Anno LXXXV 25 luglio 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
Pagine 4 – 5 ●
SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Costruire muri, edificare ponti: un progetto di scambi interculturali dell’associazione Naturkultur
Visita a Augusta Raurica, vicino a Kaiseraugst, fiorente cittadina romana fondata quasi 2000 anni fa
Dentro la crisi politica italiana, con il flop del Movimento 5 Stelle e l’avanzata di Fratelli d’Italia
L’arte italiana tra le due guerre al MASI di Lugano: la mostra raccontata da Gabriella Belli
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L’amore spiegato dalla scienza
Stefania Prandi
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Il gas, la spada di Damocle russa Peter Schiesser
Mentre ancora ci preoccupiamo per la carenza di acqua in questa estate torrida e siccitosa, alle porte ci attende la prossima crisi: quella energetica. È da un anno che le autorità federali rendono attenti al rischio di blackout invernali, in ragione dell’accresciuta domanda mondiale e della progressiva rinuncia all’energia nucleare, cui si aggiungono le siccità che riducono la produzione di energia idrica e le bizze dei venti che l’anno scorso hanno fatto crollare in Germania la produzione di energia eolica. Ma oggi ci troviamo in uno scenario nuovo, in cui una sola persona, Putin, detiene il potere di brandire il gas come un’arma contro l’Occidente. L’Unione europea ritiene molto probabile che in inverno la Russia interromperà del tutto le forniture di gas, già di molto diminuite: oggi diversi paesi non ricevono più gas russo (Paesi Baltici, Polonia, Bulgaria, Finlandia), altri molto meno (Germania, Francia, Italia). Putin aspetterà il momento giusto, quando farà più male e quando più potrà servire a creare divisioni nell’Unione. Non starà invece ad aspetta-
re l’Ue: mercoledì scorso ha annunciato il suo piano d’emergenza per superare i prossimi due inverni senza gas russo. Da una parte bisognerà trovare forniture alternative (l’Italia ha da poco concluso accordi con l’Algeria, promettendo anche capitali per potenziare le infrastrutture locali), ma non basta, per cui Bruxelles invita tutti i paesi dell’Ue a tagliare da subito e volontariamente del 15 per cento il consumo di gas. Rispetto a un anno fa, è già diminuito del 5 per cento, anche a causa degli alti prezzi, ma non basta per evitare una crisi energetica. Entro settembre i paesi membri dovranno presentare i loro piani di risparmio. In caso di crisi acuta, la Commissione europea potrà, in consultazione con gli Stati membri dell’Ue, imporre l’obbligo di una riduzione del 15 per cento. Che ripercussioni avrà tutto questo da noi in Svizzera? Come viene affrontata l’incipiente crisi? Dobbiamo temere di restare al freddo nel prossimo inverno? Lo stesso giorno in cui Bruxelles annunciava i suoi piani, a Berna si sono presentati i responsabili dell’Ufficio federale
dell’energia (Ufe) e dei settori del gas e dell’elettricità per fare il punto della situazione: secondo il direttore della Federazione dei produttori di elettricità Michael Frank, il rischio di una carenza di energia è reale e grande, il direttore dell’Ufe Benoit Revaz è andato oltre, definendo quella attuale la prima crisi energetica globale. Molto dipenderà ovviamente da che cosa deciderà Putin, ma anche se la Francia spegnerà effettivamente la maggior parte delle sue centrali nucleari (dalle quali importiamo elettricità) come previsto nei piani di risanamento, e se il prossimo inverno sarà particolarmente freddo. Il Consiglio federale sta negoziando con la Germania un «accordo di solidarietà», e intavola ora discussioni anche con la Francia e l’Italia, per poter importare gas da questi paesi. Ma è chiaro che un simile accordo potrà dare frutti soltanto se anche la Svizzera si impegnerà a ridurre i consumi – è poco probabile che la Germania, dovendo ridurre del 15 per cento il proprio consumo, ne esporti verso la Svizzera se questa non fa altrettanto. Per cui anche a Berna si stanno
preparando dei piani d’emergenza. Come annunciato mercoledì, sono previsti diversi livelli d’intervento, a seconda della gravità della carenza di gas. La prima fase prevede l’appello alla popolazione a ridurre volontariamente i consumi (si calcola che con 1 grado in meno in casa un’economia domestica risparmierebbe già il 6 per cento), la seconda imporrebbe a determinate industrie di passare dal gas al gasolio, la terza prevede una riduzione obbligatoria della temperatura negli edifici pubblici e negli uffici, la quarta e più incisiva un razionamento delle forniture di gas al 70 per cento per determinate industrie. Questo per quanto riguarda la crisi del gas. Dovesse subentrare anche una mancanza di elettricità si comincerebbe con gli appelli alla popolazione a ridurre il consumo, fino a vietare l’uso di stufe mobili, saune, insegne pubblicitarie luminose, a imporre a circa 30mila aziende un risparmio dal 10 al 30 per cento, per infine arrivare a dei blackout controllati da 4 a 8 ore. Scenari che non lasciano tranquilli, per cui è bene esserne consapevoli fin da ora.
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I tesori del territorio La caccia al tesoro per scoprire il Ticino appassiona turisti e residenti, ne parliamo con Elia Frapolli che ne ha appena ideata una a Brissago
Cervello e sistema immunitario Nuovi studi hanno dimostrato che la collaborazione tra il sistema nervoso e quello immunitario non è attiva solo in caso di malattia del cervello
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Perché si ama?
Scienza e relazioni ◆ Anna Machin, antropologa evoluzionista della Oxford University, risponde a questa domanda con le più recenti scoperte delle neuroscienze, della genetica e della psicologia Stefania Prandi
«Vorrei che inventassi un qualche modo per rendermi felice senza di te. Ad ogni ora mi concentro sempre più su di te; ogni altra cosa e tutto il resto ha un sapore di paglia nella mia bocca». La lettera d’addio del poeta inglese John Keats alla «stella leggiadra» Fanny Brawne, vicina di casa con cui ebbe una liaison intensa e che non riuscì a dimenticare fino alla morte, racconta lo strazio della fine di un amore. Per secoli letteratura, filosofia, poesia e musica hanno indagato le molte sfumature di questo sentimento. Ma oltre all’amore romantico – invenzione relativamente recente nella storia umana – passionale e struggente, «accecato dal fuoco che cova dentro», per usare le parole di Friedrich Nietzsche, ce ne sono altri. Esistono quello amicale, filiale, spirituale e artistico. E con il progredire dell’intelligenza artificiale, un giorno magari ci si innamorerà anche di un avatar oppure di un robot. Ma perché si ama? Se lo domanda Anna Machin, antropologa evoluzionista al dipartimento di Psicologia sperimentale della Oxford University, nel suo ultimo libro Why We Love: The New Science Behind Our Closest Relationships (Weidenfeld & Nicolson). La studiosa, già autrice di testi sull’intricato intreccio tra biolo-
gia e cultura alla base di buona parte dei comportamenti umani, si inserisce nel recente dibattito scientifico internazionale sulle origini, il senso e i meccanismi dell’amore. Machin cita le più recenti scoperte delle neuroscienze, della genetica e della psicologia, passando per la chimica e la biologia, accompagnando ricerche accademiche a interviste. L’idea di un libro sul tema le è venuta cinque anni fa quando è stata incaricata di moderare un dibattito pubblico alla Oxford University, dal titolo «Che cos’è l’amore?». Dopo aver chiesto ai circa trecento partecipanti di fissare i loro pensieri, in forma anonima, su un pezzo di carta, si è resa conto «dell’incredibile soggettività delle risposte». Alcuni hanno espresso sentimenti romantici mentre altri hanno fatto riferimento all’amore per i propri figli, per gli animali domestici e, addirittura, per gli oggetti inanimati. «L’amore è un frutto dell’immaginazione che confonde il cervello», ha dichiarato uno dei partecipanti. «È uno stato mentale nel quale la logica scompare», ha ribadito un altro. Al di là delle singole prospettive, frutto di esperienze personali e vicende familiari, secondo Machin l’amore, riproponendo ciò che già dice-
va Arthur Schopenhauer, nasce come un inganno della natura, il riflesso della volontà di riprodursi della specie. Così spiega ad «Azione»: «A livello più elementare amiamo per riuscire a restare in vita. Gli esseri umani devono cooperare tra loro per mangiare, imparare e crescere i figli, ma la collaborazione non è sempre serena, e a volte minaccia la nostra sopravvivenza. Quindi per convincerci a farlo, anche quando è difficile, con l’evoluzione è arrivato l’amore. Fondamentalmente si tratta di una “corruzione biologica”, un insieme di sostanze neurochimiche che ci motivano e ci premiano per iniziare e poi per mantenere le nostre relazioni fondamentali». Non possiamo neppure definire l’amore un’emozione, essendo un fenomeno troppo complesso. «Meglio considerarlo uno stimolo, una necessità indispensabile al pari del cibo e dell’acqua». La sua potenza travolgente, nelle diverse forme, può arrivare a fare perdere la ragione – Astolfo, in sella all’ippogrifo, dovette perfino recarsi sulla luna per recuperare il senno di Orlando, raccontava Ludovico Ariosto – anche perché dell’amore non abbiamo un’idea condivisa, contrariamente a quanto si tende a
pensare. Pretendiamo che gli altri ci capiscano e crediamo di riuscire a fare lo stesso, ma in realtà non funziona così: il punto di vista varia da persona a persona, in base a due dimensioni chiave, la biologia e la cultura. «I nostri geni e l’educazione, così come la religione, la politica e la storia, influenzano la modalità in cui lo sperimentiamo e lo viviamo». I geni non sono deterministici, cioè non è detto che il «messaggio» che contengono si avveri. Certo, si è scoperto che alcuni sono più influenti di altri, ma non si attivano da soli: interagiscono tra di loro e con l’ambiente. In generale, aumentano le possibilità che una particolare caratteristica o un certo comportamento si esprimano nel corso della vita. «I geni hanno un impatto importante sulla nostra ricerca dell’amore, sulla felicità sentimentale, sull’abilità di empatizzare ma anche di scoprire i tradimenti», spiega Machin. «E influiscono sulla capacità di mantenere le relazioni, sulle nostre ossessioni, manie e risposte ai rifiuti». La commistione tra genetica e psicologia fa sì che alcuni abbiano bisogno di un rapporto esclusivo per sentirsi appagati e realizzati mentre altri stiano bene da soli. Siamo dei casi particolari, con le pretese, le aspi-
razioni e le aspettative più disparate, nonostante restino tuttora presenti, nelle diverse società, modelli prestabiliti e dominanti basati sulla monogamia e l’eteronormatività, cioè la propensione a considerare l’eterosessualità come l’unico orientamento sessuale legittimo. L’amore romantico prevale anche se non è più la regola né la priorità per tutti. C’è chi, ad esempio, non crede alla fedeltà assoluta e sceglie relazioni multiple consensuali e contemporanee, attraverso il «poliamore». Stando alle ricerche dell’Ufficio di statistica nazionale della Gran Bretagna, soltanto una persona su sei è ancora convinta che esista il principe azzurro o il suo corrispettivo femminile. Oltre a essere uno stereotipo limitante, l’amore romantico può trasformarsi in una fonte di rischio, assumendo forme manipolatorie e violente. «Ogni tipo di amore ha dei lati oscuri e forse la narrazione romantica non aiuta perché ci predispone ad aspettative irrealistiche: può intrappolare, con l’idea che esista davvero l’anima gemella. Mi piace incoraggiare la gente a non vederlo come l’espressione più importante di affetto e passione. L’amore non segue delle gerarchie: è uno “spettro” che dispensa gioie e benefici».
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Muri che uniscono
Socialità ◆ Il progetto Building Walls – Breaking Walls dell’associazione Naturkultur coinvolge giovani adulti provenienti da Israele, Palestina, Irlanda, Irlanda del Nord e Svizzera in un’esperienza di apprendimento interculturale e lavoro a contatto con la natura Stefania Hubmann
Muri da costruire, muri da abbattere. I primi sono quelli a secco, frutto in Ticino di una lunga tradizione e da alcuni anni oggetto di operazioni di ripristino. I secondi sono barriere e stereotipi culturali che possono essere superati più facilmente grazie al lavoro comune svolto in natura. Il risultato dell’unione di questi due concetti è il progetto «Building Walls – Breaking Walls Ticino» promosso dall’associazione svizzera Naturkultur, progetto che quest’anno si è tenuto per la quarta volta a Mergoscia lo scorso maggio. Sedici giovani provenienti da Svizzera, Israele, Palestina, Irlanda e Irlanda del Nord hanno aiutato per una settimana a ripristinare alcuni muri, partecipando nel contempo a una serie di workshop dedicati a scambi e riflessioni sulle rispettive culture. L’iniziativa ha valenza internazionale, poiché si svolge diverse volte all’anno in tutte le regioni linguistiche della Svizzera come pure in Israele e Irlanda. Nel nostro cantone la sua realizzazione è legata a una collaborazione con l’associazione Pro Mergoscia. Giunto per la prima volta a Sud delle Alpi nel 2018, il progetto ha subito un’interruzione forzata nel 2020 a causa della pandemia. Le prime esperienze di «Building Walls – Breaking Walls» risalgono però al 2013 e sono state organizzate sul Röstigraben, ossia al confine fra la Svizzera tedesca e quella francese. Simbolo delle differenze culturali fra le due principali regioni linguistiche nazionali, il «fossato dei rösti» non è certo stato scelto a caso, come ci spiega Johanna Kral, coordinatrice del progetto per il Ticino. «In Svizzera non conosciamo conflitti aspri, ma le differenze fra le quattro lingue e le rispettive culture esistono e possono creare malintesi. Il confronto e le scambio di opinioni facilitano la reciproca comprensione così come la convivenza. È questo il messaggio del progetto principale di Naturkultur che coinvolge Paesi dove sono presenti conflitti a livello politico, sociale e religioso». L’associazione opera nell’ambito del lavoro di volontariato interculturale sia in Svizzera che all’estero. Fondata nel 2010 a Soletta, ha sviluppato diversi programmi destinati a fasce d’età differenziate. Per gli adolescenti è stato pensato un campo invernale sulla neve o ancora uno scambio bilaterale (Svizzera – Israele) con attività in una fattoria biologica, mentre agli adulti si propone un’esperienza intensiva della durata di alcune settimane. Il lavoro ai muri rimane una sorta di fil rouge che accomuna più progetti con l’interessante confronto di co-
In Ticino il progetto è attivo grazie alla collaborazione con la Pro Mergoscia che lo scorso maggio ha ospitato 16 giovani impegnati a ripristinare alcuni muri a secco e a partecipare a workshop di riflessione sulle rispettive culture.
me questi manufatti siano realizzati con tecniche diverse a seconda che ci si trovi sulle montagne svizzere o nel deserto mediorientale, ma sempre con il contributo di ogni partecipante, dal volontario all’esperto artigiano. «Lavorare insieme in natura» è infatti il principio utilizzato dall’associazione per mostrare che è necessario l’apporto di tutti per costruire sia in concreto, sia in senso figurato e nello specifico nei rapporti umani. Prosegue la coordinatrice: «I partecipanti, al progetto ticinese, di età compresa fra i 18 e i 25 anni, trascorrono una settimana al Campo Cortoi, nucleo di rustici gestito da una cooperativa che si trova a 40 minuti di cammino sopra Mergoscia. Conducono una vita semplice, camminando ogni giorno per raggiungere e tornare dalla zona di lavoro. Il contatto con la natura è quindi molto stretto. Un altro aspetto importante è quello di lasciare un segno nel territorio. I muri a secco sono parte del patrimonio culturale, per cui contribuire al loro ripristino significa preservare questa eredità». Ogni gruppo di quattro partecipanti con la medesima origine è accompagnato da un leader che si occupa degli aspetti organizzativi. Johanna Kral, oltre a essere la coordinatrice locale, ha svolto questa funzione per il gruppo svizzero. La ricerca dei partecipanti avviene tramite i coordinatori, generalmente attivi in organiz-
zazioni regionali che collaborano con Naturkultur. Durante il campo di lavoro l’attività di scambio interculturale mirata si svolge al pomeriggio con piccoli gruppi formati da un rappresentante di ogni Paese. Johanna Kral: «Proponiamo ad esempio di rispondere a domande su temi circoscritti mentre si compie un’escursione. Questi temi possono riguardare le festività principali dei rispettivi Paesi o le cerimonie dei matrimoni. Affrontiamo anche argomenti più complessi e controversi quali il rapporto fra il passaporto e la propria identità». Fondamentale per la riuscita del progetto è la collaborazione con i partner locali. La nostra interlocutrice ricorda per il Ticino, oltre agli enti già citati, il Comune di Mergoscia e i privati (negozi, ristoranti, ecc.) coinvolti nell’ospitalità del gruppo. Gruppo al quale si offre la possibilità di scoprire la valle Verzasca e Locarno, dove pernotta l’ultima sera. Ad accompagnare i partecipanti nel ripristino dei muri c’è Urs Nuesch della Pro Mergoscia, per il quale questa esperienza costituisce sempre un momento arricchente. Riguardo alla preparazione del lavoro, Nuesch spiega come sia meglio «allestire due piccoli cantieri vicini per suddividere l’attività in gruppi più ristretti. Ognuno aiuta come può, chi solo trasportando il materiale, chi nel ripristino vero e proprio se è più
azione
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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni
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abile manualmente. Il lavoro ai muri a secco richiede tecnica e per questo abbiamo a disposizione uno specialista. I due cantieri permettono inoltre di lavorare ad altrettanti tipi di muro: quelli di confine a due facce e quelli di sostegno dei terrazzamenti». La Pro Mergoscia è impegnata in questa attività, sempre con azioni di volontariato, già dal 2005 nell’ambito di un progetto più ampio volto a valorizzare il paesaggio naturale e culturale. «Recuperando una piccola parte di questi terreni attraverso il ripristino dei muri a secco, si mettono a disposizione nuovi spazi per gli agricoltori». Tornando al lavoro dei volontari di Naturkultur, il rappresentante della Pro Mergoscia evidenzia come quella dei muri a secco sia un’attività manuale tranquilla che non richiede l’impiego di macchinari. Durante il suo svolgimento è pertanto possibile conversare, facilitando gli scambi promossi dal progetto. «Lavoro con piacere con i giovani di “Building Walls – Breaking Walls Ticino”; sono sempre simpatici e per nulla complicati. La lingua di comunicazione è l’inglese e questa esperienza permette anche di superare i pregiudizi che magari nutrono verso il nostro Paese, confrontandosi con una Svizzera dove si conduce una vita semplice a diretto contatto con la natura». Anche i diretti interessati sono appagati dall’esperienza effettuata in
valle Verzasca. Johanna Kral ha raccolto le loro impressioni, che spaziano dalla soddisfazione per un muro visto come «un forte simbolo di unione» all’arricchimento personale in quanto a coraggio, fiducia e apertura. Di professione assistente sociale, Johanna Kral, come spesso accade ai coordinatori, ha partecipato lei stessa negli anni scorsi a tre progetti, già con funzioni di coordinamento in Svizzera e come semplice volontaria in Israele. Ciò le ha dato modo di constatare come il medesimo progetto si declini in modo diverso, ma secondo i medesimi principi, a dipendenza del Paese nel quale viene realizzato. A partire dall’autunno l’obiettivo suo e di Naturkultur è di creare una sede in Ticino, trovando finanziamenti locali per il progetto di Mergoscia e costituendo una rete di contatti sul territorio che faciliti la ricerca dei partecipanti. Nell’attesa, l’associazione seguirà le restanti tappe di «Building Walls – Breaking Walls». Il calendario 2022, inaugurato con il Ticino, ha registrato due soggiorni nei Grigioni e in Irlanda cui faranno seguito quelli previsti nei cantoni Vaud e Giura prima della settimana conclusiva di fine ottobre in Israele.
