Cooperativa Migros Ticino
Società e territorio Il cervello umano è in grado di orientarsi anche senza il Gps, un saggio di Michael Bond ci spiega come
ambiente e Benessere Il professor Alessandro Ceschi, primario e direttore medico e scientifico dell’Istituto di scienze farmacologiche della Svizzera italiana ci parla dei vaccini anti-COVID
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 14 giugno 2021
azione 24 Politica e economia È esplosa la questione israeliana. In discussione coesione e carattere dello Stato ebraico
cultura e Spettacoli Esce finalmente in italiano il libro di Lukas Hartmann sulle pandemie del passato
Pro Helvetia
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di Fabio Dozio pagina 8
Keystone
In difesa dell’archeologia
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Prime punture di spillo di Peter Schiesser Dopo la fine dei negoziati sull’accordo istituzionale con l’UE, le prime punture di spillo sono già arrivate – e come previsto colpiscono il settore MedTech: Bruxelles non riconosce più le certificazioni per respiratori e siringhe provenienti dalla Svizzera, di conseguenza le ditte europee non intendono comprarle e in Slovenia sono state bloccate alcune importazioni. Per ora sono toccate solo due aziende svizzere, ma Daniel Delfosse, membro di direzione di Swiss MedTech, teme che ne pagheranno lo scotto oltre una sessantina di aziende svizzere, se gli acquirenti europei cercheranno altri fornitori. Daniel Delfosse considera queste decisioni una misura di ritorsione contro la Svizzera senza ragion d’essere, poiché in sé l’accordo bilaterale per l’eliminazione degli ostacoli al commercio resta in vigore, anche se non verrà aggiornato. Ma questo segnale viene recepito con crescente allarme non solo nel settore MedTech, bensì anche nell’industria farmaceutica. Infatti, Bruxelles sta valutando di introdurre delle nuove disposizioni per il riconoscimento dei certificati, che vanno sotto il nome di Good Manufacturing Practice,
le quali possono da un lato portare al mancato riconoscimento delle certificazioni svizzere per tutti i prodotti farmaceutici, dall’altro imporre delle ispezioni di funzionari europei nelle aziende svizzere. Per un settore come quello farmaceutico che vende prodotti in Europa per 125 milioni di franchi al giorno è una situazione delicata. In una lettera al Consiglio federale della federazione Interpharma, in cui critica l’abbandono del tavolo dei negoziati, si ricorda che il riconoscimento da parte europea dei certificati svizzeri ha permesso finora di risparmiare dai 150 ai 300 milioni di franchi all’anno. Sono cifre che mettono in ombra le poche decine di milioni all’anno che sarebbe costata in aiuti sociali l’accettazione della direttiva Ue sulla cittadinanza. Negli ambienti economici si prevede che dopo i settori legati alla sanità potrebbe toccare all’industria delle macchine. Il Consiglio federale avrà il suo bel daffare per convincere la Commissione europea a non penalizzare le aziende svizzere. Gli accordi bilaterali restano in vigore, ha rassicurato il Consiglio federale, ma questi esempi mostrano che possono divenire presto obsoleti. Di conseguenza, qualcuno si sta già ponendo l’interrogativo su quale strada percorrere per ridefinire i rapporti con Bruxelles,
o comunque per salvaguardare l’economia: da un lato gli ambienti economici (padronato ma anche Interpharma) suggeriscono di concludere nuovi accordi di libero scambio con paesi esteri e di cercare personale qualificato al di fuori dell’Europa, allo stesso tempo di liberalizzare le leggi sul lavoro; i sindacati vogliono esattamente il contrario, rafforzare la protezione dei lavoratori. E fra i partiti cominciano a profilarsi Verdi liberali e socialisti. I Verdi liberali, gli unici a sostenere compatti l’accordo istituzionale, ritengono l’adesione allo Spazio economico europeo (bocciato nel 1992) la via più praticabile. Il PS vuole rilanciare il dibattito sull’adesione all’Unione europea, il suo co-presidente Cédric Wermuth è convinto che si possa negoziare un’adesione con delle eccezioni sulla protezione dei salari. Un’affermazione, resa alla «Wochenzeitung», che lascia sorpresi: in realtà, persino le attuali concessioni dell’Ue alla Svizzera in materia di libera circolazione delle persone collidono con il diritto europeo, come ha stabilito la perizia legale dello studio PragerDreifuss. Verrebbe da dire: siamo seri, per favore. E approfondiamo le alternative concrete; rispettivamente interroghiamoci su concetti di fondo, come la tanto decantata sovranità (vedasi a pagina 29).
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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attualità Migros
la nuova Migros di Paradiso Filiali Riapre giovedì completamente rinnovato il supermercato di Via Geretta 21.
Per l’occasione, il 17 e 18 giugno,10% di sconto sull’intero assortimento e simpatico omaggio
Aperto il 9 maggio del 1963, questo storico e apprezzato punto vendita cittadino del Luganese, dopo diversi interventi nel corso degli anni, l’ultimo nel 2004, aveva bisogno di un nuovo radicale lifting per restare al passo con i tempi. Con l’intervento iniziato lo scorso mese di aprile si è quindi deciso di fare un ulteriore significativo passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento totale è stato di oltre 1 milione di franchi. I lavori hanno tenuto conto degli ambiziosi obiettivi di risparmio energetico fissati dalla Cooperativa. Le strutture interamente rinnovate e all’avanguardia, caratterizzate dai più alti e innovativi standard di costruzione e di sostenibilità ambientale, garantiranno un cospicuo risparmio energetico. L’energia fossile è stata completamente abbandonata e allo stesso tempo è stato installato un unico impianto per frigoriferi, riscaldamento e climatizzazione, che permette un’ottimizzazione dell’efficacia energetica e dei recuperi di quest’ultima, che altrimenti andrebbe inutilmente persa. Il sistema utilizza solo gas naturale CO2. Anche i nuovi impianti d’illuminazione LED a basso consumo energetico, le chiusure dei frigoriferi e il nuovo moderno sistema di regolazione dell’edificio porteranno dei benefici sostanziali in termini di sostenibilità. Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la popolazione del Comune di Paradiso e dintorni, nonché gli avventori in transito, si presenta ora in nuova veste, con una superficie di vendita di circa 440 metri quadrati. La clientela avrà la possibilità di farvi
Il mercato immobiliare che cambia la consulenza della Banca Migros
Annica Anna Pohl*
una spesa quotidiana veloce e completa. L’offerta di prodotti alimentari si è focalizzata sul fresco, con i fiori all’occhiello rappresentati dal grande Angolo del Buongustaio, che proporrà le migliori specialità gastronomiche locali e internazionali accuratamente selezionate dai nostri esperti, e dall’esteso assortimento di prodotti Daily, apprezzato marchio che racchiude una vasta scelta di bibite e cibi freschi e caldi a consumo istantaneo di ottima qualità, che farà la felicità dei molti lavoratori impiegati in zona. Un altro punto di forza del negozio sarà il moderno forno per la cottura del pane, che permetterà
di acquistare prodotti freschissimi fino alla chiusura del negozio. Come gradita novità ecco poi il grill a sfornare gustosi polli e costine a volontà. Sarà quindi garantito anche un ampio assortimento di beni di prima necessità del non food, con un accento particolare sui settori Bellezza e Salute, ampliati e valorizzati con una serie di nuovi prodotti di alta qualità per il benessere quotidiano. E per chi va di fretta, oltre alle casse tradizionali, è stato introdotto il comodo e veloce sistema Subito, con possibilità di self scanning e self checkout. Per sottolineare questo nuovo importante intervento di miglioria,
Migros Ticino ha previsto uno sconto generale del 10% sull’intero assortimento durante le giornate di giovedì 17 e venerdì 18 giugno. Completeranno la giornata di festa e allegria dei simpatici gadget per tutti gli avventori. Il responsabile Paolo Calatti e i suoi 10 collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare.
Durante la pandemia è emersa chiaramente l’importanza delle proprie quattro mura domestiche. È cresciuta la necessità di avere una bella abitazione, che allo stesso tempo doveva fungere da ufficio e da luogo per il tempo libero, dove rilassarsi per le vacanze sul balcone. Di conseguenza, sono cambiati alcuni criteri per l’affitto di un appartamento o l’acquisto di una casa di proprietà. È infatti aumentato notevolmente il desiderio di disporre di una superficie abitativa maggiore o di una stanza in più. La dotazione tecnica dell’appartamento e gli spazi esterni sfruttabili ed esposti alla luce del sole hanno assunto una notevole importanza. Con il perdurare della tendenza al lavoro da casa, si è ampliato anche il raggio di ricerca, in particolare di potenziali acquirenti. Ciò è dovuto non da ultimo al fatto che nelle città e nei comuni limitrofi i prezzi di acquisto sono decisamente in aumento, nonostante la pandemia. A causa delle condizioni economiche limitanti, inoltre, numerosi acquirenti possono realizzare il sogno di una casa di proprietà soltanto in posizioni periferiche, con prezzi ancora moderati.
orari di apertura
Lunedì-venerdì: 08.00 – 19.00 Sabato: 08.00 – 18.30
Meno carne, stessa delizia
assortimento Per tutti coloro che intendono ridurre il consumo di prodotti animali,
Migros lancia la nuova marca propria «The Mix»
Sono molte le persone che decidono di consumare meno prodotti animali a favore di alimenti di origine vegetale. Per facilitare questa scelta, Migros ha sviluppato insieme alla sua affiliata Micarna una nuova marca propria: «The Mix». La marca presenta classici come salsicce, macinato o burger reinterpretati in una nuova veste, che combina
carne svizzera con ingredienti vegetali. Migros diventa così il primo dettagliante svizzero a offrire i cosiddetti prodotti di carne ibrida e reinterpreta in una nuova veste i classici prodotti di carne senza rinunciare a nessun ingrediente, ma semplicemente riducendo di almeno il 40 per cento la quantità di carne. I nuovi prodotti contengono infatti, oltre
a carne svizzera, anche carote, pomodori, champignon o proteine dei piselli. La linea «The Mix» include burger, salsicce da grigliare, nuggets, macinato e polpettine ed è disponibile da subito al banco frigo della carne nelle maggiori filiali Migros. La disponibilità attuale può essere consultata online su prodotti.migros.ch.
Salsicce da grigliare the Mix
■ Maiale (carne svizzera) ■ –47% di carne ■ Proteine dei piselli, champignon Macinato the Mix
■ Manzo (carne svizzera) ■ –41% di carne ■ Carote e pomodori Burger the Mix
■ Manzo (carne svizzera) ■ –47% di carne ■ Proteine dei piselli, champignon Polpettine the Mix
■ Manzo (carne svizzera) ■ –47% di carne ■ Proteine dei piselli, champignon nuggets the Mix
■ Pollo (carne svizzera) ■ –44% di carne ■ Proteine dei piselli, champignon I prodotti «The Mix» sono realizzati in Svizzera da Micarna, azienda affiliata di Migros. La nuova marca propria presenterà inizialmente cinque prodotti degli assortimenti carne, pollame e salumi. A metà giugno sarà introdotto inoltre un wurstel ibrido.
azione
Settimanale edito da Migros ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
L’autrice di questo articolo.
Tuttavia, a differenza di quanto accade in altre città come New York o Londra, in Svizzera non si segnala ancora una tendenza alla fuga dalle zone urbane. I tassi di sfitto pari allo 0,15% a Zurigo o intorno allo 0,5% a Berna, Ginevra o Losanna dimostrano chiaramente come la richiesta di abitazioni nelle città superi di gran lunga l’offerta. La qualità di vita e la vicinanza alle aree verdi o all’acqua, nonché la prospettiva del ritorno alla vita urbana, fanno sì che le città svizzere mantengano inalterata la propria attrattività anche in tempi di coronavirus. Durante la pandemia, gli stili di vita in Svizzera si distinguono dunque in maniera ancora più accentuata: mentre alcuni si ritirano a vita privata in campagna, altri cercano gli ambienti urbani e la socializzazione. Alla luce della pandemia una cosa è certa: la scelta del luogo in cui vivere sta subendo un cambiamento. * Responsabile del settore commercializzazione presso CSL Immobilien. www.csl-immobilien.ch abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Società e territorio Fotografie in mostra Si intitola Senza Parole l’esposizione ideata e creata dagli allievi del Pretirocinio di Integrazione di Trevano
In difesa del lavoro degli archeologi Salvaguardare le vestigia del passato di fronte agli interessi immobiliari contemporanei è operazione difficile. Ne abbiamo parlato con Martin Killias, presidente di Heimatschutz Svizzera
Bambini e giovani È stato da poco presentato il nuovo Programma cantonale di promozione dei diritti, di prevenzione alla violenza e di protezione dei bambini e dei giovani pagina 9
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pagina 6 È nell’ippocampo che risiede il nostro «meccanismo spaziale», allenarlo fin da piccoli sviluppa il senso di orientamento. (Shutterstock)
Il cervello trova la strada (senza gps) Intervista Affidandoci esclusivamente allo smartphone, quando ci muoviamo in auto o a piedi,
rischiamo di perdere l’allenamento al senso dell’orientamento. Un saggio ci spiega il perché Stefania Prandi* I dispositivi Gps ci indicano dove andare, guidandoci senza che per noi sia necessario impiegare le facoltà cognitive sviluppate nel corso delle migliaia di anni dell’evoluzione umana. Affidandoci esclusivamente allo smartphone, quando ci muoviamo in auto o a piedi, rischiamo però di perdere l’allenamento al senso dell’orientamento. Senza anatemi contro le nuove tecnologie, il giornalista scientifico Michael Bond, nel saggio Il cervello trova la strada (Corbaccio), ci invita a riflettere su come il senso dello spazio influenzi la nostra psiche e i nostri comportamenti. Michael Bond, i dispositivi gps ci tolgono la capacità di vivere lo spazio?
Premetto che i Gps sono tecnologie eccellenti. Dobbiamo solo ricordarci che quando le utilizziamo blocchiamo l’ippocampo, la parte del cervello nella quale si trovano molte delle cellule «spaziali» che permettono di orientarci. Possiamo anche pensare che vada bene così, ma quando non si usa un organo, non lo si esercita, questo si deteriora. Inoltre, coi Gps seguiamo le istruzioni e diventiamo inconsapevoli di ciò che ci circonda, non guardiamo quello che abbiamo attorno e non lo ricordiamo.
Io non dico di smettere di usare questi dispositivi esterni, ma di farlo in modo più creativo, ad esempio con la modalità Street View, cioè con riferimenti fotografici che incoraggino a osservare in maniera attiva, non soltanto eseguendo l’ordine dello smartphone. Oppure, possiamo vedere la direzione di massima e poi proseguire da soli.
mazioni. Viaggiare faceva parte della vita quotidiana ma per sopravvivere dovevano riuscire a ricordarsi dove stessero andando, come fosse il paesaggio, se avessero cambiato direzione per aggirare una collina oppure un fiume. Secondo diversi studi, sembra che la nostra capacità di orientamento venga proprio da lì.
Non sappiamo ancora quali siano gli effetti a lungo termine. Alcuni neuroscienziati stanno cercando di capire come le demenze siano collegate all’incapacità di orientarsi nello spazio. Infatti, la prima abilità che le persone con una demenza perdono è proprio il senso dell’orientamento. Al momento, comunque, non possiamo dire nulla di esaustivo al riguardo, le ricerche sono all’inizio e ci sono molti fattori in questione.
La nostra paura sembra risalire a quel periodo. Proviamo a immaginare di trovarci in quello scenario africano e perderci. Non c’erano molti esseri umani in giro, ma animali pericolosi che ci avrebbero uccisi e mangiati. E non avremmo avuto accesso nemmeno al cibo, perché si cacciava in gruppo. Perdersi significava morire. Oggi possiamo provare un grande senso di paura e ansia legato a quell’istinto. Di fatto, ci sono ancora luoghi nel mondo dove perdersi potrebbe diventare catastrofico.
Tra i 150 e i 100mila anni fa, in Africa, gli esseri umani iniziarono a percorrere distanze molto ampie. Vivevano in piccoli gruppi e viaggiavano, camminavano per centinaia di chilometri per incontrare altri esseri umani, per commerciare o scambiare storie o infor-
Il principale meccanismo spaziale del cervello risiede nell’ippocampo, un’area che possiedono tutti i mammiferi. Negli ultimi cinquant’anni, i neuroscienziati hanno scoperto che quest’area contiene alcune cellule che si sono sviluppate per aiutarci nell’orientamento. Ci sono le place cells (cellule di
Quali altri conseguenze dell’uso esclusivo dei gps ci possono essere a livello cognitivo?
come si è sviluppato il senso dell’orientamento nel corso dell’evoluzione umana?
Perché abbiamo paura di perderci?
come funziona il cervello quando deve orientarsi?
posizione) che lavorano per informarci dove ci troviamo e dove siamo stati. Ad esempio, la prima volta che entriamo in una stanza, queste cellule si attivano insieme in uno schema particolare che poi diventa fisso. Quindi se usciamo e torniamo un’ora dopo, le place cells si riattivano esattamente nello stesso modo. Nell’ippocampo ci sono anche le head-direction cell (cellule testa direzione) che funzionano da bussola interna, le grid cells (cellule a griglia) che ci dicono quando ci spostiamo e verso dove e le boundary cells (cellule confine) che si attivano quando siamo vicino a un muro o a una parete. Tutte queste cellule ci danno una memoria dello spazio, chiamata dai neuroscienziati «mappa cognitiva», che ci fornisce una rappresentazione del mondo esterno. Quanto è importante il ricordo dei luoghi?
I nostri ricordi sono legati ai posti dove abbiamo fatto le esperienze nella vita. Se incontriamo alcuni amici facendo una camminata, il ricordo di quel posto sarà legato agli amici e a quello di cui si è parlato. Ci sono luoghi per i quali abbiamo sentimenti profondi: quando ci torniamo, riviviamo certe emozioni. Sembra che il cervello usi la memoria spaziale come via di accesso e come struttura per altre memorie.
che cos’è la consapevolezza spazia-
le e perché si crede che le donne siano meno predisposte a orientarsi?
La consapevolezza spaziale è la capacità di capire il posto in cui si è e cosa si ha attorno. Si tende a ritenere che le donne siano meno predisposte degli uomini a orientarsi per ragioni biologiche, ma non è vero. Sappiamo che il fatto che gli uomini dimostrino performance leggermente migliori nell’orientamento è dovuto alla cultura. Una delle spiegazioni più plausibili è data dal modo in cui bambine e bambini vengono cresciuti. In genere, i genitori tendono a restringere i movimenti delle bimbe rispetto a quelli dei bimbi perché le considerano più vulnerabili e sono inclini a farle restare più vicine a casa. Un elemento non di poco conto considerando che il modo migliore per sviluppare il senso dello spazio è sperimentare fin da piccoli. Inoltre, il pregiudizio sulle donne fa sì che, anche quando crescono, non vengano incoraggiate a intraprendere attività che riguardano l’orientamento. È un circolo vizioso: se si pensa di non essere brave in qualcosa alla fine non lo si diventa, e non certo per ragioni biologiche. * L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.
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Il pane ai semi è una specialità prodotta secondo una ricetta esclusiva dagli abili panettieri del panificio Jowa. È un pane di frumento dalla forma allungata con quattro tagli in evidenza e con la superficie leggermente infarinata. Tra i suoi ingredienti vi sono svariate varietà di semi oleosi, come girasole, lino, sesamo, come pure del grano saraceno, componenti che conferiscono al prodotto finale un gusto piuttosto pronunciato. I vari grani durante la lavorazione assorbono una grande quantità di acqua, rilasciando nel pane una buona umidità. L’impasto a base di farina di frumento viene arricchito con della farina di segale, particolarità che permette di ottenere una mollica dalla colorazione beige, con una consistenza morbida, elastica e con un’alveolatura media. Farina IP-SuISSe
Per panificare il pane ai semi la Jowa utilizza esclusivamente farina di fru-
mento prodotta secondo i criteri di IP-SUISSE. I contadini che coltivano i propri cereali nel rispetto delle severe direttive di questo marchio -contrassegnato con la caratteristica coccinella - rinunciano all’utilizzo di regolatori della crescita, insetticidi e fungicidi. Questo tipo di coltivazione non solo preserva la natura e la fertilità del terreno nel tempo, ma salvaguardia anche la biodiversità nei dintorni dei campi, creando spazi vitali naturali per fauna e flora selvatiche. La certificazione e il controllo del rispetto delle direttive IP-SUISSE è garantito da organi indipendenti. come gustarlo
Dato il suo carattere, durante la stagione calda il pane ai semi si addice particolarmente bene per essere abbinato ad antipasti estivi a base di verdure crude, salumi e formaggi, sia freschi che stagionati; oppure per accompagnare una bella grigliata di carne o pesce.
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3 Le costine di maiale sono senza dubbio una delle specialità più amate dai fan della carne alla griglia. Succose, tenere e gustosissime, sono relativamente facili e veloci da preparare, lasciando così del tempo da dedicare ai vostri ospiti. Tra i vari tagli di questa carne, nei supermercati Migros sono disponibili sia le classiche costine, lunghe e più carnose; sia le costine carré, più corte, ma in compenso particolarmente morbide e aromatiche. Conosciute nei paesi anglosassoni come «Baby back ribs», corrispondono alla parte finale delle coste dopo essere state parzialmente spolpate della lombata. Una stuzzicante ricetta
con una delicata marinata alla birra? Per 4 persone prendete qualche rametto di timo e rosmarino, 1 peperoncino, 1 cucchiaio di senape, 1 cucchiaio di zucchero greggio, 2-3 dl di birra e 1,5 kg di costine carré. Tritate le erbe aromatiche, estraete i semini dal peperoncino e affettatelo finemente. Emulsionate il tutto con la birra, la senape e lo zucchero. Regolate eventualmente di sale, spalmate la salsa sulle costine e lasciate marinare per un’oretta. Grigliate le costine a fuoco basso per ca. 45 minuti, girandole regolarmente e spennellandole di tanto in tanto con la marinata rimasta.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Società e territorio
un gesto senza parole
Ritratti I ragazzi della classe P2 del Pretirocinio di Integrazione di Trevano hanno ideato e curato una mostra
fotografica. Li abbiamo incontrati insieme ai loro insegnanti Livia Cairoli e Ricardo Torres Valentina Grignoli «Come possiamo parlare di noi e delle cose che ci stanno a cuore attraverso la fotografia?». Così recita il volantino di Senza Parole – Ritratti e particolari, esposizione a cura della classe P2 del Pretirocinio di Integrazione (PTI) di Trevano. Una mostra visitabile al Centro professionale sociosanitario medico-tecnico di Lugano. Mi hanno colpito queste immagini. Sono ritratti a mezza figura in bianco e nero, ogni protagonista si esprime con un gesto forte, diverso. Mi hanno colpito anche i ragazzi che fieramente le appendevano ai muri e che ci invitavano a vedere la mostra attraverso un video di presentazione. Ho quindi deciso di andare a incontrarli, insieme a Ricardo Torres, che insegna loro al laboratorio di Comunicazione Audiovisiva e li ha guidati nella creazione della mostra. Il Pretirocinio di Integrazione è una delle misure gestite dall’Istituto della transizione e del sostegno del DECS. L’obiettivo, oltre all’apprendimento della lingua italiana, è favorire l’inserimento sociale e professionale di ragazzi che sono arrivati tardivamente in Svizzera e hanno superato l’età dell’obbligo scolare. Hanno tra i 16 e i 18 anni all’incirca, non conoscono la nostra lingua e, a volte, non sanno leggere e scrivere nel loro idioma d’origine. Ci sono ragazze e ragazzi che arri-
Aref, Karthika, Jahanzeb e Mekdes. (ITS-PTI)
vano da altri Paesi europei, ma anche giovani richiedenti l’asilo e rifugiati. Il Pretirocinio è quindi un’ottima occasione di integrazione, a livello comunicativo e professionale, con l’avvicinamento dei ragazzi a un apprendistato dopo un anno di scuola a tempo pieno. I ragazzi della classe P2 a fine anno hanno imparato l’italiano sufficientemente bene per potersi esprimere sul loro lavoro. Uscirò dalla loro classe con la sensazione di aver ricevuto ben più di un’intervista. La docente di Italiano Livia Cairoli mi accoglie, i ragazzi mi aspettavano, si sono preparati, hanno le copie delle im-
magini che ritraggono i loro gesti con sé e hanno scritto alcune frasi. Inizialmente intimiditi, a uno a uno si aprono poi nel raccontarmi quest’avventura, che senza parafrasare riporto qui. Aref prende per primo la parola: «Siamo andati ad attaccare le foto in un’altra scuola: è interessante il fatto che qualcun’altro le veda! Non dovevamo parlare, ma decidere un gesto. Il mio è questo, il cuore: l’amore. Io amo la mia famiglia, mi mancano tanto, non li vedo da due anni». La foto lo ritrae con un sorriso che scoppia dietro a quel cuore abbozzato con pollici e indici. Poi si fa coraggio Mujtaba, che mi
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racconta: «Vengo dall’Afghanistan ho 17 anni. Quest’anno abbiamo studiato tante cose, tra le quali come realizzare le fotografie. Questa rappresenta per me la gentilezza. Questo perché è importante per la vita. Se non usiamo la gentilezza non possiamo trovare degli amici. È importantissimo per noi». Un gesto gentile accompagna questa voce che non è da meno, mentre cede la parola a Abdi: «Ti spiego il mio messaggio senza parole: ho fatto così, sfioro il cervello con le dita. Questo significa che bisogna pensare molto, usarlo! Perché ci sono persone che non lo usano, che crescono e basta, mentre è la parte del corpo più importante. Le foto ce le siamo fatte tra noi, avevamo la macchina fotografica e Ricardo ci ha insegnato a usarla». Continua Jahanzeb: «Ciao, anche io vengo dall’Afghanistan. Il mio gesto significa rispetto. Tutte le persone, bambini, donne, anziani, lo meritano. La mano sopra il cuore. Questo nel mio paese significa anche ciao. Sono molto contento di questa foto». Anche Jamie è soddisfatto: «Abbiamo lavorato all’esterno, con la luce bella e quella meno bella. Abbiamo imparato cosa significano espressioni come figura intera, primo piano, piano americano. Questo gesto, il pugno sul cuore, significa “Sto bene!” Quando incontri i tuoi amici, tu dici così: “sto bene, niente male”. Questo nel mio paese, qui non so cosa voglia dire». Chissà che significa qui, intanto noto che il gesto che propone la fotografia di Henok è abbastanza univoco: «È il saluto militare! Vengo dall’Eritrea, sono qui dal 2019, e sono contento, mi piace qui». Un altro saluto, che per tutto lo scorso anno abbiamo integrato anche noi, è quello che mi propone l’alunna Karthika: «Arrivo dallo Sri Lanka, e nel mio paese le mani congiunte così, in forma quasi di preghiera, significano buongiorno, salute. Volevo far conoscere come si saluta da noi». Mekdes mi racconta poi: «Io sono etiope, anche questo è un saluto, ma è il mio personale, un bacio! Di questo lavoro mi è piaciuto posare, più che fare le fotografie». Finalmente arriva il turno di Louay, da un po’ stava preparando il suo intervento, sono curiosa di vedere la sua immagine e sentire il suo commento: «Io vengo dalla Siria. Mi piace studiare, imparo l’italiano! Propongo questo gesto che significa “quando ho bisogno di Dio”. Lo indico. Quando ho bisogno di qualcosa prego Dio che mi aiuti ad averlo. Questa foto mi piace, è un gesto che faccio spesso, anche se di solito con una sola mano, qui è con due ma per ragioni artistiche. Dio è solo uno!». «Quando siamo arrivati qui non sapevamo come fare le foto, io le facevo come chiunque, con il telefonino – mi racconta poi Arash, che ha 18 anni ed è afgano – Non pensavo di dover stare attento all’inquadratura, alla posizione
da cui prendere l’immagine, per esempio. Il gioco era il gesto, e il mio è la furbizia. Nella vita dobbiamo essere furbi altrimenti prendiamo dei colpi, o ci capitano cose brutte. Noi abitiamo in una situazione, dove stanno persone buone e cattive, e bisogna essere furbi. Un pollice sulla guancia, così». Non per forza i gesti devono però raccontare qualcosa del proprio passato o della propria personalità, Rojhat spontaneamente mi racconta: «Questo l’ho visto tante volte su Instagram, è una specie di saluto! Credo che sia importante ricambiare quando qualcuno ti saluta. Io ho 18 anni vengo dalla Turchia». Assistere a una lezione con questi ragazzi, ascoltare le loro storie di avvicinamento all’italiano e della loro vita qui, e osservare la facilità con la quale ora comunicano tra loro, con gesti e parole, e il profondo rispetto che nutrono per i propri insegnanti, è stato emozionante. C’è chi ci ha messo un mese a imparare «buon appetito», e poi, quando mi ha raccontato come lo diceva nella propria lingua, mi sono detta che io ce ne avrei messi tre a pronunciarlo correttamente! C’è chi mi racconta come la prima volta che ha voluto comprare la lisciva per il bucato in un negozio ha ricevuto dello shampoo, perché nella propria lingua si diceva così. E poi ci sono gli allora, i quindi, avverbi che usiamo in continuazione senza accorgerci che, per chi ci ascolta, sono difficili da identificare. Certo, io arrivo a fine anno, la docente Livia Cairoli mi racconta che non è sempre così facile: «All’inizio i ragazzi devono poter contare su una persona affidabile, altrimenti si chiudono. Soprattutto devono essere ascoltati. Quello che per noi è scontato non lo è per forza anche per loro». Livia non mi parla ovviamente solo dell’italiano. «Possono sorgere molti problemi. Ma devo dire che sono ottimi ragazzi, veramente bravi!», racconta mentre mi fa capire come il mettere dei limiti iniziali l’abbia resa a volte quella figura materna che a loro manca. Il fratello maggiore sembrano averlo hanno trovato in Ricardo Torres, che di questo lavoro ama innanzitutto trasmettere la sua passione per la fotografia: «Questi ragazzi mi sorprendono sempre, con dei dettagli, con la loro spontaneità. Loro sono felici di essere a scuola, disposti a cogliere l’opportunità e valorizzano il nostro lavoro. La cosa più bella che ti può capitare è di avere il mondo in una classe, cinque o sei lingue, tre continenti, è prezioso. E fargli capire che con le immagini possono andare ancora più lontano». La mostra Senza Parole è esposta nei corridoi del Centro professionale sociosanitario medico-tecnico in via Ronchetto 14 a Lugano sino a metà agosto.
