Azione 21 del 25 maggio 2021

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Cooperativa Migros Ticino

Società e territorio I bambini vanno protetti dagli schermi? Intervista allo psichiatra francese Serge Tisseron

Ambiente e Benessere Sul lago artificiale di Toules, in Vallese, la prima struttura galleggiante per la produzione di energia elettrica fotovoltaica

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 25 maggio 2021

Azione 21 Politica e economia Banco di prova per la politica svizzera in favore del clima il prossimo 13 giugno alle urne

Cultura e Spettacoli Ricordando lo scrittore ticinese Giorgio Orelli a cent’anni dalla nascita

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Pensieri imprevisti in attesa del vaccino

Dentro la guerra israelo-palestinese una tragedia che non ha fine

di Alessandro Zanoli

di Lucio Caracciolo, Alfredo Venturi, Romina Borla

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Per curiosità, appena arrivato a casa, Luigi è andato a cercare sull’ultimo ripiano della libreria la Storia di Mendrisio di Mario Medici: «Nella zona sud del borgo, in prossimità del Campo sportivo comunale si staglia la vasta mole del Mercato coperto , costruito dal 1942 al 1944 su progetto degli architetti Chiattone e Krüsi. (...) Originariamente previsto per il mercato del bestiame (...) fu in seguito dotato di un ampio palco e d’impianto di riscaldamento (1961)». Mentre era in attesa del suo turno per entrare in una delle postazioni di vaccinazione, che del Mercato coperto occupano attualmente lo spazio interno, Luigi si è ricordato improvvisamente di quante volte ha già guardato da sotto in su quelle arcate («Il disegno originale prevedeva una costruzione in cemento armato, ma le note restrizioni imposte dalla guerra consigliarono l’impiego del legno»). Per combinazione, proprio di recente qualcuno ha postato nella pagina Facebook «Mendrisiotto di una volta» (angolo per nostalgici molto seguito) una fotografia aerea di quella porzione di territorio: attorno al Mercato coperto, in quegli anni del dopoguerra, non c’era assolutamente nulla, se non campagna. Si capisce chiaramente quanto la funzione di mercato bovino fosse necessaria. Luigi, invece, venuto al mondo una quindicina d’anni dopo, ricorda molto bene la nuova fisionomia del Mercato coperto, quella degli anni 60. Attorno gli erano cresciuti numerosi palazzi, villette, scuole, fabbriche, distributori di benzina. Lo stesso Campo Sportivo era diventato un centro d’attrazione, con la squadra di calcio che iniziava un ciclo di successi e sarebbe poi arrivata fino in serie B. Luigi abitava proprio in uno di quei palazzoni, insieme a decine di altri bambine e bambini. Il «Mercato» era il loro parco giochi, l’orizzonte delle scoperte quotidiane. Essendo utilizzato anche come caserma per i corsi di ripetizione militari, era stato dotato di una postazione con pertiche ginniche in metallo, era poi circondato da transenne di ferro (quelle dove originariamente legavano il bestiame) che potevano essere comodamente usate come sbarre per esercizi. Dal lato orientale, dei lunghi lavandini in lamiera zincata permettevano ai ragazzini sudati di rinfrescarsi, nelle pause tra una partita di calcio e l’altra. Sopra, maestosi pioppi, con il loro particolare odore, garantivano spazi d’ombra e di fresco in quegli azzurri pomeriggi celentaniani. Il vero pregio del «Mercato» era però la sua inaccessibile sala principale. Chiusa per gran parte dell’anno, si apriva in occasione di eventi importanti, che finivano per animare tutto il quartiere. Cominciando dal veglione del Carnevale (per i bambini la domenica pomeriggio), la Festa dell’uva, quella della Ginnastica, ecc. Luigi ricorda poi una serata d’estate, storica, degna di un racconto di Alberto Nessi, in cui lui e una ragazza, tra tutti e due nemmeno vent’anni, avevano assistito sbirciando da una fessura in una finestra, in piedi su un davanzale esterno, allo storico concerto di Mino Reitano. Era stata la prima volta che un «cantante della televisione» arrivava fin lì. («Minoooooo! Siamo qui!» urlava in precario equilibrio la piccola Luisa, estasiata e fuori di sé, come usava allora). Ma il Mercato aveva anche un lato molto serio, da cui i ragazzini erano tenuti alla larga. Erano le manifestazioni politiche, i convegni di partito o le giornate organizzate in occasione di votazioni. A Luigi ritorna in mente addirittura la giornata (27 aprile 1969, dice un quotidiano di allora) in cui vi fu fondato il Partito Socialista Autonomo. Lui, che curiosava sulla porta principale di quel regno proibito, di anni ne aveva 11 ma capiva che stava succedendo qualcosa di storico. Al di là della politica, ricorda però con piacere anche le partite entusiasmanti della RiRi femminile, e l’allenatore di colore Yogi Bough. Quando il «Mercato» era, anche, una palestra. Ne è passata di vita qui dentro, pensa Luigi. Oggi c’è un’aria tesa, ma il senso di comunità sotto questi archi è ancora forte, nonostante la preoccupazione.

rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. ultimo termine per la spedizione della scheda di voto

SABAtO 5 GIuGnO 2021 (data del timbro postale)

shutterstock

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Società e territorio la pandemia vista da due centenari Fiorita Della Giovanna e Adolfito Valsangiacomo sono due ultracentenari e ci raccontano con quale spirito (positivo) hanno affrontato il periodo delle restrizioni imposte dal Covid-19 pagina 7

Chiude «il Caffè» L’editore locarnese Giò Rezzonico ha comunicato che cesserà la pubblicazione de «il Caffè». Da agosto sarà nelle cassette un nuovo domenicale: «la Domenica», proprietà del «Corriere del Ticino» pagina 9

L’archivio personale è un lascito emotivo pensato per qualcuno che ci sta a cuore. (shutterstock)

l’archivio come testamento emotivo Pubblicazioni Andrea Montorio in Promemoria ci spiega l’importanza di creare l’archivio dei propri ricordi Natascha Fioretti «Io mi chiedo che cosa succeda ai ricordi con il tempo. Io non ricordo più i miei genitori; non ricordo come erano fatti, come parlavano…», inizia con questa citazione di Paolo Sorrentino tratta dal film Youth – La giovinezza, un appunto che Andrea Montorio, autore di Promemoria. Come creare l’archivio dei propri ricordi (add editore), si era segnato anni fa. Annotazione che gli è tornata in mente, ora che anche lui è padre, lavorando a una sorta di vademecum che ci insegna come avere cura della nostra memoria e dei nostri ricordi. La citazione infatti si conclude così: «Ieri notte mi sono messo a guardare Lena che dormiva e ho ripensato alle migliaia di piccole cose che ho fatto per lei, come padre, e le ho fatte volutamente perché se le ricordasse, una volta cresciuta. Invece con il tempo non se ne ricorderà neanche una. Sforzi immani, Mick, per risultati modesti». Quanti e quante di voi che stanno leggendo si ritrovano in queste parole, in questi timori? Non temete, questo libro agile e profondo al contempo, vi dirà come fare. Andrea montorio, prima di parlare del libro, bisogna dire alle nostre lettrici e ai nostri lettori che lei della conservazione e della cura della

memoria si occupa per professione. Classe 1974, studi in filosofia, è co-fondatore di Promemoria Group, la prima realtà italiana specializzata nel recuperare, proteggere e valorizzare la memoria storica di grandi aziende, istituzioni culturali e collezioni private. Da dove ha avuto inizio tutto questo?

Gisella Riva, insieme alla quale ho fondato Promemoria Group, ed io abbiamo entrambi fatto la tesi con il sociologo Luciano Gallino. Curavamo per lui diversi progetti, tra questi uno sulla storia dell’industria nel nordovest italiano. Si trattava di creare uno strumento formativo per le scuole che raccontasse la storia dell’industria. Ad un certo punto ci siamo accorti di come le aziende utilizzassero poco, a livello strategico, tutto il loro archivio che poi rappresenta il sapere di un’azienda. Avere l’archivio non significa soltanto trovare tre o quattro foto, tenerle lì e usarle in caso di necessità.

Può farci degli esempi concreti di aziende con cui lavorate?

Abbiamo subito iniziato a lavorare con realtà molto grandi come Fiat e Lavazza, collaborazioni che hanno permesso in seguito di strutturarci. Con Gisella ci siamo divisi i compiti, lei ha iniziato a seguire tutti gli archivi istituzionali, dunque tutti gli archivi culturali e io quelli aziendali. Tra l’altro tra i nostri

clienti abbiamo anche l’archivio della Città di Lugano, con cui da tanti anni abbiamo un ottimo rapporto, hanno un archivio fotografico enorme. Per quanto riguarda gli archivi aziendali in Svizzera ad esempio collaboriamo anche con Bally. Ma prendiamo come esempio Lavazza: ci hanno dato le chiavi dei magazzini e noi – all’interno di decine di migliaia di documenti, fotografie, oggetti – siamo andati e abbiamo selezionato quegli elementi che possono essere utili per la strategia commerciale e di comunicazione del marchio. Tra l’altro in quel periodo Lavazza stava traslocando e aveva paura di perdere tutti i dati e il suo know-how, da qui dunque la necessità di creare un archivio.

Certo dai suoi studi in filosofia ne ha fatta di strada…

Lo dico sempre anche a mio figlio Louis, le materie umanistiche ti danno la forma mentis che poi ti permette di fare qualsiasi cosa. Suo figlio louis, il cambiamento di casa, in fondo da qui è nata l’idea di questo testo?

Il trasloco l’anno scorso c’è davvero stato. Inizialmente l’ho usato come incipit poi scrivendo è diventato il fil rouge di tutto. A livello emotivo è stato il trasloco più impegnativo della mia vita perché la casa che lasciavo era quella in cui era nato mio figlio. Mi sono chiesto:

come posso fare a portarmi via le cose importanti e fare in modo che anche lui possa ricordarsele nel tempo? A proposito di archivio e memorie, quanti tipi di memorie esistono?

Nel caso delle aziende parliamo di memorie produttive, per gli archivi pubblici parliamo di memorie culturali, quando invece parliamo di archivi personali e privati inevitabilmente intendiamo memorie emotive, perché quello è il vero valore aggiunto. nel testo ci dice che l’archivio è sempre lo specchio di chi l’ha prodotto, per capirlo e orientarsi bisogna conoscere chi l’ha creato. In concreto che cosa significa?

Dal mio punto di vista una motivazione che ti porta a fare l’archivio è farlo per qualcun altro, è questo che ti dà l’input per agire. È divertente ma in alcuni casi può essere anche doloroso. Quando mia nonna è mancata dovevo scegliere qualcosa da tenere ma non sapevo cosa. C’è anche una buona dose di responsabilità umana. Per questo dico sempre: raccontate il vostro archivio lasciate il testamento emotivo, spiegate perché lo fate e per chi. Spesso ci preoccupiamo dei lasciti patrimoniali ed economici ma non ci preoccupiamo dei lasciti emotivi. Non si pensa mai che l’archivio possa essere anche una cosa divertente, un rituale piacevole da fare.

Chi non vuole cimentarsi nell’archivio può sempre fare una capsula del tempo…

Naturalmente quando parli di archivio aziendale o culturale ci sono regole molto rigide da seguire, nei nostri ricordi siamo noi a definire le regole del gioco. Nel caso della capsula del tempo si tratta di congelare un’esperienza o un’emozione mettendo determinati oggetti ed elementi in una capsula del tempo che decidi di non toccare da qui a dieci anni. È sempre un modo per cercare di ricordare i propri ricordi. Il presupposto naturalmente è prendersi del tempo e magari farlo insieme a qualcuno, io lo faccio insieme a Louis.

Perché dunque dovremmo tutti fare il nostro archivio personale?

L’archivio ti aiuta a vivere in modo più consapevole il tuo presente, a dare importanza al tuo vivere quotidiano. A me ha dato un’ottima consapevolezza di una visione più prospettica del futuro, è quel circolo virtuoso dove il passato, presente e futuro riescono a incastrarsi bene. Mi ha dato questa maggiore serenità. Nel libro naturalmente racconto il mio percorso e indico le pratiche che hanno funzionato per me, ho fatto un po’ da cavia. Ognuno, una volta deciso perché fare l’archivio e per chi, può individuare le sue.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Digitalizzazione, i diritti dei bambini e le sfide degli adulti Infanzia A colloquio con lo psichiatra e dottore in psicologia Serge Tisseron

smartphone soffrono più spesso di ansia e insicurezza. Questo significa per esempio che a tavola durante i pasti non ci devono essere né televisione, né tablet, né cellulare; va deciso un luogo dove ognuno lascia i propri aggeggi digitali la sera fino al mattino; è meglio anche comprarsi una sveglia e cercare di non portare il cellulare in stanza la notte: sarà molto più facile poi proibirlo agli adolescenti!

Valentina Grignoli Dobbiamo proteggere i nostri figli dagli schermi? Come ridefinire i diritti dell’infanzia nell’era digitale? Qual è l’impatto dell’eccessivo uso dei nuovi media sulla crescita? Queste sono domande che ci poniamo spesso come genitori, educatori o insegnanti, e che sono state al centro di un importante congresso promosso dall’università di Ginevra e dall’Istituto internazionale dei diritti del bambino. Si tratta dell’XI Congresso internazionale sui diritti del bambino nell’era digitale: i bambini vanno protetti dagli schermi? organizzato da università e scuole universitarie professionali romande, in collaborazione con diversi istituti legati ai diritti dell’infanzia e servizi cantonali di gioventù, tenutasi – interamente online – gli scorsi 11 e 12 maggio. Tra i numerosi ospiti invitati a intervenire c’era anche il professor Serge Tisseron, da Parigi (Université Paris VII Diderot). Psichiatra e dottore in psicologia, Tisseron è autore, tra i molti volumi, di un’opera conosciuta nel settore e utilizzata anche alle nostre latitudini: 3-6-9-12, apprivoiser les écrans et grandir (ed. éres) – edita in italiano da La Scuola 3-6-9-12, diventare grandi all’epoca degli schermi digitali. L’ho contattato per conoscere più da vicino il suo punto di vista da ricercatore (Tisseron è anche membro dell’Académie des technologies e del Conseil National du Numérique) rispetto al rapporto stretto tra schermo e bambino e per capire con lui svantaggi e sì, vantaggi, degli strumenti digitali che ci circondano e che ogni giorno sempre di più – l’ultimo anno poi ne è stata la riprova – riempiono le nostre vite e quelle dei nostri figli. Professor tisseron, suo è il concetto di «Addomesticare gli schermi», mi piace questa idea del bambino che agisce, decide, doma e quindi non è solo una vittima passiva degli schermi. Potrebbe spiegare meglio la tematica?

Nel 2008, ho proposto un manuale di istruzioni: i fari 3-6-9-12. La parola «faro» può designare qualcosa di interessante ma anche pericoloso: in mare, può indicare scogliere da evitare, ma anche incredibili coralli da scoprire, o anche un relitto da esplorare. Per perseguire questo obiettivo, i fari 3-69-12 ruotano attorno a tre principi: l’accompagnamento, l’alternanza e l’apprendimento in autonomia (che va comunque anch’esso accompagnato). Ne conseguono quattro consigli educativi: limitare il tempo di utilizzo degli schermi, certo, ma anche scegliere coi nostri figli programmi di qualità, scambiare opinioni con loro su quanto vedono e fanno con i propri schermi, e infine incoraggiare la loro creatività, soprattutto a partire dai sei anni. Nessuno schermo è cattivo in sé, dipende

Azione

Settimanale edito da migros ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Da una ricerca della Commissione federale per l’infanzia e la gioventù risulta che in Svizzera i giovani tra i 16 e i 25 anni sono on line quattro ore al giorno durante il loro tempo libero, mi sembra tantissimo! esistono delle raccomandazioni per stabilire il numero d’ore da non superare per fascia d’età?

I genitori devono farsi raccontare dai propri figli ciò che vedono e fanno con gli schermi. (shutterstock)

dal modo in cui viene introdotto nella vita del bambino. Esattamente come per gli alimenti: tutti sono buoni, ma non metteremo mai una bistecca nel biberon!

ma perché scegliere proprio la parola addomesticare?

Viviamo con lo sviluppo del nostro smartphone in una cultura di schermi selvaggi. Sgranocchiamo il nostro cellulare tutto il giorno, interrompendo delle conversazioni per guardarlo, e abbiamo la tendenza a ingoiare un po’ di tutto su internet. Se ci comportassimo così con il cibo – tornando alla metafora precedente – risulteremmo estremamente mal-educati. Non dobbiamo accettarlo nemmeno per gli schermi. Bisogna imparare a essere civili con loro, come con il cibo, fissando delle regole comuni di buona condotta, iniziando dalla lotta contro l’infobesità. Ne trarremo tutti dei benefici, i nostri figli innanzitutto. Solo inconvenienti, pericoli, o anche benefici da questa relazione?

Il lockdown ha sottolineato la loro importanza per distrarci e comunicare. Gli schermi possono avere anche un ruolo educativo, ma questo ruolo positivo per i bambini dipende dall’ambiente socio-educativo nel quale crescono. È essenziale che i genitori si prendano del tempo per parlare con i propri figli di quello che vedono e fanno con gli schermi: chiedendogli per esempio cosa gli piace di tale videogioco, qual è Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

l’obiettivo, ecc… invitando il bambino o il ragazzo a esprimersi, argomentare, prenderne coscienza. I genitori dovrebbero anche imparare a distinguere tra utilizzo non patologico degli schermi e utilizzo eccessivo patologico. Nel primo caso l’uso è creativo e socializzante, stimola la passione e arricchisce la vita. All’opposto l’uso patologico la impoverisce: in questo caso lo scopo non è trarre piacere, ma sfuggire un dispiacere. Lo schermo diventa così una sorta di pozione magica dell’oblio. Questo tipo di utilizzo, problematico, è spesso il segnale d’allarme di una sofferenza psichica legata a un evento traumatico, come un lutto, un’aggressione, o l’inizio di un disturbo mentale.

Abbiamo visto che oggi non possiamo più evitare gli schermi, a casa, a scuola, tra amici… come mantenere un rapporto equilibrato o per lo meno «sano» tra bambino/ragazzo e mondo digitale?

Il miglior modo di insegnare, quando si è genitori, è attraverso il buon esempio. Questo significa non usare mai il cellulare durante i momenti di scambio con il proprio bambino. Non esiste solo un diritto del bambino a essere cresciuto con un utilizzo sano e equilibrato degli schermi, ma anche un diritto a poter interagire quotidianamente con persone emozionalmente disponibili. È stato dimostrato che i bambini confrontati a genitori sempre alle prese coi propri editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Il criterio di valutazione per un buon utilizzo degli schermi distrattivi è stato per molto tempo in effetti quello del tempo di utilizzo, si consigliava per esempio di non superare un’ora al giorno tra i 3 e i 6 anni, e due più tardi, per qualsiasi tipo di strumento. Ma ci si è accorti che ci sono altri criteri ugualmente importanti dei quali bisogna tener conto: i contenuti, il tipo di videogioco (certi favoriscono per esempio un comportamento ripetitivo mentre altri incitano a trovare soluzioni diverse ogni volta), il fatto di usarli da soli o in compagnia, o di interagire con altre persone connesse. Tornando ai fari 3-6-9-12, insistiamo molto sull’accompagnamento, durante l’utilizzo degli schermi, ma anche al di fuori, vale a dire dare la possibilità ai bambini di trovare un interlocutore attento e disponibile per parlare di ciò che vedono o fanno anche senza di noi. Infine, per aiutare i bambini a farne a meno, non c’è nulla di meglio che passare del tempo con loro valorizzando le attività che non li prevedono, come lo sport, i giochi tradizionali o di società.

I ragazzi di oggi sono chiamati «nativi digitali»: cosa significa? Come riuscire nel nostro lavoro educativo se spesso conoscono meglio di noi la tecnologia?

I nativi digitali sono un mito! Non esiste bambino che non abbia bisogno di essere educato al digitale perché ci è nato. L’educazione è indispensabile, la scuola ha un ruolo considerevole. Va detto però che i bambini hanno curiosità e tempo a disposizione, e questo permette loro di acquisire competenze digitali, anche limitate, ma che gli adulti non sempre hanno (ad esempio saper installare un determinato programma). Sta però sempre ai genitori ricordare ai propri figli quei valori fondamentali validi sia nel mondo digitale che nella vita reale: come il diritto all’intimità o la differenza tra acquisire informazioni e costruire un sapere organizzato. Da questo punto di vista, lo sviluppo delle tecnologie digitali è una formidabile opportunità di ricchezza tra generazioni. tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

ritornare a parlarsi e a raccontarsi Caffè narrativi

Un’iniziativa per la coesione sociale

Mai come prima d’ora ci siamo dovuti confrontare con la mancata possibilità di incontrare le persone intorno a noi per dare vita all’umano scambio che è fonte di ispirazione, di crescita e di mille altri fattori positivi necessari al consolidamento di sicurezza e fiducia. E oggi più che mai, dopo mesi trascorsi in casa, obbligati spesso a interagire con gli altri unicamente e in modo sterile attraverso uno schermo, sentiamo il bisogno di incontri nuovi, e magari anche della possibilità di liberare le nostre sensazioni e i nostri ricordi. A questo punto la scelta di lanciare anche in Ticino l’iniziativa aggregativa «Giornate dei caffè narrativi», che già gode di grande successo nella Svizzera tedesca e in Romandia, non poteva essere più azzeccata. Ma cosa sono i caffè narrativi, che avranno luogo nei punti più disparati del Paese dall’11 al 13 giugno? Lo abbiamo chiesto a Valentina Pallucca Forte, coordinatrice del progetto in Ticino: «Si tratta di piccole tavole rotonde ad esempio di quartiere, che promuovano momenti aggregativi e di inclusione sociale. I partecipanti (nel rispetto delle norme Covid) sono invitati a condivi-

I caffè narrativi (nella foto la locandina) si terranno dall’11 al 13 giugno 2021.

dere parte del proprio percorso esistenziale prendendo spunto dal tema Vicende della vita». Gli incontri saranno guidati da un moderatore, così da permettere a tutti di prendere la parola, garantendo un racconto corale equilibrato. Per quanto circoscritti nel tempo però, si auspica che siano solo l’inizio di qualcosa di più duraturo, come ci conferma Pallucca Forte: «L’obiettivo degli incontri è di lanciare una rete che possa andare avanti nel tempo». Ai caffè narrativi, sostenuti dal Percento culturale Migros, si può partecipare in diversi modi: offrendo uno spazio aggregativo, mettendosi a disposizione come moderatori, o semplicemente iscrivendosi e mettendosi in gioco. Informazioni e iscrizioni

www.caffenarrativi.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Idee e acquisti per la settimana

erbe aromatiche nostrane bio

Attualità Le erbe aromatiche fresche sono fondamentali in cucina per conferire alle pietanze

Flavia Leuenberger Ceppi

quel caratteristico e irresistibile tocco in più. Meglio ancora se prodotte in modo sostenibile e a pochi passi da casa nostra

Produzione biologica

L’azienda Mäder dal 2008 coltiva a Sementina erbe aromatiche in serra secondo le severe norme della produzione biologica. Massimo rispetto della natura e dell’ambiente sono i punti cardine di questa coltivazione che si estende su una superficie di ca. 130’000 metri quadri. Al posto di fitosanitari chimici si privilegiano la protezione preventiva delle piante e la lotta biologica contro malattie e parassiti tramite l’utilizzo di

antagonisti naturali. Inoltre, si rinuncia a riscaldare l’ambiente, l’energia elettrica è prodotta da un impianto fotovoltaico e un innovativo sistema utilizza acqua piovana per l’irrigazione delle piantine. Ampia scelta di erbe aromatiche

L’assortimento di erbe aromatiche fresche nostrane attualmente disponibile nelle maggiori filiali Migros è composto da basilico, aneto, coriandolo,

alloro, origano, menta, rosmarino, salvia, timo, basilico, rucola, prezzemolo liscio e riccio ed erba cipollina. L’effetto delle erbe aromatiche è straordinario. Da un lato arricchiscono di sapore e profumo le nostre pietanze, dall’altro contribuiscono a renderle meglio digeribili, grazie alle sostanze amare e agli oli essenziali che contengono. Gran parte delle erbe aromatiche fresche si possono anche essiccare e congelare, in modo da avere gli aromi sempre a portata di mano.

Coltivazioni di basilico presso lo stabilimento Mäder di Sementina. Alcuni consigli d’accostamento

Alloro: particolarmente indicato per minestre, ragù, carni bianche e carni alla griglia. Origano: per tradizione accompagna il pomodoro in molti piatti della cucina mediterranea, come pizze, sughi e pesci in umido. Rosmarino: con tutte le verdure, le patate, le carni alla griglia o rosolate. Basilico: si sposa alla perfezione con il pomodoro, ma accompagna bene anche

zuppe, paste, insalate e zucchine. Timo: ottimo con carni, pesci, pollame e cacciagione. Aneto: ideale per condire pesci come il salmone e la trota, nelle salse o sulle patate. Salvia: nelle salse al burro e in tutte le carni o pollame arrosto o rosolate. Menta: squisita nelle bibite fresche estive, nei cocktail, ma anche nelle insalate e sui piatti freddi per una freschezza extra.

Dillo con un fiore in pochi clic Grande tradizione Attualità Con Smood.ch in meno di un’ora puoi sorprendere italiana una persona cara con un bel mazzo di fiori del reparto Migros Florissimo. Ora anche con la possibilità di allegare un biglietto con testo personalizzato Vuoi rendere felice qualcuno di speciale con un mazzo di fiori consegnato in meno di un’ora al suo domicilio accompagnato da un bel biglietto d’auguri? Il portale Smood.ch ti offre la possibilità non solo di fare online la spesa ordinaria Migros comodamente da casa su buona parte del territorio ticinese, ma anche di scegliere alcune magnifiche composizioni floreali dei reparti Florissimo, il tutto allo stesso prezzo del negozio, proprio come gli oltre 6000 articoli già presenti sul sito. Qui troverai il regalo perfetto per ogni occasione e festa, dal compleanno all’anniversario di matrimonio, dalla nascita di un figlio a San Valentino, dalla Festa della Mamma fino agli auguri di pronta guarigione. Il funzionamento è semplice, veloce e assolutamente intuitivo: collegati al sito web di Smood.ch tramite pc o attraverso l’app direttamente dal cellulare e seleziona la categoria «Florissimo». Scegli il bouquet o la composizione floreale che più ti piace tra gli oltre venti disponibili, nonché uno dei sei biglietti d’auguri da accompagnare alla consegna. Aggiungi al carrello della spesa, immetti il destinatario e chiudi l’ordine. In meno

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Migros Ticino


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Società e territorio

la pandemia vissuta a cent’anni

Preziose risorse morali

Inadatti al futuro A colloquio con il filosofo

Incontri Due ultracentenari raccontano con quale spirito (positivo)

hanno affrontato le restrizioni e la solitudine imposte dal Covid-19

Julian Savulescu, ospite alla SUPSI con una lectio magistralis

Stefania Hubmann

Simona Sala

Fiorita Della Giovanna e Adolfito Valsangiacomo, due vivaci ultracentenari del nostro cantone, non si conoscono, eppure sono accomunati, oltre che dall’aver superato il secolo di vita, da un medesimo atteggiamento nei confronti di quest’ultima. Pur non essendo stati risparmiati da fatiche e dolori, conservano tuttora uno spirito positivo e una capacità di accettazione forse non del tutto estranei alla loro longevità. Lungo il cammino che li ha visti attraversare quasi per intero il Novecento e varcare la soglia del nuovo millennio i momenti forti non sono mancati, gli eventi epocali neppure. Hanno vissuto l’infanzia nella prima fase postbellica, la seconda guerra mondiale nel pieno della gioventù e da ultimo l’emergenza sanitaria all’origine di severe restrizioni. Come hanno affrontato e superato queste crisi, Fiorita Della Giovanna e Adolfito Valsangiacomo ce lo hanno raccontato in due simpatici incontri estesi ad alcuni rispettivi familiari. Gioviale e con la battuta pronta, la signora Fiorita, nata l’11 giugno 1919, ci accoglie con il figlio Sergio e la nuora Paola all’esterno della casa anziani Girasole a Massagno diretta da Paolo Beretta Piccoli. Un soggiorno temporaneo dopo una caduta si è trasformato da alcuni anni in residenza. Esce però ancora sovente, pandemia permettendo. La scorsa estate ha trascorso tre settimane in famiglia, prima di rientrare osservando il periodo di quarantena. In autunno è andata con il figlio a raccogliere funghi in una zona che ha frequentato regolarmente fino circa a 95 anni, fermandosi questa volta all’inizio del bosco, lungo la strada. Il carattere è forte, le decisioni ferme. Riguardo alla pandemia il primo commento è per il vaccino: «La vaccinazione non la faccio. Ne ho fatta soltanto una in vita mia, da bambina, quella che lascia gli “occhi” sul braccio». L’infanzia della signora Fiorita coincide con gli anni del primo dopoguerra. «Mi ricordo – prosegue spedita – che gli anziani parlavano ancora della guerra. La situazione era difficile, ma ero piccola». Le memorie legate alla seconda guerra mondiale sono invece più vivide: «Abitavo a Ponte Tresa e vedevamo il fuoco dei bombardamenti aerei su Milano. Sulle finestre di casa si mettevano le coperte nere per nascondere le luci. La circolazione con l’Italia era interrotta; la strada principale disseminata di buche riempite di sassi per impedire il passaggio». Accanto alle difficoltà c’è spazio per un aneddoto raccontato con il sorriso: «Alcuni soldati riposavano nella cantine della nostra casa e mi davano cinque centesimi se portavo loro una bottiglietta di gazzosa. Alla fine avevo un borsellino pieno di cinque centesimi!». Dopo la guerra la vita riprende, anche se riserva alla giovane donna altre difficoltà di natura personale. Su queste adesso preferisce soprassedere. Le ha af-

Julian Savulescu deve una parte importante del suo successo nel campo della filosofia e dell’etica alla pubblicazione, nel 2012, di Unfit for the Future, The Need for Moral Enhancement (Inadatti al futuro: la necessità di un miglioramento della morale). Nel libro, che fece molto discutere, Savulescu –filosofo e bioeticista, direttore del centro Uehiro di etica pratica all’università di Oxford – insieme al co-autore Ingmar Persson cercava di trovare nel rafforzamento della morale di cittadine e cittadini le risposte necessarie per affrontare due grandi e difficili temi del nostro tempo: la minaccia ambientale globale e le armi di distruzione di massa, potenzialmente in grado di cancellare parte del pianeta (ad esempio se un ipotetico giorno dovesse scoppiare un conflitto legato al venir meno di risorse per tutti). Secondo la tesi del libro, la morale invocata avrebbe conseguenze positive, tra cui un aumento dell’altruismo e dell’idea di coesione e, quindi un miglioramento generalizzato della società. Pur non avendo mai davvero voluto affrontare con una visione condivisa e cooperativa le problematiche individuate da Savulescu e Persson, il pianeta si è trovato davanti l’immensa sfida della pandemia, che è riuscita, in poche settimane, a stravolgere le nostre vite. Quali sono le conseguenze e cosa è cambiato davvero? Lo abbiamo chiesto direttamente a Savulescu in vista della Lectio magistralis organizzata all’interno del corso di master in scienze infermieristiche – organizzata dall’eticista ticinese Tiziana Defilippis – che terrà alla SUPSI oggi martedì 25 maggio in streaming (vedi sotto).