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MONDO MIGROS
Una delizia tutta ticinese Pane della settimana
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Il pane Val Morobbia è una specialità prodotta con cereali coltivati esclusivamente nel nostro Cantone
Flavia Leuenberger Ceppi
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Da ormai vent’anni il pane Val Morobbia occupa un posto privilegiato sulla tavola dei ticinesi. Questa rustica bontà, il cui nome si ispira all’omonima e affascinate vallata situata sopra Giubiasco, si caratterizza per il suo sapore unico dato dagli ingredienti attentamente scelti con cui viene prodotto. In primis farina scura di segale e farina bigia di frumento, entrambe ottenute da cereali coltivati nella nostra regione secondo i criteri della produzione integrata svizzera IP-Suisse e trasformati con la supervisione del Mulino Maroggia. La lavorazione, che richiede ancora molta dimestichezza artigianale, è invece affidata agli esperti panettieri della Jowa di S. Antonino, il panificio di Migros Ticino. Dopo la delicata fase di
miscelazione di tutti gli ingredienti – oltre alle farine solo lievito, sale e acqua –, l’impasto viene lasciato lievitare per diverse ore in modo che possa sviluppare pienamente tutti i suoi aromi. Le pagnotte vengono successivamente formate a mano nelle pezzature da 320 e 550 grammi e cotte lentamente in forno fino quando la crosta risulta ben dorata e croccante e la mollica soffice e leggera al punto giusto. Il Val Morobbia è un pane che si gusta in qualsiasi stagione: in estate è per esempio squisito accompagnato da un’insalatina croccante, affettati, formaggi oppure pietanze grigliate; nella stagione fredda si abbina invece perfettamente a piatti tipici del territorio quali minestrone, zuppe, brasati, stufati e arrosti vari.
Grigliare che passione
Attualità ◆ Celebrare il Natale della Patria con una ricca grigliata è un must. Per l’occasione vi offriamo le costine carré svizzere a un prezzo imperdibile
Azione 35% Costine carré di maiale, Svizzera, per 100 g Fr. 1.70 invece di 2.65 dal 26.7 all’1.8.2022
C’è chi ama quelle «classiche», carnose e succose, e chi invece non rinuncerebbe mai a quelle più piccole, particolarmente tenere e aromatiche, note nei paesi anglosassoni come baby back ribs. Stiamo ovviamente parlando delle costine di maiale, uno dei tagli preferiti dai grigliatori di tutto il mondo. Diffuse da noi con il nome di costine carré o anche puntine, le baby back ribs, in modo particolare, negli ultimi anni hanno conquistato sempre più estimatori. Più delicate e magre delle costine convenzionali, sono ottenute dal costato dell’animale dopo aver rimosso la lombata. In linea di massima una «pezza» di costine carré pesa all’incirca 1 kg ed è sufficiente per sfamare 2 persone. Oltre a essere buonissime, sono facili da preparare e richiedono tempi di cottura sensibilmente ridotti rispetto alle costine più lunghe. Grigliatele prima a fuoco alto per breve tempo affinché si formi la tipica crosticina in superficie e acquisiscano il caratteristico aroma di carne alla brace. In seguito spostatele ai bordi della griglia cuocendole lentamente a fuoco medio fino al raggiungimento del grado di cottura ideale.
La ricetta Costine con marinata di senape e birra Ingredienti per 4 persone • 1,5 dl di birra • 1 cucchiaio di senape in grani • 1 cucchiaio di senape dolce • 2 cucchiai di ketchup • 2 cucchiai di salsa di soia • 2 kg di costine carré di maiale • 3 rametti di rosmarino Preparazione
Mescolate la birra con la senape in grani e dolce, il ketchup e la salsa di soia. Spennellate le costine con la marinata e lasciate riposare per ca. 30 minuti. Togliete la marinata e mettetela da parte. Accomodate su ogni pezzo di carne un rametto di rosmarino e grigliate le costine per almeno 45 minuti, girandole spesso per evitare che brucino in superficie. Verso fine cottura spennellate la carne con la marinata che avete messo da parte.
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La brioche del 1. agosto Attualità
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La specialità che non può mancare in occasione della festa nazionale svizzera
Un primo agosto senza la caratteristica brioche della Migros? Inimmaginabile! Questa bontà simile alla treccia nel gusto e nella consistenza, perfetta da gustare in occasione del tradizionale brunch della festa nazionale, fu lanciata nel lontano 1959 dall’associazione svizzera dei panettieri-confettieri e in poco tempo diventò uno dei simboli per eccellenza della ricorrenza. Con la sua forma tondeggiante, l’incisione a forma di croce in superficie e l’immancabile bandierina svizzera come decorazio-
ne è immediatamente riconoscibile e identificabile sugli scaffali dei supermercati. Grazie al suo sapore neutro è ideale da gustare sia con abbinamenti dolci sia salati. Ricordiamo che oltre alla brioche, per la festa del 1. agosto le maggiori filiali Migros propongono ancora altri articoli a tema «rossocrociato», disponibili per un breve periodo, come prodotti di pasticceria (discoletti, millefoglie, coppette), lanterne di carta, bandiere e bandierine, tovaglioli, tovaglie, composizioni floreali e diversi altri articoli decorativi.
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Tesori da ritrovare
Territorio ◆ Nella Svizzera italiana sono molte le proposte per famiglie che invitano a scoprire le bellezze della natura o la storia e le peculiarità dei comuni attraverso una caccia al tesoro Nicola Mazzi
Jim, il giovane protagonista dell’Isola del tesoro (romanzo pubblicato da Robert Louis Stevenson nel 1883) potrebbe essere fiero dell’eredità che ha lasciato a quasi un secolo e mezzo di distanza. Oltre ad avere ancora numerosi e appassionati lettori il romanzo ha infatti contribuito a far crescere in tutti i bambini del mondo il desiderio di fare la caccia al tesoro. Negli ultimi anni lo hanno compreso molto bene diversi operatori turistici che hanno adattato questo desiderio alla promozione dei luoghi da valorizzare e far scoprire ai turisti ma anche ai residenti. Nella Svizzera italiana il fenomeno è letteralmente esploso e oggi, in molti luoghi, è possibile abbinare il divertimento alla scoperta di un paese o di una regione. Per capire la diffusione della caccia al tesoro basta guardare il sito web delle varie Organizzazioni turistiche regionali (OTR). A iniziare da quello di Ascona-Locarno che propone ben cinque cacce al tesoro: quella di Locarno, di Cardada-Cimetta, di Ascona, di Tenero e delle Isole di Brissago. Cinque avventure da vivere in famiglia alla ricerca di indizi che permetteranno di risolvere enigmi per trovare il tesoro. Ma c’è anche quella di Bellinzona con la cartina che si può chiedere all’infopoint di Piazza Collegiata, oppure quella che parte dalla stazione di Lugano e ti fa scoprire, in un paio di ore, buona parte della regione sino ad arrivare in cima al Monte Brè e sul Monte San Salvatore. Scendendo più a sud, nel Mendrisiotto e nel Basso Ceresio si suggerisce di percorrere i sentieri della regione assaporando le prelibatezze dei mesi autunnali e scoprendo particolarità legate alla vita dei boschi. Si tratta di una caccia al tesoro particolare alla ricerca delle specie che vivono nelle foreste svizzere: a ospitarla sono la zona Bellavista, sulle pendici del Monte Generoso, e i boschi di Arogno. Insomma, di cacce al tesoro ce ne sono di tutti i tipi e adatte a tutti i gusti.
La caccia al tesoro sfrutta non solo le classiche mappe ma anche le nuove tecnologie con un App che si scarica sul telefonino.
Di recente anche Brissago si è dotato di questo particolare strumento turistico. Ne abbiamo voluto parlare con Elia Frapolli, ideatore di questa e di altre iniziative simili. «La caccia al tesoro – sottolinea – è un modo simpatico e giocoso per coinvolgere i più piccoli (e quindi anche le loro famiglie) nello scoprire il territorio. Quelle che organizziamo sono infatti cacce al tesoro ludico-didattiche: da un lato c’è la ricerca di un tesoro nascosto con una trama narra-
tiva definita e precisa, una storia che ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Dall’altro lato abbiamo anche un approfondimento legato al paese o alla regione in cui viene svolta la caccia al tesoro. Per esempio, in quella che abbiamo realizzato a Brissago il focus è di tipo storico, mentre in quelle ideate sul Lucomagno la storia raccontata è più legata alla natura e al mondo animale in particolare». Attraverso il gioco si promuove inoltre la conoscenza del territorio.
«La caccia al tesoro permette, infatti, di portare i turisti nei luoghi meno conosciuti del Ticino: nelle viuzze e nelle piazzette più antiche. In questo senso Brissago è l’esempio più classico di un paese di passaggio tra il Cantone e l’Italia, ma che in definitiva non si conosce molto e invece nasconde dei veri e propri gioielli, tutti da scoprire». Ma nel concreto la caccia al tesoro di Brissago come è costruita? «C’è da precisare che questa come le altre che abbiamo realizzato sono pensate per un pubblico di bambini dai 4 ai 12 anni. Attraverso storie animate e indizi, le famiglie possono cimentarsi nella ricerca delle monete disperse che compongono il tesoro dei pirati e ottenere la ricompensa finale. Si usa anche il cellulare con il suo GPS per seguire un percorso di un paio di chilometri e si scoprono indizi scritti in rima e quindi facili anche per i più piccoli. Indizi sui quali vengono esplicitati elementi che permettono di trovare le monete d’ottone lavorate a mano e in basso rilievo». Lo scorso anno Frapolli aveva re-
alizzato altre due cacce al tesoro: una proprio sul passo del Lucomagno e l’altra a Campo Blenio. «In quei casi – spiega – ci eravamo concentrati sulla natura e gli animali. Per esempio, a Campo la storia era costruita attorno agli animali della fattoria mentre in cima al Passo abbiamo pensato di focalizzarla sugli animali selvatici. I risultati finora sono stati molto buoni con più di mille famiglie che hanno partecipato alla caccia al tesoro nei primi due mesi. “Ricercatori” costituiti soprattutto da residenti della Svizzera italiana. In questi mesi stiamo lavorando a una terza caccia al tesoro che sarà pronta nelle prossime settimane ed è ancora situata in Val di Blenio e sono anche in trattativa con alcuni Comuni per svilupparne ancora altre». Spostando il discorso su un piano più generale quello della caccia al tesoro «è il segnale concreto di un trend turistico che si è sviluppato con la pandemia e cioè la scoperta di luoghi vicini ma che non conosciamo. Tante volte si va in capo al mondo per le vacanze ma non si conoscono le bellezze di casa nostra, ecco, questo è uno strumento simpatico e utile per cercare di conoscere un po’ di più la nostra regione». Nel caso di Frapolli vi è stato anche un passo in più e cioè l’uso della tecnologia. «Attraverso un App – elaborata da Studio Macaco di Mendrisio – che si scarica sul telefonino, posso essere indipendente da organizzatori o altri enti esterni. La caccia al tesoro può infatti essere fatta a qualsiasi ora e alle famiglie questa libertà di movimento piace molto». Un’esperienza che soddisfa Frapolli anche sul piano personale. «Sono progetti ai quali tengo molto e che mi divertono; visto che ho tre bimbi di quell’età, prima di presentarli al pubblico li testo su di loro per capire se funzionano davvero. In altre parole, sono iniziative appassionanti da realizzare nelle quali posso far combaciare il lavoro e la famiglia».
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Viale dei ciliegi Alex G. Griffiths Il collezionista di insetti Edizioni Clichy (Da 3 anni)
George va con il nonno al Museo di Storia Naturale, ma non è la scontata sala dei dinosauri che il nonno vuole fargli ammirare: l’illustrazione in doppia pagina mostra il bimbo che ovviamente resta colpito da queste creature enormi, e il nonno che però è impaziente di portarlo a vedere altre creature, molto più piccole e, come dire, meno vistose, ma altrettanto stupefacenti. E meno trattate nelle storie per l’infanzia: gli insetti. Il nonno li fa apprezzare a George, il quale, il giorno successivo, comincerà subito a dar loro la caccia in giardino, per acciuffarne più che può, metterli in barattoli e poterli così ammirare come una variegata collezione. Peccato che il giardino ora sia triste e silenzioso, nulla più che «ronza, svolazza o striscia». Ovviamente il nonno spiegherà a George che gli esseri viventi non devono essere rinchiusi in barattoli e lo convincerà a liberarli, sottolineando «il ruolo importantissimo che gli insetti svolgono nel mondo esterno» e tutto finirà bene,
di Letizia Bolzani
con gli insetti osservati e non catturati. In realtà, da questa semplicissima storia trapelano contenuti molto rilevanti: al di là del messaggio etico sul rispetto di ogni creatura, è essenziale trasmettere ai bambini il valore enorme che gli insetti hanno per l’ecosistema, di cui favoriscono l’equilibrio. Gli insetti sono elementi fondamentali della biodiversità. Il giardino silenzioso di George fa venire in mente quel notevole (e non abbastanza ricordato) Silent Spring, saggio uscito nel 1962 della grande (e non abbastanza ricordata) Rachel Carson (1907-1964), la scienziata che lanciò il movimento ambientalista, subendo, a diffe-
renza delle ragazze di oggi, oltraggi maschilisti, umiliazioni, campagne denigratorie da parte delle grandi aziende americane produttrici di pesticidi, poiché lei ne sottolineava l’impatto sull’intero ecosistema. Da qui il titolo, Primavera Silenziosa, che deriva dalla constatazione del maggior silenzio nei campi primaverili, rispetto ai decenni passati: l’utilizzo massiccio di insetticidi causava la diminuzione di uccelli canori. E di vita. Tornando al nostro bell’albo, scritto e illustrato da Alex Griffiths, sono certa che piacerà ai bambini, proprio perché è una storia semplice, in cui anche i più piccoli potranno identificarsi, ed è una storia che nella sua semplicità dice tantissime cose. A cominciare dal fatto che i dinosauri sono meravigliosi, ma gli insetti, nel loro piccolo, non sono da meno. Irene Borgna Manuale per giovani stambecchi Salani Editore (Da 10 anni)
Il libro perfetto per i ragazzi che amano la montagna, o che potrebbero amarla. Irene Borgna, l’autrice, ha «fatto della montagna la sua pas-
sione e il suo mestiere». Dopo aver conseguito un dottorato di ricerca in antropologia alpina, si occupa di divulgazione ambientale e fa la guida naturalistica. Ha pubblicato già dei libri per adulti, da Ponte Alle Grazie, e ora, con questo manuale, ci mostra la sua capacità di rivolgersi con brillante immediatezza anche ai ragazzi. Scritto benissimo, con intelligenza e humour, oltre che con competenza, questo manuale fornisce informazioni utili e preziose, ma non regole rigide da seguire alla lettera. Come ben sa l’autrice, molte cose col tempo diventano desuete, e poi ognuno deve adattare le regole alle proprie speci-
ficità. Quindi non un regolamento, ma una traccia. Però che traccia! Da come progettare l’escursione, a come leggere le mappe, all’equipaggiamento, al come camminare, al mangiare e bere, al trascorrere la notte in montagna, in rifugio o in bivacco, all’imparare a osservare (le rocce, le acque, il cielo, le piante, gli animali) fino all’importante capitolo sulla sicurezza, quali sono i pericoli e come evitarli, questo libro è una miniera di informazioni, approfondimenti e consigli. E non mancano sintetici box denominati «piccole astuzie» (suggerimenti utilissimi) e «l’enciclopedia degli errori» (le stupidaggini più comuni da non fare in montagna, basate sull’esperienza dell’autrice, «così potrai evitare di fare gli stessi pasticci, inventandone altri nuovi di zecca»). Il tutto con un atteggiamento di responsabilità nei confronti dell’ambiente, minimizzando il nostro impatto. Perché «se hai intenzione di scorrazzare fuori dai sentieri strappando fiori, molestando animali, spargendo rifiuti e starnazzando […] è meglio che posi questo libretto e resti con il sedere saldamente piantato sul divano».
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Anno LXXXV 25 luglio 2022
Settimanale di informazione e cultura
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
I guardiani del cervello
Medicina ◆ Le difese immunitarie cerebrali e quelle generali non sono separate ma collaborano sia in condizioni normali sia per combattere le malattie Sergio Sciancalepore
Anche gli scienziati possono sbagliare? Capita. Tuttavia, la scienza e il metodo scientifico basato sull’osservazione e la verifica ‒ tramite esperimenti ‒ dell’esattezza o meno di quanto osservato, permettono di correggere eventuali errori. È capitato agli scienziati che studiano il cervello. Si riteneva infatti che «l’organo sovrano» del nostro corpo fosse totalmente isolato, indipendente dal sistema di difesa dell’organismo, il sistema immunitario. Del resto il cervello ha già numerose cellule che lo proteggono contro eventuali pericoli: sono le cellule della microglìa («gl» si pronuncia come in glicerina). Nel corso dell’ultimo decennio ‒ grazie a nuove tecniche d’indagine ‒ si è scoperto che il sistema nervoso e quello immunitario collaborano: la struttura biologica che protegge il cervello (la Barriera Emato Encefalica, la «BEE») è costellata di aperture, di vie d’entrata ed uscita, e che sulla superficie cerebrale il «traffico» di cellule immunitarie è molto intenso. Finora, si è pensato che il coinvolgimento delle cellule del sistema immunitario ‒ diverse da quelle della microglìa ‒ avvenisse solo in caso di malattie del cervello: è stato infatti confermato che in malattie come la sclerosi multipla, le cellule del sistema immunitario sono attive, ma gli esperimenti effettuati sugli animali dimostrano che la faccenda è molto complicata. Un esempio. Nella sclerosi laterale amiotrofica e nella malattia di Alzheimer se si sopprime la risposta immunitaria generale le due malattie progrediscono rapidamente,
mentre se la si ripristina la progressione rallenta. Tuttavia, se ci sono situazioni in cui la collaborazione tra il sistema nervoso e quello immunitario agisce contrastando la malattia, in altre la favorisce. Come questo doppio aspetto della collaborazione si manifesta e in che modo, cioè se le cellule immunitarie aiutino o danneggino il cervello e in quali circostanze, rimane un campo di ricerca ancora in gran parte da indagare. Le cellule immunitarie hanno la caratteristica di poter circolare ovunque nel corpo, ma è probabile che il cervello utilizzi un «traffico locale» di cellule immunitarie, prodotte o residenti nel midollo osseo che si trova all’interno delle ossa del cranio. Quando c’è un pericolo, i neuroni rilasciano nel liquido cerebro-spinale ‒ un fluido denso che bagna il Sistema nervoso centrale ‒ delle sostanze che raggiungono le cellule immunitarie all’interno del cranio, attivandole: il cervello sarebbe quindi in grado di scegliere quali cellule usare per difendersi, se quelle «locali» oppure se farle arrivare da altre parti del corpo. La scelta tra le due popolazioni di cellule immunitarie dipenderebbe dalle rispettive efficacia e potenza: quelle «locali» sono meno aggressive, mentre quelle «importate» lo sono di più. Se si sviluppa un tumore, per esempio, è necessario chiedere il rinforzo esterno per contrastare la progressione cancerosa. La collaborazione tra il sistema nervoso e quello immunitario non è attiva solo in caso di malattie del cervello e questo è particolarmente evidente nella cosiddetta «potatura delle
Nel cervello, la collaborazione fra il sistema nervoso e quello immunitario è molto vasta e variegata. (Shutterstock)
sinapsi». Le sinapsi sono le microscopiche connessioni tra le cellule nervose (neuroni) che rendono possibile lo scambio delle informazioni tra loro: la quantità di sinapsi presente su un neurone è variabile, da poche centinaia ad alcune migliaia. In questo modo una cellula nervosa è connessa ‒ tramite segnali in entrata e in uscita ‒ con migliaia di altri neuroni. Durante lo sviluppo del cervello e fino all’adolescenza, la quantità di sinapsi che si formano su ogni neurone è elevatissima, tanto che, al termine dello sviluppo cerebrale, è necessario eliminare le sinapsi in eccesso, quelle che ‒
per esempio ‒ non sono più utilizzate: questo fenomeno è la cosiddetta «potatura» delle sinapsi, in inglese pruning. Le cellule della microglìa sono particolarmente attive nel produrre le sinapsi durante lo sviluppo cerebrale: si è scoperto che la presenza di cellule immunitarie (in particolare i linfociti di tipo T) ha il compito di aiutare la maturazione della microglìa, innescando il fenomeno della «potatura» delle sinapsi. Osservando animali da esperimento carenti di linfociti T, si è visto che il sistema della microglìa non funziona correttamente e che la mancata eliminazione delle sinapsi in
Un Pick up per il tempo libero Motori
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Militem lancia la ibrida Magnum Adventure, adatta a ogni terreno ma con un occhio al lusso
Mario Alberto Cucchi
Non ci sono molti mezzi davvero dedicati al tempo libero. Di solito un’automobile si compra per altri ragioni. Per andare al lavoro, fare la spesa o portare i figli a scuola. Ecco allora che si ricerca qualcosa di pratico, non troppo ingombrante, parsimonioso nei consumi. Insomma una scelta razionale. Ma non per tutti è così, altri ricercano una vettura capace di caricare comodamente tutti i propri attrezzi sportivi e tutta la famiglia. In grado di raggiungere comodamente e in sicurezza anche i luoghi più inaccessibili. Per loro nasce Militem Magnum Adventure che è la seconda novità del 2022 del marchio Militem. Un vero e proprio brand automobilistico che realizza vetture esclusive dedicate a chi non vuole passare inosservato e cerca nella sua quattroruote caratteristiche uniche. Militem, fondato da Hermes Cavarzan, oggi con Magnum dice sì all’ibrido – «i nostri modelli sono pronti» – e no all’elettrico – «mi fa paura stare seduto sopra ai 100 kwh della Tesla». Magnum è spinto dal poderoso 8 cilindri a V Hemi da 5,7 litri e ha una potenza massima di 401 cavalli. Ottima la coppia di e 556 Newton Metro. Il motore in alcuni casi spegne quattro degli otto cilindri permettendo una riduzione dei consumi e relativo abbattimento
di CO2. A questo si abbina un sistema di propulsione elettrica mild-hybrid da 48V, con l’alternatore specifico che ricarica le batterie agli ioni litio durante la marcia e in frenata. Questa tecnologia ibrida assicura maggiore potenza e allo stesso tempo riduce consumi ed emissioni di circa il 10%. Insomma un mostro di potenza quasi ecologica. Il tutto viene gestito da un cambio automatico a 8 rapporti e la trazione integrale 4WD è inseribile elettronicamente. Cavarzan utilizza come base proprio le vetture a stelle e strisce, ma va detto che non si tratta di un semplice elaboratore. Le sue auto vengono davvero cambiate sia nell’estetica sia nei contenuti. Ad oggi la gamma è composta dai SUV Hero, Jeep Ferox, SUT Ferox-T e Pick-up Magnum, che si basa sul famoso Ram 1500. È stato stravolto abbinando le dimensioni di un versatile pick-up 4x4 a interni degni di una limousine. Quindi capacità e versatilità da tutto terreno ma anche lusso. Magnum utilizza oltre 30 mq. di pelle naturale lavorata, mille metri di filo da cucito, quattordici diverse combinazioni di colori di pellami, oltre 200 ore di lavoro artigianale per l’upgrade tecnico ed estetico. Ben 1500 le ore di prototipazione prima della messa in produzione.