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Società e territorio
ancora un po’ di eternità
Patrimonio svizzero I siti archeologici sono minacciati dallo sviluppo urbanistico. Salvaguardare le vestigia
del passato di fronte agli interessi immobiliari contemporanei è operazione difficile. Intervista a Martin Killias
Fabio Dozio «Scompaiono troppe testimonianze del nostro passato», è il grido d’allarme lanciato da Martin Killias, presidente di Patrimonio Svizzero, Heimatschutz, la più antica associazione ambientalista svizzera, fondata nel 1908 e da sempre attiva nella protezione della natura e del patrimonio culturale. L’archeologia è sempre più spesso confrontata con uno sviluppo urbanistico che in genere dimostra poca sensibilità nei confronti dello studio del passato, attraverso i reperti ritrovati sotto terra. Quando si scoprono vestigia antiche – afferma Killias sulla rivista «Il nostro Paese» (n.343, aprile 2021)– «bisognerebbe che queste tracce fossero trattate con rispetto, sia rendendole visibili, sia ricoprendole di sabbia per conservarle per ancora un po’ di eternità». «Durante il ginnasio – ci racconta il presidente – ero molto interessato alla storia dell’arte. Poi dopo la maturità vedevo prospettive limitate nell’ambito degli studi storici, non volevo diventare un docente di scuola cantonale, e quindi mi sono indirizzato verso il diritto, pensando alla specializzazione di ambiente e monumenti. Poi ho scoperto il diritto penale e anche la psicologia sociale e quindi sono diventato esperto di criminologia. Alla fine della carriera, dopo 38 anni di insegnamento e 300 pubblicazioni, ho scelto di fare altre cose e sono tornato alla disciplina amata in gioventù».
La collina che ospita la necropoli celtica di Mormont, nel Canton Vaud, è minacciata da un cementificio. (Keystone)
lei lancia un monito: l’archeologia in Svizzera è maltrattata?
Dipende. Il problema è questo: la sostanza dell’eredità archeologica si trova sottoterra, in principio non è visibile e questo è un difetto. Quello che si vede è più facile da proteggere. Poi dipende da dove sono i siti archeologici. Se si trovano in un bosco o in un terreno lontano dallo sviluppo urbanistico, non è così problematico, perché nessuno vuole costruire. Invece, per esempio nel piano di Magadino o in una zona urbana, può nascere facilmente un conflitto, tra interessi archeologici e storici da una parte e interessi degli ambienti immobiliari, privati o pubblici, dall’altra. Perciò si è confrontati con la necessità di ponderare questi interessi e, purtroppo, in questa ponderazione l’archeologia è spesso perdente. Non ha difensori di potere, ha un’influenza limitata, mentre gli interessi privati o pubblici immediati hanno una logica ovvia per la maggioranza della popolazione. Questo è un problema cronico. Le cito l’esempio della collina di Le Mormont, nel canton Vaud, che fa da spartiacque tra i bacini idrografici del Rodano e del Reno. Su questa collina si trova una necropoli con centinaia, o forse migliaia, di fosse che risalgono a 1500 anni fa. Una necropoli importantissima di rilievo europeo. Qui c’è un cementificio che scava da anni e che intende ampliare la cava. Il cemento lo usano quasi tutti e poi ci sono posti di lavoro e quindi la difesa di questi interessi finisce per avere la priorità. non ci sono sufficienti strumenti legislativi per salvaguardare il lavoro degli archeologi?
È il diritto cantonale, in quasi tutti i cantoni, che definisce la base legale e garantisce la ponderazione degli interessi in gioco. Le faccio un altro esempio, a Baden. Ci sono vestigia di bagni romani importantissimi perché hanno la particolarità di essere stati usati dai romani all’epoca, e ancora per secoli fin verso il 1800. Ora si vuole costruire un nuovo centro balneare, cosa legittima, ma i costruttori vogliono andare avanti posando tubi attraverso i vecchi bagni termali e sono in conflitto con
di lavoro degli archeologi. Bisogna sempre intervenire, magari non si ha un successo completo, ma si riesce a sensibilizzare e qualcosa si ottiene.
valutazione personale è che per ottenere risultati bisogna farsi rispettare e questo proviene dal successo ottenuto in via giuridica.
Ho capito, in questi anni, l’importanza dei ricorsi per via giuridica. Abbiamo fatto molti ricorsi e ne abbiamo vinti una proporzione importante, forse il 70%. Un risultato significativo, con giudizio del Tribunale o transazione favorevole a noi. Questo alto tasso di successo ha avuto un effetto indiretto. I comuni e gli ambienti immobiliari hanno capito che bisogna ascoltare Heimatschutz. Che è più opportuno confrontarsi con noi piuttosto che scontrarsi in tribunale. Adesso vediamo effettivamente che c’è una stabilizzazione dei ricorsi e aumentano le richieste di venire a vedere sul posto, di discutere e di cercare un compromesso. A volte si tratta anche di compromessi originali. Vale anche per altre associazioni, Pro natura, WWF, ecc. È importante farsi sentire, esprimere le opposizioni per le vie legali. La mia
È importante che le associazioni della società civile intervengano a difesa del patrimonio culturale del Paese. Si possono percorrere strade diverse. Approfittando del diritto di ricorso, nei confronti di progetti che mettono in pericolo il patrimonio culturale, architettonico e storico, oppure promuovendo iniziative popolari. In questo senso ci sono due iniziative, lanciate da organizzazioni ambientaliste nazionali, che dovranno essere vagliate a Berna. L’Iniziativa biodiversità esige una quantità sufficiente di superfici e di finanziamenti a favore della natura e intende fissare la tutela del paesaggio e dei beni culturali nella Costituzione federale. L’Iniziativa paesaggio intende porre un chiaro freno alla cementificazione delle superfici naturali e dei terreni coltivati all’esterno delle zone edificabili. Ora sono in consultazione, poi deciderà il Parlamento e, eventualmente, il popolo.
che cosa ha imparato in questo periodo alla testa di Patrimonio svizzero?
Martin Killias è presidente di Heimatschutz Svizzera dal 2017. (Jutta Vogel)
gli archeologi, che non hanno finito di scavare e di rilevare. Se non si può avere l’immagine globale del sito, l’archeologo non riesce a lavorare come dovrebbe. Heimatschutz è intervenuta presso il Dipartimento federale dell’interno per chiedere di proteggere la ricerca
archeologica, ordinando uno stop della costruzione della stazione balneare. Non abbiamo avuto successo perché il governo argoviese ha reagito. Sul piano legale l’iniziativa non ha avuto il successo desiderato, ma indirettamente ha molto migliorato le condizioni
Il Servizio archeologico del canton ticino «Rievocare il passato com’era», – spiega il sito di Archeologia Svizzera – ecco ciò che vorrebbero fare le persone che si occupano di archeologia. Rossana Cardani Vergani è la responsabile del Servizio archeologico del Canton Ticino. com’è la situazione nel nostro cantone?
Il nostro Servizio interviene con prospezioni mirate e scavi di salvataggio, laddove la sostanza archeologia è minacciata da progetti che possono mettere a repentaglio la conservazione del patrimonio immobile e mobile, che il passato ci ha tramandato. Compito dell’archeologia cantonale in base alla Legge sui beni culturali del 1997 è seguire fin dall’installazione del can-
tiere i movimenti di terreno, eseguire sondaggi preliminari se la situazione non è chiara dall’inizio, procedere con scavi archeologici completi all’interno del perimetro e alla profondità previsti dal progetto, se possibile arrivando alla quota del terreno naturale, documentare tutti i ritrovamenti immobili e mobili, asportando questi ultimi, che per legge entrano a fare parte del patrimonio del Cantone. I perimetri di interesse archeologico vengono definiti nei Piani regolatori comunali: lo strumento di base nell’iter che una domanda di costruzione deve seguire perché una licenza edilizia venga concessa. Fatte queste premesse, di regola le indagini archeologiche terminano una volta rilevato e documentato tutto quanto a rischio di distruzione e il ter-
reno viene riconsegnato al proprietario per la messa in opera del progetto.
Si riesce a salvaguardare i reperti che si sono scoperti e studiati?
Raramente le strutture archeologiche vengono conservate o addirittura lasciate a vista e valorizzate. Alcune eccezioni tuttavia esistono: la chiesa medievale di San Maurizio a Bioggio, l’antico porto antistante il Castello visconteo di Locarno, un importante frammento del mosaico di epoca romana di Mendrisio, le cripte delle chiese parrocchiali di Airolo e di Quinto vedono le vestigia conservate e parzialmente fruibili. la legge protegge in modo sufficiente la ricerca archeologica?
La Legge sui beni culturali garantisce l’operato degli specialisti in materia
di archeologia preventiva e tutela i reperti immobili se conservati, perché non in conflitto con l’evoluzione del territorio. La tutela sui reperti mobili è per contro garantita, in quanto patrimonio del Cantone stesso. Certo, il conflitto con l’evoluzione del territorio significa che spesso la proprietà privata ha il sopravvento sugli interessi storici. In questo ambito è importante segnalare che sui tavoli del Gran Consiglio ticinese c’è la proposta di riforma della Legge sui beni culturali promossa dall’iniziativa della Società ticinese per l’arte e la natura (STAN), grazie all’iniziativa «Un futuro per il nostro passato». In sostanza, si chiede una migliore e maggiore protezione dei beni culturali.
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Società e territorio
a favore del benessere dei giovani
ticino Il nuovo Programma cantonale di promozione dei diritti, di prevenzione alla violenza
e di protezione dei bambini e dei giovani nasce dalla collaborazione fra tre Dipartimenti ed è un progetto innovativo sul piano nazionale Stefania Hubmann Dai singoli Comuni amici dei bambini a un intero Cantone sempre più a misura di infanzia e gioventù. La volontà del Ticino di posizionarsi all’avanguardia sul piano nazionale con azioni portatrici di un vero e proprio cambiamento culturale la esprime il «Programma cantonale di promozione dei diritti, di prevenzione della violenza e di protezione dei bambini e dei giovani», presentato lo scorso aprile. È il frutto di un impegno interdipartimentale che offre una visione d’insieme concreta e innovativa di quanto è necessario sviluppare per assicurare a bambine e bambini una crescita armoniosa. Una crescita che li veda rispettati, protetti, accompagnati e riconosciuti come parte attiva dei processi decisionali che li riguardano. Per giungere in concreto a questo riconoscimento sono già operative diverse iniziative che il Programma intende rafforzare sulla base di indagini sulla situazione attuale e progetti innovativi. Quali siano queste ricerche e le sperimentazioni in atto lo spiega ad «Azione» Marco Galli, capo dell’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani (Dipartimento della sanità e della socialità). Iniziative come la certificazione UNICEF ottenuta dalla Città di Locarno (prima in Ticino a essere definita «Comune amico dei bambini») o l’adesione al modello internazionale «La città delle bambine e dei bambini» da parte di Mendrisio sono esempi di come si stiano muovendo le autorità comunali a favore dei più giovani, in particolare con l’intento di garantirne il benessere e migliorare il loro coinvolgimento nell’evoluzione della società. Ciò implica una nuova attitudine da parte degli adulti, un cambiamento culturale che anche il Programma cantonale persegue. Quest’ultimo prende spunto dalla «Strategia cantonale di prevenzione della violenza che coinvolge i giovani (0-25 anni) per il periodo 2017-2020», piano ora ampliato con una prospettiva innovativa estesa alla promozione dei diritti dell’infanzia. «Rispetto alla Strategia di prevenzione della violenza – precisa Marco Galli – il nuovo Programma si concentra su bambine e bambini anche quali soggetti a sé stanti, portatori di necessità e risorse. Grazie a un finanziamento significativo – pari a 450mila franchi
Il Programma mira a uno sviluppo equilibrato di bambini e giovani e alla loro partecipazione attiva nei processi decisionali che li riguardano. (Keystone)
annui per quattro anni – sarà possibile capire quali sono i loro bisogni e sperimentare forme di promozione e sostegno attraverso progetti pilota». Sui primi non si può prescindere dalle coseguenze della pandemia che ha colpito duramente tutte le fasce d’età della popolazione. A questo proposito il nostro interlocutore risponde segnalando il mandato di ricerca che lo scorso maggio il Consiglio di Stato ha affidato alla SUPSI per valutare l’impatto dell’emergenza sanitaria sulla salute psichica dei giovani. Aggiunge Galli: «Oltre ad agire in sinergia con gli altri programmi del Cantone, la nuova visione è costruita sfruttando le esperienze maturate in questi anni e la rete che si è venuta a creare. Non è calata dall’alto, bensì elaborata attraverso audizioni di gremi istituzionali, partner sul territorio ed enti rappresentativi dei diretti interessati come il Consiglio Cantonale dei Giovani. A partire da settembre intendiamo inoltre ascoltare direttamente bambini e ragazzi di ogni ordine di scuola nelle rispettive sedi scolastiche». Nella raccolta delle esigenze come nella valutazione delle possibili risposte i responsabili del Programma – la direzione interdipartimentale con rappresentanti di DSS, DECS e DI è presieduta dal magistrato dei minorenni Reto Medici – seguono il fil rouge della partecipazione e di uno sviluppo equilibrato di bambini e giovani. Diversi i
progetti implementati con la Strategia di prevenzione della violenza che stanno dando buoni risultati. Marco Galli cita al riguardo «Face à face Ticino». Di che cosa si tratta? «Nato e sperimentato a Ginevra, questo progetto offre agli adolescenti fra i 13 e i 20 anni che hanno avuto comportamenti violenti una risposta diversa da quella punitiva. Con l’aiuto di professionisti del settore psicologico, ma anche di animatori di teatro e maestri di arti marziali, si punta a sviluppare il concetto di empatia (riuscire a mettersi nei panni della vittima) per impedire un ritorno del passaggio all’atto. È più che incoraggiante poter constatare che oltre l’80 per cento dei partecipanti al progetto non sta commettendo recidive». Un altro canale da sfruttare in questo ambito è quello della famiglia. Prosegue il nostro interlocutore: «L’Associazione Progetto Genitori (www. associazioneprogettogenitori.com) ha portato in Ticino un modello statunitense volto a seguire le famiglie vulnerabili sin dalla gravidanza attraverso visite a domicilio con basi e finalità pedagogiche, in modo da evitare forme di maltrattamento durante la crescita. Ovviamente con il nuovo Programma desideriamo spingerci oltre e promuovere una vera e propria cultura del buon trattamento. È di fondamentale importanza rinforzare in generale (anche attraverso la legislazione) le competenze
dei genitori affinché adottino comportamenti rispettosi del bambino, evitando in particolare linguaggi non consoni e punizioni corporali. La sberla è categoricamente esclusa dalle pratiche educative». Ai genitori si vuole quindi offrire consulenza e formazione, perché sovente non sono consapevoli delle conseguenze dei loro gesti. Accanto a proposte già avviate che il Programma cantonale permetterà di rafforzare, esistono iniziative pilota destinate a decollare ancora quest’anno o all’inizio del prossimo. Fra di esse «Una famiglia per una famiglia» (www.unafamigliaperunafamiglia.it), progetto di origine italiana, innovativo a livello svizzero, per il quale è necessario identificare famiglie disposte ad accompagnare in un processo di mentoring altre famiglie confrontate con difficoltà che non sono in grado di gestire. Il principio di un aiuto non giudicante tra pari, sfruttato con successo nel sostegno ai giovani, viene qui applicato sul piano familiare. Per Marco Galli una sfida fondamentale per promuovere i diritti dell’infanzia e dei giovani generando un nuovo approccio culturale sarà quella di riuscire a coinvolgere maggiormente i Comuni. Grazie a «The Social Truck» – progetto di animazione itinerante (www.thesocialtruck.ch) – si potranno già toccare differenti realtà sull’insieme del territorio cantonale.
antiche storie. Per il personale della residenza sanitaria è un ospite affetto da decadimento cognitivo, per Sara è invece una fonte di ispirazione, un amico, un incontro che le cambierà l’esistenza, fornendole, tra quelle ventidue lettere alfabetiche, un luogo dove rifugiarsi, rigenerarsi, e tornare a dare un senso alla vita. Ogni lettera dell’alfabeto ebraico è un concentrato di simboli, è un intero racconto. La parola crea il mondo, questo ci dice già l’Antico Testamento, sin dall’inizio. Bereshît… wajjômer ’elohîm; jehî ’ôr, Wajjehî ’ôr: «In principio, Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi, 1, 1.3). Anche per dare vita al Golem , il fantoccio di argilla di Rabbi Loew, bastò una parola tracciata in fronte. Questo racconta il Signor T a Sara, che a sua volta costruirà un golem, metafora del suo inconscio. Ogni capitolo della storia è introdotto da una lettera ebraica, la cui forma, nella tavola che Sualzo dedica ad ogni lettera, come un titolo ai capitoli, Sara riproduce con il suo proprio corpo, in una postura che
esprime di volta in volta un’emozione. E la storia integra perfettamente i due piani: quello quotidiano, dello skateboard, della scuola, del primo amore, del ciondolo col cuore spezzato condiviso con l’amica-del-cuore; e quello di una saggezza spirituale antica, che darà a Sara le parole «per dirsi». Perché davvero le parole possono tutto.
Marco Galli: «La pandemia ha mostrato l’importanza rivestita dai centri giovanili, luoghi di ritrovo locali per i quali è indispensabile la disponibilità delle amministrazioni comunali. Il Cantone dispone di leggi che permettono di sostenere finanziariamente queste ed altre iniziative. Il funzionario cita quali pilastri la Legge sul sostegno e il coordinamento delle attività giovanili e la Legge sul promovimento e il coordinamento delle colonie di vacanza. La prima, fortemente innovativa nel 1996 quando venne varata, è tuttora un valido strumento, al momento in fase di aggiornamento sui bisogni emergenti e sulle soluzioni per farvi fronte. Ed è proprio su questo fronte che si situa l’altra sfida del Programma: migliorare l’informazione verso i giovani in modo che siano a conoscenza delle possibilità offerte dalla Legge a loro dedicata. «L’Ufficio di cui sono responsabile – conclude il funzionario cantonale – è uno spazio aperto per ottenere informazioni, consulenza e accompagnamento. I giovani con le loro proposte sono benvenuti». Sinora nessun Cantone svizzero si è spinto al di là di campagne di sensibilizzazione e singoli progetti per favorire i diritti dell’infanzia come sancito nella Convenzione ONU (ratificata dalla Svizzera nel 1997). Il Ticino propone invece un innovativo programma globale di quattro anni incentrato sulla collaborazione fra tre Dipartimenti per mettere a punto ed attuare misure specifiche in cinque contesti – famiglia, scuola e formazione, spazio sociale, settore amministrativo e giudiziario, settore socio-sanitario – agendo a più livelli, dalla promozione alla prevenzione, dal rilevamento precoce di situazioni critiche all’intervento. L’analisi del fenomeno sarà completata entro fine anno, così da poter definire le priorità di azione. I progetti modello a cui ispirarsi non mancano, nel resto del Paese e all’estero. Gli enti operanti sul territorio, così come le istituzioni, iniziano a farli propri per innalzare progressivamente il livello di benessere di infanzia e gioventù. L’accento è posto sul buon trattamento e sul nuovo statuto del bambino quale individuo a pieno titolo della società con il diritto di partecipare attivamente alla sua definizione attraverso l’ascolto e l’espressione della propria opinione.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Silvia Vecchini-Sualzo, Le parole possono tutto, Il castoro. da 12 anni Ancora una graphic novel convincente ci arriva dalla coppia Vecchini-Sualzo, per le Edizioni Il Castoro, che hanno ormai una tradizione consolidata nel pubblicare, accanto ai romanzi, anche fumetti di grande qualità. Sualzo è il nome d’arte di Antonio Vincenti, che dà vita con le sue tavole alla storia immaginata da Silvia Vecchini. Una storia che, pur partendo da un espediente narrativo già molto sfruttato nella letteratura per ragazzi – l’adolescente che, per aver commesso un’infrazione, deve trascorrere un periodo riparativo di volontariato in una residenza per anziani – si sviluppa però in modo originale e profondo. Sara è un’adolescente taciturna, che gira attorno a se stessa e alla sua rabbia: per la separazione dei suoi, per l’incidente che le ha lasciato una cicatrice sul volto – che lei copre con una tenda di capelli – per il litigio con la sua migliore amica. Sara parla poco, non ha più fiducia nelle parole,
ed è come bloccata in un «sentirsi a pezzi» molto autoreferenziale, non a caso espresso da quella «S», iniziale del suo nome, con cui continua a «sporcare i muri» della città. Ecco, l’esperienza con gli anziani l’aiuterà sia a rimettere insieme i suoi pezzi, sia a uscire dalla sterile autoreferenzialità. Paradossalmente sarà proprio trovando se stessa, e dando suono alle sue parole, che potrà uscire da sé e andare verso gli altri, verso il mondo. Sarà un anziano in particolare, il signor T, a fungere da Maestro: il signor T passa il tempo a scrivere l’alfabeto ebraico e raccontare
Isaac Bashevis Singer, Il Golem, illustrazioni di emanuele luzzati, Salani. da 12 anni Abbiamo parlato di Golem nella recensione precedente, in questo mese di giugno ricorre il centenario dalla nascita di Emanuele Luzzati, grande e poliedrico artista: e allora il pensiero non può non andare al bel racconto di Isaac Bashevis Singer, Il Golem, nel catalogo Salani con le illustrazioni del grande maestro italiano, che nacque a Genova, da famiglia ebraica, nel 1921. Costretto dalle leggi razziali a lasciare l’Italia, Luzzati si rifugiò a Losanna, dove si diplomò all’École des Beaux Arts e dove entrò in contatto
con vari intellettuali, tra cui il regista Louis Jouvet e lo scenografo Christian Bérard, che gli accesero la passione per il teatro e la scenografia. Rientrato in Italia, Luzzati si espresse in ogni campo dell’arte: fu scenografo, costumista, illustratore, pittore, ceramista, autore di film d’animazione. La sua città, Genova, lo celebra ora con tante iniziative, diffuse in vari luoghi, tra cui una mostra a Palazzo Ducale. Il nostro modo per rendergli omaggio è segnalarvi questa antica, bellissima, leggenda ebraica.