Fiorita Della Giovanna all’esterno di Casa Girasole a Massagno. (ti-press)

frontate sola, crescendo tre figli ai quali è molto legata. «Un tempo non c’erano aiuti. Io non ho mai chiesto niente a nessuno. Ho lavorato e mi sono arrangiata». Oggi, nel volgere lo sguardo al passato, afferma di ricordare tutto quanto accaduto, non da ultimo i rivolgimenti globali quali la guerra, ma di concentrarsi soprattutto sui ricordi più belli. Come il tempo trascorso dalla nonna, quando non c’era la luce elettrica e si accendeva il lumino (composto da olio di noci, pezzetti di lana di pecora e stoppino) solo lo stretto necessario per evitare ogni spreco. Ad allora risale la lunga preghierafilastrocca che ci racconta senza la minima esitazione. La memoria e l’attenzione sono vive anche rispetto al presente attraverso l’attualità e il gioco delle parole crociate. Di fronte alle avversità, come è il caso oggi della pandemia, traspare l’accettazione della situazione. Precisa la signora Fiorita: «Certo, non essere libera di uscire e vedere i familiari ha pesato, ma la situazione è dura soprattutto per chi sta fuori e deve lavorare». Anche per Adolfito Valsangiacomo, chiamato Fito e residente alla casa anziani Giardino di Chiasso, la strategia di fronte alla pandemia è la medesima. Ci accompagna da lui Fabio Maestrini, direttore della struttura. Per entrambi i centenari queste case, solitamente aperte e favorevoli al maggior scambio sociale possibile, nei mesi più critici dell’emergenza sanitaria si sono trasformate in luoghi chiusi escludendo persino il contatto con i familiari. Il signor Fito non si è però perso d’animo e, pur dovendo rinunciare a visite e uscite, si è concentrato sulle telefonate. «Chiamavo mia nipote Ilaria tutti i giorni. Il suo numero lo so a memoria, così come quello di mia cognata Lara». Le persone di cui il signor Fito ricorda il numero di telefono sono in realtà una buona decina. Alla nipote, che cura le sue pratiche amministrative, rammenta prontamente durante il nostro incontro di pagare le fatture. Accettare la situazione, farvi fronte e andare avanti

Adolfito Valsangiacomo a Casa Giardino a Chiasso.

è sempre stata – come per Fiorita Della Giovanna – la sua realtà. Pure per lui i ricordi sono nitidi, le date precise. Riavvolge il film della propria lunga vita partendo da Novazzano, dove è nato il 5 dicembre 1918. È stata però la città di Chiasso il fulcro della sua attività professionale e sociale, tanto che ancora oggi non rinuncia al rituale dell’aperitivo al bar, ora quello di Casa Giardino. Bicchiere di bianco, giornale, patatine e, quando ci scappa, un salamino da consumare ovviamente con i due amici residenti, ferrovieri come lui. «Da giovane ero macellaio – racconta Fito Valsangiacomo – ma durante la guerra, quando non ero in servizio, ho fatto un po’ di tutto, persino il manovale. A guerra finita, era ancora difficile trovare lavoro. Non riuscendo più a svolgere la professione di macellaio, sono entrato in ferrovia». In questo ambito ha fatto la gavetta, assumendo gradualmente maggiori responsabilità fino a diventare macchinista di manovra. Prosegue il signor Fito: «Ho seguito corsi e fatto esami, recandomi a questo scopo a Lucerna e Berna. Dalle macchine a vapore sono passato a quelle con motore diesel e poi a quelle elettriche». Un’evoluzione professionale alla quale ha affiancato tante passioni, dal gioco delle carte alla pesca, dalla caccia all’attività nel Gruppo Urani Chiasso. Chiasso è nel cuore anche come squadra di calcio di cui segue ancora gli avvenimenti. «Mi è piaciuto molto anche viaggiare con mia moglie, scomparsa purtroppo due anni fa. Siamo stati in tanti Paesi come Turchia, Spagna, Tunisia. Ho compiuto viaggi anche con i cacciatori, ad esempio per speciali battute in Yugoslavia». Forza di carattere e capacità di godersi i momenti belli della vita convivono nel signor Fito che ora attende di poter ritrovare un altro piacere: uscire in città accompagnato da un amico esterno alla casa anziani. «Casa Giardino è comoda perché si trova in centro. È tutto piano e posso camminare con il deambulatore», conclude deciso. Fiorita Della Giovanna e Fito Valsangiacomo godono entrambi di buona salute, presupposto sicuramente indispensabile per raggiungere determinati traguardi anagrafici con la serenità che li caratterizza oggi. Serenità alla quale – si percepisce bene – contribuiscono in maniera determinante la vicinanza e l’affetto dei familiari. I due ultracentenari da parte loro, attraverso una lunga e impegnativa esperienza di vita, trasmettono forza d’animo, coraggio e fiducia nell’avvenire, valori più che mai essenziali per affrontare non solo le difficoltà personali ma anche le crisi globali e i relativi postumi proprio come nel caso odierno della pandemia.

Professor Savulescu, in Unfit for the Future si evidenza una serie di criticità riguardanti la morale comune e di cui si auspica un cambiamento. Ciò non sembra essere avvenuto prima della pandemia, ma ora che cosa succederà?

Credo che non succederà niente, sono abbastanza pessimista; la pandemia ha messo in luce il fatto che abbiamo bisogno di una gestione urgente della crisi della morale umana. Dobbiamo decidere quale tipo di insieme di valori vorremmo in futuro. Da quando l’importanza della religione in molti paesi è venuta meno e hanno cominciato ad avere il sopravvento il post-modernismo e le politiche identitarie, c’è un senso sempre più ridotto dei valori comunitari, che vanno recuperati. Chi definisce quale sia la morale giusta e condivisibile da tutti?

Questa è una delle più grandi sfide della nostra società. È necessario cominciare a trasmettere dei valori ai nostri figli, stabilendo quali livelli di sacrificio e cooperazione ci possiamo aspettare. Non si pensa a sacrifici come quelli fatti durante la guerra, ma a un minimo di moralità, di altruismo, cooperazione, tolleranza ed empatia… Purtroppo queste sono cose che a scuola non vengono insegnate, così come non ci si occupa della psicologia delle persone. Eppure è più necessario che mai sviluppare la nostra etica, cominciando a vederci come «animali etici» e, in quanto tali, imperfetti: intorno a questa realtà dobbiamo creare e plasmare le nostre politiche, le nostre leggi e la nostra educazione. la pandemia ci ha messo davanti alla scarsità di risorse nel sistema sanitario e alla possibilità dell’introduzione di triage.

Siamo stati obbligati a prendere delle

decisioni, a chiederci se fosse giusto dare delle priorità, e ora secondo me urge una discussione al termine della quale dovremo fare delle scelte: in fondo è di questo che si occupa l’etica.

la pandemia ci ha portato delle limitazioni delle libertà individuali: come è giustificabile eticamente?

Mio padre era rumeno e scappò dalla Romania dopo la Seconda guerra mondiale poiché si rifiutò di diventare comunista. Da avvocato divenne operaio di fabbrica. Era povero, ma mi ripeteva di scegliere sempre la libertà. Io dunque sono un libertario di nascita, e credo che la libertà sia uno dei valori più importanti. A volte però bisogna rinunciare a una parte della libertà oggi per avere più libertà in futuro. In generale sono favorevole alle riduzioni della libertà se, come vuole l’etica, c’è un equilibrio dei valori coinvolti. Cosa pensa delle limitazioni per chi non si vuole vaccinare?

Nel momento in cui si diventa un rischio per le altre persone è giusto si subiscano delle restrizioni. Faccio un esempio: se vado all’aeroporto e la sicurezza crede che io abbia un’arma, ha il diritto di impedirmi di salire sull’aeroplano. Con il virus è la stessa cosa, poiché trasportare un virus letale è come portare con sé un’arma.

Julian Savulescu è nato nel 1963 in Australia. (savulescu) lei è molto sensibile anche verso i temi ambientali. l’impressione oggi è che questa pandemia abbia distolto l’attenzione dall’urgenza della crisi ambientale.

È molto difficile mantenere alta l’attenzione parlando del cambiamento climatico, anche perché ci si riferisce a un periodo che sarà tra cinquant’anni e che coinvolge tutte le nazioni del mondo, mentre la pandemia è qui davanti ai nostri occhi. Il cambiamento climatico è un problema complesso per noi, poiché non possiamo proiettarci in un’epoca così lontana. Inoltre, una volta fuori dalla pandemia ci sarà molta gente con la vita rovinata e senza lavoro, e ci si concentrerà su questo, e non sui problemi ambientali. Per concludere, lei personalmente non sembra particolarmente ottimista.

Ho 57 anni, e se un tempo ero molto ottimista riguardo alla scienza e alle possibilità del progresso, oggi non lo sono più, ma forse ciò è dovuto all’invecchiamento. Io faccio semplicemente il mio lavoro, ossia scrivere, fare ricerca e tenere conferenze, mi concentro cioè sulle piccole cose che posso ottenere. Informazioni

Inadatti al futuro?, Conferenza gratuita (via zoom) del Prof. Julian Savulescu; ma 25 maggio 2021, 13.15-16.30. Per info e iscrizioni: 058 866 64 01. deass.sanita@supsi.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Società e territorio

Chiude «il Caffè», l’ultimo giornale di locarno media Il 9 maggio l’editore locarnese Giò Rezzonico ha comunicato che «il Caffè» chiude i battenti.

Da agosto sarà nelle cassette un nuovo domenicale: «la Domenica», proprietà del «Corriere del Ticino»

Enrico Morresi In principio fu «l’Oca». Così chiamavano i locarnesi «l’Eco di Locarno», settimanale che più precario non si poteva immaginare. L’aveva fondato nel 1935 il tipografo Vito Carminati dopo la chiusura de «Il cittadino», quotidiano che un’anima del partito radicale aveva tenuto in vita sei anni. Un altro quotidiano Locarno non l’avrebbe avuto mai più, neanche quando l’«Eco» – diretto successivamente dal genero del Carminati: Raimondo Rezzonico, e poi dal figlio di Raimondo, Giò – arrivò a sfiorare le undicimila copie di tiratura. L’«Eco» era un treno lanciato a tutta velocità quando, all’inizio degli anni Novanta, scoppiò la crisi della stampa cantonale. Chiusa la breve parentesi del «Quotidiano», che tra il 1987 e il 1989 aveva portato a sette il numero dei giornali pubblicati ogni giorno nel cantone (!), esangui gli organi di partito, chi sarebbe sopravvissuto? L’idea di dotare anche la terza città del Cantone di un quotidiano seduceva l’immaginazione, ma la scelta fu un’altra: l’«Eco» si sarebbe fuso con «Il Dovere», che si stampava a Bellinzona, edito da Giacomo Salvioni. Sarebbe stato lanciato un quotidiano nuovo per tutto il Ticino, con inserti e redazioni distinti: Locarno, Bellinzona, Lugano, Mendrisio e Nazionale. Nacque «laRegione», anno 1992. Ma la collaborazione durò meno di un anno, minata dall’eccesso di ambizioni e da una crisi di convivenza tra le due équipe redazionali. Salvioni proseguì da solo, pagò il dovuto ai locarnesi, Giò Rezzonico rimase senza giornali e i suoi giornalisti senza impiego.

Crisi della pubblicità, mancanza di sostegno pubblico: da anni il domenicale era in difficoltà Spazio per nuovi quotidiani non ce n’era più. Ma Giuliano Bignasca una soluzione l’aveva trovata, seminando di verdi cassette metalliche gli angoli delle strade e l’esterno dei luoghi di convegno o di passaggio, le stazioni, le chiese. Da quelle cassette «Il Mattino» si poteva prendere gratis, a finanziarlo sarebbe bastata la pubblicità. Un modello? Sì. Anche «il Caffè», per quattro anni, dal 1994 al 1998, uscì il giovedì. Con quale programma editoriale? Il settimanale sarebbe stato alternativo a tutti i poteri, contando sul giornalismo d’inchiesta e di denuncia. Non dice la Corte Europea di Strasburgo che i giornalisti sono «i cani da guardia della democrazia»? Proprio questo, del resto, era stato l’obiettivo di una parte della redazione del vecchio «Eco», capofila della quale si era profilato un giornalista sulla trentina, nato in Sicilia ma con esperienze a «La Stampa» e al «Giorno»: Lillo Alaimo, approdato all’«Eco» nel 1982. La sua propensione per l’inchiesta, con una forte inclinazione verso il giornalismo-spettacolo, piacque a Giò Rezzonico, ma non a tutta la redazione. Il confronto interno rimase sospeso finché l’«Eco di Locarno» stette in vita, ma tornò a manifestarsi durante la breve convivenza con gli ex del «Dovere» e quando il matrimonio Salvioni-Rezzonico si sciolse la frazione movimentista risultò definitivamente perdente. E senza lavoro. Apro una parentesi per rilevare che quel confronto interno era tutt’altro

Il settimanale era stato fondato nel 1994 da Giò Rezzonico e Lillo Alaimo. (ti-press)

che banale o strumentale. Anche in Ticino il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle redazioni e alla radiotelevisione, dagli anni Sessanta innanzi, dava ormai ai giornalisti la possibilità di approfondire i temi politici e sociali d’attualità: alcuni orientati piuttosto alla funzione del «cane da guardia», altri a decostruire e ricostruire le situazioni problematiche affioranti nella società. Alla coppia simbiotica ManfriniBaggi della TSI va riconosciuto di aver aperto il sentiero, ma altri colleghi li avrebbero seguiti (e magari andrebbero segnalati: ma devo evitare omissioni spiacevoli), Lillo Alaimo tra i primi. Del «Caffè» si ricordano oggi campagne di stampa su cui si accumulavano le querele penali: durate mesi, domenica dopo domenica. Il caso più sensazionale fu quello di Franco Verda, il giudice poi condannato e destituito per aver favorito il soggiorno illegale di un celebre mafioso; più recente il vittorioso confronto con la clinica Sant’Anna di Sorengo, per un’operazione mal riuscita ma tenuta nascosta alla paziente. Non è un giornalismo destinato a piacere a tutti, e il cattivo gusto fa parte del rischio. La notizia del suicidio del giovane Mantegazza procurò al «Caffè» una deplorazione del Consiglio svizzero della stampa. Altri casi si potrebbero citare. La gente ama l’indiscrezione e il pettegolezzo… purché non le entrino in casa. Al «Lillo dell’Eco» e al suo editore il ruolo dev’essere costato comunque qualche notte insonne e un tanto di isolamento sociale. Decisiva per l’affermazione del «Caffè» fu una circostanza, finalmente, fortunata. Nell’estate del 1998 «il Mattino» pagava con un forte calo della pubblicità articoli pubblicati che sfioravano l’antisemitismo (era il tempo delle polemiche sulla questione degli averi ebraici depositati in Svizzera durante la seconda guerra mondiale). Gli editori Rezzonico e Ringier – la casa editrice del «Blick» – furono pronti a subentrare nel favore dei grandi distributori (Migros, Coop, Manor…) e di GastroTicino che già da qualche anno aveva trovato nel «Caffè» un veicolo per le sue promozioni. L’uscita del «Caffè» fu spostata alla domenica. La crisi della pubblicità che ha investito a partire dal Duemila tutti i giornali (due terzi in meno di entrate pubblicitarie) e la mancanza di qualsiasi sostegno pubblico (la Confederazione aiuta a pagare le fatture della Posta per la consegna dei giornali, non a chi

lascia le copie gratis nelle cassette…) ha messo in difficoltà i giornali sprovvisti di una diversa protezione alle spalle. E in particolare i gratuiti, che non possono contare sul canone pagato dagli abbonati. Ringier si ritira, Rezzonico vive da almeno cinque anni sull’orlo del

precipizio. È a quel punto che il «Corriere del Ticino» si è offerto di dare una mano. Il giornale luganese deve la sua solidità all’avere investito in modo intelligente i proventi della pubblicità negli anni buoni. Ora dal Centro Stampa di Bioggio escono tutti o quasi i prodot-

ti giornalistici del Cantone: anche «laRegione» e il foglio che state leggendo. I quattro giornalisti ancora attivi nella redazione del «Caffè» si trasferiranno dunque a Lugano, alcuni della redazione sportiva del «Corriere» aiuteranno a creare una rubrica che «il Caffè» non aveva: «la Domenica» (come si chiamerà il nuovo giornale) potrà dar conto dello sport del sabato, precedendo i quotidiani del lunedì. Direttore sarà lo stesso direttore del «Corriere del Ticino»: Paride Pelli, al quale bisogna augurare una transizione meno ingarbugliata di quella che lo impegna al «Corriere del Ticino», ove l’eccesso di localismo ha lasciato in sospeso problemi di ruoli, di impaginazione e di foliazione. Fare «la Domenica» dovrebbe essere più facile, il terreno è libero. Anche la proprietà della «TessinerZeitung», il trisettimanale in lingua tedesca prodotto dai Rezzonico, verrà assunta dal «Corriere del Ticino», ma la redazione continuerà a funzionare a Locarno. Da giornali che si chiudono non si può più sperare niente, da giornali che si aprono è lecito e doveroso sperare il meglio. Perciò gli auguri da rivolgere a «la Domenica» sono sinceri, come il saluto a Lillo Alaimo, a Clemente Mazzetta e al loro generoso editore. annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Il GIoRno deI GIoRnI metà della popolazione umana sanguina per alcuni giorni al mese, ma malgrado ciò molti hanno poche nozioni sul ciclo. la giornata internazionale dell’igiene mestruale del 28 maggio vuole cambiare la situazione

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Le mestruazioni durano in media 5 giorni, ma il periodo può variare tra i 3 e i 7 giorni. L’intensità del flusso può differenziarsi. Talvolta capita anche che il ciclo si interrompa per un breve periodo, per poi riprendere e indebolirsi lentamente. Tutto ciò è normale.

Per fornire il giusto ambiente all’ovulo fecondato, ogni mese l’utero si riveste di una membrana mucosa. Se l’ovulo non viene fecondato, viene espulso dall’utero assieme alla membrana mucosa. Il sangue e i tessuti espulsi costituiscono la mestruazione.

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Questo numero rappresenta la durata media del ciclo mestruale, che può variare da donna a donna e durare qualche giorno in più o in meno. Un ciclo tra i 23 e i 35 giorni è considerato fisiologico.

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12’000

Sono tra 12’000 e 16’000 gli assorbenti o tamponi che mediamente una donna utilizza dal menarca alla menopausa. In termini di sostenibilità le coppette mestruali in silicone sono una valida alternativa, dal momento che possono essere usate più volte.

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Durante le mestruazioni una donna perde in media tra i 40 e 60 millilitri di sangue. Se la perdita è di oltre 80 millilitri o dura più di 7 giorni si parla di menorragia, o di ciclo mestruale abbondante.

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Comprimere la coppetta, finché prende la forma di una C o di una s. Introdurre la coppetta fino a circa metà vagina. non bisognerebbe percepirla nella parte più esterna della vagina. se il flusso di sangue è in quantità media, la coppetta può essere lasciata fino a otto ore. Quando la si toglie, eliminare l’effetto sottovuoto con un dito, quindi afferrare la base ed estrarre. svuotare e lavare sotto l’acqua corrente. la coppetta può essere riutilizzata per più anni. me luna coppetta mestruale S 1 pezzo Fr. 19.80

Illustrazione Getty Images

Come usare la coppetta mestruale


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Società e territorio Rubriche

Approdi e derive di lina Bertola l’europa e il bambino nello stagno In passato, quando cercavo di visualizzare l’idea di bellezza, mi immaginavo in riva al mare, di fronte ad un luminoso quanto misterioso altrove che mi invitava a seguirlo. Era per me la piena espressione della bellezza dell’invisibile, quella che ti muove dentro e non si consuma nel guardarla o nell’ascoltarne le voci. Ora però non riesco più a provare queste emozioni perché nel mare, a dispetto della sua straordinaria bellezza, da tempo si stanno consumando immani tragedie. L’ennesima il mese scorso, nel canale di Sicilia, a ricordarci, ancora una volta, la vergognosa indifferenza del mondo. I fatti sono noti. Vorrei solo richiamare le parole durissime della portavoce dell’organizzazione dell’ONU per i migranti Safa Msehli. «Gli Stati si sono rifiutati di agire per salvare la vita di 130 persone. Hanno supplicato, hanno inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità

dell’Europa?». Detto in altre parole: che ne abbiamo fatto di quell’umanesimo su cui abbiamo edificato la civiltà moderna? Questo interrogativo interpella anche le nostre coscienze quando rimangono silenziose, se non addirittura indifferenti e alla fine in qualche modo anche un po’ complici di simili tragedie. L’eredità dell’Europa, dunque, sembra alla deriva, proprio come i barconi di tanti naufraghi disperati, ben visibili nelle immagini dell’attualità, eppure spesso percepiti come molto lontani dalla nostra realtà e dal nostro mondo interiore. Vicinanza e lontananza sono un criterio interessante per comprendere il nostro agire morale, le sue fragilità, le sue inquietanti contraddizioni. Attraverso il noto esperimento mentale del «bambino nello stagno», il filosofo Peter Singer ha posto alle nostre coscienze domande assai stringenti. Eccone una breve versione. Un bambino sta per annegare in uno stagno. Un distinto

signore lo vede, si getta nell’acqua e lo salva. Le sue scarpe nuove sono da buttare, probabilmente anche gli abiti eleganti, ma non importa, non ha avuto alcuna esitazione. L’esitazione invece si ripresenta quando, con un gesto di generosità, potrebbe contribuire a salvare altri bambini, tanti bambini lontani che stanno annegando nello stagno della fame. Singer ci interpella sulle contraddizioni di tali comportamenti così ambivalenti. Come dire: perché un’etica double face? Il tessuto morale della convivenza nasce dal legame con l’altro, un legame che può essere percepito sia nella relazione personale tra individui sia nel sentimento di appartenenza all’umanità. La vicinanza appartiene ovviamente alla relazione personale e proprio la presenza fisica dell’altro è stata riconosciuta da alcuni filosofi come l’autentico movente dell’agire morale, e questo

perché l’esperienza è ritenuta l’origine sia della conoscenza sia delle scelte umane. Per gli empiristi la vicinanza sembrerebbe un movente molto più potente degli ideali della ragione che ci invita a percepire come guida morale un’idea: l’idea forte di una comune appartenenza all’umanità. La morale della vicinanza si basa sul sentimento di simpatia, una vera e propria forza di gravità capace di regolare armoniosamente i rapporti tra gli uomini. Proprio con questo sentimento di simpatia è stato possibile giustificare anche l’etica del mercato e della concorrenza economica. La percezione visiva dell’Altro ha insomma un forte impatto nel determinare i nostri comportamenti. Anche le teorie evoluzioniste spiegano con la vicinanza fisica la selezione naturale delle emozioni. Emozioni naturali che diventano poi sentimenti culturali come l’empatia, la lealtà, la gratitudine ma anche la gelosia. Oggi questi argomenti, con cui si è

cercato di spiegare le nostre scelte etiche, sembrano non funzionare più. La visibilità, la percezione visiva delle tragedie del mare e di tante altre sofferenze umane è ben presente al nostro sguardo. Li vediamo questi naufraghi disperati, eccome li vediamo in tante immagini che entrano direttamente nelle nostre case. Ma l’impatto visivo non sembra più funzionare come collante etico. Ciò che sembra invece prevalere è una distanza affettiva da cui troppo spesso nasce l’indifferenza. Questo atteggiamento la dice lunga su come l’attuale vicinanza virtuale con il mondo, nonostante la sua totale visibilità, stia depotenziando, se non addirittura soffocando, la nostra sensibilità. Torno allora alla domanda iniziale: è questa l’eredità dell’Europa? Forse non sarebbe una cattiva idea rimettere in movimento alcuni valori illuministici che ci permettano di continuare a coltivare e a nutrire l’idea di una comune appartenenza alla vita.

posato, in parte, sulla tovaglia degli altri tavoli disposti con cura davanti al palazzo DuPeyrou che si eleva elegante con stucchi, colonne, stemmi. I saloni, sbirciati andando in bagno, spesso utilizzati per matrimoni eccetera, sono abbastanza lussureggianti in stile Louis Seize. Il tartare di asparagi e altre verdurine tipo piselli, servito su un piatto giapponese turchese, rallegra il palato anche grazie al cerfoglio, l’aneto, e germogli di nonsocosa. Da ventitré anni tiene le redini del ristorante, assieme alla moglie Françoise, lo chef australiano Craig Penlington. Daniel Aymone era lo chef qui nella primavera 1983, quando balza agli onori della cronaca per un piccolo scandalo a proposito di un dessert proibito. Servì al presidente Mitterrand un soufflé glacé all’assenzio, illegale all’epoca, finendo perfino perseguito penalmente. Gustando il gratin di pesce con frutti di mare, cerco, invano, di individuare, percorrendo la superficie della facciata, i detriti di echinodermi. Presenti – oltre a foraminiferi, anellidi, lamellibranchi, brachiopodi,

briozoi – nella pietra gialla sotto forma di minuscole tracce fossili classificate come bioclasti. Divertente, come passatempo – ma dovrei avvicinarmi e abbandonare queste deliziose capesante avvolte da un delicato curry verde e latte di cocco – sarebbe anche trovare gli ooliti. Piccole sfere di diametro massimo grande due millimetri sparse pure, come gli elementi figurati dei bioclasti, nella pietra a tratti color caramello. Prima del dessert, piatto di formaggi della famosa cave: memorabile brie de Meaux al tartufo nero del Périgord e stilton da antologia. Le due stradine – qui ai lati della proprietà – che scendono incontrandosi sul Faubourg de l’Hôpital, riuniscono due vecchi amici: le hanno infatti chiamate Avenue Jean-Jacques Rousseau e Avenue DuPeyrou. Mentre il crumble di rabarbaro e mela incontra, sposandosi a meraviglia, il sublime gelato alla vaniglia. Allenandomi a contare i punticini neri del baccello di vaniglia contenuti nel gelato servito in forma di quenelle, potrei quasi andare sul serio, dopo il caffè, a caccia di ooliti.

Korey Lee («South China Morning Post») è convinto che l’IA conferisca più potere ai giornalisti dando loro la possibilità di occuparsi di ciò che fanno meglio: interviste, ricerche, approfondimenti, produzione di contenuti creativi e avvincenti. Tra le sfide resta l’aspetto etico. A fornire l’infrastruttura utilizzata dalle aziende d’informazione sono i giganti tecnologici come Google, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft, sono loro a creare i prodotti. Non solo, alcune di queste aziende finanziano il giornalismo e sostengono le redazioni. Ecco perché all’interno della propria squadra servono profili in grado di programmare e tecnologicamente competenti, tanto da non lasciare tutto nelle mani di sviluppatori ed esperti. In questo contesto, stando ai risultati dello studio, le redazioni sentono la necessità di un dialogo più onesto e trasparente su etica e

linee guida editoriali e chiedono un confronto con le aziende tecnologiche sulla riduzione delle possibilità di bias nei dati che si raccolgono e producono. Dunque prima che i robot spopolino nelle redazioni è bene essere sul pezzo. Intanto ve ne presento alcuni: a «USA Today» c’è Wibbitz, un software che crea brevi video in automatico: condensa le notizie in un breve script, lo unisce a una selezione di immagini o video e aggiunge la voce sintetizzata del giornalista. Alla Reuters c’è News Tracer, uno strumento di previsione algoritmica che aiuta i giornalisti a valutare l’integrità di un tweet, scoprendo chi lo twitta e ritwitta, come si diffonde in Rete e qual è il feedback degli utenti. Loro sembrano avere già capito che investire nell’IA rende il lavoro dei giornalisti più efficiente, distribuisce meglio i contenuti più rilevanti per i lettori, rende più remunerativo il modello di business.

