criminali senza scrupoli, non soltanto tedeschi, che erano stati già impiegati in altre azioni disumane di quel tipo, in altri teatri di guerra, come a Sant’Anna di Stazzema. E non dimentico che sotto le divise tedesche si nascondevano persone che parlavano il nostro dialetto, e le abbiamo sentite in molti. Per dire la verità, io non ce l’ho con i tedeschi: c’è l’ho molto di più con i fascisti». E qui il Signor Giorgio ci dà un ulteriore spunto per collegarci al presente: «Se si può forse dire che all’inizio il fascismo avesse delle motivazioni anche valide, che volesse promuovere un cambiamento sociale magari necessario, le sue derive violente sono state assolutamente inaccettabili e alla fine hanno portato a questi episodi criminali». A distanza di 75 anni, il racconto del Signor Giorgio ci riporta a pensare all’oggi e a riflettere su come la democrazia vada sempre tutelata e protetta. Per evitare che la storia si ripeta. Bibliografia

AA.VV. Marzabotto, quanto, chi e dove. Ponte Nuovo Editrice, 1995. Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri tra Setta e Reno. 1898-1944, Il Mulino, 1994. Renato Giorgi, Marzabotto parla, Marsilio, 1985.


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Cultura e Spettacoli

E se quel museo non esistesse?

Incoraggianti debutti ticinesi

Mostre Il Museo romano di Vallon si interroga sui suoi vent’anni di vita e sul futuro

In scena L’attesa

riapertura dei teatri

Marco Horat

Giorgio Thoeni

«Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto». Questa la definizione di museo che dà il Consiglio Internazionale dei Musei. Un compito articolato, impegnativo e complesso che ogni istituzione museale declina secondo le proprie caratteristiche e le circostanze nelle quali opera. Il Museo romano di Vallon, nel Canton Friborgo, festeggia i primi venti anni di vita. E cosa c’è di meglio per sottolineare un anniversario importante che fermarsi un momento a riflettere su ciò che ci si è lasciati alle spalle? Non per cullarsi nei ricordi, ma per progettare il tempo che ci sta davanti (sempre che qualche virus malefico non continui a tagliarci la strada).

La foresta è il luogo dell’inconscio, dell’iniziazione, della fiaba, del mistero, del sonno. In psicoanalisi è anche l’archetipo dell’ombra, delle allegorie, dello smarrimento. È con l’immagine di una foresta, una lunga e insistita sequenza proiettata su una scena avvolta nella nebbia e nella semioscurità, che prende avvio Kiss! (Loving Kills), lo spettacolo di Camilla Parini con il Collettivo Treppenwitz che ha debuttato al Teatro Sociale di Bellinzona dopo un periodo di residenza al LAC luganese. È difficile ingabbiarlo in una definizione. È più facile parlarne lasciandosi trasportare dalle evocazioni emerse da un labirinto riflessivo dedicato all’amore, dopo quello creato da Simon Waldvogel con L’amore ist nicht une chose for everybody. Una lettura successiva senza testo, dove suoni e luci sono l’architrave di un ambiente buio e rarefatto, fra parole impercettibili, sussurrate in lontananza, e quattro personaggi in un continuum rallentato, meditato e sospeso. Nella sua prima importante regia, Camilla fa una scelta di campo e gioca sul silenzio alla ricerca di immobili emozioni, fra corpi che si sfiorano e s’aggrovigliano per poi lasciarsi nell’immobilità di un gesto che dà forma all’immagine: dinamiche associative e simboliche. Tutto accade come in un sogno, avvolto nel torpore di un’assenza nella speranza di riconoscere ciò che ci abita, nel bene e nel male. Pregevole l’impianto scenografico di Francesca Caccia con le musiche e il sound-design di Alberto Barberis, le luci di Andrea Sanson con l’aiuto regia di Waldvogel e Francesca Sproccati. Nutriti applausi alla prima per Camilla Parini, Martina Martinez Barjacoba, Kevin Blaser e Thomas Couppey.

La centralità di questa mostra si situa in un’importante riflessione sulle istituzioni museali Il Museo di Vallon è stato costruito sui resti di una villa gallo-romana del III secolo che conteneva due splendidi mosaici, detti della Caccia e di Bacco e Arianna. Un lavoro durato undici campagne di scavo su 3500 metri quadrati di superficie e due anni per la sua costruzione. Fin dall’inizio ha presentato reperti che emergevano durante i lavori di ricerca, e nel corso degli anni si è arricchito con testimonianze quali la maquette della villa, i pannelli con pitture murali e la ricostruzione in grandezza naturale del portico affrescato. Ha anche proposto mostre temporanee per il grande pubblico, arricchite da attività collaterali e didattiche, in collaborazione con altri musei romandi, con lo sco-

