Azione 20 del 17 maggio 2021

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Urrà, prezzi in caduta libera! Per festeggiare la stagione delle grigliate: tanti prodotti a prezzi ribassati in modo permanente.


Goditi le grigliate spendendo meno. s si a b i r ù i p A nc ora z i: z e r p i e d i t pe rmane n c h/pre zzimi g r o s . - l i b e r a i n - c a d u t a z z a q ui o s c a n ne r i Ribasso permanente

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Flûtes al sesamo Party 140 g

Ribasso permanente Quinoa bianca Alnatura 500 g

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Senape forte M-Classic 200 g


Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Digital Seniors: lo studio voluto da Pro Senectute indaga l’evoluzione della digitalizzazione delle persone over 65 in Svizzera

Ambiente e Benessere La città in dialogo con la natura, ne parliamo con Sophie Ambroise e Nicola Schoenenberger

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 17 maggio 2021

Azione 20 Politica e Economia Cosa accomuna il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping?

Cultura e Spettacoli Una passeggiata fra le gallerie d’arte di Lugano che riprendono vita dopo mesi di chiusura

pagina 23

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Questione palestinese: Le storie dimenticate una nuova dimensione del Lago d’Orbello di Romano Venziani

di Peter Schiesser

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Invito ai soci per la votazione 2021 Gentile cooperatrice, egregio cooperatore, riceve in questi giorni il materiale di voto per la

votazione generale 2021 relativa all’esercizio 2020 della Cooperativa Migros Ticino, con l’invito a rispondere alle seguenti domande: 1. Approva i conti annuali 2020, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio? 2. Approva la revisione dello Statuto della Cooperativa Migros Ticino? Su questo numero di Azione (pagine 18 e 19) sono pubblicati il rapporto annuo 2020, la relazione dell’Ufficio di revisione, la proposta del Consiglio di amministrazione per l’utilizzo dell’utile di bilancio, così come la relazione annuale della Cooperativa. Questi documenti sono pure a

disposizione dei soci presso la sede di Sant’Antonino. La votazione si svolge secondo le disposizioni dello Statuto e del Regolamento per votazioni, elezioni e iniziative. Questi documenti, unitamente al rapporto annuo, possono essere consultati presso le nostre filiali, presentando la quota di partecipazione o la tessera di socio. Su www.migrosticino.ch sono disponibili i documenti sopra indicati e numerose altre informazioni sulla Cooperativa e sulle sue attività nel 2020. Tutti gli aventi diritto di voto, in base al registro dei soci, ricevono per posta al più tardi dieci giorni prima della scadenza della votazione la scheda di voto unitamente alla proposta dettagliata di revisione parziale dello Statuto. Eventuali reclami concernenti schede di voto non ricevute o inesatte sono da indirizzare all’Ufficio elettorale di Migros Ticino, 6592 Sant’Antonino, al più presto sei giorni lavorativi e al più tardi tre giorni lavorativi prima dello scrutinio. Secondo l’art. 30 dello Statuto, il Consiglio di

Romano Venziani

È la scintilla che farà scoccare il grande incendio? Di certo ci sono elementi nuovi nel conflitto che oppone palestinesi ed ebrei, riemerso in seguito alle proteste contro il previsto sfollamento di un certo numero di famiglie palestinesi da Sheik Jarrah, un sobborgo settentrionale di Gerusalemme, e ai tafferugli tra forze dell’ordine israeliane e giovani palestinesi sulla Spianata delle Moschee, sempre a Gerusalemme. Il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza da parte di Hamas e altri gruppi armati stupisce ma non troppo, è un elemento ricorrente quando la tensione si alza oltre il limite (e può essere conseguenza di calcoli politici, vedi Raineri a pag. 33), per quanto la cifra di 1600 missili nei primi tre giorni, di cui il 10 per cento non è stato intercettato dal sistema anti-missili israeliano, ci fa capire non solo che Hamas ha ricostituito il suo arsenale dopo la guerra del 2014, ma che ha incrementato la potenza di fuoco (nel 2014 in oltre 50 giorni ne vennero sparati 4500). L’elemento però più preoccupante è che in una ventina di località israeliane vi siano stati scontri fra civili estremisti arabi e israeliani, con incendi e devastazioni. E non cessano. Significa che il livello di frustrazione e di conflittualità interno allo Stato israeliano (gli arabi sono il 20 per cento della popolazione) è tale da poter sconfinare in rivolta e anarchia. Da anni molti leader israeliani mettono in guardia che l’irrisolto conflitto israelo-palestinese potrebbe alla fine portare a combattimenti all’interno dello Stato ebraico, e questo è quanto sta capitando adesso, quello che macerava sotto la superficie ora sta esplodendo, è una situazione completamente nuova, ha detto Tzipi Livni, ex ministro degli esteri israeliano citata dal «New York Times». In sostanza, secondo questa lettura la politica del premier Netanyahu (che ha continuato ad incoraggiare la costruzione di insediamenti ebraici illegali in territorio palestinese) unita alla strategia dell’ex presidente americano Trump di isolare i palestinesi favorendo la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele e alcuni paesi arabi, non solo è fallita ma ha pure esacerbato la situazione. Dalla comunità internazionale sono giunti appelli a ridurre la tensione, anche da parte statunitense, forse nella speranza che questo scoppio di violenza si estingua presto, come altre volte in passato. Ma l’impotenza è generale. Israele ha ammassato truppe e carri armati al confine con Gaza e minaccia un’invasione, e nessuno potrebbe fermare il suo esercito. Come nessuno ha davvero una ricetta, un’idea su come far ripartire dei veri negoziati di pace fra israeliani e palestinesi, fermi ormai dai tempi di Obama. Non ci sono leader riconosciuti in Israele che abbiano la forza per porre di nuovo al centro del dibattito la questione palestinese, mentre in questi anni Netanyahu ha preferito soffocare e rimuovere il problema. I paesi arabi possono anche essere meno ostili verso Israele, ufficialmente o nei fatti, per cui Israele non percepisce una diretta minaccia esterna, ma l’estensione di rivolte spontanee e di scontri fra civili arabi ed ebrei mostra in questo momento che per lo Stato ebraico il nuovo pericolo generato dall’annoso conflitto con i palestinesi è una destabilizzazione interna.

amministrazione ha nominato un Ufficio elettorale che sorveglia lo svolgimento della votazione e che si compone delle seguenti persone: Avv. Filippo Gianoni (presidente), Myrto Fedeli (vicepresidente), Edy Barri, Roberto Bozzini e Pasquale Branca (membri). Vogliate compilare al più presto la scheda di voto: ricordiamo che si può votare per corrispondenza al più tardi entro SABATO 5 GIUGNO 2021 (data del timbro postale). Con la vostra partecipazione non solo fate uso del vostro diritto, ma esprimete anche l’apprezzamento per l’impegno dei collaboratori di Migros Ticino. Vi ringraziamo in anticipo. Sant’Antonino, 17 maggio 2021 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Attualità Migros

Quest’estate salta con noi Corsi Una Summer School piena di vita, alla Scuola Club di Migros Ticino

Il tempo del Covid che ancora stiamo attraversando ha lasciato il segno di una fatica diffusa, nel corpo e nella mente. Quello passato ci è parso un anno infinito, che ha richiesto moltissimo a ciascuno di noi. Costretti dentro a panorami di piccolo raggio – noi abituati ad avere il mondo nelle mani – abbiamo seguito percorsi obbligati, tra home office e vita online. Finalmente, dopo mesi di incertezze, l’approssimarsi della bella stagione e l’avvio del piano vaccinale riaprono positivamente i giochi, con piccoli ma significativi passi verso quella che molti hanno già ridefinito una nuova «normalità». Il barometro incomincia a segnare un tempo nuovo, più aperto e fiducioso. Grande è la voglia di uscire dalle cornici di questa pandemia e liberare le energie per troppo tempo compresse. È questo l’invito della nuova Summer School 2021 della Scuola Club di Migros Ticino. Eccezionalmente, per

Scelti per voi Corsi power

Italiano/ Tedesco / Inglese 40 ore-lezione Fr. 690.–

Web marketing design con certificato

40 ore-lezione Fr. 690.–

Studio pilates max 4 persone

Reformer & Cadillac 10 ore-lezione Fr. 350.– Le basi della cucina

In pochi incontri, menu appetitosi ed equilibrati 9 ore-lezione Fr. 225.– Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60 www.scuola-club.ch

ben tre mesi di attività – da giugno a fine agosto – le quattro sedi saranno trampolini di lancio per tanti nuovi salti in avanti per incominciare a riprendersi un po’ la vita. Salta in forma

Lo stop a molte attività fisiche e le non sempre felici abitudini posturali acquisite nell’home working rendono oggi prioritario rimettere al centro il nostro benessere psico-fisico. È tempo di recuperare la forma e l’equilibrio, per ritrovare un corpo nuovamente forte ed armonico attraverso l’esercizio, il potenziamento, oppure il contatto offerto dal massaggio. Salta con stile

La vita più casalinga di questo ultimo anno ha consentito a molti di riscoprire la bellezza di lavorare con le mani e realizzare da sé qualcosa di bello o di utile. Altri hanno cercato nuove vie di espressione per raccontarsi in modo originale, attraverso l’arte e la musica. Perché non sfruttare l’estate per compiere un nuovo balzo in avanti in creatività e potenziare quelle passioni che ci hanno fatto scoprire parti di noi ancora inesplorate? Nuovamente sarà possibile condividere in gruppo i nostri talenti: il divertimento è assicurato! Salta verso la tua meta

A coloro che vogliono raggiungere velocemente i propri obiettivi, la Summer School propone percorsi intensivi nello studio delle lingue straniere, competenze sempre più centrali in un mondo interconnesso. Sarà anche l’occasione per tuffarsi totalmente in altre storie e culture per gustarle a piene mani. Siete pronti a pianificare nuovi viaggi e nuove avventure? Salta in alto con i certificati

Alla nuova Summer School non mancheranno le occasioni per spiccare un balzo verso l’alto anche in senso professionale. Sarà possibile conquistare in tempi concentrati certificazioni distintive nel mondo del lavoro, dalla formazione per i formatori al business e all’informatica.

Dinamismo, anche nella formazione. Salta in lungo e riparti con ritmo

Numerosi sono i segnali dell’impatto del Covid sulla vita scolastica di molti studenti. I ragazzi dalla II media alla IV liceo potranno compiere con i corsi di recupero e potenziamento scolastico salti in avanti nelle materie principali, con un programma di miglioramento

studiato appositamente per consentire la frequenza a più corsi. Salta nella voglia di creare

Anche i più piccoli avranno nuove opportunità per saltare in piena libertà, grazie ai nuovi Atelier dei Piccoli Artisti dedicati a chi frequenta le scuole elementari. In programma ci sono

tre settimane di full immersion nella creatività, per esplorare insieme a professionisti del settore il mondo della pasticceria, della danza, della sartoria, della pittura, della musica insieme a tanti nuovi amici. È tempo di balzare fuori dal quadro e dare inizio a cose nuove. Quest’estate salta con noi!

Migros definisce nuovi standard nell’agricoltura Sostenibilità L’azienda introduce nuove procedure e regole per garantire la qualità dei prodotti Attualmente il tema dei fitosanitari è molto controverso. Parole chiave: moria di api, perdita di biodiversità, danni per la salute, qualità della falda acquifera. Migros desidera pertanto affrontare la problematica in modo proattivo. Il nuovo programma di sostenibilità per la coltivazione convenzionale della frutta con nocciolo persegue gli obiettivi illustrati di seguito. Riduzione dell’impiego di fitosanitari

Incremento attivo della biodiversità nei frutteti

Può avvenire ricorrendo a ripari per nidificare, fiori tra i filari, cumuli di sassi o altre misure. Miglioramento della qualità del suolo

Misure mirate come l’uso di composto o di pneumatici larghi per i veicoli agricoli che circolano tra i filari favoriscono la vitalità e la fertilità del terreno.

Da una parte saranno vietati certi pesticidi, dall’altra l’impiego dei prodotti sarà più mirato. A tale scopo verranno favoriti metodi alternativi. Ne sono un esempio la copertura delle piante da frutta con apposite reti oppure l’applicazione di metodi per confondere gli insetti e impedire loro di riprodursi.

Il programma funziona come il gioco delle costruzioni. I produttori sono liberi di scegliere le misure più adatte alla loro azienda. In ognuna delle tre categorie sopraccitate è necessario raggiungere un punteggio minimo. Migros ha elaborato il programma in stretta collaborazione con l’Istituto di ricerca dell’agricoltura biologica

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Una coltivazione di mele protetta da reti speciali.

(FiBL) e produttori innovativi. Insieme mirano a imboccare una via più sostenibile per la coltivazione di mele

e pere. «Le attese da parte della politica e dei consumatori nei confronti dei coltivatori di frutta continuano ad au-

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’262 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

mentare. Migros vuole quindi sostenere i produttori nella loro conversione a metodi di coltivazione più sostenibili. Molti di loro avevano già intrapreso azioni per ridurre l’uso dannoso di fitosanitari nell’ambiente. Con il nuovo programma desideriamo dare la possibilità a tutti i coltivatori di compiere questo passo sostenendoli con competenza e aiuti finanziari», spiega Erwin Büsser, responsabile Frutta e verdura della Federazione delle cooperative Migros. Migros paga a tutti i produttori un contributo supplementare di 3 centesimi per chilo di mele e pere. Il programma viene applicato gradatamente dall’inizio dell’anno. La frutta con nocciolo più sostenibile sarà pertanto in vendita nei negozi Migros a partire da settembre. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Società e Territorio Montegreco, tutta l’energia della natura In Val Malvaglia il piccolo nucleo storico è stato completamente recuperato dando poi vita a un più ampio progetto che ha visto nascere un Parco del castagno, un Sentiero celtico e sette postazioni energetiche pagina 9

Conoscere, sapere, rappresentare La divulgazione scientifica è un tema centrale per la società ma non sempre la realtà indagata dagli scienziati si integra con facilità con quella rappresentata nel nostro cervello pagina 11

Figli e nipoti sono stati un supporto durante la pandemia per facilitare l’utilizzo dei mezzi tecnologici di cui gli anziani hanno saputo cogliere gli aspetti positivi. (Shutterstock)

Anziani digitali

Over 65 Uno studio commissionato da Pro Senectute Svizzera rivela che gli utenti di Internet con più di 65 anni

sono raddoppiati in soli 10 anni e chi possiede uno smartphone o un tablet lo usa tutti i giorni

Guido Grilli Scarica, download, posta il messaggio, aggiungi foto. Le scienze della comunicazione rappresentano sempre meno un tabù per la terza età. Gli anziani appaiono sempre più digitali, riducendo lo scarto tra le generazioni, tra chi è online e chi – sempre più una minoranza – rimane offline. A rivelare questo nuovo trend è lo studio, «Digital Seniors», commissionato da Pro Senectute Svizzera al Centro di gerontologia dell’Università di Zurigo per sondare l’evoluzione della digitalizzazione delle persone over 65. L’ultima edizione dell’indagine, che si svolge ogni cinque anni, è stata pubblicata nel 2020 e compendia i dati raccolti durante il 2019, proprio pochi mesi prima dell’insorgere della pandemia. Uno dei dati più sorprendenti rivela che negli ultimi dieci anni il numero degli utenti di Internet tra le persone con più di 65 anni in Svizzera è pressoché raddoppiato, passando dal 38% al 74%. E con l’insorgere del Coronavirus questa evoluzione tra anziani e uso dei mezzi tecnologici e informatici è progredita ulteriormente? Laura Tarchini, classe 1978, nel suo duplice osservatorio, da un canto responsabile di Comunicazione e Marketing di Pro

Senectute Ticino e Moesano – ente che nel 2000 ha raggiunto il traguardo dei 100 anni – e dall’altro, membro del CdA dell’Ente autonomo Istituti sociali Lugano che gestisce le sei case per anziani della città, ci offre una lettura contestualizzata dello studio «Digital Seniors 2020» proprio alla luce della pandemia. «Va detto che gli anziani, in generale, con l’arrivo del virus, hanno dovuto “rimboccarsi un po’ le maniche”, dal momento che come sappiamo non avevano la possibilità di vedere i propri parenti. Quello che è successo è che chi possedeva un cellulare, che prima non aveva l’abitudine di utilizzare, si è dovuto adattare in poco tempo, scoprendo alla fine le opportunità di questi mezzi tecnologici. Si sono adattati ad utilizzare smartphone e tablet e a imparare maggiormente l’uso di applicazioni o il ricorso alle videochiamate per comunicare con i familiari, dai figli ai nipoti. Diversi anziani hanno richiesto aiuti e consigli pratici di informatica e sull’uso dei cellulari ai docenti dei nostri corsi Pro Senectute incentrati sulle attività riguardanti il mondo digitale». Il divario tra le generazioni s’è dunque accorciato? «Si è assistito a un cambio di passo degli anziani, a un agire in modo attivo e proattivo, a un notevole

spirito di adattamento in questa difficile situazione di pandemia, penso soprattutto al primo lockdown. I mezzi tecnologici – telefonini e tablet – sono stati utilizzati anche dagli ospiti più fragili delle case per anziani, grazie all’aiuto del personale curante, ma anche i figli e i nipoti hanno rappresentato un supporto concreto per l’installazione di applicazioni: si sono così potuti mantenere e rinsaldare i contatti telefonici con i familiari, grazie anche fra l’altro agli incontri attraverso il vetro inaugurati dagli Istituto sociali di Lugano. Anche se naturalmente questo non ha sostituto il calore del contatto umano, oggi finalmente possibile grazie alla campagna vaccinale, a nuove riaperture e a ulteriori passi verso il ritorno alla normalità». La pandemia, dunque, ha accelerato il processo di digitalizzazione degli anziani? «Chiaramente questo traguardo riguarda gli anziani autonomi che vivono a casa, oppure gli anziani che frequentano i nostri centri diurni socioassistenziali, capaci di apprendere nozioni tecnologiche, dimostrando di riuscire a superare quella barriera psicologica di paura che potevano avere prima del Coronavirus. La pandemia, in questo senso, ha fatto scoprire loro l’aspetto positivo dei dispositivi tec-

nologici. Le relazioni sociali, grazie ai mezzi informatici, sono migliorate». Lo studio «Digital Seniors 2020» indica tra le conclusioni che esistono ulteriori margini di miglioramento. «Esatto. Lo studio rileva inoltre che chi tra gli anziani possiede uno smarphone o un tablet lo usa tutti i giorni. E questo rappresenta una grande novità rispetto allo studio del 2015». L’indagine mette inoltre in luce che i non-internauti non sono necessariamente ostili a Internet e che si avvicinerebbero anche volentieri a questo mondo ma rimangono in qualche modo bloccati dagli ostacoli propri della tecnologia. «Tant’è vero che i nostri corsi negli anni sono cambiati: se trent’anni fa si lavorava sui programmi Word ed Excel, oggi organizziamo quasi esclusivamente corsi di sole tre lezioni di smartphone e tablet perché agli anziani interessa imparare rapidamente le funzioni essenziali di questi dispositivi: chiamate, messaggistica, foto, ricerca di informazioni su Internet, applicazioni e piattaforme per leggere il giornale, guardare la televisione o ascoltare la radio online. Un punto importante che affrontiamo è l’aspetto della sicurezza per prevenire i rischi della rete, penso in particolare alle truffe online e telefoniche. In questi cicli di formazione si

offrono insomma cose utili per la loro quotidianità, pratiche che corrispondono ai loro specifici interessi, come ad esempio la creazione di gruppi su WhatsApp: questo lo vediamo ad esempio nei nostri corsi di ginnastica, dove su iniziativa della monitrice si promuove una chat comune fra i partecipanti, ciò che rappresenta oltretutto anche una sede per la condivisione di emozioni, relazioni sociali e supporto reciproco». Lo studio «Digital Seniors 2020» affronta anche l’uso dei servizi digitali – bancomat, apparecchi automatici per i biglietti del bus e del treno, braccialetti per il fitness, eccetera – per i quali vengono evidenziate ancora delle difficoltà e delle resistenze da parte degli interpellati. «Oggi ciò che sta suscitando interesse fra molti giovani anziani over 65 – soprattutto fra coloro che hanno svolto professioni che presupponevano l’uso dell’informatica – riguarda la possibilità di effettuare i pagamenti online, anche se permane il timore della sicurezza». Insomma, tra precauzioni, saggezza, esigenze sociali e un immutato desiderio di imparare, i nostri anziani si sono ormai riservati un posto sempre più solido nello sterminato mondo digitale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Idee e acquisti per la settimana

Una «sleppa» di bistecca

Attualità I banchi macelleria dei maggiori

supermercati Migros vi invitano a gustare la famosa bistecca Tomahawk

Tomahawk di manzo Irlanda per 100 g Fr. 5.95

È tempo di immergersi nel saporito mondo delle grigliate. Che si tratti di succulenti tagli di carne, sfizioso pesce fresco o croccanti verdurine, alla Migros troverete tutto l’occorrente per trasformare ogni barbecue in un’esperienza indimenticabile. Per dare il via con gusto e originalità alla stagione del barbecue, perché non concedersi una succosa bistecca Tomahawk? Questo taglio nobile - dello spessore di ca. 5 cm e del peso di ca. 1-1,5 kg - ricavato dalla parte anteriore della lombata del manzo con l’osso incluso, si caratterizza per la marezzatura pronunciata (infiltrazione di grasso nella carne), peculiarità che in cottura contribuisce a rendere la carne molto tenera e saporita. Il nome Tomahawk deriva dalla forma della bistecca, che ricorda appunto la piccola ascia che veniva utilizzata dai nativi americani come utensile da lavoro o arma da combattimento. Semplice da preparare Il metodo migliore per preparare la bistecca Tomahawk è quello di cuocerla alla griglia, senza troppi condimenti per

non rovinarne il raffinato gusto. Prima di iniziare è importante lasciare riposare la carne per un’oretta a temperatura ambiente, in modo che le fibre si rilassino e durante la cottura rimangano più tenere. Condite la carne semplicemente con del sale e, a piacere, con qualche spruzzata di pepe macinato di fresco. Badate a che la carne sia salata uniformemente. Questa operazione andrebbe fatta solo poco prima di metterla sulla griglia. A questo punto ponete la bistecca sul grill ben caldo e cuocetela su entrambi i lati per qualche minuto. Spostate la bistecca nella zona meno calda del grill e proseguite la cottura per altri 10-15 minuti, girandola regolarmente, fino al raggiungimento di una temperatura ideale al cuore di ca. 55-60 gradi (al sangue). Questo passaggio permette all’osso di rilasciare lentamente il calore nella carne, conferendole un’ulteriore nota gustativa caratteristica. Affettate la Tomahawk «contro fibra» secondo lo spessore desiderato e servite con del fleur de sel o del burro alle erbe.

La forza naturale dei germogli

Novità I germogli sono considerati dei superfood. Ora alla Migros sono in vendita cinque

varietà biologiche di produzione svizzera

5

1

3 1 Bio Powermix mungo, lenticchie, ceci, 100 g Fr. 2.40 2 Bio Germogli alfalfa 50 g Fr. 2.80 3 Bio Germogli di cipolla 35 g Fr. 3.60 4 Bio Germogli misti mungo, alfalfa, ravanello 100 g Fr. 1.90 5 Bio Germogli di soia mungo 250 g Fr. 2.20

Negli ultimi anni i germogli sono sempre più in voga. Queste delicate verdure in miniatura dal gusto croccante e fresco racchiudono tutta la forza della natura, grazie al prezioso apporto di sostanze benefiche quali sali minerali, vitamine essenziali, fibre alimentari e proteine facilmente digeribili. I germogli non sono altro che le prime foglioline che spuntano dal seme germinato. Si utilizzano in cucina in numerose pietanze al wok, a condizione che vengano cotte brevemente per evitare che perdano le loro pregiate sostanze, ma sanno dare il meglio di sé consumati crudi, da soli come snack, per arricchire le insalate o

per farcire i sandwich. Un ottimo modo per valorizzare il loro gusto intrinseco è quello di aggiungerli a una fetta di pane spalmata con del formaggio fresco. Nei reparti verdura dei maggiori supermercati Migros sono state appena introdotte cinque varietà di germogli biologici, prodotti senza alcuna sostanza sintetica da una piccola azienda della Svizzera Centrale. La gamma è composta da germogli di cipolla, germogli alfalfa, germogli di soia mungo, come pure due varianti miste: il Powermix con germogli di mungo, lenticchie e ceci, e il mix con alfalfa, ravanello e mungo.


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Idee e acquisti per la settimana

Antizanzare naturale

Luganighetta nostrana

Attualità Nuovamente

disponibile la pianta ornamentale contro gli insetti molesti

Catambra pianta antizanzare Fr. 29.– In vendita nei reparti fiori delle maggiori filiali Migros e presso i Do it + Garden

Introdotta con successo da alcuni anni al reparto fiori Migros, la Catambra è una pianta ornamentale in grado di allontanare le zanzare – anche zanzare tigre - in modo del tutto naturale, senza nessuna controindicazione per l’uomo e gli animali, grazie ad una sostanza repellente inodore chiamata catalpolo, contenuta nelle foglie in elevate quantità. Più la pianta è grande, più grande sarà l’effetto

repellente sui fastidiosi insetti. Ideale sia per gli spazi esterni che interni, è facile da coltivare ed è particolarmente resistente al freddo. All’aperto può essere trapiantata in giardino in pieno sole o a mezz’ombra, mentre se tenuta in casa deve essere posizionata vicino ad una finestra o comunque in un luogo con molta luce. Se rinvasata, posizionare la pianta in un vaso più grande e aggiungere del terric-

cio neutro. La concimazione è da effettuarsi in primavera, utilizzando del concime ricco di azoto, fosforo e potassio. In estate trattarla di tanto in tanto con un prodotto antiparassitario per mantenere le foglie vigorose. Innaffiare secondo necessità, la terra deve essere umida ma non bagnata. La Catambra è una pianta a crescita veloce e può raggiungere un’altezza di 3.5 metri se tenuta in giardino.

In una grigliata mista perfetta, un posto d’onore è sempre riservato alla nostra salsiccia ticinese, la luganighetta. Il ricco assortimento di salsicce della Migros include anche l’aromatica specialità della Salumi del Pin di Mendrisio, prodotta con carne di maiali allevati sul Piano di Magadino. Per una sicura riuscita la luganighetta va grigliata a fuoco medio, mai direttamente sulla fiamma, altrimenti brucerebbe. Non praticare nessuna incisione per non perdere i succhi, come pure evitare di condirla ulteriormente, essendo già saporita di suo. Cuocerla per una quindicina di minuti, girandola spesso. Buon appetito!

Luganighetta Nostrana per 100 g Fr. 2.60 Annuncio pubblicitario

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In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 18.05 al 24.05.2021, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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Aperture straordinarie Domenica 23 maggio

saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00 i seguenti punti vendita Migros: Biasca, Arbedo-Castione, Bellinzona, Centro S. Antonino, Riazzino, Locarno, Do it + Garden Losone, Ascona, Maggia, Taverne, Do it + Garden Taverne, Pregassona, Lugano, Grancia, Outlet Grancia, Centro Agno, Centro Shopping Serfontana.

Lunedì 24 maggio

(Festa di Pentecoste)

Tutti i punti vendita Migros in Ticino saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00

Ecco come proteggerti e come proteggere gli altri

Evita di fare la spesa all’ultimo momento.

Pianifica con anticipo i tuoi acquisti ed evita gli orari di punta.

Se possibile, solo una persona per economia domestica dovrebbe fare acquisti.

Mantieni almeno 1,5 m di distanza.

Disinfetta bene le mani ogni volta che entri in filiale.

Quando entri nei negozi, indossa sempre la mascherina.

Segui le istruzioni dei nostri collaboratori.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Società e Territorio Il nucleo di Piughei sotto Montegreco. (Ti-Press)

Giovani e pandemia Conferenze La Task

Force PSY Covid-19 e il DSS propongono un ciclo di incontri online per i genitori

Tra storia, natura e un energetico castagno secolare Val Malvaglia Nel piccolo nucleo di Montegreco tutto è pronto per accogliere chi è alla

ricerca di tradizioni contadine e percorsi energetici per rigenerarsi a contatto con la natura

Mauro Giacometti Montegreco è una terrazza in Val Malvaglia proiettata sulla valle di Blenio e le cime dell’Alto Ticino. Un nucleo storico, a 1156 m/slm, raggiungibile solo a piedi, dove sino alla fine degli anni 60 del secolo scorso una quindicina di famiglie viveva ancora di allevamento, pastorizia e agricoltura. Poi lo spopolamento, l’abbandono, ma più recentemente la rinascita, grazie ad alcune famiglie originarie che hanno prima costituito l’Associazione Amici di Montegreco e poi l’omonima Fondazione che ha come scopo recuperare il proprio territorio, la propria storia e tradizione ricostruendo vecchi edifici e facendo rivivere antiche tradizioni contadine, proiettandole però in un turismo sostenibile ed «energetico». «Tutto è cominciato con una campana, datata 1624 e conservata dalla nostra famiglia originaria del nucleo montano malvagliese – ci spiega Eros Valchera, presidente della Fondazione Montegreco –. Era l’unica testimonianza di una chiesetta, quella di San Giuliano, risalente al 1400 e che era andata praticamente distrutta da un incendio nel 1800. Grazie alla generosità di centinaia di donatori e alle migliaia di ore di volontariato nell’agosto del 2006 abbiamo terminato i lavori di recupe-

ro della chiesetta che è stata riaperta ai fedeli con la celebrazione di una Santa Messa. Ora la chiesa di San Giuliano e la sua campana si stagliano su tutta la valle di Blenio, richiamando quel sentimento di spiritualità e vicinanza alla natura che ha ispirato i nostri antenati», sottolinea Valchera.

Tra le iniziative più interessanti vi è il Parco del castagno, il Sentiero celtico e sette postazioni energetiche Il recupero della chiesa è stato il primo passo di una serie di interventi che negli ultimi 15 anni sta riportando in vita l’antico nucleo e alcune sue frazioni. Il terrazzamento con muri a secco (per circa 2 km), la ricostruzione di cinque antiche «rascane» (essiccatoi di segale) nella frazione di Piüghei e gli «sprüch» (rifugio per capre), il ripristino dei sentieri che collegavano Montegreco alle varie frazioni e alpeggi. E ancora, la ricostruzione del vecchio forno per il pane a Montegreco e, sempre nel borgo montano, sui resti di un’antica torba Walser, il più antico edificio del nucleo, si è intervenuti con l’edifica-

Origini medievali per la comunità malvagliese Una pergamena del 21 giugno 1405, con la quale la vicinanza di Malvaglia decretava la divisione della proprietà comune degli alpi tra le diverse degagne, è probabilmente il documento più antico che ci segnala il toponimo Muncréch (Montegreco). San Carlo Borromeo nella sua visita a Malvaglia del 25 ottobre 1567 riporta nei suoi scritti l’elenco delle frazioni di Malvaglia e dei loro oratori. Vi si cita un «oratorium S. Iuliani» a «Prestinarium» (Prastinèi), ma da ricerche fatte si tratta quasi certamente di un

errore. Infatti a Prastinèi non è mai esistito un edificio sacro che potesse essere qualificato come oratorio, mentre a Muncréch è esistito. La memoria orale ricorda infatti l’esistenza di una chiesetta dedicata a San Giuliano, la cui statua era portata in processione all’inizio del mese di agosto sui sentieri montani. A dare concretezza alla memoria orale, invece, la campana, datata 1624, di proprietà della famiglia Valchera, che è stata restaurata e riportata sulla sommità della chiesetta di San Giuliano.

zione in pietra, legno e tetto in piode di un ostello con una ventina di posti letto e circa 40 posti di cucina-ristoro. L’ostello di Montegreco, che sarà inaugurato l’anno prossimo, oltretutto, si trova nel mezzo degli itinerari che collegano la Capanna Quarnei a quella di Cava, completando quindi l’offerta di un turismo pedestre di passaggio. «Già l’anno scorso l’ostello era completato all’80%, ma la pandemia ne ha un po’ “congelato” l’apertura. Così come ha rallentato il completamento del “sentierone” che collega le frazioni di Prastinei e Piughei a Montegreco. Ma entro la primavera del 2022 saremo pronti ad avviare tutte le attività previste che permetteranno di valorizzare l’immersione completa tra natura e storia che offre questo territorio incontaminato», sottolinea Eros Valchera. Compreso il ripristino di un allevamento in quota, con le mucche scozzesi Highlander che già pascolano dove cent’anni fa le loro cugine di razza Bruna fornivano latte e carne ai contadini di Montegreco. «Abbiamo concluso un accordo con Guido Leutenegger, l’imprenditore svizzero specializzato nell’allevamento di Highlander, che nei mesi estivi ha già portato a pascolare il suo bestiame sulle nostre montagne», conferma il presidente della Fondazione Montegreco. Ma oltre alle scenografiche mucche e vitelli scozzesi, i visitatori di Montegreco potranno usufruire di due proposte che vanno ben al di là della semplice escursione, seppur suggestiva, in un nucleo montano riportato agli antichi splendori, il Parco del castagno e il Sentiero celtico. Il primo attinge alla presenza di un secolare castagno, a Piüghei, una pianta maestosa e imponente dalla circonferenza di ben 13,5 metri e ancora in grado di produrre i suoi frutti. Il fulcro del progetto è infatti un bosco bioenergetico a 953 metri d’altitudine, che prende appunto spunto dalla presenza del castagno ultramillenario. Oltre alla «pianta madre», lì vicino sono infatti presenti «cinque sorelle», ovvero altri cinque castagni che prossimamente accoglieranno un’altra ventina di pian-

te autoctone da frutto in via d’estinzione provenienti dal vivaio forestale di Lattecaldo. Per la piantumazione del Parco del castagno e per documentare il forte valore energetico di questi alberi, la Fondazione ha coinvolto uno dei massimi esperti internazionali del campo, Marco Nieri, ecodesigner e bioresearcher che da quasi 30 anni progetta spazi interni ed esterni orientati a creare benessere. Nieri, che studia gli effetti sul corpo umano del bioelettromagnetismo vegetale, ha anche realizzato i primi percorsi europei di «Forest Bathing», una tecnica nata in Giappone negli anni 80 che contempla la riconnessione con la natura attraverso i sensi in cui i partecipanti, attraverso una camminata lenta, ritrovano consapevolezza e si rigenerano. Dunque da Piüghei a Montegreco, per circa due chilometri, ci si potrà immergere in questo «bagno» nella natura a 1000 metri sul livello del mare. Il Parco dei castagni si collega al sentiero celtico realizzato negli scorsi anni tra Montegreco-Ranch-Sulgone su quello che era il percorso dell’antica processione di San Giuliano. «Sempre sistemando territorio e sentieri, sono venuti alla luce manufatti storici, massi coppellari e sorgenti con incisioni preistoriche. Grazie alla sensibilità dei geomanti Jörg Janke e Manolo Piazza sono state individuate sette postazioni energetiche che abbiamo rinaturato e rese idonee alla pratica della meditazione yoga, della biofilia e della natur-therapy individuale e di gruppo. Grazie ad accordi con l’Ente turistico della valle di Blenio proporremo delle visite guidate su questo sentiero celtico, prendendo spunto dal modello di successo del «Sas da Grum» del Gambarogno. Siamo convinti che, oltre al territorio e alla valenza storico-culturale del nostro paesaggio, le punte di diamante dell’offerta turistica di Montegreco saranno infatti la meditazione e la ricarica energetica che permettono la natura», conclude Valchera. Informazioni

www.montegreco.ch.