eccesso determina anomalie del comportamento: come questo influsso dei linfociti sulla microglìa avvenga è ancora oggetto di studio. La comunicazione tra il cervello e il sistema immunitario è a doppio senso, come è dimostrato da numerosi esperimenti condotti recentemente. Si era ipotizzato che situazioni di coinvolgimento emotivo potessero attivare le cellule immunitarie e la conferma è arrivata studiando il funzionamento di alcune parti del cervello come la cosiddetta area ventrale-tegmentale e la corteccia dell’insula, attive entrambe in situazioni di coinvolgimento emotivo e di sensazioni in varie parti del corpo, come l’intestino. Nel corso di sperimentazioni animali, stimolando con deboli impulsi elettrici le due aree cerebrali, si è visto che tale attivazione è in grado di stimolare la moltiplicazione di linfociti immunitari nella zona del colon nel corso di coliti. In pratica, le sensazioni dolorose tipiche dell’irritazione arrivano alle due aree cerebrali che si attivano e stimolano i linfociti della zona infiammata. Sorprendentemente, si è notato che ‒ in alcuni casi ‒ la stimolazione nervosa attiva la risposta immunitaria nel colon anche in assenza di cause che possono determinare la colite. È come se le cellule nervose delle due aree cerebrali conservassero, memorizzassero le precedenti risposte immunitarie e si attivassero in seguito a condizioni emotive particolari, un meccanismo che può essere alla base della colite di origine psicosomatica in soggetti emotivamente predisposti.
Carlo Silini alla testa di «Azione»
Nomina ◆ In carica da gennaio 2023
Militem Magnum Adventure, in vendita per ora solo in Italia e Germania.
Nello specifico la versione Adventure introduce di serie un rollbar dedicato, con finiture antigraffio che permette di alloggiare barre led a scomparsa in modo da illuminare a giorno anche le notti più buie. Ogni dettaglio di carrozzeria può essere realizzato in vtr o in fibra di carbonio. Non mancano sospensioni pneumatiche regolabili elettronicamente che permettono di viaggiare sempre col medesimo assetto. Indipendentemente dal carico si adattano in base allo stile di guida e alla velocità. Ma perché un automobilista do-
vrebbe optare per un pick-up? Secondo Cavarzan «è perfetta per il tempo libero, ci puoi caricare bici, tavola da surf, sci ma anche casse di vino». Insomma, può essere una valida alternativa ai SUV che tanto vanno di moda. Oggi Militem si può acquistare solo in Italia o in Germania e poi importare in Svizzera ma sembra che a breve aprirà un rivenditore a Zurigo ed ecco che allora tutto sarà più semplice. Il prezzo per il mercato svizzero non è ancora stato definito ma potrebbe essere tra gli 80 e i 90 mila franchi.
La Direzione di Migros Ticino ha nominato Carlo Silini quale prossimo redattore capo del settimanale «Azione», edito dalla Cooperativa Migros regionale. Entrerà in carica il 1. gennaio 2023, subentrando a Peter Schiesser, alla testa del giornale dal luglio 2006, che andrà a beneficio della pensione. Nato nel 1965 e cresciuto a Mendrisio, laureato in teologia a Friborgo, Carlo Silini è giornalista al «Corriere del Ticino» dal 1991 e autore di romanzi; fra i vari premi giornalistici ha ottenuto 2 volte lo Swiss Press Award. Scelto al termine di una selezione che ha visto un centinaio di concorrenti, Carlo Silini avrà il compito di mantenere salda la tradizione di un giornale di qualità, facilitandone la fruizione digitale.
Settimanale di informazione e cultura
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
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L’altropologo
di Cesare Poppi
Il mestiere dell’Al tropologo ◆
Al momento di leggere questa Rubrica il vostro Altropologo di riferimento starà finalmente lavorando. Mi spiego: quando mi chiedono cosa faccia di preciso un antropologo, forse delusi dal fatto che non misura crani, non scava fossili di protoscimmie e quasiominidi né tantomeno mangia fagioli assieme agli Indiana Jones di questo mondo – o, peggio ancora, irritati dal fatto che stabilire cosa faccia quella sottovarietà della professione che è l’Altropologia è ancora più aleatorio – i miei interlocutori concludono che il sottoscritto non faccia proprio nulla. E così, sul dotto sito web Il Calidrino, una penna ignota descrive l’Altropologo nei termini seguenti: «Individuo di inscalfibile indolenza che, in luogo di occuparsi assiduamente dello studio approfondito dell’antropologia, si dedica ad altro». C’è del vero, ma non è tutto. L’Altropologo passa la maggior parte del tempo ad osservare e prendere ap-
punti. Scrivere e annotare. Poi fa dei disegnini promemoria perché cerca di usare la macchina fotografica il meno possibile in quanto poi gli chiedono cinquecento copie della stessa foto. Ogni tanto fa domande. Spesso risponde a chi chiede cosa stia facendo menando il can per l’aia perché non è mica facile spiegare… Del tipo: «Cosa sto facendo, Signor Poliziotto!? Beh… sto facendo ricerca… ricerco cosa, mi chiede?! Boh… le saprò dire quando l’avrò trovato, ma non è detto…». «Bene: mi segua al posto di polizia». Questo con tutta probabilità lo scambio prossimo venturo con un agente di polizia del Ghana in divisa assolutamente nera che verrà con altrettanta probabilità risolto con un brindisi di birra da frigo (un lusso) al chiosco più vicino – tanti auguri e arrivederci alla prossima. La polizia del Ghana è grande: fossero tutte così. Te ne fideizzi uno e lui ti si fa garante presso i suoi colleghi. Ai posti di blocco cerchi Lui – e se non
c’è lui in servizio chiedi di suo fratello – e sei in una botte di ferro. E la birra!? Corruzione? Estorsione? Ma fatemi il piacere: arrivi al posto di blocco dopo ottanta chilometri di pista infernale e non vedi l’ora di scendere dalla moto e condividere una birra (le Star o Club ghanesi sono top) con chi non se la può permettere. E prendi appunti gratis. Vuoi anche lagnarti? Location: la città di Wa, capitale della regione del NordOvest del Ghana, ai confini col Burkina Faso e la Costa d’Avorio. «Wa» vuol dire «Città». Punto e basta, ovvero così chiamata da quando da qualche parte nel XVIII secolo – forse alla fine – bande di cavalieri in diaspora dopo l’implosione del mitico impero del Mali per l’esaurimento del traffico d’oro e lo sviluppo concorrenziale dell’industria degli schiavi a corto di idee non seppero come chiamarla: «Wa – l’Urbe». Appunto. Inshallah: Wa è ancor oggi una città per adulti. Non per turisti esteti-
ci. Vero: ammetto, incasso e farò di tutto per chiudere gli occhi. I cinesi negli ultimi vent’anni hanno fatto l’impossibile per fare anche di Wa un’average town – una città globale – come le tante che stanno regalando in giro per quello che era il Terzo Mondo, una fotocopia di quello che è il terio-sino-urbanesimo, risultato – si badi – di indottrinamenti pagati a suon di tasse dottorali alle Università USA su programmati studenti cinesi ai tempi… Libera nos domine: riescono a fare ancor peggio di Mussolini ai Fori Imperiali. L’imperialismo occidentale? Il colonialismo? Uno straccio di rispetto per la sensibilità estetica locale? Trionfo di un trans-post-estetico gusto McDonald planetario. Con l’UNESCO a incassare con le riserve indiane del World Heritage… Sbircio fuori dalla finestra e rabbrividisco: il sogno cinese di un capitalismo a gestione centralizzata oggi vince e stravince. Altroché free market, altroché free elections per poi bi-
sticciarsi a maggioranza in resta sui Dettagli del Nulla mentre Roma (e Kiev) bruciano. E non si vede un cinese nelle strade. «Deus ils vult/ Dio lo vuole» si facevano assolvere i crociati prima di distruggere Costantinopoli nel 1204. L’antropologo è tornato a casa. L’Altropologo ha selezionato i bagagli minimi per tornare ai villaggi più remoti della regione di Wa che lo accolsero senza chiedere né percome né perché né un affitto, né una rendita, né una quota pasti… sono quarant’anni che ci mangio a sbafo… Gli trovarono il suo posto nel villaggio e si dimostrò degno: digbun – «cacciatore di elefanti» il suo titolo honoris causa. Ma il suo nome segreto verrà rivelato solo al suo funerale dai tamburi parlanti delle maschere Sigma. Tutti sono invitati per una sbronza colossale – e ancora senza ID e senza PASS: gratis. Uscire dal sentiero. Chissà chi, come e perché: è pertanto tempo di migrare.
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La stanza del dialogo
di Silvia Vegetti Finzi
Ancora su Laura che vuole essere Kalvin ◆
Cara dottoressa Vegetti Finzi, leggo sempre con interesse e apprezzo molto i Suoi interventi su «Azione», dove mi ha fatto piacere ritrovarLa, visto che La seguivo anche quando stavo ancora in Italia. Del Suo recente contributo del 13 giugno condivido la conclusione, quando propone l’ascolto (sarebbe difficile essere in disaccordo). Mi stupisco però che alla nonna preoccupata per la nipote sedicenne che da un anno si dichiara maschio, si fascia il seno e vuole essere chiamata Kalvin, Lei risponda parlando di ribellione giovanile o della volontà di dare scandalo per essere popolare tra i coetanei. Ovviamente dalla lettera non è possibile conoscere esattamente la situazione di Kalvin, ma Lei non contempla nemmeno l’idea che si possa trattare di un ragazzo transgender. Ieri con altre 40’000 persone ho manifestato al Pride di Zurigo in particolar modo per i diritti delle persone trans, perché è urgente fare qualcosa affinché tutte le persone LGBT+ siano protette dalle discriminazioni e dalla violenza. Ri-
tenere che l’essere trans possa essere una questione di moda contraddice tutte le storie di assassini e violenze perpetrati ai danni di queste persone. E anche l’elevato tasso di suicidi dovrebbe far riflettere. Il fatto che ora ci siano più persone che fanno coming out come persone trans dipende dal fatto che la situazione è migliorata anche a livello giuridico. È vero che le personalità di successo che si dichiarano trans svolgono un ruolo, ma non perché stimolano l’emulazione, bensì perché incoraggiano a essere sé stesse e sé stessi. Grazie per l’attenzione e cordiali saluti da Oltralpe. / Antonella Cara Antonella, grazie innanzitutto per l’interesse e l’apprezzamento che esprime nei confronti di questa Rubrica. Se abbiamo deciso di chiamarla la «Stanza del dialogo» è per sottolineare la forma colloquiale di questo spazio, il fatto che non vi è alcuna pretesa di proporre una morale generale, valida per tutti. Da psicologa
di lunga esperienza, offro innanzitutto un ascolto attento e partecipato a problemi personali, unici, irripetibili. In questo caso non sono in gioco «i diritti delle persone Trans né l’obbligo di far sì che tutte le persone LGBT+ siano protette dalle discriminazioni e dalle violenze» ma, semplicemente, le preoccupazioni di una nonna in pena. L’elemento fondamentale non è che la nipote Laura voglia essere considerata un maschio e che si sia già attribuita un nome maschile. Ma che abbia solo sedici anni. Può darsi che in futuro il suo desiderio si realizzi, che divenga davvero quel Kalvin che attualmente il suo aspetto da ragazzo propone. Mi auguro che, in questo modo, si senta autentica e realizzata. Ma non è detto. Ho assistito io stessa a pentimenti imprevisti oppure, come se niente fosse, a una ripresa dell’identità e delle relazioni precedenti. Negli anni Ottanta Elena è stata una
delle prime liceali a dichiararsi ragazzo e a mettersi in coppia con una coetanea. Anni dopo l’ho ritrovata felicemente sposata e mamma di tre figli e sembra aver dimenticato un’identità tanto problematica quanto provvisoria. Spesso gli adolescenti che stanno affrontando l’eventualità di un cambio di identità chiedono ai parenti o direttamente a un medico di prescrivere loro cure ormonali o di essere sottoposti a interventi chirurgici. A quell’età il pensiero è assoluto: tutto o niente. Ma, poiché si tratta in molti casi di provvedimenti irreversibili, la prudenza non è mai troppa. Vorrei sottolineare che la biografia di Laura è molto particolare (la madre si è fatta viva solo ora dopo molti anni) e che, come tale, richiede un’attenzione accorta e un ascolto non prevaricante. Non è detto che l’adolescente che chiede consenso desideri proprio essere confermato, può darsi che intenda invece
essere confutato, che lo si aiuti ad aprire un contraddittorio interiore. Comprendo che i nonni, consapevoli della sofferenza dell’amatissima nipote, intendano accontentarla con la speranza di vederla finalmente felice. Ma la felicità non può essere un dono. È una conquista faticosa e complessa, che non conosce scorciatoie. Essere «sé stessi o sé stesse» è un punto d’arrivo, non di partenza. Chiedere ai giovani di scrivere la propria autobiografia può essere un aiuto a trovare il filo per cucire la propria identità, che non è solo sessuale ma, in senso complesso, esistenziale. Grazie ancora per la sua attenzione. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch Annuncio gratuito SPINAS CIVIL VOICES
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Settimanale di informazione e cultura
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azione – Cooperativa Migros Ticino 11
TEMPO LIBERO ●
Che si fa il finesettimana? «Sorprenditi» propone 50 idee in un cofanetto su come trascorrere il tempo libero con i bambini nella nostra regione
Quand’eravamo romani Visita ad Augusta Raurica, presso Kaiseraugst e non lontano da Basilea, fiorente cittadina romana ai tempi di Cesare Augusto
La collezione del fotografo Massimo Pedrazzini raccoglie innumerevoli e disparati oggetti con un denominatore comune: la macchina fotografica
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Un’istantanea di una gara internazionale nella Moesa. (Ti-Press)
Un fiume da domare a colpi di pagaia Adrenalina
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La discesa perfetta non esiste. Ma il bello della canoa è anche questo
Moreno Invernizzi
Nel vocabolario del buon canoista, la parola «perfezione» non dovrebbe esistere. Perché a ogni discesa, anche se quel tratto di fiume lo si è già affrontato decine e fors’anche centinaia di volte, c’è sempre qualcosa che poteva andare meglio, qualche dettaglio che può essere perfezionato. E, soprattutto, ogni discesa è una storia a sé stante. In cui l’inizio e la fine sono gli unici punti in comune, mentre lo svolgimento segue ogni volta una via tutta sua. Un po’ perché ripetere con millimetrica precisione ogni gesto, ogni movimento del corpo per mantenere l’equilibrio fra le onde, è praticamente impossibile, un po’ perché ogni volta a disegnare uno scenario diverso dall’altro ci pensa la natura. «Ecco allora che il sopralluogo del tratto di fiume che si intende percorrere diventa fondamentale, anzi imprescindibile: – racconta Luca Panziera, uno che lo sport della canoa lo conosce bene, avendolo praticato ai massimi livelli agonistici mondiali per parecchi anni e ora responsabile del settore competitivo del Gruppo Canoisti Ticinesi – un sopralluogo da effettuare subito prima della discesa, dato che le condizioni possono cambiare da un momento all’altro, e dunque anche la difficoltà del tratto che si intende “domare”».
Cosa si prova quando, pagaia stretta fra le mani, ci si trova immersi in una discesa lungo un fiume? «Ovviamente le emozioni che si provano sono molto soggettive, pure difficili da esplicitare a parole. È comunque innegabile che la scarica adrenalinica è notevole quando ti rendi conto di trovarti in un ambiente per certi versi “ostile”, visto che l’essere umano, per sua indole, non è fatto per stare in acqua, magari fangosa e piena di ostacoli, per giunta seduto in un’imbarcazione relativamente piccola in un contesto così vasto come quello della natura. Proprio questa ricerca di una certa forma di controllo su qualcosa per sua natura incontrollabile riesce a darti un’emozione incredibile. Ogni volta che ti ritrovi sbalzato da una parte o dall’altra da un’ondata, o che devi lottare con le tue forze per aggirare un ostacolo, è adrenalina pura. Una piacevolissima sensazione, che si unisce al piacere di fare uno sport che, fisicamente, è anche assai impegnativo». Già, perché durante la discesa, ogni tendine è teso, ogni muscolo ha il suo carico di sforzo, e la concentrazione dev’essere sempre massima. Braccia tese in avanti con l’intento di andare a cercare il contatto con l’ac-
qua il più in avanti possibile con la pagaia, spalle che ruotano di continuo per cercare la spinta ideale, gambe che fanno pressione contro la canoa per cercare di conferirle la maggior stabilità possibile: durante una discesa non c’è tempo per riposarsi. Almeno finché non si saranno raggiunte acque più chete. Quali sono le insidie maggiori che si possono trovare su un percorso? «In assoluto, gli ostacoli artificiali. Allo stato naturale, l’acqua bene o male trova sempre la sua via d’uscita. E con lei, anche il canoista, seguendola, dovrebbe poterla trovare… Quando invece l’essere umano ci mette del suo, condizionando un corso d’acqua, le cose si complicano. Penso ad esempio agli sbarramenti artificiali, che possono essere anche il “semplice” gradino nel fiume (dove l’acqua, sotto, si ferma, facendo il “buco”), oppure ancora all’insidia dei ferri (che affiorano o, peggio ancora, sommersi) quando lungo la discesa è presente un cantiere… Questo genere di ostacoli non li puoi prevedere, ragion per cui quando te li ritrovi davanti hai pochissimo tempo per decidere la mossa giusta. Durante la discesa, poi, il pericolo maggiore è quello di andare a incastrarsi con la
canoa in qualche ostacolo e non riuscire più a respirare…». Come si prepara una discesa? «Anzitutto documentandosi il più possibile sul percorso prescelto, sulle sue caratteristiche e possibili insidie. Per questo ci sono alcuni siti specializzati che riportano descrizioni sommarie dei principali corsi d’acqua “battuti” dai canoisti. Ad ogni modo, quando si affronta per la prima volta un percorso, il consiglio migliore è quello di andarci con qualcuno che l’ha già fatto e, in acqua, seguire la sua scia, la sua linea d’acqua. Il passaparola, poi, è altrettanto essenziale: chi già lo conosce ha sempre qualche utile consiglio da darti, soprattutto sull’eventuale presenza di pericoli nascosti. E infine, come dicevo poc’anzi, subito prima di scendere in acqua, la ricognizione esterna è imprescindibile». Questo permette di leggere il percorso e dunque identificare quelli che potrebbero essere gli ostacoli prevedibili. Ma, in una discesa non ci sono solo quelli… «Affatto: la natura non la puoi prevedere o controllare. E può anche scompigliare le carte da un momento all’altro. Basta un improvviso aumento della portata, anche pochi metri cubi d’acqua in più al secondo, o un innalzamento del livello dell’ac-
qua, 5-10 centimetri per intenderci, per mutare, e anche di parecchio, il grado di difficoltà del percorso. Per questo occorre sempre essere vigili e mai sottovalutare un pericolo». La «gerarchia» dei corsi d’acqua conta cinque scalini: dal grado 1, il meno impegnativo, praticamente con acqua ferma e senza onde, al grado 5, che rappresenta il corso d’acqua più esigente, «qualcuno parla addirittura di un sesto grado, ma a quei livelli il fiume è praticamente… impraticabile. In ogni caso, anche qui, si tratta di una stima prettamente soggettiva, ragion per cui da prendere molto con le pinze». In Ticino, quali sono i corsi d’acqua più impegnativi? «La Verzasca, alle nostre latitudini, è sicuramente uno dei fiumi più adrenalinici da discendere in canoa. Così come la parte alta della Moesa, il Ri di Bedretto. Con la canoa da discesa (dalla forma più allungata e più leggera, per raggiungere maggiori velocità), invece, la Moesa è indubbiamente la “mecca” della Svizzera italiana. Anche il fiume Maggia sarebbe sicuramente una palestra impegnativa e affascinante, ma sull’arco di un anno i giorni di praticabilità (dettati dalla sua portata) si possono contare sulle dita di una mano».