Un momento dell’allestimento della mostra. (museevallon.ch)

po di valorizzare il patrimonio archeologico della regione dei tre laghi che ruota intorno ad Avenches. Un’attività di studio e divulgazione importanti per un piccolo museo archeologico che ha indotto la Direttrice Clara Agustoni e il suo staff a porre (porsi) una domanda provocatoria e paradossale: ...e se il Museo non esistesse? Dopo venti anni il MRV ha bisogno di essere ripensato, e allora quale migliore occasione per mettersi in discussione, trarre un bilancio di quanto fatto in vista del cosa fare domani? Di qui l’idea di una mostra di lunga durata e pensata in evoluzione, ruotando cioè gli oggetti esposti e tenendo conto delle risposte del pubblico. Quattro i capitoli chiave. All’esterno alcuni pannelli ricordano il problema della scoperta dei mosaici che sono all’origine della storia. Che fare? distruggerli, ricoprirli, rimuoverli o valorizzarli lasciandoli in situ, come è stato poi fatto a Vallon. Mosaico, museo,

muse... parole con una comune radice etimologica. Si entra nell’edificio. Al pianterreno il Museo si nasconde, appunto come se non esistesse: tre grandi casse di legno del tipo usato per i trasporti nascondono al loro interno pochi oggetti archeologici visibili attraverso apposite finestre; una scelta di reperti per illustrare il contesto che ruotava attorno ai mosaici: la grande villa romana di campagna, i suoi abitanti, gli animali, i giardini e le abitudini legate alla vita quotidiana, alle credenze e ai passatempi; partendo dal particolare per arrivare al contesto generale di una piccola comunità che viveva alla romana. Al piano rialzato invece ecco la storia del museo che quindi riappare agli occhi del visitatore attraverso una struttura in legno che ricorda le doghe che separano nei nostri palazzi moderni gli spazi delle cantine: «Sulle pareti della grande sala abbiamo riportato parole chiave del Codice etico del Con-

siglio Internazionale dei Musei che hanno guidato anche le nostre scelte in questi venti anni: conoscenza, documentazione, conservazione, mediazione culturale, collaborazione ecc. E in questo terzo capitolo riassumiano la nostra storia ventennale con immagini e video». Resta aperta la domanda: e il futuro come sarà? Questione che coinvolge il Museo di Vallon, che come detto si darà una nuova veste. Di qui la quarta e ultima parte della mostra che chiama direttamente in causa il pubblico in modo ludico ma che si pone come momento di creatività e progettualità da parte di chi reggerà le sorti del Museo romano di Vallon per i prossimi vent’anni. Dove e quando

Et s’il n’existait pas?, Vallon, Musée Romain. Orari: me-do 13.00-17.00. Fino al 31 marzo 2024. museevallon.ch

Respiro e libertà Massimario classico I l respiro, oltre

che funzione basilare di ogni organismo, è da sempre anche metafora di sollievo Elio Marinoni Nunc demum redit animus «Ora finalmente si torna a respirare» (Tacito, Agricola, 3,1) Con queste parole, scritte sullo scorcio del secolo (98 d.C.), lo storico e senatore Cornelio Tacito saluta l’avvento, con il breve principato di Nerva (9698) e con l’ascesa al trono di Traiano, di una forma più blanda di governo imperiale, contrapposta alla soffocante tirannide di Domiziano, su cui lo storico si è soffermato in precedenza: un regime, quello instaurato da Nerva e Traiano, che, al momento in cui Tacito scrive, sembra rendere conciliabile la libertas, quanto meno quella dei senatori, con la forma autocratica del principatus. L’animus («animo, soffio vitale, respiro», dalla stessa radice del gr. ánemos, «vento») dunque assume la valenza di una metafora della libertà. Di

questi tempi due eventi hanno rimesso in auge questa metafora: da un lato la morte per soffocamento dell’afroamericano George Floyd, causata dalla pressione esercitata sul collo del malcapitato dal ginocchio del poliziotto Chauvin per interminabili nove minuti e ventinove secondi; dall’altro la pandemia che da più di un anno infesta il nostro pianeta. Now we can breathe again, «Ora possiamo di nuovo respirare», hanno commentato la famiglia e i sostenitori di George Floyd dopo la sentenza di condanna per omicidio del poliziotto incriminato. Ma «si torna a respirare» è anche l’espressione comunemente usata dai media per annunciare il parziale e graduale allentamento – in atto in diverse parti del mondo – delle restrizioni, vissute da taluni come imposizioni liberticide, nella lotta alla pandemia da Covid-19: per esempio la riapertura dei ristoranti all’aperto nel nostro