La Task Force PSY Covid-19 in collaborazione con l’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani (UfaG) del Dipartimento della sanità e della socialità propongono un ciclo di incontri per discutere di storie di ordinaria genitorialità in un periodo straordinario dove abbiamo dovuto rivedere molti aspetti della nostra vita, sia a livello lavorativo sia a livello famigliare. Gli incontri forniranno l’occasione per riflettere, condividere le proprie esperienze e dialogare con professionisti del settore, che lavorano con bambini, adolescenti, giovani adulti e che, in questo periodo, hanno intercettato nella loro pratica professionale il disagio a livello individuale, di gruppo e famigliare. «La scelta di rivolgersi ai genitori – scrive la Task Force PSY Covid-19 nel suo comunicato stampa – deriva dal fatto che spesso in famiglia si accolgono e raccolgono le impressioni su come si sta; può capitare che, in certi momenti, i comportamenti dei nostri giovani figli possano sfuggire o non prestarsi a una comprensione semplice e lineare... La condizione di insicurezza e le restrizioni causate dalla pandemia, che durano da oltre un anno, stanno mettendo a dura prova tutta la popolazione e anche le fasce più giovani e le loro famiglie. Sono numerosi i giovani che hanno sofferto per la monotonia, la mancanza di contatto con i coetanei, l’incertezza e il disagio vissuto anche a livello familiare. Talvolta alcune tappe evolutive sono state congelate, differite e addirittura saltate. Per fortuna l’adolescenza e la prima età adulta, nella sua unicità, sono anche caratterizzate da veloci tempi di recupero e di adattamento».

Il programma prevede tre incontri serali online dalle 19.30 alle 21.00: giovedì 20 maggio sul tema «Sostenere la resilienza di ragazze e ragazzi al tempo di Covid: il ruolo delle famiglie» con lo psicologo e psicoterapeuta Fabian Bazzana; giovedì 27 maggio sul tema «Riconoscere e gestire i rischi dei social media» con lo psicologo Gabriele Barone, il quale svilupperà anche il tema della terza serata prevista giovedì 10 giugno e incentrata su «Educazione e videogiochi». Durante le conferenze verranno raccolte domande per i relatori, in modo che possa svilupparsi una discussione attiva e costruttiva. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti gli interessati. Per iscriversi è necessario scrivere a iscrizioni.conferenze@gmail.com entro il 18 maggio 2021. Con la conferma verrà inviato il link per partecipare all’evento trasmesso in videoconferenza (Teams).


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Società e Territorio

Conoscere, sapere: già, ma come?

Divulgazione Durante la pandemia lo abbiamo sperimentato: la divulgazione scientifica è un tema centrale

per la società, non sempre però la realtà indagata dagli scienziati si integra con facilità con quella rappresentata nel nostro cervello

Massimo Negrotti Quando parliamo di divulgazione scientifica pensiamo di avere a che fare con un tema a parte, un argomento ben circoscritto nel quale e dal quale possiamo entrare ed uscire quando vogliamo: gli esperti conoscono e noi, dopo la divulgazione, sappiamo. In parte è proprio così ma, vista da vicino, la divulgazione, opportunamente ridefinita, ci coinvolge molto di più durante l’intero arco della vita e della stessa quotidianità. Il fatto è che, soprattutto nelle società contemporanee così caratterizzate da posizioni professionali specialistiche o almeno qualificate, tutto ciò che costituisce conoscenza per gli uni consiste in ignoranza per gli altri. Tuttavia, degli altri abbiamo permanente bisogno e, quindi, ci rivolgiamo a loro per sapere, di volta in volta, cosa sta accadendo nell’atmosfera, come è fatto un atomo, cosa è una pandemia oppure, sul piano pratico, come fare e perché al fine di aggiustare provvisoriamente un impianto elettrico, ripristinare il funzionamento di una vettura e così via.

Non sempre le analogie e gli esempi forniscono un buon servizio alla diffusione della conoscenza scientifica Nonostante le consuete vedute assai diverse fra i filosofi, va riconosciuto che un concetto in fondo assai semplice, la rappresentazione mentale di cui, fra gli altri, Jean Piaget è stato maestro, è decisamente centrale in tutto questo. Nella nostra mente – meglio sarebbe limitarci a dire «nel nostro cervello» – c’è un mondo dinamico di rappresentazioni – spesso assimilabili a vere e proprie immagini – che ci consentono di ricordare oggetti e situazioni i più diversi esperiti in passato e capaci di orientarci nel prendere decisioni e agire. Ma le rappresentazioni più interessanti, in special modo per quanto riguarda la divulgazione, non riguardano esperienze passate bensì «situazioni potenziali» attuali o future. Prendiamo l’esempio dello scorrere dell’elettricità in un cavo elettrico e la sua classica descrizione divulgativa che lo dipinge come un flusso d’acqua all’interno di un tubo. Poiché nessuno

Il modello di atomo con caratteristiche simili a un piccolo sistema solare: una geniale rappresentazione pensata dal fisico Niels Bohr nel 1913. (Shutterstock)

di noi possiede un’immagine mentale della corrente elettrica che derivi da un fatto fisicamente sensibile – come sarebbe possibile, invece, per la luce o il magnetismo di cui constatiamo facilmente l’esistenza e il comportamento – ci aggrappiamo all’immagine del tubo in cui scorre l’acqua. Ma le cose non stanno esattamente così, perché, come detto sopra, la riparazione di un cavo elettrico interrotto è ben diversa dalla riparazione di un tubo che si spezzi, proprio perché la corrente elettrica non è un liquido. In queste circostanze, insomma, scopriamo che la realtà con cui abbiamo a che fare è quanto meno a due livelli, fra i quali quello divulgato è sì una semplificazione del primo, ma rischiosa e comunque non certamente utile per arricchire la sua conoscenza. Ciò vale anche per le analogie e gli esempi che, non di rado, forniscono un pessimo servizio alla diffusione della conoscenza scientifica anche nelle scienze sociali. Si veda il caso del debito sovrano degli Stati, quasi sempre proposto nella chiave della buona amministrazione familiare. Una rappresentazione che induce a prendere posizioni che potremmo definire micro-razio-

nali a fronte delle solenni distanze che sussistono fra la contabilità di una famiglia e quella di uno Stato, prima fra tutte la possibilità esclusiva, da parte di quest’ultimo, di battere moneta e, per di più, di disporre di forze dell’ordine in grado di reprimere eventuali deviazioni dalle norme finanziarie. Le due realtà, quella indagata e in parte conosciuta dagli scienziati e quella rappresentata nel nostro cervello, non competono fra loro, ovviamente, ma non sono nemmeno di facile integrazione. Quando lo sono, il risultato assume uno splendore che non è difficile definire entusiasmante. Il grande fisico Niels Bohr nel 1913, dopo il lavoro di Rutherford e altri, propone un modello di atomo dalle caratteristiche genericamente simili ad un piccolo sistema solare, consentendo così tutta una serie di nuove deduzioni e ipotesi di fisica quantistica. Ora, è evidente che una simile rappresentazione mentale non è difficile da riprodurre nel nostro cervello, anche perché esso ha già, fra le proprie «riserve» rappresentazionali, ben sedimentate immagini scolastiche del sistema solare. Il vero aspetto sconcertante risiede, semmai,

in ciò che è avvenuto all’interno del cervello di Bohr, al quale nessuno, fra i non scienziati, aveva chiesto di entrare in possesso di un’immagine ispirata ad una plausibilità quasi quotidiana di un atomo. Qualche anno fa mi è capitato di cenare, a Urbino, con il filosofo Daniel Dennett il quale è noto per sostenere che, nel cervello, non esisterebbe alcun «punto centrale» in cui emerga la coscienza e si formi il pensiero. Tutto avverrebbe simultaneamente, in parallelo, senza alcuna sede privilegiata in cui avvengano rappresentazioni. La creazione di Bohr rimarrebbe così un evento privo di origine, quasi casuale. In realtà si è trattato di un originale e ben integrato ricorso all’analogia che ha portato ad una preziosa forma, potremmo dire, di auto-divulgazione. Purtroppo c’è però da aggiungere, per completare il quadro sintetico che stiamo proponendo, che esiste tutto un mondo fatto di conoscenze che si pongono al di là di ogni possibile divulgazione. Dico «purtroppo» non tanto perché si tratti, sempre e necessariamente, di conoscenze strategiche ma perché si tratta, almeno in alcuni casi, di conoscenze capaci dare senso pieno alla no-

stra esistenza. Si pensi alla matematica: come si possono divulgare il concetto di equazione differenziale o quello di integrale? Si passi poi ad una disciplina apparentemente chiara e semplice da almeno tre secoli, la metodologia galileiana della scienza. Ma, anche qui, come fare a divulgare correttamente il concetto, poniamo, di «causa»? Noi vediamo in giro cose ed eventi, non «cause». Una grossa differenza sussiste poi fra la divulgabilità di taluni aspetti delle scienze nelle loro versioni macroscopiche (in geologia, fisiologia, astronomia, botanica, ecc.) e nelle loro versioni strutturali microscopiche perché il rischio di rappresentazioni del micro attraverso le categorie, quasi sempre incompatibili, del macro è sempre in agguato. C’è infine la filosofia, antica madre di tutte le vicende conoscitive dell’uomo. Essa include forse l’insieme di conoscenze più impermeabili ad ogni tentativo di divulgazione perché tocca, o pretende di toccare, il fondo della realtà e non può che far ricorso a concetti, a partire dall’essere per passare all’assoluto e agli altri temi metafisici, decisamente intrattabili attraverso ordinarie rappresentazioni.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Agostino Traini, Il berretto rosso, Il Castoro. Da 4 anni Le fiabe, le cui radici affondano nella notte dei tempi, vengono tramandate oralmente o nelle riscritture, che senza fine le riconfigurano e forniscono loro nuovi sensi. Cappuccetto Rosso è una delle fiabe più riscritte, già i Grimm ne proponevano una versione (con il salvataggio della protagonista) meno tragica di quella di Perrault. E in tempi più vicini a noi essa ha ispirato grandi artisti: ricordo almeno Roberto Innocenti, che traspone il bosco nel degrado inquietante di una metropoli; e Bruno Munari, che ne propone varie ambientazioni, a seconda dei colori (Cappuccetto rosso, verde, giallo, blu e bianco). Tra le varie rivisitazioni contemporanee di questa fiaba, spicca per grazia e umorismo quella di Agostino Traini, che nel 2009 aveva dato alle stampe quello che possiamo già considerare un piccolo classico: Il berretto rosso. Ora la stessa casa editrice Il Castoro lo rimette finalmente in catalogo in una nuova edizione, che ne valoriz-

za appieno il ritmo, scandito dalle immagini e dal testo, in armonia davvero perfetta. Le immagini si succedono in due grandi riquadri per pagina, con sotto, per ognuna, una breve porzione di testo, che con raffinata sapienza narrativa fa progredire la storia, a sua volta ritmata da una suddivisione in capitoli che ne illuminano ogni snodo. Ma è proprio al brio della storia che è affidato il certissimo successo di questo libro presso il pubblico dei più piccini (e non solo!): Gelsomina è una bambina che non si separa mai dal proprio berretto rosso, nemmeno per darlo al lupo che lo reclama. Ma perché

il lupo lo reclama? Perché spera, facendo l’elegantone con quel berretto, di conquistare una sdegnosa principessa lupa... non vi racconto il resto, ma state certi che le sorprese non mancheranno! Il berretto rosso è la prova che le fiabe si possono riscrivere, ma con intelligenza, leggerezza e ironia (con buona pace della cancel culture): qui ad esempio non c’è la solita banalità del lupo «buono», anche se la sua simpatia è evidente; e la nonna – una vera tipa sportiva – ribalta ogni stereotipo: basti pensare che il raffreddore se l’è preso perché facendo parapendio finisce in un laghetto di montagna! Giuditta Campello, Sandra la capra detective, HarperCollins. Da 5 anni La letteratura per ragazzi è ricca di romanzi gialli, ma più l’età target scende, più le detective stories scemano. È ovvio, perché seguire un’indagine richiede capacità cognitive abbastanza sviluppate, e perché il tema – legato pur sempre a un reato – può risultare

troppo aspro per i più piccoli. Giuditta Campello è invece riuscita in un’operazione non facile: quella di creare, cioè, delle storie d’indagine adatte a primissimi lettori, rispettando tutti i canoni del genere: un caso da risolvere, un detective, un lavoro deduttivo a partire dagli indizi, un finale non scontato. L’ambientazione è la «Fattoria Bel Belato»; i protagonisti di questa serie (che al momento conta due titoli, speriamo in aumento) gli animali della Fattoria, ognuno ben caratterizzato; il detective è la capra Sandra. Ne Le uova

scomparse bisogna individuare il ladro di uova; in Un ladro in fattoria c’è qualcuno che ruba i pasti dalle mangiatoie. Sandra indaga e con lei il piccolo lettore, di cui il testo tiene conto coinvolgendolo di continuo con domande e risposte, ricapitolazioni, affermazioni empatiche. La storia è semplice, però ci sono intreccio e azione; e prima del gran finale, dove Sandra finalmente svelerà il colpevole, c’è un momento di sospensione, in cui i bambini sono invitati a pensare a chi potrebbe essere, e in cui ogni indiziato si scagiona: è stata forse Olimpia l’oca? «Io non c’entro. Stanotte dormivo e sognavo di giocare a biglie con le uova di una quaglia!» Allora è stata Mariangela la gallina? «Non diciamo stupidaggini! Io non faccio certe cose!»... Poi il colpevole verrà scoperto, ma si scoprirà anche che il reato, che pure c’è, è in qualche modo involontario! Da citare l’illustratrice, Ania Simeone, e il carattere del testo, che è lo stampatello maiuscolo, ottimo per i primi lettori.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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¹Escluso: LC1 0% Yogurt. ² Fonte: Nielsen, mercato svizzero; parti di mercato, MAT P3/2021, senza marche proprie del commercio al dettaglio


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Idee e acquisti per la settimana

CONOSCETE LE CREME SOLARI? Cosa significano i simboli FPS, UV-B, IR-A o aha!? Quando devo utilizzare la crema solare? Domande e risposte attorno al tema protezione solare Testo Petra Koci

Come trovo la protezione solare adatta? Dipende in primo luogo dal proprio tipo di pelle. Come regola generale: più la pelle è chiara, più il fattore di protezione solare deve essere alto. In seguito dipende anche dall’attività: chi vuole nuotare, sceglie un prodotto resistente all’acqua. Infine, esistono diverse consistenze come latte, crema, spray o olio. Scegliere il tipo, è una questione di gusti.

Cosa deve fare una crema solare? I prodotti solari vengono applicati sulla pelle per attenuare o prevenire gli effetti negativi dei raggi (p. es. bruciature con arrossamento, invecchiamento della pelle). Alcuni di essi apportano alla pelle anche idratazione.

Cosa c’è scritto sulla confezione? Il fattore di protezione solare (UV-B) come pure il simbolo «UV-A». Su alcuni prodotti è pure presente la sigla IR-A, che sta per sostanza antiossidante che protegge le cellule dagli effetti negativi delle radiazioni infrarosse A (abbreviato IR-A). Inoltre sono indicati anche gli ingredienti, i vantaggi e le istruzioni per l’uso.

Cosa significano i fattori di protezione FPS o SPF? Il fattore di protezione solare (FPS), in inglese Sun Protection Factor (SPF), indica quanto tempo il prodotto protegge dai raggi UV-B. Più precisamente: di quanto si prolunga il tempo di autoprotezione della pelle. Con pelli molto chiare l’autoprotezione dura ca. 10 minuti, con quelle normali 20-30 minuti e con i tipi mediterranei o scure da 30 a 50 minuti. Il calcolo è: tempo di autoprotezione per FPS = i minuti che si possono passare al sole protetti. Questo vale come regola approssimativa.

A cosa devo prestare ancora attenzione nella scelta del fattore? Il fattore dipende dal proprio tipo di pelle, ma anche dalla radiazione solare. Più forte quest’ultima è, per esempio vicino all’equatore o in cima ad una montagna, più alto dovrebbe essere il fattore. La previsione dell’indice UV giornaliero (uv-index.ch) indica l’intensità dei raggi UV-B. Questo dipende dalla stagione, dal tempo e dall’altezza. A partire da un indice di 3 si consiglia una protezione. La tendenza in generale è verso i fattori più alti. Anche un FPS 50 non blocca completamente tutti i raggi solari. I raggi UV hanno effetto anche all’ombra, nell’acqua o attraverso le nuvole.


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Cosa significa UV-A e UV-B? I raggi del sole UV-B possono causare delle scottature. I raggi UV-A contribuiscono all’invecchiamento della pelle. L’FPS si riferisce sempre ai raggi UV-B. Se è presente anche il simbolo UV-A, il prodotto protegge da entrambe le radiazioni.

Quali filtri UV esistono e cosa fanno? Ci sono filtri minerali e chimici. I filtri minerali riflettono i raggi UV e li tengono lontani dalla pelle. I filtri chimici convertono i raggi sulla pelle in calore. I filtri non dovrebbero penetrare nella pelle o causare allergie, devono essere fotostabili e non devono avere effetti collaterali sul metabolismo. Solo i filtri UV certificati possono essere utilizzati nei prodotti cosmetici.

Significa che il prodotto assicura una protezione di almeno il 50 % anche dopo due bagni da 20 minuti. Con una resistenza extra sono quattro volte 20 minuti.

Cosa significa protezione IR-A?

Ho una pelle sensibile, cosa devo fare?

La luce solare è formata da ultravioletti, visibili e infrarossi. La componente degli infrarossi A può penetrare in profondità e danneggiare la pelle. Accanto ai filtri UV, si impiegano dunque anche complessi di protezione, per esempio in forma di vitamine e antiossidanti.

Cosa significa resistente all’acqua?

Di regola una protezione solare testata dermatologicamente per pelli sensibili è ben tollerata. Questi prodotti non contengono sostanze irritanti come profumi, coloranti o conservanti.

Cosa significa certificato aha!?

Illustrazione Getty Images

Questo sigillo garantisce che nessun ingrediente allergenico (secondo l’elenco di aha! Centro Allergie Svizzera), in una concentrazione superiore allo 0,0001 percento, sia contenuto nel prodotto .

Quanta crema solare devo utilizzare? Molta, e di regola ripetere l’operazione. Tre cucchiai per tutto il corpo e un cucchiaino per il viso dovrebbero bastare.


Foto: John Kalapo

Pubbliredazionale

Agire contro il cambiamento climatico Caritas aiuta le popolazioni locali ad adeguarsi ai cambiamenti climatici e a proteggersi meglio dalle catastrofi naturali: Paesi d’intervento: Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Cambogia, Etiopia, Haiti, Mali, Uganda, Tagikistan, Ciad • Rendiamo attenti i piccoli agricoltori sull’importanza di preservare le risorse naturali ed elaboriamo con loro nuove tecniche di coltivazione adattate ai cambiamenti climatici. • Installiamo infrastrutture che migliorano l’accesso all’acqua e la protezione contro le catastrofi. Mettiamo a punto anche sistemi di allerta e istruiamo le squadre di intervento in caso di catastrofe.

Foto: Fabian Biasio

• Incoraggiamo gli abitanti dei villaggi a riforestare i loro appezzamenti per contrastare l’erosione del suolo. Nel 2018 il verdetto per Modeste Traoré e la sua famiglia era chiaro: il pescatore non riusciva più a vivere di pesca e ha dovuto dedicarsi principalmente all’agricoltura. Tre anni dopo, i risultati sono incoraggianti: grazie a metodi semplici e innovativi, la produzione agricola sta aumentando nonostante gli effetti del cambiamento climatico.

«Coltiviamo meglio.» Il lago Wegnia (Mali) non garantiva più la sopravvivenza alla famiglia di Modeste Traoré. Il pescatore ha quindi dovuto riconvertirsi all’agricoltura. Grazie a tecniche innovative, dimostra che è possibile produrre una quantità maggiore di verdura, frutta e cereali malgrado le condizioni molto difficili.

Produrre di più e meglio I risultati sono incoraggianti. Centinaia di famiglie di agricoltori

hanno cambiato i metodi di coltivazione sulle rive del lago per sopravvivere agli effetti del cambiamento climatico. Le piogge sono imprevedibili, le ondate di calore estremo e i venti tempestosi sono sempre più frequenti. La sfida è produrre di più e meglio malgrado le condizioni difficili. Caritas collabora con la popolazione locale e mette a punto soluzioni innovative e metodi semplici per conservare l’acqua e migliorare la fertilità dei campi.

ricevuto a titolo sperimentale cinque varietà di sementi migliorate (mais, sorgo, miglio, arachidi, fagioli) e input agricoli biologici (fertilizzanti, stimolanti, pesticidi), la cui applicazione pratica sarà estesa in un secondo tempo. Modeste Traoré è felice di aver imparato a seminare meglio i pomodori e i peperoni. La differenza in termini di rendimento è evidente. Tecniche semplici, effetti positivi Alcuni metodi di coltivazione semplici, subito adottati dagli abitanti sulle sponde del lago, stanno già mostrando effetti positivi. La tecnica zai, ad esempio, permette di concentrare l’acqua e il concime in piccole fosse. I cordoni di pietra lunghi circa cinque chilometri, distesi su 53 ettari, rallentano l’erosione. I gabbioni (muri in pietra rivestiti con una rete metallica) costruiti in un burrone rallentano lo scorrimento dell’acqua, favorendone l’infiltrazione e la sedimentazione a monte del lago. L’utilizzo di concime organico e compostaggio è sempre più diffuso.

Sementi migliorate Soprattutto a causa della siccità è essenziale disporre di sementi adattate, seminarle al momento giusto e distribuirle correttamente. Alcuni agricoltori hanno così

• Abbiamo predisposto un sistema di previsioni meteorologiche a Wegnia, facilitiamo l’accesso alle sementi adattate, ai fertilizzanti e ai pesticidi biologici come pure al credito. • Sosteniamo il rafforzamento delle capacità degli attori di supporto locali (autorità statali, commercianti agroalimentari, fornitori di servizi meteorologici) al fine di garantire una gestione sostenibile delle risorse naturali e migliorare le condizioni di vita delle comunità. Foto: Lassine Coulibaly

«Ho sempre paura di non avere abbastanza cibo per sfamare la mia famiglia numerosa, ma fortunatamente ci riesco grazie alla nostra nuova attività di orticoltura.» Modeste Traoré, 57 anni, traccia un bilancio della sua riconversione all’agricoltura, avvenuta tre anni fa grazie al sostegno di Caritas Svizzera. 3000 famiglie (27 000 persone) come quella di Modeste lavorano con determinazione in 43 villaggi per migliorare la produzione agricola e allo stesso tempo proteggere le rive del lago Wegnia dall’erosione e rallentarne il riempimento.

Foto: John Kalapo

Cura degli alberi Modeste Traoré ha compreso i vantaggi del rimboschimento dei suoi appezzamenti per migliorare la ritenzione idrica del suolo. Si prende cura e protegge gli alberi giovani che sono più idonei per le sue coltivazioni (rigenerazione naturale assistita). Oltre a manghi e banani, ha piantato anche alcuni alberi di arance e di mele di acagiù.

Per saperne di più su Modeste Traoré: caritas.ch/modeste-i

Modeste Traoré ha realizzato che una buona pianificazione della vendita dei prodotti produce dei vantaggi: «Sarò ancora più soddisfatto se riuscirò a convincere i commercianti a rifornirsi regolarmente da me.» È molto fiero dei risultati ottenuti con il suo lavoro in questi tre anni. Vorrebbe ancora poter pescare sul lago Wegnia, ma per il momento il futuro della sua famiglia è nei campi.

Conto donazioni: 60-7000-4 Per donazioni online: caritas/clima


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

17

Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Marsa Scirocco Ai viaggiatori che visitano Malta oggi Marsa Scirocco (in maltese Marsaxlokk) è un’amena baia situata a Sud-Est dell’isola principale di La Valletta sede del caratteristico mercato del pesce, famoso per le gustosissime murene vendute a due soldi per via dell’aspetto poco invitante e della fama che le accompagna anche da morte. Gli fanno corona una quantità di ristoranti di pesce dai nomi in maggioranza italiani. Se poi uno pensa che la chiesa che domina il centro abitato è dedicata alla Madonna di Pompei lo spaesamento è totale e se ti dicessero che sei arrivato in qualche porticciolo della riviera amalfitana o della costiera siracusana ci crederesti pure. Tanto più che, alla fonda nella baia, i coloratissimi luzzu ricordano gli uzzu siciliani coi quali condividono l’armo, la forma dello scafo ed i colori. E porta strategica per l’invasione della Sicilia e dunque dell’Italia l’Isola dei Cavalieri era considerata dagli Ottomani al culmine del loro dominio sul

Mediterraneo decisi a farla finita con quella forza multinazionale, fuori del controllo degli stessi potentati cristiani. Venezia e Genova vedevano nei Cavalieri di Malta poco più che pirati maneschi e guastafeste laddove invece la prudenza e la borsa consigliavano diplomazia, guanti di velluto e tanti salaam alekum/salamelecchi. Diverso l’atteggiamento della corona Spagnola e degli Asburgo, questi ultimi impegnati da tempo ad arginare la lenta ed inesorabile avanzata che avrebbe portato i Turchi alle porte di Vienna nel 1529 ed ancora nel 1683. I primi vedevano i loro sforzi per farsi strada – o meglio: rotta – nel Mediterraneo frustrati dalle minisuperpotenze italiane e, in attesa di rassegnarsi e decidere invece di guardare alle Indie, si erano eletti Cattolicissimi agenti ideologici di un Papato ancora non rassegnato alla fine delle crociate e alla rinuncia dell’eterna querelle con il Sacro Romano Impero. A far perdere la pazienza a Solimano

il Magnifico erano stati alcuni episodi militari – tanto sanguinosi quanto in sostanza irrisolutivi – che si erano succeduti fin dall’espulsione dei Cavalieri di Rodi (1522) dall’isola troppo vicina alle coste anatoliche per passare notti tranquille a Topkapi visto che i Cavalieri bullizzavano il commercio navale turco (e pace se ogni tanto ci scappava anche qualche bastimento greco, albanese o dalmata). Rilocati a Malta dalla corona sotto Carlo V nel 1530 al comando di Philippe Villiers de L’Isle-Adam in cambio del famoso Falcone Maltese, i Cavalieri avevano respinto una prima invasione guidata dal tremendo Dragut – «La Spada vendicatrice dell’Islam» nel 1551 per poi subire la disastrosa sconfitta di Djerba. Al seguito di una serie di razzie condotte dai Turchi sulle coste spagnole, Filippo II di Spagna organizzò una gigantesca flotta di 54 galee e 14’000 armati la quale, dopo una serie di scaramucce, arrivò al dunque nel Maggio del 1561. I Cavalieri di

Malta ci rimisero legni e vite umane, ma non certo l’onore (e la voglia) se negli anni successivi – placate le furie spagnole – rimasero comunque gli unici a contrastare lo strapotere ottomano nel Mediterraneo Occidentale. Ma nel 1564 il grande Comandante Mathurin Romegas, Cavaliere guascone e dunque incline a guasconate, ebbe la pessima idea di catturare alcuni navigli mercantili ottomani sui quali viaggiavano alcuni notabili turchi e – ahinoi – anche la dada della figlia del Sultano. Nelle cronache Solimano il Magnifico quella sera dette in escandescenze e bevve più del solito: «No! La Dada di mia figlia no!». E partirono istruzioni per organizzare quello che ancor oggi i Maltesi conoscono come L-Assedju l-Kbir. La più grande flotta mai organizzata dall’antichità salpò da Istanbul il 22 marzo. Il 18 maggio 1564 si presentò maestosa alla bocca di Marsa Scirocco e quivi dette fonda. Lo storico Giacomo Bosio propone 193 legni ottomani per

44’000 armati di contro ai 500 Cavalieri e 6000 fra soldati e mercenari. Dragut, un’immensa Torre d’Assedio, 4000 Giannizzeri ed un mostruoso Kannone le armi dei turchi. Il Kannone, opera di un ingegnere rinnegato ungherese di nome Orban (ogni riferimento etc…) sarebbe poi esploso con grave nocumento per le forze assedianti e per lo stesso Dragut: spazientito causa il tempo che occorreva – istruzioni per l’uso scritte dall’Ingegnere Orban – per raffreddare il Kannone e spararlo in sicurezza, si fiondò di persona sugli spalti e dette ordine di far fuoco pena la testa. Sembra non se ne sia ritrovata una scheggia. L’11 settembre dello stesso anno la grande armata ottomana, demoralizzata, dopo aver sparato 130’000 colpi di cannone – eccetto uno – levò l’assedio. «Niente è meglio conosciuto dell’Assedio di Malta». Così Voltaire. Dal canto suo il vostro Altropologo preferito si scusa per avere riportato l’ovvio alla mente: repetita juvant?

nell’inconscio i piccoli sanno già che i loro eroi se la caveranno alla grande. In un certo senso la rassicurazione precede la paura. Non so se, anche il caso della madre che nega alla figlia la goccia di sangue che potrebbe salvarle la vita, sia stato recepito da noi adulti con altrettanta fiducia. Probabilmente le vicende dell’esistenza cancellano l’ingenuità infantile sino ad approdare nello scetticismo nei confronti della «razza umana». Come asseriva un importante e discusso uomo politico italiano: «a pensar male non si sbaglia mai». Invece questa volta abbiamo sbagliato tutti perché quella che sembrava una «madre snaturata» è tornata sui suoi passi e, smentendo il diniego iniziale, si è dichiarata disposta, fermo restando l’anonimato, ad aiutare la figlia dimenticata. Probabilmente in un primo momento avevano prevalso i meccanismi di difesa, le barriere costruite tanto tempo fa nei confronti di un’angoscia insopportabile, quella provocata dallo stupro, dalla solitudine e dal lacerante abbandono della neonata in ospedale. Difficile

immaginare un dolore così grande e la forza richiesta per continuare a vivere. Ma alla fine la ragione ha prevalso sulle emozioni, la riflessione sulla pulsione. È forse il caso, in questo tempo spaesato, in cui ogni giorno siamo esposti al conflitto tra la necessità di controllo e il bisogno di vicinanza affettiva, di evocare la capacità della Psicoanalisi di pronunciare, anche nei momenti più difficili, parole di speranza. Scrive infatti Freud: «… la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemente respinta, riesce alla fine a farsi ascoltare. Questo è uno dei pochi punti che consentono un certo ottimismo per l’avvenire dell’umanità». (S. Freud, L’avvenire di un’illusione, 1927).

di dimensioni mondiali. Le cronache ne propongono esempi a iosa. Incredibile ma vero, lo scandalo suscitato dalla ragazza olandese che aveva tradotto e recitato la poesia di Amanda Gorman, afroamericana, dedicata a Biden. Come poteva una bianca interpretare credibilmente i versi di una nera? Un redattore del «New York Times» è finito nei guai per aver alluso, in un articolo,agli occhi a mandorla di un’intervistata. Per non parlare poi dei sospetti di molestie sessuali che gravano su scrittori, attori, editori. Il più recente concerne Blake Bailey, autore della biografia di Roth: la casa editrice W. W. Norton si è vista costretta a sospendere la pubblicazione. Del resto, le accuse d’immoralità gravano, a titolo postumo, anche sulle figure, dei grandi della letteratura mondiale. Compreso il mio predi-

letto Dickens, non certo un marito esemplare. E, rimanendo nell’ambito anglosassone, anche Orwell sarebbe a rischio di cancellazione. Insomma, si salvi chi può. C’è, naturalmente, anche chi reagisce a quest’ondata di moralismo deviante: per John Grisham, il politically correct è addirittura una tragedia all’insegna della stupidità, cioè l’impossibile tentativo di adeguare la letteratura di ieri alla sensibilità di oggi. Ma, al di là dell’ambito letterario, questa tendenza comporta un rischio più grave: compromettere l’avvenire di giuste cause, femminismo, antirazzismo, parità sociale rendendole ridicole. Da noi, l’ultimo episodio si riferiva alla festa della mamma: da abolire, in nome di una nuova concezione della famiglia. Fatto sta che, a furia di cancellare, rimane il vuoto.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La speranza nei momenti più difficili Cara Silvia, non sapevo di questo caso strano, dove una donna rifiuta di dare una goccia di sangue per salvare la figlia non-desiderata ormai adulta. Grazie per aver chiarito e completando l’informazione molto lacunosa che la precedeva... Per quanto mi concerne trovo che sì, sia disumana la reazione della donna abusata, anche se capisco il risveglio prontissimo del suo dolore, odio e collera sepolti dagli anni sotto una lastra sottile. Ma di non voler venire in aiuto alla creatura che non ha chiesto di nascere e ormai diventata una donna adulta, anche senza voler sapere chi è diventata, proprio non posso capirlo. Come tante cose nella vita... La sua posizione (che bisogna perdonare) la capisco, (è un consiglio che si sente spesso espresso da molta gente), ma non posso condividerla, lei dice che se no, non si può amare di nuovo. Mi pare che questa donna diventata di roccia nei confronti di questa figlia, nata dal terribile episodio passato, abbia potuto benissimo rifare la sua vita, diventata madre e perfino nonna e dunque sia rimasta capace di amare.