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Società e territorio Rubriche
l’altropologo di Cesare Poppi «un gran pezzo di codardo furfante» Gli ozii di Tahiti non avevano giovato allo spirito marinaresco dell’equipaggio del Bounty. La missione del Bounty era di raccogliere un migliaio di piantine dell’Albero del Pane (Artocarpus Altilis – affine al gelso, che in italiano mantiene la denominazione panassa derivato direttamente per le misteriose vie del linguaggio dall’antico sanscrito panasa). Il piano gestito dall’Ammiragliato inglese era di trapiantare i virgulti nelle Indie Occidentali per farne nutrimento della crescente popolazione di schiavi al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. Cinque mesi da giardinieri ai tropici non solo avevano fiaccato nel fisico i marinai, ma li avevano soprattutto persuasi – qualora ve ne fosse stato bisogno – che la vita sulla terra meritava cento volte la sopravvivenza su di un vascello di Sua Maestà. A complicare poi le cose ci si mettevano le compiacenti bellezze di Tahiti – le stesse che avrebbero poi ammaliato Gauguin con le quali per giunta i marinai cominciarono a
formare legami stabili – le bottiglie a buon mercato ed il cibo che sembrava cadere dagli alberi ottimo ed abbondante. Il Comandante Bligh, bacchettone fra i pochi a rimanere casto laddove molti contrassero malattie veneree, descrisse la situazione nel suo diario come «le tentazioni a condurre una vita debosciata sono oltre ciò che si può concepire». Insomma, in poche parole: un’esperienza di vita in Paradiso che si sarebbe presto trasformata in un Inferno. Il viaggio d’andata si era svolto nella più assoluta normalità. Il Luogotenente William Bligh (che non era come si crede Capitano in quanto il Bounty era classificato come semplice schooner e non come Vascello di Linea) si era comportato come da copione: una punizione qui, un giro di frustate là. La sua reputazione, sostenuta dal fatto di essere stato l’Ufficiale di Rotta del Capitano Cook, aveva fatto sì che i marinai soffrissero di buon grado la disciplina del mare senza peraltro ascrivere al
proprio Comandante più della canonica crudeltà d’ufficio. Ma già all’inizio del viaggio di ritorno – proprio come al termine di tutte le vacanze – depressione e intolleranza per la vita «normale» cominciarono farsi sentire. La routine di dover annaffiare le piantine con la migliore acqua a bordo aggiungeva beffe al danno di dover tornare ad una vita grama e stenta. E così l’equipaggio aveva cominciato a ciondolare svogliato, quasi lasciando che la nave si governasse da sé nel clima beato del Pacifico. Una parola di troppo, un «vaffa» mormorato tra i denti, avevano allertato Bligh al fatto che la situazione stesse lentamente ma inesorabilmente sfuggendo di mano. Tempo di stringere la cinghia e di far parlare la frusta. Presto non passò giorno che, al minimo pretesto, qualcuno non fosse legato all’albero maestro e frustato. Bligh, a sua volta, divenne sempre più paranoico, timoroso di perdere il controllo. Il suo Secondo, Fletcher Christian, un giovane ufficiale di 23 anni col
quale Bligh era stato peraltro in ottimi rapporti, divenne come da classico copione la vittima delle sue frustrazioni. «Lei è un gran pezzo di codardo furfante!»: queste le parole umilianti urlate da Bligh ad un Christian senza colpe, di fronte all’intero equipaggio, in seguito ad un incidente senza conseguenze mentre il Bounty si riforniva d’acqua alle isole Tonga. Ormai la situazione era fuori controllo e la salute della nave in quanto tale compromessa. Fletcher Christian decise di agire: alle 5.15 del 28 aprile 1789, Christian ed alcuni ammutinati entrarono nella cabina di Bligh e lo trascinarono in coperta in catene. Christian si era legato al collo un piombo da scandaglio: era sua intenzione gettarsi fuoribordo ed annegare nel caso l’ammutinamento fosse fallito. Poche ore dopo fu invece Bligh a prendere il mare al comando della lancia di sette metri sulla quale salì assieme ad una ventina di marinai leali – quasi la metà dell’equipaggio. A Bligh fu dato
un sestante, acqua e cibo per cinque giorni: quattro machete furono gettati nella lancia all’ultimo minuto. Il piano di Bligh era di raggiungere la base Olandese di Kupang, sull’isola di Timor: un viaggio di 4500 miglia nautiche (6500 chilometri) in mari ampiamente sconosciuti e con poche – e pericolose – tappe obbligate per rifornirsi di acqua e cibo. Messo ai voti da un Bligh rinsavito, il piano che peraltro prevedeva razionamenti da lacrime e sangue fu approvato. Seguirono settimane dove le maree di speranza e disperazione si alternarono regolarmente, ivi compreso un nuovo tentativo di ammutinamento che Bligh rintuzzò machete alla mano. «Non mi è possibile descrivere il piacere che l’avvistamento della costa di Timor dette a tutti noi» – così Bligh nel suo Diario. I Nonammutinati del Bounty fecero il loro ingresso nella baia di Kupang il 14 giugno del 1789: batteva una Union Jack confezionata a bordo.
acquistato come una merce. Mi sembra arbitrario sostituire con gelidi contratti finanziari, la relazione sessuale più intima e segreta, quella che porta alla procreazione di un figlio. Gli aspiranti genitori parlano di diritti ma, nei confronti dei bambini, conosco doveri più che diritti. Il desiderio, così frequente negli adottati, di conoscere i genitori biologici quali conseguenze avrà? Siamo sicuri che sia indifferente ignorare da dove e da chi si viene? Mentre l’adozione cerca di porre rimedio a un danno già avvenuto, il ricorso all’«utero a nolo» il danno lo produce. Le Legge condanna duramente la compravendita di bambini, perché dovrebbe accettarla in questi casi? Per i «nati per procura» non sarà duro apprendere che, per appagare il desiderio di trasmettere almeno in parte il proprio patrimonio genetico , quelli che considerano genitori li hanno privati intenzionalmente della mamma che li
ha accolti e nutriti per nove mesi? In una società fluida, dove è sempre più difficile costruire profili d’identità, come sarà possibile per loro raccontarsi una biografia dotata di senso e di significato? Davvero non è più essenziale, per la condizione umana, sapere da dove si viene per decidere dove si va? Come vede, cara Barbara, questi sono soltanto alcuni dei quesiti suscitati da biotecnologie che procedono senza confrontarsi con le conseguenze dei loro interventi per cui non abbia paura di essere considerata antiquata. La modernità non è sempre una garanzia di moralità e di giustizia.
lità diverse. Mentre, nella campagna bernese, Jeremias Gotthelf raccontava storie di bambini, per la prima volta, a scuola. Tutto ciò per dire che, in Svizzera, la scuola ha rappresentato, in modi diversi, una priorità sia dal profilo didattico che logistico. In Ticino, proprio l’edilizia scolastica apriva, a una nuova generazione di architetti, l’occasione per mettersi alla prova. Con la sede di un ginnasio a Bellinzona, progettato da Tami, Camenzind, Jäggli, nel 1958 s’inizia la stagione delle «scuole firmate». E, infatti, località minori, Morbio Inferiore, Riva San Vitale, Balerna, San Nazzaro, Camorino e via dicendo, si dotano di asili, elementari, medie di pregio. Qualcosa che non manca di stupire i visitatori d’oltre confine. C’è persino chi ironizza sulla ricchezza degli svizzerotti. In questo caso, ben spesa. Tuttavia, le scuole firmate, citate nelle riviste specialistiche, non hanno ottenuto, in loco, consensi unanimi. Anzi,
i genitori degli allievi, sempre più preoccupati per il benessere dei rampolli, denunciano pecche d’ordine logistico e organizzativo. Saranno pur belle, ma in pratica non funzionano correttamente, si sente dire. Del resto, la scuola, come istituzione ed espressione di potere, continua a essere il bersaglio di critiche e polemiche, spesso contraddittorie. Accusata di essere sia di destra sia di sinistra, questione di punti di vista e magari di pregiudizi. Ma, in fin dei conti, è un sintomo positivo: se ne parla perché conta. È una presenza che,in un modo o nell’altro, ci tocca tutti quanti. Non da ultimo sul piano emotivo. Nel rito di fine anno c’è un fondo di tristezza, che spetta a ogni congedo. L’aveva percepito De Amicis, con Cuore, libro-diario, recentemente riabilitato dai critici. Indimenticabile, il suo incipit: «Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza…». Un sogno che per i nostri docenti e allievi sta per cominciare. Vaccinazioni e tamponi permettendo.
la stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Procreazione, biotecnologie e tanti dubbi Cara Silvia, le scrivo per una questione che non mi riguarda ma che non mi lascia indifferente, tanto che continuo a pensarci. Lavoro da alcuni anni, unica donna, in uno Studio di grafica, con vari colleghi e c’è tra noi molto affiatamento. Spesso la sera usciamo insieme e ci confidiamo liberamente i nostri problemi. Nonostante inevitabili diversità, ci troviamo d’accordo politicamente e culturalmente su quasi tutto. Ci consideriamo aperti, liberali e progressisti, convinti difensori della natura e dell’ambiente. Tra questi colleghi-amici c’è una coppia di gay particolarmente simpatici: sempre disponibili a dare una mano, allegri, ironici, anche verso se stessi. Ultimamente però si sono messi in mente di diventare genitori. Come? Rivolgendosi a un’agenzia internazionale che offre, a pagamento, contratti per una gravidanza per conto terzi. Nella nostra com-
pagnia tutti l’hanno presa bene, come fosse un’idea originale e divertente. Solo io, forse perché donna, mi pongo molte domande ma non so con chi confidarmi e, temendo di passare per una persona poco emancipata, magari un po’ bigotta chiedo a lei un parere spassionato. La ringrazio se vorrà aiutarmi ad affrontare una questione così spinosa. / Barbara Cara Barbara, ha ragione, la questione non è da poco e ci trova tutti impreparati. Cinquant’anni fa, è accaduto un avvenimento epocale: con la nascita di Louise Brown, la prima bambina in «provetta», il concepimento si è separato dalla gestazione ed è possibile avere un figlio senza rapporto sessuale. Successivamente, nel caso di coppie dello stesso sesso, è diventato possibile diventare genitori retribuendo una donna nella maggior parte dei casi povera ed
emarginata, disposta a essere fecondata con seme altrui, a portare a termine una gravidanza tecnicamente indotta e a consegnare infine il nuovo nato ai committenti. Sempre più frequentemente poi, per evitare rivendicazioni di proprietà, quando gli aspiranti genitori sono entrambi maschi, complicano ulteriormente il processo di generazione inserendo l’ovulo di una donna diversa da quella che sarà poi fecondata. È evidente che approfittare di persone in stato di bisogno, considerarle semplici contenitori di materiale genetico, indurre la partoriente ad abbandonare quello che è stato per nove mesi un figlio, costituisce un’azione profondamente immorale. Nessuno ha diritto di considerare una persona come un mezzo e non come un fine. Dal punto di vista del bambino poi, mi chiedo quali conseguenze potrà avere a lungo termine sapere di essere stato
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Scuole in ticino: scommessa vinta Questa volta l’orgoglio di Manuele Bertoli si giustifica: quella che, da parte del responsabile del DECS, poteva sembrare una scelta azzardata e persino testarda, si è rivelata ragionevole, in definitiva vincente. Lo conferma
Si conclude questa settimana un anno scolastico particolare. (Pixabay)
il bilancio dell’anno scolastico, che si conclude in questi giorni: oltre nove mesi di attività normale, con presenza fisica in aula di allievi e docenti. Una normalità, su cui gravava l’incognita di possibili recrudescenze del virus. Ma la temuta seconda ondata autunnale ha toccato solo marginalmente la comunità scolastica: qualche caso isolato di classe o di allievo in quarantena, magari per via di una vacanza all’estero. Del resto, a temere la quarantena, sono proprio i ragazzi, ai quali, anche se non lo dicono, piace andare a scuola. È il luogo dove si conquista la prima indipendenza dalla famiglia e s’impara ad appartenere a una collettività più ampia, allacciando amicizie con estranei, scoprendo diversità. E, di quest’ultimo aspetto della nostra quotidianità, la scuola è diventata lo specchio più diretto. Quasi un terzo, il 27,6%, della popolazione residente nel Cantone, si compone di stranieri: italiani, portoghesi, serbi, kosovari, turchi, srilankesi, e via enumerando le
tessere di un mosaico sempre più variegato. Sono loro a influire sulla situazione anagrafica di una Svizzera che, altrimenti, registrerebbe più decessi che nascite. Fatto sta che, nelle aule scolastiche, la presenza di alunni di origine straniera è rilevante, con effetti reciproci sul piano umano. È da qui che parte il loro processo di assimilazione e, d’altro canto, il nostro di accettazione. Oltre che istituzione, cui è affidata la gestione di un obbligo, per nostra fortuna ineludibile e prolungato, la scuola è anche un luogo nel senso materiale del termine. Caratterizzato da edifici e spazi destinati a ospitare, adeguatamente, le attività e le esigenze di utenti diversi per età, capacità, ambizioni. Dall’asilo d’infanzia all’università, insomma, lungo un percorso che ha visto crescere un’edilizia scolastica, dai connotati riconoscibili. Che, vanta precedenti illustri. Nel 1805, Pestalozzi aveva creato una scuola nel castello di Yverdon, frequentata, altro primato rivoluzionario, da allievi di naziona-
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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ambiente e Benessere depurare e rinnovare Utili al nostro corpo sono piante fitoterapiche come il Tarassaco, l’Ortica e l’Aloe
turismo fra i trapassati La ricerca dei cimiteri abbandonati, una variante sempre più popolare del cimiturismo
amata e odiata Ladybird La coccinella siberiana è un prezioso ausiliario, ma anche un’«autentica peste»
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Squisita cheesecake Su un fondo di mandorle e savoiardi, con tante fragole fresche: irresistibile pagina 19
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efficacia, sicurezza, qualità
Vaccini Tre parametri di valutazione
che vanno resi comprensibili a tutti
Maria Grazia Buletti I vaccini continuano a essere uno degli strumenti più efficaci per prevenire la morbilità (frequenza percentuale di una malattia in una collettività) e la mortalità legate a questa pandemia, così come pure nei confronti delle minacce emergenti. Ma sono pure stati «vittime del loro successo», afferma il dottor Alessandro Diana: «Il declino delle criticità dovute a molte malattie infettive attualmente prevenibili coi vaccini, ha reso gli “scettici del vaccino” meno attenti verso quelle patologie un tempo comuni, come ad esempio il morbillo». E oggi tornare in tema è essenziale: «La sfida è rendere chiaro ciò che già lo è per gli addetti ai lavori, ma poco chiaro ai più». Parliamo di dati e conoscenze riguardo ai vaccini anti-Covid, col professor Alessandro Ceschi (primario e direttore medico e scientifico dell’Istituto di scienze farmacologiche della Svizzera italiana, EOC, e unico esperto esterno membro della task-force di Swissmedic sulla sicurezza dei vaccini anti-COVID) che conferma i dati oggi incoraggianti comunicati dalle Autorità: «Più sale il numero delle persone vaccinate, più scende il numero di casi di contagiati e ammalati: i vaccini in utilizzo in Svizzera sono molto efficaci con risposte immunitarie in oltre il 95 per cento dei vaccinati dopo due dosi, e hanno dimostrato una rilevante efficacia nel ridurre la trasmissione del virus, oltre che essersi rivelati attivi contro buona parte delle varianti virali a oggi note». Ogni vaccino deve indurre risposte di tipo cellulare ed essere in grado di stimolare il sistema immunitario così efficacemente da produrre anticorpi neutralizzanti contro il virus. Per la sua approvazione e l’uso, deve soddisfare tre punti imprescindibili: efficacia, sicurezza e qualità: «L’industria farmaceutica sviluppa un preparato innovativo secondo precisi passaggi regolamentati e controllati, a iniziare dalla fase preclinica in vitro a cui ne seguono altre cliniche includenti un numero crescente di persone volontarie sane (studio del profilo di tossicità e della dose). Gli studi si ampliano progressivamente, includendo diverse migliaia di volontari tra cui anche persone con patologie soggiacenti e di diverse
fasce d’età ed etnie, permettendo un’accurata analisi su efficacia e sicurezza del preparato, i cui risultati, assieme a quelli sulla qualità, sono quindi sottoposti alle autorità regolatorie dei medicinali (EMA a livello europeo, FDA negli Stati Uniti e in Svizzera Swissmedic) che eseguono un’attenta e scrupolosa valutazione prima di concederne l’autorizzazione al commercio. Le agenzie regolatorie sono coinvolte in tutto il processo di valutazione scientifica per l’approvazione circa l’uso nella popolazione, e nella formulazione di raccomandazioni sulla base dei dati e dell’esperienza acquisita». Nel caso dei vaccini anti-Covid, Ceschi puntualizza che la velocità con cui le agenzie regolatorie hanno valutato i risultati degli studi non deve essere interpretata come negativa (ciò vale anche per Swissmedic che ha approvato Pfizer-BionTech e Moderna): «I tempi amministrativi sono stati abbreviati valutando i nuovi dati appena disponibili in modo progressivo e continuato: un risparmio di tempo notevole che non ha implicato nessuno sconto in termini di rigore delle valutazioni eseguite e che ha garantito che i parametri di efficacia, sicurezza e qualità fossero appieno soddisfatti». Poi, come per ogni farmaco omologato e messo in commercio, subentra la farmacovigilanza ad assicurare il controllo continuo della sua sicurezza: «Nonostante gli ampi e accurati studi di omologazione, non si può escludere a priori l’eventuale insorgenza di reazioni avverse estremamente rare o tardive; perciò, è necessario un monitoraggio strutturato dell’utilizzo del preparato nella popolazione». I vaccini anti-Covid non fanno eccezione: «Diversi mesi prima che i primi vaccini fossero omologati, come Istituto di scienze farmacologiche della Svizzera italiana avevamo già fatto a Swissmedic una proposta concreta di potenziamento del sistema nazionale di farmacovigilanza, a cui prendiamo attivamente parte regolarmente essendo uno dei sei centri a livello svizzero (gli altri cinque sono presso gli Ospedali universitari d’Oltralpe). In seguito, Swissmedic ci ha designati Centro di riferimento a livello nazionale per l’analisi e valutazione delle reazioni avverse ai vaccini anti-covid». In pratica, al momento della vaccinazione la persona risponde dapprima ad alcune doman-
Il professor Alessandro Ceschi, primario e direttore medico e scientifico dell’Istituto di scienze farmacologiche della Svizzera italiana (EOC) e unico esperto esterno membro della task-force di Swissmedic sulla sicurezza dei vaccini anti-COVID. (Stefano Spinelli)
de sulla sua salute, ed è sorvegliata nei minuti che seguono il vaccino per poter eventualmente intervenire in quei rarissimi casi di reazioni allergiche importanti che si verificano tipicamente nell’immediato. Dovessero in seguito insorgere quelle tipicamente più blande: «Suggeriamo al paziente di rivolgersi al medico curante che ne valuterà l’effettiva portata che, se ritenuta significativa, sarà segnalata alla Farmacovigilanza dove si analizza attentamente ogni notifica, e si valuta gravità ed effettiva probabilità che il vaccino ne sia davvero causa, perché un evento correlato in modo temporale alla vaccinazione non deve per forza esserlo anche in modo causale. Le nostre valutazioni sono trasmesse a Swissmedic che successivamente le fa confluire nella Banca
dati mondiale dell’OMS (depositaria di tutti i dati di farmacovigilanza a livello globale)». Ad oggi, gli effetti blandi osservati compaiono all’incirca a un giorno dal vaccino e durano uno o due giorni: «A livello locale al sito di applicazione: dolore, gonfiore, arrossamento; a livello sistemico: febbre, debolezza, cefalea, dolori osteo-muscolari». Per le reazioni locali (ma di tipo ritardato che possono insorgere circa una settimana dopo la vaccinazione), Ceschi riferisce: «Si tratta del così detto “Covid-Arm”: un’importante reazione immunitaria locale a questi vaccini, ma di natura transitoria e non dannosa, che scompare spontaneamente dopo pochi giorni». Sulle reazioni di ipersensibilità immediata emersa inizialmente in In-
ghilterra nei primi vaccinati: «Sono fenomeni con rarissima incidenza che avvengono generalmente in persone note per una predisposizione allergica. Il medico curante (o se necessario l’allergologo) valuterà la somministrazione del vaccino e il luogo, in piena sicurezza». Vi sono poi altri eventi avversi rari (di cui Swissmedic ha già riferito nei periodici aggiornamenti pubblicati sulle reazioni avverse ai vaccini antiCOVID): «Stiamo attualmente esaminando, con particolare attenzione e in costante scambio con le Autorità regolatorie di altri Paesi, casi di Herpes Zoster e rari casi di mio/pericardite. Questi eventi non modificano il rapporto benefici/rischi dei vaccini a base di mRNA utilizzati in Svizzera che rimane attualmente chiaramente positivo».
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ambiente e Benessere Aloe vera, dalle molte proprietà terapeutiche. (Freepik.com)
non tutto è riconducibile all’obesità
la nutrizionista Esiste una malattia ancora
poco conosciuta che si chiama lipedema
Laura Botticelli
Piante disintossicanti che aiutano a recuperare la forma Fitoterapia Tre le migliori: il Tarassaco, l’Ortica e l’Aloe
Eliana Bernasconi La natura è entrata come da sempre in un nuovo ciclo, gli esseri umani che ne sono parte avvertono il bisogno di rinascere. L’inverno che ci ha lasciato ha presentato il conto alle tante persone che non ce l’hanno fatta a seguire i continui, tanto infinitamente saggi consigli: evitare cibi grassi o piccanti, prodotti industriali, alcol e fumo, sedentarietà, ambienti inquinati... mentre incertezza, disorientamento e non raramente ansia chiedevano di convivere quotidianamente con noi. Nessuno lo aveva previsto, ma abbiamo dovuto adeguarci. Anche per questo guardiamo con rinnovata gratitudine alle piante medicinali che ci rassicurano con la loro tranquilla presenza, in quanto depositarie di un sapere antico che nessuna pandemia potrà mai toglierci. Per depurare l’organismo e rinnovarlo, il fegato è il principale filtro di disintossicazione e, come i reni, ha un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle sostanze nutritive. Purtroppo, non ci vuole molto per sovraccaricarlo. Da qui la necessità di corrergli in aiuto. Le piante per depurare e disintossicare esistono da sempre, sono molte e a primavera ci ricordano la loro presenza. Sono ad esempio il Carciofo, il Cardo Mariano, la Bardana, la Betulla, la Borragine, la Quercia, il Ribes nero. Scegliamo qui tra le più famose, e poniamo, con molte ragioni, in cima alla lista il Tarassaco. Taraxacum officinale, è il suo nome scientifico. Appartiene alla famiglia delle Asteraceae, ed è una pianta tanto umile e comune quanto potente è la sua funzione. I nostri vecchi le hanno attribuito molti nomi «insalata matta», «dente di leone», «radicchio di campo», «pisciainletto». Fiorisce ovunque tutto l’anno e disperde i suoi semi al vento con l’incantevole «soffione» che gli dona una straordinaria capacità di riprodursi. Recentemente il tarassaco è diventato in certi luoghi quasi infestante. Nella fitoterapia si impiegano radici e foglie. Le prime sono conosciute per le proprietà aperitive, diuretiche, digestive, lassative, depurative e ipocolesterolemiche; hanno una marcata proprietà stimolatrice della secrezione biliare. L’infuso di radici al tre per cento è un depurativo e un diuretico, in ragione di 3-5 bicchieri al giorno. Il decotto che – come per tutte le erbe – è più concentrato dell’infuso, si prepara con le radici essiccate e bollite, e va preso prima dei pasti, per un ciclo di almeno venti giorni; è questo il periodo
di tempo giusto, dicono gli esperti, per consentire a ogni pianta (con specifiche proprietà organolettiche, indicazioni terapeutiche e una determinata concentrazione di principi attivi) di esplicare tutti i suoi effetti. Le tipiche foglie del Tarassaco, che troviamo in ogni prato, condividono le proprietà medicinali delle radici, e inoltre sono antiscorbutiche per l’alto contenuto di vitamina C. Si possono raccogliere dalla primavera all’autunno, anche se il tempo ideale balsamico per farlo sarebbe da aprile a maggio. Taraxacum officinale è peraltro una delle poche piante selvatiche usate ancora a scopo alimentare: molti la usano per preparare freschissime insalate o per cuocerla come verdura rinfrescante; si consiglia di non raccogliere questa selvatica presso le strade trafficate o i tralicci di alta tensione. Una specie cinese di questa pianta porta il nome di Taraxacum mongolicum Hand-Mazz., e viene usata come antiinfiammatorio e antiinfettivo. I fiori del Tarassaco, di un giallo unico e squillante che alcuni aggiungono alle insalate, sono amati dalle api e danno un miele giallo oscuro dall’odore e dal sapore caratteristico a cui viene attribuita una proprietà depurativa. Notissima e preziosa come il Tarassaco, cresce a primavera un’altra pianta altamente depurativa, disintossicante e antiinfiammatoria; il suo umile aspetto nasconde ricchezze nutritive incredibili: parliamo dell’Ortica. Appartenente alla famiglia delle Urticaceae, è ricostituente, antireumatica e rimineralizzante, inoltre è ricca di acido folico e di ferro, di sali di potassio e magnesio, fosforo, silicio, calcio, vitamine C, A e K. L’Ortica è ritenuta la pianta più ricca di clorofilla della nostra flora. Anch’essa viene utilizzata talvolta ancora come alimento: alcune persone la colgono per cucinare verdissimi risotti. Si trova in gruppi estesi nelle radure boscose, ai margini delle strade, lungo i sentieri. Il fusto, robusto e quadrangolare, le foglie pelose, triangolari e seghettate presentano caratteristici peli rigidi, corti e lunghi che in contatto con la pelle umana provocano bruciore e prurito, come ben sanno coloro che osano sfiorarla senza guanti. Viene da questa singolarità, infatti, il suo nome, dal latino «urere» che significa letteralmente «bruciare». E parliamo ora di un’antichissima pianta giunta a noi da paesi caldi, secondo alcuni autori conosciuta da seimila anni. Nell’antico papiro egiziano di Ebers è nominata come pianta
medicinale e come agente di imbalsamazione; Cleopatra la privilegiava come prodotto di bellezza. Il suo nome è Aloe, più scientificamente Aloe vera, e fiorisce da maggio a giugno. Non necessita davvero di una presentazione data la sua fama anche nella cosmetica. È di fatto un potente antinfiammatorio, disintossicante e depurativo. Originaria dell’Africa orientale, dell’Arabia e dell’India è stata introdotta in Europa attraverso i Caraibi. Come sappiamo e come spesso succede con le piante medicinali l’Aloe ha indicazioni multiple, il che significa che cura disturbi tra loro molto diversi, è infatti anche emolliente e cicatrizzante e, come già ricordato, fa parte di molti preparati cosmetici, di detergenti e creme. È una pianta grassa che nella stagione umida accumula acqua, tanto che le sue foglie si fanno rigonfie e dure (nella stagione secca consumano l’acqua accumulata). Molti conoscono il trasparente magico gel racchiuso nelle sue foglie che trova applicazioni esterne, una o più volte al dì, nel trattamento di ferite, ustioni, punture di insetti, dermatiti, psoriasi, prurito cutaneo. L’Aloe si può coltivare in giardino, in casa e sul balcone, e secondo una tradizione ancora viva oggi per gli egiziani tenuta sulla porta di casa assicura felicità e lunga vita. Padre Romano Zago, un frate francescano che vive in Brasile, ha sicuramente contribuito alla grande popolarità della pianta in Europa, da sempre usata dai più poveri dei poveri in Brasile. Padre Zago, di origini italiane, ha da loro appreso e valorizzato un’antica semplice ricetta e ha scritto con successo un libro dove testimonia le grandi guarigioni ottenute utilizzandola. Una potente e ormai diffusa cura primaverile antistanchezza e disintossicante, a detta di parecchie persone che ne sono entusiaste, può essere preparata in casa imitando l’antica ricetta: si raccolgono, meglio all’alba o al tramonto, alcune foglie bellissime e carnose della pianta adulta, si tolgono con delicatezza i piccoli aghi e le parti secche, si fanno a pezzetti e si frullano. Poi a 300-400 grammi di queste foglie si aggiungono 3-4 cucchiai di grappa, o anche di cognac o whisky, e 500 grammi di miele biologico. Si protegge dalla luce e si conserva il tutto in un contenitore di vetro. Assumere un bicchierino ogni giorno per 20-30 giorni.
Buongiorno Laura, sono sua omonima e ho 45 anni, sono sempre stata in carne nonostante i miei sforzi di fare movimento, mangiare poco e sano eccetera. Ho il busto normale, se così si può dire, ma poi ho braccia e gambe grosse e piene di cellulite. Purtroppo pure mia figlia di 15 anni, da quando si è sviluppata, sembra aver ereditato la mia forma fisica. Io ci ho convissuto, non benissimo ma i miei erano altri tempi, adesso mia figlia, tra social eccetera, la sta vivendo male e pensa a liposuzione e cose simili. Ma è giovane, io vorrei qualcosa d’altro, un approccio magari dietetico, però non vorrei che vivesse tutti i miei fallimenti, perché ci ho provato a migliorarmi mangiando meno e muovendomi di più, ma con scarsi risultati: gambe e braccia sempre grosse e brutte. È vero che erano altri tempi e magari adesso la medicina è andata avanti, si può fare qualcosa per migliorare? Perché sinceramente inizio ad avere dolori alle gambe, non vorrei insomma che mia figlia vivesse tutto questo. / Laura Gentile Laura, mi dispiace tantissimo per il suo malessere e quello di sua figlia. Come dice lei, purtroppo, i nostri figli stanno vivendo un’era dove l’immagine la fa ancora più da padrone ed essere fuori dai canoni estetici proposti può essere vissuto come un vero problema, soprattutto, ma comunque non solo, in un periodo critico come l’adolescenza. Mi ha ispirata per un prossimo articolo, ma adesso qui cercherò di rispondere alle sue domande. Non conoscendo ulteriori dettagli e basandomi quindi solo su quanto da lei riferito provo ad azzardare un’ipotesi parlandole di lipedema. Il lipedema è una malattia cronica del metabolismo lipidico che provoca un accumulo di grasso nel tessuto sottocutaneo circoscritto e simmetricamente localizzato che comporta un aumento sproporzionato del volume, prevalentemente nelle aree dei fianchi, natiche e gambe fino alle caviglie. In alcuni casi si manifesta anche nelle braccia. Il lipedema non è una conseguenza dell’obesità o del sovrappeso, non è infatti un eccesso di tessuto adiposo da sovralimentazione ma è una condizione alterata degli adipociti (le cellule del tessuto adiposo). Vi è infatti una iperplasia e ipertrofia delle singole cellule adipose. In poche parole le cellule del grasso diventano più grosse e si moltiplicano pure in maniera anomala. I vasi sono permeabili e fragili. Di conseguenza, il fluido entra nel tessuto connettivo e di supporto, il che spiega anche la tendenza agli ematomi.