I diari di Markus Zohner

Il Teatro Foce di Lugano ha recentemente ospitato Totentanz-I diari, un allestimento che come lo ha definito lo stesso regista, è una sorta di ibrido fra teatro e video dove lo spettatore si trova come davanti a un set televisivo. Una soluzione che ha accompagnato la riapertura parziale delle sale trasformando in spettacolo ciò che doveva essere destinato a uno streaming. Zohner aggiunge così un secondo tassello alla creazione virtuale dello scorso anno durante il primo confinamento. Protagoniste sono pagine dei diari e delle lettere di due giovani fratelli, Brigitta e Felix, parenti della madre del regista. I due sono vittime innocenti della tragedia nazista nel desiderio di trovare una loro identità. Li seguiamo in un’efficace ricostruzione su due piani di ascolto: l’interrogatorio di un ufficiale alleato (Edoardo Groppler) a un’esponente della Lega delle Ragazze Tedesche (Patrizia Barbuiani) e scene tratte dai diari dei due ragazzi Luca Massaroli (Felix) e Alessandra Francolini (Brigitta).

Scultura moderna di Tacito (55-120 d.C.) davanti al parlamento di Vienna. (Wikipedia)

Cantone; o il passaggio dalla zona rossa a quella arancione o da questa a quella gialla nelle diverse regioni d’Italia. Il riferimento al respiro come metafora della libertà è facilitato dalle difficoltà respiratorie causate dal prolungato uso della mascherina, per tacere di quelle, ben più gravi, con cui nella maggior

parte dei casi si manifesta l’insorgere della malattia da Covid-19. Non rimane che da augurarsi che la pratica del respirare liberamente dalle diverse forme di oppressione (politica, razziale, pandemica) conosca nei tempi a venire una sempre maggiore diffusione.

Luca Massaroli e Alessandra Francolini in una scena di Totentanz-I diari.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 maggio 2021 • N. 19

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Cultura e Spettacoli

Il «macabro» 2021 di Alice

Anniversari Dietro una maschera cadaverica, Vincent Furnier, che ha posato per Dalì in un progetto di ologramma

negli anni ’70, quest’anno festeggia i 50 anni di due dei suoi dischi e l’uscita di Detroit Stories Enza Di Santo Ricordate l’Alice di Carroll che nel film della Disney cantava tra i gigli e le rose? Bene, dimenticatela. Il 2021 è l’anno di un altro tipo di Alice, che assomiglia al Cappellaio Matto nel Paese dell’orrore. Scioccante e incredibilmente scenografico, Alice Cooper, abbattutosi sul panorama musicale come un cataclisma alla fine degli anni Sessanta, è stato scelto da Virgin Radio quale Rock Ambassador di quest’anno perché simboleggia la sincera e carnale vocazione all’hard rock. Il 26 febbraio è uscito Detroit Stories, ultimo disco (per ora) del «pioniere dello shock rock» che per primo ha portato la teatralità, una punta di metal e un nuovo filone narrativo nell’hard rock. Il racconto dell’orrore accomuna gran parte dei suoi brani e non ha mancato di far discutere per i temi splatter di tortura, sangue e morte, per le comparse grottesche e per gli elementi scenografici dei suoi spettacoli. Ghigliottine, bambole con la testa mozzata, sexy infermiere e spose-cadevere, pitoni, galline e addirittura una foca, hanno trasformato i suoi concerti in un tetro Luna park, in cui Alice Cooper è una sorta di mago da incubo. Macabro? Sì e no, in fondo racconti e film dell’orrore ci deliziano da sempre, perché non traslarli in musica? Prima di Marilyn Manson, dei Kiss e dei tanti personaggi di David Bowie, Vincent Damon Furnier, nato a Detroit in Michigan nel 1948, con la sua band, si

Alice Cooper in un’immagine del 2020. (Shutterstock)

è truccato come un cadavere, ha adottato un look tutto suo e ha inventato un personaggio cattivo. Ispirato al freak di Frank Zappa e ai film Che fine ha fatto Baby Jane e Barbarella, con la sua arte ha suscitato stupore e sgomento. Alice Cooper rappresenta un esercizio di fantasia notevole perché, al netto degli eccessi alcolici superati nel 1983, Vincent-Alice è un settantreenne come tanti che si dedica alla famiglia, agli amici e al golf (pare sia un ottimo golfista), ma che non ha nessuna intenzione di smettere di suonare il rock ’n’ roll. Questo è l’anno in cui si celebrano

i suoi dischi, non solo per la pubblicazione di Detroit Stories, 27esimo album che senza pretesa di esserlo e con una sana dose di autoironia, è una bomba sotto il profilo artistico-strumentale e un omaggio alla città culla del vero hard rock nudo e crudo, ma anche per l’anniversario, il 50esimo, di altri due album che hanno consacrato la band alla storia del rock. Love It To Death, uscito l’8 marzo del 1971, dopo due fallimenti di cui non tenere memoria, porta velocemente gli Alice Cooper – allora nome della band – al disco d’oro. I’m Eighteen è il