Sento dentro di me una forma incurabile di rancore per quell’uomo che mi ha lasciata nel 2008 da un momento all’altro per un’altra donna (qualche anno dopo si è suicidato), ma anche di gratitudine per aver incontrato persone che contano. Non ho, però, trovato più nessuno che abbia risvegliato un amore in me, apprezzamento sì, ma amore no... forse sono indurita anch’io in un certo senso... La ringrazio di cuore per continuare a dare voce a chi le scrive e dare un aiuto sempre benefico, pieno di compassione e comprensione della vita a larga scala e Le porgo i miei saluti d’ammirazione e di amicizia. / Margaretha Cara amica, le confesso che anche a me la Stanza del Dialogo del 3 maggio, intitolata «Se la maternità non corrisponde all’ideale», aveva lasciato una certa amarezza. L’esistenza di una mamma cattiva ferisce l’umanità perché tutti si nasce figli, assolutamente incapaci di bastare a se stessi, bisognosi per sopravvivere di assistenza e di cura. Lei contesta la mia affermazione che chi

non sa perdonare e rimane in preda al rancore non riesce ad amare, osservando che in fondo questa vecchia donna, nonostante tanta durezza, è stata in grado di sposarsi, di avere altri figli e diventare nonna. Può bastare? Non credo. L’amore, come il calore, non si vede e l’indifferenza – lo racconto nella mia biografia d’infanzia Una bambina senza stella – non fa scandalo. Ma poi lei stessa si contraddice quando ammette che, dopo un abbandono improvviso, non ha più saputo costruire un legame d’amore. Ci vogliono fiducia e speranza per accogliere un estraneo e decidere di procedere insieme verso un futuro condiviso. Due passioni che, una volta perdute, difficilmente si ricostituiscono da soli. Ma la storia non finisce qui. Come nelle favole, quando sembra trionfare il male, quando tutto sembra perduto, sopravviene un colpo di scena che ristabilisce il lieto fine, quello che gli ascoltatori attendevano sin dal primo momento perché nelle favole la conclusione anticipa l’inizio. Se raccontiamo ai bambini vicende terribili, come quella di Hänsel e Gretel, è perché

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Cancellare la storia: un assurdo che funziona Ne abbiamo conferme quotidiane. Ultima delle serie: il bacio del principe a Biancaneve addormentata, ovviamente non consenziente, costretta quindi a subire un oltraggio da parte di un maschio sopraffattore. Da qui, la decisione di eliminare dal repertorio della letteratura popolare una fiaba che testimonia una sudditanza oggi intollerabile. Come impone, appunto, la cancel culture, corrente di pensiero, nata e cresciuta negli USA, dove agli esordi interpretò una giustificata reazione di protesta nei confronti, innanzi tutto, della discriminazione razziale. In nome del politically correct, come si chiamava allora, gli ambienti universitari si mobilitarono sul fronte del linguaggio per sostituire la parola nigger, dai connotati dispregiativi, con persona di colore, primo passo verso la conquista di una parità almeno for-

male. In seguito, la lotta si rivolse alla parità di genere, in una società dove il potere, sia politico sia finanziario, rimaneva di pertinenza maschile. Alla Casa Bianca, la presenza femminile continua a essere quella decorativa della First Lady, la moglie del presidente in carica. Ma il dopo Biden delinea un cambiamento? Staremo a vedere. Tutto ciò per dire, che il politically correct era partito con il piede giusto. Strada facendo, però, ha perso la bussola. E proprio in un paese, grande e vulnerabile, dove c’è posto per tutto e il contrario di tutto, un movimento d’ispirazione morale è sbandato nel moralismo, parente prossimo dell’oscurantismo. Non si dimentichi che, negli anni 20 e 30, la lotta contro l’alcolismo portò a un proibizionismo dagli effetti controproducenti. Mentre, negli anni 50, la denuncia degli errori

del comunismo scatenò la caccia al comunista di McCarthy. Insomma, serve sempre un colpevole. Persino immaginario, come lo sono adesso quelli prodotti dalla cancel culture, dove dai proclami si è passati ai fatti, addirittura alla violenza. Scatenando un’ondata iconoclastica che si abbatte sui monumenti, i dipinti, i libri considerati simboli e fantasmi di un passato da eliminare. Ne hanno fatto le spese la statua di Colombo, i ritratti di Jefferson, e poi, alla rinfusa, romanzi come La capanna dello zio Tom, Robinson Crusoe, film come Via col vento, accusati di veicolare un’immagine edulcorata del colonialismo. Se, finora, una motivazione poteva giustificare un atto d’accusa, adesso si assiste allo sbandamento nell’assurdo, addirittura nel ridicolo che, tuttavia, non frena la diffusione di un fenomeno


Cooperativa Migros Ticino 2020

RELAZIONE ANNUALE Andamento generale Nel 2020, la pandemia provocata dal virus COVID-19 e le misure adottate per contenerla hanno profondamente influenzato il comportamento della popolazione e di riflesso l’andamento del commercio al dettaglio, che a livello nazionale ha registrato uno sviluppo molto eterogeneo: una crescita straordinaria di circa il 10% nel settore alimentare e una flessione, anche molto importante a dipendenza del settore, nel comparto non alimentare. La Cooperativa ha realizzato un fatturato complessivo di 507,5 milioni di franchi, superiore di 49 milioni di franchi rispetto all’anno precedente (+10,7%), uno sviluppo positivo influenzato dall’importanza dell’alimentare nel mix della sua offerta ma anche dalla flessione del turismo dell’acquisto che ha comportato una crescita di ca. 500 milioni di franchi del mercato del commercio al dettaglio ticinese. La crescita del fatturato, unitamente al contenimento dei costi di esercizio, ha consentito alla redditività della Cooperativa di crescere rispetto a quella del 2019, con valori di EBIT (risultato prima degli interessi e delle imposte) e di risultato aziendale che si sono assestati a 5,3 milioni di franchi e 3,6 milioni di franchi rispetto ai 3,1 e 1,4 milioni di franchi dello scorso anno.

Eventi straordinari L’esercizio 2020 è stato caratterizzato dalla pandemia provocata dal virus COVID-19 i cui effetti sono tuttora presenti e influenzano in modo determinante l’andamento degli affari. Nel corso del 2020 i provvedimenti presi a livello federale e cantonale per contrastare il diffondersi del virus, pur impattando in modo importante su alcune divisioni di attività della Cooperativa, non hanno causato nel complesso conseguenze negative nei conti della Cooperativa.

Situazione finanziaria Il cash flow generato pari a 23,8 milioni di franchi ha permesso di finanziare integralmente gli investimenti di complessivi 4,0 milioni di franchi effettuati nell’esercizio, infe-

Valutazione dei rischi La Cooperativa dispone di un processo di gestione dei rischi. Il Comitato di direzione (CD) informa regolarmente il Consiglio di amministrazione (CdA) sulla situazione

riori di 1 milione di franchi rispetto all’anno precedente. La somma di bilancio è aumentata passando da 164,8 a 180,4 milioni di franchi. Nonostante il risultato aziendale di 3,6 milioni di franchi, la quota di capitale proprio è scesa dal 39,6% al 38,2%; tuttavia in valore assoluto il capitale proprio aumenta da 65 a 69 milioni di franchi. Stato delle ordinazioni e dei mandati e attività di ricerca e sviluppo Operando nel commercio al dettaglio la Cooperativa non ha né ordinazioni né mandati rilevanti da commentare e non svolge attività di ricerca e sviluppo.

di rischio dell’impresa. Quest’ultimo assicura che la valutazione dei rischi abbia luogo nei termini opportuni e adeguati. In base a un’analisi sistematica della situazione, CdA e CD hanno identificato i rischi potenziali, valutato le probabilità che si avverino così come le possibili conseguenze finanziarie. Appropriate misure adottate dal CdA permettono di evitare, diminuire o arginare questi rischi. I rischi potenziali che devono essere sopportati dalla Cooperativa vengono costantemente sorvegliati. Durante la verifica annuale della strategia aziendale il CdA considera e valuta adeguatamente i rischi potenziali. Il CdA ha effettuato la valutazione annuale il 2 dicembre 2020. Prospettive L’attuale contesto economico è pesantemente influenzato dalla pandemia in corso. Il rallentamento della crescita della popolazione, il continuo aumento delle superfici di vendita presenti sul territorio e il forte sviluppo registrato in particolare negli ultimi 12 mesi nel commercio online, rendono poco favorevoli le prospettive di mercato, in un contesto di stabilizzazione dell’attuale situazione pandemica e di ritorno verso una normalità. A fronte di queste condizioni quadro, nel corso del 2020 la Cooperativa ha avviato alcune misure importanti con l’obiettivo di rafforzare la sua posizione di mercato.


CONTO ECONOMICO

2020

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

503 485 3 980 507 465

454 282 4 258 458 540

-346 450 -84 422 -52 327 -18 931 5 335

-308 101 -85 013 -50 031 -12 250 3 145

112 -313 5 134

76 -604 2 617

Imposte dirette

-1 511

-1 262

Utile d’esercizio

3 623

1 355

Ricavi netti da forniture e prestazioni Altri ricavi d’esercizio Ricavi operativi Costi delle merci Costi del personale Altri costi d’esercizio Ammortamenti e rettifiche di valore Risultato operativo Ricavi finanziari Costi finanziari Risultato prima delle imposte

(2)

(3) (4) (5)

(6) (6)

ALLEGATO

2019

16. Altre indicazioni Impegni eventuali Nell’ambito delle normali attività commerciali, la Cooperativa Migros Ticino è parte in causa di diverse controversie legali. Sebbene l’esisto di queste controversie non possa essere stimato con un grado di certezza assoluto, la Cooperativa Migros Ticino non ritiene che tali controversie possano avere un impatto significativo sulla sua attività commerciale o sulla sua situazione finanziaria. Per i deflussi finanziari previsti sono stati costituiti degli accantonamenti. Eventi importanti successivi alla data di bilancio Non vi sono stati eventi importanti successivi alla data di bilancio.

ALLEGATO

6 828 950 54 721 18 296 80 795

7 340 961 22 622 19 404 50 328

66 464 15 465 2 493 84 422

66 841 15 621 2 551 85 013

Altri costi d’esercizio Pigioni Manutenzioni e riparazioni Energia e materiali di consumo Pubblicità Spese amministrative Altri costi d’esercizio Totale altri costi d’esercizio

Riporto dall’esercizio precedente Utile d’esercizio Utile a disposizione dei soci Dotazione alla riserva speciale Riporto all’esercizio nuovo

14 305 7 765 9 787 2 349 4 360 13 761 52 327

14 234 5 240 8 475 2 362 4 591 15 129 50 031

SPESE DEL PERCENTO CULTURALE Cultura, sociale ed economia Formazione (Scuola Club) Totale 0,5% della cifra d’affari determinante

1 000 774 97 847 – 99 621

1 000 774 112 721 24 114 519

5.

Ammortamenti e rettifiche di valore Ammortamenti di immobilizzazioni materiali Ammortamenti di immobilizzazioni immateriali Totale ammortamenti e rettifiche di valore

18 907 24 18 931

12 208 42 12 250

180 416

164 847

6.

Ricavi e costi finanziari Ricavi da interessi Ricavi da dividendi Totale ricavi finanziari Costi per interessi Altri costi finanziari Totale costi finanziari Totale ricavi e costi finanziari, netto

89 23 112 -313 – -313 -201

53 23 76 -324 -280 -604 -528

4.

Immobilizzazioni finanziarie Partecipazioni Impianti materiali Investimenti immateriali Totale immobilizzazioni

(7) (8)

(9) (10) (11)

Totale attivi

BILANCIO - PASSIVI

31.12.2020 31.12.2019 (in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

21 553 8 019 6 427 8 381 44 380

12 439 8 350 4 773 8 155 33 717

7.

Mezzi liquidi Mezzi liquidi presso istituti finanziari terzi Mezzi liquidi presso Banca Migros Totale mezzi liquidi

46 000 21 033 67 033

46 000 19 783 65 783

8.

Totale capitale di terzi

111 413

99 500

Capitale sociale Riserve legali da utili Riserve facoltative da utili Utili riportati Utile d’esercizio Totale capitale proprio

1 022 500 55 294 8 564 3 623 69 003

989 500 55 294 7 209 1 355 65 347

9.

180 416

164 847

Debiti per forniture e prestazioni Debiti onerosi a breve termine Altri debiti a breve termine Ratei e risconti passivi Totale capitale di terzi a breve termine Debiti finanziari a lungo termine Accantonamenti a lungo termine Totale capitale di terzi a lungo termine

(12) (13) (14)

(13) (15)

Totale passivi

CONTO DEI FLUSSI DI TESORERIA 2020

2019

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

3 623 18 931 1 250 23 804 -32 087 1 108 10 768

1 355 12 250 1 085 14 690 -5 144 471 -3 561

226 3 819

-328 6 128

-4 034 – -4 034

-4 911 -34 -4 945

Variazione dei debiti finanziari a breve termine Variazione del capitale sociale Deflussi netti da attività finanziarie

-330 33 -297

-70 11 -59

Variazione netta dei mezzi liquidi

-512

1 124

7 340 -512 6 828

6 216 1 124 7 340

Utile d’esercizio Ammortamenti e rettifiche di valore di attivi fissi Variazione degli accantonamenti Cash Flow operativo Variazione dei crediti da forniture e degli altri crediti Variazione delle scorte Variazione dei debiti da forniture e prestazioni e degli altri debiti Variazione dei ratei e risconti passivi Afflussi netti da attività operativa

(5)

Investimenti in immobilizzazioni materiali Investimenti in immobilizzazioni immateriali Deflussi netti da attività d’investimento

Mezzi liquidi al 1. gennaio Variazione netta dei mezzi liquidi Mezzi liquidi al 31 dicembre

(7) (7)

ALLEGATO 1.

2.

Informazioni relative ai principi utilizzati per l’allestimento del conto annuale Il conto annuale è stato allestito conformemente alle prescrizioni della legislazione svizzera, in particolare in base agli articoli del Codice delle obbligazioni relativi alla tenuta della contabilità commerciale e alla presentazione dei conti (art. 957-963b). La cooperativa Migros Ticino non allestisce un conto di gruppo in quanto i suoi conti sono inclusi in quelli della Federazione delle cooperative Migros, che pubblica un conto consolidato in base a una norma contabile riconosciuta (Swiss GAAP FER). La presentazione dei conti esige dall’Amministrazione delle stime e delle valutazioni che possono avere un incidenza sul valore degli attivi e dei debiti, come pure degli impegni eventuali alla data del bilancio, ma anche dei ricavi e dei costi del periodo di riferimento. Se del caso, l’Amministrazione decide, a propria discrezione, l’utilizzo dei margini di manovra legali esistenti in materia di valutazione e iscrizione a bilancio. Per il bene dell’azienda e nel rispetto del principio della prudenza, è possibile procedere ad ammortamenti, correzioni di valore, nonché la costituzione di accantonamenti superiori a quanto il contesto economico richieda. Dal 1. gennaio 2020 Migros Ticino ha modificato il metodo d’ammortamento dei propri cespiti, passando dal calcolo in base al valore contabile a quello basato in base al valore d’acquisto. 2020 2019 Ricavi da forniture e prestazioni Commercio al dettaglio Ristorazione Scuola Club Prestazioni di servizio Totale ricavi da forniture e prestazioni

(in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

478 218 11 710 2 806 10 751 503 485

419 572 18 923 4 265 11 522 454 282

Ü

2020

Costi del personale Stipendi e salari Oneri sociali Altri costi del personale Totale costi del personale

31.12.2020 31.12.2019

Mezzi liquidi Crediti per forniture e prestazioni Altri crediti a breve termine Scorte Totale sostanza circolante

UTILIZZO DELL’UTILE DI BILANCIO

(in 1 000 CHF)

BILANCIO - ATTIVI

(in 1 000 CHF)

2019

(in 1 000 CHF)

3.

(in 1 000 CHF)

2020

31.12.2020 31.12.2019 (in 1 000 CHF)

(in 1 000 CHF)

6 586 242 6 828

6 883 457 7 340

Altri crediti a breve termine Crediti verso imprese del gruppo Crediti verso terzi Totale altri crediti a breve termine

53 959 762 54 721

21 274 1 348 22 622

Immobilizzazioni finanziarie Prestiti a imprese del gruppo Totale immobilizzazioni finanziarie

1 000 1 000

1 000 1 000

3.83% 7.21%

3.83% 7.21%

100.00% 100.00%

100.00% 100.00%

100.00% 100.00%

100.00% 100.00%

11. Immobilizzazioni materiali Terreni e immobili Installazioni tecniche e macchinari Altre immobilizzazioni materiali Costruzioni in corso Totale immobilizzazioni materiali

82 978 12 577 2 195 97 97 847

85 656 24 269 2 763 33 112 721

12. Debiti da forniture e prestazioni Debiti verso imprese del gruppo Debiti verso terzi Totale debiti da forniture e prestazioni

222 21 331 21 553

161 12 278 12 439

13. Debiti onerosi Conti giubilei del personale Altri debiti finanziari verso terzi Debiti finanziari a breve termine Prestiti da società del gruppo Debiti finanziari a lungo termine Totale debiti finanziari

7 963 56 8 019 46 000 46 000 54 019

8 283 67 8 350 46 000 46 000 54 350

10. Partecipazioni Società Federazione delle Cooperative Migros, Zurigo Quota capitale Diritti di voto ACTIV FITNESS TICINO SA, S. Antonino Quota capitale Diritti di voto Mitico Ticino SA, S. Antonino Quota capitale Diritti di voto

La scadenza degli impegni finanziari a lungo termine è la seguente: esigibili da 1 a 5 anni esigibili fra più di 5 anni Totale 14. Ratei e risconti passivi Ricavi Scuola Club Interessi Affitti Altre delimitazioni Totale ratei e risconti passivi 15. Accantonamenti Rendita transitoria AVS Altri accantonamenti Totale accantonamenti

46 000 – 46 000

26 000 20 000 46 000

541 291 1 7 548 8 381

696 290 — 7 169 8 155

2 888 18 145 21 033

2 618 17 165 19 783

Debiti da leasing finanziari e da altri impegni leasing non disdicibili entro un anno Saldo debiti di leasing Impegni per contratti d’affitto Totale debiti di leasing Onorari dell’ufficio di revisione Onorari di revisione Totale onorari di revisione

(in 1 000 CHF)

8 564 3 623 12 187 – 12 187

7 209 1 355 8 564 – 8 564

479 1 973 2 452 2 449

707 1 486 2 193 2 192

RELAZIONE DELL’UFFICIO DI REVISIONE Relazione dell’Ufficio di revisione sul conto annuale In qualità di Ufficio di revisione abbiamo svolto la revisione dell’annesso conto annuale della Società Cooperativa Migros Ticino, costituito da conto economico, bilancio, conto dei flussi di tesoreria e allegato, per l’esercizio chiuso al 31 dicembre 2020. Responsabilità dell’Amministrazione L’Amministrazione è responsabile dell’allestimento del conto annuale in conformità alle disposizioni legali e allo statuto. Questa responsabilità comprende la concezione, l’implementazione e il mantenimento di un sistema di controllo interno relativamente all’allestimento di un conto annuale che sia esente da anomalie significative imputabili a frodi o errori. L’Amministrazione è inoltre responsabile della scelta e dell’applicazione di appropriate norme contabi-li, nonché dell’esecuzione di stime adeguate. Responsabilità dell’Ufficio di revisione La nostra responsabilità consiste nell’esprimere un giudizio sul conto annuale sulla base della nostra revisione. Abbiamo svolto la nostra revisione conformemente alla legge svizzera e agli Standard svizzeri di revisione. Tali standard richiedono di pianificare e svolgere la revisione in maniera tale da ottenere una ragionevole sicurezza che il conto annuale non contenga anomalie significative. Una revisione comprende lo svolgimento di procedure di revisione volte ad ottenere elementi probativi per i valori e le informazioni contenuti nel conto annuale. La scelta delle procedure di revisione compete al giudizio professionale del revisore, inclusa la valutazione dei rischi che il conto annuale contenga anomalie significative imputabili a frodi o errori. Nella valutazione di questi rischi il revisore tiene conto del sistema di controllo interno, nella misura in cui esso è rilevante per l’allestimento del conto annuale, allo scopo di definire le procedure di revisione appropriate alle circostanze, e non per esprimere un giudizio sull’efficacia del sistema di controllo interno. La revisione comprende inoltre la valutazione dell’adeguatezza delle norme contabili adottate, della plausibilità delle stime contabili effettuate, nonché un apprezzamento della presentazione del conto annuale nel suo complesso. Riteniamo che gli elementi probativi da noi ottenuti costituiscano una base sufficiente e appropriata su cui fondare il nostro giudizio. Giudizio di revisione A nostro giudizio, il conto annuale per l’esercizio chiuso al 31 dicembre 2020 è conforme alla legge svizzera e allo statuto. Relazione in base ad altre disposizioni legali Confermiamo di adempiere i requisiti legali relativi all’abilitazione professionale secondo la Legge sui revisori (LSR) e all’indipendenza (art. 906 CO congiuntamente all’art. 728 CO), come pure che non sussiste alcuna fattispecie incom-patibile con la nostra indipendenza. Conformemente all’art. 906 CO, congiuntamente all’art. 728a cpv. 1 cifra 3 CO e allo Standard svizzero di revisione 890, confermiamo l’esistenza di un sistema di controllo interno per l’allestimento del conto annuale, concepito secondo le direttive dell’Amministrazione. Confermiamo inoltre che la proposta d’impiego dell’utile di bilancio è conforme alla legge svizzera e allo statuto e raccomandiamo di approvare il presente conto annuale. PricewaterhouseCoopers SA

16. Altre indicazioni Personale della Cooperativa Migros Ticino Collaboratori fissi Apprendisti Collaboratori a tempo parziale con retribuzione oraria Totale posizioni a tempo pieno

2019

(in 1 000 CHF)

1 006 36 81

1 040 37 58

1 123

1 135

16 105 125 105 141

78 116 905 116 983

22 22

22 22

Informazioni inerenti le riserve latenti Nell’esercizio in corso non sono state sciolte riserve latenti (anno precedente 17.5 milioni).

Ü

Roberto Caccia Perito revisore Revisore responsabile

Roberto Buonomo Perito revisore

Lugano, 25 febbraio 2021

Cooperativa Migros Ticino Via Serrai 1, Casella postale 468, CH-6592 S. Antonino Tel. +41 (0)91 850 81 11 info@migrosticino.ch www.migrosticino.ch

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Ambiente e Benessere Sulla groppa del levriero Nella storia della cultura e della società americana la linea dei Greyhound ha un ruolo unico

Dialogo tra città e natura A colloquio con un architetto paesaggista e un biologo per immaginare la città equilibrata, a misura d’uomo

C’era una volta la foresta La fisionomia della nostra regione nel corso dei millenni è enormemente mutata

pagina 23

pagina 22

Campionesse del curling Le atlete svizzere riportano la medaglia d’oro ai recenti campionati mondiali di Calgary pagina 27

pagina 25

Giorni migliori, nella difficoltà Cure palliative a domicilio La Fondazione

Hospice Ticino, nel ventennale della sua attività, è stata confrontata con l’anno di pandemia

Maria Grazia Buletti «Non abbiamo bisogno di giorni migliori, ma di persone che rendano migliori i nostri giorni, e ci adoperiamo perseguendo sempre questo obiettivo», è la riflessione del direttore della Fondazione Hospice Ticino Omar Vanoni nel definire le cure palliative e nel descrivere il ventaglio di ambiti in cui esse sono prodigate. Concorde con l’infermiera consulente in cure palliative Lorenza Ferrari e la collega Milena Angeloni (ora in pensione e memoria storica del sodalizio), egli ne puntualizza missione e obiettivi: «Le cure palliative (dal latino pallium che significa mantello, coperta) sono atti terapeutici che comprendono cure fisiche, ma pure sostegno psicologico, sociale e spirituale verso persone gravemente ammalate e loro famigliari. Cure che non si contrappongono a quelle che perseguono la guarigione dalla malattia, ma propongono un approccio integrativo e globale alla cura di malattie gravi». Lorenza Ferrari ammette che ancora oggi la percezione della realtà delle cure palliative non è ancora perfettamente chiara e si divide in due differenti forme: «Non si ha sempre una percezione approfondita di ciò che sono e cosa offrono: non ci si è ancora sufficientemente staccati dall’idea che esse siano prodigate attraverso la somministrazione di morfina durante gli ultimi giorni di vita dei pazienti oncologici». Le fa eco Milena Angeloni: «Non è più così da tempo, anche se talvolta pure i professionisti faticano a entrare nella giusta ottica e per alcuni di loro la concezione delle cure palliative è migliore, ma non ancora sufficiente dato che taluni ammettono ancora di ricorrervi troppo tardi, usufruendone quando il paziente è oramai alla fine, mentre ripetiamo che lo spettro di azione ha un raggio molto più ampio e benefico per paziente e famigliari». Lorenza e Milena concordano sul non confondere le cure palliative con le cure alternative, così come sul tatto e

l’empatia che bisogna mettere in campo: «Chi vi si è avvicinato comprende che esiste il tabù della morte, perché è ovvio che stiamo parlando di un periodo della vita che si rivolge alla sua ultima fase. Per questo, la fondamentale sensibilità del paziente e dei suoi famigliari è rispettata: non facciamo nulla che non sia desiderato e se il desiderio è quello di non parlare di certi argomenti, lo esaudiamo». Nel 2020 il sodalizio ha compiuto 20 anni, un traguardo importante durante la pandemia di Coronavirus che ha riportato prepotentemente alla ribalta il nostro rapporto con l’età avanzata, le malattie che la possono accompagnare e il rapporto che la nostra società ha con il tabù della morte. E non c’è neppure stato il tempo per stilare un bilancio del ventennio di attività, né per fermarsi a festeggiare. È però chiaramente emersa l’importanza delle cure palliative che hanno visto incrementare fortemente i bisogni, spiega il neo direttore sanitario dottor Brenno Galli: «Nel 2020 abbiamo curato 627 persone a domicilio a fronte delle 496 del 2019. Sono aumentati pure i decessi a domicilio: 200 nel 2020, 120 nel 2019». Lorenza riassume il nuovo scenario che ha mutato le cure palliative dagli esordi a oggi, vedendo affacciarsi all’orizzonte altre patologie, con il loro carico di bisogni di cure palliative e a domicilio che richiedono una specifica presa in carico di Hospice Ticino: «Pensiamo ai pazienti affetti da patologie neurologiche come la SLA, situazioni molto complesse anche dal profilo relazionale, che si trascinano per anni e non solo con un carico emotivo che va a coinvolgere anche i famigliari». Riflessione a cui si aggancia Milena: «Pensiamo anche ad altre situazioni legate ai problemi cardiocircolatori e respiratori che andrebbero considerati ancor prima che la situazione arrivi a uno stato avanzato. Senza dimenticare le demenze senili, per quanto sia possibile assumersene a casa la cura in sostegno e concomitan-

Da sinistra, Corinne Amrein Negri, Milena Angeloni, Omar Vanoni, Lorenza Ferrari, in un’immagine scattata prima della pandemia. (Stefano Spinelli)

za alla famiglia: il tutto va a completare come dicevamo il quadro di cure palliative oncologiche». Una presa in carico complessa e interdisciplinare evidenziata dal direttore Vanoni che porta ad esempio la collaborazione con alcuni di questi partner del sistema sanitario: «Medici di famiglia, cure domiciliari, fisioterapisti e affini, assistenti sociali e non da ultimo medici ospedalieri». Questa rete vede Hospice come perno e assicura un efficace e competente sostegno ai famigliari curanti, votato all’erogazione di cure palliative adeguate proprio in un momento storico che ha visto la filosofia sociale attraversare l’idea che il domicilio rimane un luogo ancor più da privilegiare per la cura, sebbene talvolta restare a casa potrebbe comportare dei limiti da non sottovalutare, valutati perciò di volta in volta da Hospice. Il dottor Galli ben descrive quest’anno pandemico e i suoi perché, accompagnato da un carico di lavoro e psicologico cui il personale Hospice

ha dovuto fare fronte: «La pandemia di Coronavirus ha aumentato il senso di famiglia, molte famiglie non hanno più voluto portare il proprio anziano all’ospedale (per il rischio di non poterlo più visitare), rinsaldando il senso di appartenenza e occupandosi personalmente dell’anziano e dell’ammalato, scelta che ha portato pure a un aumento di decessi a domicilio. I famigliari hanno voluto rimanere fino all’ultimo accanto al loro caro, richiedendo consulenza e Cure palliative adeguate. È ovvio che per andare incontro a questa richiesta debbano essere dati i presupposti, come la consulenza che Hospice Ticino offre». Inoltre, il dottor Galli non manca di sottolineare che la pandemia ha reso ancora più urgente la necessità di doversi chinare sulle cure palliative anche nelle case per anziani: «Con il Coronavirus, per la prima volta, da noi, la medicina si è dovuta confrontare con l’aspetto etico della redistribuzione delle risorse, mettendoci dinanzi a scelte

difficili ma necessarie che poco c’entravano con la polemica sulle case anziani. Con cure e cure palliative adeguate, si rende superfluo il trasferimento in ospedale dell’anziano che non sempre gli è benefico». A suffragio di questa riflessione egli dice: «Malgrado i presupposti migliori, statisticamente, gli anziani deceduti per Covid in ospedale sono pari a quelli deceduti nelle case per anziani, con la differenza che l’anziano rimasto in sede ha potuto essere curato in un contesto e ambiente a lui familiare e rassicurante, con meno disorientamento e isolamento». A fronte delle difficoltà vissute anche dal personale di Hospice, egli oggi si ripropone di fare tesoro del vissuto, ponendo delle priorità e tornando a offrire anche quei servizi importanti che erano stati ostacolati dal Covid: «Ad esempio le visite ai parenti dopo il lutto e tanto altro ancora, individuando i punti di maggiore sofferenza vissuta e facendo tesoro dell’esperienza per dare spazio a un nuovo inizio».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Ambiente e Benessere

La lunga corsa del levriero

Viaggiatori d’Occidente La pandemia mette in pericolo un’icona del viaggio americano

Camminare per capire e per capirsi Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin Il levriero ha il fiato corto. I leggendari autobus a lunga percorrenza americani Greyhound hanno ricevuto un duro colpo da Covid-19, al pari degli aerei, dei treni e di tutte le forme di trasporto collettivo. Nel 2020 la vendita dei biglietti si è ridotta di tre quarti rispetto al 2019 e gli scarsi aiuti statali bastano appena per sopravvivere. Già prima del resto gli affari non andavano particolarmente bene. La flotta non è più quella degli anni Ottanta e molte rotte sono state tagliate. Nel 2003 la compagnia è inciampata anche in una bancarotta, a causa della concorrenza delle compagnie aeree low cost. Infine nel 2007 è stata acquistata da una società scozzese che l’ha rilanciata, modificando il celebre logo. Pur con tutti i suoi guai Greyhound rimane la più grande compagnia di autobus interurbani del Paese, con oltre 2400 sedi negli Stati Uniti, Canada e Messico. E ci sono anche segni di speranza naturalmente; dopo tutto gli autobus sono tra le forme di viaggio più sostenibili per distanze inferiori a mille miglia. Soprattutto sono una parte incancellabile della storia americana dell’ultimo secolo. Tutto iniziò nel lontano 1913 quando un giovane immigrato svedese, Carl Eric Wickman, aprì una concessionaria a Hibbing, Minnesota, vicino alla più grande miniera di ferro a cielo aperto del mondo. I minatori però non potevano certo permettersi di acquistare un’auto e presto Wickman dovette inventarsi un nuovo mestiere. Cominciò allora a trasportare i lavoratori da Hibbing alla vicina città di Alice, stipandone quindici nella sua auto a otto posti. Dopo questi inizi avventurosi, la sua idea originaria si perfeziona nel 1921, esattamente un secolo fa. In quell’anno viene prodotto il primo autobus degno di questo nome e una legge federale avvia un decisivo miglioramento delle strade (per le leggendarie autostrade americane bisogna invece attendere il 1956). Dopo l’epopea ottocentesca delle costruzioni ferroviarie verso il Far West, il treno passa in secondo piano (solo oggi si parla di rilancio con Biden) e l’inquietudine di un Paese sempre in movimento si riversa on the road. Il nome perfetto per la nuova impresa sbuca fuori da solo: mentre attraversa una cittadina del Wisconsin l’autista Ed Stone vede il riflesso del suo mezzo nella vetrina di un negozio e gli ricorda appunto un levriero. Col tempo il viaggio in autobus

«Tanta acqua è passata sotto ai ponti da quando, circa vent’anni fa, in Italia poco esisteva nel mondo dei cammini, al di fuori dell’itinerario della Via Francigena che scende dal Gran San Bernardo a Roma. Oggi i lunghi itinerari da percorrere a piedi sono cresciuti enormemente di numero… Probabilmente stiamo parlando di una sessantina di cammini di lunghezze molto differenti, alcuni perfettamente segnalati e operativi, altri in via di perfezionamento e infine un certo numero ancora a metà strada tra il progetto e la realtà. Questi numeri dicono però una cosa chiara: l’Italia (più di molte altre nazioni europee) sta diventando una terra d’elezione per gli itinerari a piedi…».

Un pezzo di storia degli States. (Shutterstock)

entra nella cultura popolare, per esempio nelle canzoni, a cominciare da Me and the Devil di Robert Johnson: «Puoi seppellire il mio corpo / a lato dell’autostrada / Baby, non m’interessa dove seppellisci il mio corpo quando sarò morto. / Così il mio vecchio spirito malvagio / potrà prendere un Greyhound e viaggiare». Oppure America di Simon e Garfunkel: «Sull’autobus ridevamo / e giocavamo a fare facce strane. / “Quell’uomo vestito di gabardine è una spia” ha detto lei. / Le ho risposto “Stai attenta, il suo papillon è davvero una macchina fotografica”. / “Passami una sigaretta, ce ne dev’essere una nel mio impermeabile”. / “Abbiamo fumato l’ultima un’ora fa”. / Così io ho guardato il paesaggio, lei ha letto la sua rivista. / E la luna è sorta sopra un campo aperto». Oppure il cinema, con Accadde una notte (1934), diretto da Frank Capra, il primo film a vincere cinque premi Oscar: la viziata ereditiera Ellie Andrews (Claudette Colbert) scappa da Miami per raggiungere New York e sposare un aviatore. Per non farsi trovare dagli uomini sguinzagliati dal padre alla sua ricerca, la ragazza sceglie di viaggiare con un pullman Greyhound; scopre così gli effetti sociali della Grande depressione e trova l’amore vero nel giornalista

Peter Warne (Clark Gable). In quegli stessi anni degli slogan azzeccati costruirono l’immagine della compagnia, celebrando la scoperta del Paese («Ora so come si è sentito Cristoforo Colombo!», «Città ruggenti, pacifiche campagne») e il ritorno a casa («Rolling home»). Nel 1930 la sede principale della Greyhound si trasferisce a Chicago (poi a Phoenix e ora a Dallas) e nuove stazioni in stile Art Deco sorgono ovunque. I nuovi autobus filanti diventano un simbolo di modernità: Super Coach (1939) interamente in metallo, Highway Traveller (1953) con finestrini panoramici, servosterzo, ammortizzatori ad aria e lo Scenic Cruiser (1954), il primo con il bagno a bordo. Negli anni Sessanta il viaggio in autobus incrocia la lotta per i diritti civili. Nel corso del Novecento sei milioni di neri (la Grande Migrazione) si spostarono dalle comunità rurali del sud verso le grandi città del nord e dell’ovest, per lavorare nelle fabbriche e conquistare una vita migliore. Molti di loro utilizzarono proprio i Greyhound. Nel profondo sud però i neri venivano ancora spostati in fondo all’autobus, anche quando questa pratica era ormai vietata. Gli attivisti (Freedom Riders) cominciarono allora a rifiutare la tra-

dizionale separazione a bordo, ma solo dopo violentissimi scontri con i razzisti la collusione delle forze dell’ordine fu vinta, ristabilendo la legge. Poi un lungo declino. Nell’ultimo mezzo secolo il levriero ha sofferto anche di un problema di immagine. Nel Paese dell’auto per tutti e dell’aereo l’autobus sembrava a molti un modo di viaggiare per poveri e marginali. The Hound è diventato Dirty Dog, come si diceva abitualmente senza troppo girarci attorno: gente al verde, autobus sgradevoli, autisti maleducati, terminal cadenti. Ognuno aveva una storia di Crazy Greyhound da raccontare, tra verità e leggenda metropolitana. Ma proprio allora Greyhound è riuscita a rilanciarsi, rinnovando la flotta, le stazioni, le uniformi e il personale. I passeggeri dei Greyhound da sempre sono una fotografia della società americana: democratici e repubblicani, camionisti che tornano a casa dopo un viaggio di sola andata, giovani contadini che lasciano una casa rurale, ex carcerati in cerca di nuovi inizi… Mancano solo i ricchi. Sull’autobus, sia pure per qualche ora, sono uno accanto all’altro, tutti guardano gli stessi paesaggi scorrere nel finestrino: «Tutti partiti per cercare l’America» (Simon e Garfunkel).