Passeggiate svizzere di oliver scharpf Il palazzo DuPeyrou a neuchâtel A Neuchâtel, «Neuch» come la chiamava amichevolmente mio fratello ai tempi in cui studiava medicina qui, mi ha sempre colpito il colore delle vecchie case. La pietra gialla di Neuchâtel, detta anche di Hauterive, risalente al Cretaceo inferiore, vale a dire centinaia di milioni di anni fa, ammalia discreta con le sue tonalità giallo ocra che mi fanno venire in mente per prima cosa, lo zabaione. «È il colore giallastro delle pietre con le quali i muri sono costruiti che dona alla città l’apparenza di un immenso giocattolo scolpito nel burro» scrive Alexandre Dumas, nelle sue Impressions de voyage en Suisse (1834). A partire dalla stazione che perdipiù già allieta l’occhio fin da subito, appena si emerge con le scale mobili nell’atrio, attraverso i murales di Georges Dessouslavy dipinti tra il 1936 e il 1938 con tenui e vivaci colori a tempera alla caseina. In particolar modo quello lì, dove ci sono tre donne in barca con ombrellino e cappello di paglia, sulle acque del Doubs, tra le falesie postimpressioniste. E poi fuori, ecco i blocchi

di pietra gialla che variano di tonalità uno dall’altro. Ma è camminando che si viene rapiti, qua e là, dai frammenti giallo burroso della pietra calcarea oolitico-bioclastica. Arrivato in breve alla meta, scendendo dalla stazione in una decina di minuti neanche, rimango di stucco davanti ai parallelepipedi di pietra gialla sedimentaria marina che compongono il Palais DuPeyrou (447 m). Il Perù, ogni volta, anche se non c’entra un bel niente, mi fa venire in mente questa magnifica dimora costruita tra il 1764 e il 1770 per PierreAlexandre DuPeyrou (1726-1794). Nato a Paramaribo, capitale del Suriname a quei tempi colonia olandese, erede di una grande fortuna ottenuta con le piantagioni paterne di canna da zucchero, caffè, cacao e cotone. Anticlericale, deista, massone, amico di Rousseau, il suo bel ritratto svagato eseguito da un anonimo, con camicia bianca senza bottoni aperta sul petto efebico e giacchetta azzurra da flaneur, è appeso nella sala Rousseau della biblioteca cittadina. Eretta seguendo i piani dell’architetto

bernese Erasmus Ritter (1726-1805), la casa considerata da molti la più bella di Neuchâtel se non addirittura dell’intero Cantone, davanti ha un bel giardino alla francese con vialetti a raggiera percorsi da gioviali tulipani screziati. Al centro degli otto vialetti ghiaiosi convergenti, una fontana è contornata da grandi arbusti di bosso potati conicamente. Una ragazza con vestito primaverile e occhiali da sole è seduta su una delle panchine ondivaghe di legno. All’entrata del parchetto fanno la guardia due insolite sfingi – traccia rimasta dell’egittomania del committente che avrebbe voluto anche la sua tomba tipo piramide egizia – in topless. Un po’ il simbolo stravagante del palazzo di proprietà della città dal 1859 e che da anni ospita un rinomato ristorante attualmente con sedici punti Gault & Millau. Dove ho riservato ieri sera un tavolo fuori in terrazza, appena riaperta dopo la chiusura pandemica. E così, una bella giornata di maggio, mi siedo puntuale alla mezza. All’ombra degli ippocastani potati a candelabro che filtrano il sole,

la società connessa di natascha Fioretti I robot renderanno il giornalismo migliore Qualche tempo fa sul «Washington Post», testata che tra qualche settimana per la prima volta in 144 anni di storia sarà guidata da una donna, Sally Buzbee dell’«Associated Press», c’era un annuncio interessante. Il giornale era alla ricerca di un/una giornalista esperto/a di intelligenza artificiale e algoritmi. Nello specifico la descrizione del profilo indicava un giornalista in grado di esplorare le modalità di utilizzo dell’IA e degli algoritmi da parte dei giganti tecnologici per influenzare ciò che compriamo, leggiamo, guardiamo e molto altro ancora. «Alphabet, la società madre di Google, è un colosso in questo ambito, e questa posizione richiede una copertura penetrante delle sue vaste divisioni. Il giornalista in questione deve esaminare le azioni dei leader della società. Oltre a Google, deve monitorare come gli altri grandi attori della Silicon Valley sviluppano e impiegano

l’IA e gli algoritmi. La concorrenza, la raccolta dei dati, la privacy, la disinformazione e altre questioni nel mondo digitale sono aree di copertura centrali. I candidati ideali raccontano le loro storie attraverso parole, video e dati». Un annuncio perfetto per riprendere il filo da dove ci siamo lasciati la volta scorsa e cioè l’utilizzo e l’influsso dell’IA nelle redazioni. Tornando a Charlie Beckett, direttore di Polis, think thank della London School of Economics, e al suo studio New powers, new responsibilities. A global survey of journalism and artificial intelligence ciò che emerge è come l’intelligenza artificiale sia già parte del giornalismo ma sia distribuita in modo irregolare, non uniforme. In primis per una questione di costi, le redazioni medio piccole non possono permettersi di investire in questo tipo di tecnologia, possono farlo i grandi gruppi. Lo studio coinvolge 71 testate

di 32 paesi, per la Svizzera sono la «Neue Zürcher Zeitung» e Tamedia, e sottolinea come l’intelligenza artificiale conferisca ai giornalisti maggiore potere e al tempo stesso li confronti con importanti responsabilità editoriali ed etiche. I robot insomma non ruberanno il lavoro ai giornalisti ma renderanno il giornalismo migliore. Per Charlie Beckett la ricerca è una presa diretta delle redazioni sparse nel mondo, ci racconta cosa fanno, qual è lo stato dell’arte in questo campo, quali sono le aspettative per l’utilizzo dell’IA. Quelle più all’avanguardia sono «Associated Press», «Wall Street Journal» e «Bloomberg». Per Lisa Gibbs («Associated Press»), gli algoritmi aiutano a trovare le news più velocemente. Per Chris Collins («Bloomberg») delle azioni automatiche che ogni giorno giornalisti e giornaliste compiono nel raccogliere e produrre notizie, in futuro se ne occuperà l’IA.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Ambiente e Benessere ridere per guarire Lo yoga della risata è una disciplina che usa il buonumore come risorsa terapeutica

I vini della Campania Tra Falanghina e Aglianico, i molti vitigni che rendono unica una regione italiana dalla grande tradizione pagina 16

la malva, erba utile La farmacopea popolare le assegna varie proprietà curative: osserviamole da vicino pagina 18

pagina 14

Attenti ai fili Gli animali rischiano di trovarsi in difficoltà a causa dei rifiuti abbandonanti nell’ambiente

pagina 19

Premiato il fotovoltaico galleggiante

Sostenibilità L’innovativo sistema è realtà

sul lago di Toules in Vallese, un progetto pilota premiato con il Watt d’Or dall’Ufficio federale dell’energia

Elia Stampanoni La produzione di energia elettrica tramite il fotovoltaico è in continua crescita in Svizzera e, accanto agli impianti tradizionali sugli edifici, nuovi orizzonti s’aprono per strutture non convenzionali, come potrebbero esserlo il fotovoltaico galleggiante, gli impianti installati lungo strade o ferrovie, lungo strutture legate al settore agricolo o all’idroelettrico, (vedi «Azione» del 22 febbraio 2021). Anche i laghi diventano quindi un potenziale luogo per produrre energia elettrica grazie al sole e in Vallese un progetto dimostrativo sostenuto dall’Ufficio federale dell’energia è stato realizzato nel dicembre 2019 da Romande Energie insieme a ABB Schweiz. Sul lago artificiale «des Toules», ad un’altitudine di 1810 metri, oltre all’energia idroelettrica, viene ora prodotta anche energia solare, grazie a un impianto fotovoltaico galleggiante (detto anche flottante) capace di produrre 800’000 Kwh, l’equivalente del fabbisogno di circa 220 economie domestiche. Il progetto lo scorso gennaio ha ottenuto il premio energetico svizzero Watt d’Or e ora, dopo un anno di funzionamento, si stanno analizzando

i primi incoraggianti risultati per definirne gli sviluppi. È di fatto previsto un ampliamento su una superficie pari a circa un terzo del bacino, con cui si potranno produrre 22 milioni di Kwh, corrispondenti al consumo medio di 6100 famiglie. L’estensione potrebbe essere completata entro il 2022, mentre lo studio di fattibilità per questo progetto, inizialmente di carattere dimostrativo, risale al periodo 2013-2019, con la concessione del permesso di costruzione da parte del Canton vallese del settembre 2017. Da notare che, in Svizzera, per un impianto fotovoltaico al fuori della zona edificabile è sistematicamente necessaria un’autorizzazione (licenza edilizia) oppure un obbligo d’inserimento nel Piano direttore. In Ticino, inoltre, l’attuale Legge cantonale sull’energia vieta espressamente l’uso di qualsiasi tipo di superficie lacustre per la posa di impianti fotovoltaici (articolo 5b). La costruzione pratica del progetto dimostrativo sul Lac des Toules, nel comune vallesano di Bourg-St-Pierre, lungo la strada del Grand-Saint-Bernard, si è poi svolto tra il mese di marzo e l’autunno del 2019, in modo che a dicembre dello stesso anno l’impianto è entrato in servizio. La superficie dei pannelli è di 2240 mq ed è adagiata su

Produce energia sufficiente per 220 economie domestiche. (Romande energie)

una struttura galleggiante che s’adatta al vento e al livello dell’acqua (o del ghiaccio) del lago, essendo attaccata al fondo con catene e pesi che permettono alle zattere di assecondare i movimenti e il livello della superficie lacustre.

Il premio energetico svizzero Watt d’Or L’Ufficio federale dell’energia (UFE) ha istituito nel 2006 il riconoscimento Watt d’Or per le imprese svizzere che attuano con intraprendenza degli innovativi progetti per i futuri scenari energetici. Il premio viene attribuito a persone, imprese e organizzazioni che sviluppano tecniche energetiche pionieristiche, lanciando sul mercato nuovi prodotti. Si tratta di un sigillo di qualità che viene consegnato annualmente in quattro categorie e lo scorso 7 gennaio sono stati annunciati i cinque vincitori, tra cui anche Romande Energie, insieme a ABB Schweiz, per il

progetto del fotovoltaico galleggiante (categoria energie rinnovabili). Nella categoria «tecnologie energetiche», il Watt d’Or è andato a un progetto per ottimizzare le reti di distribuzione energetiche presentato da Adaptricity AG. Per la categoria «mobilità efficiente», è stato premiato un progetto che intende promuovere in Svizzera un traffico pesante con un impatto climatico pari a zero grazie all’idrogeno (Hydrospider AG, Hyundai Hydrogen Mobility AG, H2 Energy AG, Förderverein H2 Mobilität Schweiz).

Due infine i premiati, in via eccezionale, per la categoria «edifici e territorio»: al complesso edilizio di Männedorf che punta su un’autonomia energetica interconnessa (Umwelt Arena Schweiz e René Schmid Architekten AG) e alla ristrutturazione eseguita da Mettiss AG e Beat Kegel a San Gallo, dove un edificio per uffici degli anni Sessanta è stato trasformato da «divoratore d’energia» in «casa passiva», ossia uno stabile che regola l’aereazione e il riscaldamento interno senza ricorrere a fonti energetiche esterne.

Come indica il sito del progetto, il lago artificiale in questione beneficia delle condizioni ideali per la produzione di energia solare. L’esposizione al sole è ottimale (verso sud) e nei mesi invernali la presenza del ghiaccio e della neve garantiscono un riverbero che ne ottimizza la produttività in un periodo dove, al contrario, gli impianti in pianura non sono così performanti. La buona efficienza è dovuta, oltre che al maggior riverbero, anche alle temperature medie più basse e allo strato atmosferico più sottile che significano anche un indice UV più alto. A livello di manutenzione, la neve che può cadere copiosa a queste altitudini non crea particolari problemi, in quanto la parte rivolta verso il lago beneficia del riverbero della luce. I pannelli fotovoltaici, che sono bifacciali, riescono così a generare energia e si scaldano leggermente, provocando così anche lo scioglimento della neve e del ghiaccio dall’altro lato, sulla superficie esposta. Il bacino vallesano si presta inol-

tre al meglio per il progetto pilota, in quanto possiede un fondale piano che garantisce la stabilità della struttura anche quando il lago viene svuotato. Inoltre, altrettanto importante, disponeva già di infrastrutture elettriche e vie d’accesso dovute alla presenza della diga, costruita tra il 1969 e il 1964 per la per la produzione di energia idroelettrica. Con lo sbarramento si creò un lago di 20 milioni di metri cubi su una superficie di oltre 60 ettari, che permette la produzione annuale di energia idroelettrica per circa 333 milioni di kWh se si considerano sia quella generata dalla centrale di Pallazuit (che fa turbinare l’acqua del bacino di Toules) sia quella degli impianti di produzione situati a valle della diga. Informazioni

Progetto Lac des Toules: https://www. solaireflottant-lestoules.ch/ Premio Watt d’Or: https://www.bfe. admin.ch/bfe/it/home/ufficio-federale-dell-energia/watt-d-or.html


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Ambiente e Benessere

Guarire ridendo

Salute Lo yoga della risata, una pratica millenaria che fa bene a corpo e mente

Rocco Bianchi Statisticamente da bambini pare che ridiamo decine di volte al giorno, sempre meno via via che cresciamo, fino ad arrivare da adulti a un numero che rischia di arrivare pericolosamente vicino allo zero. Purtroppo. Perché ridere non solo è una capacità innata dell’uomo e di pochi altri mammiferi, ma fa pure bene, come dicevano i nostri nonni e conferma pure la lingua italiana (mai sentita l’espressione «una sana risata»?). Una diceria e un’espressione confermati, oltre che da Sigmund Freud, che sulle battute di spirito ci scrisse pure un saggio, anche da alcuni studi universitari, che hanno evidenziato gli effetti benefici di pensiero positivo, sorriso e riso non solo sull’umore – cosa questa che in tempi di pandemia e lockdown declinato in tutte le possibili forme e maniere e conseguente aumento d’ansia, stress e disturbi psicologici vari già non sarebbe male – ma pure sull’organismo. Dunque conviene ridere, e dedicarsi a questa piacevole attività il più possibile, con costanza e regolarità. Perché se si è felici, o per lo meno sereni, di solito si sta meglio. In tutti i sensi.

Numerose testimonianze personali sembrano attestare il valore terapeutico di questa tecnica Partendo da questo assunto, in India un medico ha avuto l’intuizione di unire tradizione e innovazione: ha preso le tecniche dello yoga, disciplina in cui la respirazione è un aspetto fondamentale, il principale mezzo di scambio tra l’esterno e noi stessi, e vi ha unito una bella e ovviamente sana risata. In estrema sintesi, ha combinato la pratica della respirazione profonda yoga a esercizi di contrazione del diaframma stimolati grazie al riso, provocato senza l’ausilio della comicità ma per pura gioia (sì, proprio come avviene nei bambini). Il risultato è appunto lo yoga della risata, una pratica che ha iniziato a diffonder-

si ventisei anni fa – il primo Club della risata nacque il 13 marzo 1995 in un parco pubblico di Mumbai – e che oggi secondo i suoi fautori coinvolge milioni di persone in tutto il mondo. Si pratica da soli, ma la sua forza si esplica soprattutto in gruppo perché, come ben si sa, una bella e sana risata è, per definizione, contagiosa (altro che Covid!). È inoltre una disciplina semplice ed economica, che si può praticare ovunque – nelle aziende, a scuola o in famiglia – e che sta iniziando ad essere usata anche in contesti sociosanitari, ad esempio con anziani, disabili, pazienti oncologici e psichiatrici…. in generale in tutti i gruppi in cui si avverte il bisogno di abbassare lo stress (pare si stia sperimentando la sua introduzione anche nelle carceri). Si ride per scelta dunque, per stare bene e far star meglio gli altri. Anche se forse gli ideatori si sono lasciati un po’ prendere la mano dall’entusiasmo (nel 1998 hanno organizzato la prima Giornata mondiale della risata, che da allora si tiene la prima domenica di maggio, il cui scopo è portare la pace in se stessi e nel mondo) l’idea, ammettiamolo, è intrigante. E obbliga gli scettici a trattenersi, ché mai come in questo caso ogni sorriso e/o riso di compatimento è da evitare, pena il dar ragione agli avversari. Da valutare come sempre con attenzione, tuttavia, i vantati effetti terapeutici. Leggendo i libri e scorrendo i siti pare infatti che basti ridere per oltre dieci minuti di fila ogni giorno per essere quasi miracolati. Nulla da dire sull’effetto benefico, in particolare ansiolitico e di ristabilimento dell’umore, di una fragorosa risata – chiunque di noi l’ha sperimentato almeno una volta nella vita – e su quello di coesione sociale e di rafforzamento dei legami affettivi; nessun dubbio pure che ridendo si induca il nostro corpo a produrre tutta la gamma di sostanze che provocano quella sensazione di benessere che proviamo quando siamo felici e spensierati; tuttavia, lo confessiamo, sulla «straordinaria biochimica del benessere» (citazione) che questa pratica indurrebbe sul nostro organismo qualche perplessità la abbiamo. In effetti secondo gli adepti dello yoga della risata il riso prolungato, fa-

Dieci minuti al giorno tolgono il medico di torno. (shutterstock)

vorendo l’arrivo dell’ossigeno ai tessuti e l’energia interiore, stimola la produzione di endorfina (un antidolorifico naturale) e serotonina (un antidepressivo naturale) e abbassa il cortisolo, il cosiddetto ormone dello stress. Ciò provocherebbe (cito solo le cose più importanti dal lunghissimo elenco trovato) un rafforzamento delle difese immunitarie, un alleviamento del dolore, migliorerebbe la circolazione sanguigna provocando una conseguente azione di prevenzione sui problemi cardiovascolari e sul tasso di colesterolo e potenzierebbe l’intelligenza emotiva e la resilienza. Per non parlare dell’aumento delle prestazioni sul posto di lavoro e dell’azione di antinvecchiamento, in particolare sugli anziani. E in un articolo dell’agenzia di stampa italiana Ansa, oltre alla citatissima storia di Norma Cousins, giornalista americano «guarito dal ridere» da una malattia autoimmune (la spondilite anchilosante) a cui i medici avevano dato sei mesi di vita, ho letto la testimonianza di una persona che afferma di essere guarita dalla fibromialgia, una malattia di difficilissima diagnosi che provoca dolori muscolari e stanchezza cronici, disturbi del sonno e della circolazione e altri sintomi non meno perniciosi, che però la Lega

svizzera contro il reumatismo afferma essere «inguaribile». Di che far urlare (non ridere) lo scettico che c’è o dovrebbe esserci in ognuno di noi e far accendere tutti i possibili segnali intellettuali di allarme. Eppure Lara Lucaccioni, uno dei massimi guru italiani della disciplina, afferma sul suo sito che lo yoga della risata «ha modificato positivamente la mia vita in moltissimi ambiti, sia fisici che psicologici e relazionali» (non ridete, ma pure la sua stitichezza cronica è scomparsa). E anche Vanita Monica Albergoni, colei che introdusse nel 2003 questa pratica in Ticino fondando il primo Club della risata, non ha alcuna esitazione nel definirla «una cosa geniale» che «ha cambiato totalmente la mia vita» poiché le ha permesso di «ritrovare la nostra vera essenza, la risata che ci appartiene». A suo dire infatti ritrovare il nostro «essere gioioso», una condizione che perdiamo progressivamente durante la crescita, ci permette di rovesciare la nostra prospettiva di vita: «Non siamo felici quando otteniamo qualcosa, ma otteniamo qualcosa solo se siamo felici». Filosofia interessante, che merita di essere valutata con attenzione. Al di là dunque delle possibili tro-

vate (e sparate) pubblicitarie e da marketing, una cosa è certa: ridere non fa male, anzi. È stata pure fondata una disciplina apposita, la gelotologia (dal greco γελὸς, che significa riso), che studia appunto le potenzialità terapeutiche della risata, in particolare le correlazioni tra emozioni e sistema immunitario. Tra i metodi esaminati vi sono, oltre lo yoga della risata, anche lo yoga demenziale di Jacopo Fo, figlio del premio Nobel per la letteratura Dario, e soprattutto la clownterapia, il metodo sicuramente più noto al grande pubblico anche grazie a un film dedicato al dr. Patch Adams (interpretato da Robin Williams). Verità scientificamente provata, come affermano maestri e adepti delle varie discipline e tecniche di «risoterapia», oppure semplice effetto placebo? Ognuno trovi, se lo desidera, la sua risposta, magari anche sperimentando di persona (oltre al già citato Club cantonale della risata, in facebook si trovano diverse pagine e gruppi dedicati allo yoga della risata, tra cui una anche ticinese che tuttavia non è aggiornata da tempo; nel nostro cantone è pure attiva l’associazione Ridere per vivere). Di sicuro male non farà; anzi, al contrario di quanto si credeva o sperava nel ’68, questa volta una risata non ci seppellirà. annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Ambiente e Benessere

Guidare con un pedale solo

motori Si diffonde sempre più il sistema «One pedal driving», in cui freno e frizione

non sono più necessari

escursioni musicali per l’estate Hiking Sounds

Una serie di ottimi concerti in altitudine

Migros sostiene una iniziativa originale: una serie di concerti in località montane di grande bellezza. L’evento montano verrà animato da esclusivi artisti svizzeri, in luoghi raggiungibili con sentieri ben tracciati attraverso il paesaggio alpino svizzero con panorami unici, laghetti di montagna e tanto altro ancora. Il programma completo e tutte le altre informazioni dettagliate sono su www.migroshikingsounds.ch. Biglietti gratuiti per i nostri lettori sono messi in palio su www.migros.ch/ hiking-sounds. L’auto del futuro... è verde.

vece siamo arrivati a parlare di One Pedal Driving. Ovvero guida con un pedale solo. In pratica su alcune auto elettriche è possibile selezionare la massima frenata rigenerativa attraverso la pressione di un pulsante che di solito viene identificato dalla lettera B. A quel punto non appena si solleva il piede dall’acceleratore, l’auto attiva la massima frenata rigenerativa fino ad arrivare a fermarsi. Le pinze dei freni vengono utilizzare il meno possibile

I nuovi cambi permettono di selezionare la frenata rigenerativa (lettera B).

sfruttando invece un freno motore che consente di ricaricare la batteria e aumentare l’autonomia complessiva. Su alcuni modelli è anche possibile deciderne l’intensità, che può essere di vari livelli, più o meno decisa. È davvero necessario abituarsi. È indubbiamente strano sentire l’auto frenare anche senza schiacciare il pedale del freno. Ma dopo un po’ di pratica si riescono a prendere le misure e si inizia a guidare senza usare il pedale del freno. Chiariamolo, i pedali per ora sono ancora due, solo che si arriva ad utilizzarne uno solo. Alcuni studi hanno dimostrato che nello stile di guida urbano da un terzo sino alla metà dell’energia disponibile è dissipata durante la fase di rallentamento con frenatura. Nel traffico i frequenti stop&go sono deleteri e con la frenata rigenerativa l’efficienza energetica può migliorare dal 20% fino al 50%. Per ora non si tratta di uno standard, quindi funziona in modo differente sui vari modelli. Su alcuni non si arriva a fermarsi completamente e non si sente molto il suo intervento, mentre su altri è decisamente più efficace. Si tratta di una tecnologia che è in fase di implementazione sulle automobili elettriche di oggi ed è in continua evoluzione, ma a cui dovremo senz’altro abituarci.

Sabato 3.7, Ascona-Locarno, Dabu Fantastic / Lo & Leduc. Domenica, 4.7, Ascona-Locarno, Zian / 77 Bombay Street. Sabato 10.7, Stoos, 77 Bombay Street / Kunz. Do. 11.7, Stoos, Adrian Stern/Dodo. Sabato 17/7, Regione di Moosalp, Adrian Stern / Baschi. Domenica 18.7, Regione di Moosalp, z’Hansrüedi / Oesch’s die Dritte. Sabato 24.7, Schwarzsee, Stress / Lo Leduc. Domenica 25.7, Schwarzsee, Sam Gruber / Oesch’s die Dritten. Sabato 31.7, Madrisa Klosters, Sam Gruber / Sina. Domenica 1.8, Madrisa Klosters, Dodo / Kunz. Sabato 7.8, Les Pléiades-Vevey, Maryne / 77 Bombay Street. Domenica 8.8, Les Pléiades-Vevey, Pat Burgener / The Two. Sabato 14.8, Meiringen-Hasliberg, Anna Rossinelli / Luca Hänni. Domenica, 15.8, Meiringen-Hasliberg, z’Hansrüedi / Stubete Gäng. Sabato 21.8, Wasserfallen, Jesse / Dabu Fantastic. Domenica 22.8, Wasserfallen, Anna Rossinelli / Luca Hänni. www.migroshikingsounds.ch

5. Fatevi riconsegnare le carte che lo spettatore aveva messo da parte all’inizio e sistemate anche queste sopra le altre. 6. Consegnate il mazzo così ricomposto allo spettatore e chiedetegli di ese-

guire l’operazione di scansione che avete prima illustrato. 7. Invitatelo a girare la carta che ora risulta essere la prima del mazzo: con sua somma sorpresa, è proprio quella che aveva memorizzato all’inizio!

mazzetto prelevato, ora è preceduta da queste e, quindi, occupa la posizione: P = Y–X+1. Quando riponete sul mazzo le X carte messe da parte all’inizio, la nuova posizione P1 della carta diventa: P1 = P+X = Y–X+1+X = Y+1. Infine, quando lo spettatore toglie le Y carte necessarie a effettuare la scansione definitiva, la posizione finale P2 della stessa carta diventa: P2 = P1–Y = Y+1–Y = 1 (ovvero, quella relativa alla prima carta del mazzo).

In molti abbiamo imparato a guidare utilizzando tre pedali: frizione, freno e acceleratore. Il cambio automatico era riservato alle possenti auto americane e alle nobili inglesi come Jaguar e Rolls Royce. Piano piano, negli anni 70-80 debuttò anche su altre autovetture, ma quasi sempre era riservato alle ammiraglie di grande cilindrata. A renderlo «per tutti» fu probabilmente alla fine degli anni 90 la piccola e innovativa Smart. Oggi non c’è quasi modello che non abbia disponibile come opzione il cambio automatico. Dalle utilitarie alle super sportive. In alcuni casi le parti si sono invertite e il «vecchio» cambio manuale non è possibile averlo neppure come optional. I pedali quindi sono diventati due sulla maggior parte delle auto. Attenzione però, in futuro potrebbero ridursi ancora. Ebbene sì, con l’avvento dell’elettrico ha iniziato a svilupparsi la frenata rigenerativa. Come funziona? Chiamata anche recupero energetico, trasforma l’energia meccanica cinetica della vettura in energia elettrica per essere quindi immagazzinata nella batteria. Insomma, in discesa e in decelerazione si ricaricano le batterie. Un sistema che non è certo nato ieri e da tempo vie-

ne già utilizzato nei trasporti pubblici elettrificati. Basti pensare che nella metropolitana di Londra l’uso del freno rigenerativo fa sì che possa ritornare alla rete il 20% dell’energia utilizzata dal convoglio. Tornando alle auto, sino a non molto tempo fa questo sistema funzionava in modalità totalmente automatica e sinceramente non era particolarmente apprezzabile il suo intervento dal punto di vista dinamico. Oggi in-

Supponiamo che lo spettatore abbia prelevato X carte e che, quindi, quella da lui memorizzata occupi, all’inizio, la posizione X. Se il nome scelto è composto da Y lettere (con Y > X...), quando voi eseguite la scansione di prova, in pratica andate a invertire l’ordine delle prime Y carte (ma ciò non è affatto evidente). Per effetto di tale manovra, la carta memorizzata dallo spettatore, che prima era seguita da Y–X carte, nel

Mario Alberto Cucchi

Il programma

Il nome famoso

Giochi di parole Esercizi di «Matemagica» divertenti e sorprendenti

I giochi di magia matematica vengono abitualmente raggruppati in una categoria denominata Matemagica (fusione dell’espressione Matematica magica); questo termine, coniato nel 1933 dal mago statunitense Royal V. Healt, è stato ripreso nel 1956 da Martin Gardner nel suo libro Mathemagic magic and mistery (tradotto in italiano con il titolo: I misteri della magia matematica, Sansoni Editore, 1985). Per loro natura, questi giochi si prestano ad essere effettuati svolgendo dei semplici calcoli aritmetici (eventualmente a mente). Ma, possono essere eseguiti anche utilizzando alcuni oggetti solidi e, in particolare, un mazzo di car-

te. Un significativo esempio al riguardo, dall’esecuzione abbastanza semplice, ma dall’effetto piuttosto inaspettato può essere eseguito con le seguenti modalità. 1. Porgete un mazzo di carte a uno spettatore e invitatelo a mescolarlo più volte; poi, fornitegli le seguenti istruzioni: a) preleva dalla cima del mazzo una quantità di carte, non superiore a 10; b) metti da parte queste carte, senza dirmi quante sono; c) osserva la carta che, nel mazzo restante, a partire dall’alto, occupa il posto corrispondente alla quantità di carte prelevate (in pratica, se hai preso 4 carte, devi memorizzare la carta che occupa il 4° posto; se ne hai prese 5, devi memorizzare quella che occupa il 5° posto, e così via);

d) tieni a mente il valore di tale carta; e) comunicami il nome di un personaggio famoso che ti è simpatico; poi, dovrai scandirlo calando sul tavolo una carta per ogni lettera da cui è composto. 2. Verificate che il nome proposto dallo spettatore sia composto da almeno 10 lettere; in caso contrario, chiedetegli di sceglierne un altro più lungo (adducendo, magari, la scusa, che in questo modo il gioco sarebbe troppo facile...). 3. Prima che lo spettatore cominci a eseguire l’operazione di scansione delle lettere del nome da lui scelto, la eseguite voi, dichiarando di volerla effettuare a titolo dimostrativo. 4. Riponete sul mazzo l’insieme di carte utilizzate per questa dimostrazione.