singolo in cima alle classifiche, ma le performance sono troppo scioccanti: in Inghilterra rischiano di essere banditi per la decapitazione delle bambole sul palco, in USA sono contestati da alcuni gruppi puritani. Gli Alice Cooper scandalosi e «fuorilegge», il 27 novembre di quello stesso anno, rispondono con la pubblicazione di Killer, un assoluto capolavoro da 10 che apre la strada ad altri due graffianti dischi, School’s Out (1972) e Billion Dollar Babies (1973). Killer, nonostante abbia mezzo secolo, è ancora come carta vetrata: alcuni brani sono abrasivi e

lasciano intuire quale direzione prenderà la sonorità della band, altri più soft ne salvano lo stile primordiale ancora influenzato dal pop-psichedelico. Ma la storia devia il suo percorso, il disco successivo è un buco nell’acqua e Vincent abbandona il gruppo per la carriera solista attribuendo legalmente al suo alter ego il nome Alice Cooper. Tra il ’75 e il ’76 cavalca il successo con Welcome To My Nightmare e Alice Cooper Goes To Hell!, un titolo quasi profetico, perché cederà all’alcolismo che lo trascinerà dentro e fuori dagli istituti di disintossicazione fino all’inizio degli anni Ottanta. Intanto, la scena è cambiata e i suoi tentativi di tornare alla ribalta passano in sordina fino a Constrictor (1986) e Trash (1989) che insieme alla partecipazione a film horror e B movies, come attore e come compositore di colonne sonore, gli permettono di diventare un personaggio cult per gli amati dell’horror. Una carriera tra alti, bassi e altissimi, premiata – band originale inclusa – con il riconoscimento nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2011. Uno spirito inarrestabile, tanto da portarlo a fondare un’altra band, gli Hollywood Vampires e una produzione incredibile che trova il suo fulcro nello shock rock per poi snodarsi verso infinite possibilità. Alice Cooper, dimostra che l’hard rock non è morto, ma che ha recuperato il suo posto di nicchia. Ci vuole una certa attitudine ribelle per varcare la soglia della casa dello shock. Annuncio pubblicitario

Cinema d’essai, si riparte Rassegne In giro per il mondo

con un cinema diverso

Giovanni Medolago Dopo le sia pur timide aperture si potrebbe tornare al cinema. Non tutte le sale tuttavia hanno rialzato le saracinesche: mancano i film, dicono parecchi gestori. «Non è vero», ribatte giustamente Michele Dell’Ambrogio, «mancano i mainstream – leggi Hollywood – non mancano certo i film!», come prova il cartellone della rassegna Cinema dal mondo, dove troviamo ben 14 pellicole provenienti da Africa, Asia e America latina. Quasi tutte inedite al sud delle Alpi e coraggiosamente proposte in vers. or. con sottotitoli dai benemeriti Cineclub della Svizzera italiana. Quello del Mendrisiotto fa notare che, con tutte le misure anticovid e un numero di spettatori fissato a 50 presenze, «tornando al cinema non si corre nessun pericolo di contaminazione, se non quello delle idee»! E delle emozioni, possiamo ben aggiungere, offerte da questo virtuale giro del mondo. «Dal Marocco al Messico, dalla Georgia al Guatemala – scrive ancora Dell’Ambrogio – si potrà immergersi nelle situazioni e nei problemi di Paesi che l’informazione spesso tralascia o affronta solo di striscio». È il caso del Bhutan, e del villaggio sperduto di Lunana (A Yak In The Classroom), 4000 m d’altitudine, dove giunge un nuovo giovane maestro dopo un viaggio a piedi di otto giorni attraverso paesaggi mozzafiato e dove manco a dirlo lo attende qualche sorpresa. Nell’Iran degli ayatollah ci porta There Is Non Evil, coraggiosamente girato da Mohammad Rasoulof tra una carcerazione e l’altra: col suo amico e collaboratore Jafar Panahi, il regista è

In programma anche A Yak In The Classroom.

infatti già finito più volte sotto accusa per quella che a Teheran considerano propaganda contro il governo islamico. Uno sguardo sulla realtà LGBT a Tblisi & dintorni lo offre And Then We Danced, oggetto di violente proteste alla sua uscita in Georgia poiché ritenuto «offensivo nei confronti della tradizione del Paese». Les hirondelles de Kaboul sono in realtà le donne costrette al burka nero loro imposto nell’Afghanistan dei talebani. Un film d’animazione, tratto dal romanzo omonimo (Mondadori) di Yasmina Khadra, pseudonimo dello scrittore algerino Mohammed Moulessehoul, strenuo accusatore del fanatismo religioso. Manca lo spazio per segnalare gli altri film della rassegna appena iniziata, molti dei quali premiati a Cannes, Venezia o Berlino e scelti «per la loro qualità, per le particolari scelte formali e per la loro ricerca di linguaggi originali». Altre info e programma dettagliato all’indirizzo www.cicibi.ch