Le nuove parole d’ordine del viaggio in questi tempi tormentati − distanza, solitudine, silenzio – hanno portato a una riscoperta dei cammini. Il nostro Paese (65’000 chilometri di sentieri segnalati, informazioni su www.myswitzerland. com) e il nostro Cantone offrono molte possibilità, ma presto o tardi la curiosità o il desiderio di più vasti orizzonti vi spingeranno ad affacciarvi nella vicina penisola. In quel momento questo nuovo manuale del nostro collaboratore Fabrizio Ardito vi tornerà utile. Infatti i cammini italiani sono assai diversi tra loro. Per esempio in un territorio solcato da due catene montuose, Alpi e Appennini, i dislivelli possono essere molto faticosi, specie per chi è ai primi passi, ma ci sono anche facili cammini padani dove il solo rischio è un poco di noia. Soprattutto sono diverse le esperienze possibili: percorrere le vie romane, la Francigena o altri cammini storici, oppure misurarsi con la spiritualità di santi ed eremiti o ancora ricalcare le orme di personaggi famosi. In ogni caso questa guida aiuta a orientarsi, a misurare le forze, a capire i propri interessi, declinando in tutti i modi possibili la bellezza del cammino, di ogni cammino. / CV Bibliografia

Fabrizio Ardito, A ciascuno il suo cammino. Scegliere un viaggio a piedi in Italia, Ediciclo, pp. 192, € 14.50.

Vitiligine e alimentazione Laura Botticelli Buongiorno Laura, mi hanno appena diagnosticato la vitiligine, è iniziato con una macchia bianca alla mano, poi ne sono arrivate altre e ho quindi deciso di andare dal mio medico che mi ha indirizzata a un dermatologo e da lì la diagnosi. Volevo sapere se esiste una dieta che mi possa aiutare in un qualsiasi modo magari a bloccare la malattia? Oppure ripigmentare la pelle? Non ne faccio troppo un dramma, non è una malattia grave, dove rischio la vita, ma se posso comunque fare di più, se c’è qualche alimento che mi può comunque aiutare un pochino gliene sarei grata. La ringrazio e saluto per una cortese risposta / Sarah Buongiorno Sarah, la ringrazio per la domanda, mi sono documentata in merito e spero di poterla aiutare

in un qualche modo. Prima di risponderle però desidero dare qualche informazione anche ai lettori che non conoscono la malattia. La vitiligine è una malattia genetica autoimmune della pelle che causa una perdita di pigmentazione delle aree della stessa. Le malattie autoimmuni sono caratterizzate dal fatto che il sistema immunitario del corpo attacca le proprie cellule o il proprio tessuto: in questo caso i melanociti (le cellule del pigmento che danno alla pelle il suo colore). Normalmente i globuli bianchi e gli anticorpi del sistema immunitario aiutano a proteggere il corpo da sostanze nocive, chiamate antigeni, che possono essere derivati per esempio da virus, batteri o tossine. In una malattia autoimmune, il sistema immunitario inizia erroneamente ad attaccare il proprio tessuto corporeo sano. Gli scienziati ritengono che, nella

maggior parte delle persone con malattie autoimmuni, il sistema immunitario sia fondamentalmente normale al di fuori dell’attacco autoimmune. Pertanto, si ritiene che le persone con vitiligine generalizzata abbiano un sistema immunitario altrimenti sano, ad eccezione della risposta immunitaria specifica ai melanociti. Nella vitiligine la pelle quindi presenta macchie bianche su varie parti del corpo che tendono ad espandersi nel tempo. La vitiligine è apparentemente causata dall’eredità di più geni causali contemporaneamente, possibilmente in diverse combinazioni in persone diverse, oltre all’esposizione a fattori di rischio ambientale o trigger che non sono ancora noti. Purtroppo, al momento, non esiste una «dieta per la vitiligine» che sia ben supportata dai dati scientifici. Poiché si tratta di una malattia autoimmune

è importante seguire una dieta sana, variata ed equilibrata che aiuta a sostenere il sistema immunitario. Le verdure sono molto valide, così come la frutta tipo mele e banane. Gli agrumi possono causare problemi ad alcune persone, ma non ad altre. La curcuma, un tipo di curry, ha causato problemi ad alcune persone, quindi si potrebbe considerare di limitarne o evitarne l’uso. Le persone con vitiligine possono essere carenti di alcune vitamine e sali minerali come B12, acido folico e zinco. Per reintegrare naturalmente i possibili deficit di nutrienti, provi a mangiare cibi che ne sono ricchi. La vitamina B12 si trova nella carne, nei latticini, nel pesce e nei crostacei. Il folato, la forma naturale dell’acido folico, si trova nella frutta fresca e secca, nei semi, nei legumi secchi, nei cereali integrali (più ricchi miglio e quinoa) e nelle alghe. Lo zinco può essere trovato in carne di manzo,

Vrfoundation.org

La nutrizionista Esiste una dieta specifica indicata per questa malattia?

crostacei, noci e legumi. Se desidera assumere qualsiasi integratore è sempre meglio rivolgersi prima al proprio medico. Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Ambiente e Benessere

Il paesaggio urbano selvatico

Intervista A colloquio con l’architetto paesaggista Sophie Ambroise e il biologo botanico Nicola Schoenenberger

per parlare della relazione tra uomo, città e mondo vegetale

Valentina Grignoli Non cessa mai di affascinare il rapporto, la convivenza, la simbiosi a volte, tra mondo vegetale ed essere umano. Dal romanticismo tedesco, che toglie la Natura da quel ruolo di «oggetto» nel quale era stata relegata da Galileo in poi, in molti si sono chinati sull’importanza di un dialogo alla pari, una rivalutazione e riabilitazione del mondo naturale che ci circonda all’interno della società e dell’urbanizzazione. Parliamo qui non solo della questione del rispetto, ma di quel dialogo necessario tra le parti, dell’anelito umano verso un mondo naturale inteso come rifugio, scuola e libertà. Un contatto nel corso degli ultimi decenni favorito anche da un nuovo tipo di urbanesimo molto più sensibile al mondo vegetale. In tempi odierni – durante i quali, va per lo meno accennato, il mondo naturale si è riappropriato degli spazi che l’uomo ha lasciato liberi causa di forza maggiore, o meglio pandemica – e alle nostre latitudini, una nuova occasione di riflessione su questo argomento è data dal LAC di Lugano, all’interno della sua rassegna Lingua Madre. Si tratta di Estado vegetal, opera della cilena Manuela Infante riadattata sotto forma di installazione sonora da Cristina Galbiati, che va a indagare proprio la logica antropocentrica proponendone un cambio di prospettiva. Un’installazione sonora scaricabile dal sito del LAC (https://www.luganolac. ch/lingua-madre) e ascoltabile in diversi luoghi naturali della città di Lugano. Questo appuntamento ha attirato la nostra attenzione perché introdotto da una conversazione tra due professionisti luganesi che negli anni stanno tentando – riuscendoci – di riportare il mondo selvatico tra gli spazi verdi e blu addomesticati della città: l’architetto paesaggista Sophie Ambroise e il biologo botanico Nicola Schoenenberger. Li abbiamo quindi incontrati per farci raccontare come botanica e architettura possono convivere oggi nelle nostre città.

Come descriverebbe il rapporto tra essere umano e mondo vegetale, Nicola Schoenenberger?

Spesso e volentieri nella nostra società si considera il mondo vegetale un mondo fatto di oggetti, quasi inanimato. Faccio un esempio: si crede che l’albero vada gestito, quindi si può spostare, lo si abbatte e lo si sostituisce. Ma in realtà stiamo parlando di un mondo vivente. La pianta è estremamente sensibile, e l’errore è proiettarvi la nostra visione, la nostra natura animale, perché è una forma di vita completamente diversa. Estremamente complessa tra l’altro, anche molto più dell’essere animale. L’essere umano ha infatti 25’000 geni, mentre la quercia che vediamo qui di fronte ne ha 100’000: deve fare tantissime cose! Se fossimo un po’ più umili e tentassimo di capire con curiosità qualcosa di diverso faremmo un grande passo.

Sophie Ambroise, quali sono quindi le alternative possibili per un maggiore equilibrio tra questi due mondi?

Frequentarci, assiduamente! Non vedere da un lato la città e dall’altra il selvatico. Ci sono tantissimi gradienti tra il mondo selvatico e quello antropizzato e sono quelli del vivere sulla terra. Sapendo di avere un limite comune tutti quanti, umani, vegetali e animali: la biosfera. Questa frequentazione quotidiana dovrebbe renderci più empatici, comprensivi, tolleranti. Concretamente, a livello svizzero, è quello che ci si pone anche con la legge sulla nuova densificazione e lo sviluppo centripeto di qualità, della quale si è parlato molto negli ultimi mesi. Una legge dove si auspica che all’interno di città sempre più dense uno degli scopi sia fare approdare la natura, senza espellerla continuamente mangiando sempre più territorio. Il fatto di includere in dense urbanizzazioni ambienti naturali molto forti significa non più considerare la città come una rivincita sulla natura, ma piuttosto installarsi dolcemente su di essa. Città geografiche, città paesaggio quindi, con maglie verdi e blu (laghi e fiumi). Dobbiamo stare attenti a non fragi-

lizzare il paesaggio, ma reinstallarci, creare urbanità, rispettando le nuove geografie. Questo ci permetterà di guardare la natura con grande rispetto, perché parte del nostro quotidiano, e non più esistente solo all’esterno. Questo succede anche nelle città della Svizzera italiana? Prendiamo Lugano…

Sì, il gesto della Foce del Cassarate, per esempio. Ridà un senso alla nuova Lugano che si sviluppa ormai lungo il meraviglioso asse fluviale, diventato baricentro della città, con tutte le attività pubbliche situate lungo questo asse: l’università, il liceo, il lido, il teatro, l’ospedale, Cornaredo. Tanti poli della vita urbana che vanno ad ancorarsi al Cassarate, facendo ridiventare l’acqua un elemento che unisce e non dal quale proteggersi, una vera linfa del corpo insomma. La Foce rifonda la città contemporanea, e poter pensare che il cuore della città è uno spazio vivo che include tantissime specie di flora e di fauna e tantissime emotività nuove nei comportamenti e nelle delle persone… trovo che sia magico. Nicola Schoenenberger, oltre al progetto della Foce, di cui Sophie si è occupata, ci sono altri esempi concreti?

La questione della natura negli ambienti urbani, questa sensibilità, non riguarda secondo me dei singoli progetti, ma è come un layer, uno strato, che deve essere applicato su qualsiasi attività della città. Un discorso di fondo soggiacente, un criterio di base che si declinerà in varie forme. I processi naturali particolarmente visibili alla foce agiscono anche in altre zone della città: il selciato del centro, il tetto piatto non gestito per anni, il cantiere che sta lì per una stagione. Viene colonizzato, da qualcosa di effimero.

A livello urbanistico cosa significa, secondo voi?

Nella nuova urbanità dobbiamo cercare di creare degli spazi, dei luoghi, che accolgano la vita. Installare le dinamiche, a breve o lungo termine. È una questione di sguardo: si pensa che il prato verde falciato regolarmente

La Foce del Cassarate, un riuscito esempio urbanistico. (officinadelpaesaggio)

sia natura, ma non è così! Non c’è una dinamica vegetale, è di una grande povertà di vita. Io credo che sia una questione di cambio di sguardo; capire che dietro ambienti in apparenza non così curati, si nascondano grandi potenzialità di vita. Spesso c’è questo malinteso estetico: la foglia per terra è brutta, se rinsecchita ancora peggio. Ma se lasci un angolo del parco fiorire liberamente, è uno scenario meraviglioso, bellissimo.

Quindi c’è del lavoro da fare a livello educativo, culturale, Sophie Ambroise?

Sì, la cultura! Non presentare l’ambiente per quello che è ma per quel che evoca, che porta con sé a livello di emozioni e di storia. Questo si chiama paesaggio, ed è la sua mediazione che permetterà all’uomo di tornare in contatto con la natura. Dopo l’esperienza della Foce, io mi dico andiamo avanti, continuiamo a trasformare le rive in luoghi dove la popolazione si possa identificare, dove

grazie alla natura ci sia una mediazione tra la città sempre più densa e il quotidiano. Qui a volte si fa un po’ fatica. Ci sono tante premesse, ma bisognerebbe anche farsi coraggio e osare. E nel resto della Svizzera italiana?

A Bellinzona sta accadendo qualcosa di meraviglioso. Come zona test del progetto Parco Saleggi-Boschetti abbiamo iniziato a intervenire in tre punti, Torretta, scuole e piscine. Abbiamo allargato il fiume Ticino creando nuove anse accessibili e fruibili dalla popolazione. La gente ha improvvisamente scoperto di avere un fiume! Sono interventi che rispetto a quello che danno necessitano di investimenti relativamente bassi, va detto. Se guardiamo i quadri di Turner, lo capiamo. Lui si metteva vicino al fiume Ticino e in mezzo ai movimenti dell’acqua disegnava i castelli di Bellinzona. Si situava nel cuore del fiume. Oggi dovremmo recuperare l’energia di rimetterci nel cuore degli elementi naturali e ripensare la città a partire da lì.

L’orto? Sì, ma bio!

Mondoverde Per proteggere le proprie colture possono essere usati anche prodotti naturali non inquinanti Anita Negretti Il sostantivo femminile «coerenza» indica la conformità tra le proprie convinzioni e l’agire pratico. Credo sia tra le azioni più difficili da portare a termine ogni giorno ed anche nel giardinaggio non è facile coltivare le piante rispettando la natura, non solo per l’uso di sostanze chimiche, ma già nella scelta del terreno, del concime, dei vasi di plastica e delle borse in cui vengono vendute le piante.

L’ortica può essere un ottimo insetticida e concime. (Wikipedia)

Ancora più attenzione bisognerebbe prestarne all’orto: dovremmo infatti sempre tenere a mente la frase di Ludwig Feuerbach, il filosofo tedesco che sosteneva «siamo ciò che mangiamo» (der Mensch ist was er isst). La gioia di raccogliere insalate croccanti, rossi pomodori, gustosi spinaci e tante altre buone verdure direttamente dal proprio orto, deve essere accompagnata da una buona conoscenza delle malattie a cui questi vegetali possono esser soggetti e quali rimedi biologici vi sono in commercio, per evitare di mangiare piante allevate nella chimica, compromettendo anche la vita degli insetti utili. I prodotti biologici hanno origine naturale e si possono acquistare già pronti all’uso o crearseli in autonomia, come ad esempio il macerato di ortica, il decotto o macerato di aglio e il sapone di Marsiglia, tre ottimi insetticidi. L’ortica nelle sue foglie orticanti contiene acido formico e salicilico; con un chilo di parte verde dell’ortica macerata in dieci litri di acqua piovana in due giorni otterremo un insetticida potente (anche se poco profumato) contro afidi e cocciniglia, mentre se terremo le foglie in acqua per dieci o quindici giorni otterremo un fertilizzante liquido ricco di azoto, magnesio e ferro.

Se ortiche, aglio e sapone di Marsiglia sono rimedi che già utilizzate, vi consiglio l’olio di neem, un insetticida che non disturba l’uomo e non uccide gli insetti utili, come api e coccinelle e viene estratto da un albero sempreverde originario di India e Birmania, Azadiracta indica. Chiamata nei suoi luoghi di origine «farmacia del villaggio» per i suoi tanti benefici usi, produce semi contenenti azadirachtin-A, che spremuti danno origine all’olio di neem, un insetticida fotosensibile (va spruzzato nelle ore serali) con azione repellente e fagodeterrente (allontana gli insetti ed evita che mordano le foglie delle verdure) attivo contro afidi, dorifora, nottue, nematodi, coleotteri, cocciniglie, ragnetto rosso ed anche contro le fastidiose zanzare. Sempre come insetticida, si trovano in vendita i Bacillus thuringensis, un ottimo larvicida contro i bruchi di cavolaia ed altri lepidotteri, e il piretro, composto da utilizzare con attenzione: non essendo selettivo, uccide anche gli insetti utili. Un altro prodotto comparso da pochi anni è spinosad, che ha un’azione insetticida e biocida ad ampio spettro e deriva dal prodotto del metabolismo di colture artificiali di alcuni batteri. Per le piante da frutto, agrumi

compresi, è consigliabile utilizzare il classico olio bianco minerale, ottimo contro la cocciniglia. Una volta diluito in acqua e spruzzato abbondantemente sulle piante, crea una copertura su rami, foglie e tronco, soffocando sia gli insetti adulti di cocciniglia e ragnetto rosso, sia le loro uova, evitando così l’insorgere di malattie. Viene utilizzato all’inizio della primavera ed in autunno, tenendo conto che ha un periodo di carenza di 20 giorni. Tra i fungicidi biologici ad azione preventiva e curativa troviamo lo zolfo, utile per la difesa dall’oidio o mal bianco, in quanto questa sostanza penetra all’interno della membrana delle spore del fungo, facendone uscire l’acqua e portandolo alla disidratazione. Lo zolfo va però utilizzato con temperature superiori ai 10°C (anche se i nuovi preparati di zolfo bagnabile riescono ad agire a basse temperature) ed è impiegato, oltre che contro il mal bianco, anche per evitare monilia e botrite. Un capitolo a sé è invece legato all’uso del rame (il così chiamato verderame), che può provocare problemi al terreno se utilizzato in maniera eccessiva. La poltiglia bordolese è un prodotto a base di rame, come fungicida di contatto ed ha un’azione preventiva:

la si può preparare anche in casa utilizzando solfato di rame (CuSO4), calce viva (ossido di calcio CaO) e acqua; in base alle proporzioni dei primi due elementi si otterrà una soluzione acida (fitotossica), basica o neutra (da preferire). Una ricetta facile per ottenere una poltiglia bordolese neutra, consiste nel miscelare bene in 10 litri di acqua, 50 grammi di solfato di rame e 50 grammi di calce idrata agricola, il tutto da utilizzare nelle ore successive alla preparazione, irrorando completamente pianta e terreno vicino al colletto. È da evitare l’uso della poltiglia durante la fioritura, poiché è tossica per il polline e io la consiglio in fase preventiva su siepi, agrumi, rose e fruttifere in inverno (da novembre fino a marzo), mentre per l’orto in primavera ed estate. Infine, per chi ama coinvolgere i propri bambini nell’orto, suggerisco di utilizzare un rimedio semplice, economico e non inquinante: l’aceto. Usato puro, può essere un valido diserbante, diluito in acqua diventa un fungicida (1 cucchiaio di aceto ogni 2 litri di acqua) ed anche un repellente di chiocciole, lumache e formiche, mentre l’uso di aceto di mele, sempre diluito in acqua (2 cucchiai in 3 litri di acqua), sarà un ottimo fertilizzante per le piante in vaso.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Ambiente e Benessere

Il Lago d’Orbello

Itinerari Un’escursione al laghetto generato dalla frana del Motto d’Arbino, nel 1928

Romano Venziani Non so se il ricordo sia veramente genuino o se il passare degli anni ne abbia scombussolato i pezzi, per poi lasciarlo sedimentare nella versione che mi è stata consegnata. Fatto sta che la Tita Fusi, oggi novantaquattrenne, mi ha raccontato che suo padre, il Genzi, un paio di giorni prima era salito con un collega sui monti di Ruscada per controllare la tubazione dell’acqua delle Officine di Bellinzona, il cui flusso era di molto diminuito. La trovarono spaccata in tre punti. Si era fatto tardi e i due decisero di dormire lassù, in una cascina. Il Genzi racconterà poi che, durante la notte, fu un susseguirsi di tonfi inquietanti, di scricchiolii, di rumori di sassi che rotolano. Il mattino seguente, cercarono di convincere le ultime due persone rimaste sui monti, una vecchia capraia e suo figlio, ad andarsene da quel posto. Non era stato facile persuaderli. Con le belle e calde giornate, che un’estate eccezionale aveva lasciato in eredità a quell’inizio d’autunno, avrebbero voluto rimanersene nella loro baita, almeno fino a quando il vento del nord non avesse portato loro il profumo della prima neve. Per finire si erano decisi a scendere al piano, lasciando lì le capre. D’altronde non erano sole, pare che in quel momento ce ne fossero più di duecento sparse su quei monti. Pochi giorni dopo, quello che gli esperti prevedevano da alcuni anni era successo. Il 2 ottobre 1928, alle 15 e 25, dopo la lunga serie di piccole frane delle settimane precedenti, all’improvviso il reticolo di crepacci, che da tempo si dilatava sfregiando un’ampia parte del pendio settentrionale del Motto d’Arbino, a millequattrocento metri di quota, si era aperto in un’unica immensa voragine e la montagna si era messa in moto, sprigionando dalle sue profondità un cupo boato, che era rimbalzato da un versante all’altro della Valle di Arbedo, piombando come una valanga sul paese e la sua gente, che da giorni viveva con il cuore in gola. Una vasta porzione del Motto d’Arbino, tra la Val Taglio e la Val Pium, due laterali della sponda sinistra della Traversagna, era scivolata verso il basso trascinando con sé il bosco di faggi, la strada militare che saliva verso il Gesero e le sedici cascine dei monti di Chiara, Monda e Ruscada, cancellati per sempre dalla carta geografica. «Una visione spaventevole si parò ai nostri occhi. Vedemmo il “Sasso Marcio”, monte boscoso in parte, muoversi dalla cima alla base, sgretolarsi, sfasciarsi e cadere con grande fragore. Vedemmo i dossi laterali del monte stesso scendere, sdrucciolare a grandi strati con alberi isolati e anche zone di bosco intiere, per poi scomporsi più in

basso e mescolarsi col terriccio e coi macigni. Uno strano rombo e scricchiolio di alberi e radici che si spaccavano accompagnava il terrificante spettacolo». Così raccontò l’accaduto al «Popolo e Libertà»1 uno degli operai delle Officine saliti a riparare la conduttura dell’acqua e riusciti a fuggire un attimo prima dello scoscendimento. Il materiale franato, oltre sessanta milioni di metri cubi di terra, sassi e legname, aveva riempito la valle sottostante, lasciando un’immane cicatrice sul versante della montagna, come se un gigantesco essere infernale ne avesse staccato un grosso boccone con un morso. La si vide solo il giorno seguente, la ferita, animata da un incessante rotolare di macigni, perché fino a sera inoltrata tutta la valle era stata invasa da una fitta cortina di polvere. Se li ricordava anche mia madre, allora giovinetta, il tremendo boato e quel fantasma bianco, che si era levato contro il cielo riversandosi sui boschi, i prati e le case del paese. Stava tornando dalla vendemmia (all’epoca era di almeno un paio di settimane più tardiva di adesso) in una vigna che la famiglia coltivava accanto alle cave di Castione, ed era corsa a casa spaventata. Nei giorni seguenti furono in molti a salire sul versante opposto della montagna per vedere con i propri occhi quello che era successo: il sindaco Brunetti, gli ingegneri che da anni tenevano il fenomeno sotto controllo, agenti di polizia, giornalisti e parecchi curiosi. Intanto, nella valle di Arbedo, un vasto lago si era formato dietro lo sbarramento, alto una sessantina di metri, creato dalla frana, e per un lungo periodo resterà motivo di preoccupazione. Il Motto d’Arbino tratteneva ancora una mole impressionante di materiale, ben superiore a quello franato, la cui caduta avrebbe potuto provocarne la tracimazione. Poi, con il passare del tempo, la paura è andata via via scemando, la gente si è abituata alla presenza del lago, apprezzato dai pescatori, e la ferita del Motto d’Arbino si è pian piano rimarginata, vestendosi di boschi. Dapprima si sono fatte vive le specie pioniere, i timidi salici selvatici e le betulle, che hanno colonizzato gli anfratti tra i macigni, poi, sono spuntate le più tenaci conifere, i larici, gli abeti bianchi e rossi, che ne sono diventate le essenze egemoni. Ora, tutta l’ampia area della frana è una riserva forestale, mentre la montagna, il cui scoscendimento in quell’ottobre del 1928 aveva fatto impazzire i sismografi di Zurigo come se si fosse trattato di un violento terremoto, è sempre inquieta, di tanto in tanto perde pezzi, ed esibisce a futura memoria una lunga cicatrice indelebile sul lato che scende nella val Taglio e altri segni di franamenti recenti verso quella d’Arbedo.

Il percorso in un disegno di Romano Venziani. Su www.azione.ch una galleria fotografica dei luoghi percorsi.

Non ci salivo da un po’, al lago d’Orbello. Qualcuno mi aveva detto che la sua presenza si era fatta più discreta, la vegetazione cresciuta tutt’attorno l’aveva stretto in un caloroso abbraccio e la Traversagna, con il suo incessante fluire, ne stava colmando il fondale di sedimenti, contendendolo alle trote. E così oggi sono voluto tornare a fargli visita. Il sentiero, lasciato Arbedo, si alza contorcendosi sul versante destro della valle attraverso la selva castanile, di tanto in tanto incrocia la strada forestale per il Gesero, che ha sostituito la vecchia carrabile militare distrutta dalla frana. Dopo un’ora e mezza di cammino, compaiono le due cascine del monte Orbello, oltre le quali il viottolo scende, abbassandosi di un centinaio di metri, fino a raggiungere il lago, che già s’intravvede là sotto oltre la cortina di alberi ancora semispogli. Prima di avviarmi, mi soffermo a decifrare sul lato opposto della valle i segni ancora visibili del grande scoscendimento. Se ne può stimare chiaramente la vastità, grazie al bosco di conifere che lo ricopre, ben distinto dalle faggete tutt’attorno. Tre lunghe colate di detriti testimoniano di altrettanti franamenti recenti, mentre della congerie di massi caduti nel 1928 si vedono appena alcuni grossi macigni, che sovrastano le chiome degli alberi. Apparivano così già una ventina di anni fa, quando me li aveva indicati il Fridolino Fenazzi, che mi aveva accompagnato a Orbello per raccontar-

Il Lago d’Orbello – Itinerario Partenza: Arbedo (290 msm) Il sentiero, ad Arbedo, parte in Via alle cascine, vicino al ponte Traversagna, sulla sponda destra del fiume. È segnalato in bianco rosso e da un cartello giallo. Chi volesse guadagnare qualche metro, può iniziare il percorso in cima a Via Aragno (330 msm), dove parte una stradina, che porta all’acquedotto comunale in località I Cassìnn (chiusa da una barriera). Il sentiero sale nel bosco, incrociando la strada per il Gesero in alcuni punti. Sopra La Gra dal Guèrsc, si prosegue sulla carrozzabile per alcune centinaia di metri e poi si riprende il sentiero, che dopo un po’ sbuca vicino al monte di Orbello.

Orbello: ( 779 msm) Si attraversa Orbello, passando tra le due cascine, da lì il percorso inizia la discesa verso il lago, dapprima con una leggera pendenza, poi, sotto una parete rocciosa (da dove si gode una bella vista sul lago), scende in modo più deciso. Arrivati a Motto del Torno, un cartello di legno indica il sentiero, piuttosto ripido, che porta al lago. Arrivo: Laghetto d’Orbello (725 msm) Dislivello: ca. 500 metri. Lunghezza totale del percorso: ca. 8 km Tempo di percorrenza per la salita: poco più di 2 ore. Difficoltà: T2.

Il percorso non presenta difficoltà particolari, si tratta comunque di un sentiero di montagna, per cui si devono indossare scarpe adatte. Tra l’andata e il ritorno l’escursione è piuttosto lunga. Chi volesse accorciarla, può salire in auto fino al monte di Orbello e da lì, in pochi minuti scendere al lago. La strada è chiusa da una barriera, che può essere aperta inserendo Fr. 5.– in monete nell’apposita cassa. Ricordarsi che la stessa somma dovrà essere «sborsata» anche al ritorno. Per i più allenati, da Motto del Torno, un altro largo sentiero entra nella valle per poi salire attraverso un bel bosco di faggi fino ai Monti di Cò (ulteriori 300 metri di salita).

mi ciò che ricordava di un’altra storia, quella del Big Swing, la Grande altalena, il bombardiere americano venuto a schiantarsi nel cuore della frana, di cui avevo poi ricostruito la vicenda in tre documentari per la RSI. È il 7 febbraio 1945. L’ultimo lungo inverno di guerra sta lentamente scivolando via e di lì a pochi mesi si potrà finalmente mettere la parola fine al secondo conflitto mondiale. Intanto sul fronte italiano gli Alleati stanno incalzando le truppe nazifasciste, che a poco poco si ritirano verso nord. La nostra gente, toccata solo indirettamente dal conflitto, ma profondamente provata da sei anni di guerra, vive momenti di angoscia. Si combatte ormai a ridosso dei nostri confini, dove giungono ondate successive di profughi e di sbandati, e quel 7 febbraio del ’45, The Big Swing, un bombardiere B25 americano, partito dalla base di Solenzara, in Corsica, dopo aver sganciato il suo carico di bombe nel Trentino, colpito dalla contraerea, fugge con un’ala squarciata, entrando nel nostro spazio aereo. Sorvola il piano di Magadino e il Bellinzonese, per poi andare a schiantarsi in valle di Arbedo. I sei membri dell’equipaggio si salvano gettandosi con il paracadute. Il primo a lanciarsi è Max, Maxwell J. Lasskow, che atterra su un mucchio di letame a Sant’Antonino. Avrò il piacere di incontrarlo cinquant’anni dopo, nel 2005, grazie alle ricerche di una coppia di appassionati dell’aviazione, Manuela e Christian Gloor, che hanno approfondito l’argomento2 e invitato in Ticino Max, meccanico e mitragliere della torretta superiore, il più giovane dei membri dell’equipaggio (nel 1945 aveva appena vent’anni) e uno dei pochi ancora in vita. L’ultimo a lasciare l’aereo è invece Evo J. Petruzzi, operatore radio e mitragliere laterale, che si paracaduta poco prima dell’impatto. Ed è proprio lui, che Fridolino e suo cugino trovano il giorno seguente, in mezzo alla neve, poco sotto i monti della Taiada. «Mio cugino, mi fa, guarda c’è un uomo laggiù» racconta. «Mi giro e lo vedo, aveva una pistola. Mi dico, adesso che cosa faccio? Allora mi sono avvicinato e quando gli sono arrivato a due passi, si è alzato e mi ha abbracciato». È un lungo e toccante racconto, quello che mi ha confidato con emozione Fridolino, evocando l’incontro con l’Americano riconoscente, rincuorato dallo scoprire di essere finito in Svizzera. L’abbiamo portato sul monte,

dove c’era la polizia che l’ha preso in consegna per condurlo alle Pretoriali, ma lui ha voluto che lo accompagnassi anch’io. Fridolino era poi tornato con il cugino sul luogo dell’impatto. C’erano rottami dell’aereo sparsi ovunque, incastrati tra i sassi della frana. Loro hanno preso una ruota. L’abbiamo fatta rotolare fin giù al lago e poi portata a casa. Ma l’indomani, i militari gliela confischeranno. Peccato, con la fatica che avevamo fatto. Negli anni seguenti, ci fu un bel daffare per la gente del luogo, impegnata in una sorta di corsa all’oro, per impossessarsi di un ricordo del Big Swing, il bombardiere venuto da lontano a schiantarsi sulla montagna alimentando leggenda e fantasia. C’erano rimasti ben pochi resti, infatti, sulla frana, quando ci sono salito, alla fine degli anni Novanta, guidato da Guido Baggi e Mario Bolgiani, che ne conoscevano ogni anfratto fin da bambini. Se non sei pratico, rischi di rimanerci in eterno, avevo pensato, vedendo quell’intrico di alberi cresciuti alla rinfusa, tronchi spezzati, garbugli di rovi artigliati ai massi, che si erano impossessati del posto rendendolo quasi impenetrabile. Qua e là, tra quella confusione, spuntavano frammenti di alluminio, pezzi di metallo fuso, brandelli di uno strano tessuto incastonato di piastrine d’acciaio. Sono parte della corazza della carlinga. Mi spiegò Guido. Prendevamo a sassate i vetri, ma non si spaccavano, perché era plexiglas, poi c’erano i cuscinetti sigillati, le viti a stella... Tutte cose che all’epoca nessuno aveva mai visto qui da noi. In quell’ultimo scorcio del conflitto, la gente del paese si era trovata così tra le mani materiali sconosciuti e promesse di nuove e misteriose tecnologie. In poche parole, il loro futuro. Intanto sono arrivato al lago. Sembra quasi impossibile, che una frana abbia creato un luogo così bucolico, specchio di boschi e di montagne spruzzate di neve, sfarfallii di sole sull’acqua appena increspata e un paio di pescatori sonnacchiosi in attesa di un guizzare di trote. Note

1. Cfr. «Popolo e Libertà», 9 ottobre 1928, pag.2. 2. Christian & Manuela Gloor, The Big Swing, il bombardiere d’Arbedo, Cureglia 2011 (Edizione e distribuzione in proprio degli autori).