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Settimanale di informazione e cultura
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Che cosa facciamo oggi?
Lessico e numeri
Alessandra Ostini Sutto
Ennio Peres
«Che cosa facciamo oggi? Dove andiamo il prossimo weekend?», sono domande che diventano di rito quando si hanno bambini. Domande per rispondere alle quali ogni famiglia trova il proprio sistema e i propri strumenti. Tra di essi, da un paio di anni a questa parte, figura «Sorprenditi», una raccolta di oltre 50 attività, racchiuse in un cofanetto disponibile in italiano e tedesco, per scoprire e riscoprire il Ticino (www.sorprenditi.ch). «A volte siamo un po’ pigri, passiamo la settimana a pensare a cosa faremo nel weekend e, una volta arrivato, facciamo le cose più semplici, quelle già conosciute, quelle più vicine. Perché, diciamo la verità, non è facile trovare il tempo di organizzare gite nuove ogni fine settimana», afferma Roberta Angotti Pellegatta, ideatrice e realizzatrice, assieme al marito Giacomo, del box, «così ci siamo detti: e se trovassimo un modo semplice e divertente per rispondere alla classica domanda “cosa facciamo oggi”? E se trovassimo un sistema per coinvolgere Sofia nella scelta, senza farla stare davanti a un computer, uno smartphone o un tablet? E se oltre alla scoperta del territorio e al divertimento aggiungessimo qualche informazione educativa o curiosità? E se una volta fatto tutto ciò, lo condividessimo con altre famiglie che amano trascorrere del tempo di qualità insieme ai propri figli?». Ed è così che è nato il progetto, concretizzato nella prima stampa, uscita giusto due anni fa: «Abbiamo iniziato compiendo una ricerca per redigere la nostra to do list per l’estate, raccolto materiali e, quando possibile, testato le varie esperienze, chiedendo poi alle organizzazioni turistiche regionali una mano per la verifica delle informazioni», continua Roberta, direttrice dell’Ente Regionale per lo Sviluppo del Luganese. Il risultato, come dicevamo, è un box in cui sono racchiuse più di 50 schede che illustrano luoghi da visitare e attività da svolgere in Ticino con lo scopo di dare nuove idee e
Roberta Angotti Pellegatta con la figlia Sofia al Parco Motto Grande di Camorino.
spunti alle famiglie (e non solo). Ogni cartolina riporta una breve descrizione della proposta, come pure le principali informazioni utili all’organizzazione della giornata. Completano il tutto delle simpatiche missioni o curiosità legate alle singole attività. Il progetto di Roberta e Giacomo Pellegatta ha preso avvio durante il primo lockdown: «con la nostra bimba, che aveva due anni e mezzo, facevamo delle passeggiate attorno a casa, le uniche che all’epoca erano permesse. Come è capitato a molti, ci siamo ritrovati così a scoprire posti nuovi proprio fuori dalla porta di casa. Le passeggiate più carine le abbiamo rifatte più volte, scoprendo sempre un dettaglio in più – un suono, un colore, un’emozione – grazie a lei, che si fermava a vedere cose a cui noi non avremmo prestato attenzione. E sono proprio gli occhi da bambina di Sofia che ci hanno ispirato. Quegli occhi che guardano tutto con meraviglia e trovano sorpresa in tutto quello che fanno», racconta Roberta, che, assieme al marito, con «Sorprenditi», invita noi adulti a recuperare la capacità di lasciarsi sorprendere, nel caso specifico, dalle meraviglie del Ticino.
L’iniziativa ha da subito avuto un buon riscontro. «In realtà non abbiamo fatto grandi sforzi per farla conoscere; quello che ha funzionato maggiormente è stato il passaparola – commenta Roberta – da parte nostra, quello che abbiamo fatto è stato mettere in vendita il box presso l’Officina 103 di Bellinzona, gestita dalle ragazze che ne hanno curato la grafica, oltre che sul sito dedicato al progetto, e pubblicato un post su Facebook in occasione dei mercatini di Natale». «Sorprenditi» si presta infatti bene a essere regalato. «In molti l’hanno acquistato per regalarlo alle amiche in occasione del compleanno oppure a Natale come pensiero per tutta la famiglia – continua – ciò è reso possibile, ovviamente, dal formato cartaceo e non digitale. Sono particolarmente contenta che questa scelta si sia rivelata vincente perché la volontà di proporre un prodotto cartaceo era un po’ una scommessa». Su questa scelta ha influito il desiderio di realizzare qualcosa che fosse fruibile anche dai bambini. «È divertente scegliere (casualmente o meno) la prossima esperienza da vivere assieme – aggiunge la nostra interlocutrice – senza contare che la carta si può comodamente portare con sé durante l’attività». Il fatto che si tratti di uno strumento pratico, ludico ed efficace è indubbiamente un atout dell’iniziativa. «Sul buon riscontro ottenuto – spiega Roberta – ha poi giocato un ruolo fondamentale la situazione: eravamo appena usciti dal primo lockdown, ci si poteva spostare meno, ma c’era comunque voglia di uscire, muoversi». Per il futuro, a Roberta e Giacomo piacerebbe far crescere il progetto a livello svizzero. «La richiesta c’è, visto che le persone hanno voglia di scoprire luoghi vicini ma al di fuori del Ticino. Il problema è che siamo una mamma e un papà che lavorano a tempo pieno... Ma, chissà, con calma magari riusciremo a realizzarlo», conclude Roberta.
L’ultimo gioco ◆ In memoria di Ennio Peres, scomparso a 76 anni, un suo ultimo contributo
Una delle ultime volte in cui ci eravamo scritti personalmente era subito dopo Capodanno 2022. La sua risposta sembrava un po’ indispettita, tanto che ci eravamo affrettati a scusarci; gli avevamo chiesto che software usasse per generare gli oltre cento anagrammi che gli servivano per compilare il consueto «Anagr-anno d’auguri», una poesia che dal 1988 spediva ai suoi corrispondenti e amici. «Costantemente, di fronte a qualche mio prodotto del genere, mi sento dire: “Ah, però, confessa: questo l’hai fatto col computer!”. Un tale atteggiamento, perdonatemi, rivela un’esagerata venerazione nei confronti delle potenzialità informatiche e una scarsa, immotivata fiducia nelle capacità del cervello umano. Il progresso tecnologico ci aiuta a vivere meglio o ci rende più stupidi?». Ci scusiamo ancora, pubblicamente: la sua dedizione all’arte dell’anagramma era unica, incredibile. Unica come lui. È stato un grande onore avere con noi Ennio Peres, dal 2003 a oggi. Grazie alla sua intelligenza e a quella di Giampaolo Dossena, i due maggiori giocologhi italiani, le nostre pagine hanno potuto offrire ai lettori varie occasioni di tenere in allenamento il cervello e di divertirsi giocando con la mente. Grazie, caro Ennio, per aver provato a farci sentire un po’ meno stupidi. / Alessandro Zanoli I numeri naturali costituiscono una fonte inesauribile di spunti ludici. Si può giocare con essi trattandoli come oggetti o impiegandoli in un contesto matematico, ma anche sfruttando i nomi con cui vengono indicati in una determinata lingua (in particolare, in Italiano).
Ad esempio, si può provare a individuare delle parole o delle brevi frasi che, al loro interno, contengano il nome di un numero naturale (o numerale); ad esempio: zenzero, vino versato, nido di cinciallegre, e così via. Ma si può sfruttare lo stesso tipo di meccanismo linguistico per proporre degli intriganti enigmi. In questo caso, si può assegnare una determinata frase, invitando il solutore a ricavarne un’altra, di analogo significato, che al suo interno contenga un numerale. Ad esempio, partendo dalla frase: memorie e reliquie, bisogna riuscire a risalire a un’altra come: ricordi e cimeli, individuando così al suo interno il numerale «dieci» (ricordi e cimeli). Provate a individuare la maggiore quantità di numerali ricavabili da questo abbondante insieme di frasi. 1. Senza di te – 2. Fatti orribili – 3. Gentile oratore – 4. Cadenza nordica – 5. Coppe frantumate – 6. Una certa quantità di cadute – 7. Crollo nell’ufficio di Polizia – 8. Sanitari inclusi in un gruppo – 9. Una certa quantità di sovrani – 10. L’alta società della Germania – 11. Lista delle vivande conosciuta – 12. Di conseguenza, ci abbandoni… – 13. Alla salute: che quantità di gioia! – 14. Quel cane corto e lungo mi abbaia – 15. Spiaggia costituita da piccoli sassi – 16. Comunicato pubblicitario contorto – 17. Un agente mi fa dei segni con i fari – 18. Se nomini il capoluogo lombardo… – 19. «Pilota di aerei da guerra», sostieni? – 20. Consultazione popolare, non valida – 21. Capita a proposito in tale situazione.
Soluzione 1. Tu no (uno) – 2. Eventi tremendi (ventitré) – 3. Cortese dicitore (sedici) – 4. Accento settentrionale (centosette) – 5. Tazze rotte (zero) – 6. Tot tonfi (otto) – 7. Patatrac in questura (cinque) – 8. Medici annoverati (diciannove) – 9. Tot re (tre) – 10. Il jet–set tedesco (sette) – 11. Menù noto (uno) – 12. Quindi, ci lasci (quindici) – 13. Cincin: quanta gioia! (cinquanta) – 14. Il bassotto mi latra (ottomila) – 15. Lido di ciottoli (diciotto) – 16. Spot tortuoso (otto) – 17. Un poliziotto mi lampeggia (ottomila) – 18. Se dici: «Milano»… (sedicimila) – 19. «Top Gun», dici? (undici) – 20. Referendum illegittimo (mille) – 21. Cade ad hoc in questa circostanza (cinque).
Famiglia ◆ 50 proposte racchiuse in un cofanetto: «Sorprenditi» offre idee per il tempo libero con i bambini
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azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Augusta Raurica, fra vestigia e tesori romani Reportage ◆ Alla scoperta delle rovine romane in Svizzera: una ventina di siti archeologici tra i verdi pascoli della campagna basilese Tommaso Stiano
Forse il nome Augusta Raurica, nei pressi di Basilea, oggi evoca poco o nulla, ma al tempo dell’Impero romano era un centro importante – dopo Aventicum (Avenches, VD), il capoluogo romano degli Helvetii – tanto da lasciare traccia di due anfiteatri, uno riportato alla luce da poco, nel dicembre 2021, mentre si eseguivano gli scavi per una rimessa di barche in riva al Reno a Kaiseraugst (AG), toponimo che significa non a caso «Imperatore Augusto». Come sempre, i Romani sceglievano punti strategici per fondare nuovi insediamenti che segnavano la loro espansione, così fu anche per Augusta Raurica, colonia edificata sulle sponde meridionali del Reno. Il nome ricorda la popolazione celtica preesistente dei Raurici e omaggia l’imperatore Augusto. Fu fondata attorno al 44 a.C. dai veterani dell’esercito romano e dalle genti del luogo, ma solo dopo la conquista dei territori a nord del Reno raggiunse la sua maggiore prosperità con 15mila abitanti, commerci, artigianati e una struttura urbanistica simile a tutte le cittadine romane con anfiteatro, teatro, foro, templi e reticolo viario ortogonale. Oggi le vestigia superstiti di Augusta Raurica, venti siti a cielo aperto, si trovano nel comune di Augst (Augusta-BL), 12 km a est della città renana e sono ben frequentate dagli svizzeri ma anche dai tedeschi e dai francesi le cui frontiere non sono lontane. Prendiamo il treno regionale S1 alla stazione centrale di Basilea e in un quarto d’ora siamo alla fermata di Kaiseraugst, poi in poco tempo raggiungiamo a piedi l’Augusta Raurica Museum. Decidiamo dapprima di visitare le testimonianze antiche all’aperto perché proprio di fronte a noi c’è il Teatro romano; risalente al II secolo d.C., poteva ospitare fino a die-
cimila spettatori per assemblee politiche, feste religiose, commedie e tragedie. Restaurato, ancora oggi offre duemila posti a sedere durante le varie rappresentazioni proposte lungo il corso dell’anno. Con grande senso scenografico, proprio sulla collina in faccia al teatro c’era il centro religioso della città, oggi detto Tempio di Schönbühl, in cui spiccavano vari edifici sacri per venerare le divinità ufficiali. Era posto proprio di fronte alle gradinate cosicché lo spettatore avesse sempre sulla sua traiettoria visiva gli dei e il divo Augusto; in questo modo l’aldiquà entrava in stretto rapporto con l’aldilà. A seguito della decadenza della città alla fine del dominio romano, il tempio divenne cava per materiale da costruzione, tant’è che adesso si possono vedere solo una grande scalinata e il basamento centrale. Ci sono comunque i pannelli esplicativi che mostrano la monumentalità originaria sia dello spazio scenico sia di quello sacro. Accanto alle rovine oggi è organizzata un’area pubblica ombreggiata con tavoli e griglie di cui i visitatori possono disporre a piacimento ed è lì che ci concediamo una pausa. Alle spalle del teatro, come illustra molto bene il modellino di bronzo vicino al bar, c’era il Foro, ossia la piazza principale animata da attività economiche, amministrative, politiche e giudiziarie. Adesso su quel sedime ci sono i gazebo con varie proposte per famiglie e scuole che vogliono sviluppare dei progetti sull’epoca romana, l’offerta è davvero abbondante (vedi il sito web). Poco oltre il Foro visitiamo i resti di un piccolo complesso termale del I sec. d.C.; la ricostruzione grafica in scala reale sul muro ci aiuta a immergerci nei momenti di svago delle popolazioni indigene di quel tempo.
Il teatro romano. Al centro, ricostruzione di un frigidarium. In basso, cartina con ricostruzione di Augusta Raurica al momento del suo massimo splendore. (Tommaso Stiano)
Proprio sotto le terme nel 1998 è stata scoperta una fonte sotterranea d’acqua rimasta intatta e un pozzo profondo 11 metri visitabile. Ritorniamo sui nostri passi e scarpinando per una decina di minuti fuori dal centro raggiungiamo i pochi ruderi dell’Anfiteatro, sorto nel 170 d.C. e abbandonato cent’anni dopo; questo è più antico rispetto a quello dissepolto recentemente. Tornando verso il museo, passiamo dalla località detta Grienmatt dove osserviamo le rovine di un santuario; un tempo era recintato da un grande porticato e accoglieva la gente per il culto pagano, oggi è immerso nel verde dei prati con le mucche che vi pascolano attorno. In un’area un poco discosta rispetto al museo, c’erano le Terme pubbliche per l’igiene, la cura del corpo e la socializzazione. Oggi non rimane nulla di questo grande complesso, si può solamente passeggiare sottoterra dentro un fresco canale di scolo (cloaca). Sotto la volta celeste sono poi a disposizione del pubblico anche le rovine di una taverna con il forno e l’ipocausto, cioè i resti di una sala da pranzo di una ricca dimora con pavimento e muri riscaldati, quello che oggi chiamiamo il riscaldamento a serpentina… non proprio un’invenzione recente dunque. La nostra ultima tappa riguarda l’Augusta Raurica Museum. Qui, di particolare pregio e raffinata bellezza è il tesoro scoperto per caso nel 1961 nel corso di lavori edilizi attorno alla scuola di Kaiseraugst: 270 pezzi d’argento puro del III/IV sec. d.C., in totale 57,5 kg di stoviglie, posate, piatti di portata, lingotti, monete eccetera,
di cui un buon numero restaurati ed esposti nelle vetrine… una manna per gli occhi! Accanto al museo, seguendo le tracce di duemila anni fa, è stata ricostruita una tipica Casa romana arredata come usavano gli aristocratici del tempo con alcune parti originali; percorriamo i vari ambienti della villa affascinati dagli atelier, dai mosaici pavimentali e dai locali dediti alla cura del corpo: calidarium, tepidarium e frigidarium… sembra una moderna e lussuosa spa privata. Con il passare dei secoli, le pietre dei grandiosi monumenti romani sono state riciclate per altre costruzioni o cotte nelle fornaci per produrre calce; quelle rimaste piano piano sono scomparse sepolte dalla terra e dalla vegetazione. Grazie alle rilevazioni con georadar, i ricercatori sono riusciti a ricostruire la colonia di Augusta Raurica almeno su carta, con modellini tridimensionali e digitali in 3D e già dal secolo scorso quella che era una ricca cava per l’edilizia è diventata un cantiere dove maestranze e professori scavano per riprendere i contatti con la nostra storia antica, sottraendo all’oblio alcune tracce che oggi sono i nostri tesori archeologici, a disposizione di tutti. Informazioni Su www.azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica. Museo Augusta Raurica, Giebenacherstrasse 17, 4302 Augst (BL). Orari: tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.00. Le aree esterne sono ad accesso libero tutto l’anno. Informazioni dettagliate sul portale www.augusta-raurica.ch Annuncio pubblicitario
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TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana - Tiramisù alle fragole ●
Ingredienti
Preparazione
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Dessert Ingredienti per 6 bicchieri da 2,5 dl
1. Tagliate 250 g di fragole a dadi grossi e frullate. Tagliate le fragole restanti a fettine e mescolatele con lo sciroppo di fragole.
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400 g di fragole 1 c di sciroppo di fragole 1 dl d’acqua 2 c di succo di limone 3 c di sciroppo di fiori di sambuco 100 g di savoiardi 4 c di zucchero 250 g di mascarpone 1,25 dl di panna
2. Mescolate l’acqua, il succo di limone, e lo sciroppo di fiori di sambuco e irrorate i savoiardi. 3. Mescolate le fragole frullate, lo zucchero e il mascarpone e livellate la massa. 4. Montate la panna ben ferma e incorporatela nella crema di mascarpone. 5. Distribuite uno strato di savoiardi nei bicchieri. Coprite con la metà della crema di mascarpone. Adagiate i savoiardi restanti e terminate con la crema di mascarpone restante. 6. Decorate il tiramisù con le fettine di fragole e mettete in frigo per 1-2 ore. Preparazione: circa 40 minuti. Refrigerazione: 1-2 ore. Per persona: circa 6 g di proteine, 28 g di grassi, 38 g di carboidrati, 430 kcal/1800 kJ.