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Cultura e Spettacoli

Cunizza, Matelda e le altre

Editoria Un saggio postumo di Marco Santagata, sulle donne

e sulla vita quotidiana ai tempi di Dante Stefano Vassere Le donne di Dante, libro postumo («licenziate le ultime bozze dall’autore», come dice accorata nota finale) di Marco Santagata, porta sulla sovraccoperta il viso preoccupato e contornato di boccoli rossi di Pia de’ Tolomei. Un’immagine che ne annuncia molte altre all’interno del volume e che rimanda alla quarta di copertina i particolari delle mani intrecciate e dell’anello nella sognante interpretazione di Dante Gabriel Rossetti della seconda metà dell’Ottocento. Le donne di Dante di cui si racconta sono quelle della famiglia «nucleare» e di quella acquisita, di quelle allargate, delle famiglie con cui sarà imparentato, le donne vere e presunte delle sue opere. Di molte e della loro esistenza, anche di quella di Beatrice Portinari, possiamo dire ben poco, poco più del loro nome; «la stessa tragica vicenda di Pia de’ Tolomei deve essere integralmente immaginata dai lettori». E quindi a proposito di molti dei destini raccontati, soprattutto quelli che interessano il Dante poeta piuttosto che il Dante personaggio (ancora Santagata distingue un terzo Dante uomo), il metodo di questo libro presuppone che in mancanza della testimonianza documentaria ci si debba rivolgere alle opere letterarie. Cosa che al giorno d’oggi sarebbe del tutto inconcepibile, proscritta come è da gran parte della tradizione di indagine critica degli ultimi decenni: mai stabilire un legame tra un’opera letteraria e la vita del suo autore! Come tuonano le avanguardie da parecchio tempo a questa parte. Certo è che nella serie alcune figure risultano più incandescenti delle altre; per loro caratteristiche ma anche per il mistero che le vuole appunto note per accenni. Potendo scegliere, certamente Cunizza da Romano e il round veneto della sua profezia; e Matelda, «la bella donna apparsa cantando e raccogliendo fiori, una sorta di “ufficiale” addetto al Paradiso» e al protocollo dell’Eden. E poi la figura tenera ed emozionante di Giovanna, di cui il padre nel canto VIII del Purgatorio loderà l’assoluta purezza,

Un festival per Rifkin Cinema Nel nuovo film di Woody Allen

si ride molto, ma non mancano gli spunti di riflessione Nicola Falcinella Mort Rifkin è un settantenne intellettuale newyorchese alla ricerca di un senso delle cose e infastidito dal mondo che lo circonda. Insomma, è l’ennesimo alter ego di Woody Allen, nonché il protagonista della sua quarantanovesima regia cinematografica.

A causa delle controversie che circondano Allen, difficilmente il film uscirà negli USA La copertina del libro di Santagata.

che la abilita a invocare la misericordia: «quando sarai di là da le larghe onde, / dì a Giovanna mia che per me chiami / là dove a li ’nnocenti si risponde». Del rapporto con Beatrice Portinari, incuriosiscono un avvicinamento che si direbbe geometricamente mediato e l’intento di Dante di salvaguardarne l’onore schermandola o fingendo di indirizzare altrove la sua attenzione. In una chiesa durante una funzione, la linea di sguardo tra i due è interrotta da un’altra donna, «una bella e sconosciuta» che ricambia il sorriso credendosene la vera beneficiata. Le donne «schermo della veritade» saranno parecchie; a loro il Poeta dedicherà versi pieni di passione, rivolti, nel velo delle simulazioni, alla destinataria ultima della sua grazia. E in un sonetto d’occasione l’incedere di Vanna «Primavera», amata da Guido Cavalcanti, ancora una volta precede concretamente quello di Beatrice. In più passi, questo libro ha occasioni per rivelare un paese complesso e pieno di sorprese. È un testo sul che cosa conosciamo della letteratura e dello stare al mondo nell’Italia medievale

e soprattutto su come ne siamo venuti a conoscenza. Rapporti famigliari, matrimonio, amore, adulteri, casistiche e situazioni del quotidiano. Ma anche ricchezza e povertà, delitto, guerra, malattia, morte, famiglia, figli, infanzia. L’istituto del matrimonio è all’epoca un patto patrimoniale tra persone nel quale «l’amore non era il fondamento del loro legame». Ambizioni e aspirazioni, inquadrate in schemi sociali rigidi, non sono negoziabili se non appunto attraverso la contrattistica coniugale. Una codificazione stretta della composizione letteraria prevede l’esclusione di taluni temi come l’esperienza personale diretta di chi racconta e l’infanzia propria o altrui. Su tutto ciò, quel metro umanamente obliquo che costringe spesso il Poeta e i suoi contemporanei a parlare delle cose della vita per mediazioni e scarti. E a raccontare la propria amata facendo finta di voler bene a qualcun altro.