Informazioni
Bibliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice.
Il grasso del lipedema contiene fibrosi, macrofagi (sistema immunitario) ingrossati e proliferati e valori spesso aumentati di interleuchina, che è indice di infiammazione. Un’altra differenza è che nella persona obesa il grasso si trova in tutto il corpo. In questo caso il grasso si presenta agli arti risparmiando mani e piedi. È molto comune ma ancora piuttosto sconosciuto e può causare dolore, gonfiore e lividi agli arti. L’intensità del dolore può variare molto, dal nulla al grave come pure la frequenza: costante o a momenti. Le cause sono poco conosciute, si pensa possano essere legate a momenti legati ai cambiamenti ormonali come la pubertà, la menopausa e la gravidanza. Sono in corso altre ricerche per capire se esiste un ruolo genetico, di infiammazione o di altro nello sviluppo della condizione. Non esistono test diagnostici definitivi e purtroppo può essere confusa appunto con l’obesità o altre malattie, tipo insufficienza venosa cronica. Il problema è che comunque può essere presente anche in questi pazienti, rendendo ancora più difficile diagnosticarlo e aiutare chi ne soffre. Attualmente l’unico modo per diagnosticarlo è far eseguire un esame fisico da un medico qualificato con un’anamnesi della storia medica del paziente. Effettivamente il grasso causato dal lipedema non può essere perso semplicemente riducendo le calorie e facendo esercizio, e questo lei, purtroppo, lo ha vissuto e lo vive sulla propria pelle. Cosa c’è di nuovo? Forse una maggiore sensibilizzazione. Ad oggi si consiglia di affrontare il lipedema in maniera multidisciplinare. Gli esperti consigliano in generale di praticare esercizio fisico quotidiano da leggero a moderato in combinazione con una dieta antinfiammatoria, tecniche per migliorare il flusso linfatico (massaggi, tecniche di respirazione mirate), supporto psicologico ed eventualmente uso di medicamenti. Il mio consiglio è di rivolgersi al proprio medico di famiglia, parlarne e trovare assieme un team che vi possa dare un supporto per migliorare la condizione o almeno per fare in modo che non peggiori. Sebbene la chirurgia, come la liposuzione, possa essere utile per alcune persone a gestire il dolore e migliorare la mobilità, la decisione di sottoporsi a un intervento chirurgico non deve essere presa alla leggera e dovrebbe sempre essere presa in collaborazione con un medico qualificato. Questo trattamento è in grado di rimuovere effettivamente il grasso ma purtroppo non è una risposta a lungo termine a questa malattia. Spero di esservi stata in un qualche modo di aiuto. Siete una famiglia, potrete affrontare assieme il tutto e farvi forza a vicenda. È bene parlarne e soprattutto focalizzarsi sulla causa piuttosto che soffermarsi sull’aspetto esteriore, cosa che comprendo e che so essere ben difficile. Vi muovete e mangiate sano: questo basti a suggerirvi che state già, concretamente, facendovi del bene.
I nostri figli subiscono il predominio di precisi canoni estetici. (pxhere.com)
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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ambiente e Benessere
dormono sulla collina
Sulla via del buddismo
di cimiturismo
letture per viaggiare
Viaggiatori d’occidente La ricerca dei cimiteri abbandonati è un’affascinante forma
Bussole Inviti a
Claudio Visentin Poco dopo Bobbio (Piacenza) la strada si restringe e sale lungo il fianco della montagna, fino al paese di San Cristoforo, un pugno di vecchie case in pietra nascoste tra i boschi. Già da lontano svetta una casa-fortezza dalle mura arrotondate, costruita in età longobarda (VII secolo), dai monaci di San Colombano. Il proprietario è felice di aprirci le porte; mi aggiro tra cantine piene di oggetti polverosi, antichi depositi per le merci e una cucina d’altri tempi. Mantenere la meravigliosa dimora con risorse ridotte è una lotta quotidiana, ma una leggera trascuratezza aggiunge solo bellezza all’insieme. La nuova chiesa invece è poco interessante; ha sulle spalle poco più di un secolo (1910), un’inezia da queste parti. M’incammino allora per un sentiero tra i campi che conduce a una cascata di acque termali, utilizzata dai monaci al tempo delle epidemie di peste. Il ronzio delle api è incessante, l’odore forte dei fiori e delle erbe (soprattutto l’origano selvatico) quasi stordisce con la sua intensità. In questi prati i monaci coltivavano e raccoglievano erbe medicinali e aromatiche per l’erboristeria dell’Abbazia; mille anni dopo i discendenti inselvatichiti di quelle essenze sono ancora parte del paesaggio.
«...tra gli alberi scorgo un basso muretto di cinta e un portone in ferro socchiuso, sormontato da un arco» A circa un chilometro dal paese il sentiero si triforca. Si capisce che la via centrale conduce alla cascata, ma le altre due dove porteranno? Assecondo la mia curiosità e prendo a sinistra, Dopo poche decine di metri il cammino finisce in uno spiazzo circolare. Sembra di essere nell’abside di una chiesa, un tempio naturale, dove i muri però sono alberi. Un momento… Tra il terreno affiorano alcune pietre antiche e da un buco sotto un cespuglio s’intravede quella che doveva essere la cripta. Dunque questa era davvero una chiesa, quella che in paese chiamano la chiesa vecchia! Ma se queste sono le rovine della chiesa − penso tra me − allora l’altro ramo del sentiero deve condurre al cimitero. I morti non si allontanavano mai dall’ombra protettrice dei santi.
«Un’immensa statua del Buddha sdraiato sul fianco destro e rivolto a ovest. Una lunga coperta color zafferano avvolge il suo corpo, offrendo allo sguardo solo il viso e i piedi, sui quali si distingue il segno della ruota della Legge. Alcuni pellegrini si inginocchiano intorno a questa statua collocata in alto. Siamo a Kushinagar, il luogo del parinirvana, dell’“estinzione”, il luogo in cui, stando ai testi, il Buddha lasciò questa vita, in un boschetto d’alberi di sal. Duemilacinquecento anni dopo, mi unisco alla processione che gira intorno alla statua dorata del V secolo, lunga più di sei metri…».
Il cimitero perduto di Bobbio (Piacenza). (Claudio Visentin)
Torno al trivio e continuo verso destra. Si sale per un prato e il sentiero presto si perde. Poi d’improvviso tra gli alberi scorgo un basso muretto di cinta e un portone in ferro socchiuso, sormontato da un arco. Entro nel piccolo cimitero abbandonato. È un ambiente raccolto e familiare. Ci sono ancora semplici croci di legno conficcate nel terreno e alcune lapidi, spesso inclinate. Non ci sono fiori freschi; probabilmente non c’è più nessuno in vita che abbia conosciuto chi è sepolto qui. Una manciata di cognomi si rincorre dall’una all’altra sepoltura. Le ultime risalgono agli anni Cinquanta. E tuttavia, nonostante siano passati soltanto settant’anni, le fotografie rigorosamente in bianco e nero e gli epitaffi composti raccontano un altro mondo, lontanissimo dal nostro. Sono vite intessute di sacrificio, fatica e dolore, come nel caso di Maria S., morta nel 1922 a 58 anni, «dopo lunga e penosa malattia sopportata con serena rassegnazione». Anche Angiolina P., poco distante, è morta nel 1952 a soli 49 anni. Agostino T., mancato nel 1888, doveva essere anche più giovane se lasciò dietro di sé «due pargoletti» e una vedova che avrà faticato per crescerli da sola. Al di là dei destini individuali, la vita di ognuno è inscritta dentro un orizzonte di valori condi-
viso: Patria, famiglia, lavoro, religione. Luigi P. è morto nel 1931, d’anni 77; nella foto ha l’abito della festa, il cappello, il volto serio con baffi imponenti. È sepolto insieme alla moglie Maria T., i capelli grigi raccolti nella crocchia, l’abito nero del lutto. Infatti l’unico figlio Paolo è ricordato in una lapide lì accanto: morì sul Carso «da pio cristiano e prode soldato» nel novembre 1915 e il suo corpo non fu mai trovato. Vigila «il confine ingrandito d’Italia», ma forse avrebbe preferito tornare al suo paese tra i monti e sposare una compagna d’infanzia. È facile immaginare quanto questo dolore debba aver pesato sugli ultimi anni di vita dei suoi genitori. Questa piccola Spoon River d’Appennino (il riferimento obbligato è Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, 1915) è un buon esempio di quanto possa essere coinvolgente la ricerca dei cimiteri abbandonati, una variante sempre più popolare del cimiturismo, o turismo nei cimiteri. I camposanti dei piccoli paesi d’Appennino come San Cristoforo, dove le tombe più antiche convivono accanto a quelle più recenti, sono perfetti per queste esplorazioni ma l’esperienza è possibile quasi ovunque, anche nelle valli del nostro cantone, ci scommetterei. Niente dura per sempre. Col pas-
sare degli anni le tracce dei cimiteri diventano sempre più tenui, man mano che la vegetazione ricopre le tombe, tanto che a volte solo dalle immagini satellitari di Google Maps è possibile riconoscere il caratteristico spazio rettangolare di un antico cimitero perduto. La ricerca dei cimiteri abbandonati è un viaggio alla portata di tutti, richiede solo abiti adatti (pantaloni lunghi e camicie con le maniche), scarponcini e molta cautela. Per esempio non frugate senza guanti tra le lapidi, qualche rettile pericoloso potrebbe essere nascosto in un anfratto. E fate attenzione naturalmente a saggiare il terreno prima di appoggiare i piedi tra le sterpaglie: potreste finire in una fossa con sicuro effetto drammatico ma anche molto spavento. Naturalmente non si tocca nulla e non si porta via nessun souvenir, per quanto a volte sia difficile resistere alla tentazione; ci si limita a scattare fotografie e copiare lapidi. Nel dubbio applicate le regole dell’Urban Exploration (Urbex), ovvero il codice di condotta di chi esplora luoghi abbandonati: case, fabbriche, cunicoli ecc. Non c’è nulla di macabro o trasgressivo nella visita dei cimiteri abbandonati. Semmai un delicato senso di vicinanza tra generazioni presenti e passate, tra i vivi e i morti.
Lo scrittore francese Marc Tardieu a ventidue anni ha abbracciato il buddismo della scuola di Nichiren, riformatore giapponese del XIII secolo, trovandovi un porto sicuro dalle inquietudini del mondo. In questo piccolo libro racconta un pellegrinaggio attraverso i luoghi sacri del buddismo, naturalmente a piedi, seguendo letteralmente le orme dell’illuminato: Lumbini, il luogo della sua nascita, il Picco dell’Aquila, dove rivelò l’eternità della vita, Vaishali, dove il Buddha pronunciò il suo ultimo sermone… In margine ai viaggi la differenza tra le diverse anime del buddismo è spiegata con grande chiarezza. La morte del Buddha fu solo l’inizio di un altro cammino, poiché i suoi insegnamenti si diffusero in ogni direzione: nella variante Theravada conquistarono il sud dell’India per poi proseguire verso est (Sri Lanka, Laos, Birmania, Thailandia e Cambogia), mentre il «Grande Veicolo» prese la via del nord diffondendosi in tutta la Cina e successivamente in Corea e Giappone, per poi ridiscendere verso il Vietnam. E tuttavia – come scopre Tardieu – alla fine il vero incontro col Buddha avviene ogni giorno per strada, nella metropolitana, al lavoro, in famiglia. La terra del Buddha è nei luoghi delle nostre faticose, preziose prove quotidiane. / CV Bibliografia
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ambiente e Benessere
cento coccinelle
entomologia Qualcuno la chiama Gallina di San Pietro altri la reginetta della Madonna – Prima parte
Alessandro Focarile La coccinella ha attirato dalla notte dei tempi la simpatia dei popoli. Attribuendole, spesso, delle proprietà magiche, e anche il ruolo di messaggero divino, essa ha trovato le sue espressioni nei nomi vernacolari e popolari. In generale, raramente gli insetti riscuotono la benevolenza delle persone. Gli insetti pungono (come le zanzare e i tafani), mordono (come le formiche e i càrabi), emanano odori sgradevoli (come le cimici). Insomma, è meglio starne alla larga sebbene abitino ovunque. Ma, quanta attitudine benevolente attira una coccinella che passeggia innocua su una mano, in cerca continua di un afide da predare. Un britannico ha avuto la pazienza di raccogliere e pubblicare (1989) un elenco dei nomi delle coccinelle in 230 lingue e dialetti sparsi in tutto il Mondo: Bozjavka korovokva in russo (vaccherella di Dio), Marienkäfer in tedesco (coleottero della Madonna), Ladybird in inglese (uccello della Madonna), Bestiôle du Bon Dieu in francese. Nel Repertorio dei dialetti della Svizzera di lingua italiana (Bellinzona 2012) sono elencati ben 18 nomi vernacolari riferentisi alla coccinella, sparsi in tutto il Ticino, la Mesolcina, la Bregaglia e la Poschiavina (galinèta in dal Signor, galina du san Pédr, poiora dal Signor, reginéta dala Madòa, bòu del paradis) A cavallo del 1750, il sommo studioso svedese Carlo Linneo (1705-1778) fondatore della sistematica (la scienza che studia la classificazione e l’ordinamento gerarchico di tutti gli esseri
viventi vegetali e animali) descriveva nel suo Systema Naturae venti specie di coccinelle, tra le quali la più nota coccinella con sette punti, emblematica della famiglia. Questa è ripresa in migliaia di messaggi pubblicitari a simboleggiare la Natura. È raffigurata anche nelle emissioni di francobolli di molti Paesi, Svizzera compresa. Dopo oltre cento anni, un grande entomologo francese (Étienne Mulsant, 1797-1880) pubblicava una monografia su coccinellidi di tutto il Mondo elencando ben 1800 specie. Attualmente (2019) siamo arrivati a un complesso faunistico di circa seimila specie, a significare l’importanza di questa famiglia nel quadro di tutti i coleotteri attualmente conosciuti a livello mondiale. Nella maggior parte, sono insetti che affezionano i climi caldi. In Europa è evidente un gradiente di impoverimento da sud verso nord: in Italia sono conosciute 135 specie di coccinellidi, in Svizzera 90 specie, nell’Europa centrale 70, per arrivare a 40 entità nella Scandinavia, e all’unica specie che popola i freddi boschetti di salici in Groenlandia. Le coccinelle vivono sui vegetali con temperature varianti da 15 a 30 gradi centigradi. Li frequentano sia come consumatrici primarie cibandosi delle foglie, sia dei microfunghi che crescono sulle mielate prodotte dagli afidi (fumaggini) su alcuni alberi come gli aceri e i tigli, sia dandosi al cannibalismo predando le proprie uova e larve. Sono principalmente esseri afidofagi, essendo note 200 specie di afidi consumati dalle coccinelle. Questi ultimi
Coccinella 7-punctata. (Gailhampshire)
sono insetti primitivi, conosciuti anche dall’ambra del Mare Baltico (35-40 milioni di anni or sono), che hanno conservato il loro ancestrale apparato boccale succhiante linfa dei vegetali (foglie, fiori, radici). Sono presenti in tutto il Mondo eccettuato l’Antardide, e con popolazioni di astronomiche dimensioni, e spesso con cicli biologici complicati, passando tra specie vegetali differenti nel corso della loro vita. È stato calcolato che la comune coccinella con sette punti può divorare ben 5800 afidi nel corso della sua vita (Lablokoff-Khnzorian 1982). Da qui deriva il decisivo contributo delle coccinelle impiegate nella lotta biologica (insetto contro insetto). Da oltre 150 anni questi preziosi ausiliari dell’uomo sono riutilizzati nella protezione delle colture agrarie e forestali. Fin dal 1830 due entomologi in-
glesi (Kirby e Murphy) consigliavano ai loro conterranei contadini di impiegare le ladybirds per la protezione delle colture di luppolo necessarie per la produzione della birra. Nel 1910, l’entomologo italiano Filippo Silvestri introduceva in Sicilia il Novius cardinalis originario dell’Australia, per la lotta nelle colture di agrumi, e con pieno successo. Ma non sempre i risultati ottenuti coronano le auspicate aspettative, come apprenderemo dalla storia qui narrata. Verso la fine del 1700, un avventuroso e capace naturalista esploratore, il berlinese Simon Pallas, nel corso di una spedizione in Siberia, scopriva centinaia di nuove specie di animali e di piante prima sconosciute. Tra gli insetti, una graziosa coccinella. Tornato a Pietroburgo, Pallas faceva seguire la descrizione in latino, come usava all’epoca di Carlo Linneo. Poi questa nuova specie,
battezzata Coccinella axyridis dal nome della pianta sulla quale era stata trovata, venne segnalata anche in Cina, in Corea e fin nel Giappone, Successivamente, gli americani la introdussero in California e si espanse rapidamente in tutto il Nord America. In epoca attuale, la coccinella siberiana è stata introdotta in Europa (Olanda, Germania, Francia), ed essendo un’ottima volatrice, è giunta più o meno accidentalmente fino in Svizzera e in Italia. In Ticino è comparsa nel 2006 a Faido (Leventina). È stato subito rilevato che questo coleottero non è soltanto un prezioso ausiliario nella lotta biologica, ma è anche un temibile antagonista delle coccinelle nostrane divorando uova e larve, essendo molto prolifico (fino a tre generazioni all’anno), aggressivo e con ampie capacità di diffusione. Attualmente Harmonia axyridis è stata segnalata già nell’Europa orientale, da dove in tempi brevi farà un ultimo salto verso «na Vostok» (Oriente). Qui incontrerà, dopo due secoli, i suoi parenti ritrovati: un periplo di oltre 35mila chilometri intorno alla Terra. Nel frattempo, verrà considerata dagli entomologi fitopatologi non solo un prezioso ausiliario, ma anche una «autentica peste». Bibliografia
S.M. Jablokov-Khnzorian, Les Coccinelles, Editions Boubé, Paris 1982, 588 pp. Ivo Hodek e Alois Honek, Ecology of Coccinellidae, Kluwer Academic Publishers. (Bos-ton-London 1995), 464, pp. Annuncio pubblicitario
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ambiente e Benessere
uno spezzatino cheesecake alled’agnello fragole speciale
Migusto La ricetta della settimana
Piatto dessert principale Ingredienti per per4circa persone: 6 pezzi: 800 g 160 di spezzatino g di mandorle d’agnello, a scaglie ad esempio · 70 gspalla di burro · sale · ½ pepe limone · 2 cucchiai · 150 gd’olio di savoiardi di colza· 5HOLL fogli di · 4gelatina spicchi d’aglio · 1 dl di · 2latte cipolle · 250 grosse g di·quark 8 pomodori semigrasso secchi sott’olio nature · ·300 ½ cucchiaio g di formaggio di farina fresco, · 4ad dl esempio di brodoPhiladelphia di manzo · 50 · 50g gdidiolive zucchero nere asnocciolate velo · 400 ·g4difette fragole. di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Foderate Condite la una carne tortiera con asale cerniera e pepe con e rosolatela carta da forno. bene Tostate nell’olioleinmandorle una padella. e lasciatele Dimezzate raffreddare. l’aglio, tritate Fate grossolanamente fondere il burro le a fuoco cipolle.basso. Aggiungete Grattugiate aglio,lacipolle scorzae del pomodori limonealla e spremete carne, spolverizzate il succo. Tritate confinemente la farina ei bagnate savoiardicon e leilmandorle brodo. Mettete in un tritatutto, il coperchio poi e stufate mescolate a fuoco le briciole medio-basso con il burro, per circa il succo 50 minuti. e la scorza Lasciate diillimone. coperDistribuite chio leggermente la massa aperto sul fondo per permettere della tortiera, al vapore compattate di fuoriuscire bene e mettete dalla padella, in frigo. in 2. modo Fateche ammorbidire il liquido si la riduca. gelatina in acqua fredda per circa 5 minuti. Scaldate il latte 2. Tagliate in unalepentola. olive e iEstraete cipollottilaagelatina rondelledall’acqua sottili, il prosciutto e strizzatela a dadini. bene, poi Ricavate fatela sciogliere delle listarelle nel latte, dallamescolando. scorza del limone. Togliete Mescolate la pentola tutto. dal fuoco. 3. Spremete Mescolatelailmetà quark delcon limone. il formaggio Conditefresco lo spezzatino e lo zucchero. con il succo Mescolate di limone, un po’sale di formaggio e pepe e distribuite con il latte, la gramolata poi unite sulla tutto carne. il latte al resto del formaggio. Tagliate un quarto delle fragole a fette e distribuitele sul fondo di biscotti, versate il composto Unformaggio piatto gustoso che può essere accompagnato con pasta o semplicemente con di e latte, livellate, coprite e lasciate riposare in frigo per circa 3 ore. fette di pane.con cura la torta. Tagliate le fragole rimaste a fettine sottili, distribu4. Sformate itele sulla torta e servitela subito. Preparazione: circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: circala47torta g di con proteine, g di grassi, 13 di g di carboidrati, A piacere, guarnite zeste 27 di limone e fiori fragola. 520 kcal/2150 kJ. Preparazione: circa 30 minuti. Refrigerazione: circa 3 ore. Per persona: circa 14 g di proteine, 30 g di grassi, 38 g di carboidrati, 480 kcal/2000 kJ.
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ambiente e Benessere
Ci sono muri e muri
Sport Dalla Nazionale di hockey bloccata dalla Germania, al ritiro di Roger Federer e Naomi Osaka
al Roland Garros Giancarlo Dionisio
Avrei voluto scrivere una puntata monografica sulla Nazionale svizzera di hockey, convinto che il suo percorso ai Mondiali sarebbe stato più lungo e luminoso. Siamo comunque vicini all’élite. Questione di piccoli dettagli, centimetri, secondi. Tuttavia, il muro tedesco ci ha respinti. Ripongo trombe e tamburi in solaio. Magari per rispolverarli presto e inneggiare a un nuovo trionfo di Roger Federer a Wimbledon. L’asso basilese ha scelto volontariamente di lasciare il Roland Garros dopo tre vittorie: «Dopo i due interventi al ginocchio destro e oltre un anno di riabilitazione, devo ascoltare il mio corpo». Il muro se l’è creato lui. Saggio, direi. Sulla via del completo recupero. Il Torneo parigino non è stato certo avaro di spunti, anche exratennistici. Mi ha colpito molto il ritiro della giapponese Naomi Osaka. La numero due al mondo si è rifiutata di presentarsi alla conferenza stampa prevista dal protocollo, dopo il suo successo nel primo turno. La giuria le ha inflitto una multa di 12’300 euro, pena la squalifica, qualora il fatto si fosse ripetuto. Naomi ha preferito anticipare i tempi, ha fatto la riverenza, e ha tolto il disturbo. Ha annunciato il suo ritiro sui social, non prima di avere avvertito gli organizzatori con una lettera in cui scriveva che «non avrebbe partecipato ad alcuna conferenza stampa post-match, per non intaccare la propria salute mentale». Sui social ha quindi aggiunto: «Non
era questa la situazione che avevo intenzione di creare. Adesso, credo che la cosa migliore per il torneo, per gli altri giocatori e per la mia salute, sia che io mi ritiri, così che tutti possano tornare a concentrarsi sul tennis (…) non avrei mai voluto banalizzare il tema della salute mentale o usare questa espressione alla leggera». Sono parole che denotano al tempo stesso maturità, coraggio e disagio. Lo sport di alto livello è una potente macchina con degli ingranaggi che possono stritolare, anche se il suo funzionamento è d’una semplicità disarmante. Sei forte e dotato, lavori sodo, vinci. Il pubblico ti inneggia, i media ti richiedono. Gli sponsor ti corteggiano perché restituisci loro visibilità. Quindi guadagni un pacco di soldi. Elementare! Per rudimentale che sia, non ammette sgarri. Nessuna maglia della catena deve perdere scorrevolezza. Per continuare a guadagnare, l’atleta deve mettersi a disposizione dei media, i quali però lo richiedono, o lo pretendono, solo se vince. Tuttavia egli riesce a dare continuità al suo rendimento solo se lavora durissimamente. Forse è proprio in quest’ultimo aspetto che si cela il disagio di Naomi Osaka. Nell’imprescindibilità di essere costantemente al vertice, cosa tutt’altro che scontata. Anzi, molto costosa, in uno sport in cui c’è un costante livellamento dei valori verso l’alto. Il rischio-stress è elevatissimo. Non è un caso che da anni gli sportivi lavorino con un «mental coach» o con
giochi
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bero nuocere alla salute mentale di chi vi si sottopone. In questo esercizio Roger Federer è un maestro di saggezza e di generosità. La sua giornata agonistica dura almeno un paio d’ore oltre il match, tra tv, radio, online e carta stampata. Ma quando stai male, c’è poco da fare. Devi gettare la spugna. Naomi Osaka è stata sostenuta da
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Sudoku Soluzione:
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Verticali
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1. Si lancia in guerra 7. Sul collo... d’Adamo 8. Arriva in testa... 9. Le iniziali della moglie di Benigni 10. Le spiega anche l’oca 12. Poesie classiche 14. Le iniziali dell’attore Scamarcio 16. Non è sempre legale 18. Indovinello 21. Dio egizio 23. Un giro in Francia 24. Farina di cicerchia 26. Trafila burocratica 28. Le iniziali del conduttore Ruffini 29. Grossi volumi 31. Il pupo di Mascagni 32. Suora di un particolare ordine
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religioso 33. Sono senza cuore
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uno psicologo. La tennista giapponese ha parlato persino di depressione. Nonostante ciò, ha avuto la lucidità per dire stop ed evitare il massacro in una situazione di fragilità. Va detto che le interviste del dopo partita sono sovente un rituale fatto di formule vacue. Fanno parte del meccanismo. Sono anodine. Teoricamente non dovreb-
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Come si chiama la vetta più alta situata interamente in territorio italiano? E sai la sua altezza quanti metri supera? Trova le risposte leggendo, a cruciverba risolto, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 8 – 11)
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Si sono ritirati dal Roland Garros, sia Federer sia Osaka. (Pixabay.com)
un difensore eccellente. Lewis Hamilton, sette volte campione del mondo di Formula 1, paladino della lotta contro le discriminazioni, ha accusato coloro che detengono il potere nel tennis. «È il momento di rimettere tutto in questione: Non è corretto infliggere una sanzione a qualcuno che ti sta dicendo di avere un problema psicologico (…) spero che in futuro chi prende certe decisioni possa fare una grossa introspezione per trovare altri mezzi che siano più rispettosi della sensibilità delle persone». Come dargli torto sul piano umano? Tuttavia è difficile ipotizzare soluzioni «à la carte», in cui ognuno si comporta come meglio crede. Ne andrebbe del buon funzionamento del meccanismo «successo-visibilità-soldi», senza il quale, il monte premi del Roland Garros, sarebbe nettamente inferiore agli attuali 17 milioni di euro. Il problema, credo si annidi soprattutto nell’esagerazione, nell’esasperazione, nell’iperbole. Alla base di una qualsiasi attività lavorativa, non ci dovrebbe essere soltanto la ricerca della prestazione. Concetti come piacere, serenità, gioia di fare sono indispensabili, oltre, evidentemente, alla gratificazione pecuniaria. Vale per la numero due del tennis mondiale. Vale per la numero cento. Vale per tutti. Probabilmente è anche per questa ragione che, a quarant’anni suonati, Roger Federer continua a giocare, anche se non domina più la scena. Guadagna del denaro, certamente, ma, stando a quanto dichiara, si diverte ancora un sacco.