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TEMPO LIBERO
Ti scatterò una foto Collezionismo
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Una collezione singolare legata alla professione del fotografo e del fermo immagine
Maria Grazia Buletti
Tutti sanno che il collezionismo è un hobby che consiste nella raccolta di oggetti di una particolare categoria. Spesso si tratta di collezioni ben organizzate, catalogate ed esposte in modo attrattivo. Nei settori più comuni del collezionismo ci sono pure molti commercianti specializzati che raccolgono e propongono un certo numero di oggetti, trasformando così in una professione quello che era iniziato come un passatempo. Difficile immaginare di incontrare qualcuno che ha calcato le orme di un percorso inverso: Massimo Pedrazzini ha declinato la sua professione di fotografo con un’appendice dedicata alla raccolta di macchine fotografiche di ogni genere e relativi fotografi, siano essi pupazzi, statuette, lattine di birra e altro ancora. «Tutto va bene, anche le cose più banali o classiche, purché siano correlate a una macchina fotografica», chiosa Massimo che comincia a mostrarci uno dopo l’altro i suoi cimeli che, racconta, sono circa un migliaio tra quelli che tiene a casa («perché nello studio ho cominciato ad avere problemi di spazio») e quelli esposti nel suo atelier fotografico dove ci troviamo. «Malgrado mia mamma dicesse: “Porta mia a ca’ roba che tira polvera”, mi sono appassionato sempre di più. L’unica regola è che non devono rappresentare una spesa folle: ne ho visti di molto belli che mi mancano (ad esempio di ceramica capodimonte), ma non sono disposto a
spendere un prezzo eccessivo per una statuetta, anche se ha una macchina fotografica». La passione nel raccogliere oggetti che non siano troppo costosi (meglio ancora se regalati o se gadget dal valore più simbolico che sostanziale) si è evoluta e ampliata nell’ultimo ventennio raggiungendo ampie quote di popolazione. Si raccolgono facilmente oggetti di uso comune e di prezzo equilibrato, così come fa il nostro interlocutore, al punto che questo tipo di collezionismo è definito «minore». Certo, dinanzi alla collezione immensa di apparecchi fotografici e di ogni genere di cosa abbia a che fare con essi, diciamo che «minore» è l’aggettivo meno appropriato per definire questa originalissima collezione. «Sarà una mia deformazione professionale? Collezionare macchine fotografiche di ogni tipo potrebbe sembrare banale per un fotografo, ma in effetti non ne conosco tanti che lo fanno». Egli va orgoglioso della sua collezione della quale comincia a mostrarci questo o quello o quell’altro pezzo. «Mi ricordo perfettamente la storia di quelli che compero io», dice contraddicendosi un po’ perché sa sciorinare perfettamente provenienza e aneddoti pure di quelli che ha ricevuto in regalo. «Per anni ho avuto solo il primo che ho comprato: il gatto Garfield con la macchina fotografica che avevo visto al Franz Karl Weber a Locarno. Mi sono detto: “Che bel-
Massimo Pedrazzini con la sua collezione. (Vincenzo Cammarata)
lo questo gatto ubriaco!” e da lì uno ha tirato l’altro». Così, ci addentriamo nella scoperta di un sommozzatore, rigorosamente con apparecchio fotografico, che fa le bolle nell’acquario. Un paio di macchinette che sono di legno dice di averle comprate al mercatino a New Orleans, mentre ci mostra una macchina fotografica che ha acquistato a Cuba: «È la lattina della Birra Bucaneve: quando si scatta la foto si apre e sbuca una molla con una faccina buffa». E ancora: astronauta con macchina fotografica (perdoni il lettore la ripetizione del contesto essenziale), le paperelle fotografe («quelle che galleggiano
Giochi e passatempi Cruciverba
Come si chiama il frutto nella foto? E qual è una delle sue più importanti proprietà? Troverai le risposte a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 8 - 5, 5, 2, 8, 1)
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23. Le iniziali dell’attore Nolte 24. Congiunzione latina 25. Isola del Mar d’Irlanda 26. Aperto per gli inglesi 28. Appartato, in solitudine 29. Preposizione articolata VERTICALI 1. Terreno dissodato 2. C’è anche quello farmacologico 3. Divisione convenzionale di tempo storico 4. Una consonante 5. Preposizione articolata 6. Gas nobile dell’atmosfera
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10. Massa di persone violente 12. Oliver Hardy 13. Il padre... di Cicerone 14. Prese da furore 15. Computer Integrated Manufacturing 16. Fanno le arcate... con arte 17. Le pari di Vanessa 19. Furgoni inglesi 20. Li eseguono le fanfare 22. Nobili etiopi 23. Macchietta civettuola 25. Pronome personale 27. Le iniziali dello psicologo Crepet
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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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ORIZZONTALI 1. Solvente per unghie 7. Crescono nei terreni sassosi 8. Articolo spagnolo 9. Un gancio ... sinistro 10. Essenziali in erboristeria 11. La tabella meno bella 12. Un ripiego... marginale 13. Sommità rocciosa 17. Nome maschile 18. Può essere pungente 19. Viene spiegata in barca 21. Correlativo di quam 22. Pieni fino all’orlo
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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nella vasca da bagno e sono declinate in tutti i modi possibili»), le tazze a forma, manco a dirlo, di apparecchio fotografico, un carillon di legno («trovato su e bay dove ho pescato il 90 percento dei miei pezzi da collezione»). Avanti così non si sa più dove voltare lo sguardo fra i mille cimeli, grandi, piccoli, microscopici, di ogni materiale e di ogni forma. Collezionare significa: «Mettere insieme oggetti che hanno un collegamento tra di loro. Ad esempio, tutti i bicchieri della birra, ma devono avere questo comun denominatore della macchina fotografica. Poi, è vero che c’è pure chi colleziona cose che
non hanno pertinenza fra loro, ma per me non è così». Continuando a mostrarci ogni genere di pezzo, dice di non sentirsi un collezionista, anche se questo può sembrare un controsenso: «Non mi piacerebbe collezionare altro e ho iniziato a raccogliere questi perché sono attinenti alla mia professione. Inoltre, si fatica a trovarne, al contrario di altri oggetti da collezione come dadi, bustine dello zucchero e via dicendo». Quasi una sfida, legata alla sua grande passione professionale, che lo ha portato a possedere anche qualche pezzo davvero strabiliante che tiene per il gran finale: «Il primo lo avete visto, è stato Garfield. L’ultimo è questo che rappresenta un motociclista in sella alla moto con il bastone per fare il selfie, trovato in un negozio di Locarno». Infine, cala il jolly e ci mostra una statuetta che riconosciamo in modo inequivocabile perché rappresenta il clown Dimitri con un apparecchio fotografico: «Questo è legato a un ricordo particolare e a me molto caro: una decina di anni fa lo ha realizzato proprio Dimitri apposta per me e me lo ha regalato. Un giorno si è presentato qui da me in studio e così ha visto la mia collezione. Una settimana dopo ho trovato nella mia bucalettere questo clown Dimitri di cartapesta con la macchinetta fotografica, costruito proprio da lui. Per me». Questo sì, senza ombra di dubbio, ci è sembrato il pezzo più prezioso. E pure il più bello.
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Soluzione della settimana precedente RIDIAMO INSIEME – Il dottore alla paziente: «Signora se vuole dormire non deve portare i suoi problemi a letto!». Risposta risultante: «LO SO, MA MIO MARITO NON VUOLE DORMIRE SUL DIVANO!». L E O N E S S A
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Anno LXXXV 25 luglio 2022
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Quad, un sodalizio che vacilla Quel sistema che pareva perfettamente incardinato sulla leadership americana dovrà affrontare sfide impreviste e forse esistenziali
Quando Trump spaventava il mondo Il trumpismo è vivo e vegeto nonostante le recenti, agghiaccianti rivelazioni sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021
Una galleria dei grandi africani d’Europa Oltre che schiavi sono stati santi, generali, imperatori e fondatori di dinastie. Lo sottolinea il saggio di Olivette Otele
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La spallata dei Cinquestelle mentre Meloni avanza L’analisi ◆ Mario Draghi si dimette nonostante le molte emergenze che affliggono l’Italia: inflazione, crisi energetica, pandemia. Fra chi ha sempre invocato le elezioni anticipate, Fratelli d’Italia, formazione che nei sondaggi contende il primo posto al Pd Alfredo Venturi
Le anomalie della politica hanno prodotto la più intempestiva delle crisi di governo, le cui incerte prospettive allarmano non solo l’Italia ma anche l’Europa e il mondo. Mario Draghi si è dovuto dimettere nonostante le molte emergenze che affliggono il Paese: la guerra in Ucraina, l’energia, l’inflazione, la pandemia. Ma nella politica italiana, forse nella politica tout court, la conservazione del potere prevale sulla sua gestione, e dunque non poteva andare altrimenti. Lo sgambetto al governo viene da un partito che del governo fa parte, la formazione vincitrice delle ultime elezioni che dopo il trionfo del 2018 è andata via via dissolvendosi. Al culmine delle sue fortune, il Movimento 5 Stelle era stato scelto da un terzo dei votanti e aveva spedito in parlamento 227 deputati e 112 senatori.
Mario Draghi, a destra, pronuncia il suo discorso al senato. (Shutterstock)
I senatori Cinquestelle non partecipano al voto di fiducia su un nevralgico decreto per la gestione dell’emergenza economica. Si apre così una crisi che il mondo non capisce Fu la consacrazione del più atipico fra i partiti italiani, che il fondatore Beppe Grillo aveva lanciato sul fertile terreno della disaffezione politica. Moltissimi italiani non ne potevano più dei riti parlamentari stanchi e ripetitivi, dei dirigenti alla ricerca di una facile popolarità nei talk show, soprattutto della deludente gestione amministrativa, subordinata alla ricerca del consenso prima ancora che all’interesse nazionale. Per questo nella primavera del 2018, confermando e rafforzando una tendenza in costante crescita, undici milioni di elettori avevano espresso questo fastidio votando per il Movimento che prometteva di svecchiare la politica. Ma così non è stato, nulla è cambiato sui colli fatali di Roma dopo il terremoto grillino. Anzi, proprio nella capitale l’amministrazione varata dal successo dei Cinquestelle offre di sé una prova non proprio entusiasmante. Nella metropoli sommersa dai rifiuti la sindaca Virginia Raggi diventa rapidamente impopolare e gli elettori le negano il reincarico. Lo stesso accade in molti altri comuni conquistati dal Movimento. È chiaro a questo punto che il bottino di quella straordinaria esperienza elettorale non può essere difeso. I sondaggi sempre meno favorevoli rivelano un declino inarrestabile determinando la grande diaspora. Molti deputati e senatori bussano alla porta del gruppo misto e di altri gruppi, di sinistra come di destra: non sosteneva forse il
cofondatore Gianroberto Casaleggio che queste categorie appartengono al passato? Finisce che il parlamento, con la rappresentanza sovradimensionata dei Cinquestelle, non riflette più gli umori e le aspettative dell’opinione pubblica. Invano i grillini asserragliati nella loro fortezza parlamentare fanno notare che il mandato dura cinque anni: troppo marcata è la distanza fra quel trionfale 32,7 per cento e le quote costantemente calanti registrate dalle indagini demoscopiche. L’ex capo del governo Giuseppe Conte, al quale Grillo ha affidato la presidenza del Movimento poi ratificata dalla base con il voto telematico, prova a domare quella bestia impazzita, che si agita con reazioni scomposte assillata dal terrore del voto. Ciò che resta del Movimento si divide, come vuole un frequentatissimo luogo comune, in falchi e colombe. I primi vogliono dare una spallata al governo Draghi che hanno fin qui sostenuto, convinti che un’azione energicamente assertiva potrà limitare i danni elettorali, inevitabile effetto della perdita di popolarità. I secondi,
che comprendono i ministri grillini, hanno un approccio più cauto: in fondo nonostante le defezioni sono ancora numerosi in parlamento, non conviene usare questa posizione di forza fino alla scadenza naturale della legislatura? Dopo molte esitazioni Conte sceglie invece la linea dura: i senatori Cinquestelle non partecipano al voto di fiducia su un nevralgico decreto per la gestione dell’emergenza economica. Si apre così una crisi che il mondo non capisce, e nemmeno gli italiani. Il presidente Sergio Mattarella respinge le dimissioni e rimanda Draghi in parlamento a cercare una maggioranza. Lui ha una gran voglia di andarsene ma sta al gioco. Al senato i gruppi di centro-destra della maggioranza, la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi, chiedono discontinuità ma Draghi non accetta: non vuole sconfessare l’operato del suo governo. È il colpo di grazia, ormai la crisi si avvita su se stessa mentre Forza Italia registra le dimissioni di alcuni autorevoli esponenti che accusano Berlusconi si essersi piegato al populismo di Salvini. La vicenda assume i contorni del tifo
da stadio: voto subito sì, voto subito no. Prevale l’ipotesi che si andrà alle urne a settembre. Fra chi ha sempre invocato le elezioni anticipate (del resto di pochi mesi, la legislatura scadrebbe la prossima primavera) c’è una formazione erede della destra neofascista, i Fratelli d’Italia, che nei sondaggi contende la prima posizione al Partito democratico di Enrico Letta. È guidata da Giorgia Meloni che aspira a infrangere il tabù maschile di Palazzo Chigi: se l’esito del voto confermasse i sondaggi, potrebbe essere la prima donna a guidare un governo italiano. Nelle fortune dei FdI, che negli anni dell’unità nazionale ha svolto il ruolo di solitario oppositore, si annida una singolarità: il suo successo è dovuto in qualche misura a motivazioni analoghe a quelle di chi votava i Cinquestelle. Anche Meloni pesca nelle acque stagnanti della disaffezione: fra le ragioni dei consensi che alimentano le sue ambizioni figura, accanto all’impronta conservatrice e a qualche serpeggiante nostalgia mussoliniana, il desiderio di voltar pagina di fronte all’inerzia della politica.
Sono dunque al centro della scena un partito decotto e lacerato che il voto potrebbe seppellire e uno pimpante che cerca la consacrazione elettorale. Il primo è parte della maggioranza destabilizzata dalla mossa di Conte, l’altro è da sempre ancorato all’opposizione. La crisi si nutre dei più svariati elementi. Dai malumori per la pesante gestione della pandemia e per l’approccio di Draghi alla vicenda ucraina, considerata da alcuni troppo coinvolgente, fino alla vicenda dell’inceneritore dei rifiuti di cui si prevede la costruzione a Roma mentre i Cinquestelle osteggiano il progetto. Sullo sfondo le perplessità internazionali e le ironie dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev, che allinea Boris Johnson e il capo del governo italiano fra i nemici puniti dalla sorte, chiedendosi chi sarà il prossimo. Il fatto è che a Londra come a Roma gli avvicendamenti al potere, anche se alimentati da dinamiche imprevedibili e a volte assurde come nel caso italiano, non dipendono dalla sorte ma da procedure democratiche, non proprio di casa dalle parti di Mosca.
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L’alleanza traballa Quad ◆ Gli interessi di India, Giappone e Australia divergono da quelli americani Lucio Caracciolo
Proteste a Colombo contro il presidente Ranil Wickremesinghe. (Keystone)
La trappola del debito cinese Sri Lanka ◆ Il paese è allo stremo: mancano carburanti, cibo e medicinali. Dietro questo disastro annunciato c’è lo zampino del Dragone Francesca Marino
Ranil Wickremesinghe, classe 1949, è il nuovo presidente dello Sri Lanka, eletto tra polemiche e proteste di piazza il 20 luglio. I maligni direbbero che Wickremesinghe, «il vecchio che avanza», è finalmente riuscito a farsi eleggere presidente: dopo essere stato per sei volte premier e dopo aver perso per due volte le elezioni presidenziali. Wickremesinghe, nominato premier un paio di mesi fa, era stato eletto presidente ad interim lo scorso 15 luglio, un paio di giorni dopo che il leader in carica Gotabaya Rajapaksa, incapace di fronteggiare ormai le proteste di piazza, era fuggito dal paese. Rajapaksa, volato prima alle Maldive e poi a Singapore dopo che centinaia di persone avevano occupato la sede della televisione di Stato e attaccato il palazzo presidenziale, si era dimesso ufficialmente qualche giorno dopo. Lasciando nelle mani del suo primo ministro, diventato presidente ad interim, la patata bollente: Wickremesinghe aveva dichiarato lo stato di emergenza e riportato a casa i manifestanti, ma per poco. La gente è nuovamente scesa in piazza per protestare contro l’elezione di un presidente che ritiene «illegittimo» e che accusa di essere un fantoccio nelle mani del partito di maggioranza e della potente dinastia politica dei Rajapaksa. «Vedremo come si comporta», hanno dichiarato alcune delle persone scese in piazza. «Se non riceviamo in tempi brevi cibo o medicine saremo di nuovo per strada a protestare». L’ex-presidente Rajapaksa e i suoi familiari, che occupano da anni posizioni chiave sulla scena politica di Colombo, sono difatti accusati di aver portato, letteralmente, il paese alla bancarotta. Da mesi ormai manca il cibo, il carburante è quasi esaurito, non ci sono medicinali: e quel poco che si trova ancora sul mercato è così costoso da rendere impossibile alla maggioranza delle persone qualunque tipo di acquisto. Non c’è gas, nemmeno per cucinare, e i prezzi dei generi alimentari di prima necessità hanno ormai raggiunto vette stratosferiche. Il problema, ridotto all’osso, è che lo Sri Lanka dipende qua-
si completamente dalle importazioni estere per quanto riguarda il fabbisogno di generi alimentari, carburante e che, al momento, non dispone quasi più di riserve di moneta estera per pagare le importazioni suddette.
Anche la pandemia ha colpito l’economia di Colombo, azzerando una delle principali voci attive della bilancia commerciale del paese: il turismo Rajapaksa, per spiegare il disastro, se la prende con la pandemia che ha bloccato per due anni i viaggi azzerando una delle principali voci attive della bilancia commerciale di Colombo: il turismo. Vero, ma non completamente. Perché nel caso dello Sri Lanka si tratta, e da molti anni ormai, di un disastro annunciato. Tra il 2005 e il 2010, secondo le stime di alcuni economisti, la Cina ha prestato allo Sri Lanka circa 1,4 miliardi di dollari per costruire infrastrutture: infischiandosi, dicono, di quisquilie come la fattibilità dei progetti o l’impatto sociale e ambientale dei progetti. Tra il 2011 e il 2015, quando lo Sri Lanka doveva rimborsare le prime tranche dei prestiti, la Cina ha rinegoziato i debiti di Colombo e ha versato nelle casse dello Sri Lanka altri 3,1 milioni di dollari. In un paese che ha avuto bisogno, dal 1965, di ben sedici salvataggi da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), i soldi cinesi sembravano un dono del cielo, un’ancora di salvezza sciolta, oltretutto, dai duri vincoli delle riforme imposte dall’Fmi. Ma, come tutti sanno, Babbo Natale purtroppo non esiste. La costruzione del porto di Hambantota, nello Sri Lanka meridionale, si è rivelata un gigantesco fallimento ed è diventata, per gli economisti, uno dei casi da manuale per spiegare come funziona la cosiddetta trappola del debito cinese. Il porto non si è mai nemmeno avvicinato agli obiettivi stabiliti dalle proiezioni di traffico su cui si basava. E la promessa che
avrebbe generato oltre 100’000 posti di lavoro si è rivelata una chimera. Trovandosi quasi subito in cattive acque, visti i ricavi immediati quasi nulli a fronte dell’investimento, il governo dello Sri Lanka si è trovato nell’impossibilità di ripagare il debito. A quel punto Pechino ha chiesto il porto come garanzia del prestito, costringendo il governo ad affidarne la gestione (e i ricavi) per 99 anni alla China harbor engineering company in cambio di 1,1 miliardi di dollari. Il governo ha utilizzato quei soldi, fino al suo recente fallimento, per pagare i debiti alla Cina e ad altri prestatori. E si trattava soltanto dell’inizio. Nel frattempo, il rapporto tra debito e prodotto interno lordo è salito dal 36 per cento nel 2010 al 94 per cento nel 2015 ed è diventato di oltre il 110 per cento l’anno scorso. E le riserve di moneta estera del paese si sono di fatto azzerate, complice anche la mancanza di turisti causata dal Coronavirus. Morale della favola, grazie anche alle politiche scriteriate messe in atto dai Rajapaksa, Colombo ha dovuto dichiarare bancarotta. Wickremesinghe dovrebbe riprendere i colloqui, iniziati con il governo dell’ex-presidente, per negoziare l’ennesimo salvataggio da parte dell’Fmi. Nel breve termine l’obiettivo è far fronte alla mancanza di carburanti, cibo e altri beni generata dai tagli fiscali che hanno privato lo Stato di ingenti entrate. Nel lungo termine: riformare politiche e procedure. D’altra parte, il caso dello Sri Lanka ha generato nella regione un allarme non da poco, per diversi motivi. Non sono pochi difatti i paesi che si potrebbero ritrovare, in tempi più o meno brevi, nella stessa situazione di Colombo. Per citare i primi sulla lista: il Laos, le Maldive, il Bangladesh ma, soprattutto, il Pakistan. Che potrebbe ritrovarsi, tra pochissimo, in condizioni ancora peggiori dello Sri Lanka. La trappola del debito funziona infatti allo stesso modo in tutti i paesi che si sono incautamente (o colpevolmente) fidati dei «doni» cinesi. E i segnali di avviso ci sono già tutti.