Rifkin’s Festival è arrivato ora nelle sale cinematografiche italiane, dopo essere stato in quelle spagnole in autunno, ma difficilmente avrà un’uscita in quelle americane. La recente serie tv Allen v. Farrow ha rinfocolato le vecchie accuse, mai provate, di abusi sessuali sulla figlia adottiva Dylan, che han fatto del comico il bersaglio di sempre più accanite critiche e boicottaggi in patria. L’Europa, amata dal regista ottantacin-

Bibliografia

Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, il Mulino 2021.

La locandina del film.

quenne quasi quanto la sua New York, lo accoglie ancora una volta: la pellicola è una produzione spagnola-italiana ed è ambientata a San Sebastian. Il protagonista accompagna la moglie Sue al festival di cinema nella città basca, dove dovrà occuparsi della promozione dell’ultimo film del pretenzioso regista francese Philippe (un autoironico Louis Garrell). Rifkin (Wallace Shawn, che ha più volte lavorato con Allen fin da Manhattan) sospetta una relazione tra la più giovane e appariscente compagna e l’uomo, tanto convinto da annunciare alla stampa un prossimo film in cui fornirà idee per la soluzione dei conflitti tra Israele e Stati arabi. Mentre Sue (Gina Gershon) è impegnata, Mort scopre la città e un malessere lo conduce nello studio dell’affascinante dottoressa Jo, con la quale scopre di avere parecchio in comune. Allen intesse un altro dei suo quartetti, con coppie che si scambiano e fascinazione e amore che diventano antidoti alla rassegnazione e all’insensatezza delle cose. La vacanza risveglia nello scorbutico e ritroso Rifkin (Philippe lo chiama «il Grinch») un inconscio fatto di film europei degli anni ’60, che si trasformano in sogni in bianco e nero ottimamente fotografati da Vittorio Storaro e ispirati a Fellini (Otto e mezzo), Truffaut (Jules e Jim), Bergman (Persona e Il settimo sigillo, con tanto di apparizione di Christoph Waltz a impersonare la morte), Gordard (Fino all’ultimo respiro), Lelouch (Un uomo e una donna), Buñuel (L’angelo sterminatore) oltre agli omaggi a Quarto potere di Orson Welles. Tutte vere e proprie dichiarazioni d’amore di Allen ai suoi maestri e altrettante critiche al mondo di oggi. Il regista newyorchese è disilluso, ma meno pessimista che in altri lavori: forse la vita non ha senso, sostiene, ma non è vuota, o almeno ci sono tanti modi per riempirla. Forse ci sono situazioni già viste o cali di ritmo, ma si ride in questo Rifkin’s Festival, soprattutto nella prima parte, e non mancano spunti di riflessione. Annuncio pubblicitario

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Jack Link’s Beef Jerky Original e Teriyaki, per es. Original, Brasile, 70 g, in self-service

Tartare di manzo prodotta in filiale con carne Svizzera, per 100 g, in self-service

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Bresaola Casa Walser Italia, per 100 g, in self-service

Migros Ticino

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05.05.2021 16:08:57


Pesce e frutti di mare Ideale da abbinare agli asparagi

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Entrecôte di manzo

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Paraguay/Uruguay, per 100 g, in self-service

Salmone affumicato, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 280 g

Arrosto collo di vitello arrotolato TerraSuisse per 100 g, in self-service

maiale i d e n i t t Fe s pe z i a t e e e s o c c u s i impast o ripie ne d ar ne di c

30% Filetti di salmone senza pelle ASC

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Fettine di tacchino «La Belle Escalope» Francia, per 100 g, in self-service

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d'allevamento, Norvegia, per es. M-Classic, per 100 g, 3.35 invece di 4.80, in vendita in self-service e al bancone

Spiedini di maiale Grill mi, TerraSuisse per 100 g, in self-service

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Prosciutto crudo Serrano Gusto del Sol M-Classic, affettato Spagna, per 100 g, in self-service

Migros Ticino

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Gamberetti tail-on Pelican cotti, ASC surgelati, in conf. speciale, 750 g

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05.05.2021 16:09:09


Formaggi e latticini

Una delizia fondente

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Emmentaler dolce per 100 g, confezionato

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LO SAPEVI? La raclette riesce anche senza forno per raclette. Con un tegamino realizzato appositamente per il grill, il formaggio può essere fuso anche sulla griglia.