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Ambiente e Benessere

Una giungla ticinese a portata di mano Biodiversità Alla Ciossa Antognini, tra Gudo e Cadenazzo, si sono conservati preziosi aspetti naturali

dell’antica foresta padana

Alessandro Focarile Dapprima era il disordine (naturale). Un continuo manto forestale occupava il fondovalle, e il fiume (il Ticino) si sbizzarriva con una infinità di meandri, di ghirigori, di lanche. E alvei in permanente divagazione si spostavano assecondando ed esprimendo il gioco, mai uguale, delle correnti. E poi arrivò l’uomo, circa 7mila anni or sono, e decise che per sopravvivere doveva porre mano al caos che lo circondava. Un po’ alla volta, il bosco ridotto a più miti consigli con tagli e incendi. E da elemento egemone del paesaggio, vide le sue superfici sempre più limitate e tra loro isolate, configurando lentamente il territorio qual è oggi ai nostri occhi. Sono occorsi lunghi decenni, tante energie e sacrifici umani, e tanti soldi per fare cambiare volto alla piana di Bellinzona-Magadino. E, alla fine, l’uomo ha dominato: un fitto reticolo viario, la ferrovia, insediamenti urbani, serre, capannoni, depositi diversi hanno ridefinito le superfici e il loro utilizzo. Non si è conservato molto tra Biasca e Lumino a monte, e il Lago Maggiore a valle, lungo il fiume Ticino e il Moesa. Il grande e continuo bosco di farnie (querce), tigli, olmi, frassini, pioppi, salici, a seconda della falda freatica più o meno prossima alla superficie, che occupava tutto il fondovalle, è stato progressivamente «rosicchiato», ridotto a piccoli lembi per lo più isolati e relitti, immersi in terre utilizzate da un’agricoltura più o meno intensiva, oppure completamente distrutto da vecchia data. Da Lumino al Lago Maggiore sono però tuttora conservati alcuni preziosi e interessanti resti relitti dell’antica foresta padana, che penetrava più o

Migusto La ricetta della settimana

Aglio orsino in un bosco. (Phil Champion)

meno profondamente fino a una certa quota nel cuore delle Alpi. Attualmente si trovano fino ai boschi di ontani e salici nella conca di Faido in Leventina, e alle selve di rovere fino a Mesocco nella Mesolcina… A Lumino, a Sementina, a Gudo, alla Ciossa Antognini, fino agli ultimi aggregati arborei attestati nel comprensorio delle Bolle di Magadino. Questa preziosa area è stata dichiarata protetta a livello internazionale, dopo non poche battaglie, a causa dei numerosi e conflittuali problemi di gestione aggravati per il ricorrente ritorno di imponenti esondazioni del Lago Maggiore (fino a 4 metri sul normale piano di campagna) che sconvolgono periodicamente il territorio. Sottoponendo il manto vegetale e il popolamento ani-

male a un incessante (e non sempre positivo) dinamismo. A qualche chilometro a monte, e al di fuori dell’argine insommergibile costruito lungo il fiume Ticino, si estende un comprensorio boschivo di grande interesse naturalistico e ambientale: la Ciossa Antognini, tra Gudo e Cadenazzo. Questo luogo, insperatamente risparmiato tra il fiume, campi di ravizzone ed estese coltivazioni di granoturco, costituisce uno dei rari (nel Cantone Ticino) lembi, relitti della foresta padana a latifoglie che ricopriva gli ambienti ripariali e golenali dal Friuli al Piemonte lungo i grandi fiumi: Po, Ticino, Adda, Sesia, e Adige. Alla Ciossa Antognini possiamo osservare e ammirare un ricco serba-

Uno spezzatino Ossobuco al finocchio d’agnello speciale Piatto principale

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

toio di biodiversità, vocabolo alla moda che definisce (senza nulla aggiungere) il vecchio concetto di diversità biologica, noto da più 200 anni. Sono pochi ettari di bosco, di chiarie, di impaludamenti alimentati dalla falda freatica del vicino fiume Ticino. Ma quanta ricchezza di fauna minuta e di flora racchiuse in uno spazio relativamente ristretto! Una serie di ricerche, condotte in tutte le stagioni, ha permesso di censire finora circa 500 specie di coleotteri e imenotteri, e circa 150 specie di vegetali superiori: dagli alberi alle erbe, senza contare funghi, licheni e alghe, e per non parlare delle numerose specie di felci. Il calendario della Natura inizia con la vistosa fioritura dell’aglio selvatico (Allium ursinum), che ricopre con

Ingredienti per 84 persone: persone: 1800 cipolla g di spezzatino · 2 spicchi d’aglio d’agnello, · 1 finocchio ad esempio · 300spalla g di sedano · sale · ·pepe 8 ossibuchi · 2 cucchiai di vitello, d’oliodi di ca. colza 300HOLL g · sale· 4· pepe spicchi · 8d’aglio cucchiai · 2d’olio cipolled’oliva grosse· ·48dlpomodori di fondo bruno secchi sott’olio · 4 dl di sugo · ½ cucchiaio di pomodoro di farina · qualche · 4 dlfoglia di brodo d´alloro di manzo · 500 g ·di50riso g diper olive risotto nere· 2snocciolate dl di vino ·bianco 4 fette ·di1,3 prosciutto l di brodo. crudo · 2 cipollotti · 1 limone.

1. Scaldate Condite illaforno carnea 180 con°C. saleTritate e pepe la cipolla. e rosolatela Tagliate benel’aglio nell’olio a fettine. in una Mettete padella. da parte Dimezzate i ciuffetti l’aglio, verdi tritate del finocchio. grossolanamente Tagliateleil cipolle. finocchio Aggiungete e il sedanoaglio, a dadini. cipolle Pere evitare pomodori chealla gli carne, ossibuchi spolverizzate si pieghinocon durante la farina la rosolatura, e bagnate con incidete il brodo. 2-3 Mettete volte la membrana il coperchiointorno e stufatealla a fuoco carne.medio-basso Condite la carne per circa con 50 saleminuti. e pepe.Lasciate Scaldateillacopermetà dell’olio chio leggermente in una brasiera. aperto per Rosolate permettere gli ossibuchi al vaporeper di ca. fuoriuscire 5 minuti.dalla Aggiungete padella, in la cipolla, modo che l’aglio, il liquido il sedano si riduca. e il finocchio e fateli rosolare brevemente. Unite il fondo, il 2.sugo Tagliate e le le foglie olived’alloro e i cipollotti e mettete a rondelle il coperchio. sottili, Stufate il prosciutto in forno a dadini. per ca.Ricavate 1,5 ore. Togliete delle listarelle il coperchio dalla scorza e continuate del limone. la cottura Mescolate per 1 ora, tutto. finché la carne risulta bella tenera. 3. Spremete Togliete la metà gli ossibuchi del limone. alla Condite salsa, salate lo spezzatino e pepate.con il succo di limone, sale 2. e pepe Circae distribuite 30 minuti la prima gramolata di servire, sulla tostate carne. il riso nell’olio rimasto. Sfumatelo con il vino. Aggiungete il brodo poco alla volta e fate sobbollire il riso per ca. 20 minuti finché il riso cremoso ancora al dente. ossibuchi concon la Un piatto gustoso cheè può esserema accompagnato con Servite pasta o gli semplicemente salsa e ilpane. risotto. Guarnite con i ciuffetti verdi del finocchio. fette di Preparazione: circa 20 2 ore minuti; e 50 minuti. brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: persona: circa 47 60ggdidiproteine, proteine, 2722 g dig grassi, di grassi, 13 g58 di carboidrati, g di carboidrati, 690

520 kcal/2900 kcal/2150 kJ. kJ.

un tappeto continuo estesi settori del bosco. In altre plaghe è rimpiazzato, a causa delle differenti qualità del terreno, da estesi tappeti di equiseti (code di cavallo), vegetali primitivi ascritti alle felci. Questi, ospitano alcuni insetti coleotteri e imenotteri tentredinidi (vespe primitive prive del pungiglione) di elevato interesse biogeografico, trattandosi di specie a diffusione boreale, molto rare a sud delle Alpi. Con l’avanzare della stagione, la chioma degli alberi favorisce la penombra; altre piante erbacee meno esigenti di luce diversificano gli strati inferiori di vegetazione, e si delinea l’organizzazione della vita vegetale e animale su più strati: muscinale ed erbaceo, arbustivo, arboreo. Tutti in funzione della disponibilità di luce e quindi di calore. Ogni biostrato alberga popolazioni di organismi più o meno specializzati e particolari, come quelli che vivono sotto le cortecce degli alberi abbattuti, e la ricca, di specie e di individui, fauna legata ai vegetali (i fitofagi), e con complicate catene alimentari composte in sequenza da utilizzatori primari, demolitori, parassiti, predatori. A una fiorente ed esuberante primavera seguono i mesi estivi, caratterizzati da un caldo umido debilitante, con molte zanzare. L’autunno, con il fiammeggiare dei pioppi, e con la sua ricchezza di colori mai uguale, giustifica una passeggiata alla Ciossa Antognini. E ritorna, infine, l’inverno. Anche durante questa stagione, il bosco ha il suo fascino quando, si dice, la Natura sonnecchi. Aria tersa e immobile durante lunghi periodi. Cristalli di brina e arabeschi di ghiaccio sull’acqua immobile delle paludi, uno spettacolo da ammirare e fotografare, e quadri irripetibili e fugaci da non perdere.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Ambiente e Benessere

Le maestre delle «curling stones»

Sport Nato in Scozia, esportato con successo in Canada, il curling, negli ultimi anni, è un affare rossocrociato

Giancarlo Dionisio Bisogna essere forti in aritmetica per contare gli innumerevoli titoli conquistati dal Canada nel curling, soprattutto in campo maschile. Fra le donne invece è la Svizzera a dettare legge. E lo sta facendo in mondo sempre più perentorio. Nel 1979 si disputò il primo Campionato Mondiale riservato alle Signore. E subito fu un Team elvetico ad imporsi. La medaglia d’oro tornò al collo delle nostre ragazze 4 anni più tardi. Ma la prima vera Star di questa disciplina, capace di catturare per ore l’attenzione dei telespettatori, fu Miriam Ott. La 49enne bernese che vive a Laax, da 7 anni è una ex giocatrice. Tra il 2002 ed il 2012 ha imposto il suo carisma e la sua sagacia tattica alla scena nazionale e internazionale. Argento ai Giochi olimpici di Salt Lake City nel 2002. Di nuovo sul secondo gradino del podio 4 anni più tardi a Torino, Mirjam è stata la prima donna della storia del Curling capace di conquistare 2 medaglie olimpiche. Regina degli Europei, con 9 medaglie, 2 delle quali d’oro, ha dovuto però attendere qualche anno per vincere il suo primo e unico titolo mondiale, nel 2012 a Lethbridge, in Canada. Ha fatto scuola, Mirjam Ott. Con lei aveva debuttato in Nazionale Binia FeltscherBeeli, capitana della squadra svizzera campionessa del mondo nel 2014 e nel 2016. Inoltre di quel Team iridato del 2012, faceva parte pure Alina Pätz, che il Mondiale lo ha conquistato, in qualità di giovanissima Skipp, nel 2016. Da

Da sinistra, Melanie Barbezat, Silvana Tirinzoni, Alina Paetz, Esther Neuenschwander, vincitrici del titolo mondiale 2021 a Calgary. (Shutterstock)

allora è stato un continuo turbinio di venti all’interno dei nostri confini, con unioni, separazioni, alleanze e strenue battaglie per conquistare il diritto di rappresentare la Nazione ai grandi appuntamenti internazionali. A spuntarla è stata Silvana Tirinzoni, 41enne di Dielsdorf, capace di attendere il suo momento per imporre la sua legge: la legge della più forte. Anche Alina Pätz ha dovuto inchinarsi, ed entrare nel Team della sua più anziana ex rivale. Operazione saggia. Il binomio Tirinzoni-Pätz, con l’aggiunta di Esther Neuenschwander e

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch 1 2 3 4 5

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questo stesso team del Curling Club Aarau a tingersi dell’iride, mentre lo scorso anno, a farla da padrone, è stato, come per altre numerose manifestazioni, il subdolo Covid 19. Nato in Scozia nel 1541, attestato per la prima volta nero su bianco, nel 1620, nella prefazione in versi di una poesia di Henri Adamson, il curling sta quindi diventando una questione nazionale elvetica, se consideriamo che anche il Team maschile, lo scorso mese di aprile, se l’è cavata piuttosto bene, conquistando la medaglia di bronzo ai Mondiali di Calgary, preceduto dai Pa-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Da alcune ricerche scientifiche, pare che il profumo del… Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 9, 8, 2, 7)

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di Mélanie Barbezat, ha dominato il Campionato Mondiale che si è concluso 8 giorni fa a Calgary. Un percorso straordinario, quello del quartetto rossocrociato, macchiato da una sola sconfitta in 15 partite, con una finalissima conquistata con un successo devastante contro le fortissime statunitensi. Nell’atto conclusivo, opposte alle russe, Silvana Tirinzoni e compagne, hanno disputato una saggia gara di controllo. Senza strafare, senza rischiare. Il 4 a 2 finale consegna loro l’ottavo titolo della storia, il secondo consecutivo. Sì, perché 2 anni fa fu

dri fondatori della disciplina, gli scozzesi, e dai fortissimi svedesi. Dopo il successo in Canada, Silvana Tirinzoni e compagne torneranno alla loro quotidianità, fatta di allenamenti, ben inteso, ma anche di lavoro, poiché di solo curling non si vive. La skipp si dedicherà alle sue mansioni di Project Management Officer per Banca Migros. Mélanie Barbezat varcherà, dopo parecchie settimane di assenza, la soglia dello studio fisioterapico in cui lavora. Esther Neuenschwander, tornerà a fare i conti per i suoi clienti. Alina Pätz volgerà le sue attenzioni agli atleti di cui è manager. Una boccata di ossigeno per il mondo dello sport in cui tutto sembra dover essere misurato a suon di milioni. Chissà se è per questa ragione che il pubblico televisivo apprezza? O forse perché il Curling, dalle nostre parti, viene recepito come una partita di bocce giocata sul ghiaccio? O forse ancora perché strategia, tattica, perizia tecnica, colpi di spazzola hanno un effetto magico, quasi ipnotico. O forse, semplicemente, perché sulla casacca delle 4 Campionesse mondiali, campeggia una croce bianca in campo rosso? Chissà? Di certo si sa che fra circa 9 mesi, in molti, saremo lì, magari in piena notte, o il mattino alla buonora, a vibrare per Silvana, Aline, Esther e Mélanie, A spazzolare con loro, a spingere, a frenare, a correggere traiettorie, a scegliere quella giusta che conduce all’oro olimpico di Tokyo. È il controverso destino dei protagonisti dei cosiddetti sport minori. Eroi per un giorno.

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno 6 pervenire 7 8 9 fatto la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 13

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ORIZZONTALI 1.UnfamosoFiorello 7.Siusaperevitareripetizioni 8.DiedeinatalialVasari(sigla) 9.Lapiùpiccolaunitàdidatinelcomputer 10.Artefrancese 11.Duevocali 12.UnWalterattore 13.Muliniinglesi... 17.Angustopassomontano 18.Partedell’intestinotenue 19.LaLeviMontalcini 21.Loziod’America 22.Canaleorganico 23.Pronomepersonale 24.IlcampionedituffiRinaldi(Iniz.) 25. Quantodetto 26.Unfiorevioletto 28.Èvietatocalpestarla 29.Penisoladell’Asiaorientale VERTICALI 1. Un frutto 2. Fratello del rancore 3. Una partita in terra rossa 4. Le iniziali dell’attrice Mastronardi 5. Misura lineare inglese 6. Vicino al casale 10.2Luogo di apprendimento 1 3 4 5 12. È un pubblico ufficiale 6 7 13. Composta da elementi diversi 814. Felici, contenti 9 15.10Modulo lunare 11 16. Articolo 12 13 16 17 17. In molti cocktail 14 15 19. Rischia di andare dentro... 18 19 20 21 20. Parte... danneggiata da un24reato 22 23 22. Dà inizio alla gara 25 26 27 28 23. Aggettivo possessivo 2925. Centilitro in breve 30 27. Le iniziali dell’attore Redford

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Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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A L C P E E R B

O S A R I O D E M A R I T A R T O N U D O Resto della frase: CENTONOVANTA LITRI DI LIQUIDI. A 5 6 7 P AG C EO N L T 8 2 3 O N E F O R RI N I V TA N AA L 4 1 9 3 5 8 ET A NAL LI ASI E NI I MT R EO 6 4 2 7 9 1 U N T I D A I L I O I R I S 2 7 6 Q U I V A R I O D U L C DOO T RE N EDI EL AOI 91 83 45 E L O I S A luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Politica e Economia «Una situazione orribile» Dai centri di detenzione libici, dove si vive l’inferno, ai barconi che affondano nel Mediterraneo

Dove la guerra continua Le truppe occidentali si ritirano dall’Afghanistan lasciando il Paese in mano agli integralisti e al terrore

«Ci stanno ammazzando» In Colombia non cessano le proteste contro il governo e neanche la brutale repressione

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Parla Cassis Un anno difficile per il consigliere federale ticinese, fra Coronavirus, rapporti con l’Ue e con la Cina pagina 35

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Joe Biden come Xi Jinping

Confronti Il presidente Usa e il leader cinese

hanno più di una cosa in comune. Dal fatto di governare Nazioni segnate da forti diseguaglianze alla volontà di piegare i giganti del digitale

Federico Rampini Tento un esercizio che non è di moda: cercare tutto ciò che unisce Joe Biden e Xi Jinping, anziché dividerli. Non mi riferisco alle cose più ovvie, che avete sentito ripetere con fastidiosa retorica: che l’emergenza ambientale e climatica è una sfida comune, così come la necessità di trovare risposte globali alle pandemie del futuro. Neppure voglio alludere al fatto che sia la Cina sia l’America sono già uscite dalla crisi economica dei lockdown, una crisi molto più breve e molto meno distruttiva di quanto si credesse un anno fa. Ci sono altri temi, più antichi e più durevoli della pandemia, che avvicinano i due leader delle superpotenze rivali. Sia Biden che Xi governano Nazioni segnate da forti diseguaglianze. Quelle americane si sono allargate dagli anni Ottanta in poi, e questo rimanda alla ricetta neoliberista che si affermò ai tempi di Ronald Reagan. Quel presidente repubblicano fu l’alfiere di una rinascita del capitalismo. Restituì libertà agli «spiriti animali» del capitalismo, riducendo il prelievo fiscale sulle imprese e sui ricchi, allentando le regole e il potere dei sindacati. L’idea era che «quando arriva l’alta marea alza tutte le imbarcazioni, gli yacht dei miliardari e i pescherecci». Cioè, una crescita forte aumenta le dimensioni della torta (la ricchezza nazionale) ed è meno importante redistribuire la torta cambiando le quote destinate ai ricchi e ai meno ricchi. La metafora piacque a Deng Xiaoping, l’artefice della transizione della Cina dal comunismo maoista al capitalismo. La marea si è alzata, la torta cinese è cresciuta, la questione delle diseguaglianze è stata accantonata visto che tutti stanno meglio rispetto al passato. Biden è convinto che quel modello sia entrato in crisi all’epoca dello schianto finanziario del 2008. La sterzata a sinistra del partito democratico ebbe inizio allora, con un movimento come Occupy Wall Street e l’emergere sulla scena di nuovi politici come Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez oppure la riscoperta di un vecchio socialista come Bernie Sanders. Biden non viene da quell’ala radicale ma la

sua memoria storica affonda le radici in un’America più equa, quella degli anni Sessanta. Vuole rilanciare il modello socialdemocratico di Franklin Roosevelt con il New Deal. Varando una manovra di spesa pubblica redistributiva ha cominciato a redistribuire le fette della torta. Gli sta andando bene perché nel post-covid gli Stati uniti hanno imboccato una crescita col turbo. Vedremo se riuscirà a continuare su questa strada, quando sarà il momento di impugnare l’arma fiscale. Il tema delle diseguaglianze in Cina è altrettanto esplosivo. I segnali di insofferenza della classe operaia cinese non sono inferiori a quelli che nel Midwest degli Usa portarono all’elezione di Donald Trump. E poi c’è la questione degli immigrati. Questa è meno comprensibile per noi occidentali, perché la Cina non ha un’immigrazione straniera. Ha una massa d’immigrati tutti cinesi. È il popolo transeunte che dalle campagne va a lavorare nelle fabbriche, verso le zone industrializzate, sulle fasce costiere da Pechino-Tianjin a Shanghai, da Guangzhou a Shenzhen. Sono cinesi eppure sono cittadini di serie B. Un sistema rigido di residenza anagrafica li priva degli stessi diritti che hanno i cittadini delle metropoli: la scuola pubblica per i figli, la sanità. Quel sistema spezza le famiglie: gli operai venuti dalle zone rurali devono lasciare i propri figli nelle campagne. E sono esposti ai ricatti dei datori di lavoro visto che sono dei «clandestini in patria». Xi Jinping ha dichiarato vittoria nella guerra alla povertà ma non può dire altrettanto sulle diseguaglianze. Osserva una rinascita dell’ideologia maoista tra alcune fasce della popolazione. La cavalca, come Biden si appoggia su Sanders. Ma la Cina urbana non vedrebbe di buon occhio una riforma radicale che liberalizzi completamente i movimenti di popolazione. Joe Biden ha deciso di mantenere chiuse le frontiere col Messico, con la scusa del Coronavirus. Xi riabilita Mao ma per adesso mantiene il «muro invisibile» dei diritti fra campagne e città. L’invecchiamento demografico potrebbe costringerlo a mosse più audaci, anche se lui osserva il modello del

Joe Biden ha due ragioni per invidiare Xi Jinping: la durata del mandato e la coesione nazionale. (Keystone)

Giappone, dove denatalità e spopolamento sono stati affrontati senza aprire all’immigrazione, bensì puntando sulla robotica. Un altro tema comune è lo strapotere di Big tech. La Cina si è accorta che uno dei suoi colossi digitali, il gruppo Alibaba-Ant-Alipay, gestisce grazie ad una app su smartphone pagamenti e prestiti e investimenti superiori al Pil della Cina. Una superbanca più grande di tutte le banche è germinata da una rivoluzione tecnologica, spiazzando il Governo. Ora Pechino riprende l’iniziativa, lo Stato vuole piegare alla propria volontà i miliardari del digitale, impone nuovi limiti e nuove regole. Biden ha lo stesso problema, dopo una pandemia che ha segnato il trionfo di Big tech, il predominio soverchiante di Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft. Piegare questi poteri forti è meno facile per un presidente demo-

cratico, visto che l’establishment digitale lo ha aiutato a vincere le elezioni. L’avanguardia dell’antitrust si sposta da Washington a Pechino? Sulla lotta all’emergenza climatica i due hanno esattamente lo stesso bisogno: convincere i propri cittadini che l’ambientalismo crea posti di lavoro, non «decrescita infelice». Biden rivaluta, proprio come Xi Jinping, il ruolo dello Stato nell’economia. La Cina ha aperto la strada, mettendo al centro delle sue strategie le grandi imprese pubbliche. Biden non ha più imprese pubbliche ma riscopre la «politica industriale» a base di sussidi, aiuti, incentivi, investimenti pubblici nelle tecnologie del futuro. Il presidente americano ha due ragioni per «invidiare» il suo omologo cinese, anche se non potrà mai ammetterlo. La prima è la durata. Xi lanciò il suo progetto di «primato mondiale nel-

le tecnologie avanzate» quando arrivò al potere nel 2012. Sarà ancora al potere dieci anni dopo, e forse molto più a lungo, per portare a compimento quel piano. Biden fra un anno e mezzo affronta il verdetto delle urne e potrebbe perdere la maggioranza al Congresso. L’altra ragione d’invidia è perfino più sostanziale. Xi Jinping usa il nazionalismo come collante, per spronare i cinesi alla coesione. Una maggioranza dei suoi cittadini lo approva e lo segue su quel terreno, soprattutto nel ceppo etnico maggioritario degli Han. Joe Biden governa una nazione lacerata. Quasi mezza America (repubblicana) lo considera un usurpatore. Nell’altra metà c’è chi pensa che l’America sia l’Impero del male, una Nazione segnata «geneticamente» dal razzismo, dal sessismo, dalle discriminazioni contro le minoranze, oltre che da un passato imperialista.


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Politica e Economia

L’orrore libico e le stragi in mare Confini Si preannuncia ancora un’estate calda sul fronte della migrazione verso l’Europa. Gli operatori umanitari

denunciano: migliaia di persone riportate in Libia scompaiono o vengono detenute in condizioni disumane Francesca Mannocchi Ad aprile, mentre la comunità internazionale celebrava la «nuova Libia» e il Governo di unità nazionale di Abdul Hamid Dbeibeh, nei centri di detenzione della capitale libica si continuava a morire. L’8 aprile un migrante è stato ucciso e altri due giovani detenuti – entrambi minorenni – sono rimasti feriti a seguito di una sparatoria nel centro di detenzione di al Mabani a Tripoli. Le condizioni di vita nella struttura sono definite con una sola parola – «orribili» – dai pochi operatori umanitari a cui è consentito l’accesso nelle prigioni controllate dal Ministero dell’interno libico. Beatrice Lau è la capa missione di Medici senza frontiere nel Paese nordafricano, la prima espressione che usa quando la incontriamo nella sede dell’organizzazione a Tripoli, pochi giorni dopo i tragici eventi, è «la situazione è intollerabile». Non è la prima denuncia dell’organizzazione internazionale, probabilmente e tragicamente non sarà l’ultima. «Nell’ultimo periodo stiamo assistendo all’apertura di nuovi centri di detenzione e alla riapertura di alcuni siti che erano stati chiusi in precedenza», osserva Lau. «Questo fenomeno è ovviamente legato al numero di persone intercettate dalla Guardia costiera li-

Tra i migranti che sbarcano in Europa uno su cinque è un bambino, afferma l’Unicef. (Keystone)

bica, finanziata dall’Europa, e riportate indietro». Medici senza frontiere è una delle poche organizzazioni che riesce ad avere accesso ai centri di detenzione

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continuando, da anni, a denunciarne le condizioni, a descrivere luoghi sovraffollati, come il centro di al Mabani dove le celle arrivano a contenere anche 200250 persone. Nelle settimane dell’incidente il centro di detenzione, con una capienza massima di 400 persone, ne conteneva invece 1’500. «È un fenomeno che abbiamo osservato con attenzione durante gli ultimi due mesi», riprende la nostra interlocutrice. «Le condizioni nelle celle sono ormai al limite della vivibilità. Adesso ci sono circa tre persone per metro quadrato in questo centro. Non c’è abbastanza cibo, né sufficiente acqua. Non ci sono bagni per tutti, non ci sono quasi aperture nelle celle per far entrare l’aria e la ventilazione è minima. È tutto orribile, davvero orribile. Molti dormono vicino alle latrine perché è l’unico posto da cui possono vedere un po’ di luce naturale. Le persone detenute vivono in uno stato di prigionia del tutto arbitrario, senza sapere se e quando usciranno di lì». Torniamo all’8 aprile. Quello di al Mabani non è il primo caso di rivolta in un centro. Secondo quanto riportato da testimoni presenti quel giorno, la tensione si è fatta molto alta: un gruppo di detenuti ha cominciato a picchiarsi e sono stati sparati dei colpi che hanno ucciso una persona e ferito due diciassettenni. «Non è il primo incidente simile e purtroppo non sarà l’ultimo», sostiene Lau. «Solo nel mese di febbraio il team di Medici senza frontiere ha curato 36 detenuti per ossa rotte, traumi, lesioni agli occhi, ferite da arma da fuoco e problemi agli arti in vari centri di detenzione». Ora diamo uno sguardo al di là del mare. I numeri parlano chiaro. Sono già oltre 13 mila i migranti sbarcati sulle coste italiane quest’anno, circa il triplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, secondo il Ministero dell’interno italiano, e più di 7 mila le persone migranti intercettate nel Mediterraneo dai mezzi della Guardia costiera di Tripoli e riportate indietro nello stesso periodo, con un aumento significativo nelle ultime settimane. Se è vero che i numeri parlano chiaro e le partenze dalle coste libiche sono in aumento, è altrettanto vero che i conti non tornano. Federico Soda, capo missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, riassume così la situazione a terra: «In Libia al momento ci sono 17 centri ufficiali gestiti dal Governo, con una popolazione di circa 4 mila uni-

tà, ma le persone riportate indietro dalla Guardia costiera libica sono molte di più. Lo scorso anno, a fronte di 12 mila migranti intercettati e riportati a Tripoli, nei centri il numero di detenuti non ha mai superato i 4 mila. Significa che migliaia di persone, una volta sbarcate spariscono dai radar, e noi non possiamo fare nulla per sapere dove siano finite. Ecco perché continuiamo con forza a ribadire che la Libia non è stata, non è e non sarà un porto sicuro».

Nel centro di al Mabani ci sono circa tre persone per metro quadrato, non c’è abbastanza cibo e la ventilazione è minima La situazione descritta da Soda, e con lui dalle altre organizzazioni umanitarie e dalle agenzie delle Nazioni unite, è il rischio che una volta recuperati in mare e rimandati a Tripoli, i migranti tornino a essere esposti a un ciclo di sfruttamento, abusi e torture che nessun ente internazionale è in grado di monitorare. «È esattamente da questa situazione di abuso e sfruttamento che i migranti fuggono. Sanno bene che tornare in Libia equivale al rischio di essere ricattati e picchiati. Di più, significa rischiare la vita», conclude Soda, che prevede un’estate ad alta tensione. I dati lo confermano. Nei soli due giorni a cavallo tra il 30 aprile e il 1. maggio in poche ore sono state rimpatriate in Libia 700 persone. E non sono solo i numeri dei recuperi a preoccupare, ma anche – forse soprattutto – i numeri delle persone che nel Mediterraneo continuano a perdere la vita. Nell’ultima settimana il conto dei morti sembrava un bollettino di guerra: lunedì scorso dieci corpi sono stati ritrovati lungo una riva della Libia occidentale, due giorni dopo 30 corpi sono stati rinvenuti intorno a Garabulli, uno dei tratti di costa maggiormente interessati dal traffico di esseri umani, il giorno ancora successivo una barca che trasportava 65 migranti si è capovolta lasciando almeno 25 persone senza vita. Numeri che vanno ad aggiungersi al tragico naufragio di fine aprile in cui sono morte 130 persone che cercavano di raggiungere le coste dell’Europa. «La più grande perdita di vite umane registrata nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno», secondo un

comunicato congiunto di Oim e Agenzia Onu per i rifugiati. Anche l’Unicef, l’agenzia che si occupa del benessere dei bambini, consegna dati allarmanti. Tra i migranti che sbarcano in Europa uno su cinque è un bambino. Sarebbero 66 mila i rifugiati e migranti minorenni che si trovano attualmente in Libia, più di mille vivono nei centri di detenzione, spesso soli senza avere alcun contatto né alcuna notizia dei propri familiari. «I bambini e i ragazzi che vivono in stato di detenzione sono tagliati fuori dall’istruzione, dall’assistenza sanitaria e sono alla mercé dei trafficanti. È sempre più diffusa la violenza e lo sfruttamento lavorativo a danno dei bambini», si legge nella dichiarazione di Unicef che ha esortato le autorità libiche a rilasciare tutti i bambini e porre fine alla detenzione per i migranti. L’estate che si profila rischia di essere un’estate molto faticosa, non solo perché come ogni anno il bel tempo favorisce le condizioni per partire ma anche perché – come è spesso accaduto in momenti di svolta politica in Libia – le partenze di barconi e gommoni sono un modo per fare pressione sull’Europa. Europa che stenta a trovare un accordo per il ricollocamento di migranti e rifugiati, e che è chiamata a discutere, il 24 e 25 maggio prossimi durante il Consiglio europeo, anche di soluzioni di medio e lungo periodo sul fenomeno migratorio. Mario Draghi, presidente del Consiglio italiano – che guida il Paese europeo più esposto agli sbarchi – chiederà alle istituzioni europee una maggiore attenzione per le sorti del Mediterraneo e una manifestazione di solidarietà da parte degli Stati membri, espressa attraverso una ridistribuzione dei migranti come previsto dagli accordi degli ultimi anni che sono stati però più volte disattesi. La prospettiva, dicono dal gabinetto Draghi, non è quella di creare un accordo sul modello di quello stretto nel 2016 tra Europa e Turchia – soldi in cambio del controllo della frontiera e della gestione dei migranti – ma recuperare e riattivare gli accordi di solidarietà decisi a Malta nel 2019 che coinvolgevano Italia, Malta, Germania e Francia. Accordi che sono stati sospesi dall’emergenza Covid. Intanto, mentre l’Europa stenta a manifestare solidarietà e gestire corridoi umanitari e ricollocamenti, si continua a morire. Nel Mediterraneo centrale così come nei centri di detenzione libici.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Politica e Economia Che cosa ne sarà del Paese dopo il disimpegno occidentale? A lato una veduta di Kabul. (Keystone)

Nel futuro di Kabul la pace del terrore L’analisi Le truppe occidentali si ritirano

lasciando il Paese in mano ai fondamentalisti

Francesca Marino

Un campo di battaglia Corsi e ricorsi Crocevia strategico, l’Afghanistan è caratterizzato

da una forte instabilità fin dai tempi di Alessandro Magno

Alfredo Venturi Il ritiro delle nostre truppe procede regolarmente, dice il portavoce del Pentagono. Certo non manca una certa tensione: i soldati americani lasciano l’Afghanistan con le armi cariche. Bombardieri strategici basati in Qatar e la portaerei Eisenhower che incrocia nel Mare Arabico sono in stato di allerta. È il sofferto epilogo di un capitolo di storia, si concluderà l’11 settembre, ventesimo anniversario dell’attacco agli Stati uniti che fu il detonatore del conflitto. Quel giorno tutti i reparti americani e alleati avranno ripreso la via di casa. Aveva voluto il ritiro l’ex presidente Donald Trump negoziando a Doha l’intesa con le parti afgane, lo ha confermato, sia pure allungando i tempi, il nuovo presidente Joe Biden. Finisce così la guerra più lunga, vent’anni appunto, che mai gli Stati uniti abbiano combattuto nei due secoli e mezzo della loro esistenza.