Gli Stati Uniti sono convinti che la partita di Taiwan sarà risolta in un modo o nell’altro entro questo decennio. La guerra in Ucraina funge, sotto questo profilo, da acceleratore. Sia perché il regime di Xi Jinping si sente più immediatamente minacciato da Washington, sia perché la lezione delle sanzioni contro la Russia induce Pechino a credere che lo stesso sistema, moltiplicato, sarà utilizzato contro la Cina in caso di invasione di Taiwan. Questa sensazione di urgenza induce i decisori americani ad accelerare e approfondire il meccanismo di contenimento della Repubblica Popolare. Il punto di partenza in questo ragionamento è che l’America da sola non potrà mai sconfiggere la Cina in una guerra per Taiwan o comunque per il controllo dei mari cinesi.
A Madrid, per la prima volta in maniera esplicita, gli Usa propongono agli alleati atlantici di estendere la loro sfera di azione all’Estremo Oriente Il recente vertice della Nato a Madrid è stato un segnale importante di questa intenzione americana. Per la prima volta in maniera esplicita e codificata gli Stati Uniti propongono agli alleati atlantici di estendere la loro sfera di azione all’Estremo Oriente. Di fatto la strategia atlantica e quella indopacifica diventano una sola grande strategia globale dell’Occidente. E ciò senza minimamente toccare il Trattato di Washington (1949), ovvero il Patto atlantico, che resta formalmente valido ma è ormai oggetto di una interpretazione estremamente estensiva. Ciò perché la Casa Bianca è convinta che senza l’apporto di tutti gli alleati o i partner disponibili rischierebbe di perdere lo scontro per Taiwan. Si tratta quindi di unificare l’approccio dei soci europei a quelli asiatici. Il Quad, marchio del quadrilatero di sicurezza e di cooperazione formato da Washington con Tōkyō, Canberra e Delhi, diventa così oggettivamente e operativamente il lato asiatico di un unico sistema anticinese di cui la Nato è il lato europeo. Ma come storia insegna, nelle alleanze non sono sempre i leader a decidere. Le loro intenzioni sono molto spesso deviate dagli interessi dei paesi associati. Nel caso del contenimento della Russia questo è particolarmente evidente. La divaricazione di interessi fra europei e americani, soprattutto per quanto riguarda le politiche energetiche, è fin troppo palese. E porta quindi a contraddizioni, contrasti, veri e propri scontri – appena
mascherati – fra il leader americano e alcuni paesi europei, Germania in testa. Nel caso del Quad questi contrasti sono ancora allo stato virtuale. Ma più la crisi globale fra le grandi potenze si inasprisce, più queste differenze appaiono stridenti e difficilmente controllabili. Prendiamo il caso dell’India. Nella guerra di Ucraina Delhi ha cercato di mantenere un rapporto con la Russia, che risale alla stessa indipendenza dal Regno Unito. Lo ha fatto non solo con gesticolazioni diplomatiche, ma con scelte di notevole peso. Fra tutte spicca la decisione di importare enormi quantitativi di petrolio russo a prezzo scontato (–30%) così offrendo a Putin un’alternativa ai mercati occidentali. Allo stesso tempo è notevole come l’opinione pubblica indiana – almeno per quello che emerge dai social media e in parte anche dai media ufficiali – dimostri un grado di insofferenza verso l’egemonia americana di dimensioni insospettate. Questo nulla toglie all’ostilità di fondo con la Cina. Ma contribuisce a complicare il quadro di una tensione tra tutte le maggior potenze, emergenti o declinanti, che sentono la necessità di affermarsi o di salvarsi in quello che appare un saliente decisivo della storia. Un altro caso interessante all’interno del Quad è quello australiano. Il cambio di governo a Canberra, con il ritorno dei laburisti al potere, sembra indicare anche una maggiore indipendenza australiana rispetto alle indicazioni di Washington. Il nuovo premier Anthony Albanese sta cercando di trovare un giusto mezzo fra l’appartenenza all’Anglosfera a guida americana e la prossimità alla sfera di influenza cinese in Asia e in Oceania. Infine il caso giapponese, dove il neopremier Fumio Kishida punta al riarmo, inclusa la possibilità di dotarsi della bomba atomica (è probabile che ne disponga già) e sembra attrezzarsi alla necessità di intervenire a difesa dei propri interessi nell’area Pacifica anche senza la cooperazione Usa. Insomma il quadrante indo-pacifico del sistema di contenimento della strana coppia russo-cinese pare soffrire di alcuni dei difetti strutturali di quello atlantico, proprio mentre la guerra in Ucraina costringe russi e cinesi a serrare le fila. Tutto ciò riflette la particolare debolezza di Washington in questa fase. Le elezioni di mezzo termine, questo autunno, potranno misurare di nuovo la temperatura al «numero uno» e aiutarci a capire la profondità della sua malattia. Di certo nel giro di pochi anni quel sistema che pareva incardinato sulla leadership americana dovrà affrontare sfide impreviste e forse esistenziali.
Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, a sinistra, parla con Joe Biden durante il recente vertice di Madrid. (Keystone)
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Il leader più pericoloso del mondo
Stati Uniti ◆ Il trumpismo è vivo e vegeto, alimentato dagli errori della sinistra, mentre emergono rivelazioni agghiaccianti sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021
In un accesso di rabbia il presidente degli Stati Uniti afferra il vassoio con il suo pasto – hamburger e ketchup – e lo scaraventa contro la parete del suo ufficio alla Casa Bianca. Cerca di convincere le guardie del corpo del Secret service di dirottare «The beast» (la blindatissima limousine presidenziale) per guidare di persona la folla dei manifestanti diretta al palazzo del Congresso. Chiede che tolgano lì intorno i metal detector, pur sapendo che tra quei facinorosi infiammati dalle sue parole c’è chi gira armato. Sono sprazzi di ricordi del folle 6 gennaio 2021 come lo ha vissuto Donald Trump, sul palcoscenico e dietro le quinte. I dettagli privati di quella giornata drammatica trapelano dalle rivelazioni dei suoi collaboratori più stretti, chiamati a deporre sotto giuramento davanti alla commissione d’indagine parlamentare. Si arricchisce di episodi incredibili la cronaca della giornata storica in cui la liberaldemocrazia più antica del mondo ha tremato. Quando Trump è stato per almeno un giorno il leader più instabile e pericoloso del mondo. Ricostruire oggi la catena di eventi serve a capire meglio un personaggio tuttora ingombrante: Trump non rinuncia all’idea di una nuova candidatura mentre Joe Biden va a picco nei sondaggi. Le nuove rivelazioni confermano lo stato di eccitazione in cui Trump visse quelle ore, nel sogno assurdo di ribaltare la legittima elezione del suo avversario. Ecco, ora per ora, la cronaca aggiornata dei fatti salienti. A questi episodi si aggrappa una frangia del partito democratico, nell’ultima speranza che Trump possa essere trascinato davanti a un tribunale. Sarà quello il vero finale? Mercoledì 6 gennaio 2021 sulla collina del Campidoglio di Washington (Capitol Hill) è convocato il Congresso in seduta congiunta, per certificare la vittoria di Biden. È un atto che, con rare eccezioni nella storia, si svolge come una routine, senza margini di incertezza. Stavolta è diverso. Trump continua a negare la vittoria di Biden, senza prove denuncia brogli; moltiplica le pressioni sugli organi di governo negli Stati amministrati dai repubblicani, perché diano la vittoria a lui. Non la spunta. All’una di notte del 6 gennaio Trump fa sapere che l’ultima speranza è il suo vice, Mike Pence. La Costitu-
zione ne fa il presidente del Senato e tocca a lui dirigere i lavori della ratifica. In una Washington blindata (ma non abbastanza), dove già sono arrivati migliaia di sostenitori del presidente uscente, il tweet notturno è una sinistra premonizione: «Se il vicepresidente viene dalla nostra parte, vinciamo la presidenza. Mike può rispedire indietro il voto agli Stati!». Dopo una notte breve e agitata, alle 8.16 del mattino Trump twitta di nuovo: «Fallo Mike, questo è il momento di un coraggio estremo!». Alle 10.30 un gruppo di Proud boys, formazione d’impronta neofascista, prende posizione attorno a Capitol Hill e interpella i parlamentari repubblicani che stanno affluendo. Alle 11.30 circondano il senatore Todd Young, repubblicano dell’Indiana, che si divincola dalla morsa: «Non posso votare contro la certificazione del voto. Ho prestato giuramento sulla Costituzione, per voi non significa nulla?». Alle 11.57 Trump inizia l’atteso comizio. Sale sul podio allestito di fronte alla Casa Bianca, davanti al grande prato delimitato dall’obelisco (Washington Monument), a due chilometri da Capitol Hill. Il presidente parla a decine di migliaia di persone, uno spaccato dell’America trumpiana, con tante famiglie venute in gita dal profondo sud e dal midwest. «Fermeremo il furto – tuona Trump – voi non vi riprenderete questo paese con la debolezza, dovete mostrare forza». Sta parlando da 15 minuti quando comincia a evocare la marcia: «So che state per andare tutti al Congresso, a manifestare pacificamente e patriotticamente, per far sentire la vostra voce». Cominciano a staccarsi manipoli di manifestanti, diretti verso la collina del Campidoglio. Alle 12.53 Pence rompe il silenzio con una lettera consegnata ai media. Il vice definisce il proprio ruolo «puramente formale» e spiega: «Ho giurato di difendere la Costituzione, questo mi vieta di usurpare l’autorità per determinare quali voti elettorali debbano essere contati e quali no». Alle 12.57 primi tafferugli all’accesso ovest del Campidoglio. Gli agenti hanno già fatto numerose ritirate, abbandonano le barricate che dovevano contenere i manifestanti. Militanti dell’estrema destra aggrediscono la polizia gridando: «Traditori!». Alle 13.05 a Capitol Hill la presidente della Camera Nancy Pelosi batte il martello e
apre la sessione congiunta. Alle 13.11 Trump conclude il comizio: «Andiamo al Campidoglio. Andiamo a dare ai repubblicani quel coraggio che ci vuole per riprendere il nostro paese. Combattiamo come l’inferno, perché altrimenti non avrete più una nazione. Andiamo su Pennsylvania Avenue» (è l’ampia strada che collega la Casa Bianca al Congresso). L’adunata si scioglie, una maggioranza rimane accampata sul grande prato, alcune migliaia di persone si staccano per dirigersi verso il Congresso dove le hanno precedute le «avanguardie». Che già stanno mettendo in gravi difficoltà le forze dell’ordine. Il primo messaggio di sos lo ha lanciato un ufficiale di polizia: «Ci lanciano spranghe di ferro. Numerosi feriti tra i nostri uomini». Trump non fa quel che aveva promesso. Torna alla Casa Bianca. Ma è combattuto, si agita come una belva in gabbia. Circondato di schermi tv accesi, segue minuto per minuto gli eventi. È il momento in cui litiga con i capi della sua scorta: vorrebbe risalire sulla limousine blindata, a costo di guidarla lui stesso, per andare a mettersi alla testa dei manifestanti. Ha già avuto uno scontro con i servizi di sicurezza a proposito dei metal detector: voleva che fossero tolti dalla spianata, per consentire anche ai cittadini armati di avvicinarsi al palco dove lui teneva il comizio. «Non mi vogliono male, non mi faranno nulla». Nei minuti convulsi, quando sta per partire l’assalto al Congresso, tra gli scatti d’ira e l’escalation d’insolenze a Pence, c’è il «volo» di hamburger e ketchup spiaccicati contro una parete, e poi ripuliti dai maggiordomi della Casa Bianca con l’aiuto della collaboratrice presidenziale Cassidy Hutchinson, la cui deposizione al Congresso è una fonte di questi dettagli spettacolari. Gli accessi di rabbia accompagnano due defezioni importanti dalla cerchia degli intimi: la figlia Ivanka fa sapere a Trump che per lei il risultato del voto non si può più rovesciare; il suo ministro della Giustizia William Barr definisce «str…zate» le accuse di brogli. Piovono dimissioni dallo staff della Casa Bianca. Alle 14.24 la furia presidenziale si scarica via tweet contro il vice: «Pence non ha avuto il coraggio di fare quello che doveva». I manipoli più violenti sono già sui balconi e dentro i corridoi del Congresso. Il vicepresidente, ber-
Keystone
Federico Rampini
saglio dei manifestanti (alcuni hanno promesso d’impiccarlo), viene trasferito «in luogo sicuro» dalle sue guardie del corpo. Poco dopo la stessa misura viene adottata per Nancy Pelosi. Ai parlamentari rimasti in aula e non più sfollabili, viene lanciato il consiglio estremo: «Riparatevi sotto le sedie e i banchi». Alcuni chiamano le famiglie singhiozzando, ormai pronti al peggio. 16.17: le violenze durano da due ore, seguite in diretta tv dal mondo intero, quando Trump su pressione di ministri e familiari si decide a registrare un messaggio ai manifestanti: «Ora dovete andare a casa, ora dobbiamo avere pace. Vi voglio bene, siete speciali». Alle 18.01 scatta il coprifuoco su Washington, Trump twitta: «Questo è quel che succede quando una vittoria elettorale sacra e massiccia viene rubata perfidamente ai grandi patrioti che sono stati trattati in modo ingiusto per tanto tempo. Andate a casa in amore e in pace. Ricordate questo giorno per sempre!». Alle 19.54 il partito repubblicano pubblica un comunicato di condanna delle violenze. Bisogna
aspettare le 21 perché Pelosi riesca a riconvocare le Camere in seduta plenaria. Decisivo sarà il comportamento di Pence e del capogruppo repubblicano al Senato Mitch McConnell, che garantiscono la ratifica. Almeno una promessa di Trump si è già avverata: ricordate quel giorno per sempre. Se lui pagherà un prezzo politico, è presto per dirlo. Mezza America spera di sì, e assegna grande importanza all’indagine parlamentare che ricostruisce i fatti del 6 gennaio; ma è la stessa America che per due volte sperò nell’impeachment di Trump. L’altra metà del paese ha staccato subito la spina dall’inchiesta del Congresso considerandola truccata; in parte confermata nella sua diffidenza dal fatto che nella commissione parlamentare non ci sono trumpiani. Lui, «l’esule di Mar-a-Lago», in Florida, medita la rivincita nel 2024. Il trumpismo è vivo è vegeto, alimentato dagli errori della sinistra, ma proliferano i nuovi trumpiani che potrebbero batterlo al suo stesso gioco. Il vero finale del 6 gennaio deve essere ancora scritto. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 25 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Tra i grandi africani d’Europa Il saggio
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Una galleria di personaggi entrati nella storia, da Settimio Severo a Joseph Boulogne, passando per san Maurizio
Pietro Veronese
Se togliamo l’emergenza del momento – la guerra in Ucraina e le difficoltà nel rifornimento energetico del nostro continente – la questione numero uno che accomuna da anni il dibattito politico di tutti i paesi d’Europa è senza dubbio l’immigrazione. Le opinioni pubbliche nazionali la considerano spesso un problema anziché una risorsa, una minaccia piuttosto che un sostegno. Un problema sociale e di sicurezza pubblica, prima che un fattore di crescita, capace di generare ricchezza non solo economica, ma anche culturale e umana. L’immigrato è lo straniero, il forestiero, il corpo estraneo, ci spiegano i sociologi. Tanto più lo sono gli africani che in quantità crescente vanno popolando le nostre città (e campagne), perché già il loro aspetto esteriore li qualifica inevitabilmente come «diversi». Eppure gli africani sono, da sempre, i vicini di noi europei, separati da un mare solcato in ogni direzione da mercanti, avventurieri, predicatori, soldati. Altro che nuovi arrivati; essi sono tra noi – sono parte di noi – da millenni. Attraverso i secoli la loro presenza è stata ricorrente e spesso molto visibile: se non per numero, per importanza del ruolo nelle nostre società. Oltre che schiavi, gli africani d’Europa sono stati santi, generali, imperatori, fondatori di dinastie. È questo il tema di un libro illuminante, capace di stimolare tante riflessioni quante sono le sue pagine. Scritto da Olivette Otele, tradotto in italiano da Francesca Pe’ e pubblicato alcuni mesi fa da Einaudi. S’intitola Africani europei. Una storia mai raccontata. La sua autrice figurerebbe degnamente nell’ultimo capitolo. Otele è nata in Camerun nel 1970 e si è formata alla Sorbona, a Parigi. Dopo il dottorato nella prestigiosa università francese, è stata chiamata a insegnare in Gran Bretagna, dove è stata la prima donna di origine africana a diventare professore ordinario di Storia. Oggi è vicepresidente della Royal Historical Society. Dal 2020 la sua cattedra all’Università di Bristol è
Le opinioni pubbliche nazionali considerano l’immigrazione spesso un problema anziché una risorsa, una minaccia piuttosto che un sostegno. (Keystone)
Storia dello schiavismo, il che fa di lei una capofila riconosciuta degli slavery studies da qualche anno fiorenti nelle università del mondo anglofono. Africani europei è un libro sorprendente, come lo è sempre uno sguardo nuovo su una realtà che crediamo di conoscere già. Avevamo un vago ricordo che l’imperatore romano Settimio Severo (146-211) fosse originario di Leptis Magna, nell’odierna Libia. Ma nessuno aveva mai messo in evidenza al lettore non specialista le sue origine puniche e berbere, pur essendo egli fin dalla nascita cittadino dell’impero a tutti gli effetti. Né la sua figura era stata giustapposta a quelle di molti altri distinti africani della Roma imperiale: militari, retori, studiosi. Così come sapevamo che Alessandro de’ Medici, capostipite della signoria fiorentina prima di venire ucciso in una congiura a 27 anni nel 1537, era detto «il Moro» a causa
del colore della sua pelle. Eppure non ci eravamo mai soffermati su queste presunte ascendenze africane di una delle più grandi famiglie del Rinascimento italiano (presunte perché non tutti gli storici concordano sulle origini materne di Alessandro). Di queste e moltissime altre figure, secolo dopo secolo, pullula Africani europei: alcune molto note, altre del tutto sconosciute ai più. È un vero peccato che l’editore non abbia arricchito il volume con una iconografia che andasse ad aggiungersi allo splendido Ritratto di giovane donna di un anonimo settecentesco che illustra la copertina. Ma il lavoro di Olivette Otele non è soltanto un’affascinante galleria di personaggi. È anche una sofisticata indagine di storia sociale e culturale, e di psicologia collettiva, su come gli africani d’Europa sono stati visti dagli altri europei, e viceversa. E su come questo sguardo sia andato cam-
biando nel tempo. Nell’Impero romano, ad esempio, la discriminante non era il colore della pelle ma lo status di cittadino: essere civis o non esserlo, questo era importante, il resto contava poco o nulla. Con l’avvento del cristianesimo, poi, ciò che qualificava un individuo era l’appartenenza a una religione, non a una presunta razza. Tra i santi della Chiesa cattolica ci sono tanti afro-europei, a cominciare da Agostino d’Ippona o sant’Agostino (che però il libro ignora, in favore di san Maurizio). Il fattore che farà mutare drasticamente lo sguardo degli europei, con ignobili propaggini fino al tempo presente, sarà la tratta degli schiavi, la sopraffazione, la disumanizzazione degli africani, la loro riduzione a cosa, a bene di proprietà. Su questo punto Africani europei non consente deviazioni, distrazioni, approssimazioni. La centralità dell’abominio schiavi-
stico, la caratterizzazione devastante che esso ha impresso ai rapporti tra europei e africani, hanno nel libro la posizione che meritano. Ben vengano gli slavery studies a restituire alla questione la piena importanza, l’insostenibile gravità che tristemente merita. In questo drastico e necessario riallineamento del punto di vista, la ricerca della professoressa Otele risente forse dell’atmosfera di «correttezza politica» che si respira diffusamente nel mondo accademico anglofono. Questa è almeno l’impressione che la lettura può lasciare in chi è estraneo sia all’ambiente sia alla professione di storico. Non c’è spazio, nelle 216 pagine del libro, per personaggi e vicende difformi da, o in apparente contraddizione con, l’assunto generale. Due esempi. Nei secoli la Chiesa di Roma non ha soltanto ignorato o addirittura benedetto la pratica dello schiavismo. Numerose bolle papali restano a prova delle ripetute e vane condanne. La tragica figura di Emanuele Ne Vunda, ambasciatore del re del Congo venuto a morire in Vaticano il giorno dell’Epifania del 1608, ne è una straordinaria testimonianza, che però nel libro non è ricordata, così come i tentativi dei papi di contrastare la tratta degli schiavi. Secondo esempio. Africani europei dedica alcune pagine alla straordinaria figura di Joseph Boulogne, cavaliere di Saint-Georges (1739-1799). Di padre francese e madre senegalese, eccelse sia come uomo d’armi sia come musicista. Vittima di ingiuste accuse, inviso a Napoleone, morì povero e ignorato e solo molto tardivamente la sua figura e la sua opera sono state riabilitate in Francia. Viene alla mente un altro artista di sangue francese e africano, più precisamente afro-caraibico: il romanziere Alexandre Dumas (1802-1870), la cui nonna paterna era haitiana. A differenza di Joseph Boulogne, l’autore dei Tre moschettieri ebbe in vita enorme successo e godette di fama universale. Un grande afro-europeo: ma nel libro ha una sola citazione. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ / RUBRICHE
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Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Alla ricerca degli addetti mancanti ◆
Nelle settimane tra giugno e luglio, quando la sottoscrizione dei nuovi contratti di tirocinio comincia a intensificarsi, è sorta, a livello nazionale, condotta soprattutto dalle organizzazioni dei datori di lavoro, una intensa discussione sulla carenza di manodopera con qualifiche. È vero che, una volta letti tutti i contributi e tutte le prese di posizione, è difficile dire se la carenza in questione sia una caratteristica permanente che riguarda l’intero mercato del lavoro oppure se la stessa non interessi che alcuni rami del secondario e del terziario che sono stati particolarmente colpiti dalle misure di lockdown che le nostre autorità hanno dovuto prendere per arginare la diffusione del Coronavirus. Tuttavia, poiché il tema è di quelli che non possono essere trascurati da chi segue l’attualità economica del nostro Paese, vale la pena di dare un’occhiata a questa discussione. Vediamo dapprima come argomenta chi pensa che si tratti di un feno-
meno generale. In questo caso, la carenza di personale qualificato viene spiegata con l’invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno che, in un primo tempo, aveva determinato un aumento della quota delle persone anziane a scapito di quelle con meno di 20 anni da qualche anno – in coincidenza con il pensionamento dei cosiddetti baby-boomers, ossia i nati nella prima metà degli anni Sessanta – ha cominciato a ripercuotersi negativamente anche sulla quota di persone in età lavorativa. Se, per fare un esempio, ci riferiamo al caso del Ticino notiamo che il numero degli inattivi ha conosciuto un’impennata tra il 2017 e il 2020 con un aumento di 9000 unità, ciò che corrisponde a un tasso di aumento annuale del 2,4%. L’invecchiamento fa dunque aumentare l’effettivo delle persone inattive e diminuire quello delle persone attive residenti, siano esse di nazionalità svizzera o straniera. Siccome nel contempo l’occupa-
zione è leggermente aumentata, sul mercato del lavoro ticinese – come su quello nazionale – è venuto manifestandosi un eccesso di offerta di posti di lavoro. Nel passato queste situazioni venivano corrette aprendo le porte all’immigrazione di manodopera dall’estero. Nel corso degli ultimi anni questo meccanismo non ha più funzionato. In effetti l’effettivo della manodopera straniera residente nel Cantone, è diminuito di qualche migliaia di unità. Il fenomeno è stato riscontrato anche in altri Cantoni e ha fatto sorgere addirittura una discussione in cui ci si è chiesti se il mercato del lavoro elvetico fosse diventato meno attrattivo per i lavoratori stranieri. La questione resta aperta. Quello che si può constatare, nel mercato del lavoro ticinese, è che oggi, in una situazione più o meno stabile quanto alla domanda di lavoratori, per effetto dell’erosione dell’offerta la domanda è in eccesso. Di conseguenza l’effetti-
vo dei lavoratori frontalieri non cessa di aumentare. Nei Cantoni che non hanno accesso alla frontiera la possibilità di riequilibrare il mercato del lavoro coi frontalieri non esiste. In questi Cantoni è quindi molto probabile che il riequilibrio venga raggiunto con aumenti della produttività e dei salari. Fin qui la spiegazione della carenza di lavoratori qualificati come fenomeno generale. L’altra interpretazione della tendenza in corso considera le difficoltà di reperimento di manodopera come un fenomeno settoriale o di ramo e le fa risalire agli effetti del lockdown, cioè della chiusura delle aziende, in seguito al diffondersi della pandemia di Coronavirus. I rami più colpiti dal fenomeno sono quelli del settore turistico: alberghi, ristoranti in primis, ma anche altre attività del settore. Si pensi, per fare un solo esempio a quello che sta succedendo questa estate negli aeroporti internazionali proprio a causa della
mancanza di personale. Molti lavoratori e lavoratrici che avevano perso il posto di lavoro in seguito alle chiusure hanno trovato una nuova occupazione in altri rami, meno toccati dalle misure anti-pandemiche. Frequente è stato il passaggio dai rami del settore turistico a quelli dei settori sanitario e sociale. Si tratta in generale di un cambiamento di occupazione definitivo. Questi addetti e queste addette vengono ora a mancare alle aziende dei rami in cui erano impiegati prima della pandemia. Che cosa si può fare? Attualmente si discute di un possibile allargamento dell’immigrazione a Stati che non fanno parte dell’Unione Europea, dell’introduzione della tassazione individuale per ottenere un aumento del tasso di attività femminile, di un possibile aumento dell’età del pensionamento, o ancora di un possibile aumento del salario reale da ottenere, non da ultimo, attraverso una riduzione dell’orario di lavoro.