Spiegazione del trucco

Ennio Peres


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Ambiente e Benessere

«Campania Felix»

Scelto per voi

Bacco giramondo Una piacevole rassegna sui vini di questa regione italiana – Prima parte

Davide Comoli Affacciata sulla costa del Mar Tirreno la Campania è una regione dal territorio piuttosto eterogeneo, con le aree interne decisamente montuose, alle quali seguono in direzione ovest aree collinari e pianeggianti, fino a raggiungere la fascia costiera che scivola nel mare, dal quale emergono alcune isole di una certa estensione come Capri, Ischia e Procida. Ricco in genere di acque, il territorio campano è molto fertile e accoglie diverse colture agricole, tra le quali un posto di assoluto primo piano è quello ricoperto dalla vite, la quale ha scritto pagine indimenticabili nella storia della produzione del vino con nomi che sono rimasti indelebili nella memoria degli uomini come il Falerno, il Cecubo, il Caleno e altri ancora. Il nome Campania apparve nel V sec. a.C. e servì a designare il fertile territorio intorno a Capua, «l’ager campanis». Dal punto di vista storico-vinicolo, la zona più interessante della Campania è situata tra il monte Massico e il fiume Volturno. Molto probabilmente la coltivazione della vite in questa regione è antecedente al XII sec. a.C., quando prima gli Etruschi dal nord e dal cen-

tro, in seguito i Greci via mare, cominciarono a insediarsi in queste terre, dove trovarono popolazioni che già conoscevano l’arte della viticoltura: a loro fu sufficiente migliorare le tecniche di vinificazione e di coltivazione. Ne conseguì un’estensione della coltura di vitigni di grande pregio, tanto che più tardi, in età romana, i vini della «Campania Felix» allietavano le mense dei senatori e patrizi romani, ed erano considerati tra i più rinomati di quell’epoca. Lo spazio tiranno non ci permette di parlarvi di questi vini, ma ci riserveremo il piacere di descriverli in altra sede. La caduta dell’Impero Romano e l’inizio del Medioevo vedono una crisi profonda dell’agricoltura, comune peraltro a tutta la Penisola. Intorno al X sec. d.C. si riscontra un certo risveglio: nel 1529 Sante Lancerio dà un quadro eccezionale dei vini campani citandone nella sua opera I vini d’Italia, ben 53 e quasi nello stesso anno Giovanni Battista Della Porta nel suo Villae Libri XII evidenzia la fiorente viticoltura campana. Con il sec. XVII, il panorama vinicolo si modifica e inizia un certo declino con la prevalenza di alcuni vitigni su altri. Solo verso la fine degli anni 70 del

La cartina delle specialità regionali. (regione.campania.it)

secolo scorso si ha un cambio di tendenza e nell’ultimo decennio la Campania sembra voler riprendere il ruolo di leader qualitativo della produzione vitivinicola che fu sua nei secoli passati. La varietà dei terreni e dei climi che questa regione offre determinano anche una straordinaria moltitudine di tipologie di vini e di caratteristiche organolettiche, anche nei vini che derivano da analoghi vitigni.

Tra i vini bianchi è molto conosciuta la Falanghina, tra i rossi invece spicca l’Aglianico Il vigneto campano si estende per ca. 24’000 ettari, i sistemi di allevamento più diffusi sono il guyot e il cordone speronato, ma resistono forme più antiche (l’Italia è la nazione al mondo con più forme differenti d’allevamento al mondo, Etruschi, Greci e Romani, hanno lasciato le loro tracce). Troviamo quindi la pergola e l’alberello, senza dimenticare l’alberata aversana, nella quale le viti si arrampicano su filari posti tra 2 pioppi, con i grappoli che si possono trovare fino a 15 m dal suolo. Probabilmente è la particolare conformazione dei terreni uno dei motivi dell’eccezionale varietà di vitigni autoctoni: sono più di 100 quelli riconosciuti, la maggior parte a bacca bianca, che danno una produzione estremamente frammentata. Questa valanga di vini, provenienti da zone differenti, trovano il giusto matrimonio con i piatti della cucina campana, considerata una tra le più salubri della gastronomia italiana, forse l’emblema della cucina mediterranea, ricca di colori e di profumi, in grado di regalare sensazioni saporose, sia con i piatti di terra che di mare. Andiamo quindi a conoscere qualcuno di questi vitigni allevati nel vigneto campano. Tra i vitigni a bacca bianca spicca la Falanghina: il nome viene associato a due «diversi vitigni» la Falanghina dei Campi Flegrei che dà vini delicati da bere giovani e la Falanghina del Sannio,

i cui vini hanno più struttura e sono più longevi. Un altro vitigno interessante è il Greco, le cui uve maturano in ottobre e donano vini da bere in gioventù, ricchi di profumi fruttati e floreali (biancospino-gelsomino), ma notevoli soprattutto al gusto, con spiccata mineralità. Il Fiano è un vitigno che matura verso la fine di settembre, con le sue uve si ottengono vini molto interessanti, soprattutto a livello olfattivo, donandoci sensazioni di straordinaria complessità. Il Coda di Volpe deve il suo nome alla forma del grappolo, utilizzato spesso in uvaggio con la Falanghina; viene, soprattutto nella provincia di Benevento, vinificato in purezza e dona vini morbidi e di corpo. L’Asprinio è un vitigno antichissimo, già il nome dice tutto sulla sua acidità, questa sua particolarità lo rende adatto alla produzione di vini spumanti piacevolmente profumati. Il Pallagrello Bianco, regala note aggrumate e di frutta esotica ai vini in cui viene usato come uvaggio. Andremo prossimamente alla scoperta delle zone dove questi vitigni vengono allevati, in modo da conoscere meglio questa regione che racconta storie di civiltà millenarie. Tra i vitigni a bacca nera il più diffuso è l’Aglianico, che ha nella tannicità e nella potenza le migliori prerogative del vino prodotto, che possono essere diverse a dipendenza dell’ambiente pedoclimatico e che per la sua complessità ha pochi eguali nel panorama enologico. Il Piedirosso, chiamato localmente «Per’ e Palummo» (piede di colomba) per il colore rossastro della parte alta del raspo, è l’uva più diffusa nella provincia di Napoli, soprattutto nelle isole, il vino prodotto esprime profumi di frutti a bacca rossa (ciliegie) con tannini delicati. Altri autoctoni sono il Pallagrello Nero, il Casavecchia, la Guarnaccia il Tintore e lo Sciascinoso, che rappresentano ottimi complementari per la produzione di vini ottenuti dalle uve più coltivate. Soprattutto in provincia di Salerno troviamo anche il Merlot, il Sangiovese e il Cabernet Sauvignon.

rosato Alghero

Con i suoi quasi sette milioni di bottiglie prodotte, Sella & Mosca è la più grande realtà produttiva della Sardegna. Negli ultimi anni ha conosciuto un’importante crescita qualitativa, focalizzata soprattutto su bianchi prodotti con uve tradizionali, ma il grosso della produzione è rappresentato da vini rossi. Oggi per voi abbiamo scelto il Rosato Alghero, prodotto con la vinificazione in rosato delle uve Sangiovese e vitigni autoctoni. È un «blend» dal colore rosato buccia di cipolla, fragrante e delizioso, dai profumi di lamponi, mele e petali di rose, con un’intrigante intreccio aggrumato e un nonsoché di profumo di mare. Al palato è salino e fresco con un finale lungo e piacevole. Il Rosato Alghero è un ottimo vino da usare come aperitivo per le prime tipiche serate all’aperto, ottimo con pomodori e melanzane gratinate, Caesar salad con pollo e noi lo consigliamo con brodetti o zuppette di pesce. Provatelo con una «zuppa di vongole o cozze» dove entrano i pomodori, aglio, prezzemolo, olio extravergine d’oliva e fette di pane abbrustolito. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 11.95. annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Assaggi dal «Cuore verde d’Italia» Allan Bay

Continuiamo con la cucina dell’Umbria. Tra le carni i palombacci (colombi) godono di una grande fama: possono essere cucinati arrosto, con verdure aromatiche, o infilzati sullo spiedo e spennellati con una miscela di olio, limone, erbe aromatiche e olive. Nel perugino si preferiscono i palombacci in salmì, mentre i ternani li gradiscono con pancetta, pomodoro e con le lenticchie di Castelluccio.

Il ventaglio delle specialità è molto ampio grazie alla ricchezza nella produzione alimentare regionale di carni, verdure e dolci L’agnello può essere gustato arrosto, eventualmente steccato con aglio, prezzemolo, maggiorana e prosciutto crudo. Il petto viene a volte farcito con verdure aromatiche, salame e provolone. Le carni arrosto possono essere accompagnate da una salsa preparata con vino, prosciutto, scorza di limone, verdure ed erbe aromatiche, mollica, fegatini, olive e capperi. Le costolette di maiale sono preferibilmente cotte in padella e servite con un trito di cetriolini. Ma la pietanza di maiale più gradita è la porchetta (foto), l’arrosto di maiale intero, riempito delle sue interiora, aromatizzato con aglio e rosmarino e cotto nel forno da pane: venduto nei mercati o in negozietti locali, si consuma freddo accompagnato da pagnotte rustiche e vino. Allo stesso modo viene cucinata la carpa regina del Trasimeno: non a caso, prende il nome di «reina in porchetta». Sulle tavole umbre compaiono, ancora, il tegamaccio, una zuppa di pesce; anguille marinate e cotte allo spiedo o stufate con peperone, cipolle

e pomodori; il luccio cotto con latte e funghi prima sul fornello e poi nel forno, o ancora arrostito e servito con una salsa a base di maionese, senape, capperi, cetriolini, acciughe e aromi. Tra gli ortaggi più usati per creare manicaretti e accompagnare le pietanze spiccano i cardi (i cosiddetti gobbi), che, dopo essere stati impanati e fritti, vengono serviti con una salsa di pomodoro o un sugo di carne. Da ricordare, inoltre, le pregiate cipolle di Cannara (in provincia di Perugia), e i broccoletti del Trasimeno. A base di fave fresche è invece la scafata, uno stufato comprendente anche bietole, cipolla, sedano, carote, guanciale e pomodori. Sempre tra i legumi, meritano di essere ricordati le cicerchie, i ceci e i fagioli (questi ultimi spesso stufati per accompagnare degli gnocchetti di pangrattato); molto conosciute, apprezzate e diffuse sono infine le lenticchie di Castelluccio e di Colfiorito, grande accompagnamento di cotechini e zamponi di Capodanno cui fa degna compagnia la fagiolina del Trasimeno. La tradizione contadina si riflette anche nei suoi dolci: semplici ma sostanziosi. È il caso della rocciata di Assisi, una sorta di cilindro di pasta farcito con confettura, noci, pinoli, nocciole e uvetta; nel periodo natalizio si prepara il pan pepato, insaporito da noci, mandorle, nocciole, miele, cioccolato a pezzetti, uvetta, canditi e spezie, per Carnevale la cicerchiata, preparata con pezzettini di pasta fritta della grandezza di un cece mescolati con miele e foggiati a ciambella. Le mandorle sono alla base dell’attorta, una specie di strudel attorcigliato a forma di serpe di cui esiste anche una versione detta serpentone. Infine, vanno ricordati il brustengolo, una polenta di farina gialla ingentilita da mele, pinoli, noci e scorza di limone, e il torcolo di Perugia, un’antica ciambella (risalente al 1600) dal semplice impasto di uova, latte, zucchero, burro e farina, insaporito da canditi e semi di anice.

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Gastronomia Seconda parte della carrellata sulla cucina umbra, con le sue molte specialità

CSF (come si fa)

Il bello della cucina è che le vie per arrivare al «buono», qualunque cosa ciò voglia dire, sono molte: non esiste «la» via ma «le» vie. Certo ci sono trucchi che funzionano sempre: tipo usare buone materie prime, lavorare con calma e altri. La riprova è questa ricetta di confettura che mi ha mandato Rosita, un’amica con la quale collaboro regolarmente. È la ricetta di una confettura: ricordo che la confettura

si fa con tutta la frutta; solo se sono agrumi diventa marmellata. Io la faccio diversamente, ve ne ho già parlato qui, facendo marinare la frutta con zucchero e limone a lungo: questa è diversa, ma funziona anche lei. Vediamo come si fa. Mettete 2 dita di acqua in una pentola e portatela a ebollizione. Lavate la frutta e privatela dei nocciuoli ma non della buccia: è importante non togliere mai la buccia (magari solo a kiwi e a banane…), tanto poi si passa al setaccio, e poi molta della pectina contenuta dal frutto, che serve per addensare la confettura, è nella buccia. Pesatela e mettetela nel passino o meglio nel cestello da cottura a vapore, e inseritelo nella pentola. Coprite con una cappa (potete usare una ciotola di metallo, e cuocete la frutta a vapore per 15/18

minuti. Scolate il succo dalla pentola e passate la frutta al passino. Aggiungete lo zucchero (calcolate 150/300 g di zucchero per 1 chilo di frutta) e mescolate. Portatelo a cottura a fuoco medio vivace per circa 20 minuti. Effettuate la prova piattino: piattino in freezer per 5 minuti, versare un goccio sopra, se diventa più densa è pronta. Quando sarà cotta, versate nei vasi, chiudeteli e rovesciateli. Li girerete da raffreddati. Il succo tolto lo si può cuocere con la frutta perché alla fine è acqua ed evapora, però i tempi di cottura aumentano. Curiosamente, con questo procedimento non è necessario schiumare. La scelta di mettere un po’ di succo di limone in cottura è libera, suggerisco con i fichi o le pere e in genere con la frutta molto dolce.

Ballando coi gusti Oggi vi propongo due tartare «anomale»: nel senso che sono sì a base di ingredienti crudi, ma… di frutta e verdure, non di carne o pesce. Sono antipasti.

tartare di pere, scamorza e nocciole

tartare di peperonata cruda con alici

Ingredienti per 4 persone: 4 pere Williams · scamorza non affumicata g 250 · 1 limone · miele di castagno o altro g 60 · nocciole tostate g 60 · insalata misticanza · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 1 peperone rosso · 1 peperone giallo · 1 cipolla rossa · 10 pomodorini · foglie di basilico · 1 cucchiaino di origano secco · 4 filetti di alice sott’olio · 1 manciata di pinoli tostati · 1 cucchiaio di capperi sotto sale · 1 punta di peperoncino in polvere · olio di oliva · sale.

Tagliate la scamorza a cubetti. Riducete le nocciole in granella e mettetele in una ciotola. Tagliate le pere in 4 parti, togliete i torsoli, sbucciatele, tagliatele a cubetti e mettetele nella ciotola. Condite con olio, il succo di limone, il sale, il pepe e 30 g di miele, mescolate con molta cura. Disponete sui piatti la misticanza, conditela con olio, sale e pepe, sformate al centro la tartare con un coppa pasta e irroratela con il miele rimasto, meglio se caldo.

Con un coltellino ben affilato pelate i peperoni, tagliateli a metà, togliete loro le parti bianche e semi e tagliateli a piccole falde. Sciacquate i capperi. Sgocciolate le alici dall’olio e tagliatele a pezzetti. Tagliate la cipolla al velo e i pomodorini in 4 parti. Mettete tutte le verdure in una ciotola, unitevi i pinoli, le alici, l’origano, il peperoncino e le foglie di basilico spezzettate. Condite con olio e sale e mescolate con cura.


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Ambiente e Benessere

malva, quasi una panacea

Fitoterapia Secondo la tradizione popolare, questa pianta sarebbe adatta per tutte le malattie

Eliana Bernasconi «La Malva tücc i maa i a calma». Questo antico detto popolare è il titolo di una straordinaria ricerca storico-scientifica e etnobotanica portata a termine dalla biologa Giulia Poretti nel 2011, in collaborazione con il Centro di dialettologia e etnografia di Bellinzona, con il Museo Cantonale di Storia naturale di Lugano e con la Fondazione alpina per le Scienze della Vita di Olivone. È un affascinante affresco della medicina del passato, delle cure popolari con le piante medicinali per persone e animali, dove sono documentati tutti i rimedi applicati nelle malattie serie e nei comuni disturbi nelle valli e nei paesi del Ticino. In trasparenza intravvedi lo stile di vita, le tradizioni magiche e anche la spiritualità del secolo che ci ha preceduto, il tutto nella fedele trascrizione delle denominazioni dialettali. Per arrivare a questo nel corso di 8 anni sono stati intervistati molti ospiti delle case anziani e sono stati raccolti fedelmente i loro ricordi sulle cure spesso tramandate oralmente. Il detto popolare «La malva calma tutti i mali» racchiude una verità universale: il grande dotto Plinio il Vecchio, scienziato nato a Como nel 23 d.C., già denominava la Malva con il nome latino «omnimorbia», che significa rimedio per tutti i mali. Oggi questa comunissima pianta, Malva sylvestris L, della famiglia delle Malvaceae è tra le erbe maggiormente vendute. Quando iniziano i primi fred-

Malva Sylvestris. (Wikimedia)

di tra ottobre e novembre molti fiori muoiono ma questa fortissima pianta resiste e ci sorride ovunque, nei luoghi incolti, negli orti, al margine dei prati, sul ciglio delle strade presso i marciapiedi, con i suoi inconfondibili 5 petali distanziati e bilobati all’apice, di un inconfondibile rosa lilla pastello con striature rosate. Secondo l’antica teoria delle signature questo colore rosato ci riconduce alle mucose del nostro corpo, che la pianta cura. Classico è il suo uso per i casi di irritazione delle stesse, sia interne che esterne, e quindi nella tosse soprattutto quella stizzosa, nel mal di gola, nella costipazione, nelle

cistiti e nella stitichezza, le foglie e i fiori della malva hanno evidenti e grandi proprietà emollienti, rinfrescanti, lassative e «bechiche» (cioè che calmano i sintomi della tosse). I fiori si raccolgono appena sbocciati da aprile a ottobre, si fanno essiccare rapidamente all’aria e all’ombra e si conservano in vasetti di vetro, hanno una straordinaria magica particolarità, una volta essiccati il loro colore si trasforma in un blu intenso. Le foglie si raccolgono da giugno a settembre, la radici in autunno, ma occorre grande attenzione ai luoghi dove si raccoglie la Malva perché questa pianta assorbe con

grande facilità le sostanze inquinanti. Le sue applicazioni curative, come detto, formano una lista lunghissima ma la sua grande virtù è quella emolliente a motivo del contenuto di mucillagini di cui la Malva è molto ricca: il nome stesso deriva dal greco «malakos» che significa molle. Le mucillagini sono sostanze presenti in molte piante e hanno la particolarità di assorbire e trattenere l’acqua, trasformandola in una specie di gel che agisce sulle mucose gastriche irritate del cavo orale, dell’esofago e dell’intestino nei casi di infiammazione o iperacidità. Le radici hanno proprietà pettorali emollienti, i semi sono

usati nelle infezioni urinarie, gli steli e le foglie nel trattamento delle epatiti e di altri disturbi. A motivo di questo suo contenuto in mucillagini la Malva è ottima anche per uso esterno e risolutiva per piccole ferite, ulcere e foruncoli, punture di insetti, piccole ustioni . Il decotto di foglie e fiori si usa per ogni forma di irritazione e infiammazione, per gargarismi e sciacqui; l’empiastro di foglie fresche tritate applicato sul viso elimina macchie pigmentate, rughe e processi di invecchiamento cutaneo; il decotto di fiori si applica sugli stati irritativi degli occhi e per impacchi contro il mal di denti. E questi sono solo piccoli esempi delle sue innumerevoli applicazioni. In passato (ma niente vieta di farlo anche oggi, nell’epoca dei viaggi spaziali) i suoi giovani germogli si cucinavano come spinaci, le foglie tenere si aggiungevano crude nelle insalate e quelle mature erano un ingrediente per ottime frittate e minestre, in particolare per la cosiddetta «Zuppa di malva». I fiori erano cucinati come quelli di zucca. Pare che Cicerone consumasse grandissime quantità di Malva, che era ritenuta dai Pitagorici sacra e capace di liberare gli uomini dalla schiavitù delle passioni, perché quelli avevano osservato come durante tutta la giornata i suoi fiori si muovano seguendo fedelmente ogni passaggio del sole. Bibliografia

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Ambiente e Benessere

«Appesi a un filo»

mondoanimale I rifiuti abbandonati possono essere un vero pericolo per gli animali: la Stazione ornitologica

di Sempach lancia una campagna di sensibilizzazione

Maria Grazia Buletti I rifiuti lasciati in giro senza essere smaltiti in modo coerente creano spesso situazioni ricorrenti, riportate dalle cronache locali, di ferimento o uccisione di volatili. «Per la verità, sappiamo tutti che i rifiuti non vanno dispersi nell’ambiente. Tuttavia, molti di essi finiscono nella natura per pigrizia o disattenzione. Soprattutto le corde e i fili sono pericolosi per gli uccelli, perché possono rimanervi impigliati»: questa la presa di posizione della Stazione ornitologica Svizzera di Sempach che lancia la campagna Appesi a un filo per responsabilizzare la popolazione sui danni causati dai rifiuti lasciati incautamente in giro o trasportati via dal vento. Il Centro di cura della Stazione ornitologica svizzera si occupa costantemente di uccelli che sono stati limitati da corde e fili nella loro mobilità o nell’assunzione di cibo, così come pure di quelli che hanno subito costrizioni agli arti: «Dal momento che talvolta tali rifiuti sono utilizzati dai volatili come materiale per la costruzione del loro nido, anche i pulcini rischiano di rimanerci intrappolati». Nel caso, poi, di uccelli acquatici, si presenta pure il pericolo degli ami delle lenze da pesca che si possono impigliare alla pelle e alle penne. Gli esperti fanno ad esempio notare che, in casi estremi: «Gli oggetti di forma allungata possono essere scambiati per lombrichi o altro cibo ed essere quindi mangiati. Cosa nota, ad esempio, nel

caso della cicogna bianca». Il problema dell’abbandono dei rifiuti che poi vanno a minare la salute dei volatili si estende anche agli altri animali, come dimostra uno studio documentato su «Nature Scientific Reports» che conferma come i contenitori abbandonati per strada o in ambienti naturali non solo inquinano, ma possono rivelarsi trappole mortali per tutte le specie animali, dagli insetti più minuscoli a mammiferi di grandi dimensioni. Ad esempio, la ricerca evidenzia come il crescente numero di rifiuti dispersi nell’ambiente sia una minaccia per il mondo marino dove plastica di ogni forma e dimensione galleggia e viaggia con le correnti, venendo ingerita da sfortunati animali con esiti spesso letali: «La scorsa estate alle Filippine era stata trovata una balena con ben 40 chili di plastica nello stomaco, e gli uccelli marini nutrono fino alla morte i loro pulcini con i rifiuti». Pattume che è un pericolo altrettanto grave per gli animali che vivono sulla terraferma, anche se si tratta di un fenomeno ancora poco analizzato che, sempre secondo questo studio, afferma come almeno il 12 per cento degli animali terrestri vittime di rifiuti sia considerata a rischio di estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn). I ricercatori hanno analizzato tutti i contenuti di foto e video pubblicati su social network dal 1999 al 2019, che mostrano animali terrestri incastrati o morti all’interno di contenitori: «Sono stati trovati 503 casi, provenienti da tut-

Un’immagine emblematica del problema. (vogelwarte)

te le parti del mondo: ovviamente una sottostima del fenomeno, perché sui social vengono riportati solo i casi più evidenti, relativi soprattutto alle specie più carismatiche». Non è un caso che i mammiferi la facciano da padrone, con ben 395 casi (78 per cento) mentre gli insetti siano solo una piccola percentuale, anche se in realtà secondo questa statistica relativa contano ben 1050 morti. Secondo i ricercatori: «A volte è la curiosità a spingere un animale ad avvicinarsi alla spazzatura, altre la fame: i resti di cibo in putrefazione contenuti all’interno sono un richiamo soprattut-

to per i carnivori e gli onnivori che poi però restano vittime della loro golosità». Risulta che i rifiuti più pericolosi siano i barattoli, di plastica o di vetro, seguiti dalle lattine e dalle bottiglie di plastica. In particolare le lattine sono pericolose per i rettili: il 70 per cento dei serpenti e lucertole analizzati nello studio era all’interno di questi contenitori. E anche chi riesce a liberarsi, o viene liberato dall’intervento umano, riporta ferite, tumefazioni e difficoltà respiratorie a causa dei disperati tentativi di disfarsi della trappola: «A volte gli animali non restano del tutto intrappolati

all’interno dei contenitori, ma bisogna considerare che una zampa o un becco incastrati hanno effetti collaterali perché riducono la possibilità di spostarsi e alimentarsi». Anche in questo caso, come nella campagna della Stazione ornitologica di Sempach, risulta che sono tantissimi gli uccelli a utilizzare la plastica per fabbricare i loro nidi o addirittura per riti di corteggiamento: «Nel caso di specie come l’uccello giardiniere, il maschio erige elaborate costruzioni per far colpo sulla femmina, col risultato di restare spesso impigliato o ingerire involontariamente i materiali».

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba I fenicotteri rosa devono il colore del loro piumaggio… Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 4, 4, 9, 1, 10)

OrIZZOntAlI 1. Preposizione articolata 3. Sudicio, sporco 8. 101 romani 10. Uno sport olimpico 12. Nome femminile 14. Anacoreta 16. Accanito sostenitore 18. È finito... in fondo 19. Primo cardinale italiano... 20. Ripidi, scoscesi 21. Finisce in testa... 22. Si concia 23. Grosso recipiente di terracotta 25. Desinenza verbale 26. Pari in vedemmo... 27. Un vizio deleterio 29. L’indimenticabile attore Power (iniz.) 30. Risultato

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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VertICAlI 1. Si adornano a Natale 2. Pronome personale 4. Esprimere un parere 5. Cerimonia religiosa 6. La più famosa era Giunone 7. Le iniziali del compositore Respighi 1 2 3 4 5 6 9. Mare del Mediterraneo 7 8 11. Sono divise da C e D 13. Relativo all’Africa 9 10 15. I rettili la fanno perdendo la pelle 11 12 17. Cibele lo risuscitò 13 16 20.14Un15terzo d’Europa17 21. Ci sono quelli antivipera 18 19 20 22. Da calcio e da pascolo 21 22 23 23. Materiale per pavimenti 24 25 24. Nel cuore di Greta 26 27 2825. Indice Biotico Esteso 29 28. Congiunzione francese Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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3

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5

7 9

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Politica e economia una contesa senza fine Il conflitto israelo-palestinese, dalla «Dichiarazione Balfour» fino ai giorni nostri

le lezioni del virus La Cina perde terreno sul fronte vaccini mentre gli Usa volano in alto. Anche Giappone, Corea del sud e Taiwan vanno a rilento però qualcosa hanno imparato

nel fermento cileno È in arrivo una Costituzione più progressista ma l’eredità della dittatura segna ancora la società

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Votazioni del 13 giugno Fra gli oggetti in votazione, la nuova legge sul CO2 per la protezione del clima, contro cui l’Udc ha lanciato il referendum

pagina 27 Arabi israeliani sventolano bandiere palestinesi nella città di Lod l’11 maggio scorso. (Keystone)

la rivolta degli arabi israeliani

medio Oriente I membri della corposa minoranza, trattati come cittadini di serie B, solidarizzano con i palestinesi.

Israele potrebbe reagire con qualche forma di rappresaglia e aumentare i controlli attorno ai quartieri a rischio

Lucio Caracciolo Che cosa resterà dell’ennesimo conflitto di Gaza, tragico appuntamento che rompe con periodicità pluriennale la tregua fra Hamas e Israele? Sotto il profilo della partita a due, nulla di rilevante. Ma sul fronte interno israeliano probabilmente molto. Israele deve infatti confrontarsi con la scomoda realtà della rivolta dei «suoi» arabi, che credeva addomesticati. In termini pratici, quasi due milioni di anime che dalla mattina alla sera sono passati dallo status di vicini di casa con cui spesso si condivideva la quotidianità a potenziali terroristi. La scintilla è infatti scattata in un sobborgo di Gerusalemme est, la porzione araba della capitale israeliana: Sheikh Jarrah. Qui l’intenzione di alcuni ebrei di tornare in possesso di case appartenute a loro avi ha scatenato la furiosa reazione di chi stava per essere sloggiato e soprattutto la ribellione di migliaia di arabi israeliani, solidali con

i potenziali sfrattati (la Corte suprema israeliana dirimerà la vertenza, senza fretta). Di qui a incendiare per giorni e notti gran parte delle città miste, quelle cioè dove israeliani di ceppo arabo ed ebraico convivono da molti decenni, non c’è voluto molto. Evento del tutto inaspettato, cui lo Stato israeliano ha reagito con vigore. Al di là dei casi di Lod, Jaffa, Haifa e ovviamente Gerusalemme est, questa crisi pone lo Stato ebraico di fronte al problema strategico della divisione del fronte interno. Per un Paese costantemente con il fucile al piede in attesa degli aggressori che si facessero vivi alla porta, scoprire che la minaccia ce l’hai in casa è uno shock. Tale da obbligare a interrogarsi sulle cause e soprattutto sui rimedi. Immaginare che Israele, ossessionato dalla sicurezza, lasci passare quanto accaduto nelle città miste significa trascurarne l’identità profonda. Ci sarà certamente qualche forma di rappresaglia, e altrettanto sicuramente la stretta securitaria attorno ai quartieri a

rischio sarà molto più robusta di quanto fosse fino ai primi di maggio. Le cause di questa ribellione non sono solo economiche. Né basta la pur giustificata paura di trovarsi per strada a spiegare come mai tranquilli vicini arabi si siano manifestati alla maggioranza ebraica improvvisamente sotto una luce sinistra. La questione essenziale è lo status. Meglio, l’identità. Essere arabo nello Stato nazionale del popolo ebraico significa non poter partecipare pienamente della collettività in cui si è incardinati. Gli arabi israeliani sono cittadini di serie B che sentono di rischiare la C. Mentre fino a ieri l’accento cadeva su «cittadini» adesso rivela il declassamento di fatto, compensato finora dall’accesso al welfare e ai benefici di uno Stato comunque organizzato e ben funzionante. Ciò che aveva convinto la grande maggioranza degli arabi israeliani del vantaggio di vivere nello Stato ebraico invece che nei Territori occupati, teoricamente governati dalla corrotta e inefficiente Autorità nazio-

nale palestinese. Per tacere dell’orrore di Gaza. Alcuni arabi israeliani, esentati dal servire Israele in armi, negli ultimi anni avevano persino manifestato la disponibilità a entrare nelle Forze armate dello Stato ebraico, che invece preferisce, salvo eccezioni (specialmente drusi, circassi e qualche beduino), tener fuori dal suo sistema di difesa chi non appartiene al ceppo titolare. Specie nel 2 per cento di arabi israeliani di credo cristiano si manifestava l’intenzione di varcare la linea rossa e di entrare nell’esercito nazionale, con qualche incentivo da parte ebraico-israeliana. Inoltre, fino a immediatamente prima delle crisi di Sheikh Jarrah e di Gaza, i partiti arabi rappresentati alla Knesset (il Parlamento) parevano pronti a entrare nel nuovo Governo israeliano. Sarebbe stata una prima assoluta. Ora questa ipotesi appare più difficile – si rischiano anzi le quinte elezioni consecutive per l’impossibilità di formare una maggioranza di Governo

alla Knesset – anche se non da escludere totalmente una volta calmate relativamente le acque. Negli ultimi tre anni, però, qualcosa è cambiato. L’approvazione nel 2018 della legge su Israele Stato nazionale del popolo ebraico ha statuito finalmente quanto tutti già sapevano: il carattere ebraico (sionista) di uno Stato che pure per un quinto è formato da arabi, per tacere della notevole varietà di ceppi, gusti e gruppi ebraici. Di fatto, un declassamento degli arabi, che malgrado le rassicurazioni di Gerusalemme non sono mai stati davvero trattati da corposa minoranza comunque integrata, restando quasi in un limbo. Quando una persona si sente minacciata nello status sociale e identitario, la sua reazione può essere più violenta di quanto sarebbe stata in caso di attacco allo status economico. Il dilemma che Israele si porta dietro dalla nascita – come far convivere in un solo Stato comunità diverse, con un passato di scontri e di guerre – appare oggi più intricato di ieri.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Politica e economia

le radici dell’odio nel passato coloniale Storia Il conflitto israelo-palestinese sembra non avere fine.