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
1. Le iniziali dell’attrice Pession 2. Il cantante Rosalino Cellamare 3. Due numeri sulla stessa ruota 4. Un avverbio 5. Il de’ tali... 6. Aspetto, sembianza 10. Massiccio del Niger 11. Tessuto di pregio 13. Nome maschile 15. Il Ringo dei Beatles 17. Corpuscoli di materia 18. Avverbio di luogo 19. Collisioni 20. Spadaccino mascherato 22. Fanno coristi in crisi... 25. Preposizione articolata 27. Dea greca dell’aurora 30. Preposizione Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Soluzione della settimana precedente
AL FUOCO! – Curiosità risultante sui pompieri: I CANI DALMATA SONO LE LORO MASCOTTE. T A S C A
I N L O I A L A
C A I M A N O L R I R E V M O I L E E T
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Politica e economia Verso la tassazione globale Un prelievo minimo del 15% sui profitti delle multinazionali è un progresso. Restano però aperte delle domande pagina 25
Quelle olimpiadi maledette Dovevano essere i Giochi della ripresa e del rilancio del Giappone sulla scena internazionale ma il sogno è stato infranto dalla pandemia
Harris in centroamerica Il significato della prima missione all’estero della vicepresidente americana
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ambigua sovranità Intervista a Thomas Cottier sul concetto di sovranità nazionale e sulle relazioni con l’Unione europea
pagina 29 Bibi Netanyahu, padre padrone di Israele per almeno dodici anni, è in seria difficoltà. (Keystone)
Israele a rischio disintegrazione
Prospettive Le violenze scoppiate fra ebrei e arabi di casa nonché la creazione di una coalizione anti-Netanyahu
che comprende un partito vicino alla Fratellanza musulmana mostrano quanto siano fragili gli equilibri interni Lucio Caracciolo La questione palestinese è congelata. È invece esplosa, inattesa, la questione israeliana. In discussione sono coesione e carattere dello Stato ebraico. L’esito davvero rilevante della «guerretta» degli undici giorni fra Hamas e Israele è questo. Perché il periodico, tragico scambio di missili fa parte ormai delle abitudini consolidate nella competizione consociativa fra Israele e Gaza. Per gli strateghi israeliani si tratta di «falciare l’erba» periodicamente, sapendo che dopo pochi giorni si tornerà alla situazione di partenza, o quasi. Con centinaia di morti e di feriti soprattutto palestinesi ma anche israeliani. Sullo sfondo delle devastazioni missilistiche reciproche, a Gerusalemme e in alcune città miste di Israele – ovvero località in cui convivono arabi ed ebrei – sono scoppiate violenze gravi. Protagonisti giovani estremisti arabi ed ebrei. Pretesto, lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di
Sheikh Jarrah a Gerusalemme est – la concentrazione araba nella città contesa – sulla base di una legge che permette a famiglie ebree di rivendicare il possesso di edifici appartenuti ai loro avi. Insieme a disordini scoppiati nelle aree più sacre della Città vecchia, attorno al Monte del tempio (al-Haram alSharif), questi scontri hanno assunto un tale grado di violenza da far gridare alcuni leader israeliani alla «guerra civile». Esagerazioni, frutto anche del carattere del tutto inatteso degli eventi. Ma allo stesso tempo segno di quanto acute siano le questioni identitarie che serpeggiano da sempre in Israele. Si dava infatti per scontato, fino a ieri, che gli arabi israeliani fossero abbastanza integrati nello Stato ebraico. In quanto più affezionati ai privilegi offerti comunque da Israele ai suoi cittadini, ben superiori a quelli fruibili sotto l’Autorità nazionale palestinese tuttora affidata alla senile guida di Abu Mazen e ai traffici delle mafie che vi imperversano. Improvvisamente scopriamo
che quegli arabi si sentono palestinesi, e come tali si rivoltano. E che i loro parenti d’Oltremuro, in Cisgiordania e a Gaza, tendono a solidarizzare con la ribellione degli arabi israeliani (meglio arabi in Israele). Ulteriore paradosso vuole che in quei giorni di piccola guerra e di ben più rilevante sommossa si formi e consolidi una coalizione di tutte le forze di opposizione al premier Bibi Netanyahu, padre padrone di Israele per almeno dodici anni, nella quale un partito arabo israeliano è direttamente coinvolto (Ra’am). Tale partito appartiene alla galassia della Fratellanza musulmana. Dunque alla stessa organizzazione-ombrello di Hamas. Mentre l’esercito israeliano bombarda Hamas a Gaza, politici israeliani ebrei negoziano e concludono un accordo di Governo con una filiazione di Hamas nel nome del principio «dentro tutti, fuori Netanyahu». Vedremo nei prossimi giorni se questa acrobatica operazione, che coin-
volge partiti di sinistra, centro e destra anche estrema porterà alla formazione di un nuovo Governo sostenuto dal partito arabo Ra’am. Certo che questo evento sarebbe conferma della confusione che regna nell’establishment di Israele. Gli eventi di maggio, tutt’altro che sedati, svelano il carattere tribale dello Stato ebraico. Segnalato nel 2015 dallo stesso presidente Reuven Rivlin (uscente ai primi di luglio) nell’ormai famoso discorso delle «quattro tribù». Rivlin vi segnalava il rischio di disintegrazione dello Stato ebraico, causa la sua variegata composizione etnico-religiosa. Di base circa due milioni di arabi convivono con oltre sette milioni di ebrei. Ma fra gli ebrei si consolidano, al di là delle partizioni classiche (ashkenaziti e sefarditi, per citare la principale, storica), quattro diverse tribù. Le quali hanno fra loro poco a che spartire. Esse si basano su quattro sistemi di istruzione primaria che non hanno molto in comune. Si tratta in primo luogo degli
ebrei secolari (laici), che valgono circa il 38 per cento della popolazione. A seguire gli ebrei ultraortodossi (haredim), con il 25 per cento, e i nazionalreligiosi (15 per cento). Infine gli scolari arabi che le proiezioni danno presto vicini a rappresentare un quarto del totale. Verso la metà del secolo questi gruppi dovrebbero dividersi paritariamente (attorno al 25 per cento ciascuno) i giovani studenti israeliani. Lo Stato ebraico ha fatto della lotta permanente per sopravvivere il suo marchio identitario. Ma senza una pedagogia nazionale, comune a tutti, difficile che possa darsi quel grado di coesione necessario a tenere insieme, compatto e combattivo, il fronte interno nel momento in cui scoppiasse una guerra vera. È per questo che Israele prende molto sul serio la sequenza di violenze fra ebrei e arabi di casa. La linea rossa che preserva la coerenza al suo interno è meno netta di prima. Un’incertezza che lo Stato ebraico non può permettersi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Politica e economia
la svolta della tassa minima globale economia L’accordo raggiunto al G7 su un prelievo di almeno il 15 per cento sui profitti delle multinazionali
rappresenta un successo atlantico che premia il metodo di Joe Biden. Rimangono però diversi punti interrogativi
Federico Rampini L’accordo di principio del G7 sulla global minimum tax (tassa minima globale) è un successo atlantico, che premia il metodo di Joe Biden. Al suo primo viaggio in Europa il presidente americano già esibisce i vantaggi concreti di una politica estera attenta alle alleanze e rispettosa dei Paesi amici. Armonizzare le tasse sulle multinazionali, chiudere gli spazi dell’elusione legale, è essenziale per le strategie economiche di Biden e anche di molti alleati europei. La «concorrenza al ribasso» tra Stati per attirare i grossi investitori in casa propria ha regalato privilegi esorbitanti ai «grandi» del capitalismo, accentuando le disuguaglianze sociali. Il fisco si è accanito sul ceto medio per rivalersi dell’imponibile perduto altrove. Adesso Biden ha bisogno di recuperare entrate per finanziare i piani avveniristici del suo New Deal, dalla modernizzazione delle infrastrutture alla gara tecnologica con la Cina, dall’equità sociale alla lotta contro la crisi climatica. Il presidente vuole «giocarsi» l’accordo del G7 con l’opposizione
repubblicana al Congresso per tentare di smussare le resistenze a un aumento delle tasse sulle imprese. Quel 15 per cento di prelievo minimo ad alcuni sembra troppo poco, e lo è davvero se si paragona con le aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche nel caso dei ceti medi o delle piccole imprese. Ma è un progresso enorme rispetto alla realtà attuale. Biden ha già offerto ai repubblicani di sacrificare quell’aliquota del 28 per cento sui profitti delle imprese che aveva annunciato nei suoi programmi. La realtà è che le aliquote nominali di cui si discute sono solo teoriche. Tra sgravi, deduzioni, detrazioni, agevolazioni, il vero carico fiscale delle grandi imprese americane è dell’ordine dell’8 per cento. Quelle che parcheggiano profitti in paradisi esteri come l’Irlanda pagano dal 2 per cento in giù. Se s’introducesse davvero un «pavimento» minimo condiviso del 15 per cento, gli Stati vedrebbero un recupero di gettito dell’ordine di centinaia di miliardi. Sul piano politico il metodo Biden rappresenta un rilancio delle democrazie. L’accordo è maturato tra i Paesi oc-
cidentali più il Giappone, che condividono sistemi politici e valori. Andrà poi condiviso in seno al G20 che rappresenta l’80 per cento del Pil mondiale, dove sono rappresentate anche le maggiori economie emergenti, e tanti regimi autoritari. Sarà un test interessante, vedere se la Cina vorrà sfilarsi e diventare la nuova capofila dell’elusione per le grandi imprese. Ha già un paradiso fiscale nell’isola di Hong Kong e, in generale, anche sul resto del suo territorio ha una pressione delle imposte inferiore ai Paesi occidentali. Per non celebrare prematuramente la svolta, bisogna ricordare che le leggi sulle imposte restano di competenza nazionale, vanno ratificate dai Parlamenti, vanno applicate dalle Amministrazioni di ciascun Paese. L’Unione europea dovrà riuscire a disciplinare i suoi paradisi (o pirati) interni come Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Ungheria, Malta e Cipro. Stati uniti e Ue dovranno saper estendere la stessa armonia alla digital tax (imposta applicata a priori sui redditi delle multinazionali operanti nel settore digitale o che facciano comun-
Veduta di Hong Kong, noto paradiso fiscale. (Shutterstock)
que ricorso a servizi digitali nello svolgimento delle loro mansioni) dove le asimmetrie sono perfino più accentuate: Big tech è concentrato nella Silicon Valley o a Shanghai, l’Europa è stata colonizzata dai colossi digitali americani o cinesi. Fra le due sponde dell’Atlantico devono maturare regole comuni su come attribuire geograficamente la base imponibile di gruppi come Amazon, Google, Facebook, che finora hanno avuto troppe libertà nell’assegnare fatturati e profitti ai territori dove ci sono meno tasse.
Le leggi sulle imposte restano comunque di competenza nazionale, vanno quindi ratificate dai Parlamenti Un rischio lo corrono anche i Governi progressisti come quello di Biden. Una volta affermato il principio che i colossi transnazionali devono pagare di più, e avendo così agitato il bastone, viene sempre il momento della carota. Gli stessi big del capitalismo si vedono offrire sgravi e deduzioni se investono nelle energie rinnovabili, o nella giustizia sociale e razziale. L’elusione combattuta ufficialmente viene ripristinata in tanti modi e le lobby sanno negoziare bene queste partite. Purtroppo l’alleanza fra l’establishment capitalistico americano e il partito democratico è una realtà da molti anni, non bisogna illudersi che di colpo le aziende multinazionali abbiano perduto ogni rappresentanza politica su quel fronte. L’escamotage sarà proprio quello di convogliare investimenti «virtuosi» che piacciono alla sinistra per negoziare nuovi trattamenti di favore. Resta intatta l’importanza dell’accordo al G7, per dimostrare che l’Occidente – insieme con il Giappone – può ancora avere un ruolo propulsivo per stabilire regole del gioco mondiali più giuste. Comunque le obiezioni alla global minimum tax continueranno ad affollare il dibattito pubblico. C’è una corrente
radicale, sempre ben rappresentata nei media, secondo la quale questo accordo al G7 sarebbe addirittura un «regalo» ai veri paradisi fiscali. Secondo questa tesi un’armonizzazione delle tasse decisa tra Paesi occidentali finirebbe per spingere ancora di più le mega-imprese verso sedi esotiche. Ho citato Hong Kong ma ci sono anche diverse isole nei Caraibi, Caimane e British Virgin Island per esempio, oppure Panama. Ma il grosso dell’elusione fiscale, almeno per quanto riguarda i supercolossi del capitalismo americano, avviene trasferendo profitti in sedi come l’Irlanda, dove queste aziende hanno una presenza reale: uffici e dipendenti. È questo che ha consentito a gruppi come Apple e Amazon di minimizzare il prelievo senza che l’Internal revenue service o Irs (l’Agenzia delle entrate del fisco statunitense) potesse obiettare. Sarebbe molto più difficile per loro fare lo stesso gioco con un’isola caraibica. L’Irs avrebbe strumenti legali più potenti per contrastare una fuga verso sedi sociali puramente fittizie. Un altro tema è balzato in primo piano con la rivelazione che molti miliardari – grossi nomi come Jeff Bezos di Amazon, Elon Musk e Warren Buffett – pagano tasse irrisorie. Qui si tratta di imposte sul reddito delle persone fisiche, non della tassa sugli utili societari. È uno scandalo antico: gli straricchi hanno sempre una lunghezza di anticipo sulle autorità fiscali, la fantasia creativa dei loro consulenti è quasi insuperabile. Però sarebbe già un passo avanti colpire meglio la fonte principale della loro ricchezza, che è la distribuzione di dividendi estratti dai profitti delle grandi imprese quotate in Borsa. In questo senso, almeno indirettamente, la global minimum tax andrebbe a togliere qualche cosa anche ai miliardari che sono gli azionisti delle multinazionali. Bisogna evitare il massimalismo, «o tutto o niente». Il progresso si misura dalla capacità di trovare soluzioni parziali, incomplete e imperfette, non dall’aspirazione a rivoluzioni totali, rigeneratrici e purificatrici. Quelle appartengono al mondo dei sogni e talvolta si trasformano in incubi.
Quali gli effetti in Svizzera?
global minimum tax Berna si è già in gran parte adeguata. Restano aperte questioni
quali le trattenute sui brevetti e le misure per compensare la perdita di concorrenzialità fiscale Ignazio Bonoli Con l’accordo raggiunto a inizio giugno a Londra dai ministri delle finanze del G7 per una tassa minima sulle grandi imprese, si è praticamente sbloccata la discussione in seno all’Ocse, di cui anche la Svizzera fa parte. L’improvvisa accelerazione a queste trattative è stata data dalla decisione americana di accettare una tassa minima del 15% sugli utili aziendali delle grandi multinazionali, tra cui e soprattutto i grandi colossi digitali. L’intento dei grandi Paesi industrializzati è anche quello di eliminare le «oasi fiscali» che danno loro parecchio fastidio. Fra queste il presidente Biden ha recentemente incluso anche la Svizzera. E questo benché la Svizzera abbia soppresso nel 2019 i vantaggi fiscali a favore delle holding estere. Del resto, oggi in Svizzera, il tasso medio di imposta per le società è proprio del 15%. Lo stesso che viene applicato anche dal Canton Ticino. In ogni caso, parlando di imposte in Svizzera, bisogna sempre
tener conto della sovranità fiscale dei Cantoni. Così, secondo un’indagine della Kpmg, 18 dei 26 Cantoni e Semicantoni applicano un tasso inferiore al minimo del 15%. Tra i Cantoni più favorevoli, Zugo e Nidvaldo applicano il 12%. In sostanza una riforma applicata nell’ambito dell’Ocse non cambierebbe di molto la situazione. Per questo il responsabile delle Finanze Ueli Maurer, reduce dall’incontro di Parigi del G20 (vedi «Azione» del 26.4.21), all’inizio di aprile, aveva cercato di rassicurare gli interessati svizzeri. Un problema particolare viene però sollevato in Svizzera con la tassazione privilegiata dei redditi da brevetti. Per esempio, nel Canton Zugo, questa imposta potrebbe scendere fino al 9%. La Svizzera, firmando l’accordo dell’Ocse, vorrebbe poter salvare questa particolarità. Ma alla luce dell’accordo di Londra potrebbe esser molto difficile ottenere tassi che scendano sotto il 15%. Le nuove regole si applicherebbero a partire da aziende che realizzano cifre d’affari di almeno 750 milioni di euro.
Le piccole e medie aziende non sarebbero quindi sottoposte al nuovo regime fiscale. Regime che, invece, si applicherebbe a circa 250 aziende in Svizzera, a carattere multinazionale. Ci si chiede quindi a Berna che cosa si possa fare per mantenere in Svizzera queste aziende. Il Dipartimento delle finanze ha creato un gruppo di lavoro che sta valutando la situazione. In realtà, finora, le imposte inferiori compensavano in parte gli alti costi del lavoro. Non solo, ma nel 2018 queste aziende hanno procurato entrate fiscali per 24 miliardi di franchi. Se le nuove regole dovessero aggiungere un punto percentuale al tasso d’imposta medio attuale, ciò significherebbe 1,5 miliardi di maggiori entrate. È perciò pensabile che Confederazione e Cantoni possano prevedere allentamenti fiscali dello stesso ordine di grandezza. Lo specialista fiscale di Economiesuisse vede due possibilità: compensare i maggiori oneri salariali in misura adeguata, oppure sostenere gli sforzi di ricerca e sviluppo con il maggior gettito fiscale realizzato. Lo fanno,
per esempio, Francia e Gran Bretagna al posto di eventuali sussidi diretti. La riforma Ocse prevede però anche un’altra novità: trasferire le maggiori entrate fiscali dal Paese sede a quello in cui le multinazionali realizzano le maggiori cifre d’affari. Qui subentra anche il problema delle vendite per internet, praticata oggi da grandi complessi. Gli americani propongono di sottoporre a questo regime solo le circa cento maggiori e più redditizie aziende del mondo. Anche in Svizzera ci sono aziende come Nestlé, Novartis, Roche che potrebbero essere sottoposte al regime particolare. Gruppi che pagano circa 2 miliardi di franchi all’anno di imposte. Se si applicasse, per esempio, un riversamento del 20%, si tratterebbe pur sempre di alcune centinaia di milioni. Il contrario potrebbe avvenire per multinazionali estere verso la Svizzera. Difficile valutare l’impatto finanziario globale. Il ministro svizzero delle Finanze Ueli Maurer calcola un calo del gettito fiscale tra 0,5 e 5 miliardi
Ueli Maurer non è preoccupato per questa imposta globale. (Keystone)
di franchi. Ma il flusso verso i Paesi di «smercio» potrebbe aumentare, come potrebbe crescere anche il numero delle aziende colpite. Il pericolo è però anche un altro: quello delle perdite di concorrenzialità. La Kpmg non è però pessimista. Molti Paesi manterranno le loro imposte sugli utili al 25% o anche oltre, per cui la Svizzera non avrebbe molto da perdere, tenendo anche conto che il fisco non è il solo fattore per cui un’azienda decide di stabilirsi in un dato Paese, inoltre la riforma Ocse concerne le grandi aziende e non i loro dirigenti. Paesi come la Svizzera non hanno un grande mercato interno e, quindi, devono molto del loro Pil alle esportazioni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Politica e economia Le prime Olimpiadi rinviate della storia saranno anche le più blindate. (AFP)
Biden e Putin: il confronto
diplomazia A Ginevra tanta carne al fuoco
ma poche speranze di riconciliazione Anna Zafesova
dentro la macchina dei giochi maledetti
l’analisi Dovevano essere le Olimpiadi del rilancio del Giappone
sulla scena internazionale poi è arrivata la pandemia Giulia Pompili A chiamarle «Olimpiadi maledette» è stato addirittura uno degli uomini politici più importanti del Giappone. Taro Aso, vice primo ministro del Governo nipponico, le aveva definite così già un anno fa, al tempo del primo rinvio: «È un problema che si verifica ogni quarant’anni. È la maledizione delle Olimpiadi, è un fatto». Il prossimo 23 luglio dovrebbe celebrarsi la cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici estivi di Tokyo, ma la maledizione sembra proseguire. Tutto è ancora da decidere mentre il Giappone affronta la crisi peggiore di contagi da Covid dall’inizio della pandemia. L’evento sportivo più importante del mondo avrebbe dovuto tenersi nella capitale giapponese lo scorso anno, ma poi all’ultimo momento era stato rinviato di dodici mesi nella speranza che i vaccini avrebbero migliorato la situazione. Non è successo.
La netta maggioranza dei giapponesi si dice contraria allo svolgimento della manifestazione Taro Aso è noto sui media internazionali per essere un gaffeur, uno che le spara grosse. Anche commentando le Olimpiadi ha esagerato, evocando forze sovrannaturali che ciclicamente si accanirebbero contro la manifestazione. In realtà le crisi di cui parla Taro Aso sono molto più umane. Già nel 1940 il Giappone avrebbe dovuto ospitare le Olimpiadi estive, ma quei Giochi furono annullati a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Quarant’anni dopo, nel 1980, le Olimpiadi di Mosca furono le più boicottate della storia: una reazione delle Nazioni occidentali contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Ma la crisi iniziata nel 2020 è ancora più umana. Ha messo in mostra i limiti e le difficoltà nell’organizzazione di mega-eventi e ancora di più i limiti della politica nel gestire le emergenze. I Giochi olimpici di Tokyo 2020 (poi 2021) avrebbero dovuto essere quelli della rinascita del Giappone. Il palcoscenico del rilancio del Paese sul-
la scena internazionale dopo vent’anni di stagnazione economica, dopo il sorpasso della Cina come seconda economia del mondo e poi la triplice catastrofe dell’11 marzo del 2011, quando il terremoto, lo tsunami e l’incidente nucleare di Fukushima provocarono uno shock collettivo per la popolazione e un cataclisma per la crescita economica. Tokyo vinse l’assegnazione nel 2013, battendo Istanbul e Madrid. All’epoca al Governo era arrivato da poco il primo ministro Shinzo Abe, che voleva usare i Giochi olimpici anche per incentivare un settore fondamentale del Pil giapponese: il turismo. La capitale nipponica non aveva bisogno di grandi opere infrastrutturali per accogliere i visitatori previsti – almeno un milione, secondo i calcoli del comitato organizzatore – e così si scelsero poche opere ma ben visibili, per esempio lo stadio olimpico del quartiere di Shinjuku. Nel 2015 il vecchio stadio olimpico – quello costruito per i Giochi del 1964, l’unico precedente di Olimpiadi estive ospitate dalla capitale – fu demolito per far spazio a un nuovo costosissimo progetto firmato dall’archistar Zaha Hadid. Pochi mesi dopo l’annuncio dei lavori iniziarono le polemiche: ai cittadini le spese sembravano eccessive. Pressato politicamente, Abe decise di abbandonare il progetto e costruire uno stadio più economico, che fu completato nel 2019. Leader del Partito liberal democratico al Governo, Shinzo Abe è l’uomo che ha consegnato al Giappone un lungo periodo di stabilità politica dopo anni di Governi che duravano meno di dodici mesi. Ma nell’estate del 2020, pochi mesi dopo l’annuncio del rinvio ufficiale dei Giochi olimpici, è stato costretto alle dimissioni per motivi di salute. La leadership dell’Esecutivo è finita nelle mani del suo braccio destro, Yoshihide Suga, un politico di lungo corso ma molto meno influente di Abe, di certo con meno carisma. Nonostante questo, appena diventato primo ministro, Suga ha dovuto affrontare un partito diviso tra varie correnti, un bilancio in perdita dovuto alle spese sostenute per l’organizzazione dei Giochi, ma soprattutto l’emergenza della pandemia. In un primo momento il Giappone sembrava aver contenuto con successo i contagi. Per tutto il 2020 l’arcipelago ha
mantenuto i confini chiusi, ma all’interno del Paese non c’è mai stato un vero e proprio lockdown e, a parte qualche caso isolato, non c’è mai stata alcuna emergenza sanitaria. Nel frattempo però i Giochi olimpici continuavano a essere al centro di diverse polemiche, gestite in modo poco convincente da parte del Governo centrale. Nel febbraio scorso Yoshiro Mori, ex primo ministro e presidente della Federazione di rugby giapponese, che aveva lo strategico ruolo di presidente del comitato organizzatore delle Olimpiadi, è stato costretto a dimettersi dopo aver fatto alcuni commenti sessisti. Un mese dopo pure il direttore creativo delle Olimpiadi, Hiroshi Sasaki, si è dimesso dopo aver offeso una donna. Sui media nazionali e internazionali si è acceso il dibattito sulla società giapponese, ancora molto conservatrice, e sul ruolo delle donne svolto in certe manifestazioni che dovrebbero promuovere l’inclusività. Al posto di Yoshiro Mori è stata nominata la pattinatrice Seiko Hashimoto ma molti volontari che avevano deciso di prestare servizio durante i Giochi avevano ormai già rinunciato per protesta. Poi, all’improvviso, i casi di Coronavirus hanno cominciato ad aumentare anche in Giappone. In aprile il Governo di Suga ha dichiarato lo stato d’emergenza per la maggior parte del Paese, spostamenti vietati, protocolli di sicurezza sempre più rigidi. Il Comitato olimpico internazionale e l’Esecutivo di Tokyo continuano a ripetere: i Giochi olimpici si faranno, è fuori discussione un altro rinvio. Eppure, secondo diversi sondaggi, la netta maggioranza dei giapponesi è favorevole alla loro cancellazione. Il piano vaccinale va a rilento – in tutti questi mesi il Paese non si è assicurato sufficienti dosi per immunizzare la popolazione – e le associazioni di medici avvertono: le Olimpiadi potrebbero essere un evento superspreader, cioè di super diffusione. Ma a questo punto sembra impossibile fermare la macchina degli sponsor e dei diritti televisivi. I primi Giochi rinviati della storia saranno anche i più blindati: niente pubblico dall’estero, soltanto alcuni spettatori giapponesi. Atleti e giornalisti continuamente testati e chiusi all’interno del Villaggio olimpico. La festa dello sport somiglia già a un incubo.