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Affari Esteri
di Paola Peduzzi
Il duello per la poltrona di Boris Johnson ◆
Il 5 settembre gli inglesi sapranno il nome del loro nuovo primo ministro, che prenderà il posto di Boris Johnson: la scelta è tra l’ex cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e la ministra degli Esteri Liz Truss. Ma non saranno gli inglesi a decidere. Il compito spetta agli iscritti al Partito conservatore, circa 200 mila persone che nelle prossime settimane saranno analizzate minuziosamente, per capirne gli umori. La procedura non è tra le più democratiche, ma almeno è ordinata e con scadenze chiare, un lusso se si pensa che l’instabilità è il pericolo più infido in occidente, ancor più ora che il presidente russo Vladimir Putin considera il caos un’altra arma nel suo brutale arsenale. Restano le grandi divisioni all’interno dei Tory, che si sono contati e combattuti durante le loro primarie delle ultime settimane (nelle quali hanno votato solo i deputati) e che hanno mostrato un bizzarro so-
stegno allo stesso Johnson, che ha fatto i suoi saluti ufficiali ai Comuni. I conservatori hanno voluto spodestare il loro premier dopo i troppi scandali, hanno scritto lettere pesantissime contro Johnson e la sua mancanza di integrità, l’hanno portato alle dimissioni e poi hanno iniziato a litigare, qualcuno anche a pentirsi. Ora però non è il momento dei rimpianti. Sunak è il candidato da battere, il più popolare tra i deputati ma il più detestato dai johnsoniani: le dimissioni dell’ex cancelliere dello Scacchiere hanno attivato l’effetto domino che ha portato al cedimento di Johnson. Ma il lavorio di Sunak era cominciato tempo prima, anche se era rimasto impigliato anche lui in qualche scandalo, e pare che il regista di questa operazione sia l’ex superconsigliere di Johnson, Dominic Cummings, l’architetto della Brexit. Seguire i giochi di potere britannici è divertente e faticoso, ma in
questo caso basta sapere che Cummings prepara il piano per cacciare Johnson, che aveva aiutato a vincere le elezioni, da almeno due anni e che Sunak è stato uno dei suoi strumenti principali. L’ex alleato Cummings, la sua voglia di vendetta, il giovane ambizioso Sunak dall’aria pulita (non pulitissima, ha una moglie molto ricca che non paga le tasse nel Regno Unito): una pozione fatale. E infatti così è andata, ma oggi l’ex cancelliere vuole smarcarsi dal recente passato e proporre una formula nuova, senza gli eccessi di Johnson, con un piano economico che lui definisce «non fantasioso» anche se tradisce (ancora) la promessa della campagna elettorale di non alzare le tasse. Il piazzamento di Liz Truss al secondo posto nelle preferenze dei deputati è invece una chiara vittoria dei johnsoniani: le primarie di Truss non sono andate molto bene, non ha scelto uno slogan efficace né una caratterizzazio-
ne precisa e nei dibattiti televisivi non ha mostrato alcun guizzo. La favorita al secondo posto era l’ex ministra della Difesa Penny Mordaunt, l’outsider più spontanea e più liberale sui diritti rispetto a Truss (e alla maggioranza dei Tory). Ma Mordaunt non piace ai johnsoniani che si sono infine organizzati e sono riusciti a posizionare la ministra degli Esteri. La quale in realtà ha un peccato originale: era contraria alla Brexit. Poi si è convertita e, anzi, per dimostrare la sua nuova convinzione è diventata una falca anti-europea al punto da arrivare a voler stracciare il Protocollo nordirlandese, una parte dell’accordo con l’Ue che, se salta, fa crollare tutto. Thatcheriana e determinata, Truss si è costruita una rinnovata credibilità in questi ultimi mesi con la chiara posizione contro la Russia di Putin. Ma lo slancio alle primarie le è stato dato dalla fiducia dei johnsoniani, non dalle sue idee né dalla sua am-
bizione. Pare però che abbia un buon consenso nella base del partito conservatore che ora è quella che deve scegliere: di certo Truss fa parte della tradizione dei Tory più di Sunak, e questo la rende forte. A meno che la base non abbia voglia di un cambiamento radicale, non tanto e non solo per le politiche da adottare, quanto per una questione identitaria: Sunak è di origini indiane e la sua ascesa sarebbe un segnale forte per l’evoluzione del progetto di diversity (di valorizzazione delle diversità) del partito conservatore, che procede per strappi. L’ex cancelliere è forte e debole per la stessa ragione e la campagna elettorale che si apre adesso mostrerà in che direzione vuole andare il conservatorismo britannico. Senza troppe ingenuità: è in corso una resa dei conti, Johnson afferma che non sta seguendo la sua successione ma mente. La segue e la vuole determinare, ora anche lui ha una vendetta da compiere.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Pensieri sparsi valicando il Ceneri ◆
Meta obbligata di un recente mattino, il piano di Magadino. Devo cambiar auto e sto valutando offerte di occasioni: uno non può certo fare sogni in leasing quando, alla condizione di pensionato, deve aggiungere anche di essere vicino agli ottanta. Altro handicap: per le auto nuove ci sono attese lunghissime e il mercato dell’usato è alle stelle. Così, dovendo rottamare la fida e vecchissima Volvo, mi spingo sino a Contone per incontrare un giovane garagista sveglio (spero non troppo…), diverso da colleghi con camicia e cravatta avvistati in altri posti. Il tragitto da Massagno mi coglie di sorpresa: non mi aspettavo un’autostrada così trafficata il lunedì mattina. Per questo a Rivera prima della galleria esco sulla cantonale. Subito mi imbatto nel cartello stradale «Passo del Ceneri – Aperto»: quasi una sfot-
titura dato che il solleone picchia già di brutto e ogni notte è lotta per rimediare un equilibrio fra caldo e sonno. Salendo verso il passo, appena si avvistano i richiami della stazione di servizio, i pensieri vanno sul grigioverde. Sulla destra c’è l’entrata della caserma e in fondo, sulla sinistra, il nuovo arsenale che ha ritrovato decenza architettonica e dimensioni tali da ricordare un avamposto militare, un po’ come i castelli dei Visconti che vedrò fra poco, scendendo il versante nord del passo. Con la coda dell’occhio scorgo anche il «Delle Alpi» e ricordo di aver letto, proprio prima di partire, sul «Corriere del Ticino» che «La sua luce (rossa) aveva brillato per qualche anno, insieme ad altri postriboli sulla strada del “Ceneri vecchio”, da Cadenazzo a Rivera. Dalle ballerine alle modine, però, il passo è breve
e ora il ristorante Delle Alpi di Monteceneri – o meglio, quel che ne resta – verrà battuto all’asta tra poco meno di due mesi». Ultimato il curvone, sulla destra compare un altro ritrovo con un passato «sperlusente»: il night ora è solo club, ma di giorno ha tutta l’aria di essere anch’esso in attesa di acquirenti più che di clienti. Semicurva a sinistra e trovo un cantiere stradale. Ero fermo al credito cantonale per il manto stradale del passo (di calcestruzzo, a ricordo dell’impresa che lo realizzò) da rifare e ora ho la prova che nel frattempo i lavori sono iniziati, in tre o quattro punti diversi, per consentire al traffico di non subire interruzioni. Scendendo verso Cadenazzo ritrovo la litania: a destra e a sinistra altri immobili parenti del «Delle Alpi» fanno affiorare nella mia mente un aneddoto. Alcuni anni fa, incontrando un
collega della televisione, con la scusa di rimediare qualche dritta «professionale» e ovviare alla mia assoluta ignoranza in materia di tecniche e tempi del giornalismo televisivo, mi ero spinto a interrogarlo sulla possibile realizzazione di una serie di servizi. Conservo ancora sia gli appunti di quella bozza di lavoro, sia la convinzione che quel progetto avrebbe suscitato un certo interesse. In breve: proponevo di raccontare l’evoluzione socio-economica del nostro cantone pellegrinando (non in auto, ma a piedi o magari, perché no?, «a caval d’una müla») lungo i cento chilometri del percorso autostradale cercando di analizzare quello che nel corso di mezzo secolo i ticinesi sono riusciti a costruire o a distruggere ai lati della vena giugulare che da Brogeda arriva sino al Gottardo. In successione
elencavo servizi e puntate da dedicare a nuove urbanizzazioni, a quartieri votati allo shopping, a selve di insediamenti industriali, a impianti sportivi a iosa, eccetera. E in quell’eccetera figurava anche un capitolo per i millanta ritrovi che, dal Mendrisiotto alla Leventina (con ovvie metastasi laterali), segnavano l’incredibile catena di postriboli lungo il tracciato della nostra autostrada. Naturalmente il mio progetto è rimasto tale e, di riflesso, anche il pellegrinaggio «a caval d’una müla» non è mai arrivato ai perché di quella diffusa offerta di «luci rosse». Andrà a finire che per sapere come mai c’erano così tanti… ritrovi pubblici lungo la A2 e in particolare lungo il «vecchio Ceneri» bisognerà attendere qualche secolo e qualche archeologo che scavi fra le rovine del 2000.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 25 luglio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino 29
CULTURA ●
Un ricordo di Eugenio Scalfari A pochi giorni dalla morte del grande giornalista-filosofo italiano, il ricordo di Paolo Di Stefano, che lavorò con lui
Nella dimora di Fortuny Sontuoso e opulento, il palazzo veneziano che ospitò Mariano Fortuny è ritornato agli antichi splendori dopo i restauri
Pianoforte a quattro mani Non appena il pianoforte riuscì a prevalere sul clavicembalo, nel Settecento, rivelò le sue molteplici possibilità esecutive
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«Una grande storia collezionistica familiare» Mostre
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Gabriella Belli, direttrice della Fondazione dei Musei Civici di Venezia, spiega genesi e particolarità delle opere al MASI
Ada Cattaneo
Un periodo difficile da raccontare quello dell’arte italiana fra le due guerre. La concatenazione fra arte e politica è promiscua. L’alternarsi fra tendenze classiciste e avanguardiste procede a ritmo serrato. Non sono isolati i casi di autori che aderiscono prima alle più dirompenti novità del Futurismo per poi fare «ritorno all’ordine», nel solco del movimento Novecento. Questi anni complessi, oggi di gran moda, non sempre sono stati oggetto di interesse da parte dei musei, in considerazione del doloroso retaggio sociopolitico al quale sono connessi. A distanza di quasi un secolo sembra che molti di essi abbiano ritenuto i tempi maturi per riguardare con obiettività a queste produzioni, che spesso possono competere per qualità e innovazione con ciò che succedeva nel resto d’Europa. Anche a Lugano lo spirito di questi anni si ritrova nella mostra Una raccolta d’arte moderna italiana attualmente in corso nella sede di Palazzo Reali del MASI. Sono qui presentate opere da una collezione privata (proprietà di una nota famiglia che preferisce rimanere anonima) ora confluita nelle collezioni di Ca’ Pesaro a Venezia e nella quale compaiono, tra gli altri, Carrà, Rosai, Sironi, Campigli. Gabriella Belli, direttrice della Fondazione dei Musei Civici di Venezia, offre per noi un inquadramento di quest’esperienza in un’intervista. Vorrei iniziare chiedendole di raccontarci la genesi della collezione oggi visibile a Lugano. Si tratta di una grande storia collezionistica familiare, iniziata nel secondo dopoguerra. Per quanto riguarda le intuizioni, è una raccolta che si modula molto bene sulla pittura del Novecento italiano. Tutti i grandi pittori di quel momento, se così vogliamo dire, sarfattiano (da Margherita Sarfatti, critica d’arte promotrice del movimento Novecento, ndr), della migliore pittura di passaggio e di figura italiana vi sono rappresentati. La presenza di Carrà, Campigli, Sironi è dovuta al gusto del collezionista, che quando li acquisì – parliamo degli anni Sessanta e Settanta – ebbe grande intuizione nella selezione. Pur essendo tutte opere che appartengono alla temperie culturale di Novecento, affermano una loro piena autonomia dal punto di vista compositivo. Non sono opere allineate alle poetiche principali della cultura visiva di Margherita Sarfatti: patria, lavoro e famiglia. In nessun modo il loro tema è legato al momento storico in cui vengono realizzate, ma sono invece opere di autori che sanno liberarsi dagli schemi. Anche lo stes-
so Sironi, nelle opere in collezione, mostra il suo talento di maestro, forse fra i più grandi pittori dell’epoca: si occupa di una nuova idea di forma, di figura, di prospettiva e di spazio. La pittura italiana degli anni Venti e Trenta non è molto conosciuta e credo che sia una buona proposta presentare un pezzo di questa storia importante. Ritornando alle opere in mostra, si tratta di un periodo quasi inscindibile dalle questioni politiche di quegli anni. A posteriori è possibile leggerlo per il suo valore storico artistico? Il rischio è sempre stato quello di far coincidere le questioni politiche e la pittura di questi artisti che in realtà erano dei personaggi di grande levatura culturale e intellettuale, anche molto avanti nella loro ricerca. Sono stati confinati entro una lettura politica. Ormai questo tempo è passato e quindi tutti noi possiamo riconoscere il valore di un autore come Carrà o Sironi, rendendoci conto che hanno affermato una loro precisa personalità data dal loro lavoro e non dalle loro idee politiche. Siamo chiamati anche a valorizzare la serietà con la quale operarono e agirono all’interno dell’arte italiana. Fra di loro c’è poi un personaggio come Campigli, che è sempre rimasto ai confini, caratterizzato dal suo amore per gli arcaismi e per l’arte etrusca. Egli si è sempre difeso da ogni pericolo di essere contaminato dalla storia politica dell’epoca. Altri artisti, come Sironi, hanno avuto invece delle chiare complicità e si sono molto adoperati per la grande decorazione, che è stata uno dei capitoli principali della pittura del Fascismo. Alcuni artisti sono stati felicemente fuori dalla bagarre politica. Lo stesso Carrà ha una storia artistica fantastica: nasce divisionista, diventa futurista, passa dalla metafisica e approda a una nuova figurazione, non in forza di Margherita Sarfatti. Vi approda in chiara e assoluta autonomia. È un artista complesso e articolato: quella che si vede ora a Lugano è la sua ultima grande stagione. Credo quindi che sia oggi corretto che i musei anche stranieri diano spazio e apertura a questa pittura, che nulla ha da invidiare alla pittura europea di quegli anni. Come si inserisce questa raccolta nelle vostre collezioni di Ca’ Pesaro? Oggi leggiamo Venezia come un centro di irraggiamento dell’arte contemporanea. Questo suo ruolo inizia nel 1895 con la nascita della Biennale, che fin dall’inizio diventa una delle manifestazioni di que-
Sopra, Mattino sul mare, Carlo Carrà, 1928, olio su tela su cartone. (Collezione privata); in basso, Le amazzoni, Massimo Campigli, 1928, olio su tela. (ProLitteris)
sto tipo più importanti in Europa. Comincia a essere frequentata dal pubblico straniero già dalla fine dell’Ottocento. Venezia d’altronde era già una città di grande attrazione culturale e turistica, ma di un turismo molto diverso da quello di oggi. Ricordiamoci che qui passa tutta l’avanguardia del Novecento, esposta nei padiglioni stranieri ai Giardini. Però, dall’inizio del Novecento fino agli anni Trenta, la scena cittadina è dominata dalla figura di Margherita Sarfatti, veneziana di nascita. Quindi, la collezione che si viene a rea-
lizzare a Ca’ Pesaro è curiosamente molto legata a Novecento. Per esempio, noi non abbiamo opere futuriste. L’identità di Ca’ Pesaro parte da una storia di pittura di paesaggio, che trae origini dall’ultima grande fiammata della pittura di veduta veneziana, da Canaletto, Bellotto e soprattutto Guardi. Nel momento in cui si decise di acquisire opere contemporanee attraverso ciò che passava alla Biennale, ci si concentrò su Novecento, quindi con Carrà, Sironi e Campigli. Quest’ultimo nucleo non è però molto corposo numericamen-
te: abbiamo quindi accolto con piacere il deposito di questa collezione che entrava a Ca’ Pesaro con grande coerenza. Qui in città è passata anche l’avanguardia, ma non ha molto toccato il collezionismo locale negli anni Venti e Trenta. Si tratta certo di un museo che aveva acquisito anche Klimt, Kandinskij, Rodin, ma senza mai davvero aprire all’avanguardia. Quest’anima novecentista era invece nelle corde del museo. Con questa mostra il museo di Lugano sembra consolidare la propria posizione, già indicata dalla precedente direzione, quale ponte culturale fra aree geografiche diverse, fra nord e sud. Osservando dall’esterno mi sembra di capire che si lavori molto sul tema del confine, in maniera intelligente, avendo rispetto dell’identità del luogo. Partendo da essa si riesce a fidelizzare il proprio pubblico, aspetto essenziale per un’istituzione culturale, che adempie davvero al proprio compito quando la gente si sente nella condizione di riconoscersi nel proprio museo e nei propri artisti. Dove e quando Una raccolta d’arte moderna italiana, MASI, Via Canova 10, Lugano. Fino al 29 gennaio 2023. Ma-me-ve: 11.00-18.00; gio 11.0020.00; sa-do-festivi: 10.00-18.00. www.masilugano.ch
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CULTURA
Scalfari, il sovrano democratico In memoriam
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Un ricordo del pensatore-filosofo illuminista
Paolo Di Stefano
Sono stati usati molti aggettivi in occasione della morte di Eugenio Scalfari la scorsa settimana. Sono state elencate le sue imprese editoriali (ha creato il settimanale «l’Espresso» nel 1955 e il quotidiano «la Repubblica» nel 1976), sono stati innalzati (giusti) inni al suo talento di commentatore coraggioso e di analista politico, sono state ricordate le svolte politiche (fascista da giovane, monarchico, liberale, radicale, socialista, berlingueriano, martiniano, papista bergogliano eccetera). Sono state cantate le lodi del pensatore-filosofo illuminista (appassionato di Diderot e timoroso dei «barbari» alle porte) e poi nietzschiano, dell’ateo che rifletteva sulla morte e sull’aldilà, dell’autore di romanzi e poesie celebrato come classico in un volume dei «Meridiani». Sono state ricordate le amicizie (quella giovanile con Calvino), le sue inchieste sulla «razza padrona», le tappe dell’epopea politico-giudiziaria contro Berlusconi. A chi l’ha visto lavorare ogni giorno dall’interno del suo giornale appariva come un sovrano democratico. Ascoltava tutti, si interessava a ogni opinione e decideva lui prendendosene la responsabilità, come i veri capi carismatici. Come ogni sovrano illuminato, non poteva fare a meno della corte, che incantava con il suo fascino altero e ironico. La caratteristica che Eugenio Scalfari condivideva con un altro «principe» della cultura italiana, Giulio Einaudi, era la capacità di scegliere i suoi collaboratori. Einaudi scelse gente come Cesare Pavese, Italo Calvino e Giulio Bollati; Scalfari, fondando «la Repubblica» nel 1976, arruolò via via giornalisti di primissimo ordine come Mario Pirani, Andrea Barbato, Giampaolo Pansa, Bernardo Valli, Sandro Viola, Giorgio Bocca, Alberto Ronchey, Miriam Mafai, Gianni Rocca e altri. Quest’ultimo non è forse noto al cosiddetto grande pubblico perché era il caporedattore centrale, il motore oscuro del giornale, eminenza grigia e braccio destro del capo: nulla accadeva che lui non controllasse e sapesse.