Dalla «Dichiarazione Balfour» alle scintille delle ultime settimane

Dove vincono gli estremismi

le opinioni La parola ai rappresentanti

di due associazioni attive in Svizzera

Alfredo Venturi

Romina Borla

«Il Governo di sua Maestà considera favorevolmente la costituzione in Palestina di una dimora nazionale per il popolo ebraico...». Così il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour in una lettera a Lord Walter Rothschild, figura eminente fra gli ebrei d’Inghilterra. Passata alla storia come «Dichiarazione Balfour», la lettera porta la data del 2 dicembre 1917. In Europa e altrove infuria la prima guerra mondiale. Quel testo contraddice le promesse che hanno assicurato all’Intesa l’appoggio arabo nella lotta contro i turchi alleati degli Imperi centrali. Impersonate dal mitico Lawrence d’Arabia, comprendono un impegno politico: la fondazione sulle ceneri dell’Impero ottomano di un grande Stato arabo. Questo impegno è già stato contraddetto un anno prima dall’accordo segreto negoziato dai diplomatici Mark Sykes e François Picot in rappresentanza di Londra e Parigi. Con questo patto i due Governi organizzano i territori ottomani spartendosi zone d’influenza con puro spirito colonialista. Quando poi, all’indomani del conflitto, il «Trattato di Sèvres» deciderà il destino della Turchia, con la foglia di fico dei mandati per conto della Società delle Nazioni, i francesi prenderanno Siria e Libano mentre Palestina e Mesopotamia, il futuro Iraq, andranno ai britannici. Riproposta all’attenzione internazionale dai razzi e dalle rappresaglie aeree che mietono vittime a Gaza e Tel Aviv, la vicenda israelo-palestinese si specchia in un passato che ha visto troppo spesso gli interessi prevalere sui valori. Il territorio del mandato britannico era diverso dalla Palestina ottomana. Fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento è stato meta di ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale. Verso la fine del secolo Theodor Herzl fonda il movimento sionista e propone il miraggio di uno Stato ebraico. E dove se non nella terra degli avi, al riparo di ciò che resta del Tempio di Salomone? Gli inglesi incoraggiano gli insediamenti per rafforzarsi nell’area mediorientale, difendendosi dai risentimenti arabi per le promesse mancate. Il flusso diventerà impetuoso negli anni Trenta a causa delle persecuzioni naziste. Se all’inizio della prima guerra mondiale gli ebrei in Palestina erano il 9 per cento della popolazione, allo scoppio della seconda raggiungono il 33 per cento. Una quota destinata ad aumentare dopo l’Olocausto, fino a superare largamente la maggioranza.

Le visioni discordanti della realtà e della storia che da decenni agitano quella porzione di Medio Oriente hanno echi anche alle nostre latitudini. Echi che risuonano nelle parole dei rappresentanti dell’Associazione Svizzera-Israele e della Società Svizzera-Palestina. «La situazione è molto complessa», afferma Giuseppe Giannotti, portavoce dell’Associazione Svizzera-Israele, sezione Ticino, per il quale comunque la responsabilità dell’escalation di queste settimane è da attribuire in special modo ad Hamas. «Non si tratta di un confronto tra due Stati – precisa – ma di un confronto tra uno Stato, Israele, e Hamas, dichiarato un’organizzazione terroristica dall’Ue e dalla maggior parte dei Paesi occidentali. Già questo complica la possibilità di intavolare una trattativa per arrivare alla pace. Anche perché Hamas mira alla distruzione dello Stato di Israele e alla cacciata di tutti gli ebrei». È proprio l’organizzazione religiosa islamica – secondo l’intervistato – a tenere in condizioni di disagio e povertà il popolo palestinese. «Hamas spende milioni che gli arrivano da molti Paesi, Svizzera compresa, per comprare armi. In dieci giorni di guerra ha lanciato diverse migliaia di missili verso Israele. Razzi che costano molto denaro, che Hamas non ha speso per garantire una vita migliore alla sua gente, ma solo per combattere Israele». E la guerra colpisce con particolare violenza la popolazione civile che, secondo il nostro interlocutore, viene usata da Hamas come scudo. «L’organizzazione non esita infatti a lanciare razzi dai cortili degli asili, dai tetti degli ospedali, sfruttando anche le ambulanze per gli spostamenti dei suoi militanti». D’altro canto per Giannotti la popolazione palestinese in gravi difficoltà va senza dubbio sostenuta. «Ma non inviando denaro che Hamas spenderà per armarsi. Ecco un esempio. L’Ue e altre organizzazioni internazionali hanno finanziato diverse volte la costruzione a Gaza di un grande desalinizzatore che potesse risolvere il problema dell’acqua potabile. Finora non è mai iniziata la costruzione perché i soldi sono stati usati per i missili. Bisognerebbe piuttosto mandare squadre di esperti a costruite l’impianto. Non soldi dunque ma opere concrete. E questo vale per qualunque struttura: scuole, ospedali, case, ecc.». Di parere diverso Geri Müller, presidente della Società Svizzera Palestina. «Quella in atto in Medio Oriente è una guerra di colonizzazione. Dal 1947 in avanti il popolo palestinese ha dovuto subire un’esclusione dopo l’altra. Adesso la violenza è di nuovo esplosa,

All’inizio della prima guerra mondiale gli ebrei in Palestina erano solo il 9 per cento della popolazione I nuovi arrivati acquistano terreni dai proprietari arabi e si sostituiscono a chi li coltivava. La tensione fra i due gruppi, già piuttosto viva fin da quando, nel 1891, i capi della comunità araba supplicarono il Governo di Istanbul perché frenasse l’immigrazione degli ebrei, degenera rapidamente. Nel 1921 gli scontri di Jaffa lasciano sul terreno alcune centinaia di vittime. Si formano organizzazioni clandestine armate e sanguinose turbolenze si trascinano negli anni Trenta e Quaranta, mentre gli inglesi applicano una dura politica repressiva. La comunità internazionale si mobilita in cerca di una soluzione. Si arriva così al 1948. Il 17 maggio,

Prove di pace durate troppo poco. Da sinistra: Arafat, Rabin e Clinton a Washington nel 1995. (Keystone)

dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha dato via libera alla formula bi-nazionale, il leader sionista David Ben Gurion proclama la nascita dello Stato d’Israele di cui diviene primo ministro. La Lega araba respinge la spartizione proposta dall’Onu e attacca la neonata creatura politica. Ma contro le forze egiziane, irachene, saudite, libanesi, siriane e yemenite, Israele ha la meglio, allargando i confini oltre le linee tracciate dalle Nazioni unite. S’instaura un equilibrio precario fra comunità dalle contrapposte identità etniche, politiche e religiose: arabi contro ebrei, palestinesi contro israeliani, musulmani contro israeliti. Ormai la cruciale questione domina le cronache di questo mondo inquieto. Alla prima guerra ne succedono altre: nel 1956 Israele scende in campo al fianco di inglesi e francesi impegnati a difendere il Canale di Suez che l’Egitto di Nasser ha nazionalizzato. Le truppe ebraiche occupano il Sinai e raggiungono il Canale, ma devono ritirarsi per le pressioni del presidente americano Dwight Eisenhower che si impone ai franco-britannici e spegne quel pericoloso focolaio. Undici anni più tardi è la guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan guida Tsahal, l’esercito d’Israele, alla conquista della Cisgiordania e di Gerusalemme che strappa alla Giordania, del Sinai e di Gaza che erano territori egiziani. Le Nazioni unite chiedono che le terre siano restituite. Dicono no gli israeliani vittoriosi ma anche gli arabi sconfitti, perché accettando la risoluzione riconoscerebbero implicitamente lo Stato ebraico. Il confronto militare penalizza gli arabi e allora L’Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat, imbocca la via del terrorismo. Centinaia di migliaia di palestinesi in fuga dai territori occupati cercano asilo negli Stati arabi vicini, creando problemi di stabilità. Nel «settembre nero» del 1970 vengono sterminati a migliaia nei campi profughi della Giordania. Molti superstiti raggiungono i connazionali in Libano e anche qui

alterano delicati equilibri di potere. Poi arriva il 1973, la quarta guerra: nel giorno del Kippur, una festa rituale ebraica, Egitto Siria e Giordania attaccano a sorpresa. Dopo lo smarrimento iniziale la reazione israeliana è una volta ancora vittoriosa. Di fronte all’insensatezza della situazione e all’inconcludenza della guerra si fa strada a fatica, in un terreno avvelenato dall’odio, un inedito desiderio di pace. Un illuminato rais egiziano, Anwar el Sadat, viene accolto in Israele. Con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter si arriva alla pace, Israele restituisce il Sinai all’Egitto. Ecco Sadat nel 1978 a Camp David, accanto a un raggiante Carter, stringere la mano al primo ministro d’Israele Menachem Begin. Sadat pagherà a caro prezzo quella stretta di mano, tre anni più tardi sarà ucciso al Cairo dai fondamentalisti islamici, che durante una parata militare faranno strage nella tribuna d’onore. Nei primi anni Novanta si ritenta la via della pace con gli accordi di Oslo. Stavolta il mediatore è il presidente Bill Clinton, le parti sono rappresentate da Arafat e dal primo ministro Yitzhak Rabin. Ma poi si ritorna alla strategia dello scontro, Rabin morirà sotto i colpi di un ebreo estremista. In Israele prevale la linea oltranzista, fra i palestinesi la frustrazione sfocia nella violenza. Un nuovo attore irrompe sulla scena, l’Iran: sostiene e arma Hezbollah e Hamas che vogliono la fine d’Israele. Sulla pelle dei palestinesi si gioca una partita che ha per posta la supremazia sulla umma islamica: da una parte Teheran dall’altra l’Arabia saudita. Sciiti contro sunniti. E così la questione mediorientale rimane irrisolta, si direbbe che non possa finire mai. Gaza spara su Israele i razzi iraniani, Israele risponde eliminando con le bombe i capi di Hamas. Ma quella che dovrebbe essere un’operazione chirurgica ha tragici effetti collaterali: muoiono civili, muoiono bambini. I rancori dilagano, la pace si allontana, il mondo preme per un cessate il fuoco, l’ennesimo. E poi?

Una contesa infinita. (shutterstock)

dopo un’infinità di provocazioni. Ultime in ordine di tempo: l’intervento della polizia israeliana contro i palestinesi dentro e fuori la moschea di al Aqsa, nel complesso della Spianata delle moschee, e l’espulsione di famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme est». Chi ci guadagna da questa situazione in temine di potere e consenso? Le frange estreme delle due società, sostiene il nostro interlocutore. «Da una parte c’è Benjamin Netanyahu: prima in evidente crisi di consensi, tra guai giudiziari e instabilità politica. Adesso il fronte intorno a lui pare ricompattarsi, con un bilancio relativamente esiguo di vittime da parte israeliana». D’altro canto – continua l’intervistato – anche Hamas, organizzazione religiosa islamica che ha un ramo militare e uno socio-politico (ha vinto le elezioni del 2006), accresce la sua influenza in questo contesto poiché guadagna consensi nella società palestinese, «essendo l’unica fazione che fa qualcosa di concreto contro l’occupazione, qualcosa di violento certo, ma concreto. Mahmoud Abbas conta poco nel gioco politico, lui che ha rimandato a data indefinita le elezioni per paura della vittoria di Hamas». Queste vampate di violenza tra israeliani e palestinesi si sono già verificate decine di volte, continua Müller. «Con la comunità internazionale che resta a guardare: il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Usa, Francia, Regno unito) non si esprime. L’Assemblea generale dell’Onu protegge la Palestina ma le sue parole non hanno nessun impatto sulla realtà. Russia e Cina coltivano buone relazioni con Netanyahu, dati gli enormi interessi in gioco (petrolio, gas, infrastrutture). Non credo che qualcosa cambierà nel prossimo futuro». Ma per l’intervistato non si può andare avanti così. «I palestinesi non sono più disposti ad accettare un simile squilibrio in termini di potere. E una fusione dei due Stati sarebbe realizzabile soltanto a parità di diritti e doveri». Una speranza, per l’intervistato, viene dalla Palestina israeliana: Haifa, Tel Aviv, Jaffa, Nazareth. «In quei centri, palestinesi e arabi israeliani (il 20 per cento circa della popolazione israeliana) hanno inscenato manifestazioni per protestare contro le politiche discriminatorie e oppressive di Israele nei loro confronti e contro i bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Manifestazioni pacifiche, in opposizione a quello che succedeva ad esempio durante l’Intifada. Questo può portare la società internazionale a cambiare visione sui palestinesi, percependoli come un popolo unito che non intende più essere schiavo».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Politica e economia

Vaccinazioni a rilento in Asia

Confronti Come mai la Cina ma anche il Giappone, la Corea del sud e Taiwan stanno accumulando ritardi?

Il rischio è di pagare lo scotto in termini di crescita economica e di perdere terreno rispetto agli Stati uniti Federico Rampini I «misteri cinesi» attorno al Coronavirus non sono finiti neanche oggi. Un’amica imprenditrice, europea, che vive e lavora nella ricca regione del Guandong, mi scrive il suo grido di dolore sulla «assurdità della condizione in cui viviamo in Cina da mesi, la Covid qui non c’è da oltre un anno, la vita scorre normale, l’economia e le attività sono ripartite, eppure tutti gli espatriati vivono in una gabbia da cui è impossibile uscire anche a causa di procedure per il rientro assurde. Neppure con Hong Kong hanno allentato le misure, anzi sono ulteriormente irrigidite in questi giorni». Dopo aver stravinto la prima puntata della sfida, cioè il contenimento, la Cina arranca nelle vaccinazioni dove il sorpasso americano è clamoroso. I dati sono eloquenti. Negli Stati uniti si arriva al 50% della popolazione vaccinata, mentre in Cina solo il 16% degli abitanti ha ricevuto l’inoculazione. La percentuale cinese è metà di quella europea. Il ritardo, evidente, contraddice quella «diplomazia dei vaccini» con cui Pechino voleva fare un uso geopolitico della sua capacità d’immunizzare. Come si spiega? La mia amica imprenditrice, come tutti coloro che vivono in Cina, accenna a misteriose dietrologie. Il suo sfogo a distanza prosegue così: «Se la Cina volesse vaccinare, credi che non sarebbe in grado di farlo? Chi meglio di lei può imporre una vaccinazione di massa, a tappeto? Nel giro di un mese vaccinano tutti se vogliono le autorità, così come hanno fatto con il lockdown a febbraio 2020. E poi perché non riaprono ancora il traffico con Hong Kong? L’hanno punita abbastanza. Non riapriranno mai al mondo se non partono prima da Hong Kong. Sono incartati nel mantra tolleranza zero: un Paese che ha paura del minimo rischio». Questa manager europea si è «sinizzata», nel senso della paranoia che è tipica di chi vive sotto un regime autoritario. È

normale, e assai diffuso attribuire al regime una capacità di controllo ancora superiore a quella che ha. Ma dall’inizio della pandemia stiamo accumulando una mole di prove che dimostrano quanto il regime cinese possa sbagliare. No, non riesce a pianificare e manipolare tutto. A volte gli incidenti lo colgono impreparato e lo mandano in tilt. Dobbiamo rivisitare l’intera gestione cinese della pandemia: è un tema che ci riguarda tutti e sul quale non finiremo mai di fare nuove scoperte. Cominciando dalle bugie iniziali, per le quali il mondo intero ha pagato un prezzo altissimo, bisogna diffidare delle teorie del complotto troppo perfette, troppo diaboliche. Ad aver causato gli errori del Partito comunista cinese c’è il riflesso condizionato del Partito-Stato di fronte a un imprevisto che potrebbe compromettere l’armonia sociale. Altra lezione: non esageriamo il ruolo del Grande fratello cinese, la tecnologia fu abbastanza marginale per un controllo sociale che nei lockdown fu affidato alla mobilitazione umana, un esercito di volontari, comitati di quartiere, insomma la vecchia macchina comunista. Il Grande fratello, come scrive l’ex corrispondente di «la Repubblica» a Pechino Filippo Santelli che fu sottoposto a una dura quarantena, «dov’era quando sarebbe servito?» Le app sanitarie made in China sono state altrettanto inefficaci di quelle sperimentate in diversi Paesi occidentali. L’insistenza di Xi Jinping sui benefici della medicina tradizionale cinese lascia intravedere una classe dirigente che alterna la fiducia nella scienza a una propaganda nazionalista pericolosa. Sui vaccini, dunque, non credo che la Cina stia rallentando la campagna d’inoculazione di massa per qualche scopo deliberato. Ha dei problemi a monte, cioè nella produzione; e a valle, nella percezione su efficacia e sicurezza dei suoi prodotti. È noto che sui vaccini cinesi non è stata fornita la stessa trasparenza sui test clinici rispetto ai concor-

Pechino ha problemi nella produzione e nella percezione su efficacia e sicurezza dei suoi preparati. (shutterstock)

renti occidentali. Problemi simili però stanno affliggendo gli altri «primi della classe» in Estremo Oriente, che non hanno regimi autoritari. Mi riferisco alle democrazie del Giappone, Corea del sud, Taiwan. Questi Paesi sono stati di un’efficacia ammirevole nel contenere il contagio dall’inizio (senza ricorrere a veri lockdown), tant’è che i loro tassi di mortalità da Covid sono microscopici rispetto al resto del mondo. Ora però sono molto indietro nelle vaccinazioni, anche perché non hanno una produzione propria, dipendono soprattutto da forniture americane. In parte il loro ritardo è scusabile: chi ha contenuto il contagio fin dall’inizio e lo mantiene molto basso senza usare metodi farmacologici, non ha la pressione dell’urgenza di vaccinare la popolazione. E i cittadini possono sentirsi già abbastanza al sicuro da prendersela con calma. Il «troppo successo» però può avere degli effetti collaterali indesiderati. Lo si vede con le Olimpiadi in Giappone. Da un lato Tokyo è co-

stretta a mantenere le frontiere chiuse ai visitatori stranieri e questo riduce il beneficio economico dell’evento sportivo. D’altro lato fra gli stessi giapponesi continuano le polemiche sulla sicurezza sanitaria dell’evento. Il fatto di essere indietro nelle vaccinazioni genera paure su quel che potrebbe accadere con i raduni di massa, sia pure fra spettatori solo giapponesi. Anche Taiwan è costretta a mantenere rigidi controlli alle frontiere, pur essendo stata la prima ad «avvistare» la Covid (nel dicembre 2019) e avendo una mortalità vicina a zero. Ora questi Paesi rischiano di pagare qualche prezzo sul fronte della ripresa economica. L’America brucia le tappe del suo ritorno alla normalità, con riaperture generalizzate di ogni attività, e gesti simbolico-pedagogici come la «liberatoria dalle mascherine», annunciata dall’autorità sanitaria per chi è vaccinato. Sono tanti i segnali di una ripresa economica Usa che a fine anno potrebbe sorpassare in velocità perfino quella

cinese. La lezione è interessante: chi ha vinto il primo round contro la Covid, può anche perdere il secondo, e viceversa. Le sconfitte a qualcosa servono, talvolta. Basta pensare a una delle ragioni per cui Taiwan, Corea del sud e Giappone sono stati i «primi della classe» nel bloccare il contagio. La spiegazione più convincente risale a 18 anni fa. Quegli stessi Paesi furono vittime di un’altra grave menzogna del regime cinese nel 2003 all’epoca della Sars. Si attrezzarono con sistemi di allerta precoce, per difendersi dalle bugie di Pechino. Misero in piedi delle procedure di cui abbiamo visto la straordinaria efficacia. L’Occidente fu colpito marginalmente dalla Sars e perciò ha dormito sonni tranquilli, nei 18 anni in cui le democrazie confuciane con tenacia e lungimiranza si preparavano alla pandemia. Lo shock euro-americano del 2020 però ha accelerato la performance incredibile della scoperta dei nuovi vaccini. A ciascuno la sua lezione e la sua capacità di apprendimento.

Draghi, l’italiano più spendibile all’estero

Il ritratto L’Italia in crisi si aggrappa al suo presidente del Consiglio, la cui serietà è apprezzata anche oltre confine.

«Super Mario» ha dimostrato capacità nel gestire la pandemia ma il vero banco di prova sarà il rilancio dell’economia Alfio Caruso Vi ricordate quando nel pieno della campagna presidenziale 2016 l’allora candidato Trump urlò dal palco: «Potrei stare in mezzo alla Fifth Avenue, sparare a qualcuno e non perderei neanche un voto. È incredibile»? E accompagnò la frase con la mano a raffigurare una pistola. Lo stesso potrebbe dire Mario Draghi, il presidente del consiglio italiano, tale è l’ascendente esercitato sul Paese, la considerazione dalla quale è circondato. Ovviamente Draghi non solo non lo dice, ma neppure lo pensa da riuscito incrocio delle migliori scuole cattoliche e laiche della Nazione. Ha infatti studiato dai gesuiti e professionalmente si è formato in Banca d’Italia alla scuola di Azeglio Ciampi, che l’ha preceduto nella guida del Governo e, forse, in quella della Repubblica. Un recente sondaggio afferma che oltre il 60,2% dei cittadini è convinto che il capo del governo otterrà risultati importanti «malgrado i partiti» e fra costoro il 41,3% ritiene che Draghi realizzerà quel cambio di passo indispensabile per emergere dalla crisi pandemica. D’altronde, l’indice di gradimento è risalito al 56% dopo essere sceso al 51% dal 63,8% dei giorni

dell’investitura in febbraio. In Italia sono numeri altissimi, testimonianza della fiducia quasi messianica riposta nell’ex governatore della Banca centrale europea. E non è una pura questione di carisma, di serietà, di lontananza dal teatrino della politica e dalle copertine dei settimanali di gossip. Il funzionamento della macchina vaccinale con il traguardo delle cinquecentomila dosi giornaliere ha rappresentato la conferma che alle promesse di Draghi si può credere, benché il suo merito

Potrebbe diventare l’interlocutore privilegiato degli Usa. (shutterstock)

principale sia di aver scelto uno sconosciuto generale degli alpini, il sessantenne Francesco Paolo Figliuolo, quale commissario all’emergenza. Messo di fronte alla prova più ardua Figliuolo si è rivelato quel mago della logistica indispensabile nell’attuale frangente. A convincere l’opinione pubblica ha contribuito pure il suo indefesso girovagare da un hub all’altro in divisa con tanto di cappello munito dell’ammirata penna bianca: da oltre un secolo, infatti, gli alpini costituiscono il più amato simbolo della Patria. In sofferenza come poche altre volte nella sua storia, l’Italia si è aggrappata a Draghi con la forza della disperazione, pure a rischio di trasformarlo in un santino. Esiste il bisogno diffuso di credere in qualcuno e chi meglio del banchiere che ha salvato l’euro con la semplice promessa di fare tutto ciò che sarebbe servito, e nell’attuarla mettere anche in riga la supponenza di tedeschi e olandesi nei confronti degli italiani appassionati di mandolino e spaghetti? Dimenticati alcuni velenosi giudizi sul suo ruolo nelle privatizzazioni di trent’addietro, che comunque aiutarono a mettere in ordine i conti, oggi fanno agio la sua onestà, mai lambita dalla più piccola maldicenza; l’apprezzamento dall’in-

tero arco politico al punto che i principali incarichi a lui, ritenuto di vaghe simpatie sinistrorse, sono venuti da Berlusconi. E si è trattato prima della Banca d’Italia, in seguito di quella europea. Agli occhi di molti connazionali Draghi rappresenta l’ennesimo «uomo della provvidenza», ma a differenza di Mussolini e di Berlusconi, i due aspiranti più conosciuti, senza alcuna pretesa di esserlo. Ambizioso e giustamente sicuro di sé è l’ultimo rappresentante di una genìa, purtroppo smarritasi nel corso dei decenni. Quella dei professionisti seri e perbene, per i quali parlano i trascorsi. Non ha promesso «lacrime e sangue» come Churchill, tuttavia non ha nascosto le enormi difficoltà dalle quali siamo attesi per superare la crisi e soprattutto l’enorme debito pubblico, che zavorra bilanci e progetti. Eppure un italiano su due approva il suo piano di ripresa, ne condivide il disegno per far rinascere la Nazione, aiutarla a uscire dalla crisi. Persino l’immediata e scontata apertura al turismo internazionale ha suscitato un vastissimo consenso, financo esagerato. Draghi è l’italiano più spendibile a livello internazionale. Il ritiro della Merkel, le difficoltà di Macron

potrebbero trasformarlo nell’interlocutore privilegiato degli Usa. Il rilievo attribuitogli dai media più importanti, un paio di articoli elogiativi del «New York Times» e del «Wall Street Journal» hanno rappresentato una lieta scoperta. Anche il suo inglese impeccabile, imparato dalla frequentazione di corsi al Mit di Boston di Franco Modigliani, l’unico italiano ad aver vinto, nel 1985, il nobel per l’economia, conferisce al personaggio uno spessore d’inusitata qualità, ben diverso dai tanti orecchianti, capofila Renzi, che lo masticano a fatica. Malgrado sia di poche parole e di pochissime conferenze stampa, queste sono state sufficienti per regalare agli abitanti della Penisola un futuro in cui credere, sul quale puntare. Naturalmente il favore di cui gode si è riversato sull’intero Governo, però siamo ancora ai preliminari. Saranno il lavoro spesso da inventare e il rilancio dell’economia il vero banco di prova. Il clima, la transizione ecologica, quella digitale, la giustizia, la scuola sono riforme ugualmente importanti per poter avviare la modernizzazione del Paese, ma senza un secondo miracolo economico il sogno si trasformerà in incubo e si comincerà a cercare un San Giorgio in grado di abbattere i Draghi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Politica e economia

Il laboratorio politico cileno

l’analisi Nella Costituente chiamata a scrivere la nuova Costituzione è forte la fazione degli indipendenti, la destra

raggiunge solo il 20 per cento. Il futuro è dunque progressista ma l’ombra di Pinochet aleggia sulla società Angela Nocioni La destra politica, potere solidissimo mantenutosi assai influente nella società cilena dopo la fine della dittatura del generale Augusto Pinochet (19731990), non raggiunge che uno smilzo 20 per cento negli scranni della Costituente chiamata dal mese prossimo a scrivere la nuova Carta costituzionale del Cile. È questa la novità fondamentale delle elezioni tenutesi due settimane fa per costituire, per la prima volta nella storia della Repubblica cilena, l’assemblea incaricata di redigere la Carta. Si è votato insieme per le Amministrative e anche lì grande sorpresa: la destra politica è quasi scomparsa, lasciando tutto a una diffusa sinistra uscita dalle mobilitazioni di piazza di due anni fa e, con grande stupore di tutti, al vecchio partito comunista cileno che però ha eletto quasi esclusivamente giovanissimi. Non solo. Il Partito comunista s’è preso il Governo del Comune della capitale. Santiago non era mai stata governata dai comunisti, nemmeno ai tempi del Governo di Unidad popular di Salvador Allende. La novità, quanto a valore simbolico, è clamorosa.