Gli afgani tra Otto e Novecento devono vedersela con Gran Bretagna, Russia e le tante fratture interne Le truppe occidentali abbandonano un Afghanistan profondamente diviso. Le forze di sicurezza locali, addestrate dai consiglieri della Nato, cercheranno di garantire equilibri delicatissimi, in un Paese che oggi come ieri è attraversato da drammatiche turbolenze, con l’estremismo islamico che punta alla resa dei conti. La guerra che si conclude s’iscrive in una tradizione che vede l’Afghanistan alle prese con due fattori cronici d’instabilità. Da una parte una posizione geografica che fa di questa terra un crocevia strategico e dunque suscita gli appetiti di potenze vicine e lontane. Dall’altra una incessante rissosità interna, dovuta alla frammentazione tribale ma anche al perenne contrasto fra le aspirazioni al progresso civile, sociale e un conservatorismo a base religiosa che spesso assume caratteri oscurantisti. Ecco perché in quel pezzo di mondo si combatte da sempre. Fin dai tempi di Alessandro Magno e della spettacolare incursione macedone nel cuore dell’Asia. Quarto secolo prima di Cristo, Alessandro ha sconfitto l’impero persiano e ora porta l’armata vittorio-

sa verso oriente. La superiorità del suo esercito permette una rapida avanzata. Arriva a Samarcanda nell’attuale Uzbekistan, poi nella Bactriana, una regione nel nord dell’Afghanistan. Qui si assicura appoggi politici che cristallizzino gli effetti delle azioni militari sposando Roxana, figlia di un notabile del posto. Infine muove alla conquista dell’India, ma dopo alcuni successi militari la sua sconfinata ambizione viene frenata dai soldati che rifiutano di andare oltre, vogliono rivedere la patria macedone ormai lontanissima. L’avventura di Alessandro Magno ha lasciato sulle terre afgane un’impronta ellenistica ben visibile fino al settimo secolo dell’era volgare, quando gli arabi vi porteranno l’Islam. Le due versioni musulmane, la sunnita e la sciita, si confronteranno nei secoli successivi fino a quando, all’inizio del tredicesimo secolo, arriveranno i mongoli di Gengis Khan. Per loro l’Afghanistan è un punto obbligato di passaggio verso la Persia e il Mediterraneo. È un coacervo di etnie diverse e spesso reciprocamente ostili, ma a metà Settecento prende la forma di un bellicoso emirato. Proprio come Alessandro duemila anni prima, l’emirato prova a invadere l’India. E qui si scontrerà con l’impero britannico, che ha proprio nell’India il più prezioso fra i suoi possedimenti. Tre guerre anglo-afgane si succedono fra Otto e Novecento finché Londra, stanca di battersi contro quel nemico irriducibile, decide di lasciar perdere, rinunciando alla pretesa di controllare la politica estera di Kabul. Ma prima gli afgani devono vedersela con un’altra potenza ostile, la Russia, che trova sbarrata la via verso sud e intende consolidare e allargare il controllo sull’Asia centrale. L’emirato è dunque stretto fra Russia e Gran Bretagna, l’emiro Abdur Raman Khan si domandava nel 1900 come abbia fatto a sopravvivere, quella «capra fra due leoni». Sistemati gli inglesi, gli afgani devono confrontarsi di nuovo con profonde fratture interne. Contro la modernizzazione voluta dal primo re Amanullah Khan, che cerca di mitigare le restrizioni coraniche alle libertà individuali, si scatena nel 1919 un guerra civile che durerà un decennio. Poi la monarchia si consolida, ma quando nel 1973 il re Zahir Khan è in visita in Italia un golpe proclama la repubblica. Seguono lotte sanguinose, nel 1978 prende il potere Mohammad Taraki, nasce una repubblica democratica amica dell’Unione sovietica, che

dietro la solidarietà ideologica ripropone l’interesse zarista alla regione. Le riforme sociali avviate dal nuovo regime innescano la rivolta dei mujahidin islamisti. Nel 1979 Mosca manda l’Armata rossa a sistemare le cose ma la resistenza è tenace e in più riceve il sostegno del Pakistan, degli Stati uniti e dei sauditi, sia del Governo di Riad sia del saudita Osama bin Laden (in seguito fondatore e capo di al Qaeda), anche lui appoggiato da Washington in funzione anticomunista. Dieci anni più tardi il mondo sovietico vacilla e i russi se ne vanno, lasciandosi alle spalle un milione e mezzo di morti. Ma non per questo cessano le convulsioni afgane. Irrompe sulla scena una nuova milizia che prende il nome dai talebani, gli studenti delle scuole islamiche, e si batte contro i filosovietici e contro il laicismo riformista. La loro determinazione temprata dal fanatismo finisce con l’imporsi: nel 1996 i talebani entrano a Kabul. Già nel 1992 la repubblica da democratica si è fatta islamica, la gestione del potere s’ispira ai precetti coranici e tanto più ora, dopo il trionfo talebano. La drastica rottura viene celebrata con un sacrificio atroce, il supplizio dell’ex presidente filo-sovietico Mohammad Najibullah. Da alcuni anni, dopo che era stato costretto alle dimissioni, viveva negli uffici di Kabul delle Nazioni unite. Ora le milizie islamiche violano la sede diplomatica, l’ex presidente viene portato via. Lo torturano, lo evirano, poi lo legano a una camionetta e lo trascinano più volte attorno al palazzo presidenziale. Proprio come i resti di Ettore legati al carro di Achille attorno alle mura di Troia. Infine quel corpo lacerato ma non ancora privo di vita viene finito a colpi d’arma da fuoco e appeso in bella vista, così tutti potranno constatare che l’empio Stato comunista è finito per sempre. Poi arriva l’11 settembre, il ground zero del World trade center grida vendetta. Gli Stati uniti sconvolti individuano nel santuario afgano di al Qaeda e di Osama bin Laden, ormai il nemico per eccellenza, il luogo dove dare giustizia a tutti quei morti. Parte la guerra dei vent’anni, i talebani arretrano ma continuano a bersagliare Kabul con sanguinosi attentati. L’Afghanistan è ancora un campo di battaglia. Che cosa sarà dopo il disimpegno occidentale? Si potrebbe affidare la risposta alle parole con cui Winston Churchill definì l’Unione sovietica del 1939: un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma.

Dasht-e-Barchi, quartiere di Kabul. Una scuola femminile frequentata da ragazze sciite, in un sobborgo ancora più affollato del solito a causa dello shopping in vista della conclusione del mese di Ramadan. Una serie di esplosioni, bombe piazzate per colpire a caso nella folla di civili in uno dei momenti di maggior passaggio. Sono morte in 85, oltre un centinaio quelle ferite. Tutte adolescenti. Gli attentati non sono ancora stati rivendicati. Fin qui la cronaca che segue, come gli attentati, un preciso copione: conto delle vittime, indignazione, dichiarazioni di politici, generali e presidenti, dichiarazioni dei talebani. Tempeste mediatiche. Per un paio di giorni e dopo cala il silenzio. Fino alla prossima volta. Perché le ragazze di Kabul non sono state le prime a morire e non saranno le ultime. Nel solo mese di Ramadan, cominciato lo scorso 13 aprile, ci sono stati 15 attacchi suicidi e circa 200 attentati. Oltre 500 civili sono rimasti feriti, il bilancio dei morti supera quota 100. Per la fine del sacro mese, celebrato in Afghanistan ancora una volta con un bagno di sangue, i talebani e il Governo di Kabul hanno dichiarato un cessate il fuoco di tre giorni. Seguendo, ancora una volta, un copione ormai tristemente noto che, purtroppo, anche l’Occidente e gli inviati a negoziare la spettrale «pax talebana» recitano ormai a memoria. Tre giorni di tregua dopo un bagno di sangue, auspici perché la suddetta tregua diventi permanente, un bagno di sangue ancora più efferato. Senza nemmeno più la scusa, da parte dei talebani, della Jihad, la guerra contro gli invasori infedeli. A morire, difatti, sono ormai quasi solo civili, in gran parte donne e bambini, di nazionalità afgana. E non valgono nemmeno più i dotti distinguo tra sciiti e sunniti, perché le bombe distribuiscono in modo più o meno imparziale il loro carico di morte. Questa volta almeno Zalmay Khalilzad, l’ineffabile artefice del cosiddetto «accordo di pace» tra Usa e talebani, ha avuto il buon gusto di tacere sui social media. È ormai chiaro a chiunque che non c’è alcun accordo ma soltanto un ritiro più o meno disonorevole da parte delle truppe occidentali. Sulle ragazze, sulle donne di Kabul, si gioca ormai da vent’anni una partita vergognosa. I diritti delle donne sono stati invocati da più parti quando si cercavano ragioni per rimanere in Afghanistan. Il diritto all’istruzione, al lavoro. Diritti che i talebani hanno accettato di sostenere, in sede di colloqui, purché «in accordo con la Sharia», la legge islamica. Legge che è soggetta a interpretazioni più o meno restrittive e che, quando i signori della morte erano al governo a Kabul, è stata adoperata per tenere le donne confinate a casa. Le ve-

dove non avevano modo di procurarsi da mangiare per sfamare i loro figli, per le ragazze imparare a leggere e scrivere diventava una trasgressione pericolosa. Tutti lo sanno, ma conviene a tutti far finta di dimenticare. E non si tratta solo dei diritti delle donne, ma dei diritti dei cittadini afgani tutti. Le truppe americane tornano a casa l’11 settembre, uno sfregio simbolico alla memoria di coloro in nome dei quali questa lunghissima guerra è stata combattuta, alla memoria di chi ha perso la vita perché gli è stato detto che combatteva per quei morti, per la democrazia, per la pace. Di questa cosiddetta «pace» sono stati i talebani a dettare le condizioni e Washington è stata costretta a rimangiarsi di fatto tutte le clausole poste all’inizio dei colloqui: la rescissione dei legami con Al Qaeda, una trattativa guidata dal Governo afgano. Il riconoscimento, da parte dei talebani, del suddetto Governo e del processo democratico faticosamente instaurato nel Paese. Risultato: i campi di addestramento congiunti tra talebani e gruppi jihadisti pakistani e tra talebani e Al Qaeda prosperano. Il vituperato Isis-K su cui i talebani buttano la colpa di ogni efferatezza è in realtà, secondo l’intelligence afgana e non solo, l’altra faccia della stessa medaglia, una medaglia coniata e gestita dal Governo e dall’esercito pakistano. Islamabad ha infatti gestito i colloqui di pace sostenendo il ritiro delle truppe americane non perché temessero ritorsioni da parte degli Usa ma perché è nell’interesse del Pakistan, e della Cina dietro il Pakistan, «avere a Kabul un Governo stabile». Stabile e favorevole ai generali pakistani, anti-indiano e anti-occidentale. Per ricominciare a giocare il famoso gioco di Pervez Musharraf, ex presidente del Pakistan, una partita truccata su duetre tavoli in cui si prendono soldi dagli americani per sconfiggere i terroristi manovrati dai generali. In questo gioco ipocrita tutti fanno finta di dimenticare che Islamabad in Afghanistan non ha mai sostenuto un Governo democraticamente eletto ma sempre e soltanto i gruppi militanti: talebani, Haqqani, Isis-K, Al Qaeda. Tutti fanno finta di non sapere che il 12 settembre prossimo di democrazia a Kabul non rimarrà nemmeno più il pallido fantasma conquistato in questi ultimi anni, che ragazze e donne dovranno tornare a nascondersi come se la loro stessa esistenza fosse un delitto. Fanno finta di non sapere che se ci sarà pace sarà quella dei cimiteri, la «pax talebana» sotto l’egida cinese. Beijing, che con i talebani ha dialogato più di una volta, vuole la pace. La pace dello Xinjiang, la pace che permette ai traffici di prosperare, di costruire muri e recinzioni di filo spinato per privare i cittadini dell’accesso all’acqua potabile, al cibo. La pace mantenuta col terrore.

Quel che resta dopo il recente attacco alla scuola femminile. (Keystone)


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Idee e acquisti per la settimana

I classici formaggi svizzeri Emmentaler DOP e Le Gruyère DOP sono ora disponibili anche nella variante «to go»: come porzione singola in stick sono ideali per gli spuntini fuori casa – durante un’escursione in montagna, per il picnic o al bagno. I deliziosi bocconcini sono ottenibili al reparto dei prodotti convenience delle principali filiali Migros.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Politica e Economia

Colombia, la brutalità continua

Il punto Le proteste innescate dal progetto di riforma fiscale non accennano a calmarsi mentre la repressione

da parte di polizia ed esercito ha già causato la morte di una quarantina di persone. Oltre 400 i desaparecidos Angela Nocioni Esercito spedito in strada, polizia che spara contro pacifici cortei di protesta di studenti e medici, il capo del Governo che vive trincerato dentro uno studio televisivo e da lì elogia gli agenti che uccidono. Sta accadendo questo in Colombia, dal primo maggio scorso. Le cifre verificate riguardo il numero delle vittime sono terribili, di sicuro inferiori al bilancio definitivo al momento impossibile da tracciare. Soltanto fino al 7 maggio si contano una quarantina di morti accertati, alcune centinaia di feriti e migliaia di arresti senza il rispetto dei limiti di legge, lo sostiene l’ong Temblores che ha tentato di tenere una contabilità delle denunce verificate. Il numero più preoccupante è però un altro: oltre 400 desaparecidos secondo quanto risulta a ben 26 diverse organizzazioni sociali citate dal quotidiano «El Espectador» di Bogotà. Le vittime sono quasi tutti ragazzini. A scendere in strada contro il Governo è stata una eterogenea porzione di società civile: insegnanti, sindacati, tassisti, camionisti, gruppi indigeni, medici, studenti, pensionati. Il presidente Ivan Duque li ha definiti terroristi e pericolosi criminali, seguendo la linea dettata subito dall’ex presidente Alvaro Uribe, a tutti gli effetti il suo capo politico, che ha twittato: «Appoggiamo il diritto di soldati e poliziotti di usare le armi per difendere sé stessi, gli altri e i beni attaccati dall’azione criminale del terrorismo vandalico». Duque, di estrema destra, eletto nel 2018 come erede designato dell’ex presidente Alvaro Uribe allora impossibilitato a candidarsi, s’è impuntato nel voler imporre ad ogni costo una riforma fiscale piuttosto rozza che avrebbe dovuto risolvere il problema delle casse statali svuotate dalla crisi economica e sociale aggravata dalla pandemia. La normativa prevede un grosso

aumento dell’Iva e grava soprattutto sulle fasce più povere della popolazione poiché i rincari coinvolgono beni alimentari essenziali. Contro una riforma tributaria siffatta, presentata il 15 aprile al Congresso nel mezzo di una drammatica situazione d’emergenza dovuta all’epidemia di Covid, si sono levate critiche anche dalla destra liberal che ha chiesto al presidente di cestinarla perché economicamente iniqua e socialmente insostenibile. La disoccupazione in Colombia è altissima. Il Paese non regge la pandemia, a livello sanitario e sociale. La povertà è cresciuta dal 35,7 per cento del 2019 al 42,5 per cento del 2020, secondo il Dipartimento di statistica nazionale. La riforma è stata mantenuta intatta e il primo maggio nelle principali città colombiane si sono svolte molte manifestazioni per chiederne il ritiro. La polizia è scesa subito in strada con l’intenzione di sparare. Il primo morto è stato causato dalla «Squadra mobile anti-sommossa» a Bogotà: un ragazzino ucciso a freddo, il suo corpo circondato da agenti che hanno impedito ogni soccorso. La notizia è corsa attraverso le reti sociali, la protesta si è infiammata ovunque. In seguito Duque ha ritirato la legge. Si sono moltiplicate le notizie di giovani uccisi a bruciapelo dalla polizia, alcune documentate da video che sono rimbalzati nei telefonini. Il 3 maggio si è dimesso il ministro dell’industria, Alberto Carrasquilla, ideatore della riforma. Ivan Duque ha messo di nuovo l’esercito in strada. Il coprifuoco è stato da allora regolamente violato, le proteste sono andate avanti, il Governo ha continuato a far passare sistematicamente tutti i manifestanti per criminali o terroristi. La questione della sicurezza e della gestione militare dell’ordine pubblico ha da decenni un ruolo centrale nella storia del partito Centro democratico al quale appartiene Duque e nell’inte-

Immagini di guerra nella capitale Bogotà. (Shutterstock)

ra galassia uribista che nell’emergenza anti-terrorismo ha prosperato creando un impero politico in Colombia. Di fronte alla ostentazione della violenza delle forze dell’ordine e alla esplicita copertura politica di ogni eccesso offerta dal Governo il 4 maggio, si è svegliato anche il Comitato affari esteri della Camera statunitense che s’è sentito in dovere di dichiarare un burocratico alt: «Gli Stati uniti non appoggiano forze di sicurezza coinvolte in violazioni severe di diritti umani», ha scritto in un documento. Dopo un quarto d’ora Duque ha riaffermato il suo sostegno alla strategia adottata da polizia ed esercito. Le situazioni più preoccupanti al momento riguardano Bogotà e Cali, dove la violazione del coprifuoco è sistematica e quindi il rischio di nuove vittime costante. Incursioni notturne contro le stazioni di polizia hanno incendiato in particolare Bogotà causan-

do una decina di morti, quasi tutti adolescenti, e più di 200 feriti, la metà dei quali per colpi di arma da fuoco. La rivolta popolare nella capitale della Colombia, soprattutto nei sobborghi, è scoppiata dopo la diffusione di un video, girato da testimoni oculari amici della vittima, che dimostra l’aggressione da parte di poliziotti contro un avvocato quarantenne disarmato, Javier Ordoñez, fermato con l’accusa di aver violato il divieto di consumare alcolici, norma che fa parte del pacchetto anti-Covid. L’avvocato ha chiesto agli agenti che gli venisse regolarmente contestata l’infrazione attraverso una multa. Loro lo hanno invece colpito più volte con il taser e portato in questura, dove è morto in seguito a una infinità di percosse e scariche elettriche. Quando è stato portato dalla polizia in una clinica all’alba era già cadavere. La dinamica dell’ag-

gressione da parte degli agenti, il ruolo fondamentale della diffusione del video e le immagini dell’avvocato che implora «vi prego non ce la faccio, per favore basta», mentre i suoi amici gridano agli agenti «basta, lo state ammazzando, vi stiamo filmando», sono molto simili, per la violenza e per l’effetto di miccia che hanno avuto, all’omicidio di George Floyd a Minneapolis, che ha scatenato poi l’ondata di manifestazioni «Blacks lives matter» negli Usa. La pressione internazionale sul Governo colombiano ha intanto sortito un primo effetto: ha costretto Duque ad accettare la formazione di un tavolo di dialogo con una rappresentanza dei manifestanti. Ma un primo approccio preparatorio alla discussione è già saltato. La disponibilità concessa a denti stretti dal Governo potrebbe quindi risolversi in un bluff utile a Duque per non isolarsi sul piano internazionale.

L’obiettivo di Hamas: le teste dei palestinesi

Conflitti La guerra tra la Striscia di Gaza e Israele è incredibile e all’apparenza totalmente inutile. Non inciderà

sul destino dei territori contesi. È piuttosto un tentativo del gruppo armato di riguadagnare sostegno Daniele Raineri Dal punto di vista militare la guerra di questi giorni tra i gruppi armati palestinesi della Striscia di Gaza e lo Stato di Israele è allo stesso tempo incredibile e anche totalmente inutile. Incredibile perché mai prima d’ora le fazioni di Gaza, Hamas in testa, avevano scatenato questo volume di fuoco contro i centri abitati israeliani. Volate di centinaia di missili che coprono anche la distanza fino a Tel Aviv e a Gerusalemme, le due città più importanti nel centro del Paese a decine di chilometri dalle postazioni di lancio dei razzi, e costrin-

gono gli israeliani a correre nei rifugi a prova di bomba tra il suono delle sirene e le esplosioni delle intercettazioni in cielo. Da qualche anno la Difesa aveva approntato un sistema di contromisure che in teoria dovrebbe riuscire a vedere e bloccare ogni missile, ma le salve sparate da Hamas sono così fitte che circa un 10 per cento degli ordigni finisce per andare a segno. Se si considera che nei primi due giorni i palestinesi hanno sparato più di 1’200 razzi, si capisce che c’è un rischio elevato. Infatti ci sono stati morti e feriti. I gruppi palestinesi sono così baldanzosi che ora sui loro canali Telegram annunciano in antici-

Tra le macerie di Gaza. Lo scontro è sempre stato impari. (Shutterstock)

po i lanci, in modo da creare un effetto attesa e aumentare la tensione. Le città israeliane più vicine alla Striscia, quelle che hanno un tempo di preavviso minore perché i razzi arrivano in poche decine di secondi come Sderot, Ashkelon e Ashdod, vivono come se fossero in uno stato di paralisi. Soltanto chi ha un rifugio a pochi passi riesce a uscire di casa. La reazione israeliana è molto dura, ma più o meno era attesa nei modi e nell’intensità con i quali è arrivata. Almeno 80 aerei impegnati a compiere raid a ciclo continuo sul territorio di Hamas, ma non c’è stata alcuna sorpresa, era scontato che succedesse. E però, come detto, è anche una guerra inutile. Hamas è consapevole, come gli altri gruppi armati nella Striscia, che non guadagnerà nemmeno un metro di terreno da questo conflitto. Non conquisterà una postazione strategica, non un ponte, non una collina. Non si muoverà nulla. Di sicuro non aiuterà la situazione a Sheikh Jarrah, il quartiere conteso di Gerusalemme est dove la tensione è cresciuta in queste settimane fino a portare all’escalation (anche per la decisione di «sfratto» di diverse famiglie palestinesi). Hamas è separata da molte decine di chilometri di distanza e di barriere da quel quartiere, non può fare nulla. E allora perché si getta in questo scontro che, come è noto a tutti, è impari? Perché mettersi contro l’aviazione israeliana

che può lanciare centinaia di missioni al giorno e può far saltare con le bombe le infrastrutture di Hamas? Perché il gruppo lotta per conquistare nuovo spazio nelle teste dei palestinesi. È lì che si combatte la battaglia tra il fronte dell’acquiescenza politica che vuole un futuro tranquillo e quello della lotta armata che rifiuta i compromessi. Hamas ha lanciato uno scontro gigantesco con Israele perché così può mettersi di nuovo al centro della scena e danneggiare i rivali palestinesi di al Fatah, che invece sono specialisti nella gestione dello status quo senza bombe. Negli ultimi 4 anni il gruppo armato che controlla Gaza ha dovuto incassare tre sconfitte sul piano politico. Nel 2017 l’Amministrazione Usa di Donald Trump ha spostato l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, compiendo così un gesto fortemente simbolico. La capitale di Israele, era il messaggio implicito, per gli Stati uniti non è Tel Aviv ma Gerusalemme. Era un trasferimento che prima era considerato rischioso perché si temeva che la piazza araba sarebbe esplosa e invece non era successo nulla. Hamas aveva scoperto che il largo sostegno trasversale dei Paesi arabi per la causa si era svuotato, non era più potente come prima. Poi nel 2020 sono arrivati gli Accordi di Abramo, vale a dire quelle alleanze politiche tra Stati arabi del Golfo e Israele che fino a pochi anni fa sembravano

impossibili. Gli accordi fra gli Emirati e gli israeliani, per esempio, sono davvero robusti e interessano una quantità vastissima di campi, dalla scienza alle armi. Ma trascurano la causa palestinese, che era la ragione principale della mancanza di relazioni diplomatiche tra Israele e governi arabi. Anche in quell’occasione Hamas scoprì che la causa palestinese non contava più come prima. Nel 2021 infine, alcune settimane fa, al Fatah ha rinviato le elezioni a tempo indeterminato – il primo voto palestinese da 15 anni – per il timore che le vincesse Hamas. A suo modo era l’ennesima disfatta per la linea degli estremisti di Gaza. Senza più appoggio ed elezioni per salire al potere, il gruppo armato doveva fare qualcosa. Si capisce perché appena Hamas ha intravisto una possibilità ha sfruttato la tensione per cominciare un conflitto che, con l’aiuto di gruppi armati minori e con il sostegno di Iran e Turchia, fa esplodere la questione palestinese e mette in difficoltà tutti gli altri. Anche le scene di guerriglia urbana fra bande di arabi e di ebrei nelle notti delle città israeliane sono un altra piccola vittoria per Hamas, che gode nell’estremizzazione del discorso politico. Più la situazione scivola indietro, verso gli anni della tensione permanente, e più la fazione della Striscia ha da guadagnare. Anche al prezzo di qualche momento di guerra ad alta intensità.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Politica e Economia

«L’UE e la Svizzera rimarranno comunque amiche» Intervista Unione europea, Cina, emergenza coronavirus: i dossier di cui deve occuparsi il consigliere federale

Ignazio Cassis sono numerosi e complicati Ralf Kaminski, Laurent Nicolet Ignazio Cassis, l’accordo quadro con l’Unione europea non può più essere salvato, giusto?

C’è bisogno di una soluzione soddisfacente nei tre ambiti controversi della protezione dei salari, della direttiva sulla cittadinanza europea e degli aiuti di Stato. Senza una soluzione del genere, il Consiglio federale non potrà firmare l’accordo quadro, come ha già comunicato più volte. Ma questa soluzione non è in vista.

A fine aprile abbiamo nuovamente invitato l’Ue a valutare ancora se non voglia spostarsi dalle sue posizioni. Una delle questioni più ostiche è la libera circolazione delle persone, che l’UE vorrebbe estendere oltre gli aspetti economici, mentre la Svizzera vorrebbe limitarla ai lavoratori. Ma se l’UE non fa un passo, è finita?

Non è ancora detta l’ultima parola, ma adesso c’è davvero bisogno di una concessione chiara da parte dell’Unione Europea.

Gli osservatori politici Le addossano una corresponsabilità per questo braccio di ferro infinito, Lei appare isolato sul dossier e non ha mai comunicato una posizione chiara. Che ne pensa?

Tireremo le somme dei negoziati quando saranno conclusi, ora è ancora troppo presto. È un dossier molto difficile e io sono il terzo consigliere federale che se ne occupa; ai negoziati hanno partecipato già cinque segretari di Stato. Basta questo a dimostrare quanto sia complessa la materia e quanto l’argomento tocchi la coscienza e l’identità del Paese. Personalmente, mi sono impegnato a fondo sul dossier sin dall’inizio. La mia posizione è sempre stata chiara: di un accordo quadro c’è bisogno, ma non a tutti i costi. Che su di un tema così importante ci siano delle critiche, fa parte del mestiere. Quindi non sarebbe un gran male se non si arrivasse a un accordo?

Ci sono buone ragioni a favore di un accordo quadro. Se non giungiamo a un accordo, le condizioni quadro per alcuni settori della nostra economia peggioreranno. Non sono però in gioco le relazioni con l’UE. Anche in caso negativo, resteranno in vigore gli oltre 120 accordi bilaterali. In definitiva, dietro a tutto c’è la questione di come vogliamo sviluppare ulteriormente le nostre relazioni con l’UE nei prossimi dieci o venti anni. E, a differenza della Brexit, non ci sono scadenze fisse entro cui va presa una decisione.

Quanto danneggerà le relazioni tra Svizzera e UE un fallimento dei negoziati?

Non siamo ancora a questo punto. Il Consiglio federale continuerà anche in seguito a percorrere la via bilaterale. Con l’Unione europea vogliamo relazioni buone e regolamentate, come d’altronde vuole anche lei e specialmente i nostri Paesi vicini. E resteremo buoni partner ed amici anche senza questo accordo.

Come proseguiranno le relazioni bilaterali dopo un eventuale fallimento? Esiste un piano B?

Ogni cosa a suo tempo. Il Consiglio federale sta riflettendo su alcune alternative, ma questo è il momento sbagliato per discuterne.

Anche il rapporto con la Cina è complicato. Di recente, Lei ha criticato apertamente questo Paese e la cosa non è stata accolta bene a Pechino. Quanto è difficile in questo caso trovare il giusto equilibrio?

Il mondo si sta muovendo sempre di più verso una nuova polarizzazione tra le due superpotenze Stati Uniti e Cina; per il Consiglio federale entrambi rappresentano una priorità, anche a livello scientifico e culturale. Con gli USA condividiamo più valori che con la Cina, ma rispettiamo questo Paese, con cui desideriamo avere se possibile delle buone relazioni. Quindi, dobbiamo avere anche il coraggio di dire loro cosa non ci piace, come ad esempio la situazione dei diritti umani. Lo abbiamo fatto e la reazione era prevedibile, tuttavia ciò crea una base per tornare su questi argomenti anche in futuro. La Svizzera avrà questo coraggio anche a rischio di deteriorare le relazioni economiche?

Sì. Stiamo già creando dei forum per informare e sensibilizzare le imprese. Anche le università svizzere dovrebbero riflettere sul perché la Cina è tanto interessata ad avere buone relazioni accademiche con la Svizzera. Con ciò non voglio dire che sia un male, ma che forse bisognerebbe essere un po’ più consapevoli di quello che si fa.

La Svizzera non potrebbe esprimere il suo malcontento inviando anche dei segnali economici?

Per la Cina, la Svizzera è un partner commerciale molto minore. Non si accorgerebbe neppure di sanzioni severe. Crediamo di poter ottenere di più con il dialogo. In un contesto di buone relazioni, si possono toccare anche argomenti spinosi. Incontro la mia controparte una volta all’anno: nell’ultima, abbiamo parlato per due ore di Hong Kong, degli uiguri e dei diritti umani. Se anche altri Paesi più potenti, come la Germania o la Gran Bretagna, facessero la stessa cosa, si avrebbe un effetto. Goccia a goccia si scava la roccia. In risposta alla situazione di Hong Kong, la Gran Bretagna ha facilitato l’immigrazione di gran parte dei cittadini della sua ex colonia. La Svizzera non potrebbe fare qualcosa di simile? In fin dei conti, anche i tibetani furono aiutati.

La situazione di partenza è completamente diversa: in quanto ex potenza coloniale, la Gran Bretagna ha un rapporto speciale con Hong Kong. La Svizzera, però, ha già detto chiaramente di essere preoccupata per l’indebolimento del principio «un Paese, due sistemi», che per noi rappresentò un segnale di speranza inviato dalla Cina all’epoca del passaggio di consegne dai britannici. Da qualche tempo, tuttavia, si sta andando in un’altra direzione. La Svizzera potrebbe fornire un sostegno maggiore a Taiwan?

Noi continuiamo ad attenerci alla politica secondo cui esiste una sola Cina, ma stiamo dandoci da fare per aiutare

Il ministro degli esteri Ignazio Cassis (60 anni) è membro del Consiglio federale e capo del DFAE dal 2017. Specializzato in medicina interna e prevenzione, è stato medico cantonale ticinese dal 1996 al 2008, successivamente vicepresidente della Federazione dei medici svizzeri FMH e presidente di Curafutura, l’associazione degli assicuratori-malattia innovativi. Prima dell’elezione a consigliere federale, Cassis era presidente del gruppo PLR in Consiglio nazionale. È sposato ed abita a Montagnola.

«Abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra una lotta al virus efficace, i bisogni sociali e psicologici e le richieste dell’economia, penso che ci siamo riusciti abbastanza». (Keystone)

Taiwan affinché abbia voce a livello internazionale. Intratteniamo buone relazioni economiche e culturali, ad esempio riceviamo le sue delegazioni a Berna e a Ginevra.

Ma un riconoscimento non è all’orizzonte?

Per il momento ci atteniamo alla regola «una sola Cina», che nella maggior parte dei casi vale anche a livello internazionale.

All’inizio dell’anno è entrato in vigore il Trattato ONU per la messa al bando delle armi nucleari. Cosa ne rende così difficile la firma da parte del Consiglio federale?

La Svizzera condivide l’obiettivo di un mondo senza armi atomiche. Ci fa esitare il fatto che difficilmente il nuovo trattato potrà contribuire al disarmo. Le potenze nucleari, infatti, non lo hanno sottoscritto e solo quattro Stati europei lo hanno firmato: Austria, Irlanda, Malta e Vaticano. È più importante il Trattato di non proliferazione nucleare, sottoscritto anche dalle potenze nucleari. Noi temiamo che il nuovo trattato possa svalutare il vecchio e ciò non è nell’interesse della Svizzera. Ad agosto dovrebbe svolgersi la Conferenza di riesame del Trattato di non proliferazione nucleare, prevista per l’anno scorso, dopodiché il Consiglio federale esaminerà nuovamente la questione. A che punto è la candidatura della Svizzera al Consiglio di sicurezza dell’Onu per il biennio 2023/2024? Abbiamo qualche possibilità?

Sì. Ci sono due posti vacanti e finora altrettante candidature, noi e Malta. L’Assemblea generale dell’Onu deciderà a giugno 2022. Dovremmo farcela anche nel caso di una terza candidatura a breve termine. Stiamo ricevendo molto appoggio internazionale. E dalla politica nazionale?

Dopo dieci anni di intensi dibattiti, non è più una questione di «se», ma di «come». Infatti, i nostri processi decisionali sono notoriamente piuttosto lenti. In qualità di membri del Consiglio di sicurezza dovremo adeguare la nostra andatura al ritmo internazionale e attualmente sono in corso discussioni su come possiamo garantirlo.

Il Consiglio federale ha alle spalle un anno difficile, in cui ha dovuto cercare continuamente di bilancia-

re le diverse esigenze nell’ambito delle misure anti-coronavirus. Cosa ha da dire a coloro che accusano il governo federale di tendenze dittatoriali?

Si levano accuse del genere perché siamo tutti stanchi della pandemia e di conseguenza i fronti si sono irrigiditi. A livello internazionale si osserva la stessa cosa, ma secondo me nel confronto noi siamo messi meglio. La maggior parte delle persone, infatti, dimostra comprensione e non abbiamo mai dovuto imporre un lockdown così severo come in molti altri Paesi. Abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra una lotta al virus efficace, i bisogni sociali e psicologici e le richieste dell’economia. E tutto questo senza strapazzare troppo il federalismo. Penso che ci siamo riusciti abbastanza. Ma un giudizio finale si potrà dare solo quando ci saremo lasciati alle spalle il coronavirus. Quanto è difficile trovare l’unità su queste misure all’interno del Consiglio federale?

Al culmine della crisi ci riunivamo per discutere tre volte alla settimana. In questo modo ci si conosce davvero molto bene. L’obiettivo finale non è l’armonia: nella compagine devono essere rappresentate tutte le linee di pensiero, ciò che conduce spesso a discussioni molto animate. Alla fine di ogni seduta, però, bisogna trovare un compromesso e la buona soluzione si ha quando tutti sono ugualmente soddisfatti o insoddisfatti, come spesso è il caso. Non ci sono quindi votazioni a maggioranza?

Quasi mai. Si discute finché non si trova un compromesso. La nostra Storia dimostra che questo modo di procedere non è sbagliato, perché è adeguato alla grande varietà del nostro Paese.

A volte, il coordinamento con i Paesi vicini durante il coronavirus è risultato caotico se non addirittura inesistente. Come ministro degli esteri, non avrebbe dovuto fare qualcosa di più?

Nelle prime due settimane c’era una grande frenesia. Nonostante avessimo visto quel che era successo in Cina, quasi nessuno in Europa si aspettava che sarebbe successo anche qui. In fondo, l’influenza aviaria e quella suina non avevano avuto quasi conseguenze per noi. Il coronavirus è scoppiato all’improvviso, tutti i governi sono

rimasti sorpresi e all’inizio hanno avuto una reazione tipicamente umana: pensare a sé! Presto, però, si è realizzato che così non andava. Sono seguiti giorni intensi, in cui ho avuto moltissime discussioni con i miei omologhi, soprattutto dei Paesi vicini. L’effetto collaterale positivo è che le relazioni si sono rafforzate. Grazie ai numerosi colloqui di crisi, ora ho con loro contatti molto più stretti, il che è d’aiuto anche per altre questioni. Un recente studio comparativo internazionale è giunto alla conclusione che con le sue disposizioni la Svizzera ha protetto più l’economia della popolazione. Non possiamo andarne particolarmente fieri, o no?

Dal mio punto di vista, economia e salute non dovrebbero essere messe in contrapposizione. Non c’è salute senza benessere e viceversa. Inoltre, si potrà stilare seriamente un bilancio solo quando la pandemia sarà finita. Nei prossimi anni appariranno innumerevoli analisi: allora vedremo come ne emergerà la Svizzera.

Sul coronavirus, il Suo partito oscilla di continuo: un giorno sostiene il Consiglio federale, il giorno dopo chiede allentamenti più rapidi. Quanto è difficile questo per Lei, con la Sua formazione di medico?

I partiti e il Consiglio federale hanno funzioni completamente diverse. E a me pare del tutto normale che, in questi tempi di crisi, ogni partito abbia opinioni differenziate.

Non ha mai telefonato alla presidente del Suo partito per dirle che così non va?

(ride) Siamo sempre in contatto, ma non mi permetterei mai di dare un ordine alla presidente. Ho rispetto per il suo ruolo, che non è sempre facile.

Già oggi si specula sul fatto che dopo le elezioni del 2023 il PRD potrebbe perdere un seggio in Consiglio federale e che Lei dovrebbe preoccuparsi più di Karin KellerSutter. È preoccupato?

No, sono rilassato. Faccio il mio lavoro con molta gioia e passione. E servirò il mio Paese fino a quando il Parlamento lo vorrà. Vedremo cosa succede. Nota

L’intervista integrale al consigliere federale Cassis su www.azione.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Le sorprese del commercio con l’estero del Ticino Sull’importanza economica del commercio con l’estero non occorre spendere molte parole. Basti ricordare che il suo saldo costituisce una delle tre componenti del prodotto interno lordo, quando questo venga stimato con l’approccio cosiddetto della domanda aggregata. Per esempio, nel 2019, il Pil della Svizzera, pari a 727 miliardi di franchi, risultava dalla somma di 459 miliardi di consumi (privati e pubblici), 178 miliardi di investimenti, e dal saldo positivo del commercio con l’estero pari a 90 miliardi. Quest’esempio ci consente di farci un’idea dell’importanza del commercio con l’estero nel determinare la prestazione economica a livello nazionale. Da qualche decennio l’amministrazione federale delle dogane pubblica, oltre ai dati nazionali, anche dati regionalizzati per il commercio con l’estero.