La scelta della Svizzera – tradizionale territorio neutrale per gli appuntamenti tra avversari – come sede del vertice tra Joe Biden e Vladimir Putin spiega forse meglio di qualunque indiscrezione e dichiarazione il formato dell’incontro del 16 giugno. La guerra fredda tra Usa e Russia rende impensabile una visita di Stato o di lavoro nel Paese del proprio interlocutore. Biden ha definito Putin un «killer». Mosca ha appena stilato una lista di «Stati ostili» dove per ora l’unica Nazione, oltre agli Usa, è la Repubblica Ceca. Un vertice a margine di un evento multilaterale come un G20 è altrettanto sconsigliato, non solo perché la pandemia ha rese più rare queste possibilità. Per Washington è importante sottolineare che Mosca non è un partner e Putin non è un frequentatore del «salotto buono» internazionale. Quindi si torna al grande classico della diplomazia internazionale, come i negoziati ginevrini tra sovietici e americani dei tempi di Leonid Brezhnev: più che un vertice destinato ad avvicinare due nemici, è un’occasione per posizionare dei paletti, tracciare linee rosse e accordarsi su come non farsi troppo male a vicenda. Dal canto suo il Cremlino non sembra sperare in nulla, a differenza delle grandi attese che aveva nutrito per il primo vertice con Donald Trump. Forse è stata quella delusione, o forse la logica dell’involuzione autoritaria, ma oggi Putin non sembra cercare più un ritorno nella politica internazionale. È rassegnato all’isolamento ostile di una Russia che racconta ai suoi sudditi di essere circondata da nemici che «vogliono staccarci dei pezzi a morsi». Il desiderio di venire riconosciuti come dei pari – e quindi anche il tentativo di aderire, almeno formalmente, agli standard occidentali della politica – appare accantonato. E la rapidità con la quale la Russia negli ultimi mesi, sull’onda della repressione scatenata contro Alexey Navalny e chi lo sostiene, da autoritarismo si sia trasformata in una dittatura poliziesca è spaventosa. Solo l’ultimo mese è stato segnato dall’arresto di diversi oppositori di spicco, che avevano manifestato l’intenzione di candidarsi alla Duma (Camera bassa del Parlamento) a settembre, e l’approvazione della legge che bandisce dalle elezioni chiunque abbia partecipato – anche con una donazione o un post sui social – a una «organizzazione estremista», segna la fine perfino dell’imitazione di una democrazia. Fare opposizione è ormai l’equivalente di un crimine e la politologa Tatiana Stanovaya di Carnegie Russia prevede la chiusura di qualsiasi spazio di dissenso in «un’operazione di pulizia totale e cieca del regime». Il politico Dmitry Gudkov, arrestato con accuse di frode su un contratto, rilasciato e fuggito a Kiev, ha dichiarato che «la politica fisica in Russia è ormai impraticabile». Il Governo russo
sta preparando anche un’ennesima serie di leggi per la censura dei media e di Internet. È evidente che i diritti umani e le libertà politiche saranno uno dei dossier più scomodi per Putin a Ginevra, anche perché a giugno dovrebbero scattare nuove sanzioni internazionali, ma non sembra questo l’ambito dov’è pronto a fare concessioni. Più probabile qualche intesa nel campo del controllo degli armamenti e del disarmo nucleare, mentre su altri grandi dossier come la guerra cibernetica, le ingerenze russe nelle elezioni americane e il gasdotto North Stream 2 è difficile immaginarsi un dialogo che vada oltre un rituale scambio di accuse. Ma se l’obiettivo di Mosca potrebbe apparire a questo punto non tanto rilanciare un’offensiva internazionale, quanto conservare un precario equilibrio per potersi dedicare alla conservazione del potere in condizioni di instabilità interna, dovrà rispondere anche delle sue responsabilità verso due Paesi limitrofi. La crisi della Bielorussia, nel mirino della comunità internazionale dopo il dirottamento del Boeing della Ryanair con a bordo il giornalista d’opposizione Roman Protasevich, ha aumentato l’influenza del Cremlino su un Aleksandr Lukashenko ormai definitivamente considerato un autocrate pericoloso e inaffidabile. Nello stesso tempo però Putin si trova a dover rispondere non solo per i suoi metodi brutali, ma anche per quelli del vicino bielorusso. Se si distanzia rischia di mettersi contro le componenti più aggressive e nazionaliste del proprio entourage, se offre a Lukashenko il suo aiuto potrebbe trovarsi a pagare un prezzo ancora più elevato sia in termini di relazioni internazionali, sia di costi economici. Le sanzioni in arrivo per la Bielorussia le toglieranno praticamente ogni risorsa che non sia la Russia. La Bielorussia rischia di venire isolata non solo dall’Europa ma anche dall’Ucraina, il cui presidente Volodymyr Zelensky alla vigilia del vertice di Ginevra ha chiesto l’ammissione del suo Paese nella Nato, allo scopo di proteggerlo dall’aggressione russa. Un risultato difficilmente possibile nell’immediato, visto che trasformerebbe la guerra tra l’Ucraina e la Russia in una guerra tra Russia e Nato. Ma Zelensky ha parlato con Biden al telefono due volte in poche settimane, a luglio visiterà la Casa bianca e l’Amministrazione americana gli ha promesso aiuti militari e tutela nella vicenda del North Stream 2, il gasdotto verso la Germania che la Russia ha voluto per non far più transitare dall’Ucraina il suo gas diretto in l’Europa. Una decisa svolta rispetto a Trump, tentato di riconoscere l’annessione russa della Crimea durante la sua presidenza. È quasi certo che Biden esigerà da Putin garanzie sulla volontà di non attaccare l’Ucraina e di non assistere la Bielorussia. Il problema è cosa potrà offrire (o minacciare) in cambio.
Vladimir Putin considera gli oppositori come criminali. (Keystone)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Politica e economia
Quella pioggia di miliardi dagli usa
Migrazione Kamala Harris in Centroamerica chiarisce le intenzioni della nuova Amministrazione americana:
«Non venite, sarete respinti». Gli Stati uniti puntano sugli aiuti finanziari ai Paesi di origine ma la strategia fa acqua
Angela Nocioni Non venite negli Stati uniti illegalmente, se verrete sappiate che sarete rimandati indietro. Questo il senso del messaggio che la vicepresidente degli Stati uniti, Kamala Harris, ha portato di persona nei Paesi centroamericani da cui proviene la grande massa di migranti in attesa di varcare la frontiera meridionale degli Usa. Che entrare legalmente sia impossibile per la quasi totalità delle persone che vorrebbe farlo è un dato di fatto evidente ma inespresso. Il tour di Harris è iniziato in Guatemala e proseguito in Messico, i grandi serbatoi di vite umane speranzose che premono al confine sud del grande sogno americano. Infranto da poche esplicite parole: restate dove siete perché altrimenti vi rimandiamo indietro. Un messaggio talmente chiaro nella sua durezza che i collaboratori della vicepresidente, temendo un boomerang, si stanno facendo in quattro per distribuire alla stampa mille dettagli degli altri obiettivi del viaggio: distribuire aiuti al Centroamerica per circa 4 miliardi nei prossimi quattro anni (ma il Congresso non ha ancora approvato la prima tranche di 861 milioni), fornire finanziamenti per sviluppare il know how dei potenziali migranti, combattere la corruzione nei Paesi d’origine. Sforzi vani perché l’obiettivo politico del viaggio appare chiarissimo: Harris si è data la pena di chiarire le intenzioni della nuova Amministrazione ame-
ricana per quanto riguarda la politica migratoria. Intenzioni che hanno tra l’altro suscitato le critiche dell’ala a sinistra del Partito democratico. Kamala Harris intende spendere questa moneta in politica interna. Per questo non ha lasciato che fossero solo le frontiere chiuse a dissuadere i migranti, ma è voluta andare di persona, consegnando ai media le sue ufficiali dichiarazioni di inflessibilità. Così da poterne ricavare consenso dentro i confini americani. Perché i duecentomila nuovi ingressi stimati da gennaio 2021 sembrano troppi a molti statunitensi e quindi l’uso di toni perentori potrebbe avere un ritorno in termini di popolarità. Lo strumento che l’Amministrazione Biden dice di aver intenzione di usare per frenare l’ondata di ingressi da una regione del mondo devastata dal combinato di povertà, crisi politicoeconomica e violenze – il tutto esasperato dalla pandemia da Covid-19 – è lo stesso usato da Biden quando era vicepresidente di Barack Obama. Una pioggia di miliardi sulle regioni da cui i migranti scappano, nella speranza che quest’ultimi siano dissuasi dall’idea di fuggire. Recentemente, parlando al Congresso, il presidente Biden ha definito tutto quel denaro verso sud come un personale successo: «Da vicepresidente mi sono impegnato essenzialmente nel dare gli aiuti necessari a rimuovere le cause fondamentali delle emigrazioni. Aiutare la gente a rimanere dov’è per-
ché non si senta costretta a emigrare. Il nostro piano ha funzionato». L’ultimo punto è discutibile. Negli ultimi due anni l’ondata migratoria da sud verso nord è aumentata. I soldi arrivati ai Paesi di partenza dei migranti non hanno frenato le nuove partenze e non si sa con chiarezza nemmeno come siano stati spesi. In Guatemala, prima tappa del viaggio di Harris, negli ultimi dieci anni è arrivato dagli Stati uniti oltre un miliardo di dollari di sostegni. Purtroppo però gli indici di povertà sono cresciuti, la corruzione è alle stelle e il Paese è quello che, nelle statistiche, risulta spedire negli Usa la maggior quantità di minori rispetto a qualsiasi altro Paese del mondo. Segno che qualcosa nella distribuzione di fondi non ha funzionato. Questo è quel che più intimorisce i collaboratori di Harris: coniugare l’immagine della vicepresidente a una massiccia distribuzione di soldi pubblici statunitensi a Governi che contemporaneamente appaiono sui notiziari come in mano a personaggi accusati di vari reati (l’attuale presidente del Salvador di repressione, quello dell’Honduras di narcotraffico, quello del Guatemala di perseguitare a livello giudiziario chi lotta contro la corruzione interna) potrebbe risultare una trappola. Harris pare però volersi ritagliare uno spazio personale nel tema caldissimo dell’immigrazione e si è quindi lanciata in un tour internazionale deli-
Kamala Harris a Città del Messico. (Shutterstock)
cato come suo debutto in politica estera. I critici dell’invio di aiuti ai Paesi di origine dei migranti usano come argomentazione principale l’impossibilità di impedire che la corruzione locale si mangi tutti i soldi inviati, ma anche l’impossibilità di impedire che siano le imprese americane incaricate di far fruttare quel denaro a beneficiare, alla fine, della gran parte degli aiuti spendendoli in salari, spese e profitti prima ancora di aver garantito qualche reale servizio ai supposti beneficiari designati. Secondo dati dell’Usaid, l’Agen-
zia Usa per lo sviluppo internazionale, l’80 per cento dei soldi stanziati negli ultimi cinque anni dagli Stati uniti per progetti di sviluppo in Centroamerica sono stati messi in mano a intermediari statunitensi, ossia imprese che hanno le caratteristiche (uffici, contabilità, amministrazione ecc.) in grado di offrire le garanzie necessarie all’utilizzo di grandi quantità di denaro pubblico. Imprese che lavorano con l’obiettivo legittimo di generare un profitto per loro stesse e che sono grate beneficiarie degli aiuti statunitensi al Centroamerica. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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Politica e economia
Sovranità, ostaggi del mito
Intervista Secondo Thomas Cottier il Consiglio federale si rifà ad un concetto nazional-conservatore di sovranità,
in realtà la Svizzera dovrebbe impegnarsi per una sovranità cooperativa in Europa, da cui dipende il suo benessere Peter Schiesser Alla base della decisione del Consiglio federale di interrompere i negoziati con l’Unione europea per un accordo istituzionale, che desse un assetto stabile agli accordi bilaterali, c’è il timore di una perdita di sovranità nazionale, quindi di indipendenza. Un concetto che determina e condiziona la politica svizzera fin dalla votazione per l’adesione allo Spazio economico europeo, bocciata il 6 dicembre del 1992. Ma che cosa significa oggi questo concetto? Quanto, in un mondo globalizzato, i singoli Stati e la singola Svizzera possono dirsi davvero sovrani? Di questo e del particolare momento in cui si trovano le relazioni con l’UE abbiamo parlato con Thomas Cottier, professore emerito di diritto economico europeo ed internazionale, che dal 1986 al 1993 è stato anche membro della delegazione svizzera al cosiddetto Uruguay-Round nell’ambito del Gatt, precursore dell’Organizzazione mondiale del commercio. Cottier è senz’altro una delle personalità più profilate e qualificate in Svizzera nel dibattito sull’integrazione del nostro Paese in Europa. Assieme allo storico André Holenstein ha da poco dato alle stampe un libro (Die Souveränität der Schweiz in Europa: Mythen, Realitäten und Wandel, Schultess Verlag) in cui viene affrontato proprio il tema della sovranità. Professor cottier, nel dibattito sui negoziati sull’accordo istituzionale, nel frattempo falliti, il concetto di sovranità era centrale: ma cosa significa oggi «sovranità» o, in altre parole, quanto può essere sovrana la Svizzera nel mondo di oggi, nell’europa di oggi?
La sovranità fu un problema centrale dei moderni Stati costituzionali. Chi ha l’ultima parola? La questione è stata risolta anche in Svizzera con l’introduzione della separazione dei poteri, dei diritti fondamentali e del federalismo. Nessuno è sovrano di per sé, ma si
La visione autarchica della sovranità è stata amplificata dalle esperienze della prima e della seconda guerra mondiale. Celebrazioni del 1. agosto sul Rütli. (Keystone) la nostra posizione nel mondo, in europa: un’autoillusione?
La maggioranza del Consiglio federale si rifà in modo ideologico a una concezione nazional-conservatrice della sovranità. Alla fine è stato questo ad essere decisivo per il rifiuto dell’accordo quadro, non gli ultimi tre problemi rimasti, che sono assolutamente risolvibili.
dove ha origine questa visione autarchica della sovranità? la Svizzera è mai stata davvero completamente sovrana, ha davvero determinato da sé la propria Storia?
È un mito, che le esperienze della prima e seconda guerra mondiale hanno amplificato. In realtà la Svizzera è sempre vissuta, e sopravvissuta, con innumerevoli alleanze, come ha dimostrato con grande chiarezza lo storico André Holenstein. Si trova in mezzo all’Europa e per il suo benessere dipende dall’Europa. Di conseguenza, dovrebbe impegnarsi per una sovranità cooperativa.
Thomas Cottier: «Manca un linguaggio comune fra Consiglio federale e Unione europea». (Keystone)
tratta di un gioco di svariati poteri e livelli. Questo principio oggi si è affermato anche in Europa. Solo la Svizzera non l’ha compreso nelle sue relazioni con l’UE. Prevale una concezione nazionale conservatrice, che enfatizza l’autodeterminazione, l’autonomia e perfino l’autarchia. La Svizzera non fa distinzioni tra Europa e altre parti del mondo. Da qui l’assenza di un linguaggio comune tra il Consiglio federale, la Commissione europea e gli Stati membri. Manca una base comune per capirsi.
tuttavia, anche da parte del consiglio federale si è giunti alla conclusione che si possa essere autonomi, che si possa determinare da soli
nel 1992, una risicata maggioranza popolare ha bocciato l’adesione allo Spazio economico europeo (See), dopodiché è stata scelta la via bilaterale, nella speranza di poter conservare una sufficiente sovranità. oggi vediamo che questo calcolo non funziona. un’altra illusione?
La via bilaterale ha funzionato, ma manca di una base istituzionale per la collaborazione. Nel 2018 e 2020, il popolo ha confermato molto chiaramente la via bilaterale respingendo le due iniziative UDC. È la classe politica, traumatizzata dopo il no al SEE, che vuole persuaderci che l’accordo quadro non abbia alcuna possibilità di essere approvato dal popolo. I sondaggi dicono il contrario: oltre il 60% si è ripetutamente espresso a favore dell’accordo con la UE. La maggior parte della gente vuole proseguire sulla via bilaterale e chiede al governo di fare quanto necessario.
In merito all’accordo istituzionale: il consiglio federale, così come ampie cerchie politiche e sociali, non accettano di doversi allineare automaticamente al diritto comunitario, ma intendono decidere in
proprio quali futuri aggiornamenti del diritto europeo debbano essere ripresi e quali no. Ma oggi è ancora possibile?
Su questo punto sussistono molti malintesi e la mancanza di conoscenza dell’accordo è palese. L’accordo quadro rispetta la democrazia diretta. La Svizzera mantiene l’ultima parola sulla propria legislazione. L’accordo prevede che, se necessario, possano entrare in gioco misure compensative commisurate, al fine di garantire parità di condizioni nel caso in cui le leggi siano in conflitto con l’accordo. L’Unione europea è venuta molto incontro alla Svizzera, molto di più che nel caso del SEE o dell’adesione all’UE. Spesso si sente dire che si debba, e si possa, negoziare su un piano di parità con la ue, poiché quest’ultima avrebbe lo stesso grande interesse ad accordarsi con la Svizzera. Forse in questo caso si sopravvaluta la forza della piccola Svizzera?
La trattativa avviene con 27 Stati. La Svizzera esporta circa il 50% dei suoi prodotti e servizi nell’UE, mentre in senso inverso ci si aggira sul 7%. Gli ordini di grandezza sono lampanti. A ciò si aggiunge il fatto che la Svizzera e i suoi partiti sono terribilmente divisi. In politica estera, oggi Berna è di nuovo in posizione di debolezza. Ci autoinganniamo se pensiamo di poter negoziare su un piano di parità. La Svizzera soffre contemporaneamente di sopravvalutazione di sé e di senso d’inferiorità. Questa miscela problematica si è formata nel corso di una lunga storia. Il Patto federale del 1815 fu imposto alla Svizzera dalle potenze europee senza il suo coinvolgimento e con l’obbligo della neutralità armata. Non fu farina del suo sacco. Proprio perché la Svizzera attualmente sta andando bene economicamente e la posta in gioco è molto alta, non dovremmo perdere di vista i rapporti di forza e negoziare con senso delle proporzioni e senza arroganza. nella fase finale delle trattative sull’accordo istituzionale, il consiglio federale si è posto di fronte alla commissione ue con delle pretese. Inoltre, l’ue è stata accusata di non
scendere a compromessi, d’altronde però non si è vista neppure una soluzione di compromesso da parte della Svizzera (dove di solito vige la cultura del compromesso). concorda con questa analisi?
Come detto, con l’accordo quadro l’UE è andata molto incontro alla Svizzera. Le richieste di Berna sono nate da un accumulo di interessi particolari, che sono servite da pretesto al Consiglio federale per respingere l’accordo, poiché esso non corrisponde all’ideologia della sua maggioranza e perché si ha un occhio puntato sulle prossime elezioni federali. Né più né meno. Un esempio: nell’accordo viene ancorata la protezione salariale, che oggi è contestabile poiché secondo il diritto europeo viola gli accordi sulla libera circolazione. La protezione salariale in realtà può ancora essere impugnata dall’UE, come pure davanti ai tribunali svizzeri e dalla politica nazionale nell’ambito di un ipotetico piano B (ossia nel caso di un’alternativa all’accordo istituzionale, ndr). Su questo punto i sindacati disconoscono i loro interessi a lungo termine, il che conviene alla maggioranza conservatrice del Consiglio federale. Saranno i lavoratori dipendenti a farsi carico dei costi. dopo sette anni il consiglio federale ha deciso, unilateralmente e senza coinvolgere il Parlamento e il popolo, di abbandonare il tavolo dei negoziati. contemporaneamente offre a Bruxelles di proseguire e approfondire il dialogo politico. Ma su quale base di fiducia? Perché la commissione europea dovrebbe acconsentire?
Il tentativo di riscattarsi con i soldi (il «miliardo di coesione») e con un dialogo è particolarmente pessimo ed è stato definito addirittura sfacciato, dopo che il Consiglio federale ha sbattuto la porta in maniera così poco diplomatica. Per il momento, l’UE ignorerà la Svizzera e negozierà solo laddove è nel suo interesse, ossia al massimo nel campo dell’approvvigionamento elettrico. Al momento non si sa ancora se le università svizzere potranno continuare a collaborare nel campo della ricerca. I passi compiuti dal Consiglio
federale hanno davvero frantumato molti piatti inutilmente e distrutto quel po’ di goodwill rimasto. Spetta ora al Parlamento correggere questa decisione nelle prossime settimane. Tra mozioni vincolanti, misure di accompagnamento e uno sguardo puntato alle prossime elezioni federali del 2023, ha in mano tutti gli strumenti di potere e le competenze necessarie. I costi economici del fallimento dei negoziati e dello svuotamento degli accordi bilaterali sono stati accettati senza che prima fossero quantificati. Forse si spera di poterli minimizzare. c’è il sospetto che siano sottovalutati sia dalla politica che dalla popolazione. o forse siamo davvero in una posizione di forza?
La maggioranza del Consiglio federale ha preso una decisione ideologica e ammette che adesso si tratta di limitare i danni. Come il governo britannico riconosce gli svantaggi economici derivanti dalla Brexit, così fa anche il Consiglio federale. In definitiva, si tratta dell’effetto del populismo a scapito del benessere, che è sempre stato al centro del concetto di sovranità. Il conto viene pagato dalla gente comune, non dai politici. Sorge spontanea un’ultima domanda: come si proseguirà con il bilateralismo? È ancora una via praticabile?
Come detto, il Parlamento ha la possibilità di costringere il Consiglio federale a tornare sulla decisione e a firmare l’accordo insieme ad alcune misure di accompagnamento. In appoggio ci sarà un’iniziativa popolare. I partiti divisi vogliono evitare una discussione sull’Europa nell’imminenza delle prossime elezioni e quindi vogliono risolvere il problema in anticipo. In caso contrario l’UE proporrà tre opzioni: accordo SEE, adesione all’Unione o uno status simile a quello della Gran Bretagna. Di certo c’è che non verranno più accordati alla Svizzera dei privilegi tramite un accordo quadro su misura. Non sarebbe la prima volta che la Svizzera perde una grande occasione bendandosi gli occhi. Ma non è ancora troppo tardi.
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Politica e economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il pericolo di inflazione diventa più concreto Nel corso delle ultime settimane si sono moltiplicati i segnali inflazionistici. All’inflazione degli Stati Uniti, che conosciamo da mesi si sono aggiunti gli aumenti dei prezzi nei paesi europei. A metà maggio il tasso di inflazione degli Stati Uniti aveva raggiunto il 4,2%, vale a dire un livello che comincia a preoccupare le autorità monetarie della maggiore economia mondiale. Vi sono specialisti che prevedono per gli Stati Uniti un’inflazione del 5% nel 2022 e una del 6% l’anno successivo. La ministra americana delle finanze, Janet Yellen, ha annunciato che vista l’evoluzione in atto non si possono escludere in futuro aumenti del tasso di interesse. Stando a Eurostat la progressione del tasso di inflazione durante gli ultimi mesi nei paesi dell’Ue è stata la seguente: in febbraio il rincaro annuale era ancora pari allo 0,9%. In maggio era salito al 2% Que-
sto significa che, se la tendenza all’aumento dei prezzi dovesse continuare, anche le economie europee marcerebbero verso un tasso di inflazione del 4% verso la fine di quest’anno. In testa al movimento di rialzo dei prezzi vi è l’economia tedesca. Mentre in gennaio il tasso di inflazione annuale di questa economia era pari all’1,65%, in maggio era già salito al 2,4%. Anche l’economia svizzera partecipa a questo movimento dei prezzi verso l’alto, ma in misura molto più contenuta del resto dei paesi europei. Così il tasso di inflazione annuale, calcolato con l’indice dei prezzi al consumo, che era pari al – 0,5% in gennaio è salito solo allo 0,6% in maggio. La dinamica del rincaro è però uguale a quella degli altri paesi europei. Sulla natura dell’attuale spinta inflazionista non esiste un accordo tra gli esperti. I tradizionalisti sostengono
che il rialzo dei prezzi è attualmente nient’altro che la conseguenza della crescita della quantità di moneta in circolazione. Questo aumento viene poi attribuito al fatto che le banche centrali stanno monetizzando gli enormi debiti accumulati dagli Stati durante il periodo della pandemia. Per questi esperti non v’è dubbio che l’attuale episodio inflazionistico potrebbe durare a lungo, indipendentemente dalle misure che potrebbero essere applicare per combatterlo, come l’aumento dei tassi di interesse. Altri esperti pensano invece che il rialzo dei prezzi non durerà nel tempo. Per loro il rincaro di questa primavera è da ascrivere all’influenza di una serie di fattori transitori che non dovrebbero più manifestarsi nel medio e nel lungo termine. Un esame anche superficiale dei fattori rincaranti mette in evidenza per l’Europa (Svizzera inclusa) i prezzi
dell’energia. Il barile di petrolio Brent (petrolio di origine europea) è tornato, a inizio giugno, sopra i 70 dollari mentre era ancora sui 55 dollari nel mese di gennaio di quest’anno. La probabile ripartenza delle economie europee dopo la lunga pausa, imposta dalla pandemia del Covid 19, dovrebbe spingere ancora di più verso l’alto il prezzo del petrolio e quindi anche il tasso di inflazione. Un secondo fattore di rincaro può essere costituito dalle revisioni dei pesi delle singole categorie di spesa che concorrono a fissare l’indice dei prezzi. L’indice dei prezzi al consumo è calcolato partendo dalle inchieste sulla spesa delle economie domestiche. Ora la pandemia ha determinato una modifica significativa di questa spesa facendo diminuire le categorie di spesa per il turismo e la mobilità e facendo aumentare invece la spesa per la casa, per gli alimentari e per le attrezza-
ture che consentono di lavorare o di praticare attività fisiche in casa. È stato accertato che le recenti revisioni del metodo di calcolo dell’indice dei prezzi hanno portato a dar maggior peso proprio a quelle categorie di spesa che sono cresciute durante la pandemia. Anche in Svizzera si è proceduto, nel 2020, a una revisione del metodo di calcolo dell’indice dei prezzi. È dunque possibile che parte dell’attuale rincaro sia dovuto all’aumento di peso di certe categorie di spesa che, durante la pandemia, sono particolarmente cresciute. Infine è possibile che sull’attuale tendenza inflazionistica abbia influito anche lo spostamento delle date per i saldi, determinate dalle chiusure dei negozi indotte dalla pandemia. Questi e altri fattori transitori rendono volatile la tendenza all’aumento dei prezzi. Essa potrebbe dunque scomparire con la fine della pandemia.
persuasione: non crederete che hanno votato i morti per davvero? Ma anche in questo caso, nonostante l’esperienza ormai maturata nei confronti delle dinamiche del trumpismo, la retorica aggressiva di Trump ha il sopravvento. E non è destinata a fermarsi, tutt’altro. L’appuntamento in Carolina del nord è stato il primo di quello che è stato definito il big lie tour, dove big lie, la grande bugia, è la vittoria di Joe Biden nel novembre scorso. Trump ripete che quella è stata un’elezione rubata, che Biden non ha vinto, che le istituzioni sono state travolte dalle menzogne dei democratici e che è necessario porvi rimedio con tutti i mezzi a disposizione. L’ex presidente dice che il metodo principale è quello del voto di metà mandato ed è per questo che lancia e sostiene i candidati più fedeli (fedeli a lui e fedeli all’idea della grande bugia), ma ogni tanto lascia cadere qualche riferimento vago al fatto che il rimedio possa essere trovato in un altro modo.