L’educazione e la sanità sono private, è carissimo curarsi ed educarsi. Adesso un cambiamento è possibile Lo scarso 44 per cento degli aventi diritto che ha partecipato al voto (l’assenza ai seggi elettorali è altissima dal 2012, anno in cui la partecipazione al voto ha smesso di essere obbligatoria) ha punito i tradizionali partiti che si sono alternati dal ritorno della democrazia al Governo del Cile: tanto la destra estrema dell’attuale presidente Sebastian Piñera quanto il centrosinistra della socialista Michelle Bachelet. Gli elettori non si sono buttati su un voto di protesta anti-politico di destra e hanno scelto candidati usciti dalle mobilitazioni di piazza iniziate due anni fa contro il Governo Piñera, duramente represse dai militari in strada secondo lo stesso identico modello di criminalizzazione della protesta usato in queste settimane dal Governo di Ivan Duque in Colombia contro i manifestanti che lo contestano. Entrambi, Duque come Piñera, applicano il metodo dell’ex presidente colombiano Alvaro Uribe che teorizza la tolleranza zero

Gli elettori hanno scelto candidati implicati nelle mobilitazioni di piazza scoppiate due anni fa. (Keystone)

verso quella che chiama «la rivoluzione molecolare che ci minaccia». Il voto per la Costituente ha una valenza storica perché il Cile vive ancora nella gabbia di leggi costruita dalla dittatura. Fu una delle mosse più astute di Pinochet: saper imporre alla transizione democratica una Costituzione che gli sopravvivesse, facendo così perdurare alcuni assetti di potere fondamentali della dittatura, tra i quali l’insieme dei privilegi economici e degli strumenti di influenza delle forze armate. Michelle Bachelet durante i suoi sofferti Governi di centrosinistra aveva promesso di spazzare via la Costituzione del dittatore, ma si trattava di una promessa impossibile da mantenere perché non avrebbe mai avuto dalla Democrazia cristiana sua alleata e dalle varie destre (pinochettiste e non) i voti necessari a farlo. Il testo costituzionale è sempre stato il grande totem della parte reazionaria, non necessariamen-

te minoritaria, dell’establishment cileno. Toccare la Costituzione ha sempre significato sfidare la cultura profonda di un Paese in cui il generale Pinochet ha potuto contare a lungo su un vasto consenso anche tacito. Per questo, ottenuta con un grande strappo politico la possibilità di riscrivere la Costituzione, chi è andato a votare in Cile l’ha fatto per invertire la direzione politica. S’è schierato in maggioranza a sinistra e ha votato quelli che si sono presentati in varie forme, con formule dove troneggia sempre l’aggettivo «indipendente» (parola dal significato politico sempre ambiguo), come eredi o rappresentanti delle decine di migliaia di persone, quasi sempre studenti, scese in piazza negli ultimi anni a chiedere una riforma strutturale della società in senso paritario. Cominciando dal sistema scolastico che è ancora quello ereditato dal regime di Pinochet ed è inaccessibile ai non ricchi perché interamente privatizzato. Delle settan-

ta liste che si sono presentate alla Costituente, oltre 60 non appartenevano a partiti politici. La discussione in Cile è sempre la stessa da anni: quali costi sociali ha il modello economico adottato a Santiago. Il grande problema resta la forbice tra ricchi e poveri. La differenza sociale è perpetuata dal funzionamento perverso del modello di studi universitari adottato finora. Un laureato entra nel mercato del lavoro con 30 o 40 mila dollari di debito da restituire alle banche che gli hanno erogato il prestito scolastico per accedere alle prestigiose università di Santiago. Altrettanto discriminatorio è il sistema di previdenza sociale. Il mito dei fondi pensione cileni, osannato negli anni Novanta come modello di liberismo classico da imitare, si è sgretolato per fattori demografici ed economici. In questo contesto il Governo di Santiago conquistato dai comunisti è una bomba politica perché mai in Cile

dalla fine del Governo di Salvador Allende, abbattuto dal golpe dell’11 settembre 1973 di Augusto Pinochet, un comunista ha avuto un incarico di potere diretto così importante. Michelle Bachelet ci provò nel suo secondo Governo, mettendo due del partito comunista nella lista dei ministri e dei sottosegretari, e le si rivoltò contro mezzo Parlamento, compresi i suoi alleati. Ora si apre una grande incognita: come si comporteranno i costituenti, digiuni di esperienza politica e quindi di esperienza nella tradizionale contrattazione politica tra partiti, una volta seduti al tavolo per redigere la Carta? Mediare tra forze diverse per raggiungere un compromesso è necessario per riuscire a scrivere una Costituzione. Troveranno comunque forme di mediazione? Ma soprattutto: sapranno rendersi impermeabili alle pressioni delle forze tradizionali che sono state punite dal voto o finiranno per essere accerchiati e manipolati dalle varie lobby estromesse dal voto e già al lavoro per rientrare dalla finestra? Secondo l’Osservatorio Nueva Constitución il 64 per cento dei 155 eletti è costituito da indipendenti, senza contare i 17 seggi riservati alla minoranza indigena. Di certo la gran quantità di indipendenti farà sì che non ci sarà nessuna disciplina partitica: qualsiasi meccanismo si metterà in moto sarà un inedito. Carlos Gabetta, saggista, fine analista politico ed ex direttore del «Diplo», l’edizione latinoamericana di «Le Monde diplomatique», raccomanda grande prudenza nella lettura dei fatti cileni e molta attenzione ai distinguo: «È molto presto per fare previsioni. Per comprendere quel che sta accadendo bisogna aver chiaro che la società cilena è segnata dall’eredità della dittatura. L’educazione e la sanità sono private, è carissimo curarsi ed educarsi. Immagino che da questo punto di vista potrà uscire una Costituzione molto innovativa. Non è mai successo che rappresentanti della società senza la mediazione dei partiti avessero in mano la stesura di una Carta costituzionale, ci sono molti elementi di novità cominciando dalla metà dei seggi riservata alle donne. Uscirà, credo, qualcosa di molto progressista. Nessuna delle forze tradizionali ha i due terzi dei voti necessari ad essere determinante nella riforma. Gli indipendenti troveranno un modo per fare accordi? Chissà. È un processo del tutto nuovo, molto interessante da osservare». Comunque vada a finire, si tratterà di un laboratorio politico per l’intero Continente. annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2021 • N. 21

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Politica e economia

un freno ai costi delle aziende svizzere

meno burocrazia Sull’esempio di quanto fanno altri paesi industrializzati, il Consiglio federale propone

una legge per limitare la crescente regolamentazione

Ignazio Bonoli Le intense discussioni sull’accordo quadro con l’UE da un lato e quelle sui provvedimenti per uscire dalla pandemia dall’altro, hanno fatto passare sotto tono una decisione importante del Consiglio federale: quella sull’introduzione di un freno alla crescente regolamentazione e all’aumento della burocrazia che provoca. Il governo ha, infatti, posto in consultazione un testo che tiene conto di due atti parlamentari che avevano provocato, nel 2019, una richiesta del Parlamento di introdurre il principio della maggioranza delle Camere, invece della semplice maggioranza dei votanti, su temi che provocano spese elevate per le aziende. Per spese elevate si intendono quelle provocate da progetti di legge che comportano costi di regolamentazione per oltre 10’000 aziende, o per l’insieme di tutte le aziende, di oltre 100 milioni di franchi. Per costi si intendono quelli «una tantum», oppure quelli che si ripetono durante dieci anni. Un freno di questo tipo viene già praticato in campo finanziario oltre un certo limite delle spese previste. Del resto, anche il freno alle spese attualmente in vigore si basa già sullo stesso principio, chiedendo che in media il volume delle spese non superi quello delle entrate. Probabilmente anche grazie a

una congiuntura favorevole, questo freno ha provocato una diminuzione del debito pubblico della Confederazione da 124 nel 2003 a 97 miliardi di franchi nel 2019. Difficile dire se la proposta in consultazione potrà raggiungere risultati analoghi. In realtà gli obiettivi sono comunque diversi. Già il titolo della proposta del Consiglio federale fissa come obiettivo principale quello di sgravare le aziende dai costi della regolamentazione, attraverso una apposita legge. Il lavoro preparatorio deve comunque partire da una valutazione attendibile di questi costi, da una sorveglianza costante nel tempo, studi approfonditi su singoli settori della regolamentazione, l’esame delle possibili semplificazioni per le imprese, nonché la creazione di una piattaforma elettronica che permetta l’accesso delle aziende alle prescrizioni della Confederazione. A parte il fatto che per ridurre l’impatto fiscale delle leggi sulle aziende si propone appunto una nuova legge, si prevede che l’operazione provocherà, secondo uno studio esterno, maggiori costi di circa 2,6 milioni all’anno per la Confederazione. Il risultato dovrebbe però essere una riduzione molto più elevata dei costi delle aziende. L’efficacia delle misure previste è al momento impossibile da valutare, soprattutto

perché non si possono stimare oggi i numerosi effetti indiretti che si potrebbero verificare. Per questo la Confederazione vuole ancorare nella legge la valutazione dell’efficacia e dell’economicità delle misure previste. Tra queste primeggiano: una migliore trasparenza dei costi, un’autorità di sorveglianza indipendente, regole di bilancio per i costi delle regolamentazioni, nonché il citato cambiamento delle regole parlamentari di voto per determinati progetti. Rispetto al freno alle spese, questo nuovo tipo di freno presenta una difficoltà maggiore: la valutazione dei costi di un nuovo progetto è molto più problematica dell’uso dei dati definitivi di preventivo della Confederazione. Ma già il fatto di dover fare una valutazione genera prudenza nell’uso delle cifre adeguate. Inoltre, già alcuni paesi dell’OCSE usano modelli di valutazione e riescono a contenere le spese. Si possono anche fare valutazioni «a posteriori» sull’efficacia delle misure. In sostanza la legge propone un intervento piuttosto ampio: migliore trasparenza dei costi da valutare e approfondimenti regolari della situazione, dopo un’attenta sorveglianza delle applicazioni. Resta aperta la domanda su chi deve esercitare questa sorveglianza. Qui è stata avanzata l’idea di un ufficio esterno indipendente, ma il

Se approvata, la legge provocherà costi per circa 2,6 milioni all’anno alla Confederazione, ma sgraverà le aziende di una somma più elevata. (Keystone)

Consiglio federale non ha dato il suo accordo. Questo potrebbe già essere uno dei punti di contrasto. L’idea di un controllo esterno è già di per sé un correttivo alla gestione amministrativa pubblica. I suoi costi potrebbero essere più che coperti dai risparmi ottenuti. L’esempio del «Normenkontrollrat» in Germania viene valutato positivamente, ma migliorabile per quanto attiene all’influsso indiretto sulle decisioni politiche. Resta parecchio scetticismo

sull’effettiva riduzione della burocrazia su aspetti importanti. La Germania, ma anche una decina di paesi OCSE, accompagnano il controllo dei costi della burocrazia con un controllo focalizzato unicamente sulle spese. Ma il Parlamento elvetico ha già respinto una proposta simile. La legge svizzera sullo sgravio per le aziende dei costi di regolamentazione dovrà però passare al vaglio del Popolo e dei Cantoni, poiché chiede una modifica costituzionale sul modo di votare delle Camere. annuncio pubblicitario

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nuova legge sul CO2: indispensabile o iniqua?

Politica e economia

Votazioni federali 13 giugno Dopo un lungo percorso per trovare un compromesso sulla revisione della legge sul

CO2, i cittadini sono chiamati a confermare o respingere il complesso sistema di tasse, compensazioni e restituzioni

Alessandro Carli È oramai assodato: l’eccessiva produzione di CO2, ossia di anidride carbonica, nota anche come diossido di carbonio, è la causa unanimemente riconosciuta del surriscaldamento del nostro pianeta. Sebbene i quasi 8 miliardi di persone del mondo, solo respirando, emettano sempre più anidride carbonica, sono le attività umane, in particolare dalla rivoluzione industriale a oggi, ad aver sconvolto le emissioni, con enormi concentrazioni di CO2. Vi hanno contribuito in primis le emissioni dei riscaldamenti a gasolio, quelle della combustione di cherosene e di carburante del traffico motorizzato. Eppure, il CO2 è essenziale nei processi vitali di piante, animali e dell’uomo, ma la presenza di questa sostanza nell’atmosfera dev’essere equilibrata: se ce n’è troppa – come ora – la Terra si surriscalda a causa dell’effetto serra; se è troppo poca, le piante non possono più usare la fotosintesi per produrre ossigeno, rendendo il pianeta inabitabile. Occorre dunque ristabilire questo equilibrio e regolare la temperatura della Terra, anche per arrestare lo scioglimento dei ghiacciai e mitigare i cambiamenti climatici che sempre più frequentemente danno adito a persistenti periodi di canicola e di siccità, a uragani, piene e inondazioni. Si tratta di un’impresa titanica che va sostenuta da tutti e a livello planetario, anche se i quantitativi di anidride carbonica non sono dappertutto uguali. In termini assoluti, la Cina fa la parte del leone, con oltre il 27% delle emissioni mondiali (USA 11% e UE 6,4%). Le emissioni della Svizzera sono solo lo 0,1%. Per quanto riguarda l’essere umano, tutto dipende dalla regione in cui è cresciuto e ha vissuto. Secondo uno studio della Banca mondiale, uno svedese di 60 anni, ipotetico parente di Greta Thunberg (la giovane attivista ecologista), ha prodotto emissioni totali di anidride carbonica 2,5 volte superiori del coetaneo cinese e 9 volte di più di quello indiano.

Difesa da tutti i partiti ma non dall’UDC, la nuova legge è sostenuta dai cantoni, dai comuni e dalle città svizzere Consiglio federale e Parlamento, consapevoli che la legge sul CO2 attualmente in vigore non basterà a dimezzare, entro il 2030, le emissioni di gas a effetto serra rispetto al 1990 (fino al 2018 erano inferiori solo del 14% a quelle dell’anno di riferimento), hanno varato una revisione totale della legge sul CO2 più severa. Essa è conforme agli obiettivi climatici sui quali si sono accordati 189 Stati e l’Unione europea, sottoscrivendo l’Accordo di Parigi, ratificato dalla Svizzera nel 2017. A causa del referendum, riuscito lo scorso gennaio, la riforma sarà sottoposta al popolo il 13 giugno prossimo, con la raccomandazione di accettarla. Il referendum è stato lanciato da un comitato economico sostenuto dal settore petrolifero e automobilistico, come pure dall’USAM, dal Centre patronal e da GastroSuisse. Va segnalato che è appoggiato anche da un secondo comitato, ma di sinistra, denominato «Per un’ecologia sociale». Ne fanno parte certi gruppi regionali, soprattutto romandi, del movimento Sciopero

La campagna in favore della nuova legge è stata molto attiva: in prima fila le tre consigliere federali Karin Keller-Sutter, Viola Amherd e Simonetta Sommaruga. (Keystone)

per il clima. Essi sono convinti che gli obiettivi climatici non saranno raggiunti e che la legge sul CO2 è insufficiente, anche perché si concentra sulle compensazioni e non sulle riduzioni. Le Camere federali hanno faticato più di tre anni per trovare un compromesso su questa revisione. Nel dicembre del 2018, il Nazionale ha affossato la legge messa a punto dal Consiglio federale un anno prima. Il progetto era stato sostenuto solo dal PPD e dal PLR, ma non aveva convito né l’UDC, né i socialisti, né i Verdi, né i Verdi liberali. Nel settembre del 2019, il Consiglio degli Stati ha dovuto ripartire da zero. Ma nel frattempo la situazione era cambiata: i giovani erano scesi in piazza e promosso lo sciopero per il clima. Inoltre, dopo una consultazione interna, il PLR ha deciso di impegnarsi maggiormente per il clima e l’ambiente. Secondo il Consiglio federale, il riscaldamento del pianeta interessa la Svizzera in modo particolare, visto che dal 1864 la temperatura media da noi è aumentata di 2 gradi, ossia il doppio rispetto a quella mondiale. Per i fautori del progetto, la nuova legge sul CO2 permetterà di ridurre le emissioni e, di conseguenza, la temperatura. Per il Comitato economico «NO alla legge sul CO2», questo progetto peserà sul portamonete delle economie domestiche e delle imprese e non è di alcuna utilità per il clima, visto che l’impatto delle emissioni svizzere è appena dello 0,1%. Inoltre, è iniquo perché colpisce soprattutto le fasce di reddito medio-basse, proprio in un momento di grave crisi economica dovuta al Coronavirus. Difesa da tutti i partiti, ma non dall’UDC, la nuova legge sul CO2 è sostenuta dai cantoni, dall’Unione delle città svizzere e dall’Associazione dei comuni svizzeri, come pure da numerosi partiti, organizzazioni ambientaliste, dal Touring Club Svizzero, dall’Associazione traffico e ambiente e da molte associazioni economiche. Essa fissa una serie di incentivi finanziari, compensazioni, investimenti e nuove tecnologie. Dal 2008, la Confederazione già preleva una tassa sul CO2 che colpisce

i combustibili fossili quali nafta, gas naturale e carbone. Orbene, questa tassa rincarerà, salendo dall’attuale massimo di 120 a 210 franchi per tonnellata di CO2. Ciò rappresenta 50 centesimi per litro di gasolio, al posto di 30, e 4,2 centesimi per kWh di gas naturale, al posto di 2,4. Se gli immobili nuovi non devono più produrre CO2, quelli esistenti potranno continuare a emettere gas a effetto serra, ma in caso di sostituzione del riscaldamento le emissioni dovranno rientrare entro limiti severi. I due terzi del gettito della tassa saranno ridistribuiti alla popolazione e all’economia. Il resto sarà versato in un Fondo per il clima e servirà a promuovere investimenti ecocompatibili e a sostenere le imprese innovative. Ci sarà pure un rincaro del carburante. Gli importatori di diesel e benzina dovranno investire di più nella protezione del clima in Svizzera e all’estero. Per compensare i loro costi aggiuntivi potranno applicare, come finora, un supplemento sul prezzo alla pompa, che salirà nel 2025 dagli attuali 5 a 12 centesimi al litro. Per ridurre le emissioni di CO2 generate dal traffico motorizzato, la legge inasprisce le condizioni per l’importazione di veicoli. Le automobili nuove importate dovranno essere più «pulite». I valori indicati di CO2 sono attualmente di 95 grammi per chilometro. Dal 2025 saranno ridotti del 15% e dal 2030 del 37,5%. Il progetto di legge prevede anche una tassa sui biglietti aerei riscossa per i voli in partenza dalla Svizzera che varia da 30 a 120 franchi. Anche i voli d’affari e quelli privati saranno sottoposti a una tassa tra i 500 e i 3000 franchi per volo, in funzione della distanza percorsa e della grandezza dell’aereo. La Confederazione preleverà la tassa direttamente presso le compagnie aeree, attualmente già confrontate con grosse difficoltà economiche dovute al COVID 19. Anche in questo caso la metà degli introiti sarà ridistribuita alla popolazione e all’economia. Il resto sarà versato nel Fondo per il clima. La direttrice del Dipartimento dell’ambiente Simonetta Sommaruga ricorda che le tasse saranno in gran

parte rimborsate alla popolazione, attraverso una deduzione dai premi della cassa malati, sebbene non si veda un nesso tra quest’ultimi e la riduzione di CO2. A sostegno del progetto e per sdrammatizzare le argomentazioni dei fautori del referendum, la consigliera federale ha sottolineato che il costo della riforma è tutto sommato modesto. Le spese annue lieviteranno solo di 100 franchi per una famiglia di quattro persone che prende l’aereo una volta all’anno per recarsi in un paese europeo, che ha un consumo medio di gasolio e che utilizza l’automobile regolarmente. Ma non è tutto: se la stessa famiglia opta per un’auto elettrica, il citato maggior costo si dimezza. Se poi non va in vacanza con l’aereo o sceglie un sistema di riscaldamento che non produce CO2, riceverà addirittura un rimborso. Le tasse d’incentivazione confluiranno nel citato Fondo per il clima, alimentato nella misura di un terzo (ma al massimo 450 milioni di franchi all’anno) dalla tassa sul CO2, e per almeno la metà da quella sui biglietti aerei (da 30 a 120 franchi, a seconda della distanza del volo). Questi introiti serviranno a promuovere progetti come la costruzione di stazioni di ricarica elettrica per autoveicoli, l’acquisto di autobus elettrici, il risanamento di immobili e il finanziamento di reti di teleriscaldamento.

Secondo i sostenitori, gli aggravi per una famiglia saranno di 100 franchi all’anno, secondo l’UDC di 1500 franchi Questa strategia fatta di incentivazioni (tasse), restituzioni e compensazioni, dettati da una voluminosa legge di ben 87 articoli di non facile applicazione e che introduce nuova burocrazia, non convince per nulla gli oppositori, che contestano le ottimistiche previsioni del Consiglio federale. Per loro, il progetto in votazione è soltanto una questione di soldi e di divieti, quando la politica climatica svizzera è esemplare,

visto che le emissioni di CO2 sono diminuite del 24% pro capite negli ultimi 10 anni. Per l’UDC – contraria – la riveduta legge sul CO2 costerà alla collettività e all’economia, nei prossimi anni, da 30 a 40 miliardi di franchi. L’onere supplementare per una famiglia di quattro persone sarà di almeno 1500 franchi all’anno, ossia molto di più dei modesti 100 franchi difesi da Simonetta Sommaruga. Il prezzo al litro di benzina e diesel aumenterà di 12 centesimi. Ne faranno le spese gli abitanti delle regioni rurali e delle zone periferiche o di montagna che dipendono ogni giorno dalla loro vettura per recarsi al lavoro. Da questo profilo – sottolineano gli oppositori – la legge è antisociale e ingiusta. Inoltre, la tassa sulla nafta e sul gas sarà più che raddoppiata, con costi supplementari che graveranno non poco sui redditi deboli e medi. Un esempio: 1000 litri di gasolio costeranno circa 300 franchi in più. Chi vuole evitare questo balzello, può passare a un riscaldamento a energia rinnovabile, sempre che possa permetterselo. La tassa aggiuntiva sui biglietti aerei peserà sulle famiglie, ma anche su quei giovani che chiedono a gran voce in piazza la protezione del clima, ma che non esitano a prendere l’aereo, che produce CO2. Il progetto sembrerebbe godere dei favori di una maggioranza dell’elettorato. Se fosse respinto – sottolinea il Consiglio federale – la Svizzera non potrà ridurre efficacemente le proprie emissioni di gas a effetto serra. Ma spillando più soldi ai cittadini per fare il pieno, per prendere l’aereo e per il riscaldamento, con un complesso meccanismo di tasse, incentivi e promesse di restituzione/compensazione da provocare il mal di testa al cittadino chiamato a decidere, si riuscirà a centrare l’obiettivo voluto, ossia ridurre le immissioni di CO2? Chi deve spostarsi in macchina, in aereo e riscaldare la casa dovrà farlo a prescindere. Risultato: inquinerà come prima, ma avrà meno soldi in tasca, oltretutto in un momento di crisi economica. Dunque, il quesito di fondo rimane: se pago di più, inquino veramente di meno?


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Idee e acquisti per la settimana

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PAne Del BOSCAiOlO lo sapevate? Bruschetta vs. Crostini Crostini o bruschetta? La differenza tra i due pani tostati sta nel fatto che vengono farciti prima o dopo la tostatura. I crostini sono farciti e poi tostati, mentre per le bruschette è esattamente il contrario. E se sul pane vengono aggiunti dei pomodori, delle melanzane o della carne, è solo una questione di gusti.

Pane tostato con bistecca di vitello e olio alle erbe Piatto principale per 4 persone bistecche di fesa di vitello 4 di ca. 150 g sale, pepe 2 spicchi d´aglio ½ mazzetto di prezzemolo 10 g di crescione 4 cucchiai d’olio d’oliva 1 cucchiaio di succo di limone 4 fette di pane

tempo di preparazione ca. 30 minuti

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Il pane del boscaiolo è particolarmente indicato per essere tostato o grigliato. Così facendo all’interno rimane ancora morbido, mentre all’esterno diventa irresistibilmente croccante. Il soffice pane viene prodotto con farina scura IP-Suisse.

Preparazione Condite la carne con sale e pepe. Grigliatela a fuoco medio per ca. 15 minuti. Avvolgete la carne in un foglio di carta alu e fate riposare per 5 minuti. Nel frattempo tritate l’aglio, il prezzemolo e il crescione e mescolate il tutto con l’olio e il succo di limone. Insaporite con sale e pepe. Tostate le fette di pane sulla griglia. Tagliate la carne, servitela sul pane e cospargete con l’olio alle erbe.

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Politica e economia Rubriche

Il mercato e la Piazza di angelo Rossi una bibbia delle informazioni Recentemente sono stato intervistato da un settimanale di lingua francese. Prima di rispondere alle questioni dell’intervistatore ho dovuto riempire un questionario nel quale mi si ponevano domande sulle mie abitudini, le mie preferenze e il mio carattere. Tra l’altro nel questionario mi si chiedeva quale fosse il mio «livre de chevet», ossia quale fosse la pubblicazione che mi portavo sempre appresso. Ho risposto che per me era l’Annuario statistico, in generale, e quello ticinese, in particolare. Quando il giornalista che mi intervistava ha letto la mia risposta è trasecolato. Mi ha chiesto se stavo scherzando. No, gli ho risposto, è proprio così. Ed ho aggiunto che l’annuario statistico non lo leggevo per conciliarmi il sonno ma perché lo reputavo una sorgente di informazioni indispensabili.

Thomas L. Friedmann nel suo Grazie per essere in ritardo (la traduzione del titolo è mia) sostiene che nel mondo del ventunesimo secolo il valore dei flussi di dati ha superato, per importanza, quello dei flussi di merci. Si tratta di un’affermazione sulla quale si può opinare. Nessuno però può negare che, nel mondo del digitale, dei robot e dell’intelligenza artificiale, i dati siano diventati un’entità economica di peso. Di qui l’insostituibilità dell’annuario statistico. Anche per l’uomo della strada, se vuole rimanere informato. Da un paio di settimane l’Ustat, il nostro ufficio di statistica cantonale, ha messo in circolazione l’edizione 2021 del suo annuario che definisce «opera di consultazione per eccellenza della statistica pubblica ticinese». Un libro insomma che fa comodo a chiunque, nell’epoca

dei dati e a illustrarne qualche caratteristica, oggi, per ogni tema trattato, si possono leggere nell’annuario testi che contengono, spesso, anche tentativi di spiegazione scientifica di questo o quel fenomeno che si sta manifestando nel nostro Cantone. L’annuario statistico può quindi essere definito come una Datipedia su carta, una bibbia dei dati, insomma, nella quale è raccolto un volume straordinario di informazioni interessanti sul presente, il passato e il futuro del nostro Cantone. Sì, anche sul futuro, come, per esempio, gli scenari sull’evoluzione futura della popolazione residente permanente dal 2019 al 2050. L’annuario vi informa poi sul progredire dell’invecchiamento e sull’andamento dei movimenti migratori. Volete calcolare, per scaramanzia o per precauzione, come evolve la

probabilità di divorzio secondo l’età delle persone sposate? Lo potete fare con i dati che vi mette a disposizione l’annuario. Oppure siete interessati a sapere come i ticinesi giudichino la qualità della vita, magari addirittura rispetto al giudizio che sulla qualità della vita emettono gli svizzeri? Troverete la risposta nell’annuario. Oppure ancora siete curiosi di sapere quali sono le scelte scolastiche e professionali degli allievi che, come i vostri nipoti, hanno terminato la quarta media? L’annuario vi dà questa informazione. Con migliaia di altre, utilissime per comprendere come è fatto il nostro Cantone e quali sono i tratti che lo distinguono dal resto dei Cantoni svizzeri. E se dubitate della statistica tenete d’occhio, quando leggete le tabelle, gli intervalli di confidenza!

italiani che nel 2018, all’evidenza il problema non è solo economico, ma culturale, anche se le due cose sono legate. Un tempo i figli erano una risorsa. Servivano a lavorare nei campi, a prendersi cura dei vecchi, se maschi a incassare la dote. Molti morivano piccoli di malattie a volte legate alla denutrizione. Inoltre i figli erano considerati un dovere. Marianna Ucria, il personaggio immortale della scrittrice Dacia Maraini, si ribella giustamente a un destino già segnato: «Sposarsi, figliare, fare sposare le figlie, farle figliare, e fare in modo che le figlie sposate facciano figliare le loro figlie che a loro volta si sposino e figlino…». Oggi i figli sono considerati un costo e un lusso. Ovviamente era sbagliata la mentalità secondo cui le donne venivano al mondo solo per partorire. Si è finalmente capito che le donne possono lasciare grandi tracce di sé anche senza diventare madri, purché sia una libera scelta e non una costrizione. I nuovi asili nido finanziati dal Recovery plan in Italia aiuteranno, ma non basteranno. Questo discorso

ovviamente non vale solo per la vicina Penisola, ma per l’Europa. La cifra del nostro tempo è il narcisismo, che è sterile per definizione. Narciso si innamora di sé stesso e si consuma. Le persone – maschi e femmine – oggi non hanno fiducia nel futuro. Ne sono spaventati. Esitiamo a prenderci responsabilità, perché da un figlio non si divorzia, un figlio è per sempre e «per sempre» è un’espressione che spaventa. Meglio le storie di Instagram, che si cancellano dopo un giorno. Ovviamente la paura è un sentimento legittimo. Non va di certo negata, vanno rimosse le cause che la provocano. Oggi nessuno mette al mondo un figlio a cuor leggero, pensando che faticherà a trovare lavoro, a costruirsi una vita libera e autonoma. Se il grande piano di investimenti pubblici previsto dall’Unione europea saprà parlare ai giovani e metterli al lavoro, allora le coppie saranno incentivate a fare figli. Non solo perché potranno mantenerli, ma perché penseranno che un giorno i loro figli potranno

essere felici. Qualcuno fa notare che le donne lavoratrici una volta erano rare, ora hanno meno tempo e forse meno forza per crescere figli. In realtà è vero il contrario. Meno le donne lavorano, meno fanno figli. Più lavorano, più ne fanno (come appunto in Francia e in parte anche negli Stati uniti). Perché hanno i mezzi per mantenerli e sono indipendenti economicamente, quindi più libere di scegliere. Ovviamente i Governi non devono fare gli spot per la natalità (com’è successo in Italia quattro anni fa), devono rimuovere gli ostacoli che oggi rendono difficile per le giovani coppie diventare genitori. Certo i nostri nonni erano poverissimi, ma figli ne facevano. Forse erano più coraggiosi e meno narcisisti di noi. Noi tendiamo un po’ a comportarci come eterni adolescenti, nella convinzione che la paternità e la maternità si possano rinviare all’infinito. Poi (per le donne, ma non solo per loro) a un certo punto l’orologio biologico accelera e qualche volta ci si rende conto che è troppo tardi.