Fin qui, purtroppo, specialmente nei Cantoni di frontiera, questi dati non servivano gran che perché la loro determinazione poneva una serie di problemi metodologici che attendevano di essere risolti. Ora, come ci informa un interessante contributo, pubblicato da Maurizio Bigotta e Vincenza Giancone nell’ultimo numero della rivista «Dati», l’amministrazione delle dogane ha rivisto il suo metodo di calcolo cercando di risolvere almeno parte dei problemi metodologici di cui era inficiato. Nella vecchia statistica i flussi del commercio con l’estero dei Cantoni di frontiera erano sopravalutati a causa delle merci in transito. I dati della nuova statistica del commercio con l’estero dimostrano che non si trattava di un’inezia. Per il nostro Cantone, nel 2019, il valore delle esportazioni

e quello delle importazioni, calcolati con il nuovo metodo, diminuiscono infatti del 28%. Nel 2019 l’economia ticinese che, lo ricordiamo, aveva un Pil inferiore ai 30 miliardi di franchi, avrebbe così, stando alle stime rivedute, esportato merci per 33,5 miliardi (invece dei 47,0 miliardi del vecchio metodo). Il valore delle importazioni si sarebbe attestato sui 41,6 miliardi (con il vecchio metodo erano 57,3). Di conseguenza il saldo della bilancia commerciale ticinese sarebbe, nel 2019, negativo e pari a – 8,1 miliardi (al posto dei – 10,2 miliardi che risultavano dal metodo precedente). Risolto il quesito del commercio in transito ecco che se ne presenta subito un secondo: quello della composizione dei flussi di merci esportate e importate. A parer mio, una situazione nella quale il valore dei flussi del commer-

cio estero sia più grande del prodotto interno lordo dell’economia in questione è abbastanza eccezionale. I revisori della statistica del commercio con l’estero si sono accorti di questa abnormità che è provocata dal fatto che una quota elevatissima del valore dei flussi di merci importate e esportate dal Ticino è formata dal valore di metalli e pietre preziose nonché da quello di oggetti d’arte e di antichità. Ma in un Cantone che non ha risorse minerarie, la congiuntura economica non può dipendere solamente dall’evoluzione del prezzo dell’oro, o no? Hanno quindi pensato di calcolare gli aggregati del commercio con l’estero distinguendo tra totale complessivo (le tautologie non fanno paura all’amministrazione delle dogane) e totale congiunturale. Nel totale complessivo sono compresi i valori dei flussi di

metalli e pietre preziose, antichità e opere d’arte, mentre nel totale congiunturale queste merci non vengono ritenute. Di conseguenza il valore delle esportazioni del Ticino si riduce a 1/4 del totale complessivo e quello delle importazioni a 1/3 circa. Ma non è tutto, perché c’è anche il problema della provenienza e delle destinazioni: i flussi del totale congiunturale hanno una geografia diversa di quelli del totale complessivo. Se ritenessimo solo il totale complessivo risulterebbe che i partner commerciali più importanti del Ticino non sono, come sono invece per la Svizzera, i paesi confinanti, ma paesi asiatici come l’India, la Cina e Singapore per le esportazioni, gli Emirati Uniti, Hong Kong e il Vietnam per le importazioni. Quando si deciderà l’USI a introdurre una cattedra per l’economia di frontiera?

vento: la ragione che batte il cuore, come si dice (non c’è cuore scozzese che non abbia sussulti indipendentisti, anche tra gli unionisti). La solitudine, per quanto sospirata, non conveniva. Le proiezioni economiche parlavano inequivocabilmente di impoverimento e i rapporti con il Continente diventavano paradossalmente più complicati che con l’intermediazione dell’allora riottosa Londra. Ma poi tutto il Regno unito ha scelto d’impeto e senza troppi calcoli la solitudine, votando a favore della Brexit, e così tutte le dinamiche si sono ribaltate. Londra è diventata ancora più aliena e l’indipendenza un’occasione per ristabilire un ordine antico. Gli europei guardano con simpatia alla questione scozzese, non perché siano d’accordo (combatterono strenuamente contro il «sì» nel 2014) ma perché sanno che la secessione è un’altra voce nel «conto Brexit» che più è costoso per Londra più farà da deterrente per tutti quelli che ancora sognano di uscire dall’Unione europea. Il divorzio tra Regno unito e Unione europea ora si calcola così, in chi sta pagando e pagherà di più, in chi

risulterà il lato debole dell’ex coppia. Sturgeon non bada troppo alle sfumature, non ora almeno. Adesso l’obiettivo è consumare lo strappo con Londra e riuscire a indire il secondo referendum. Esercitando tutte le pressioni di cui è capace, che in questo momento sono tante, perché di fatto la Scozia si sta trasformando in una regione a partito unico. Le divisioni e il dissenso si perdono dietro a questa guida salda, determinata e che durante la pandemia ha saputo giocare molto bene la carta dell’efficienza e quella dell’autonomia. Se questo diventerà un successo indipendentista è presto per dirlo: la strada è ancora lunga. Più in generale se l’indipendenza scozzese diverrà un successo sarà tema di dibattito sia per quel che riguarda la capacità di questa regione di sopravvivere e prosperare in autonomia, (le dipendenze da Londra sono tante) sia per quel che riguarda l’eventuale gestione di un pareggio. La Brexit ha insegnato che le questioni esistenziali spaccano i Paesi a metà e poi riconciliarsi è nel migliore dei casi molto costoso, nel peggiore impraticabile.

dei miei pensieri si inserisce un’altra notizia, giunta sul web prima di coricarmi: il varo di un progetto architettonico a Milano, un lungo e spazioso porticato in legno tutto coperto di pannelli solari. Lo «Sdraiato», come lo chiama il «Corriere della Sera», ha garanzie ecologiche ed è ecosostenibile, quindi a impatto zero, agibile al flusso pedonale con corsie riservate a monopattini e biciclette e lungo il percorso per collegare un nuovo palazzo con il quartiere dei grattacieli (Milano City Life) sarà costellato di soste e inserimenti di vario tipo. Ho subito immaginato una variante luganese che, oltre a proporsi come strumento urbanistico verso est, affronti anche un altro compito. Innanzitutto ho «visto» un serpentone di legno con strutture hi-tech e ricoperto di pannelli solari, un porticato diffuso che parte da piazza Castello – o da un Palacongressi ristrutturato e adibito a scopi diversi –, attraversa il parco Ciani e, costeggiando il Cassarate,

raggiunge il futuro polo dell’area ex-Conza, magari lambendo anche il Teatro della Foce (sogno nel sogno: non potrebbe diventare oggetto di scambio con chi chiede la luna come centro culturale alternativo?). L’ho poi «visto» anche come prototipo di una mobilità urbana mirata a legare (e non solo a collegare) il centro con i nuovi o futuri punti cardine della città, basata cioè su un approccio diverso, meno zavorrato politicamente, ai problemi di grandi progettazioni che non possono essere solo immobiliari. Alle 6 decido di spegnere le scintille utopiche delle mie «pensate». Pochi giorni dopo, su Instagram, il sindaco Borradori a una bella fotografia della nuova fontana di via della Posta abbina questa citazione di @Enrico Ratto: «Attività diverse per funzione e target sociale, che messe insieme rendono vivo un quartiere ventiquattr’ore su ventiquattro. E che, probabilmente, rendono la vita urbana possibile anche a piedi...». Ma allora, anche un porticato diffuso...

Affari Esteri di Paola Peduzzi Scozia, il cuore batterà la ragione? Il popolo ha parlato e il popolo chiede di avere un nuovo referendum sull’indipendenza, ha detto Nicola Sturgeon, la premier scozzese, dopo che il suo partito ha vinto (di nuovo) le elezioni parlamentari del 6 maggio. Lo Scottish National Party ha sfiorato la maggioranza assoluta, che era il sogno più grande, ma per un seggio non l’ha ottenuta. Nulla di grave, perché i con-

Nicola Sturgeon: «Il popolo chiede un nuovo referendum». (Shutterstock)

sensi di Sturgeon, che pure è al Governo dal 2014, sono cresciuti, e perché i Verdi scozzesi con i loro otto seggi garantiscono al Parlamento di Edimburgo la maggioranza pro indipendenza necessaria per chiedere – o sarebbe meglio dire, pretendere – un secondo referendum. Come molti prevedevano, la Brexit rischia di prendere la forma più paurosa per il Governo di Londra, che è quella della «disunione», cioè il contagio delle -exit. La Scozia vuole uscire dal Regno Unito (la chiamano, con un termine bruttino, Scexit)e riaffermare la propria identità autonoma ed europeista, in contrasto con quello che ha negoziato e deciso il premier Boris Johnson. Il quale aveva anche detto, quando s’era fatto insistente la richiesta scozzese di restare dentro l’Unione europea, che per lui la questione indipendentista s’era chiusa con il referendum del 2014, in cui i secessionisti avevano perso: quante volte vorrete mai ripetere un referendum? Se ne riparla dopo il 2060, aveva detto Johnson, facendo infuriare nei modi e nel merito Sturgeon e anche tutti gli scozzesi, indipendentisti e no,

perché se c’è una cosa che nella coscienza della Scozia non cambia mai è l’idea che l’unione con Londra sia stata, fin dal Seicento, un’imposizione truffaldina e malvagia. Adrian Anthony Gill, meraviglioso scrittore e giornalista scomparso nel 2016, aveva scritto in occasione del referendum uno degli articoli più belli, sofferti e sorprendenti a favore dell’indipendenza. Affermava che gli inglesi dicono sempre agli scozzesi «fatevela passare», riferendosi alla rabbia rispetto al passato, «che è quello che i mariti che picchiano le mogli dicono alle loro vittime». Ecco, le parole di Johnson sul 2060 erano sembrate un pugno. Nicola Sturgeon si è ripresa tutto e subito, non appena è stato chiaro che la maggioranza c’è: non dobbiamo più discutere «se» si farà il secondo referendum, ha detto la premier, ma «quando». Lei spera che in due anni si possa arrivare a ricontarsi un’altra volta, convinta com’è che oggi tutto sia diverso rispetto al 2014 e che quel che aveva trattenuto allora gli scozzesi dal diventare indipendenti ora non ci sia più. Allora il pragmatismo aveva avuto il soprav-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Sogno (sotto) un porticato diffuso La vecchiaia, aiutata un po’ dall’ignavia che difficilmente i vaccini anti-Covid faranno sparire, mi sta abituando a tempi supplementari nel riposo notturno. Mi spiego meglio. Per una vita ho potuto rispettare la sveglia mattutina ereditata nel Dna da mamma e papà che, per commerciare, si alzavano ben prima che il sole spuntasse da dietro le coste che dal Bisbino scendono fino a Chiasso. Da un anno in qua, invece, il risveglio mattiniero è popolato da lusinghe che vanno dal «Ma che ti alzi a fare» al «Tanto troveresti tutto chiuso» e spingono a girarmi dall’altra parte. Mi capita così di inanellare lunghi momenti costellati da un turbinìo di riflessioni e rimandi. Un mattino di fine aprile, sveglio dalle 5, mi trovo nella mente i problemi che riguardano la città di Lugano: dall’exMacello all’aeroporto, dal Polo sportivo al centro che si atrofizza. L’origine di questi «miei» fantasmi? La sera prima avevo sentito in tv che i giovani alternativi il giorno prima avevano

manifestato davanti al LAC e su questo fatto ho finito per ricamare una ridda di pensieri, tutti segnati da un palese dato di fatto: oltre che politicamente intricatissimi, i problemi di Lugano sono quasi tutti di natura... immobiliare. Problema dei giovani, non importa con quali sfaccettature e ovviamente chi se ne frega del calo demografico? Tutto nell’ex-Macello. Problema del tempo libero e dello sport? Tutto attorno allo stadio, anche lui quasi ex, visto che tra poco festeggia 70 anni e per questo bisognoso di cure, cioè di inevitabili «optional»... immobiliari. Problema dell’accoglienza turistica (turismo congressuale come obiettivo, ma niente o poco a riguardo di strutture e formule ricettive da ammodernare, di un’attrattività tutta da riconquistare, ecc. ecc.)? Tutto concentrato sul «centopezzi» dell’ex-Conza. Volendo potrei aggiungere altri esempi: dall’aeroporto ormai occupato dai cormorani alle vie del lusso che perdono richiamo e si svuotano, dalla moria degli istituti

bancari alla chiusura di alberghi. Ma le mie pensate mattutine riguardano i tre casi clinici già citati: uno realizzato come polo culturale a est (LAC), un secondo pronto per essere varato a nord (Cornaredo) come polo sportivo e un terzo, ancora in via di allestimento, come centro turistico e congressuale a ovest (Conza). Al di là delle intenzioni e dei bisogni per cui sono stati progettati o creati, questi tre poli formano un imponente triangolo urbanistico che rischia di penalizzare ulteriormente il centro della città perché in grado di alimentare ulteriori forze centripete. Non è un pericolo astratto o opinabile: il caso del LAC e quello del quartiere Usi (ora allargato alla nuova sede Supsi) possono confermare la discrepanza in atto fra ciò che Lugano mette in cantiere e ciò che intende far decollare: si progettano poli di eccellenza ma si creano oasi distaccate, incapaci di creare sinergie con il centro. Cercando i motivi all’origine di questa assenza di parallelismo, nel groviglio


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Cultura e Spettacoli L’intimità colorata di Frida In Nulla è nero la scrittrice Claire Berest ripercorre le vicende umane e amorose dell’artista messicana

Passeggiate d’arte Lentamente, le gallerie riaprono: vi proponiamo un itinerario fra quelle di Lugano pagina 49

Gli inni e i nazionalismi A differenza di quello americano, gli inni europei non riescono a nascondere un carattere guerresco pagina 51

pagina 45

Un intenso ritratto di Hai Zi realizzato da Ledwina Costantini. (Ledwina Costantini)

L’ultimo ideogramma

Letteratura I versi di Hai Zi nella collana di poesia della casa editrice Del Vecchio Daniele Bernardi Da occidentali, poco o nulla sappiamo della Cina. Infatti, nonostante una folta parte di questa comunità viva al nostro fianco, è come se in essa, da un punto di vista culturale e sociale, faticassimo a penetrare. Per motivare tale considerazione – forse per alcuni discutibile – si potrebbero addurre varie ipotesi, ma non è questa la sede di un dibattito sull’argomento. Se per parlare della drammatica vicenda di Hai Zi (Chawan, 1964 – Shanhaiguan, 1989), oggi considerato il più importante poeta dell’epoca postrivoluzionaria, inizio col dire questo, è perché non c’è da stupirsi che il lettore italofono non sappia niente di uno degli autori centrali del secondo Novecento cinese. Ciò detto, a questa mancanza felici iniziative editoriali possono rimediare. Dai miei ricordi, inizialmente ci pensò Einaudi a metà degli anni Novanta, con la pubblicazione dell’intensa antologia Nuovi poeti cinesi, dove Claudia Pozzana e Alessandro Russo riunirono autori «menglong», cioè ritenuti oscuri e di conseguenza osteggiati perché estranei alla cultura ufficiale, assieme ad altri più giovani. Fra questi,

con Bei Dao, Gu Cheng, Ma Desheng e altri, vi era anche Hai Zi, allora suicidatosi da sei anni. Lo scorso anno, invece, a ridosso del ventennale della morte, è stata la casa editrice Del Vecchio a inserire nella propria collana di poesia – certo una delle più belle, in Italia – un volume integralmente dedicato al geniale ragazzo delle campagne della provincia di Anhui: Un uomo felice, a cura di Francesco De Luca, con introduzione di Li Hongwei, postfazione di Matteo Bocchialini e con uno scritto di Zha Shuming, fratello di Hai Zi. Il libro contiene anche alcuni estratti dal diario dello scrittore. Ma chi era Hai Zi? E perché la sua morte, alla vigilia dei fatti di Piazza Tian’anmen, ha lasciato «il mondo cinese sbigottito e sotto shock»? C’è qualcosa nella sua vicenda, e in quella di suoi altri compagni di viaggio, che tragicamente ricorda quella meravigliosa generazione di poeti che furono i russi del primo Novecento: Majakovskij, Chlebnikov, Esenin, la Cvetaeva, etc. Anche tra i versificatori dell’epoca di Hai Zi vi furono morti premature e violente (come nei casi di Luo Yihe, Ge Mai e del sopraccitato Gu Cheng), tanto che si parlò «di «epidemia di suicidi», così

come avvenne dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Goethe». Nel levar la mano su di sé di un artista, per usare una formula di Jean Améry, c’è qualcosa di profondamente inquietante, poiché l’atto sembra rappresentare uno svuotarsi di senso universale, che chiama in causa un’intera società. Chi crea, infatti, investe di una ragione altra il linguaggio, e con esso l’organizzazione simbolica e spirituale della realtà. Attraverso il suo operato, la vita diviene qualcosa di più del lavorare per mangiare e dormire. Questa pratica si riverbera nella società elevandola, consegnandole qualcosa in cui credere. In parole povere, attraverso l’arte qualcuno si fa garante di una promessa, di una spinta in avanti. Ecco perché la morte di Hai Zi, nonostante egli non fosse conosciuto (non quanto oggi, per lo meno: in Cina ora è inserito nei libri scolastici), fu una sorta di allarme, di grido il cui suono attraversò il paese scuotendolo. O così, almeno, mi pare di poter dire da quanto percepisco. Figlio di poveri contadini, come Esenin trascorse l’infanzia in un mondo rurale, dal sapore profondamente antico. Ma già bambino dimostrò un’in-

telligenza vivissima, fuori dal comune, partecipando a soli quattro anni al «Concorso di ripetizione delle citazioni» del presidente Mao. A quindici, poi, venne ammesso alla Peking University, la più prestigiosa università della nazione. Laureatosi diciannovenne, iniziò a insegnare filosofia presso la facoltà di Scienze politiche e legge. Al contempo, dal 1982 aveva cominciato a scrivere versi. «Da domani, sarò un uomo felice / nutrirò cavalli, spaccherò legna, girerò il mondo / da domani, penserò al grano e alla verdura / ho una casa, davanti al mare, sboccia la primavera // Da domani, scriverò a ogni parente / dirò loro quanto sono felice / la felicità a me raccontata dal fulmine / io la dirò a ogni uomo». Questo scriveva Hai Zi nel 1989, pochi mesi prima del suo gesto definitivo, in una delle sue poesie più celebri. C’è qualcosa di straziante in questa «felicità» nuda, indifesa, in questo «domani» a cui è affidata la speranza di un futuro racconto, vale a dire una memoria compiuta, in cui aleggia il sogno della primavera. Nei suoi ultimi giorni, Hai Zi era da tempo disturbato da allucinazioni uditive (altro punto di contatto con la figura di Esenin) che non gli permet-

tevano più di scrivere copiosamente, come era solito fare; fra le sue opere vi è un poema epico, Taiyang (il sole), di oltre quattrocento pagine. Quando si spinse fino ai binari del treno sui quali si sarebbe sdraiato, aveva con sé la Bibbia, i racconti di Conrad, Walden di Henry D. Thoureau e Kon-Tiki di Thor Heyerdahl. «La mia morte non ha a che vedere con nessuno», scrisse nel suo biglietto d’addio. Cosa aggiungere a queste parole? Niente. Esse bastano a se stesse e ci mostrano tutta l’inimmaginabile solitudine del poeta suicida, che disegnando l’ultimo ideogramma si rivela al mondo come mistero e, al contempo, coscienza tragica dell’esistere di ognuno. È per questo che dopo aver letto autori come Hai Zi (o Paul Celan o Amelia Rosselli) una certa idea di scrittura sembra essere poca cosa, soprattutto in poesia, in confronto a progetti di creazione in cui vi è un continuo tentativo di organizzazione di una forza indomita, che rende l’opera di una densità tagliente dalla quale non possiamo che farci ferire. Se, come insegna Shakespeare, dopo aver tutto detto «il resto è silenzio», in questo caso si potrebbe invece affermare che il resto è letteratura.


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Idee e acquisti per la settimana

SUONA BENE

Come si possono proteggere le orecchie dal rumore e dalle intemperie? Quale livello di rumore è critico e a cosa dobbiamo prestare attenzione quando scegliamo di usare i tappi auricolari? Testo Silvia Schütz

Ci si può abituare al rumore? No. C’è un certo effetto di assuefazione. Se si vive vicino a una strada rumorosa, col tempo si noterà meno il traffico. Il rumore costante può tuttavia comportare effetti negativi per la salute, soprattutto se interferisce con il sonno. Malattie cardiovascolari, affaticamento, depressione e prestazioni ridotte negli scolari possono esserne le conseguenze.

Le donne hanno un migliore udito degli uomini? Sì, ci sono differenze tra i sessi. Statisticamente parlando gli uomini nella fascia di età tra i 60 e gli 80 anni che hanno problemi di udito sono circa il dieci per cento in più rispetto alle donne. Non dipende da cause specifiche legate al genere, ma piuttosto al fatto che gli uomini nel corso della vita risultano essere stati maggiormente esposti a forti rumori.

Sentire parlare al lavoro mi disturba. È normale?

Foto Getty Images, zVg

Sì. Due fattori influenzano il fatto che un rumore sia solo un disturbo o possa influire sulla salute: il volume e la durata. Quando diverse persone parlano il primo si situa tra i 40 e i 65 decibel (dB). Secondo gli esperti ciò non costituisce un problema se non dura a lungo. Tuttavia, anche questo livello di rumore può avere un effetto negativo sulla concentrazione. E anche il sonno ne può risultare disturbato. Un rimedio lo offrono i tappi auricolari in morbida schiuma espansa, che si adattano all’orecchio e sono comodi da utilizzare.

È uguale che tipo di tappo si usa? No. Una leggera attenuazione dei rumori con tappi auricolari in morbida schiuma espansa o cera si adatta in ufficio, durante lo studio, un viaggio in treno o il sonno. Se il rumore è ancora fastidioso si raccomanda una protezione più alta. I tappi in silicone proteggono in modo affidabile da acqua, vento e rumore. Analogamente ai tappi in schiuma, anche quelli in silicone possono esse utilizzati più volte. Basta lavarli con acqua e sapone. Un importante criterio nella scelta è anche un buon comfort, ed è ottimale se i tappi si adattano bene all’orecchio.

È possibile usare in modo scorretto i tappi auricolari?

Devo indossare i tappi auricolari quando taglio l’erba del prato?

I tappi auricolari proteggono tutti nello stesso modo?

Sì, se il tappo in espanso sporge dalle orecchie non fornisce una buona protezione. È quindi consigliato far ruotare il tappo tra le dita per assottigliarlo, tirare l’orecchio diagonalmente verso l’alto, inserire il tappo e premerlo leggermente. Il tappo si espande nell’orecchio e si adatta al sottile canale uditivo. In tal modo si aumentano protezione e comfort.

Sì, se il rumore supera gli 85 dB per un tempo prolungato, come è il caso quando si taglia l’erba del prato. Sopra questa soglia Suva raccomanda di proteggere le orecchie. La soglia del dolore oltre la quale non ci si dovrebbe mai esporre senza un’ottima protezione dell’udito è di 125 dB, che corrisponde agli aerei che decollano, ai concerti rock o ai fuochi d’artificio.

No. Un criterio protettivo è il cosiddetto numero SNR: indica il valore di attenuazione del suono espresso in decibel e si trova sulla confezione. I tappi auricolari possono dare una protezione da meno 20 e fino a circa 35 dB.

Fonte: Suva prevenzione dell’udito


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L’acqua nelle orecchie crea problemi? Sì. Nuotando l’acqua entra con velocità nell’orecchio. Nelle persone sane è nocivo ma non dannoso. Le persone che soffrono spesso di infezioni o altre malattie dell’apparato uditivo dovrebbero sempre evitare l’acqua e il vento. Per esempio usando dei tappi auricolari che sigillano l’orecchio dall’esterno. A differenza dei modelli in schiuma espansa, quelli in silicone non si impregnano di acqua nuotando. Possono inoltre essere disinfettati e utilizzati più volte.

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Cuffie e auricolari danneggiano l’udito? No. Non sono le cuffie o gli auricolari in quanto tali a danneggiare l’udito, bensì il volume di ascolto. Più forte è la musica e maggiore è la potenza sonora che raggiunge l’orecchio interno. Con le cuffie c’è più aria tra l’altoparlante e il timpano, quindi il volume risulta automaticamente più basso. Con le cuffie auricolari il suono è un po’ più intenso. Il fattore decisivo risulta tuttavia sempre il volume di ascolto.

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Idee e acquisti per la settimana

Molto aroma senza glutine Maggio è in tutto il mondo il mese della celiachia. Anche in caso di intolleranza dell’intestino tenue alla proteina del glutine di frumento, segale, farro e orzo si può avere una vita piena di gusto. Migros propone una vasta scelta di pani senza glutine dell’assortimento “aha!”. Quattro esempi

Panini versatili da cuocere in forno: i panini ai grani sono ideali per la colazione, i baguettini per i sandwich e i panini all’avena sono perfetti per preparare gustosi burger.

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Preparazione Spalmate le fette di pane con la crema di peperoni e noci d’acagiù. Tagliate i ravanelli a fettine. Farcite le fette di pane con gli edamame, i ravanelli e i germogli di cipolla.


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Cultura e Spettacoli

L’amore secondo Frida Kahlo

Narrativa Nel suo romanzo Nulla è nero la francese Claire Berest ripercorre le vicende umane

e amorose della grande artista messicana Blanche Greco Un ombrellino parasole blu, un tram rosso e poi un rettangolo di cielo azzurro e uno specchio, sono il prima e il dopo, le pedine di un destino fatale che in un attimo rubò una vita piena di promesse a una giovane donna di diciassette anni, Frida Kahlo, che, temeraria, se ne costruì una nuova e s’incoronò da sola, per sempre, regina di cuori. Ce lo racconta Claire Berest in Nulla è Nero, (edizioni Neri Pozza) dove è Frida stessa a ricordare l’Incidente: un idilliaco pomeriggio per le vie di Città del Messico con il suo novio Alejandro, e poi quel tram impazzito che si scontra con il suo autobus e in mezzo a tutta la gente ammassata, la trova, la strappa all’abbraccio dell’amato e la trafigge da parte a parte con un corrimano di ferro. Lei è l’unica vittima, la bailarina, come strilla un bambino additandola tra i rottami completamente nuda, coperta di sangue vermiglio e di vernice dorata come fosse un vestito. «Un imbianchino accanto a noi ne aveva un barattolo intero e nell’urto si è sparsa ovunque, soprattutto su di me. Ero io lo spettacolo. La ballerina era quel che restava di me». Nei mesi che seguirono, mentre il suo corpo in frantumi si andava aggiustando, Frida imprigionata in un busto di ferro, immobilizzata su un letto rigido tra i cactus e le palme del patio della casa di famiglia a Coyoacán, fissava il rettangolo di cielo azzurro sopra di sé pensando all’ombrellino blu perso chissà dove, per il quale quel giorno fatidico era scesa dall’autobus precedente. Oppure, in quello specchio appeso in posizione strategica accanto a lei perché potesse guardarsi intorno senza muovere la testa e dove non c’era mai Alejandro, fissava il suo viso per ore in una sorta di monologo fatto d’incredulità, di lacrime, di rabbia, di solitudine, di desiderio, alla ricerca di una via di fuga. Di tutte le scommesse che aveva fatto su di sé e il suo futuro, ne rimaneva in piedi una sola: sposare Diego Rivera, el gran pintor, uno dei più famosi pittori del Messico, il suo idolo. Se l’era

ripromesso quando aveva quindici anni e andava di nascosto a guardarlo dipingere quei suoi enormi murales e adesso, malgrado lui abbia il doppio dei suoi anni, sente di non poter fare a meno di quell’uomo gigantesco «mezzo pachiderma, mezzo piovra dai tentacoli ammalianti». Nulla è nero di Claire Berest non è una biografia di Frida Kahlo, ma un romanzo d’amore che racconta quegli incredibili dieci anni dal 1929 al 1939, in cui divampa l’amour fou fra «l’elefante e la colomba», come vennero soprannominati Diego Rivera e Frida, una passione vertiginosa che inonda il diario di lei, le sue lettere, pervade i suoi autoritratti, i suoi quadri e diventa la ragione di ogni suo respiro. Claire Berest ha letto ogni scritto di Frida, ha memorizzato i suoi quadri, i suoi cinquantacinque autoritratti che sono le «stazioni» della sua vita e la evoca, la insegue, la osserva, dà voce ai suoi pensieri, al suo dolore, ne conosce la cura con la quale coltiva il suo tenace sentimento per Diego e ce la rende: scalpitante, indomita, appassionata, straziata «streghetta» capace d’inventare sempre nuovi modi per legarlo a sé e, allo stesso tempo, per liberarsi di lui, sfoderando quel suo talento così particolare che si esplica nel suo modo di vestire, di essere e di dipingere. Nulla è nero inizia come un fuoco d’artificio a una festa di Tina Modotti dove «le donne sono tutte altere, superbe, libere e dello stesso sangue bollente della fotografa italiana dai tanti amori» e Frida guarda quelle stanze affollate dove tutti ballano, si baciano e l’altissimo Diego Rivera con la sua presenza scenografica «ha dieci donne appese alle sue labbra e alla sua camicia ed è un trofeo da circo che ogni donna vorrebbe infilzarsi nel corpo morigerato», ma lei, piccola e minuta, non può abbandonarsi alla musica e al furore dei suoi vent’anni: «le gambe la reggono appena e sta imparando a fatica a vivere in un corpo divenuto schizofrenico». Ma ne è sicura: il «compagno Rivera» sarà suo. Il tono del racconto è ora intimo, ora ironico, ora mondano, ora crudo e

Atmosfere simboliche e alberi In scena Danza

e teatro a Bellinzona e Locarno Giorgio Thoeni

Particolare della copertina del libro.

svergognato come il modo di Frida di bere, o di parlare di sesso, o del suo fisico distrutto, o di affrontare «le distrazioni muliebri» di Diego che ha sposato e che accompagna in giro per il mondo, dove persino i gringos capitalisti vogliono sfoggiare nei loro edifici un murales del grande Rivera. San Francisco, Detroit dove è lei, «la piccola comunista», a conquistare Henry Ford; New York alla corte di Nelson Rockefeller dove la coppia con i suoi racconti rivoluzionari fa faville, ma l’affresco di Diego, bellissimo, provoca scandalo. E poi la profonda amicizia con la fotografa svizzera Lucienne Bloch; Parigi, l’irritazione per lo snobismo francese, Breton, Cocteau, l’incontro con Jacqueline Lamba, Dora Maar, l’attrazione per Marcel Duchamp e gli appetiti di Frida per uomini e donne, queste di preferenza bionde con un grande seno. Ma nella

girandola d’incontri e relazioni, politiche e artistiche e erotiche, per Fridita, che seduca Lev Trockij, o che sia stretta nell’abbraccio commosso di Picasso conquistato dai suoi quadri: c’è sempre Diego nella sua testa e questo amore fatale tra carasapo, faccia di rospo, e Fisita, come la chiamava lui, è una sequela di colpi di scena sino alla fine e, come ha scritto una volta Frida riflettendo sui colori, quasi fossero emanazioni vitali, «nada es negro», nulla è nero. Bibliografia

Claire Berest, Nulla è nero, Vicenza, Neri Pozza, 2020. Berest è anche autrice, a quattro mani con la sorella Anne, di Gabriële sulla vita di Gabriële Buffet-Picabia, moglie del pittore Francis Picabia e loro bis-nonna.

Il concetto di Opera aperta è fondamentale e oltremodo utile quando possiamo applicarlo al significato di forme d’espressioni artistiche contemporanee. La sua natura, già descritta in un celebre saggio di Umberto Eco, si esprime appieno nella ricerca estetica di una o più forme del contenuto. Modelli che possono prestarsi a molteplici letture di un’unica dimensione espressiva parallela o sovrapponibile. Anche sul palcoscenico l’ambito di un discorso si consuma come un rituale che agli occhi dello spettatore si celebra come fonte e stimolo per svariate interpretazioni. Ne è un esempio Dansonography, la performance multimediale della danzatrice e coreografa Alessia Della Casa andata in scena al Teatro Sociale di Bellinzona dopo una lunga (e forzata) gestazione. Autrice e protagonista del progetto, l’artista compone un discorso mettendo in campo le visionarie immagini digitali di Roberto Mucchiut accompagnate dai sofisticati universi elettronici di Alessio Sabella e dalle suggestioni dell’arpa elettrica di Kety Fusco. Occupando il centro della platea, la scena schiera due pannelli di tela dove proiettare immagini speculari, una macchia di Rorschach in continua evoluzione (opera aperta per antonomasia) che il corpo della danzatrice attraversa per il lungo strisciando e rimodellando le posture, tra suoni che si sommano e avvolgono, come quelli prodotti dalle corde dell’arpa, ora sfiorate dall’archetto di Kety ora accarezzate dalla sua mano: atmosfere lontane, irriconoscibili come onde frangenti che preannunciano un archetipo psicologico. Il movimento diventa trama di un’assenza nello spazio di una sala immersa in ipotesi simboliche volte a formularsi senza soluzione di continuità.

Resistere all’omologazione

Graphic novel Il difficile percorso che porta alla scoperta di sé raccontato

in modo magistrale da Nicoz Balboa Yari Bernasconi Che il fumetto sia uno strumento formidabile per (ri)raccontare le proprie esperienze e l’inesausta ricerca della propria identità, affrontando di petto i temi del corpo e della sessualità, è ormai un dato di fatto. Guardando indietro basterebbe citare un autore come il canadese Chester Brown, per esempio con quel «grande libro a fumetti» – come ha affermato Robert Crumb – che è Io le pago. Memorie a fumetti di un cliente di prostitute (Coconino Press, 2011): un grimaldello infallibile per forzare il nostro più banale e diffuso perbenismo. Ma si può anche guardare con fiducia al presente, se pensiamo che Zuzu, classe 1996, e Fumettibrutti, classe 1991, hanno vinto ex aequo nel 2019 il Premio Gran Guinigi di Lucca Comics come migliori esordienti perché «ognuna a suo modo racconta attraverso le proprie esperienze la contemporaneità senza infingimenti, retorica, recriminazioni: romanzi di formazione attraverso sesso, dolori, amori, disegni, pensieri, vita».

La copertina della graphic novel realizzata da Nicoz Balboa.