E le frotte dei suoi sostenitori, molti dei quali imbevuti di complottismo di ogni genere (come il gruppo QAnon che è tutt’altro che scomparso), organizzano e preparano la resistenza. A un certo punto è sembrato anche che ci fosse una data: il mese di agosto. Quando Trump ha perso, molti sapevano che l’ex presidente avrebbe continuato a fare questa sua battaglia «da vittima», ma pensavano anche che senza il palco della Casa bianca, senza i social, senza il sostegno istituzionale, per forza di cose il suo messaggio si sarebbe indebolito o mescolato a tante altre bizzarrie fino a rendersi innocuo. Ma qui forse sta l’errore di calcolo: il Partito repubblicano. Quel partito che durante i quattro anni di Trump presidente si è tormentato su come inglobare un corpo quasi estraneo, ideologicamente, come The Donald, ora che può finalmente espellerlo, non lo fa. Anzi, fa a volte il contrario: emargina chi afferma che l’ex presidente
non debba più avere nulla a che fare con l’evoluzione e l’offerta del partito. O evita che si facciano troppe indagini su quel che è accaduto il 6 gennaio scorso – l’assalto al Campidoglio – per evitare scoperte (che poi non sono scoperte, si sanno già molte cose) che possano alterare gli equilibri. Trump seleziona i membri del partito, quelli di adesso e quelli che verranno, sulla base della lealtà a lui, alla grande bugia e alla possibilità di un ritorno. Ma il Partito repubblicano si lascia selezionare, lascia che sia l’ex, il perdente, a stabilire ancora le regole. Perché ha molti fondi, certo, ma anche perché ha molto seguito. Ed è questo consenso che spazza via ogni lotta identitaria e valoriale, come se fosse diventato un dispetto nei confronti di Trump e nei confronti degli elettori dirsi conservatori tradizionali. Uno come Jack Ciattarelli lo fa e si impone pure, ma è presto per nutrire speranze o forse è già troppo tardi.
tinueranno anche dopo l’abolizione dell’obbligo e come pure la copertura da parte della Confederazione dei costi per l’aggregazione e l’analisi dei campioni raccolti e da esaminare – il cambiamento verosimilmente proseguirà ora secondo l’usuale modello «svizzero»: privilegiando le scelte politiche piuttosto che le spinte dell’urgenza o della tecnica; in altre parole privilegiando il buon senso e vagliando gli interessi dei datori di lavoro e dei dipendenti più che rincorrendo le conquiste delle connessioni digitali o le speranze che esse suscitano. È quanto suggeriscono svariati motivi, essenzialmente legati ai limiti imposti dalla sicurezza e alla necessità di garantire un mantenimento dei posti di lavoro, ma confermati anche da effetti collaterali sinora trascurati: le difficoltà delle imprese obbligate dal telelavoro a migrare in strutture senza uffici, la necessità di rivedere (oltretutto in piena crisi congiunturale) la schematizzazione dei concetti legati alle politiche aziendali sinora seguite, ma soprattutto gli effetti negativi, con
ripercussioni su diritti e salute dei dipendenti e dei loro famigliari, venuti a galla in questi mesi di pandemia. Solitamente quando si parla di telelavoro si pensa subito ai benefici per lavoratori che potranno approdare a un maggiore equilibrio tra vita personale e lavoro e, sull’altro fronte, ai costi minori dei datori di lavoro che invece potranno beneficiare di una forte diminuzione dei dipendenti presenti fisicamente in ufficio. Ma è una visione poco realistica o perlomeno da rivedere. Il singolo impiegato potrà sì gestire il tempo in maniera più efficiente, visto che risparmierà ore di viaggio e spese per raggiungere il posto di lavoro, miglioramenti che potranno essere sfruttati per uno stile di vita più comodo con effetti positivi sull’umore, con maggior tempo libero e per la famiglia, come pure per una migliore, se non maggiore, produttività. Inoltre, di norma è il datore di lavoro a dettare il «modus operandi» del lavoro a distanza: la mancanza di una corretta organizzazione del telelavoro aziendale potrebbe facilmente
favorire stress e demotivazione nei dipendenti, fino allo scenario peggiore del burnout lavorativo. C’è poi il pericolo che, senza adeguati canali di comunicazione, tutti i dipendenti incontrino difficoltà a sentirsi e a rimanere parte dell’azienda, quindi che il singolo impiegato avverta spinte verso l’isolamento e la precarietà. Ed è soprattutto alla luce di questi riscontri che la grande marcia del telelavoro sta subendo un rallentamento: negli scorsi giorni anche Google e Apple, due giganti delle New Tech fra i più decisi un anno fa a promuovere lo «homeworking», hanno annunciato che dal primo settembre i loro dipendenti dovranno tornare in ufficio per almeno tre giorni alla settimana. In casa nostra invece Swisscom, che ha l’85% dei collaboratori abilitati a lavorare in modalità «smartworking» (anche perché quando qualcosa non va non devono digitare numeri telefonici astronomici...), ha dichiarato che in futuro punterà su un mix tra lavoro in azienda e telelavoro. Insomma: il «Take it easy» prevale ancora.
affari esteri di Paola Peduzzi Repubblicani ancora in balia di trump «Sono un repubblicano che si ispira ad Abramo Lincoln, credo nella tolleranza, nel rispetto reciproco e nel potere della diversità», ha detto Jack Ciattarelli dopo aver vinto le primarie repubblicane per la corsa a governatore dello Stato americano del New Jersey. Si è sentito un lungo, per quanto probabilmente temporaneo, sospiro di sollievo. Ciattarelli rappresenta una delle poche vittorie dell’ala moderata del Partito repubblicano, che è alle prese con il post trumpismo e che, in questa lotta nel fango, non ne sta uscendo benissimo. L’America si sta preparando ai prossimi appuntamenti elettorali, in particolare il voto di metà mandato del novembre del prossimo anno. Sembra prematuro parlarne ora, visto che in termini temporali è molto più vicina la vittoria di Joe Biden contro Donald Trump dell’autunno scorso, ma è in questi mesi che si decidono le candidature e che quindi si capisce quanto pesa o peserà il fattore Trump.
L’elezione per il governatore del New Jersey si tiene il prossimo 2 novembre. Si tratta di uno Stato democratico però le possibilità di vittoria di un repubblicano non sono remote. Per questo l’ascesa di Jack Ciattarelli è seguita con tanta attenzione. Lui sembra un antidoto al trumpismo che resta imperante nelle dinamiche di selezione e quindi di potere del Partito repubblicano. Trump fa di tutto per tenere la presa e di recente è ricomparso con un discorso pubblico incendiario. Quel che pareva la resistenza di un ex presidente che non voleva arrendersi all’idea di aver perso le elezioni, si sta trasformando in una nuova battaglia identitaria e poco importa se si fonda su una teoria del complotto: i democratici hanno imbrogliato. I dati dimostrano che la gente ci crede. Ora, in passato abbiamo spesso pensato che un modo per evitare che certi complottismi prendano piede è quello di arginarli con il buon senso e la
zig-zag di Ovidio Biffi nessuna fretta per il telelavoro A fine maggio il Consiglio federale, oltre ad alleggerire le misure anti-pandemia, ha posto fine anche all’obbligatorietà legata al telelavoro. Introdotta lo scorso 18 gennaio essa imponeva alle aziende di fare ricorso al telelavoro quando «per la natura dell’attività ciò sia possibile e attuabile senza un onere sproporzionato». Come d’abitudine la fine di questo obbligo è stata annunciata seguendo il modello pragmatico, cioè senza commenti o dettagli. Nel dispositivo si legge solo che «L’obbligo del telelavoro sarà tramutato in una raccomandazione per le imprese che effettuano test regolari», che «Non appena tutte le persone che lo desiderano saranno state vaccinate (inizio della fase di normalizzazione), la regola del telelavoro sarà allentata senza condizioni», mentre «La protezione delle persone particolarmente a rischio sul posto di lavoro sarà prorogata». Come sempre il Consiglio federale parla in modo generico di telelavoro, quindi non si cura delle varie sfaccettature che già oggi si presentano in questo segmento
dell’occupazione, così come delle caratteristiche legate alle libertà del lavoratore, oppure di doveri e controlli che il datore di lavoro impone. Seguo lo stesso sentiero raggruppando i diversi modelli, compreso lo «smartworking» che in definitiva è solo un’evoluzione del telelavoro resa possibile dall’evoluzione e dalla diffusione delle connessioni digitali. Imposta dalle restrizioni pandemiche, l’accelerazione del lavoro a distanza (da casa, ma non solo) è stata vissuta un po’ ovunque come una necessità, dopo che i media l’avevano indicata come una grande (epocale, ha scritto qualcuno) opportunità per «svecchiare» certi settori del terziario e superare lo stallo pre-pandemico dell’economia. La fine dell’obbligatorietà decisa ora dal Consiglio federale conferma però che, a meno di clamorosi ripensamenti, o di nuovi sviluppi legati alla congiuntura, il ricorso al telelavoro non susciterà cambiamenti radicali e immediati. Quindi – anche se un’aggiunta dell’ordinanza precisa che i test di studio avviati nelle imprese con-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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cultura e Spettacoli la relatività dei costumi Paese ed epoca che vai, usi e costumi che trovi, come già notavano gli antichi pagina 37
Il giallo del giallo La discussioni e le riflessioni intorno al colore giallo affascinano da tempo immemore: ora se ne occupa anche Alice Barale in un nuovo libro
Il pop-rock dei Mighty oaks Il più recente lavoro della band testimonia una notevole crescita artistica
arte e artigianato Il rapporto tra uomo e natura sondato e raccontato a Ginevra nel lavoro di Stefano Boccalini
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antichi flagelli
Pubblicazioni La grande attualità
di La Pestilenza, romanzo del 1992 di Lukas Hartmann, ora proposto da Dadò
Luigi Forte Lo sguardo viaggia nel tempo, lontano, verso la metà del Trecento quando la peste bubbonica dilagò per tutta Europa lasciandosi dietro milioni di morti. E anche la Svizzera pagò il suo triste tributo come ci ricorda il romanzo del bernese Lukas Hartmann, La pestilenza, del 1992, che l’editore Armando Dadò propone ora nell’ottima versione di Gabriella de’ Grandi. Ma lo scrittore si volge al passato per riflettere sulle epidemie del nostro tempo come l’AIDS iniziato verso gli anni Ottanta. E leggendolo ora dobbiamo purtroppo aggiornarlo con la drammatica esperienza del Covid-19 che ci conferma come la storia dell’umanità sia costantemente segnata da tali flagelli che l’arte stessa ha spesso richiamato, a cominciare dal Decamerone di Boccaccio con le immagini della peste fiorentina, e in pittura dal motivo ricorrente della «danza macabra». Hartmann non è nuovo ai temi storici. Il suo primo romanzo, La montagna di Pestalozzi, scritto nel 1978 a trentaquattro anni, era ambientato alla fine del Settecento. Poi, con La pestilenza, come ci ricorda puntualmente Charles Linsmayer nella postfazione, prenderà il via «la serie dei romanzi di Berna», otto volumi in cui l’autore si muove fra il secolo dei Lumi e gli anni del nazismo. Nel frattempo questo poliedrico intellettuale, marito di Simonetta Sommaruga, consigliera federale, ha svolto il suo lavoro quotidiano come giornalista radiofonico e assistente sociale molto attivo a favore dei profughi, senza tralasciare la narrativa per l’infanzia a cui, fin dal 1984, ha dedicato ben 14 libri. Interessi e prospettive diverse che aggiungono vigore alle sue pagine nutrite di consapevolezza e impegno umano. Proprio allora, in occasione dell’uscita del suo romanzo, ebbe a dire in un’intervista: «La mia è una requisitoria contro l’indifferenza e la tentazione di rimanere ciechi e sordi alla sofferenza altrui». Non è un caso che la storia della giovane Hanna e di suo fratello Mathis, novizio nel monastero di Rüeggisberg, contenga inserti legati alla diffusione dell’AIDS, la peste moderna, e all’uso
di droghe. Sprazzi che non interrompono la narrazione dell’infelice esodo dei due fratelli dal loro villaggio, ma la inseriscono in un’ampia riflessione sull’infelicità e l’umano dolore nel corso dei secoli. E dire che in quel paesino nel Canton Berna con il suo antico priorato cluniacense la giovane ragazza viveva felicemente con la nonna Hedwig, guaritrice ed esperta di erbe. Ma l’epidemia cancella ogni speranza e strappa anche Mathis alla vita del convento dove i monaci scompaiono uno dopo l’altro. «Il mondo è nel caos», ricorda l’autore e il suo libro ne tratteggia con insistente realismo la cupa disperazione. Il morbo vola di casa in casa e nella grande città, a Berna, i morti giacciono per le strade. Anche la nonna muore e i ragazzi decidono di andarsene rifugiandosi dapprima nel bosco, dove una natura intatta e generosa offre conforto mentre inavvertitamente sboccia fra di loro, in preda allo smarrimento, un amore sensuale, atto estremo di vita libero da ogni censura morale di fronte alla violenza della pandemia. Poi, per un po’ vivono in una grande capanna nella foresta, accolti dalla famiglia di un pellicciaio, dove Hanna cura un bimbo ferito e Mathis narra leggende di santi e si purifica con la preghiera e un severo digiuno. Ma dopo la morte del bimbo vengono scacciati e s’imbattono in una processione di flagellanti, una massa di fanatici che imprime con inni e invocazioni un ritmo incalzante e spezzato al racconto. Mathis, sedotto dalle parole del «maestro» che guida il corteo, sente rinascere in sé l’entusiasmo religioso, si unisce al popolo salmodiante e accetta di far penitenza flagellandosi, mentre Hanna lo segue confusa e inebetita. È perfino disposto a credere che tutto quel flagello sia opera degli ebrei, come sostiene quella fiumana di invasati iniziando una caccia al giudeo che poi si estenderà a tutta la città. Sembra di ripercorrere qui le terribili pagine del romanzo di Wilhelm Jensen, Gli ebrei di Colonia del 1869, ambientato nel medioevo tedesco, dove alla peste nera si univa il flagello dell’antisemitismo. I dolorosi eventi inducono più tardi Hanna, giunta ormai a Berna con gli
Dalla copertina del libro: Arnold Böcklin, La peste, 1878. (Kunstmuseum Basel, Dep. Gottfried Keller-Stiftung, Sammlung Online)
altri, a rivolgere un accorato appello a Dio nella chiesa di San Vincenzo: «Lasciami libera – invoca – sciogli la catena invisibile che mi lega a questi uomini». La sua attesa prefigura il motivo di fondo del romanzo: liberarsi dal male e riacquistare la speranza e l’innocenza della vita. Ma intanto è vittima di incubi notturni: sogna uomini che la inseguono, sé stessa trasformata in serpente, il maestro che la fustiga o il fratello con una terribile ferita da cui fuoriescono formiche e infine l’incendio universale. L’inconscio sembra suggerire in modo fantasioso la tragica realtà in cui, ormai sola, Hanna si dibatte. Hartmann sa ricreare atmosfere di profonda e drammatica intensità trasfigurando gli eventi in sensazioni, in palpitante sostanza umana. Il destino del singolo e quello di un’intera comunità degenerano apparentemente senza spiragli di salvezza. La giovane passa dalla casa di un pescatore a quel-
lo di un ricco possidente, il signore di Gysenstein, la cui moglie è gravemente malata. Accetterà di curarla, ma senza successo. E con la donna scompare anche uno dei figli, Samuel, mentre il padre, fuori di senno, si uccide. Per fortuna è sbocciato un profondo affetto fra lei e la piccola Hildi, sorella di Samuel. Certo la situazione degenera di giorno in giorno al punto che il Consiglio della città di Berna decide la chiusura di tutte le case in cui è scoppiato il morbo. L’idillio degli anni lontani si è inabissato in una realtà infernale, così come il ricordo della nonna e del suo amatissimo Mathis, ombre sconvolgenti che si vorrebbe poter sotterrare in pace come i morti. Ma in cielo le nubi sembrano vestirsi di nero e in lontananza si odono i tuoni, gli ultimi botti di sogni infranti. Sì, il mondo è nel caos, ma Hanna si guarda intorno e intuisce che la piccola Hildi è forse l’immagine di quel futuro che ancora non ha smesso
di sognare. La solleva, la fa volteggiare, canta con lei e si sente finalmente libera. E che ne è di quel mondo terribile che la circonda? Potremmo intuirlo grazie alle parole di Lukas Hartmann che ci riporta attraverso una pandemia medievale ai giorni nostri, al flagello del Covid-19: «Siamo costretti a riconsiderare molte cose con occhi nuovi – egli afferma – a mettere in discussione le nostre abitudini. (…) l’uomo è rimasto uguale nella sua volontà di sperare, come pure nelle sue paure e nell’attribuire colpe. Sono convinto che le conseguenze del lockdown cambieranno la nostra società. Se in meglio o in peggio, è tutto da vedere». Bibliografia
Lukas Hartmann, La pestilenza, A. Dadò, traduzione di Gabriella de’ Grandi, prefazione di Christian Garzoni, postfazione di Charles Linsmayer.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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cultura e Spettacoli
costumi relativi
la Svizzera come fonte d’ispirazione
Massimario classico Il burka, la mascherina e la relatività
dei costumi
Musica È stato presentato il nuovo
programma dell’OSI
Elio Marinoni Non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari, «Il giusto e l’ingiusto non sono uguali per tutti, ma ogni cosa è giudicata secondo le tradizioni patrie». (Cornelio Nepote, Vite degli uomini illustri, Prefazione, 3) Pochi anni or sono, il divieto di indossare in pubblico il burka (segnatamente in Ticino, ma anche in altri paesi europei) o sulle spiagge demaniali francesi il burkini (blend di burka e bikini designante un costume che copre la maggior parte del corpo, lasciando però scoperto il viso), fu oggetto di una diffusa polemica sui giornali dell’Occidente europeo. Successivamente, in Francia quel divieto (che paradossalmente riteneva immorale la copertura, in un contesto balneare, del corpo femminile) fu ritirato, mentre recentemente il popolo svizzero ha ribadito con un referendum (con il 51,2% dei consensi, ma il sì di ben 20 cantoni) il divieto di indossare il burka in pubblico (7 marzo 2021), anche se, nel frattempo, l’emergenza sanitaria globale ha imposto a tutti un parziale mascheramento delle proprie fattezze. Intervenendo in quella polemica, Franco Zambelloni spezzò una lancia a favore di un atteggiamento di maggiore apertura, scrivendo su queste colonne che «quello che per noi oggi è indiscutibilmente vero, giusto e sacrosanto, tra cento anni non lo sarà più» (Burka, burkini, bikini, in «Azione 36», 5 settembre 2016, p. 9). Dal livello temporale, l’affermazione può essere estesa a quello geografico ed etnico: ciò che appare giusto o ingiusto, pio o sacrilego a certe latitudini o presso certi popoli non è considerato tale presso altri. E alla sapienza giudaico-cristiana, cui attingeva lo Zambelloni nel suo articolo, possiamo affiancare l’altro grande filone sapienziale alle radici della nostra civiltà occidentale: quello greco-latino. Le prime tracce di un consapevole relativismo etico si trovano in un passo dello storico greco Erodoto (V sec. a.C.), grande viaggiatore e attento osservatore della varietà degli umani costumi. Narra Erodoto che il re persiano Cambise (529-521 a.C.), conquistatore dell’Egitto, era impazzito, trasformandosi in un despota gratuitamente crudele, in seguito all’empio ferimento del bue Api, l’animale sacro agli egiziani. E aggiunge: «Se si invitassero tutti gli uomini a scegliere le usanze migliori, tutti, dopo averle ben esaminate, sceglierebbero le
Enrico Parola
Paese che vai, uso che trovi; donna in burkini sportivo mentre gioca a volleyball in Thailandia. (Wikipedia/ Phuket@ photographer.net)
proprie […]. Non è possibile quindi che altri che un pazzo le faccia oggetto di scherno» (Storie, III, 38, trad. di G. Paduano). A sostegno del proprio assunto, lo storico cita il diverso atteggiamento degli Indiani Callati e dei Greci nei confronti dei cadaveri dei congiunti: i primi usavano cibarsene, i secondi arderli sul rogo. Ciò che era pio per primi, era empio per i secondi; e viceversa. La profonda diversità di costumi e di norme tra i rispettivi popoli è sottolineata in questo frammento di una commedia attica del IV sec. a.C., in cui un greco così si rivolge a un egiziano, ponendo l’accento sullo zoomorfismo di quella religione: «Né i nostri costumi, né le nostre leggi concordano. Tu ti inginocchi al bue, io sacrifico agli dei; tu fai dell’anguilla una divinità grandissima, noi una grandissima pietanza; non mangi maiale, io lo gusto più di ogni cosa; veneri il cane, io lo bastono quando lo scopro a rubare» (Anaxandrides, Città, fr. 39 Edmonds, trad. di M. Vegetti). La posizione più estrema fu assunta da alcuni filosofi, come gli esponenti della Nuova Accademia (il più noto è Carneade), che muovendo dalla constatazione della diversità dei costumi e dei concetti di giusto e ingiusto presso i vari popoli giunsero a negare l’esistenza di un diritto naturale, scaturente dall’unicità della natura umana. È la tesi esposta con dovizia di esemplificazione, ma non condivisa dall’Autore, in un passo del De re publica di Cicerone: «Quel diritto circa il quale indaghiamo
è una sorta di diritto civile, e non affatto un diritto naturale; che se questo esistesse, così come sono uguali per tutti il caldo e il freddo, l’amaro e il dolce, del pari lo sarebbero il giusto e l’ingiusto» (Cicerone, Lo stato, III, 13, trad. di L. Ferrero e N. Zorzetti). Di un moderato relativismo culturale fa infine professione anche il biografo latino Cornelio Nepote, citato in epigrafe: nella prefazione alla sua raccolta di vite di personaggi famosi egli se la prende con «quelli che, non conoscendo la cultura greca, sono convinti che nulla c’è di buono se non ricalca le loro consuetudini» (Vite degli uomini illustri, Prefazione, 2). Quale lezione possiamo ancor oggi trarre da queste riflessioni della sapienza antica? Evidentemente, esse ci dovrebbero ispirare un atteggiamento di maggiore tolleranza nei confronti di abitudini comportamentali differenti dalle nostre. O, se il termine illuminista di tolleranza ci fa storcere il naso perché implica «un rapporto di supremazia tra chi tollera e chi è tollerato» (M. Cacciari in M. Smargiassi, Diabolica tolleranza, «La Repubblica», 7 maggio 2004, p. 44), possiamo sempre ricorrere al concetto più «politicamente corretto» di apertura verso l’altro. E insomma: nel momento stesso in cui denunciamo, e giustamente, le derive del radicalismo islamista, dobbiamo evitare di assumere noi stessi un atteggiamento fondamentalista di fronte a fenomeni culturali percepiti come estranei al nostro modo di essere.
Dieci concerti al LAC e quattro all’Auditorio Stelio Molo, un ciclo Ciajkovskij a coronare il predominio dei russi Rachmaninov, Stravinskij, Prokof’ev e Shostakovich: sono i numeri e i nomi che declinano lo spirito con cui il nuovo Direttore artistico-amministrativo Christian Weidmann ha pensato la stagione 2021-22 dell’Orchestra della Svizzera Italiana. «L’OSI è la mia orchestra del futuro, è l’orchestra di tutti ed è l’ambasciatrice culturale della Svizzera Italiana» ha dichiarato orgogliosamente presentando il nuovo cartellone. Concetti illustrati partendo da una provocazione: l’affermazione «il momento non potrebbe essere più propizio», riferita al periodo segnato dalla pandemia, suona provocatoria; ma proprio «l’anno appena passato ci ha confermato quanto sia importante l’OSI per la regione in cui vive: grazie allo streaming i nostri concerti sono stati visti da più persone di quante ne sarebbero mai riuscite a entrare al LAC, anche se sappiamo quanto manchi al pubblico la musica dal vivo; e ha confermato come la musica non sia mero intrattenimento, ma una fonte d’ispirazione per la vita quotidiana, un luogo di cura per l’anima. Per questo vogliamo espanderci oltre i confini del nostro meraviglioso LAC, naturalmente senza staccarcene: suonando in altre città, ma anche portando la nostra musica in luoghi dove si possa incontrare un altro pubblico, come nelle aule scolastiche e nelle discoteche». Sei dei dieci concerti in calendario al LAC da settembre vedranno impegnato il direttore musicale Markus Poschner. Se l’appuntamento del 21 ottobre è dedicato alla versione più sinfonica e parossistica della danza con La Valse di Ravel e le Sacre du printemps di Stravinskij, e quello conclusivo del
28 aprile ai due grandi amici Brahms (Concerto per pianoforte in re minore, solista Francesco Piemontesi) e Schumann (Seconda sinfonia), negli altri quattro Poschner svilupperà Tracce, ciclo incentrato su Cajkovskij, con le sinfonie n. 1, 5 e 6, il Concerto per violino (solista Christian Tetzlaff) e il Manfred. «Ciajkovskij soggiornò a lungo in Svizzera e vi scrisse alcune delle sue opere più importanti, ispirato da questa regione unica al mondo. A Interlaken compose la celebre fantasia-ouverture Romeo e Giulietta, mentre nella Villa Richelieu a Clarens, sul lago di Ginevra, il Concerto per violino; la Serenata per archi vide la luce a Ginevra, e sempre in Svizzera iniziò a lavorare all’Onegin. Furono i panorami delle montagne elvetiche a impressionarlo così profondamente da spingerlo a ripercorrere le tracce di Lord Byron, il cui poema in tre atti Manfred gli ispirò l’omonima sinfonia che suoneremo il 31 marzo». Come nel pluripremiato Rileggendo Brahms, anche con Ciajkovskij Poschner vuole «sgomberare il campo da vecchi malintesi e false tradizioni, per aprire uno sguardo nuovo e fresco su questi capolavori che negli ultimi 25 anni ho diretto spesso e dappertutto, riflettendovi e ponendomi interrogativi sempre nuovi anche partendo da testimonianze coeve e personali: Ciajkovskij era perennemente insoddisfatto, continuava a rimettere mano alle partiture per migliorarle e modificarle; valutava le sue composizioni nei modi più disparati, a seconda delle condizioni di spirito e più in generale di vita in cui si trovava, andando dall’entusiasmo più sfrenato al rifiuto più autodistruttivo». Tra gli altri concerti, da non perdere i due diretti da Krzysztof Urbański: accanto a Rachmaninov e Shostakovich squilla la colonna sonora di Star Wars.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 giugno 2021 • N. 24
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cultura e Spettacoli
giallo mistero
Pubblicazioni La storia del giallo (e dei colori) fra arte e filosofia, antropologia e neuroscienze
Emanuela Burgazzoli Il colore è fuggevole, inafferrabile, mutevole; eppure ne abbiamo ogni giorno esperienza diretta attraverso i nostri sensi, in altre parole vediamo (e sentiamo) il mondo a colori. Ma ci sono ancora poche certezze su che cosa sia davvero il colore; nei secoli è stato definito come materia (l’etimologia della parola «colore» in molte lingue indoeuropee rimanda a termini quali «pelle» o «rivestimento»), in seguito come luce (è stato Aristotele a proporre la più antica scala cromatica, rimasta in auge fino a quella di Newton) e infine come sensazione e quindi decodificato attraverso la memoria, l’immaginazione e le conoscenze.
Da molti secoli si dibatte intorno al colore; ora Alice Barale con il suo libro fa il punto della situazione sul giallo Nel corso dei secoli si sono susseguite nuove ipotesi e tesi, ora esposte dalla studiosa di estetica Alice Barale nel suo Il giallo del colore, un saggio che fa il punto sul dibattito in corso, intrecciando filosofia e linguistica, neuroscienze e storia dell’arte. A dominare negli ultimi decenni è l’«eliminativismo», una teoria che sostiene la pura illusorietà dei colori e nega che siano proprietà degli oggetti reali; una diffidenza, annota Barale, che risale all’antichità, al padre dell’atomismo, il filosofo greco Democrito. Agli albori della scienza moderna Galileo intuisce che i colori non sono «altro che puri nomi», ponendo il problema fra esperienza percettiva e la manifestazione fenomenica. Ma al di là delle caratteristiche fisiologiche, fisiche e chimiche attribuibili a ogni colore, esisterebbe anche un significato simbolico e spirituale. O almeno è ciò che pensava Goethe; per lui il giallo «possiede una qualità dolcemente stimolante, di serenità e gaiezza». Ma l’esistenza di un’essenza immutabile dei colori è una concezione agli antipodi di quella sostenuta dallo storico francese Michel Pastoureau,
Gaiezza o tradimento? Il giallo è stato letto in molti modi. (Shutterstock)
che considera i colori come «astrazioni» la cui origine è legata alla cultura e alle convenzioni. Lo studioso di araldica è autore di una storia dei colori nelle società europee, giunta al quinto volume (Giallo. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, 2019). Giallo che gode di un certo prestigio nell’antichità, perché associato spesso all’oro, ma anche al colore del grano e soprattutto al sole, nella mitologia greco-romana e dell’antico Egitto. Ma dal Medioevo diventa sinonimo di tradimento, «forse perché è difficile renderlo vivido nella pittura come nella natura»; è l’inizio di una cattiva reputazione, quella di colore equivoco e ambivalente che durerà secoli. La duplicità del giallo è già attestata negli stemmi cavallereschi; il giallo, si legge nei testi d’araldi d’armi, significa sì «forza e ricchezza ben temperata; ma più spesso è un colore cattivo, nel qual caso significa invidia e avidità, menzogna e falsità». Ecco spiegata allo-
ra la veste gialla con cui i pittori come Giotto raffigurano Giuda. Al giallo e al rosso dichiarerà guerra la Riforma protestante, portatrice di un’austerità che considera questi colori troppo vivaci e disonesti. Ecco spiegate le atmosfere cupe di un Rembrandt rispetto ai colori squillanti di un cattolico Rubens, osserva Pastoureau. Sempre in ambito olandese si ricordano i gialli di Vermeer e di pittori coevi, autori di interni domestici dove si intravedono stoffe e arredi sempre più tinti di giallo ad attestarne la diffusione nella vita quotidiana. Nel frattempo si erano fatti grandi progressi nelle tecniche pittoriche, con la scoperta di nuovi pigmenti e colorazioni; nel Seicento si moltiplicano i manuali destinati ai pittori; nel 1692 un certo Anders Boogert compila un eccezionale campionario di oltre cinquemila sfumature di colori, in cui verde e giallo appaiono trascurati rispetto a rosso e blu.