tribuire alla costruzione dell’Europa; sesto: partecipare con impegno alla politica mondiale; settimo: prendere nuovamente sul serio i fondamenti etico-religiosi. «Confesso che non temo tanto una stagnazione economica della Svizzera, quanto piuttosto una stagnazione spirituale». La rinascita morale doveva dunque ripartire dai valori, dall’essere e non dall’avere. E su questa lunghezza d’onda Küng riproponeva le tesi del congresso ecumenico europeo svoltosi a Basilea nel 1989: uguaglianza dei diritti, pluralismo, parità tra i sessi, pace, amore e rispetto della natura. Solo su queste basi la Svizzera avrebbe potuto aprirsi al mondo e partecipare attivamente all’edificazione degli Stati Uniti europei: «oggi l’Europa si trova esattamente al punto in cui si trovava la Svizzera nel 1848: e cioè nella fase di transizione da una libera Confederazione di Stati a un vero e proprio Stato federale!». Su questi ragionamenti – subito dopo raccolti in volume, disponibile anche

in italiano sotto il titolo Verso l’Europa. Considerazioni sul futuro della Svizzera (Giampiero Casagrande editore, 1992) – Küng insisterà anche nelle iniziative successive di più ampio respiro: se ne ritrova l’eco, ad esempio, nel Parlamento delle religioni che si tenne a Chicago nel 1993 incentrato sull’elaborazione di un’etica mondiale («Weltethos»), in cui, in sintonia con la migliore tradizione umanitaria elvetica, i convenuti posero l’accento sulla necessità di impegnarsi a favore di una cultura della non violenza, del rispetto, della giustizia e della pace. Princìpi dai quali Küng non si scosterà mai, fonti ispiratrici e guide morali di tutte le sue opere maggiori: «non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni». Come detto, da quella conferenza sono trascorsi tre decenni, un lasso di tempo che non pare aver rimescolato le coordinate di fondo. Tra la Confe-

derazione e l’Ue i rapporti rimangono freddi e improntati alla diffidenza reciproca, soprattutto in tema di circolazione delle persone, con le relative ricadute sui livelli retributivi e sull’accesso al sistema di protezione sociale. Nessuno sa dire se e quando le trattative riprenderanno, e in quale clima. Resta il fatto che le questioni aperte stentano ad uscire dai cenacoli dei negoziatori: non sono mai diventate oggetto di un ampio dibattito pubblico (e i sondaggi sul grado di conoscenza della posta in gioco lo confermano). La Svizzera – questo il rimprovero che Bruxelles muove alla politica elvetica – non può continuare a oltranza sulla strada della laconicità, se non addirittura del mutismo. Dovrà prima o poi pronunciarsi, formulare proposte nette, inequivocabili, ricordarsi insomma della predizione di Victor Hugo: «La Suisse, dans l’histoire, aura le dernier mot». Certo, chiosava ironicamente Denis de Rougemont, «ma un giorno la Svizzera dovrà pur dirla, questa parola!».

del digitale. Perché ognuno di noi è curioso di sapere come stanno le cose in materia di sviluppo demografico e di sviluppo sostenibile, di occupazione e disoccupazione, di prezzi e salari, di edilizia, turismo, energia e banche e di molte altre voci, contemplate nel lungo indice alfabetico dell’annuario. Certo oggi questi dati si possono ottenere anche per internet, ma vi assicuro che la loro ricerca è molto più facile nell’annuario stampato che nella sua versione su internet. Aggiungo un’ultima osservazione per chi l’annuario ancora non lo conoscesse. Da quasi tre decenni, l’Ustat correda la sua raccolta di tabelle con testi esplicativi. Con l’andar del tempo questi testi sono diventati sempre più lunghi e sempre più interessanti. Mentre all’inizio si limitavano sovente a indicare le fonti

In&outlet di aldo Cazzullo un Continente sempre più vecchio Tutta l’Europa occidentale si trova alle prese con un problema drammatico: la denatalità. C’è un’unica eccezione, la Francia, dove nascono ancora tra i 700 e gli 800 mila bambini ogni anno. Ma sia in Germania, sia in Spagna, sia in Italia – e anche in Svizzera – la curva demografica si sta abbassando in modo brusco. La pandemia ovviamente non ha giovato: il numero dei nuovi nati è calato un po’ dappertutto, mentre purtroppo è aumentato il numero dei morti. La grande crisi di questo anno terribile non ha fatto che approfondire una tendenza che già esisteva. A Roma la settimana scorsa si sono tenuti gli Stati generali della natalità, aperti da un intervento di papa Francesco. Il pontefice ovviamente ha avuto uno sguardo universale. L’Europa, ha detto, rischia di diventare il Vecchio Continente non nel senso della sua meravigliosa storia, ma dell’età media dei suoi abitanti. In Africa e in Asia, invece, la curva demografica sale, anche perché per fortuna i neonati hanno smesso di

morire (o muoiono molto meno di prima) per malattie legate alla denutrizione o alla cattiva alimentazione. L’osmosi tra i Paesi che fanno molti figli e quelli che ne fanno pochi è inevitabile. Per capirlo basta osservare una cartina geografica dell’Africa. A sud ci sono i ghiacci dell’Antartide, a est l’oceano Indiano, a ovest l’oceano Atlantico e a nord c’è un laghetto, il Mediterraneo, che si attraversa in due ore di gommone. È chiaro che gli africani continueranno ad arrivare in Europa. L’immigrazione però non può essere affidata agli scafisti, vale a dire ai criminali. Quindi la rotta di Lampedusa va chiusa, anche per salvare vite umane. Ma questo è un altro discorso. Sostenere che gli immigrati servono perché gli europei non fanno più figli è cinico. È possibile accogliere gli immigrati di cui l’economia europea ha bisogno e fare nel contempo una politica di natalità. Se nel 1918 – l’anno del Piave e della febbre spagnola, con gli uomini al fronte e le donne che morivano per quella strana influenza – sono nati più

Cantoni e spigoli di orazio martinetti la Svizzera avrà l’ultima parola… «Svizzera senza orientamento? Questo titolo non è una mia maligna invenzione: è l’espressione di un’atmosfera largamente diffusa sia nel nostro paese che all’estero. Ora, alcuni addossano tutte le responsabilità di questa mancanza di orientamento a un Consiglio federale poco energico e a un’Assemblea federale troppo legata a interessi di parte». No, non sono parole tratte da commenti recenti, a margine dei dissapori emersi tra Bruxelles e Berna sulla questione dell’accordo-quadro. Sono riflessioni espresse trent’anni fa da uno dei massimi teologi del XX secolo, Hans Küng, spentosi lo scorso 6 aprile all’età di 93 anni. Autore molto noto anche al pubblico italofono (sono oltre cinquanta i volumi tradotti nella nostra lingua), Küng ebbe modo di osservare con occhio vigile anche lo smarrimento della sua terra di origine, alle prese con lo «spleen» in cui erano precipitate sia la politica che larga parte dell’opinione pubblica prima e dopo il 1991, l’anno del settimo centenario della Confederazione. Fu

in quell’occasione celebrativa che il teologo di Sursee, da tempo insegnante a Tubinga, tenne un discorso al Politecnico di Zurigo in cui all’amore per il suo paese natale associava una diagnosi lucida e scevra di ogni peana. No, la Svizzera non poteva rimanere alla finestra, indifferente alle sorti della Comunità europea e ai progetti che agitavano il vecchio continente; era giunto il tempo di fare i conti sia con il proprio passato (e qui Küng presagiva «profeticamente» le magagne – schedature, esercito segreto P26, fondi ebraici – che sarebbero venute alla luce di lì a poco), sia con gli indirizzi, economici e morali, che dettavano le scelte politiche. Sette erano, agli occhi di Küng, gli imperativi che avrebbero dovuto illuminare il cammino del paese. Primo: leggere criticamente la storia, le sue luci e le sue ombre; secondo: sviluppare un dialogo fra l’élite politica e l’élite intellettuale; terzo: rinnovare le strutture democratiche; quarto: riflettere criticamente sul concetto di neutralità; quinto: con-


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Cultura e Spettacoli Percorsi inconsueti Una mostra a Mendrisio celebra il lavoro dell’artista ticinese Sergio Emery

l’amore in tipografia Nel nuovo romanzo di Claudio Piersanti la storia di un tipografo che ha perduto l’amore pagina 35

Donne e libere di esserlo Mangiare, lasciarsi andare, essere sé stesse: l’omaggio alla libertà di Lara Williams pagina 37

pagina 34

mozart totale Un doppio volume di oltre 1500 pagine riporta ogni documento che fa riferimento a Mozart

pagina 39

un piccolo mondo che cambia

letteratura A cento anni dalla nascita,

i racconti inediti di Giorgio Orelli sulla Leventina

Pietro Montorfani Il 25 maggio Giorgio Orelli avrebbe compiuto cento anni. Scomparso il 10 novembre 2013, aveva continuato a lavorare alacremente fino a quell’estate, con l’energia e la voglia di vivere che spesso difettano in molti giovani. L’ultima volta che, non senza titubanza, osai andare a trovarlo mi chiese cosa stessi facendo «di bello». «Tre cose abbastanza grosse» gli risposi ringalluzzito, pronto a sciorinare dettagli, piste, ipotesi interpretative, insomma il nocciolo dei saggi storico-letterari cui stavo attendendo in quei mesi (nemmeno ricordo più quali). «Io sei!» ribatté lui con sorriso gentile di vittoria: «sei libri! non si finisce mai, Montorfani, è un lavoro a tempo pieno». Intendeva il lavoro sulla parola, come assai bene intitolarono il convegno in suo onore andato in scena l’anno successivo a Bellinzona, cogliendo nel pieno la vocazione attorno alla quale era andata ruotando, in varie forme ma con esiti sempre altissimi, la sua intera esistenza non solo letteraria. Di quei sei metaforici «tavoli», il doppio di quelli pascoliani, qualcosa è uscito postumo negli ultimi anni grazie alla prudente disponibilità della famiglia e alle ancor più attente cure filologiche di Pietro De Marchi. Abbiamo avuto così la sua postrema silloge poetica, L’orlo della vita, in appendice all’Oscar Mondadori pubblicato nel 2015, e i racconti di Pomeriggio bellinzonese (Casagrande, 2017), cui si associa oggi una seconda anta del dittico, le prose brevi – ma non poi così tanto – dedicate alla Leventina. Da qualche parte nello studio di Ravecchia restano uno studio su Pascoli, il tormentato dossier sul Fiore attribuibile, chissà, a Dante Alighieri, e la famosa Suite in là con gli anni, testi per i quali bisognerà forse esercitare ancor maggiore prudenza prima di pensare a una loro divulgazione. Ma già così, con questi ultimi gustosissimi pezzi, ci sarà materia per anni a venire. Rosagarda, come segnalano i curatori, è il toponimo poco noto di un pascolo situato tra Rodi e Prato Leventina, paese d’origine della madre di

Orelli e luogo ideale se non della sua infanzia (divisa tra Airolo e Locarno) certo delle estati giovanili, insomma l’immagine simbolo – quasi la «Rosabella» di Quarto potere – di un mondo alpestre cui l’autore ha sempre associato valori morali e timide saggezze ataviche, ma anche stramberie e piccoli crimini tipici della meschinità umana: un mondo intero contratto in poco spazio, non però una bolla di vetro con la neve finta, un paesaggio fuori dal tempo e dalla storia come quello al quale sembrerebbe alludere l’infelice titolo proposto dal «Corriere della Sera» nel dare negli scorsi giorni la notizia (Il Canton Ticino ascolta lo sbadiglio del gallo, «La Lettura», 16 maggio 2021). Per sincerarsene basterebbe seguire, nei tre racconti che compongono il libro, il continuo filone della morte che, con tutte le sue varianti semantiche (l’assenza, il distacco, lo scampato pericolo, la mancanza di comprensione e comunicazione, l’oblio, la difficile persistenza della memoria, il sofferto dialogo tra le generazioni), attraversa l’opera dalla prima all’ultima pagina. Mentre sbadigliavano galli – vero, è citazione orelliana – il Ticino degli anni Quaranta-Settanta subiva una delle accelerazioni più brusche della propria storia e di tutto questo traspare non poco nelle pagine di Orelli, sempre così attente a cogliere ogni più piccolo sommovimento sismico della superficie antropologica e sociale: «Alla fontana in mezzo al villaggio mi sono accorto che dopo la rapida pulizia di questi anni le case fanno fatica a darsi la mano e sono meno allegre. Cede all’asfalto l’erba; amica dei nostri piedi nudi, dei nostri giuochi non solo infantili. Non si vede anima viva e anche a me sembra d’essere vivo per miracolo, uno che c’è e non c’è». Corvi planano minacciosi su autostrade costruite da poco, mentre sopra la testa del poeta cacciatore (un cacciatore poetico, potenziale, che mai ammazzerebbe una bestia per quanto dannosa) si schiantano Hunters nella valle del Tremorgio, i «sarcofaghi volanti» emblemi dell’annoso dibattito attorno alle necessità, e alle spese, dell’aviazio-

Giorgio Orelli era nato ad Airolo il 25 maggio del 1921. (ti-press)

ne militare elvetica. Mi chiedo allora, adocchiando le prime recensioni che iniziano a uscire in Italia, se un diverso accompagnamento di questi testi (più nella forma di un commento contestualizzante che di filologia pura e dura) non avrebbe fatto loro un migliore servizio: nessun lettore al di sotto di Ponte Chiasso capirebbe mai il tenore emotivo del «viaggio» dell’alpigiano leventinese fino alla capitale Bellinzona in cerca del «segretario di concetto» (diciamo un vice-ministro) e molti dei termini stessi propri della cultura alpestre (la «boggia», la «barca») finiscono per non parlare più nemmeno a chi quelle montagne oggi attraversa volentieri per diporto. Importerà forse a nessuno che il «Richino» il cui nome si sventola a un certo punto quale minaccia di ritorsioni sia il Consigliere federale ticinese Enrico Celio, in carica dal 1940 al 1950, elemento sintomatico di una realtà piccola, intrecciata, anco-

ra rurale e familiare eppure già quasi moderna nei suoi ritmi e sicuramente molto politicizzata (nonché sofferta) nei suoi rapporti con la Svizzera transalpina. In pagine che si aprono non a caso, tra il serio e il faceto, con il ricordo della rivolta anti-urana del 1755, durante la quale fu giustiziato un antenato dell’autore. Un’ottima chiave interpretativa a queste prose così ricche e dense, anche di storia, la offre Matteo Terzaghi nella sua bella postfazione, che richiama giustamente il sovrapporsi dei tempi cronologici e il gusto tutto italiano per un’affabulazione improvvisante e piacevole, quasi caotica nel suo festeggiare la vita attraverso le parole, per mezzo di «facezie» e «storielle». Davvero delle suites, queste pagine di Orelli, ma non come le rigorose serie paratattiche delle ronde di danze settecentesche, che staccavano di netto un pezzo dall’altro come tante monadi, e più simili sem-

mai alle modulazioni jazzistiche in cui un tema ne richiama un altro, lo varia, lo abbandona, solo per riprenderlo poco più avanti, quasi per caso, quasi senza un disegno apparente (pescando persino al di fuori del perimetro di questo libro, verso altri testi anche poetici, come ebbe a intuire per primo Massimo Danzi). Un Orelli-Wagner, dunque, abile concertatore di Leitmotive, o un Orelli-Offenbach nei brani più popolari e delicatamente erotici. Mai però autore di semplici sequenze di innocui e coloriti aneddoti, come pare di intuire qui e là, perché il gallo, terminato lo sbadiglio, a volte perdeva la testa e finiva magari in padella. Quando questa non restava desolantemente vuota. Bibliografia

Giorgio Orelli, Rosagarda, a cura di Pietro De Marchi e Matteo Terzaghi. Casagrande, 2021.


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Cultura e Spettacoli

la pittura come esplorazione

PRO SENECTUTE

informa

mostre A Mendrisio l’opera tarda dell’artista ticinese Sergio Emery

Novità Dal 19 aprile è di nuovo possibile frequentare attività (corsi e movimento) anche al chiuso, con un massimo di 15 persone e indossando la mascherina. Per informazioni sui gruppi sul territorio, telefonare allo 091 912 17 17 Pro Senectute sostiene la strategia di vaccinazione della Confederazione e dei Cantoni e invita tutte le persone «over 55» ad annunciarsi per il vaccino sul sito: www.ti.ch/vaccinazioni. Ricordiamo tuttavia come sia essenziale continuare a rispettare tutte le misure accresciute di igiene e protezione.

Attività e prestazioni

Sergio Emery Superficie, 1993 acrilico su tela. (Collezione privata © stefano spinelli)

– Attivazione di quartiere siamo operativi con progetti di quartiere che mirano a favorire la coesione sociale e a riattivare la solidarietà intergenerazionale e tra vicini. Per i Comuni o i privati interessati a questo genere di progetti, siamo a disposizione per una consulenza.

Alessia Brughera Che il percorso di Sergio Emery sia stato piuttosto inconsueto lo dimostrano le tante suggestioni che lo hanno ispirato lungo tutto il suo arco durato più di mezzo secolo così come il suo andamento poco lineare, caratterizzato, tra l’altro, da inaspettate interruzioni che hanno portato l’artista ticinese ad abbandonare, seppur provvisoriamente, l’attività pittorica.

– Volontariato Cerchiamo volontari per l’accompagnamento a domicilio nel Locarnese. Si cercano persone maggiorenni che abbiano voglia di trascorrere in maniera regolare qualche ora in compagnia di un anziano, per piccole passeggiate, compagnia al domicilio o per accompagnare a fare delle commissioni. Si richiede un impegno regolare, senso d’ascolto e responsabilità.

Il lavoro degli ultimi vent’anni di Sergio Emery è sospeso tra figurazione e astrazione, tra rigore e caos

– Servizio di aiuto alla spesa È stato riattivato il servizio di aiuto alla spesa. Esso è a disposizione unicamente di persone anziane in difficoltà che non possono contare su nessun aiuto esterno e si avvale del supporto prezioso di volontari. Maggiori informazioni sul nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Pasti a domicilio Durante la crisi sanitaria i beneficiari del servizio sono aumentati notevolmente. Possono richiedere un pasto a domicilio le persone in età AVS o AI e le persone in malattia con certificato medico. Maggiori informazioni sul nostro sito o telefonando allo 091 912 17 17. – Servizio fiduciario: cerchiamo volontari per il sostegno amministrativo ad anziani, in particolare per il Mendrisiotto.

Contatto: Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

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Eppure ciò che fin dagli esordi contraddistingue il lavoro di Emery è l’addentrarsi nelle trame delle esperienze e dei linguaggi a lui contemporanei rimanendo sempre ben ancorato a una progettualità coerente e a una sensibilità indipendente, capaci di mantenerlo in sintonia con il proprio tempo e insieme di orientarlo verso una ricerca del tutto personale. L’opera del pittore procede così per cicli tematici che si sviluppano l’uno dopo l’altro, o uno accanto all’altro, quali tappe di un cammino logico e serrato in cui vengono indagate le potenzialità espressive del gesto e del colore. Ed è interessante che questa esplorazione sia sempre avvenuta in uno stato che Emery stesso ha più volte descritto come di «tensione continua» fra lui e la sua creazione, una condizione al tempo stesso «privilegiata e logorante» che lo ha spinto a mettersi costantemente in discussione nel raggiungimento dei propri obiettivi. Nato a Chiasso nel 1928, Emery inizia la sua formazione prima alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, i cui insegnamenti gli appaiono però fin da subito un po’ troppo rigidi e razionali, e successivamente all’Accademia Cimabue di Milano. Dopo un preambolo influenzato dallo stile di maestri quali Carrà e Sironi e dalla frequentazione a Parigi, nel 1949, del neocubista Édouard Pignon, l’artista si allontana dalla pittura per circa una decina di anni dedicandosi al design moderno. Torna al pennello verso la metà degli anni Sessanta, avvicinandosi inizialmente alla corrente informale, da cui mutua l’energia del gesto e la matericità del colore, poi (siamo già nel decennio seguente) all’arte concettuale, con opere che ammanta di chiare istanze etico-ecologiche. Proprio la riflessione sul fragile rapporto tra uomo

e natura, tema declinato dall’artista in forme e soluzioni differenti, diviene il filo che da lì in poi percorre la sua pittura, acquisendo via via una connotazione sempre più esistenzialistica. Quando nel 1982 inizia quella che si può definire la nuova stagione della sua attività, Emery è l’unico artista ticinese della sua generazione ad aprirsi in maniera particolarmente ricettiva alle tendenze del periodo, come il movimento tedesco dei Junge Wilde o l’equivalente italiano della Transavanguardia, entrambi volti a contrastare la supremazia del concettuale attraverso una pittura espressionista dalle tinte accese. Sospeso tra figurazione e astrazione, tra rigore e caos, il lavoro dei suoi ultimi venti anni (l’artista muore a Gentilino nel 2003) si profila come un insieme compatto di opere costruito in maniera metodica e ragionata, in cui l’incalzante avvicendarsi di temi e di motivi formali si svolge all’insegna della sperimentazione continua. Si focalizza proprio sull’ultima prolifica stagione pittorica di Emery l’esposizione allestita al Museo d’Arte di Mendrisio, un’importante rassegna che arriva a distanza di quasi venticinque anni dalla grande retrospettiva organizzata alla Pinacoteca comunale di Casa Rusca a Locarno e che contribuisce a fornire un’interpretazione aggiornata della produzione tarda del pittore ticinese. Osservando le opere raccolte in mostra si può ravvisare come, pur nella diversità del soggetto e del taglio dell’immagine, i cicli che prendono vita dai primi anni Ottanta siano accomunati dall’incisività del segno, dal dinamismo e da una tavolozza croma-

tica in cui il nero la fa da padrone. Ad aiutare il visitatore nella lettura del lavoro dell’artista è l’accurato raffronto tra dipinto e disegno: strettissimo, difatti, è il rapporto tra queste due tecniche nell’opera di Emery, che proprio all’immediatezza dello schizzo affida lo sviluppo dei singoli motivi, la ricerca del ritmo e le molteplici possibilità compositive che vengono poi applicate nella realizzazione pittorica. Come un flusso ininterrotto si susseguono così le serie delle Bambole, in cui corpi disarticolati vengono scagliati in uno spazio privo di gravità, sembrando, per usare le parole di Jean-Paul Sartre, «apparizioni interrogative del vuoto»; quelle dei Vegetali e delle Impronte, delle Cadute e delle Ferite, queste ultime espressione di un pensiero profondo sulla natura offesa dall’uomo che si traduce in tele dalle campiture cupe squarciate da piccoli bagliori di luce. Ci sono poi i cicli delle Acque, di un’inattesa leggerezza nonostante la predominanza del nero, delle Terre, opere della metà degli anni Novanta ispirate dai campi arati dell’Umbria, e delle Nuvole, dipinti in cui l’impasto materico fatto di acrilico e sabbia viene depositato sulla superficie sotto forma di morbide venature. E ancora i Cactus e le Risaie, i primi ironici e minacciosi, le seconde emblematiche della capacità dell’artista di estrapolare il dato reale per trasfigurarlo e conferirgli un nuovo valore. Infine, questa volta come un capitolo a sé stante del percorso di Emery, troviamo la serie conclusiva eseguita dall’artista nei tre anni che precedono la sua scomparsa. Prendendo spunto dal sogno di un episodio a cui assiste da ragazzo, l’atterraggio di un bombardiere americano all’aerodromo di Magadino, Emery dà vita a una sequenza di opere dal titolo Nel settembre del ’43, quadri-oggetto costruiti con vari materiali di scarto in cui quella vicenda viene rivisitata con estrema libertà inventiva. In questi lavori il grande velivolo viene ora evocato attraverso le sue diverse parti ora rappresentato nella sua interezza come una voluminosa sagoma che oltrepassa i confini del dipinto, diventando l’ultimo, potente, simbolo di tutto ciò che da sempre è la pittura di Emery: memoria e coscienza, inquietudine e scoperta. Dove e quando

Sergio Emery, Ferita nel giallo, 1991, acrilico su tela. (Collezione privata © stefano spinelli)

Sergio Emery. Opere 1983-2003. Museo d’Arte Mendrisio. Fino al 4 luglio 2021. Orari: da ma a ve 10.0012.00/14.00-17.00; sa, do e festivi 10.00-18.00; lu chiuso. www.mendrisio.ch/museo


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Cultura e Spettacoli

ricomposizioni d’amore

narrativa Nel suo nuovo romanzo, Claudio Piersanti narra la storia di Giovanni,

tipografo abbandonato dall’amata moglie

Giorgio Thoeni

Sullo sfondo del romanzo di Piersanti vi è una tipografia. (shutterstock)

in Germania, «una bellissima donna», così la vede Giovanni nella sua devozione amorosa, al contrario di lui colta e forte lettrice, segretaria in una grande azienda – uscita da una recente malattia, che non è nominata ma di cui si intuisce la gravità – che ancora desidera come all’inizio, la loro felicità coniugale è fatta di piccole cose, svegliarsi insieme all’alba, fare una passeggiata, curare insieme le piante in giardino, fare l’amore. Ma all’improvviso lei sparisce, fa le valigie e se ne va lasciando un laconico messaggio perturbante: «Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare». La sparizione, la perdita di lei nello spazio esistenziale, produce in lui uno spaesamento: «Soltanto pochi mesi prima aveva il terrore di perderla per la malattia e all’improvviso l’avevo persa

mentre sembrava guarita» riflette sulla sua paradossale condizione. Condivide i suoi giorni con le sue rare conoscenze, sua cugina Bruna, il marito Aldo, Gino l’amico del cuore, quello che lo chiama «il ragioniere», la notte si ferma a dormire in negozio, entra in un vortice dove l’idea di fallimento – pensa che lei se ne sia andata «per il suo deludente risultato sociale» – e gelosia, quella che «trasformava il cuore in deserto», prendono il sopravvento. Giovanni si sente parte di una «categoria morta», un mondo del lavoro dove «quello che era moderno stava diventando modernariato», «l’epoca degli errori», dove «Un’asino con l’apostrofo aveva vinto», fatto di «morti che camminano» come gli aveva detto un sindacalista. Allora in un gesto disperato va nella libreria

di sua moglie, sfila dallo scaffale Anna Karenina di Tolstoj, lui che aveva letto solo I promessi sposi e Don Chisciotte, e diffidava degli ambienti altoborghesi, lo ricompone a caratteri Bodoni mentre Vronskij, l’amante della protagonista entra nella sua vita e diventa un fantasma delle sue ossessioni. In attesa del ritorno di Giulia, cuce il volume pregiato in copia unica, «stampato con la cura che meritava e rilegato come si doveva», e con tutta l’arte d’amare pensa che quella copia pregiata «un giorno l’avrebbe regalata a sua moglie, dicendole: “L’ho fatta solo per te”». Bibliografia

Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, Milano, Rizzoli, 2021, 234 pp.

Proposte musicali per il dopo

CD Tre recenti album mostrano la voglia dei musicisti di casa nostra di continuare

a esprimere la loro creatività, nonostante le difficoltà date dalla pandemia bacchette ma sempre pieno di swing di Borzacchiello.f

Alessandro Zanoli Un sofferto «post» pubblicato qualche giorno fa su Facebook da Enrico Rava esprime in maniera autorevole e inequivocabile la situazione che stanno attraversando i jazzisti di questi tempi. «Abbiamo bisogno di suonare in pubblico» dice il trombettista italiano. «Non è timore di perdere la tecnica: la pandemia ci dà tutto il tempo che vogliamo per esercitarci. Abbiamo bisogno dello scambio emotivo con il pubblico, perché la musica nasce da lì». Facendo di necessità virtù, d’altro canto, molti musicisti hanno utilizzato questa pausa forzata per concentrarsi su progetti discografici. Ecco una breve carrellata su alcune novità proposte da jazzisti svizzeri, che speriamo di poter ascoltare presto anche dal vivo. Won3, Thoughts in the fridge (Fitzcarraldo records)

Progetto che coinvolge il pianista Dario Carnevale, il bassista Luca Lo Bianco e il batterista Silvano Borzacchiello. Dei tre quest’ultimo è sicuramente il più conosciuto dagli appassionati ticinesi. Nonostante l’uscita in tempo di pandemia, il disco era stato registrato in precedenza e sarebbe

In scena Guarire dal

passato con il Teatro della carezza

Angelo Ferracuti Giovanni, il personaggio principale dell’ultimo romanzo di Claudio Piersanti Quel maledetto Vronskij è un uomo di mezza età dell’universale classe media «lungo e magrissimo», un conservatore rassicurato dalle quotidiane abitudini borghesi e imprigionato dalla sua gentilezza, che «lo avvolgeva come una camicia di forza». Tutti i giorni sale sul tram 14, raggiunge il posto di lavoro nella stamperia di proprietà in un quartiere di una Milano grigia e anonima, un ripiego dopo il licenziamento, quando era «vicecapo del più grande tipografo d’Italia» in un’azienda editoriale, dove adesso stampa tesi di laurea, dépliant pubblicitari, persino manifesti funebri. La routine, d’altronde, ciò che è umanamente uguale per tutti nella ripetizione, è la cifra esistenziale che la prosa ipnotica ed elegante di questo scrittore scopre con una lingua sorvegliata in una narrazione che cresce di frase in frase più che nei meccanismi della trama, entrando nelle segrete della vita, nel battito quotidiano dell’esistenza, dove si nascondono una fragile bellezza insieme a un’umanissima purezza. La voce di Piersanti, quella di Luisa e il silenzio (Premio Viareggio 1997) e dei racconti esistenzialistici de L’amore degli adulti, la più bella raccolta italiana di short stories degli ultimi trent’anni, che qui trova una misura sorprendente, di rara perfezione formale, pendolareggia tra mite disillusione e disperata gioia di vivere, e ben aderisce ai movimenti dei personaggi in uno spazio esistenziale iperrealistico, da natura morta; questo impasto riuscito dai toni bassi di un dettato senza eccessi, scarnificato per maggiori risultati espressivi e solo a tratti epifanico, è la materia viva, lo stile «semplice» di uno dei nostri migliori scrittori e della sua letteratura. Dopo 26 anni di matrimonio con Giulia, da cui è nata una figlia che vive

Armati di semplicità e cuore

Federico monetta, Back to the origins (JFm lugano)

Il clarinettista ticinese Marco Santilli. (marcosantilli.com)

inutile cercare nella compostezza e ricercatezza del lavoro qualche traccia di introversione da lockdown. Il disco in effetti ha una sua calma, una sua finezza intelligente, sia nella scelta delle composizioni sia nella realizzazione delle esecuzioni. È un disco senza urgenze, si direbbe, maturato in una bella situazione rilassante di trio «classico». Ottimo il lavoro in punta di

Il pianista piemontese ormai di casa nella Svizzera romanda ha approfittato della situazione di clausura obbligata per accettare una sfida a cui prima o poi ogni pianista jazz desidera abbandonarsi. Il duello «un uomo da solo contro un pianoforte» corre su un filo: da un lato il rischio è quello di esiti viziati nell’eccesso di ambizione, dall’altro, forse ancor peggio, può sforare nella banalità. Monetta riesce molto bene a mantenersi sulla saggia via di mezzo, forse grazie alla sua personale predisposizione a un discorso musicale cantabile, melodico, tutt’altro che acrobatico insomma. In filigrana si colgono naturalmente le tracce stilistiche dei suoi maestri, dei grandi interpreti a cui si ispira. Ma sono allusioni molto eleganti: chi ascolta, più che andare a cercare antecedenti o influenze, è invitato a lasciarsi condurre da lui attraverso le complesse atmosfere orchestrate con grande piacere e raffinatezza su uno strabiliante pianoforte Fazioli, il vero co-protagonista di questo album. Ascoltare per credere.

marco Santilli & Ivan tibolla, Che roba in due, (Spring equinox)

Tra i musicisti svizzeri Marco Santilli può aspirare a un primato assoluto: quello della multiformità delle proposte musicali. Il suo clarinetto ma soprattutto la sua passione creativa, la sua inventiva inarrestabile, lo spingono a misurarsi con vari stili e generi musicali. Dalla canzone pop alla musica classica, dal folk moderno al jazz, il suo approccio è sempre pieno di un entusiasmo ben temperato, colorato oltretutto da una carica personalissima di gradevole humor. «Che roba» è del resto la divertente denominazione di un suo progetto musicale a geometria variabile, che passa dal quartetto jazzistico alla formazione allargata in compagnia del gruppo «Il fiato delle Alpi» e al duo. In collaborazione con il pianista Ivan Tibolla ecco «Che roba» tramutarsi in un’occasione per dar fiato (è il caso di dirlo) a un duo molto originale, raffinato. Non si può probabilmente riferire al jazz questa musica, almeno nell’accezione mainstream. Ma è indubbio che il suono di questo disco è vivo, intenso. «Musica malinconica ma non triste» è il modo con cui Santilli ha descritto lo stile di «Che roba». Forse: adatto al momento che attraversiamo.