Entro questo panorama, merita senza dubbio un’attenzione particolare il lavoro di Nicoz Balboa, fumettista e artista di Roma residente a La Rochelle, a cui si deve uno dei più interessanti fumetti italiani del 2020: Play with

Fire, pubblicato da Oblomov. Un libro che continua – o «prolunga» – l’esperienza del precedente Born to Lose (Coconino Press, 2017), anche se rispetto a quel lavoro, che era un vero e proprio diario a fumetti, questo ha una costruzione più organica, con una densità grafica toccante e disordinata al punto giusto, senza rigidità o automatismi, e un ritmo che accelera e spinge spesso al sorriso, in una sarabanda di piccoli avvenimenti che potrebbe persino far pensare a una sorta di ironica soap opera. Detto questo, sarebbe riduttivo considerare Play with Fire – che inizia con la visione del film del 2013 La vita di Adele, come succede nel libro d’esordio di Zuzu, Cheese (Coconino Press, 2019) – un fumetto sul coming out. È certo anche questo, ma molti altri sono gli spunti che rendono coinvolgente la lettura del libro. In particolare, accanto al racconto della difficoltà a definire il proprio corpo e a definirsi sessualmente, c’è la difficoltà a farlo in un mondo di convenzioni più o meno tacite, in cui gli stessi protagonisti vei-

colano – talvolta senza accorgersene – una visione «eteronormata» della sessualità. Non a caso l’unica, transitoria serenità incontrata dalla protagonista è quella della maternità, quando il corpo sembra avere un senso e un ruolo preciso, senza necessità di giustificare e giustificarsi alcunché. Ma cosa ci spinge alle convenzioni, all’omologazione? Forse proprio la coscienza della nostra unicità in continua trasformazione, che nei momenti più difficili può sembrare solitudine, distanza, sofferenza. Ammetterlo a sé stessi, evitando il fasullo conforto dell’uniformazione, potrebbe essere un passo decisivo per una società più giusta: «Diventare me stessa è stato un cammino alla cieca e in salita. E non so ancora a che punto del tragitto sono. Però so che voglio farcela. Non voglio mollare né tornare indietro. Vorrei mi si leggesse in faccia che sono diversa». Bibliografia

Nicoz Balboa, Play with Fire, Oblomov, 2020.

Alessia Della Casa, al centro dell’originale scenografia. Il faggio protagonista a teatro

La timida ripresa teatrale nella nostra regione va seguita con attenzione. Come assistendo a Humus, uno spettacolo di e con Moira Dellatorre, artista cresciuta soprattutto nell’ambito della narrazione per giovanissimi, un talento confermato nel debutto al Teatro Paravento di Locarno. Nato per la candidatura al patrimonio mondiale dell’UNESCO dei faggeti valmaggesi, Humus (Laura Rullo, scrittura e regia e Oliviero Giovannoni, ritmo) e si ispira alla biodiversità, all’unicità dei boschi e alla bellezza del faggio a cui l’attrice dà forma in un’energica immedesimazione ricca di incontri: dall’affascinante betulla al già-nato-vecchio larice al buffo corteo di petulanti processionarie (un omaggio a Dario Fo). Monologo vivace in un impasto di vernice colorata su un tappeto di trucioli per la domanda: cosa ero prima? Un inno alla natura per grandi e piccini dal meritato successo.


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Un classico di Berna Ogni Toblerone ha origine nella fabbrica di Berna. Il 100% della massa di cioccolato e di torrone è prodotto in Svizzera, mentre il latte utilizzato è fornito da circa 14’000 mucche svizzere. Il cacao proviene da una produzione sostenibile ed equa, promossa da Mondelez tramite il Cocoa-LifeProgramm.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 maggio 2021 • N. 20

Dall’interno o dall’esterno? Chi ha già provato a staccare un intero triangolo con un morso si sarà chiesto se quello è il modo più corretto di mangiare il Toblerone. Non proprio. Il miglior modo è con le mani: tenendo la tavoletta nel palmo, con il pollice fare pressione sulla punta più esterna in direzione della seconda fino a che il triangolo si spezza.

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62’000 chilometri

Fondue di cioccolato

Se tutte le tavolette di Toblerone consumate annualmente nel mondo venissero messe in fila, si arriverebbe a fare circa un giro e mezzo del mondo.

Negli anni ’60 Toblerone combinò due classici svizzeri, formaggio e cioccolato, e mise in vendita un set per la fondue di cioccolato che includeva un ricettario. La fondue di cioccolato è particolarmente gustosa con la frutta: mai provata?

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Toblerone si compone del nome del suo inventore, Theodor Tobler, e del termine «Torrone», la bianca specialità italiana.

Il tema del Cervino La prima confezione di Toblerone, creata nel 1908, riportava un’aquila, la bandiera svizzera e quella di Berna. Solo più tardi nacque la leggenda secondo cui la particolare forma del Toblerone si rifacesse al Cervino. La più famosa vetta del paese è del resto comparsa sulla confezione solo nel 1970. Stesso discorso per l’orso, da sempre strettamente associato al marchio, che è però difficile da riconoscere al primo sguardo. Chi riesce a trovarlo?

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Cultura e Spettacoli

Una passeggiata tra le riaperture

Mostre Cinque proposte attualmente visitabili a Lugano, con cinque punti di vista sull’arte contemporanea Ada Cattaneo

Mentre qualcuno ipotizza scenari di euforia senza freni dopo il periodo pandemico e altri paventano epoche di oscurantismi, le maggior parte di noi si riaffaccia con una certa timidezza e quasi con stupore alle attività normali. Ogni settimana l’agenda culturale è più consistente e anche le gallerie d’arte stanno tornando a proporre nuovi progetti strutturati, non più allestimenti d’emergenza approntati per fare fronte all’imprevedibile susseguirsi di chiusure e riaperture. La scena dell’arte contemporanea è però in buona parte un fenomeno di socialità, di costume: si va ai vernissage per incontrarsi ancor più che per studiare con diligenza le opere esposte e si frequentano le fiere anche per il clima di mondanità che le circonda. In questo momento, però, ovunque i galleristi si stanno interrogando su modalità nuove per richiamare il pubblico dopo che la componente sociale è venuta mancare. A Lugano si riscontra un impulso verso progetti di qualità. La Divisione eventi comunica che si dovrà probabilmente aspettare il prossimo inverno per una nuova edizione di Open Gallery, la manifestazione che coinvolge gli spazi d’arte pubblici e privati della città. Ma vale certamente la pena dedicare un pomeriggio ad una passeggiata fra le gallerie che hanno già riaperto. Partiamo a piedi da Via Franscini, dove la Kromya Art Gallery propone una retrospettiva sull’opera di Flavio Paolucci. Una ventina di opere dell’ar-

tista nato a Torre in Valle di Blenio nel 1934, caposcuola della scultura ticinese contemporanea, raccontano bene la sua linea di ricerca che si dipana seguendo il rapporto fra uomo e natura. Interessante l’approfondimento fatto in quest’occasione sui lavori cartacei – sempre realizzati per sovrapposizione di livelli consecutivi – e sulle sculture che raccontano le forme abitative della montagna. Uscendo, vale la pena di tornare ad osservare Occhio verde, opera del 2007 dall’eleganza quasi orientale nel contrasto fra il legno chiaro e le foglie di carta, che imitano il bronzo ossidato. In Via Dufour, apre il 20 maggio l’esposizione collettiva Past/Present alla Dip Contemporary Art. Il concetto di partenza è la diversa percezione del tempo che ha caratterizzato le nostre vite nell’ultimo anno e mezzo, determinata da incertezza sommata all’impossibilità di pianificare il futuro. L’artista francese di origini armene Melik Ohanian da tempo interroga il concetto di tempo lineare, esperienza individuale contrapposta a quella collettiva. Nelle fotografie scelte per la mostra, Ohanian presenta un soggetto apparentemente astratto, in realtà raffigurante la liquefazione del cesio, elemento utilizzato negli orologi atomici per determinare la durata esatta del secondo. Occasione anche per vedere opere delle artiste italiane Liliana Moro ed Elisabetta Benassi, anch’esse parte dell’esposizione. Ci dirigiamo ora verso il centro città per visitare presso la Galleria

Flavio Paolucci, L’occhio verde, legno, carta e colore, 2007.

Buchmann la personale dedicata al celebre scultore inglese Tony Cragg, di cui sono esposte anche alcune opere su carta, oltre alle due sculture Untitled e Stack. Salendo per Via Cattedrale arriviamo fino allo spazio di Daniele Agostini dove, da inizio maggio, sono sviluppati tre nuclei espositivi. Fra questi, si segnala il dialogo fra due artisti rappresentati dalla galleria – Tonatiuh Ambrosetti e Marco Scorti – attorno all’idea di sublime, rintracciato nell’osservazione della natura, in connessione alle esperienze del Romanticismo. Un approfondimento viene dedicato al giovane artista Giovanni Chiamenti che qui presenta opere realizzate con la ceramica raku a partire dal concetto di rizoma, metafora del pensiero che

avanza per associazioni, piuttosto che per gerarchie. Riprendiamo la nostra passeggiata, imboccando il tunnel pedonale di Besso; superiamo il cantiere che in questi mesi circonda la zona della stazione per raggiungere la Galleria Doppia V, dove andiamo a visitare Atomik magik circus. La mostra si sviluppa sui due piani dell’edificio ed è dedicata interamente all’artista autodidatta François Burland, nato a Losanna nel 1958, che per più di trent’anni è stato frequentatore di tribù Tuareg, con le quali ha condiviso segni e colori, oltre che l’abitudine al riutilizzo dei materiali. Si comincia con la serie di opere su carta – sacchetti del supermercato, imballaggi per pacchi – sui quali sono

dipinti soggetti più che noti, emblemi della cultura di massa, accompagnati però da slogan ironici che ne sovvertono il significato. Di recente Burland si è dedicato al lavoro con rifugiati ospitati in strutture di accoglienza della Svizzera romanda, spostando l’attenzione dall’opera finita alla creatività quale processo di coinvolgimento sociale. Se decidessimo di tornare verso il centro città, si potrebbe percorrere la Scalinata degli angioli in direzione del lago, a fianco dell’ex Hotel Bristol, per raggiungere Riva Caccia. La Collezione Olgiati conclude il nostro pomeriggio: è un’eccezione al nostro giro fra gallerie giustificata dalla qualità dei lavori esposti per la mostra Terre. Non perdete il cretto bianco e nero di Alberto Burri, il rilievo Deux oiseaux di Max Ernst e la grande tela di Anselm Kiefer, oltre ai lavori di Enrico Prampolini. Dove e quando

Kromya Art Gallery, Flavio Paolucci. A confronto. Opere di ieri e di oggi, fino al 20 giugno. Dip Contemporary Art, Past/Present, fino al 10 settembre. Buchmann Lugano, Tony Cragg, fino al 26 giugno. Galleria Daniele Agostini, fino al 3 luglio. Galleria Doppia V, Atomik magik circus. François Burland, fino all’11 giugno. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Terre, fino al 7 giugno, Entrata gratuita. Annuncio pubblicitario

Quelle pagine, quelle persone Editoria Un libraio che commercia in usato

scrive dei suoi clienti e delle loro biblioteche I libri vivono più dei loro proprietari. Questa è una delle molte amare verità che questo volumetto ci costringe a riconoscere. È una banalità, ma fa sempre male pensarci. Oppure no: il libro è l’oggetto magico che rende la vita di chi lo possiede ancora più ricca e significativa. È proprio da questa possibile soluzione positiva (il «libro redivivo» come possibilità di epifania per un altro lettore, diverso da colui che l’ha acquistato) che prende forma il racconto di Giovanni Spadaccini, libraio esperto con un negozio a Reggio Emilia. Arrivato in modo del tutto inatteso a convertire la sua passione per la letteratura in una professione (dice di non aver mai pensato di possedere alcun fiuto per gli affari, anzi di essere uno di quelli che tendenzialmente paga chi gli offre dei libri molto più di quanto do-

Compro libri anche in grande quantità esce da UTET.

vrebbe) Spadaccini si accorge a un certo punto che la passione per l’oggetto librario è in realtà il pretesto per una serie di avventure umane: l’incontro con colui che possiede dei libri e se ne vuole liberare. I motivi (sia per possederne, sia per liberarsene) sono svariatissimi, e sono in realtà altrettanto romanzeschi quanto le trame dei volumi in questione. E il racconto di questo Compro libri anche in grande quantità sta indubitabilmente nella galleria di ritratti che disegna ai nostri occhi. L’opera di Spadaccini, a nostro modesto avviso, è da annoverare tra i saggi filosofici. Parlando di libri si parla della vita e del suo senso, un senso che, sembra di capire, alla fine dei conti, è probabilmente letterario. Quando un libro arriva nelle mani di una persona finisce per aderire alla sua storia, per diventare un supporto cartaceo che rispecchia un’esperienza. I nostri libri «sono» la nostra vita, e la cura con cui li conserviamo è analoga all’attenzione che prestiamo, al valore che diamo alla nostra esistenza. All’urgenza con cui cerchiamo, attraverso quelle pagine, di afferrarla. Per dirla in poche parole, questo libro ci mostra chiaramente come sia bello e appassionante parlare di libri. Di quelli che ci piacciono e di quelli che non ci piacciono: di quelli che abbiamo letto e di quelli che non siamo mai riusciti a finire. Quelli annotati con forza ed entusiasmo. E quelli dimenticati, da riscoprire magari un giorno, come tasselli fondamentali della nostra storia personale. Se, per vari motivi, saranno poi rimessi in circolo, torneranno a sprigionare tutta la loro magia per altre persone, a scrivere altre storie. /AZ

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Cultura e Spettacoli

La mano sul cuore

Lo streaming accoglie i classici

Musica e identità nazionale Le diverse origini e funzioni

degli inni nazionali europei e americani Carlo Piccardi Nel 1797, pubblicando le sue memorie, André Grétry notava come nella musica del tempo fosse penetrato un «élan terrible», un accento di terribilità dettato dalla nuova epoca uscita dalla Rivoluzione francese. Era la sensazione di essersi lasciati alle spalle l’«ancien régime» con tutta la sua cerimoniosità e l’equilibrio rassicurante dei suoi convenevoli e di aver liberato forze misteriose. In verità il popolo, nel momento

Gli inni europei, nati durante l’epoca dei nazionalismi, non riescono a nascondere un carattere guerresco stesso dell’emancipazione (in cui conquistava la sovranità), giungeva a confrontarsi con la prospettiva di aver messo in moto un meccanismo fatale che, nello stesso momento in cui spalancava orizzonti di progresso, lasciava presagire oscure immagini di sacrificio e di morte. L’evocazione del sangue, della guerra, ne La marseillaise è eloquente («qu’un sang impur abreuve nos sillons»), e tanto più

lo è quanto più la ritroviamo nei testi e nelle musiche degli inni nazionali e patriottici ottocenteschi. Hector Berlioz, il maggiore erede della Rivoluzione francese tra i musicisti, le rispecchia nelle sue composizioni in generale e in particolare nella Symphonie funèbre et triomphale dedicata alle vittime della Rivoluzione del 1839, unendo marcia funebre, preghiera e apoteosi degli eroi. Ma l’immagine della nazione come drammatica e cupa rappresentazione riguarda l’Europa tutta, anche nell’epoca della Restaurazione. I cori dei cacciatori del Freischütz (1821) di Carl Maria von Weber, a cui si fa risalire l’identità nazionale tedesca in musica, non riescono infatti a nascondere un carattere guerresco, che ritroviamo anche negli Jagdlieder op. 137 di Robert Schumann, dove un verso esalta il «deutsches Jägerblut» prefigurando addirittura la devastante ideologia del «Blut und Boden». L’idea di popolo e nazione in Europa evidenzia il risvolto tragico della vita e gli inni in musica lo registrano, siano essi i sacrali momenti epici individuati da Wagner (si veda il coro degli ospiti della corte di Turingia nel Tannhäuser), o i trasporti alla bersagliera dell’innodia italiana apparentemente gioiosa ma non per questo

Televisione Non solo serie: Netflix propone

meno minacciosa (come indicano i primi versi dell’Inno di Garibaldi («Si scopran le tombe, si levino i morti»). La situazione è completamente diversa in America, in cui l’identità musicale è nata intorno agli inni patriottici. Il patrimonio culturale-musicale dell’americano si individua nello Yankee Doodle, in Hail Columbia e nella ricca innodia sviluppatasi durante la guerra civile. Ciò significa che l’inno patriottico non vi è percepito come un fatto sacrale separato dalle altre attività, bensì come una realtà domestica. Lo testimonia eloquentemente la bandiera nazionale che in Europa è issata solo sui pennoni e sugli edifici rappresentativi e che negli Stati Uniti troviamo nell’ufficio di qualsiasi pubblico funzionario e nelle aule scolastiche. Ne deriva musicalmente un uso degli inni in certo qual modo dissacrato, ridotto a pratica familiare. Ciò non significa irriverenza, bensì la sostituzione all’europeo «élan terrible» di uno «slancio vitale» che ha consentito a Charles Ives di aprire prospettive sperimentali nel modo in cui ha miscelato i vari inni americani nella sua Holiday Symphony (1904-1913), penetrando con altrettanta audacia combinatoria nella commedia musicale di George Gershwin (Let’em eat cake, 1933), cioè nella più dichiarata quotidianità.

Claude Roger de Lisle, compositore della Marseillaise, canta l’inno in casa del sindaco di Strasburgo, in un dipinto del 1848. (Keystone)

ai suoi utenti anche alcuni capolavori dalla storia del cinema

Un fotogramma da Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli. (Youtube)

Nicola Mazzi Netflix, sempre di più, pensa ai cinefili. La piattaforma online, per raggiungere una nuova fetta di mercato, sta inserendo nel suo catalogo pellicole di altri tempi. In particolare, in questi mesi, sta lavorando su due filoni: i film italiani degli anni 50-60 e i film muti scandinavi.

In questi mesi Netflix sta lavorando su due filoni: i film italiani degli anni 50-60 e i film muti di registi scandinavi Iniziamo dalle proposte italiane che appartengono alla storia del cinema. Su tutti quel meraviglioso film che è Io la conoscevo bene (1965), capolavoro di Antonio Pietrangeli che ogni amante della settima arte dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita. Racconta di Adriana, una ragazza giovane e bella, che si trasferisce a Roma per cercare, in tutti i modi, di farsi strada nell’ambiente dello spettacolo. Una storia attualissima e drammatica con una splendida Stefania Sandrelli. Ma il catalogo offre anche Il posto, secondo lungometraggio di Ermanno Olmi, che grazie al premio della critica a Venezia si fece conoscere in tutto il mondo. Anche questa è una storia di un giovane che parte dalla provincia per cercare fortuna nella metropoli. Usando attori non protagonisti il regista assimila la lezione neorealista dei suoi predecesso-

ri e la riporta agli anni del boom economico. Un genere di successo al botteghino fu la commedia all’italiana e Netflix propone la famosa trilogia dedicata a Pane, amore e…, di Dino Risi e Luigi Comencini con le star dell’epoca: Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Film che furono il simbolo della rinascita di un Paese che si stava ricostruendo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sul versante scandinavo nella piattaforma si scovano piccoli gioielli muti come Ingeborg Holm (1913) e C’era un uomo (1917) dello svedese Victor Sjöström. Due titoli da appassionati che rivelano uno dei momenti più prolifici e importanti di una cinematografia che è stata tra le prime a svilupparsi e ad acquisire un’aura artistica. In particolare, il film del 1917 è un adattamento di una ballata scritta nel 1862 da Henrik Ibsen. E oltre a mettere in scena l’intensità drammaturgica dell’opera originaria utilizza il nuovo (all’epoca) mezzo cinematografico e in particolare la fotografia e il montaggio per aumentarne l’impatto, grazie a diverse scene girate in mare aperto. E come non citare il danese Carl Theodor Dreyer, l’autore del famoso Giovanna d’Arco, del quale Netflix offre La vedova del pastore (1920). In questo caso il regista segue il modello classico che prevede l’adattamento di una famosa opera letteraria, con una storia ambientata nel passato e un ampio uso dei paesaggi naturali. Da notare che sia le scene in esterni sia quelle in interni furono girate in autentiche abitazioni seicentesche di Maihaugen, un museo all’aperto vicino a Lillehammer. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Affollatissima RAI Chissà se qualcuno si è mai presa la briga di calcolare quanti italiani sono transitati per poco o per tanto tempo sugli schermi televisivi della RAI. Qualche milione? Fra questi ce ne sono alcuni che in seguito hanno svelato un volto imprevedibile. Ricordiamo due casi tragici e due curiosi. Il 12 dicembre 1969 a Milano una bomba collocata nel salone della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana provoca una strage. Pietro Valpreda ha il profilo perfetto per essere indicato come colpevole e permettere ai servizi di sviare le indagini: è un anarchico un po’ sbruffone che grida ai quattro venti propositi eversivi. Pratica molti mestieri fra cui il ballerino di fila e come tale lavora a Roma, nel Teatro delle Vittorie, a Canzonissima, facendo la spola con Milano. Dalle puntate andate in onda fino all’11esima del 6 dicembre vengono tagliati i balletti in cui si intravvede Valpreda. Quella del 13 dicembre, il giorno dopo la strage, fu annullata per lutto nazionale. La direzione intimò a Bruno Vespa che per

primo avrebbe dato notizia dell’incriminazione di non dire che la RAI aveva scritturato un anarchico. Il secondo tragico caso riguarda Giusva Fioravanti, reo confesso di molti omicidi e condannato con Francesca Mambro per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Di quest’ultima accusa si è sempre dichiarato innocente. Dodici anni prima Giusva era un bambino e deliziava i telespettatori nel ruolo del figlio minore de La famiglia Benvenuti, 6 episodi scritti e diretti da Alfredo Giannini, in onda dal 2 aprile 1968. Raccontano le avventure di una tipica famiglia italiana della media borghesia. I genitori del piccolo Giusva sono Enrico Maria Salerno e Valeria Valeri. Segue una seconda serie in 7 episodi in onda dal novembre 1969. Nonostante il successo di critica e di pubblico, le due serie non furono mai più replicate, dopo che diventò nota l’incredibile metamorfosi di un giovanissimo e promettente attore in un terrorista nero. Passiamo ai casi curiosi.

Del primo sono testimone diretto, nelle vesti di delegato alla produzione di La vedova e il piedipiatti, 6 episodi giallo rosa scritti da Paolini e Silvestri e diretti da Mario Landi. Siamo nella sede RAI di Torino nella primavera del 1978. La vedova è Ave Ninchi 63enne, che arrotonda la pensione praticando l’arte della medium e affittando una camera a un commissario di polizia appena trasferito, il «piedipiatti», Enrico Papi 33enne. Completano il quartetto dei protagonisti fissi gli attori Giulio Paolini e Miriam Bartolini. Quest’ultima è una bella ragazza 22enne, di Bologna, con una massa di capelli nerissimi e due occhi stupendi. Entrata a far parte del cast all’ultimo minuto, ricopre il ruolo della custode del condominio, innamorata non ricambiata del poliziotto. La ricordo silenziosa, attenta, schiacciata come tutti dalla prorompente personalità di Ave, che riempiva lo schermo e non solo, con un’allegria e una voglia di vivere contagiosi. Con Miriam ho scambiato solo poche frasi

e tutte inerenti al mio lavoro: piano di produzione, orari delle riprese e del trucco, cose così insomma. Da lei mai una richiesta o una lamentela, com’ero abituato a subire da attori con pretese inversamente proporzionali alla loro bravura. Mi sono reso conto che avevo perso l’occasione di approfondire la sua conoscenza quando ho saputo che aveva cambiato nome e da quel momento in poi sarebbe stata conosciuta come Veronica Lario. La vedova e lo sbirro sarebbe poi andato in onda l’anno seguente, dal 3 luglio al 7 agosto 1979. Mai più replicato, anche perché era ancora in bianco e nero. Su Google se ne trovano ampi stralci ma in quelle sequenze non si trova mai la bellissima Miriam Bartolini. Sarà frutto del caso o di una sapiente manina? Arriviamo al nostro quarto caso. Il 15 ottobre 1886 esce Cuore di Edmondo De Amicis, Treves editore, un libro che riscuote un immenso successo. Il libro ha struttura tripartita, cronaca scolastica, lettere dei famigliari, racconti mensili. La cronaca

si riferisce a un preciso anno scolastico, dal primo giorno di scuola, lunedì 17 ottobre, all’ultimo, 10 luglio 1882. La cronaca è tenuta da Enrico sul suo diario: frequenta la terza superiore che per noi corrisponde alla quarta elementare. Si va a scuola dal lunedì al sabato, con orario 9-12 e 14-16. Il giovedì si fa vacanza. Alla scuola Baretti di Torino l’aula di Enrico ospita 54 ragazzi. Ora il 4 ottobre 1984, 98 anni dopo la pubblicazione del libro, iniziano ad andare in onda le 6 puntate della libera riduzione televisiva diretta da Luigi Comencini. Firma la sceneggiatura tra gli altri Cristina Comencini, la figlia. Il ruolo del protagonista Enrico è ricoperto dal figlio di Cristina e nipote di Luigi Comencini. Si chiama Carlo Calenda. Enrico è un ragazzo per bene, assennato, saggio, rispettoso delle autorità. Sarà ancora così, una volta diventato grande, il noto uomo politico? Nota: per tutte le informazioni sui programmi sono debitore dei fondamentali lavori di Aldo Grasso.

e il resto del poveretto lo sciolgono o lo inceneriscono. Bisogna dire che il poveretto non prova dolore, perché lo anestetizzano subito; quindi anche costui deve ringraziare, perché non l’hanno torturato per estorcergli ad esempio la combinazione della cassaforte, o non è finito nella cantina di un sadico che ogni giorno gli cava un dente, poi le unghie, un occhio e così via. I sadici sono difficili da ringraziare, però ce ne potrebbe sempre essere uno più sadico ancora, da cui per fortuna ci si è salvati. La vita non è rose e fiori, però bisogna sempre pensare che c’è di peggio; allora anche nelle traversie più nere uno può stare allegro. Prende fuoco la casa? beh, per fortuna eri assicurato. Non sei assicurato e perdi tutto? beh, continui però a prendere lo stipendio. E se a uno brucia la casa subito dopo che l’hanno licenziato? beh, anche fare il barbone è un modo come un altro di vivere, anzi, uno si libera da tutte le preoccupazioni,

dall’ansia di carriera, dalla paura dei ladri, dalle tasse (mi sembra che i barboni non paghino tasse), ci sono le mense per poveri dove, per mia stessa esperienza, si mangia bene, semplice, meglio che nei ristoranti di lusso, dove lentamente ti avvelenano, con gli intingoli e il mercurio nel pesce, ti fanno venire la gastrite e poi l’ulcera; e non sono i peggiori, perché in altri ristoranti carissimi e raffinatissimi uno esce che non sta in piedi, ha perso l’uso della parola, crede sia il vino, invece è la glicemia, l’ematocrito, un arresto cardiaco, la trombosi. In fondo finire barbone, dormire all’aperto, sotto un cartone, è meglio che dormire in un gulag; o dormire in un buon letto anatomico ma tra incubi spaventosi che a poco a poco ti conducono al delirio e alla dissociazione. C’è una disgrazia suprema della quale non ce n’è una peggio? Siamo abituati a pensare che il disastro supremo sia morire. Non è vero. Anche in tal caso

c’è da ringraziare. Prima di tutto perché morire è obbligatorio, non si è mai dato il caso contrario, e stare a fare i pignoli, un anno più, un anno meno, sinceramente non vale la pena. Poi sembra non ci sia l’inferno, non è cosa da poco; se ci fosse sarebbe un bel guaio, credo che al giorno d’oggi nessuno lo scamperebbe; se fosse come dice Dante Alighieri, beh, difficile pensare qualcosa di peggio. Ma anche il paradiso, stare lassù a cantare in coro la stessa canzone per tutta l’eternità, io non so a chi gli è venuto in mente di immaginarlo. E anche il paradiso islamico, con le 72 vergini, obbligato a un coito continuo, 72 ogni giorno, è un’esagerazione, neanche Nabokov con Lolita arrivava a tanto. Quindi se dopo non c’è niente, secondo me dobbiamo solo dire grazie, o per fortuna; si torna a quello che eravamo prima di nascere, un mucchietto di sostanze chimiche, principalmente carbonio e acqua, non ci vedo niente di male.

tissimo tempo si incontrassero in un contesto sconveniente e imprevisto… Prevale la gioia o l’imbarazzo? Il passo capitale è tutto nella confessione del pellegrino che rammemora «la cara e buona imagine paterna» dell’insegnante capace di illustrare al giovane discepolo «come l’uom s’etterna», cioè i segreti della letteratura. Non c’è grandezza in Brunetto che celebra il suo allievo, lo esalta, gli predice gloria perenne (ma in definitiva non dimentichiamo che è Dante a predirla a sé stesso) e alla fine, congedandosi, lo prega di far sì che la sua opera nel mondo dei vivi non venga dimenticata. Non è un eroe, il povero Brunetto, ma è stato indubbiamente un maestro magnanimo. Lì accanto a Dante, tra l’altro, sentiamo la presenza incombente e silenziosa di Virgilio: anzi, tanto più incombente perché silenziosa e in ascolto. È Virgilio l’altro maestro e noi sappiamo che è un maestro gigantesco, certo più grande di Brunetto Latini. Insomma, il XV dell’Inferno è il canto

che celebra la figura dei maestri. È il canto in cui Dante ci fa capire che essere maestri significa essere padri benevoli, illuminati e severi, e che essere allievi significa saper essere figli, ovvero coltivare l’ammirazione e la gratitudine per i propri genitori senza rimanerne schiacciati. E dunque ogni volta che leggo questo canto, penso alla fortuna di aver avuto maestri giganteschi e così diversi tra loro. Penso a una vita illuminata da queste presenze generose e fecondanti. E lo penso ancora di più, non a caso, in questi giorni in cui ricorrono i cent’anni dalla nascita di Giorgio Orelli (25 maggio). E lo stesso penso di Cesare Segre e di Maria Corti, e lo stesso di Giovanni Orelli, cugino di Giorgio, che è stato mio professore di liceo. Penso a una vita immeritatamente piena di incontri con giganti generosi a cui non voglio dare nessun voto d’aria perché sarebbe contro natura che un allievo desse voti ai maestri e la colpa sarebbe ben più grave di quella del povero Brunetto. Fatto sta che sfogliando una vecchia

agenda, sotto la data 27 giugno 2001 c’è la scritta a mano «pranzo con Giorgio e Mimma all’Antica Osteria Cavallini, via Mauro Macchi». Eravamo a Milano e quel giorno Giorgio doveva consegnare una nuova raccolta di poesie, Il collo dell’anitra, a Gianandrea Piccioli, acuto direttore editoriale della Garzanti. Ricordo che ci parlò del Fiore, il poemetto che Gianfranco Contini attribuì all’Alighieri e su cui Giorgio stava lavorando con il solito entusiasmo scoprendo, tra l’altro, che in certi versi si trova, criptato, il nome di Dante. A proposito di Contini, Giorgio diceva che il buon maestro sceglie una sua direzione, indicando però agli allievi anche altre strade. Dice: io continuo ad andare a Ovest, ma tu prova ad andare a Est… Era stato Contini a segnalargli una possibilità di lettura cosiddetta «verbale» della poesia, cioè legata al suono. I maestri vanno sempre discussi, diceva Orelli, citando Nietzsche: «Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre e solo discepoli».

Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Il peggio del peggio Bisognerebbe sempre ringraziare la sorte quando capita un disastro, per il fatto che non è capitato di peggio. Uno si rompe una gamba, beh, deve ringraziare di non essersene rotte due. Uno viene scippato, beh, per fortuna non l’hanno accoltellato. Uno viene accoltellato, grazie a Dio non l’hanno fatto secco, non l’hanno gettato sotto al tram, non l’hanno rapito e seviziato, non l’hanno rapito per espiantargli un organo e rivenderlo, perché succede anche questo, un organo rende più di un riscatto; si sa che al giorno d’oggi c’è un vasto commercio di organi per i trapianti. Se a uno la malavita gli ha tolto un rene, beh, deve ringraziare che non gli abbiano tolto il cuore, il cuore vale moltissimo, ci sono ricchi in attesa di un cuore nuovo, la malavita è in grado di procurare di tutto, anche il cervello, se si potesse già trapiantare, solo che il rapito senza cuore o senza cervello non vive. Allora la malavita in questi casi simula

un incidente; prima compila l’elenco delle persone disposte a donare, cioè coloro che generosamente hanno firmato come donatori in caso di morte; è la stessa malavita che presentandosi come ente assistenziale senza fini di lucro raccoglie le firme dopo una campagna di propaganda: «Donate gli organi, continuerete a vivere in un’altra persona». Poi uno a uno i donatori hanno incidenti, chi cade da una finestra, chi si fulmina con la corrente, chi inghiotte per errore acido muriatico, fino ai più classici incidenti d’auto, con l’altro che fugge e non viene trovato. Sembra tutto casuale, invece è la malavita che lavora su commissione, serve un fegato, serve un braccio, serve la milza o un metro quadrato di pelle, guardano l’elenco dei donatori e scelgono uno che sia geneticamente compatibile, poi l’incidente. Se ci sono difficoltà burocratiche rapiscono uno qualunque, e in una loro clinica convenzionata gli espiantano l’organo,

Voti d’aria di Paolo Di Stefano I maestri che meraviglia! In questo anno dantesco, mi è capitato più volte di dover rispondere a bruciapelo alla domanda: quale canto della Divina commedia preferisci? Un po’ per non cadere nel solito riflesso automatico di evocare i lussuriosi Paolo e Francesca o Ulisse; un po’ per il motivo che spiegherò in questo articolo, ho risposto quasi sempre: il canto di Brunetto Latini, cioè, restando all’Inferno, il XV. Ci sono indubbiamente canti più belli. Per quale motivo, dunque mi ostino a citare il canto in cui Dante celebra il suo vecchio maestro Brunetto, pur collocandolo tra i dannati per sodomia, ovvero per aver compiuto un peccato definito contro natura? Intanto, per questo, perché sento una gran pena verso un’anima che – senza nessuna colpa se non quella (tra l’altro molto presunta) di aver amato persone del suo stesso sesso – viene condannata per l’eternità a girovagare su un sabbione incandescente tempestato da una pioggia di fuoco. E senza neppure potersi fermare: infatti, come lo stesso Brunetto spiega a

Dante, se dovesse fermarsi a chiacchierare con lui, sarebbe costretto a passare cent’anni immobile su quella sabbia infuocata. Sono le crudeltà che il poeta infligge anche alle anime per cui prova pietà (Francesca da Rimini) o stima al massimo grado (Ulisse, per esempio). Ma Brunetto a me fa ancora più compassione degli altri anche perché è, con Virgilio, il vero maestro, che Dante adora come tale, per altro ampiamente ricambiato. Già il momento dell’incontro è un colpo al cuore, anzi due. Quando Brunetto incrocia il suo allievo da quelle parti, nel terzo girone del settimo cerchio, ha un sussulto: «Qual maraviglia!», e l’altro, con tanta pena e quasi con un moto di pudore vergognoso nel ritrovarlo tra i sodomiti, esclama: «Siete voi qui, ser Brunetto». Un doppio sospiro a rimbalzo, dove il peso cade come un macigno su quell’avverbio di luogo (qui): uno dei sussulti di sorpresa più felici e malinconici insieme della letteratura. Come se due persone che non si vedono da tan-


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