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Raccard Nature a fette con tegamino grill, ca. 400 g, per 100 g, prodotto confezionato

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Tutti i tipi di crème fraîche

prodotto in Ticino, per 100 g, confezionato

per es. panna acidula al naturale Valflora, 200 g, 2.20 invece di 2.60

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Fontal Italiano per 100 g, confezionato

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Mini Babybel retina da 18 x 22 g

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Migros Ticino

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05.05.2021 16:08:57


Pane e prodotti da forno

Bontà fino all’ultima briciola

20% 1.60 invece di 2.–

ana: m i t t e s e lla d e li e n a a e p r e o c r t i s I l no t e c o n no t e d e a l l u n g o c r occ an uilibrat o g razi past o eq im ' l o l t s e u d g o s n u r i po i d o p m te Formaggella ticinese 1/4 grassa prodotta in Ticino, per 100 g, confezionata

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Yogurt pesca e frutto della passione M-Classic 1 kg

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Twister alla spelta cotto su pietra TerraSuisse 400 g, confezionato

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Skyr M-Classic mirtillo o pesca, per es. mirtillo, 150 g

Migros Ticino

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Scorta

Grande scelta, piccoli prezzi Con ripieno di pomod ori e mozzare lla

20% Tutte le salse per insalata già pronte non refrigerate e i crostini per insalata

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per es. Italian Dressing M-Classic, 700 ml, 2.45 invece di 3.10

20% Tutti i tipi di riso M-Classic da 1 kg per es. risotto S. Andrea, 1.80 invece di 2.20

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Gnocchi alla caprese o fiori al limone e formaggio fresco Anna's Best in confezioni multiple, per es. gnocchi, 2 x 400 g, 7.90 invece di 9.90

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Miele in vasetto da 550 g o in flacone squeezer da 500 g Gnòcch da patati

per es. miele di fiori cremoso in vasetto, 550 g, 5.– invece di 5.60

prodotti in Ticino, 500 g

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Snack Anna's Best Oriental Falafel Mix o Dim Sum, per es. falafel, 2 x 200 g, 8.90 invece di 11.90

Cot tura nel for no a pie tra

1.–

Barrette di cereali Farmer

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Tutto l’assortimento di spezie Le Chef

disponibili in diverse varietà, per es. Soft Mora & Mela, 2 x 234 g, 6.85 invece di 8.60

(stick esclusi), per es. quartetto di pepe, 56 g, 4.30 invece di 5.30

Gi à c o e s g u sc t t e iat e

20x PUNTI

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20% 11.50

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Pizza Casa Giuliana surgelata, alla mozzarella, al prosciutto o alla diavola, per es. alla mozzarella, 3 x 350 g

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Tortine al formaggio M-Classic surgelate, 2 x 12 pezzi, 2 x 840 g

7.20

Castagne bio Sun Queen cotte 400 g

Migros Ticino

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Bevande c onf. da 6 in a

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20% Purea di mele M-Classic non zuccherata o zuccherata, per es. non zuccherata, 4 x 420 g, 5.75 invece di 7.20

ne con Fre sc o di infusio matiche de liziose e rbe aro conf. da 6

40% Pepsi, 7Up e Orangina 6 x 1,5 l, disponibile in diverse varietà, per es. Pepsi Max, 6.60 invece di 11.–

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33% Caffè Caruso Oro, in chicchi o macinato, UTZ per es. in chicchi, 3 x 500 g, 16.65 invece di 24.90

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28% Vittel 6 x 1,5 l

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Fleischkäse Malbuner disponibile in diverse varietà, per es. Delicatezza, 6 x 115 g

Migros Ticino

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Tutte le bevande Migros Bio non refrigerate (prodotti Alnatura, Alnavit, Biotta e Aproz esclusi), per es. Ice Tea alle erbe alpine svizzere, 1 l, 1.– invece di 1.45

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Sanbittèr San Pellegrino 10 x 100 ml

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Crodino 10 x 100 ml

invece di 9.–

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05.05.2021 16:09:41


Dolce e salato

Benvenuti nell’angolo dello spuntino

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Biscotti rotondi Chocky al cioccolato o al latte, per es. al cioccolato, 3 x 250 g

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Tutto l'assortimento di biscotti Créa d'Or per es. Bretzeli, 100 g, 1.95 invece di 2.55

Bastoncini alle nocciole, fagottini alle pere e fagottini al farro e alle pere bio per es. fagottini alle pere, 3 pezzi, 225 g, 2.30 invece di 2.90, confezionati

20% Tutte le miscele per dolci Homemade, tutti i Cup Lovers e tutti i dessert in polvere (prodotti Alnatura esclusi), per es. brownies Homemade, 490 g, 4.85 invece di 6.10

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Ragusa for Friends Classique, Blond o Noir, per es. Classique, 2 x 132 g

Migros Ticino

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05.05.2021 16:09:22


C o n pe z z e t t i di c arame l lo

20% Tutto l'assortimento Ben & Jerry's prodotti surgelati, per es. Cookie Dough, 100 ml, 2.80 invece di 3.50

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Novità

Cornetti Fun alla vaniglia e alla fragola surgelati, in conf. speciale, 16 x 145 ml

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20% Tutte le tavolette Frey Suprême per es. Bouquet d'Oranges, 100 g, 2.– invece di 2.45