Il giallo si riprenderà la rivincita in epoche più recenti; in particolare a partire dal XIX secolo, già con i cieli di Turner, ma anche e soprattutto con la «febbre colorista» di Gauguin e Van Gogh («Il sole mi abbaglia e mi dà alla testa, un sole, un chiarore che posso solo definire giallo, giallo zolfo, giallo limone, giallo oro. È così bello, il giallo!»). A favore del giallo aveva giocato la rivoluzione della pittura en plein air, con gli impressionisti che avevano trovato un nuovo rapporto con la luce e adottato le più recenti teorie. Ma molti pittori, come Seurat, restano vittime della scienza, abusando della teoria sulla mescolanza ottica dei toni del chimico Eugène Chevreul, in base al quale basta accostare un blu e un giallo perché l’occhio legga il «verde». Il grande ritorno del giallo in pittura è decretato dall’avvento dei Fauves che rivendicano «l’arbitraria poetica della tinta». Anche se proprio in quegli
anni Kandinskij non nasconde la sua avversione per il giallo, colore, scrive, che «genera apprensione nello spettatore… e dimostra il carattere della violenza che si esprime nel colore». Non tutti i gialli del resto sono allegri o tonificanti; basti pensare alla sensazione di solitudine che emana dalla giovane donna dal cappello giallo seduta nella tavola calda dipinta da Edward Hopper. Emblematico infine l’esempio di Velasco Vitali – citato da Barale – che nella sua monumentale Veduta, un dipinto del 2019, inserisce una macchia gialla fra le montagne. «È il mio autoritratto», dichiara in un’intervista il pittore. Colore coscienza dunque, o autocoscienza, che rappresenta il «sentire di sentire». Un accorgersi di esistere. Bibliografia
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cultura e Spettacoli
Spensierata serietà
Musica In magistrale equilibrio: i Mighty Oaks e la «perfezione della semplicità» del pop-rock al suo meglio
Benedicta Froelich Come i proverbi popolari insegnano, non si ha mai idea di quanto un lavoro sia complesso finché non si prova a svolgerlo in prima persona; e quello di comporre e incidere un perfetto brano soft rock – che riesca non solo a essere piacevole, ma magari anche intenso, senza tuttavia scivolare nella banalità o nell’easy listening troppo spinto – è, di fatto, un compito ben più difficile di quanto non appaia a prima vista. A volte, però, ogni dettaglio sembra combinarsi affinché si compia il miracolo; e, come nel caso di Mexico, il nuovo lavoro appena pubblicato dalla formazione dei Mighty Oaks, il risultato è a dir poco perfetto, dal punto di vista formale come da quello artistico. Del resto, fin dalla line-up, il trio dei Mighty Oaks si è sempre presentato al pubblico come una realtà quantomeno intrigante, anche perché del tutto internazionale: la band è infatti composta dal britannico Craig Saunders, l’italiano Claudio Donzelli e lo statunitense Ian Hooper – e, come facilmente immaginabile, ha eletto a propria «base» una città oggigiorno fortemente cosmopolita quale Berlino. Da lì, proprio nel cuore dell’Europa, i Mighty Oaks hanno cominciato la loro avventura musicale, dando alle stampe il primo EP ormai un decennio fa, nel 2011. All’epoca, la band fu naturalmente catalogata come esponente del cosiddetto «indie rock», ovvero di quella particolare branca della musica indipendente caratterizzata da gruppi
perlopiù giovani, che scelgono di militare in case discografiche «minori» o, addirittura, nell’ambito delle autoproduzioni; tuttavia, nel caso dei Mighty Oaks, l’elemento folk-rock era, fin dagli esordi, altrettanto preponderante. In effetti, di primo acchito, la band non sembrerebbe esattamente costituire un esempio di originalità musicale: il particolare stile di soft rock dei tre ricorda infatti una certa sfumatura di cantautorato americano, a cavallo tra il sound west coast di Crosby, Stills & Nash e le ballate di artisti della moderna tradizione americana quali Tom Petty e Ryan Adams; e di fatto, dal punto di vista strettamente musicale, questo CD non offre all’ascoltatore navigato nulla di nemmeno lontanamente sorprendente. Eppure, ascoltando Mexico si può tranquillamente affermare che ogni traccia sia a dir poco esemplare, sia in termini compositivi che di produzione, al punto da poter essere presa a perfetto esempio del sound ideale di una qualsiasi canzone radiofonica di superba fattura. Vi è infatti, da parte dei Mighty Oaks, una grande consapevolezza artigianale nel modo in cui ogni brano è elaborato, strutturato e inciso; ma soprattutto, ciò che più stupisce della tracklist di Mexico è la totale assenza di riempitivi: ogni traccia presenta sufficiente forza stilistica e interpretativa, e arrangiamenti talmente aggraziati nella loro apparente semplicità, da potersi definire come un potenziale singolo – cosa che oggi costituisce una vera e propria ra-
Mexico, un lavoro ben riuscito.
rità, considerando quanto l’arte del songwriting moderno tenda a sacrificare il rigore formale a favore d’una collaudata banalità. Questo non significa, naturalmente, rinunciare a pezzi assolutamente orecchiabili, qui scelti come brani apripista per il CD: saltano immediatamente all’occhio la title track Mexico, il cui assolo di armoni-
ca suona come un exploit tratto da un disco anni 90 del già citato Tom Petty, e l’irresistibile Forever; mentre Land of Broken Dreams, classica ballatona americana nella migliore tradizione dell’FM rock, rappresenta una perfetta hit, per molti versi non troppo dissimile da certi brani del più recente Bruce Springsteen.
La tracklist si snoda così tra pezzi che, sebbene apparentemente spensierati nelle loro sonorità easy listening, toccano temi di una certa intensità – si vedano la ballata folk Devil and the Deep Blue Sea e What You Fighting For, i quali tradiscono una certa, sottile disperazione, chiaramente percepibile al di sotto degli arrangiamenti ritmati; senza dimenticare il carattere di brani ancora più intimisti e dal respiro cantautorale, come lo struggente Heavy e, soprattutto, l’accusatorio psicodramma Ghost. Sentimenti che vengono trasmessi all’ascoltatore tramite liriche semplici e quasi minimaliste, eppure sempre molto efficaci nella loro sottile eleganza; come dimostrato da veri e propri, piccoli capolavori di songwriting quali Bad Blood e My Demons (quest’ultimo impreziosito da cori in stile vagamente da film western, reminiscenti dell’ultimo lavoro dei colleghi Other Lives). Ma non mancano nemmeno pezzi più romantici: su tutti, By Your Side, che sembra uscito direttamente da un album anni 80 di Rod Stewart. E proprio tale versatilità suggerisce come perfino l’ascoltatore casuale non potrà che rimanere colpito dalla grazia e dal rigore espressivi che animano questo Mexico – un lavoro che, mostrando grande professionalità e cura (ma senza nessuna presunzione), riesce pienamente nella difficile impresa di stabilire un equilibrio perfetto tra un sound accattivante e il songwriting più onesto e impeccabile. Annuncio pubblicitario
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cultura e Spettacoli
spettacoli la ragione di Boccalini due da rivedere Mostre Arte e artigianato molto spesso si trasformano
in un binomio in cui le parti si arricchiscono a vicenda
In scena Parole e silenzi di due originali
debutti
Ada Cattaneo Strano luogo la Val Camonica: in apparenza chiuso e spopolato, ma in realtà esempio perfetto del fiorire nascosto delle culture alpine. Dalle incisioni rupestri di epoca preistorica, che furono realizzate su un arco di otto millenni e valsero all’Italia il suo primo sito Unesco, alla ricchezza di risorse minerarie, che in età moderna avrebbero alimentato il fabbisogno di metallo di Milano e Venezia per la produzione di armi. Come in ogni vallata alpina, anche qui l’artigianato rispondeva ai bisogni primari del vivere e del produrre e al contempo anche alle necessità di espressione delle popolazioni. Non sorprende allora che oggi sia un artista – Stefano Boccalini – a dirigere il Centro di comunità per l’arte e l’artigianato della montagna in Val Camonica e che egli abbia scelto di lavorare proprio sui temi delle produzioni locali per la sua mostra presso la Maison Tavel, sede espositiva dedicata alla storia della vita quotidiana attraverso i secoli afferente al Musée d’art et d’histoire di Ginevra. Curata da Adelina von Fürstenberg, già fondatrice del Centro d’arte contemporanea della città, l’esposizione riunisce opere realizzate da Boccalini insieme ad artigiani della Val Camonica specializzati nelle tecniche dell’intarsio e dell’intreccio, della tessitura e del ricamo. Ad accompagnare le produzioni sono stati coinvolti apprendisti interessati a mantenere
Giorgio Thoeni
Stefano Boccalini, Ohana, 2020. (Realizzato con il sostegno dell’Italian Council, foto Emanuel Montini)
produzioni e lavorazioni altrimenti in via di scomparsa. Se il linguaggio è quello delle pratiche produttive tradizionali, il lavoro sui contenuti delle opere è stato invece svolto a partire da venti parole intraducibili da lingue straniere: termini che raccontano del rapporto fra uomo e natura, provenienti dal norvegese o dalla lingua degli aborigeni australiani, dall’hawaiano o dal filippino, ma che non abbiano un corrispettivo in altri idiomi. Un esempio: la parola araba «gurfa» significa la quantità di acqua che si riesce a tenere nel palmo di una mano, immagine efficace per indicare ciò che è molto prezioso. L’interesse degli artisti per l’artigianato non è cosa nuova né insolita. Il movimento Arts and Crafts si era sviluppato in Inghilterra già negli ultimi decenni dell’Ottocento individuando nelle arti applicate la via per resistere
alla standardizzazione del prodotto e alla perdita di creatività determinata dall’industria. Alcuni decenni più tardi il piano di studi del Bauhaus si caratterizzava per laboratori pratici di falegnameria, ceramica, tessitura e molto altro. Si tratta quindi di una linea di ricerca che offre precedenti davvero significativi. Nel lavoro di Stefano Boccalini per la mostra La ragione nelle mani l’interessamento per le tecniche tradizionali non si risolve nell’opera finita. Il valore dell’esperienza si sposta piuttosto nella circolazione di saperi che l’artista riesce a mettere in atto. dove e quando
Stefano Boccalini, La raison entre les mains, Ginevra, Maison Tavel; fino al 27 giugno. institutions.villegeneve.ch
Le buone occasioni andrebbero centellinate, in certi casi è meglio gustarle al volo. Accade quando nel giro di pochi giorni vanno in scena due spettacoli di pregio ma con scarse possibilità di replica. È successo per S.P.A.M. Si vive una vita sola di Luca Spadaro al Teatro Foce di Lugano e con C’era una volta la tempesta di Flavio Stroppini al Teatro Sociale di Bellinzona. Due esempi di drammaturgia. Nel primo si trattava di una commedia silenziosa, nel secondo di un fiume di parole e canto. Al Foce le luci illuminano la scena di S.P.A.M. (acronimo che sta per Scene Per Attori Muti) sulle note di In cerca di te (perduto amor). Un titolo che già la dice lunga ma che tutti conoscono come Solo me ne vo per la città, brano portato al successo da Natalino Otto negli anni 40. Dalla colorata scenografia a piani rialzati che ricorda Animali notturni, spettacolo di Spadaro del 2018 e, a ben vedere, con una struttura abbastanza simile, S.P.A.M. muove la trama su quattro personaggi in uno stabile comune, con percorsi paralleli e incontri casuali in ascensore. Da un lato c’è la coppia che scoppia fra la routine quotidiana e cali di desiderio che alla fine si ritrova, dall’altro troviamo lo scrittore malaticcio, in manco di creatività, amante di videogiochi e dei Led Zeppelin (in sottofondo Babe I’m Gonna Leave You…) che cede alla carne
con la simpatica colf in uno slancio che gli sarà fatale. La bella e riuscita sfida di Spadaro sceglie di mettere in scena un divertito intreccio senza parole cedendo solo a qualche mugugno, a fugaci interiezioni e poche azioni mimate (con suoni registrati). Sono molto bravi gli attori del Teatro d’Emergenza nel sottostare al regime del silenzio senza abdicare alla pantomima. Per loro convinti e ripetuti applausi: da Silvia Pietta a Noemi Radice, Massimiliano Zampetti e Matteo Ippolito. Applaudito al Sociale C’era una volta la tempesta di Flavio Stroppini, con Matteo Carassini autore delle musiche, ottimo affabulatore e cantastorie. Nella dichiarata allusione all’opera del Bardo, la tempesta di Stroppini è quella che si scatena nel ’400 attorno ai fratelli Mazzarditi, definiti pirati sanguinari, in realtà assurti a simbolo di una delle ultime ribellioni contro lo strapotere di Milano come l’isolotto sul Lago Maggiore di fronte a Cannero dove ancora si ergono le rovine di un castello. Attorno a quei bastioni nasce quella leggenda nera dei Mazzarditi, un insieme di verità storica e fantasia popolare sui bravacci che hanno saputo alzare la testa a difesa della propria libertà. Un tema su cui Stroppini ha ricamato un intenso, fluido paradigma poetico in rima (quasi) baciata, venato da riflessi d’attualità per un interprete di razza che ha saputo regalare al pubblico passione e bravura. Annuncio pubblicitario
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cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il tempo del tempo Quelli che il Tempo... Quelli che... quest’anno il tema del nostro festival è il Tempo, così il ministro della Cultura trova il tempo per farci avere i contributi. Quelli che... il Tempo non è né di destra né di sinistra così da quel lato lì siamo tranquilli. Quelli che... con il Recovery Plan non c’è Tempo da perdere. Quelli che... se pensi che il Tempo sia un Cerchio e che quello che è già stato ritorna, sei di destra. Quelli che... se pensi che il Tempo sia una Freccia che corre in una sola direzione e il passato non ritorna, sei di sinistra. Quelli che... il Cerchio e la Freccia sai dove te li metterei. Quelli che... non hanno né Cerchio né Freccia, semplicemente non hanno Tempo. Quelli che... suonano la ghironda e dividono il loro Tempo metà ad accordare la ghironda e metà a suonarla scordata. Quelli che... dedicano tutto il loro Tempo ad allestire la Banca del Tempo e non gli avanzi del Tempo da mettere in banca. Quelli che... come fa quella lì, con quattro figli, la madre invalida, un
marito che non alza le chiappe nemmeno se la sedia prende fuoco, a trovare il Tempo per frequentare il corso di yoga? Quelli che... se vuoi trovare la tua giusta dimensione del Tempo devi seguire un corso di yoga. Quelli che... io un libro di tanto in tanto, diciamo una volta ogni dieci anni, lo comprerei anche, ma poi dove lo trovo il Tempo per leggerlo? Quelli che... io Cent’anni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez l’ho letto in un Tempo di 16 ore, 36 minuti e 28 secondi. Quelli che... il Tempo che un giapponese impiega a sostare in bagno è in media di 32 secondi mentre un nostro operaio metalmeccanico ci sta 128 secondi, così in Giappone ogni 90 secondi persi in bagno in Italia dalla loro catena di montaggio esce un’automobile in più che da noi. Quelli che... al mio paese c’era una volta un parroco che, quando gli commissionavi una Messa per un defunto, ti domandava per quanto Tempo doveva durare. Ne aveva da 15, da 20, da 30 e da 40 minuti, ma costavano tutte le stessa
cifra, cioè un’offerta al tuo buon cuore. Quelli che... il Tempo per telefonare alle tue amiche però lo trovi. Quelli che... per essere bello questo quadro è bello, niente da dire, però bisognerebbe sapere quanto Tempo ha impiegato il pittore per dipingerlo. Quelli che... dovresti trovare il Tempo per pensare un po’ anche a te stesso e non solo agli altri. Quelli che... alla frase precedente trovano il Tempo per aggiungere «prima che sia troppo tardi» e poi si stupiscono se fai gli scongiuri. Quelli che... adesso non ho Tempo, me lo lasci lì, prima o poi gli darò uno sguardo. Quelli che... per non perdere Tempo si fanno tagliare i capelli dalla moglie o dalla segretaria in ufficio. Quelli che... fin dal Tempo delle elementari sono contrari alla pena di morte ma per quelli che ogni due per tre dicono «un attimino» un’eccezione la farebbero volentieri. Quelli che... per fare bene da mangiare ci vuole il suo Tempo. Quelli che... impiegano il Tempo libero per seguire i lavori dei muratori che
costruiscono sulla casa dei nonni una meridiana e poi ti spaccano i marroni nella pretesa di fartela ammirare. Quelli che... non si accontentano di avere la meridiana ma pretendono che tu, con la scusa che settanta anni or sono hai fatto il classico, trovi una frase in latino da far scrivere sotto la meridiana. Deve contenere la parola Tempus, non importa se è copiata dalla lapide di un cimitero. Quelli che... costretti ad ammirare la meridiana e il motto in latino, arrivati alla parola Tempus, si ricordano, se mai se lo fossero scordato, che prima o poi dovranno morire. Quelli che... ogni occasione è buona per citare il proverbio «col Tempo e con la paglia maturano le nespole» ma se gli chiedi cosa sono le nespole non te lo sanno spiegare. Quelli che... per spiegarti la nozione di Tempo secondo la teoria della relatività, tirano fuori la storia del gemello di Einstein che, siccome era sempre in viaggio, alla fine della sua vita aveva scoperto di essere più giovane del fratello scienziato
di qualche millesimo di secondo. Quelli che... quando telefonano a qualcuno che si trova in una località lontana, per prima cosa chiedono «che Tempo fa lì da voi?» e poi coprendo il microfono con la mano riferiscono ai presenti «dice che lì da loro non si possono lamentare. Forse stava dormendo, lì da loro sono le tre di notte». Quelli che... parlando con i nipoti gli scappa di dire «ai miei Tempi» e subito dopo si pentono perché è un’espressione che ti scheda come un vecchio. Cercano di rimediare peggiorando la situazione: «Anche voi un giorno lontano direte ai vostri nipoti ai miei Tempi». Quelli che... se nel titolo di un film c’è la parola Tempo non lo vanno a vedere perché gli mette tristezza. Quelli che... avrebbero tanto voluto vivere al Tempo delle crociate a condizione però che i chirurghi praticassero già l’anestesia. Quelli che... chinandosi sulla culla di un bambino lo salutano con l’augurio «Che il Tempo ti sia dolce». E così sia.
scarpe; quindi tornava affranto alla grotta; dove c’era la donna ed eventualmente dei piccoli, i quali volevano mangiare e gridavano: «Papà papà»; il papà diceva: «Tacete», e tentava ancora di prendere qualcosa, ma prendeva solo delle spine nei piedi o un dito contuso in un sasso; questa situazione è durata per decine di migliaia di anni, coi piccoli sempre più affamati che gridavano «papà», e la moglie che diceva al marito: «Tocca a te», perché secondo lei la caccia era di sua competenza visto che lei doveva allattare, pulire i più piccoli, cambiarli. Questa epoca è stata un disastro; gli animali si sarebbero selezionati in modo da correre più forte; invece l’uomo non s’era ancora adattato alla posizione eretta; «Ho solo due gambe», rispondeva il marito alla moglie; «papà papà – gridavano i piccoli – abbiamo fame»; e così finivano per mangiare dell’insalata, delle carote, che contengono molta vitamina A, ma a quei tempi non c’era l’idea di una sana alimen-
tazione vegetariana e tutti volevano il grasso degli animali. Finché anche in questo campo l’uomo si è fatto una protesi che ha chiamato scarpa. Inoltre ha messo sulla punta di un bastoncino un dente di lupo e lo lanciava, cioè faceva correre al suo posto la protesi chiamata poi freccia, che quando arrivava era come se morsicasse, cioè si piantava nel collo dell’ungulato come avrebbe fatto un lupo; «papà papà» gridavano i bambini contenti correndo a bere il sangue. «Grazie Peppino» diceva la moglie se il marito o il convivente si chiamava Peppino. E l’uomo dunque se ne poteva star lì, sempre scarso nella corsa, nella forza, nella dentatura, poteva anche mettere su pancia, che con queste protesi era più veloce e mordente di tutti. E poteva starsene nell’estate illusoria della sua grotta, grazie alla protesi supplementare che si chiama fuoco, e masticare con altre protesi denominate forchetta e coltello. E se ne potrebbero nominare tante.
rimanere indifferenti nei confronti degli schiavisti di oggi? Quelli che, come faceva Colston tre o quattro secoli fa, gestiscono o comunque permettono il commercio di migranti (sempre dall’Africa) senza colpo ferire. Rovesciamo le statue di Cristoforo Colombo per ricordare che le popolazioni indigene subirono le violenze dei conquistatori, e ignoriamo o tolleriamo le violenze, i soprusi e gli sfruttamenti attuali. In Noi schiavisti (5+) la giornalista Valentina Furlanetto, per spiegare come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, elenca gli spaccapietre cinesi, le badanti ucraine, i rider africani, i bengalesi nei cantieri navali, gli allevatori sikh ma anche i braccianti macedoni, pakistani o senegalesi chiamati «scimmie» e schiacciati dai caporali. Si potrebbero aggiungere i lavoratori del riso nella Nigeria, rinchiusi in condizioni disumane durante la pandemia in uno stabilimento di Kano per produrre di più. E i minatori, spesso minorenni, nelle
miniere del Congo che estraggono coltan e cobalto per i nostri smartphone e le nostre batterie. Siamo cittadini smart 4.0 soltanto per spendere e consumare o anche per pretendere giustizia e dignità? Se la globalizzazione rende tutto felicemente più vicino, anche l’indignazione dovrebbe ignorare i confini. E comunque nel dubbio andate a Sabaudia, località turistica del Lazio, dove un medico di recente è stato arrestato per aver prescritto stupefacenti a oltre duecento pazienti di nazionalità indiana: gli oppioidi avrebbero permesso ai braccianti stranieri di lavorare nei campi dalle 12 alle 16 ore al giorno senza avvertire la fatica. Nulla da dire? Continuiamo pure a rinnovare i nomi delle strade e delle piazze, a rovesciare le statue di Colombo e di Colston… Ma la frustrazione di cui parla Prosperi non va sottovalutata: è pura illusione correggere il presente o progettare il futuro limitandosi a cambiare il passato o a cancellarlo.
un mondo storto di Ermanno Cavazzoni le protesi L’uomo è l’animale più simile alla formica, in teoria; ma mentre la formica non è mai scontenta, l’uomo invece ha come caratteristica la scontentezza, e già quando nasce urla di disperazione perché manca di tutto, e allora si è specializzato nell’invenzione di protesi, cioè nell’inventare cose che bene o male rimedino alle sue mancanze; ad esempio il canguro ha una borsa con cui portare a spasso i suoi piccoli, l’uomo ha dovuto inventare la carrozzina, che è una specie di carriolino o barella a quattro ruote che la madre o in sua vece il presunto padre spinge davanti a sé; inoltre essendo l’uomo glabro e non avendo il grasso cutaneo come le balene o le foche per ripararsi dal freddo, si è fatto una protesi ad imitazione del piumaggio o del pelo. L’uomo produce protesi in qualunque campo: ad esempio per correre usa congegni che chiama automobili, e si applicano direttamente sotto al sedere, fanno uno scoppiettio caratteristico e avanzano
a velocità sostenuta, superiore all’elefante, che fa solo i 40 km all’ora, alla giraffa, 56, ma anche al ghepardo, 112 all’ora; anche se per avanzare queste protesi hanno bisogno di una strada asfaltata, che sarebbe una protesi estensiva supplementare. Se a un uomo cade un dente, se ne fa uno finto, che infatti è detto protesi dentaria; se perde una gamba gliene fanno una finta; se perde un occhio non c’è niente da fare. Poi l’uomo vola, con varie protesi che si chiamano aereo, elicottero, e volando può scendere lentamente dal cielo con una protesi che si chiama paracadute. Inoltre vive parte della sua vita in una conchiglia, che però non è prodotta dalle sue ghiandole come fanno le lumache o i molluschi, ma è una protesi artificiale detta anche casa d’abitazione, o appartamento, che nessun animale sarebbe in grado di produrre con la forza delle sue ghiandole essendo spesso sovradimensionata e dotata di infissi, finestre coi vetri, mobilio, rete
elettrica; tutte cose che sarebbe difficile produrre con ghiandole, per via della varietà. Dovesse l’uomo produrre un cassettone o una poltrona, o solo una seggiola nel modo in cui si producono le unghie, dovrebbe aspettare molto, e il cassettone gli uscirebbe in età già avanzata, quando magari non gli serve più, e in tutto il periodo di produzione dovrebbe portarselo dietro come uno si porta le unghie. Non parliamo poi della casa che se dovesse portarsela dietro come la lumaca, ne avrebbe un enorme handicap, a meno di adattarsi a una vita statica in estesi condomini come fanno le colonie di corallo. Quindi l’uomo più che un bipede implume (come dice Aristotele) è un verme ingegnoso, cioè un essere enormemente difettoso che però trova sempre qualche rimedio ai propri difetti. Alle origini l’uomo cacciava gli ungulati che avendo zoccoli non temevano spine o terreni sassosi; l’uomo a quei tempi non aveva ancora inventato le
Voti d’aria di Paolo Di Stefano abbattere le statue e sentirsi migliori Si è aperta a Bristol una questione interessante, visti i tempi che corrono. La statua del mercante di schiavi secentesco Edward Colston, abbattuta nel giugno 2020 durante una manifestazione di Black Lives Matter, dopo essere stata ripescata dal fiume in cui era finita, è ora esposta dalla scorsa settimana fino a settembre nel museo della città inglese, non ripulita degli sfregi rossosangue sul viso e dei graffiti lasciati dai manifestanti. In aggiunta, a beneficio dei visitatori, il museo ricostruisce la cronologia degli eventi vissuti dalla scultura bronzea, che fu realizzata da John Cassidy, artista ottocentesco irlandese certamente infatuato di Auguste Rodin e suo (mediocre) seguace. Accanto al monumento trovano spazio i cartelli e gli striscioni esibiti dalla folla che protestava per le strade dopo la morte di George Floyd da cui un anno fa nacque il movimento antirazzista. Il pubblico della mostra di Bristol è invitato a esprimere il suo parere sul destino della statua: archiviarla
in un magazzino? Conservarla in un museo? Ricollocarla in città? E dove, se non nella piazza da cui è stata divelta? Uno storico, dopo aver valutato l’esito del sondaggio, comunicherà una sua «raccomandazione» alle autorità cittadine. L’iniziativa è contestata da più parti, ma non manca di coraggio. «La statua viene esposta non per essere magnificata ma interrogata», scrive giustamente Michel Guerrin su «le Monde» (5+). I contestatori più duri ricordano che Colston costruì la sua ricchezza sul monopolio del commercio di schiavi africani destinati ai lavori in loco ma anche alle piantagioni di zucchero e di tabacco degli Stati Uniti d’America. La statua eretta nel 1895 – come l’intitolazione a Colston di strade istituzioni edifici piazze – fu pensata in segno di riconoscenza per il filantropo che aveva finanziato scuole, chiese e ospedali, certo sorvolando sulle vittime che il suo florido commercio aveva prodotto: non ultimo il sacrificio di migliaia di
africani finiti, durante il viaggio, nelle acque dell’Oceano Atlantico. Dunque, c’è prima lo schiavista (1) e poi il benefattore (5), celebrato come «uno dei più saggi e virtuosi figli della città di Bristol», ma la media tra i due non arriva alla sufficienza (3). Bisogna però pur sempre considerare il tempo storico in cui certi eventi sono avvenuti e avvengono. I romantici dicevano che «quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa»: lo ricorda lo storico Adriano Prosperi (voto massimo con lode al suo recente Un tempo senza storia). E se è pur vero che eliminare i monumenti del passato è un gesto iconoclasta tipico delle rivoluzioni (la Rivoluzione francese come la caduta del Muro di Berlino), qui si tratta non tanto di moti rivoluzionari quanto di proteste dovute alla frustrazione e all’impotenza. Per essere autentica rivoluzione dovrebbe osare di più. Per esempio, perché distruggere le effigie degli schiavisti del passato remoto e
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