Psicodramma, drammaterapia, teatroterapia o tutto ciò, se il teatro può curare aiutando a ritrovare l’armonia con sé stessi e uscire da vincoli dettati dalla paura, da un passato segnato da traumi. Come? Raccontando una storia, costruendo, tessera dopo tessera, il complesso puzzle della memoria per guarire una ferita. O comporre una maquette di luoghi, oggetti, personaggi che hanno animato un passato difficile da sopportare e che continua a invadere il presente. È il senso di 52, l’atteso appuntamento con il teatro di Daniele Finzi Pasca con lo spettacolo andato in scena nel Teatro dell’architettura di Mendrisio nel racconto di Pablo Gershanik, attore, regista e pedagogista teatrale argentino, da tempo collaboratore della Compagnia. Originario di Città de la Plata, a una cinquantina di chilometri a sud di Buenos Aires, Pablo aveva una decina di mesi quando, il 10 aprile 1975, un commando paramilitare assassinava suo padre Mario. 80 colpi messi a segno contro un medico, direttore di una clinica pediatrica, sindacalista e rugbista, ebreo e oppositore. Erano andati a cercarlo facendo irruzione nella casa dei genitori, sulla strada 52. Una strada che forse non esiste nella simmetrica planimetria della città, pianta su cui si snoda la narrazione, ma che rientra nella logica cabalistica numerica di una tombola immaginaria. Ma i numeri sono importanti, corrispondono ai sogni che popolano il sonno, e Pablo li estrae da un sacchetto per aprire i capitoli di un racconto parallelo, immaginando coincidenze da cui partire e inanellare le immagini di una pittoresca galleria di persone riunite per festeggiare due sposi. Lei francese, lui un corpulento rugbista: l’incontro di due mondi, i parenti e gli amici, attorno a una gigantesca torta nuziale, passioni e caratteri differenti che l’amore e lo sport uniscono e trasformano in amicizie perenni, anche solo per un giorno. Sulla scena circolare del Teatro dell’Accademia, Pablo snocciola un avvincente, magico, intenso racconto che ci arriva come un delicato soffio narrativo, una favola leggera come una piuma che accompagna il ricordo di una tragedia su cui Pablo ha lavorato per anni per ricostruire e smontare la terribile vicenda, per superare il trauma attraverso il teatro. L’ha fatto con il progetto Ochenta Balas sobre el Ala (80 pallottole sull’ala: il padre giocava nella squadra di rugby come ala) su cui Daniele Finzi Pasca ha ideato e diretto la storia splendidamente raccontata da Pablo Gershanik sulle dolci note per pianoforte di Maria Bonzanigo e la scenografia di Hugo Gargiulo, una gigantesca torta nuziale evocatrice della casa Curuchet, a La Plata, l’unica opera di Le Corbusier realizzata in Sud America. Nel segno di 52 il teatro della carezza è tornato a emozionare. Con semplicità e cuore.

Pablo Gershanik in un momento dello spettacolo 52. (Instagram)


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Cultura e Spettacoli

Avere un peso

Innocua ignoranza

letteratura Nel fortunato Le divoratrici LaraWilliams si china

sul senso di inadeguatezza che contraddistingue molte donne

trovata di Checco Zalone Enza Di Santo

Laura Marzi Tra le limitazioni della libertà personale a cui si è soggette per il semplice fatto di essere donna ce n’è una particolarmente potente, di cui non si parla mai abbastanza: bisogna mangiare poco. Certo, si sa quanto questa imposizione sia pericolosa, ne sono una prova tragica ed evidente i disturbi alimentari che non solo distruggono l’adolescenza di moltissime ragazze e anche di ragazzi, ma possono condurre alla morte. Non è questo, però, ciò su cui si sofferma Lara Williams nel suo romanzo d’esordio Le divoratrici, definito dal «The Guardian» e dal «Time» libro dell’anno, tradotto da Dafne Calgaro e Marina Calvaresi per Blackie Edizioni. L’autrice inglese non parte dal presupposto, certo sacrosanto, di denunciare l’ingiustizia di criteri di bellezza o meglio di accettabilità che sono tutti tarati sulla magrezza, racconta del piacere non solo di mangiare, di preparare il proprio cibo, ma anche dell’essere pesanti, perché sostanziose. La protagonista de Le divoratrici si chiama Roberta. Le lettrici e i lettori conoscono la sua storia fin dalle origini: l’abbandono del padre, un’infanzia trascorsa con la madre, la zia e la cagna Giovanna D’Arco. Il racconto si concentra però soprattutto su due momenti della vita della protagonista, quello del college e quello del presente della narrazione, che corrisponde a qualche anno dopo la fine dell’università. Il romanzo si conclude, infatti, con il trentesimo compleanno di Roberta. Quando va al college e quindi si trasferisce in una città che assomiglia molto a Londra, Roberta è soprattutto una ragazza timida, che non ha certo facilità a instaurare amicizie, perché pensa sempre che passare del tempo con lei non sia desiderabile. Questo timore è al centro della sua esperienza di condivisione della casa con altre studentesse e studenti all’università ed è anche una delle ragioni per cui fin da subito per tenersi occupata e per godere, Roberta cucina, dedica una buona parte del suo tempo di solitudine alla preparazione di pietanze, che poi consuma quasi sempre da sola. Fino a

Premi Le polemiche intorno all’ennesima

Dettaglio della copertina del libro di Lara Williams.

quando non incontra Stevie. La conosce al lavoro, vanno a vivere insieme, Roberta non rinuncia mai all’angoscia di non essere abbastanza per lei, ma Stevie non la abbandona. Insieme progettano il Supper Club. Invece dei più classici circoli di lettura, si tratta di riunioni alimentari, di momenti condivisi fra donne in cui l’unica cosa davvero importante è sfamarsi, togliersi finalmente tutto l’appetito. Per scegliere le donne che possono far parte del Supper Club Roberta e Stevie fanno delle interviste: «qual è la tua più grande paura?». Le storie delle componenti del club sono varie: ci sono donne etero, lesbiche, transgender. Ciò che le accomuna è avere vissuto costrette da un senso di inadeguatezza radicale, guidate dalla necessità di correggere ogni giorno, ogni momento, l’errore fondamentale della propria femminilità. Un errore non definito, multiforme, incorreggibile in fondo. Per questo, limitare i danni riducendo le dimensioni del proprio corpo, lo spazio occupato al mondo, è il minimo che le donne possano fare. Non al Supper Club. Nelle serate organizzate da Roberta e Stevie, prima in un ristorante affittato e poi in locali occupati abusivamente, il cibo molto spesso raccolto dai cassonetti dell’immondizia e trasformato in manicaret-

ti esotici, è una forma di ribellione. A differenza, però, delle rivendicazioni sacrosante e inevitabili che le donne devono portare avanti ogni giorno per garantire spazio alla propria voce, per avere trattamenti salariali equi, per mantenere o ancora conquistare il diritto all’aborto e molto altro, al Supper Club c’è spazio solo per il piacere. Durante quelle serate le protagoniste si insozzano, esagerano, vomitano, ballano, si drogano, mangiano a più non posso, si oppongono a qualsiasi morigeratezza, preservazione della forma fisica, del contenimento che la maggior parte delle donne del mondo occidentale, e non solo, persegue in modo così connaturato da farlo inconsapevolmente. Si tratta di norme incastonate da qualche parte, fra una costola e l’altra… Lara Williams, però, non si sofferma sul coraggio e quindi sullo sforzo necessario per ribellarsi a queste norme. Mangiare, avere peso, avere corpo, è anzi forse l’unica forma di serenità, il buon dato di fatto nella vita di Roberta: «dicono che quando muori, è la fame che se ne va per prima».

Ah, beata ignoranza, come ci manchi. Ora che la penna e la lingua feriscono più della spada e, a giusta causa, è importante pesare le parole, ci si rende conto che siamo culturalmente abituati a un linguaggio che è talvolta indelicato o addirittura offensivo nei confronti di altre e altri. Ormai siamo tutti consapevoli, almeno alle nostre latitudini, che essere politicamente corretti non è solo giusto, ma è necessario. Questo non riguarda solo il modo in cui ci esprimiamo, ma anche il nostro pensiero, le nostre credenze e il nostro approccio alle diversità. Il rispetto per gli altri passa anche dal linguaggio che usiamo, però ammettiamolo, si fa fatica, specialmente nel parlato a essere sempre politicamente corretti in una fase storica in cui tutto viene messo in dubbio e persino i dettagli delle favole sono sottoposti al vaglio anti-discriminatorio. Oltre le «discriminazioni lessicali» relativamente nuove, l’italiano è intrinseco di trabocchetti: lo sa chi cade sul congiuntivo-condizionale e puntualmente viene corretto dal saccente di turno con tutti i drammi del caso. E non sia mai che anziché dire anziana signora, ora che si dice ragazza fino a 85 anni, ci scappi una vecchia. Sono inciampi di una lingua che cerca di stare al passo con la cultura che cambia, ma c’è chi su questi scivo-

Bibliografia

Lara Williams, Le divoratrici, Blackie Edizioni, pp. 336.

Helen Mirren e Checco Zalone ne La vacinada.

loni ci pattina da circa 20 anni. Checco Zalone (alias Luca Medici), vincitore del David di Donatello 2021 per la Migliore canzone originale, con il brano Immigrato del film Tolo-Tolo, ha superato inaspettatamente la canzone Io sì (Seen) premio Golden Globe di Laura Pausini. Sarà la voglia di leggerezza, sarà che i brani dal tono demenziale di Checco Zalone ci fanno allo stesso tempo sorridere e riflettere, sarà che la musica di alto livello non è sempre alla nostra portata, ma il premio è più che meritato, perché Checco è in grado di camuffare l’acutezza delle sue canzoni dietro un’ironica ignoranza, speciale e senza intento offensivo con una musicalità pop che arriva a chiunque. Anche la sua ultima perla La vacinada, con la comparsata nientemeno che di Helen Mirren, è ovviamente stata contestata perché pare oltraggiare le ragazze di cui sopra. Contestiamo tutto, ma capiamo quello che critichiamo? Checco Zalone è uno pseudonimo che si rifà all’espressione in dialetto barese «che cozzalone!», per capirci meglio, «che tamarro». Luca Medici, laureato in giurisprudenza, ci ha abituati a non prendere alla lettera i suoi brani, a riflettere sui suoi film, a ironizzare sui suoi spettacoli e a coglierne i diversi strati di lettura. E così anche se rimane impressa la «veccia muchacha», il succo è che quando saremo tutti vaccinati o quasi, torneremo a scoprire l’amore, gli abbracci, i baci, ecc., senza badare all’età, al genere, all’etnia o all’orientamento religioso. Quindi, dove sta la discriminazione? Non c’è, poiché tutta la produzione artistica di questo comico, showman, attore, cabarettista, imitatore, cantautore, musicista, sceneggiatore e regista italiano (elenco di wikipedia per non tralasciare nessuna virtù), è incentrata sull’inclusività, su un caldo «volemose bene» e sulla beata ignoranza di un italiano medio che cerca di comprendere e migliorare. Ecco, La Vacinada con il suo ritmo estivo-latino non è banale, è la leggerezza perduta in questo lungo periodo pandemico, un modo di schernire con garbo l’ottusità. Usciamo dal loop delle continue e talvolta superflue polemiche e facciamoci una risata!

«me misero, me tapino!» la lingua batte Si può imparare ad amare le parole anche grazie a Paperon de’ Paperoni. Hanno una loro dignità

linguistica pure i fumetti, spesso capaci di fissarsi nella nostra mente come un sigillo Laila Meroni Petrantoni C’era una volta una bambina che non faceva mai i capricci quando arrivava l’ora di andare a dormire. Anzi, ci andava tutta contenta, perché quello era l’ultimo momento della giornata in cui poter giocare ancora un po’. Non con le bambole o con le biglie. Per giocare con i libri, quelli con le figure e gli animali che parlano, con le parole dentro le nuvolette. Perché per la bambina anche Topolino era un libro, e lei andava fiera della sua piccola libreria dove questi fumetti dal dorso giallo erano in bella mostra, tutti in fila come l’enciclopedia dei grandi che stava in salotto, quella così pesante. Ogni notte la bambina lasciava che la mamma spegnesse la luce, scivolava fuori dal letto, sceglieva uno dei suoi Topolini e se lo portava sotto le coperte, come fossero in tenda. Poi, alla luce di una piccola torcia elettrica, se lo sfogliava, rileggeva la storia qua e là, ritrovava i personaggi, le loro chiacchiere e le loro avventure. Trascorreva così solo qualche minuto, ma nella sua fan-

tasia potevano essere giorni interi, che aprivano le porte al sonno. Il suo personaggio preferito era Paperon de’ Paperoni, quel nevrotico riccone schiavo dei suoi fantastiliardi di verdoni profumati, buoni per farci un tuffo come in piscina. L’espressione che molti di noi associano a Paperone è quella che lui pronuncia ogni volta che le sue ricchezze sono in pericolo: «me misero, me tapino!» Quando mai, se non dallo zione più ricco di Paperopoli, ci è capitato di sentire il vocabolo tapino? Eppure questa parola è termine di uso letterario, utilizzata da Dante, da Boccaccio, da Manzoni, derivante forse dal francese antico tapi, a sua volta voce di origine germanica per «infelice» (altre fonti lo etichettano come grecismo). Se rileggiamo oggi quei Topolini di cinquanta anni fa troviamo che magari proprio grazie a Paperone abbiamo letto per la prima volta frasi come «che cosa blaterate?», «lo sforzo creativo mi ha estenuato», «vi renderò la pariglia!», «angariava gli acquirenti», «oggi si sciala!», «bighellone di un nipote!»,

La copertina del Topolino n. 3294, oggi edito da Disney. (Wikipedia)

«non perdiamo tempo in elucubrazioni. Muscoli e pedagna!», e così via. Da piccoli forse non capivamo tutto, ma pazienza, ogni cosa a suo tempo. Il linguaggio di Paperone, inaspettatamente

elevato, è da sempre ricchissimo e non attinge certo al limitato italiano che siamo pigramente soliti utilizzare ogni giorno. Da Paperopoli o Topolinia tanti di noi hanno pescato come in un vocabolario. Quale modo più simpatico per insegnare ai piccoli ad amare il gioco delle parole? «Gli elementi di scarto linguistico verso l’alto», scrive Fabio Rossi a proposito del linguaggio dei fumetti per l’Enciclopedia dell’italiano edita da Treccani, «non sono altro che macchie di colore […] inserite nell’italiano medio, che brillano per contrasto e, proprio per questo, si scolpiscono nella memoria». Fabio Rossi annota inoltre che «le differenze tra i primi e gli ultimi numeri di Topolino non sembrano affatto tanto vistose quanto quelle che hanno colpito l’italiano scritto nel corso dell’ultimo settantennio»: interessante, vero? Ci sarebbe da rifletterci un bel po’. Non si dica, per cortesia, che quella dei fumetti è un’arte minore. Qualche tempo fa, ai genitori veniva raccomandato di non essere troppo permissivi

con i propri figli se questi chiedevano di poter leggere un fumetto, pena il rischio di crescere dei «lettori pigri». Per moltissimi di noi questo altolà si è rivelato falso. Magari proprio così abbiamo scoperto che le parole sono compagne di gioco; magari grazie al «Corriere dei Piccoli» e al Signor Bonaventura sempre con «un milione» sottobraccio; grazie ad Asterix e Obelix, gli «irriducibili Galli» in viaggio a modo loro attraverso la Storia; grazie all’arcipoliziotto Cip di Jacovitti che arrestava i furfanti «in nome e cognome della legge»; grazie a Snoopy e alle sue riflessioni filosofiche dall’alto di una cuccia. «Falli sparire! Mi turbano», disse Poldo Sbaffini quando si rese conto che troppi panini lo avrebbero portato alla dannazione. La bambina non aveva mai sentito quel verbo: «mi turbano…». Ma capì presto che era quello il modo giusto per descrivere quella brutta sensazione, quel nodo allo stomaco che sa di amaro e fa anche un po’ paura… Grazie, amato fumetto. Lunga vita (anche) a te.


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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli

«Spiritoso, vivo e affascinante»

musica Supera le 1500 pagine il doppio volume a cura di Marco Murara che raccoglie ogni singolo riferimento

d’epoca al genio e all’estro di Wolfgang Amadeus Mozart

Giovanni Gavazzeni Alle 10 e mezza del mattino del 28 gennaio 1756 il registro del Duomo di Salisburgo riportava il battesimo di Johannes Chrysostomus Wolfangus Theophilus, «nato il giorno prima alle ore 8 della sera». Diverrà immortale con il terzo nome in lingua tedesca, Wolfgang, in omaggio al nonno materno, associato al quarto in altra versione latina, Amadeus. Il registro specifica inoltre: «figlio legittimo dell’illustre signor Leopold Mozart musicista della camera e di Anna Maria Pertl coniugi». Siamo all’alfa di una mole straordinaria di fonti primarie, Mozart – Le cronache (a cura e con note doviziose di Marco Murara), due volumi che presentano per la prima volta in traduzione italiana qualsiasi riferimento al nome sacro di «Mozart» apparso durante la vita del compositore in libri, giornali, diari, appunti di viaggio, lettere, documenti ufficiali, prime edizioni. 2003 documenti che spaziano dalla culla fin oltre la bara, coprendo il periodo delle esequie e della successione ereditaria, con l’inventario dei beni del de cujus, la lista dei libri e delle partiture trovate in casa al momento della morte, il catalogo delle opere redatto dall’autore. I documenti sono inframmezzati da una cronologia puntuale che li inserisce nel tempo biografico, con i quali si segue passo per passo il quotidiano della famiglia Mozart. Una vita piena di difficoltà, a partire da quelle che assillano il padre Leopold alla nascita del secondogenito non ancora miracolo prodigioso. Leopold chiede al Principe arcivescovo di Salisburgo, suo datore di lavoro, l’esenzione dall’accisa per una caraffa di vino al pasto, «pari a 6 secche all’anno, nonché di condonarmi i 6 fiorini e qualche kreutzer ancora in arretrato da pagare all’ufficio principesco delle accise (…). Gabelle principesche, tasse, imposte,

perdite di cambio» riducevano il salario al lumicino. Si comprende come l’illustre genitore gestisse con lesta disciplina l’inaspettato Dono celeste, organizzando l’ostensione europea dei suoi figli. Nei viaggi che portano Mozart padre e figli dalla sovrana imperatrice Maria Teresa a Vienna, attraverso le corti principesche degli Elettori di Germania, fino alla presenza di Luigi XV a Versailles e di Giorgio III a Londra, Leopold e la sorella Nannerl segnano tutti i luoghi visitati, le case in cui sono ricevuti, i teatri frequentati, i nomi dei musicisti conosciuti e dei viaggiatori con cui hanno condiviso la carrozza, fino alle locande in cui hanno alloggiato, spese e incassi sostenuti incluse. «Il povero piccolo», scrive nel diario il funzionario di corte Karl von Zizendorf, «suona a meraviglia, è un bambino spiritoso, vivo, affascinante, sua sorella suona in maniera magistrale ed egli la applaude». (13 ottobre 1762). Un altro consigliere, Konrad von Pufendorf, scrive una poesia natalizia augurando al seienne Wolfgang «che il corpo sostenga la forza della tua anima / e che tu non vada, come il bambino di Lubecca, troppo presto nella tomba» (si riferiva a un fanciullo che stupì l’Europa parlando a 10 mesi, leggendo poco dopo, dimostrando una memoria prodigiosa; «morì a soli 4 anni»). Ogni fase della vita di Mozart viene alla luce, soprattutto quella drammatica presa di coscienza della dura realtà che porterà il Piccolo Orfeo cresciuto ad affrontare l’incomprensione e la noncuranza: ad esempio nell’infelice viaggio in una Parigi interessata solo alle dispute operistiche fra partigiani di Niccolò Piccinni e di Christoph W. Gluck. «Qui per sfondare, bisogna essere astuti, intraprendenti, audaci. Per la sua fortuna vorrei che avesse la metà del suo talento e il doppio di diplomazia (…) qui tutti i ragionamenti sulla musica fanno pietà» (così il diplomatico Friedrich Melchior

La famiglia Mozart: da sinistra, Anna Maria, Wolfgang e il padre Leopold, nel ritratto alla parete, la madre Anna Mari. Dipinto di Johann Nepomuk della Croce, realizzato nel 1780-81. (Keystone)

von Grimm a Leopold Mozart nel 1778). I documenti parlano chiaro: lo stesso duro pane toccherà a Wolfgang quando deciderà di vivere del proprio lavoro: «arduo non tanto essere padrone del proprio talento ma non avere un pubblico e una società disposti a riconoscerlo e a retribuirlo adeguatamente» e Vienna «non lo farà per Beethoven e non si accorgerà di Schubert», così Angelo Foletto nell’Introduzione a questa formidabile raccolta documentaria che ci svela «le orme ancora calde di un’esistenza camminata anzi, corsa sotto il segno della predestinazione, dell’orgoglio d’artista e della paura di non farcela

ad essere degno del proprio talento». Dopo tanti palpiti, tanto genio, tanta vita, l’inesorabile documento omega: il registro parrocchiale del Duomo di Santo Stefano a Vienna che segnala «un funerale di 3° classe» per Johannes ecc. Mozart, «deceduto per febbre miliaria acuta» a 36 anni. Computi numerici squallidi acclusi: «8 fiorini e 56 kreutzer», per la fossa comune nel cimitero di Sankt Marx; «4 e 36», per il carro funebre. Chiudono gli atti di suffragio, messe, concerti, adozioni, la pensioncina accordata alla vedova Konstanze dall’imperatore Francesco II, il com-

pianto sparso sulle riviste musicali europee. Dalle ceneri si sprigionava quella «forza produttiva» in cui Goethe riconosceva il genio «capace di presentare cose degne di mostrarsi al cospetto di Dio e della natura e che perciò hanno un seguito duraturo nel tempo»: «tutte le opere di Mozart sono tali», documenti compresi. Bibliografia

Mozart. Le cronache. La biografia mozartiana in oltre 2000 documenti dal 1756 al 1792. A cura di Marco Murara, Varese, Zecchini, 2021, € 129.

Verso l’oceano di silenzio

In memoriam Grande è il vuoto lasciato dall’amato Franco Battiato, potremo però riempirlo

con le sue decine di canzoni Simona Sala Da dove partire? Dove cominciare a raccontare la storia di un uomo nato in quella che era la Sicilia di 76 anni or sono, che negli Anni Sessanta mosse i primi passi in una Milano all’epoca ancora nebbiosa, fatta di locali di cabaret e musica dal vivo, in compagnia di altri giovani poi diventati illustri, come ad esempio Enzo Jannacci, Renato Pozzetto o Giorgio Gaber (che gli suggerì di passare dal nome Francesco a Fran-

co) e armato solo di coraggio e di una creatività straordinaria? A differenza di tutti loro, divenuti ognuno grande a modo suo, Battiato ha avuto per tutta la sua lunga e densa carriera un rapporto particolare e delicato con il pubblico fedele e compatto che l’ha seguito per decenni. Era infatti un artista discreto che affidava alle parole solamente l’indispensabile, pronunciato a mezza voce e con una punta di timidezza, lasciando che la musica facesse il resto. Quel resto che è una sorta di caleidoscopio in cui

Nell’epoca elettronica: Battiato a Parco Lambro nel 1975. (Franco Cattaneo)

si mescolano frammenti di discorsi e di pensiero, considerazioni sulla condizione umana e riflessioni filosofiche, con la creazione, di volta in volta vivida o malinconica, fulgida o misteriosa, di tableaux viventi che riescono, nel magico spazio di una manciata di parole, della durata del tempo di una canzone pop (sì, pop), a regalarci frammenti di mondi, lontani o immaginari. Un giro d’orizzonte del nostro pianeta reale e spirituale forse casuale, sicuramente dettato da percorsi per noi imperscrutabili, perché così personali, ma ben documentati da un ammiratore, che ha creato, su Mappiato.it, una cartina con i luoghi idealmente frequentati dal cantautore siciliano. Dal misticismo misterioso legato a una certa idea di comunismo (Prospettiva Nevskij, Scalo a Grado, Alexander Platz, Radio Varsavia), volando alto sulle note dei suoi inconfondibili falsetti, con Battiato si sorvola il Nordafrica (Treni per Tozeur), la Turchia, la Bulgaria (Voglio vederti danzare), un Iran quasi mitologico, una Vienna imperiale, per poi atterrare nello squallore della realtà contemporanea sempre uguale a sé stessa di una nazione cui Battiato non perdonava certe pecche e soprattutto gli abusi di potere (Povera patria, «Di gente infame, che non sa cos’è il pudore (...) come scusare le iene negli stadi

e quelle dei giornali» – sempre alla politica è da ricondurre quella che fu forse l’unica caduta di stile del Nostro, che qualche anno fa accusò di meretricio la classe politique italiana). Si corre poi avanti e indietro nel tempo, nel vortice di personaggi incontrati nell’immaginario collettivo e/o realmente esistiti, come le squaw pelle di luna dalle gesta erotiche, le balinesi nei giorni di festa, o le fantastiche operaie cinesi con il loro orgoglio, sulla scia di un’elettronica che stimola la danza, alternata a sonorità che vanno a braccetto con la classica (non è un caso che Battiato si sia esibito anche con la Royal Philharmonic Concert Orchestra di Londra) e avvalendosi perfino dei cori, anche in latino, se necessario. Nella moltitudine delle canzoni da Battiato scritte e interpretate, oltre a trovare albergo personaggi tra loro in apparenza distanti, come il musicista Giusto Pio (che iniziò il nostro al violino), il filosofo Manlio Sgalambro, che si prestava a interpretare Edith Piaf in scena, la sensuale e potente Alice, Giuni Russo, Milva e, in tempi più recenti, Luca Carboni, vi è anche un’idea di amore dai tratti eterei eppure sensuali, intellettuali e banalmente umani; e questo riverbero frammentario che è la nostra vita, contraddistinta com’è dalla paura di ciò che ci sarà alla

fine, e dopo, è stato forse raccontato più splendidamente di chiunque altro – ed è per questo che gli adolescenti ancora lo ascoltano – ne La cura, dove il cantante promette, traboccante d’amore, un rapporto totale, che non solo comprenda cuore, corpo e cervello, ma che coinvolga anche le misteriose forze di spazio e tempo, superabili con la potente arma del più nobile tra i sentimenti. Battiato, pur raccontando di non avere mai avuto un’anima gemella nella vita privata, nei suoi infiniti pellegrinaggi di ricerca nei meandri della musica e della parola, e soprattutto nella seconda fase della propria carriera, ha battuto spesso i percorsi dell’amore. E per farlo non si è affidato solo a un personale estro consolidato dove musica e testo si fondono per dare risultati di volta in volta diversi, che spaziano dall’ironia alla velata denuncia, passando attraverso una certa rêverie compiaciuta (sul «Foglio» definita «sublime cazzeggio»), ma indugiando per ben tre album nelle rivisitazioni di pezzi provenienti nell’immenso bacino del cantautorato, italiano e non. Battiato non temeva le lingue straniere e tantomeno il confronto con grandi nomi come Mick Jagger, Charles Baudelaire, Otis Redding o Gilbert Bécaud, sempre sotto lo sguardo vigile di quel Inneres Auge che è anche titolo di una sua canzone.


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