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MegaStar Artisan Maple Walnut prodotto surgelato, 95 ml

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2.95

MegaStar Artisan Salted Caramel prodotto surgelato, 95 ml

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20% Barrette alle noci Knoppers

Flips M-Classic, Jumpy's o Triangles alla paprica

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per es. Flips M-Classic, 2 x 200 g, 1.60 invece di 2.–

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Bellezza e cura del corpo

Tempo di Beauty Days

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25% Tutto l'assortimento per la manicure, la pedicure nonché per la cura del corpo e delle mani. (prodotti M-Classic, Bellena, per la doccia, deodoranti, saponi, protezioni solari, confezioni da viaggio e confezioni multiple esclusi), per es. Body Lotion Aloe Vera Nivea Natural Balance , 350 ml, 5.65 invece di 7.50

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33% Lozione per il corpo Nivea Repair & Care o Q10+, per es. Repair & Care, 2 x 400 ml, 8.– invece di 12.–

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latte per il corpo Nivea 2 x 400 ml

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Crema idratante rinfrescante Nivea Soft 2 x 200 ml

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Deodoranti spray Nivea

Deodorante Active Energy Nivea Men

Limited Edition, Floral Paradise, Ocean Feeling o Exotic Dream, per es. Ocean Feeling, 150 ml

spray o roll-on, per es. spray, 150 ml, 3.05

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Deodorante roll-on Nivea o Nivea Men Magnesium Dry per es. deodorante roll-on Nivea, 50 ml

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Crema per le mani Neutrogena ad assorbimento rapido 2 x 75 ml

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Crema per le mani Le Petit Marseillais Nutrition 2 x 75 ml

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Novità

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Crema per le mani Garnier Repair

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Balsamo per mani e unghie I am

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Gel doccia Le Petit Marseillais bio oliva, rosa selvatica o mirtillo, per es. oliva, 250 ml

Wilkinson Intuition Complete rasoio o lame di ricambio, per es. rasoio, il pezzo, 9.95

Le g no di e ro izz fag g io svt o F S C c e r t ific a

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Lozione per il corpo idratante I am 2 x 400 ml

Candida Eco, FSC spazzolini da denti, filo interdentale o scovolini interdentali, per es. spazzolino da denti per adulti blu, 2 pezzi, 3.95, in vendita nelle maggiori filiali

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Prodotti per l'igiene orale Meridol

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Hair Vitamin Gummies Health-iX alla fragola 120 g

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Best Age Men Actilife 30 capsule

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Varie

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Carta igienica Soft, FSC Comfort Recycling o Deluxe Ultra, in confezioni speciali, per es. Comfort Recycling, 30 rotoli, 10.75 invece di 15.50

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Kleenex sicurezza quotidiana salviettine cosmetiche e fazzoletti, per es. salviettine cosmetiche, scatola da 140 pezzi, 3.75

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per es. sacchetti multiuso n. 13, 2 litri, 2 x 100 pezzi, 2.– invece di 2.50

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Sacchetti multiuso o da annodare Tangan

Hit Cleverbag Herkules 35 l, 5 x 20 pezzi

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Contenitori KIS con coperchio, 6 litri

Tutto l'assortimento di capi d'abbigliamento, costumi da bagno e accessori per es. giacca di jeans da donna Ellen Amber, blu, tg. M, il pezzo, 29.90 invece di 49.90

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Fiori e giardino

Per concludere in bellezza

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Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in confezione di ricarica, 1,5 l, 3.25 invece di 6.50

Accorciare i gambi di circa 5 cm con un coltello appuntito. Riempire un vaso di fiori con acqua tiepida e mettere le peonie nel vaso.

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Tutto l’assortimento di occhiali da sole e da lettura

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per es. occhiali da sole da donna Central Square, il pezzo, 27.95 invece di 39.95

t iv o la Piumino e s

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Bouquet Surprise Maxi M-Classic il mazzo

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Peonie mazzo da 5, disponibili in diversi colori, per es. rosa, il mazzo

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Erbe aromatiche bio vaso, Ø 13-14 cm, per es. basilico, il vaso

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Manghi Perù/Costa d’Avorio, il pezzo, offerta valida dal 13.5 al 16.5.2021

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Tutte le corone di pane

Bratwurst dell'Olma di San Gallo, IGP Svizzera, 3 x 2 pezzi, 960 g, offerta valida dal 13.5 al 16.5.2021

per es. corona croccante TerraSuisse, 300 g, 1.60 invece di 2.–, prodotto confezionato

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Formaggio da grigliare al naturale High Protein Oh!

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Spiedi per grill BBQ Hot & Cheesy M-Classic 3 pezzi, 180 g

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Pomodori triturati Longobardi 6 x 280 g, offerta valida dal 13.5. al 16.5.2021

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide solo dall’11.5 al 17.5.2021, fino a esaurimento dello stock.

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