La verità è che le gerarchie, in un giornale, sono ferree, specie in un quotidiano, ma perché tutto funzioni sul piano operativo, deve funzionare la circolazione delle idee e dunque la capacità di ascoltare. La riunione del mattino, in piazza Indipendenza a Roma, prima sede della «Repubblica», veniva chiamata con ironia la Messa cantata: Scalfari, cui si dava del tu ma chiamandolo Direttore (Eugenio solo dagli amici stretti), ovviamente troneggiava. Sfogliando il giornale appena uscito, distribuiva i suoi elogi e i suoi giudizi a volte feroci, aveva un colpo d’occhio implacabile sulla qualità dei titoli («devono cantare», diceva), degli occhielli, delle didascalie, delle fotografie e riusciva a soffermarsi per lungo tempo sulla scrittura e sul taglio di singoli articoli. Soprattutto faceva dei confronti con la concorrenza, specialmente con il «Corriere», per evidenziare ciò che era stato fatto meglio o peggio. Poi la Messa cantata, che era la vera scuola per un giornalista giovane, finiva, e a quel punto Scalfari lasciava la parola ai capiredattori, ai capiservizio, anche ai redattori ordinari per la discussione e per l’esposizione del programma della giornata. Alle riunioni del mattino potevano partecipare anche gli esterni, non solo i collaboratori: intervenivano politici e amici del giornale. Così un giovane imparava il mestiere, meglio che in università. In più, ti sentivi nel cuore dell’attualità e al centro del mondo. Ho vissuto quell’esperienza per un anno e mezzo. Era il gennaio 1991, in piena guerra del Golfo, quando dalla casa editrice Einaudi arrivai alla «Repubblica», per lavorare alla pagina culturale, diretta da Paolo Mauri: in quei giorni moriva Rosellina Balbi, che era stata dalla fondazione del giornale la «domina» del cosiddetto Paginone. Con la rinuncia alle cronache sportive (lo sport era considerato un fenomeno sociale più che agonistico), il Paginone centrale di cultura è stato una delle rivoluzioni di Scalfa-
Eugenio Scalfari, fondatore di «Repubblica» in una foto del 1986. (Keystone)
ri. Già «Il Giorno», vent’anni prima, aveva abolito la Terza pagina, di tradizione secolare e di assoluto (e usurato) prestigio, disseminando l’informazione letteraria in sedi variabili. Ma «la Repubblica» di Scalfari si rivolgeva alla classe intellettuale (quella di sinistra) e il dibattito culturale doveva essere il cuore del giornale con firme che via via aveva «rubato» al «Corriere» e al «Giorno». Quella che non rubò a nessuno fu la firma del locarnese Enrico Filippini, approdato alla corte di Scalfari senza avere alcuna esperienza giornalistica (era stato traduttore ed editor presso la Feltrinelli, il Saggiatore e la Bompiani), ma che fu una scelta geniale, perché un inviato con quelle conoscenze internazionali non era facile trovarlo. Più facile, per Scalfari, chiamare gente come Arbasino, Asor Rosa, Eco, Kezich, Giuliani, Garboli, Briganti, Citati, Aspesi, Malerba, Almansi, Maria Corti, già affermati co-
me recensori e «agitatori» culturali… Naturalmente, tutti quei personaggi potevi incontrarli in redazione, oltre che sentirli quotidianamente al telefono. In redazione circolavano ogni giorno Nello Ajello (era il capo dell’inserto settimanale «Mercurio»), il più brillante critico (letterario e televisivo) Beniamino Placido, che ironizzava sul siculo-sguizzero che ero io, Corrado Augias, lo storico Lucio Villari, Irene Bignardi e Laura Lilli, anche loro tra i fondatori. Piazza Indipendenza era un porto di mare (vicinissimo alla Stazione Termini), un via vai continuo di collaboratori, intellettuali, scrittori, professori. Era questa la traduzione nella quotidianità dell’idea di giornalismo di Scalfari: un’apertura a 360 gradi. Sbagliavano i suoi avversari nel considerarlo un elitista snob. Ovvio che sentiva molto forte la concorrenza del «Corriere», e il giorno in cui gli comunicai che sarei passato a Milano in via
Le nuove povertà Feuilleton
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Guarda che luna!
Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione»
Concorso ◆ Ammirate la luna piena in vetta
Lidia Ravera
Era angosciata perché doveva giustificare la notte trascorsa a casa di Von Arnim o era angosciata perché Tom l’aveva accusata di aver partecipato allo storico baratto fra giovani donne povere e vecchi uomini ricchi? Le aveva dato della puttana? Si chiese se, nel contesto di un litigio, potesse essere giustificato, quello che era, sotto ogni aspetto, il più classico di tutti gli insulti. Il più tradizionale. E il più sessista. Era davvero, lei, una giovane donna povera, disposta ad affittare le sue grazie, non possedendo beni immobili né un conto in banca che non fosse asciutto? Giovane non lo era più, quanto ai soldi… se avesse avuto davvero un’anima mercantile sarebbe rimasta con Jacopo. Si chiese se era il caso di farla presente anche a Tom, quella modesta volgare verità, e se era più efficace gridarglielo in preda all’ira o recitarlo a bassa voce, con determinazione. Non astiosa. Addolorata. Quando il taxi arrivò a destinazione aveva deciso che doveva tace-
re. Doveva mostrarsi altera, ma sofferente, perché la sofferenza è sempre un’attenuante. E lei soffriva. Soffriva veramente. Nessun bisogno di mentire. Si sarebbe limitata all’esercizio di una signorile reticenza. Non si sarebbe giustificata. Avrebbe provato a infilarsi di soppiatto nella vita di sempre, senza rendere conto a nessuno di quella notte assurda. Se si fosse rivelato necessario, avrebbe mostrato le sue ferite, quelle inferte da Tom (che non si credesse innocente) e quelle che si era procurata da sola, con la sua mania di fare sempre il punto sulla sua vita e sulla vita degli altri. Di calcolare i danni, di giudicare le ambizioni. Il portone era aperto. Salì le scale, tenendo i 38 euro che le aveva restituito il tassista stretti nella mano. Tremava di freddo. Sotto lo zerbino non c’erano le chiavi di casa. Se lo aspettava. Faceva certamente parte della punizione, quella dimenticanza. Oppure Tom era in casa ad aspettarla, quindi doveva mettersi
in tasca il resto dei 50 euro. E tenerli ben nascosti. Suonò il campanello, che emetteva un trillo lieve, difficile da sentire. Stava per suonare ancora quando la porta si aprì. Tom era davanti a lei, una felpa sui pantaloni del pigiama. La guardava come se non riuscisse a decidere che emozione provare. Aveva la barba lunga e gli occhi rossi. Nel piccolo appartamento che entrambi detestavano stagnava un alito pesante, una penombra di finestre chiuse nonostante fossero quasi le dieci del mattino. Betta vide i cocci di vetro sul pavimento della loro unica stanza, le parve di sentir pulsare, in quel disordine, una disperazione maschile. Ne provò pena. Per Tom, per il loro matrimonio. «Perdonami», disse. E poiché lui continuava a guardarla senza dire una parola, aggiunse: «Abbiamo esagerato». Le salì alle labbra un’espressione inglese: overreacting. Riuscì a tenersela per sé ed entrò in casa. La stanza era immersa in un’atmosfera di malat-
Solferino (non per ragioni professionali ma per questioni private), mi chiamò per cercare di dissuadermi assicurandomi che il «mio» giornale era la «Repubblica». Più che perdere il sottoscritto, gli bruciava probabilmente che il sottoscritto passasse al concorrente. Nonostante il «tradimento», chiese diverse volte che fossi io a presentare i suoi libri a Milano: il che dimostrava che era disposto a perdonare… Oggi che cos’è rimasto della «Repubblica» di Scalfari? È cambiato il giornale (la pagina culturale non è più una pagina di dibattiti e lo sport, dopo la grande stagione di Gianni Brera e Gianni Mura, si è adeguato all’andazzo generale). Non si avverte più quel bisogno di appartenenza in nome di un’idea di civiltà, più che di schieramento. Si è sfaldato il pubblico che un tempo era una vasta area di opinione fedelissima e appassionata, come quel condottiero che fu Scalfari. In realtà, è cambiato il mondo.
tia, gli scuri erano accostati, nell’unica sottile lama di sole ballavano particelle di polvere. Il divano letto non era stato aperto. Meccanicamente, ma cercando gesti gentili, Betta raccolse il vetro dei calici frantumati dal pavimento che nessuno spazzava da giorni. Sentiva che Tom era rimasto in piedi, alle sue spalle, fermo come se volesse far risaltare, con la sua immobilità, l’affaccendarsi di lei nella ristrettezza dell’ambiente. Una mosca nella prigione di un bicchiere rovesciato. Quando ebbe finito di riporre o gettare nella pattumiera ogni oggetto scagliato in giro, si voltò verso l’autore di tutta quella esibita negligenza domestica e disse: «Possiamo parlarne o non parlarne, come vuoi, ma guarda che non è successo niente. Ho dormito nella stanza della moglie morta. Ho bevuto un po’ di vino. Mi sono fatta un bagno e stamattina me ne sono andata che il vecchio era ancora nel pieno del sonno». (30 – Continua)
Dalla notte dei tempi la luna piena ha sempre trasmesso fascino e mistero. Quale location migliore, dunque, per ammirarla, della vetta del Monte Generoso con la sua vista mozzafiato? Il 12 agosto sarà l’occasione ideale per salire in vetta e magari anche vedere qualche stella cadente.
Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti (a coppie di due) per il Full Moon Apero di venerdì 12 agosto 2022. L’offerta comprende il biglietto di andata e ritorno con il trenino (partenza da Capolago alle 18.45 e ritorno alle 23.00), un assaggio di risotto e musica con violino. Aperitivo à la carte. Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Full Moon Apero») indicando i vostri dati personali entro domenica 31 luglio 2022).
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CULTURA
Vita e dimora eccentriche di Fortuny Case Museo/2
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Palazzo Pesaro degli Orfei è anche un museo nel cuore di Venezia che vale ben una visita
Gianluigi Bellei
Mariano Fortuny y Madrazo è un personaggio, a dir poco, eccentrico. Grande barba ben curata, turbante dai mille colori in testa, casacca a righe con cappuccio, occhi accesi, vividi, sopracciglia folte. D’altronde anche la sua Venezia lo era e lo è ancora. Barocca, sfarzosa, eccessiva, esorbitantemente ricca. Almeno una piccolissima parte di abitanti.
Lo studio del pittore a Palazzo Pesaro Orfei. Al centro, Palazzo Fortuny, facciata su Campo San Beneto. (Claudio Franzini) In basso, particolare del giardino d’inverno al primo piano. (Massimo Listri)
Il palazzo Pesaro degli Orfei venne costruito tra il 1460 e il 1480 su commissione del comandante in capo della marina in stile tardo gotico veneziano Ma chi è Mariano Fortuny? Difficilmente lo troverete citato in una storia dell’arte, nonostante abbia partecipato diverse volte alla Biennale di Venezia. Pittore, disegnatore, scenografo, incisore, scenotecnico, illuminotecnico, designer creatore di tessuti stampati e abiti di moda, nasce a Granada, ai piedi dell’Alhambra, l’11 maggio 1871 dal pittore spagnolo Mariano Fortuny y Marsal e Cecilia Madrazo y Garreta, figlia di Federico de Madrazo y Kuntz, pittore e direttore del Museo del Prado. Alla morte del padre nel 1874 Cecilia si trasferisce a Parigi dove risiede il fratello e compra casa in Avenue des Champs-Élysées. Mariano frequenta lo studio di Benjamin Constant e Auguste Rodin. Si interessa alle innovazioni tecniche parigine, soprattutto all’illuminazione elettrica e al teatro. Giovanni Boldini, amico di famiglia, lo porta a vedere il nuovo teatro Eden e così si appassiona alla fisica, all’ottica, alla costruzione di modellini. Grazie al pittore Rogelio de Egusquiza, amico di Wagner, si innamora della Tetralogia. Nel 1889 Cecilia si trasferisce a Venezia a Palazzo Martinengo sul Canal Grande. Dopo un viaggio con la famiglia a Bayreuth inizia un ciclo di pitture e incisioni dedicate ai temi wagneriani. Palazzo Martinengo è il felice luogo d’incontro di molte personalità dell’epoca, fra le quali Gabriele D’Annunzio che diventerà il faro della sua produzione artistica. Nel 1899 espone alla III Biennale di Venezia e al Salon della Société Nationale des Beaux-Arts di Parigi. Tra il 1899 e il 1906 prende un nuovo studio all’ultimo piano di Palazzo Pesaro degli Orfei che diverrà in seguito laboratorio e residenza definitiva. Nel 1900 deposita a Venezia il brevetto «Sistema di illuminazione scenica con luce indiretta» e nel 1909 all’Office National de la Propriété Industrielle di Parigi quello per la stoffa plissettata in seta. Tra il 1903 e il 1906 ristruttura a Parigi il teatro privato di Martine de Béhague contessa di Béarn che gli dà l’incarico di allestire prima il Manfred di Schumann e poi una scena della Walchiria di Wagner. Dato che il teatro di rue Saint-Dominique è troppo piccolo, decide di costruirne un altro. Mariano applica i suoi concetti innovativi e soprattutto, per la prima volta nella storia, appronta una cabina di regia per il manovratore delle luci. L’inaugurazione è un autentico trionfo. Per quel che riguarda la produzione tessile, il 24 novembre 1907 presenta alla Hohenzollern Kunstgewerbehaus di Berlino lo scialle Knossos. Il successo è scontato: attrici come
(Immagini da Archivio fotografico Fondazione Musei Civici di Venezia).
la Duse, Sarah Bernhardt e Isadora Duncan o la marchesa Casati indossano i suoi abiti. Marcel Proust ne La prisionnière scrive che Elstir aveva parlato della duchessa di Guermantes come della donna di Parigi che si vestiva meglio e «tra tutte le vesti o vestaglie della signora di Guermantes, quelle che mi sembravano più rispondenti a un’intenzione determinata, e dotate di uno speciale significato, erano quelle fatte da Fortuny su antichi disegni veneziani». Durante la Prima guerra mondiale la produzione di stoffe subisce un calo per poi riprendere dal 1919 alla Giudecca grazie alla società creata assieme a Giancarlo Stucky. Nel 1924 a Parigi sposa Henriette Nigrin, presentata alla famiglia nel 1902, sua collaboratrice e musa. Dopo innume-
revoli successi a seguito delle devastanti vicende spagnole e l’inizio della Seconda guerra mondiale si chiude sempre più all’interno del suo palazzo per dipingere e scrivere le memorie. Muore il 2 maggio 1949. Il palazzo Pesaro degli Orfei venne costruito tra il 1460 e il 1480 su commissione del comandante in capo della marina veneziana Benedetto Pesaro in stile tardo gotico veneziano. Dopo vari passaggi di proprietà, fra i quali nel 1786 l’Accademia degli Orfei, Fortuny entra in una casa oramai degradata e ne inizia i lavori di recupero. Diviene una fabbrica, un atelier di pittura al primo piano e una biblioteca al secondo. Ma soprattutto è lo specchio della sua esistenza: eccentrica, stravagante, pittoresca, ridondante, zeppa di oggetti variegati e multiformi. Fino a
qualche anno fa le sale erano particolarmente buie e affannose, anche per via delle mostre temporanee che ospitava e che rendevano la fruizione complicata. Dopo l’acqua alta del 2019 con i suoi danni al piano terra e la relativa chiusura del palazzo, nel 2020 sono iniziati i lavori di ristrutturazione protrattisi a lungo per via della pandemia. Finalmente l’8 marzo 2022 viene riaperta al pubblico. Il piano terreno è dedicato alle mostre temporanee. In quello nobile è stata riaperta la magnifica ottafora, precedentemente oscurata, che ora fa entrare più luce in tutto il salone. Verso campo San Beneto troviamo le copie da Goya, il ritratto della sorella e copie da Tiziano. Al centro l’apparato funebre del quattordicesimo duca di Lerma, Fernando María Fernandez de Córdoba y Pérez de Barradas ucciso durante la guerra civile spagnola del 1936. Di fronte ci sono numerosi paesaggi e dipinti del padre Marsal. Verso rio Michiel, nel salotto, divani ricoperti dai tessuti Fortuny, ritratti di Henriette. Infine una serie di opere, provenienti dalle raccolte civiche, che inquadrano le amicizie di Mariano da Wildt a De Maria. Nelle quattro sale laterali, ora senza i posticci pannelli separativi, gli studi degli antichi, il ricostruito atelier con calchi, sculture, bozzetti, nudi, cavalletti, colori. Infine nel giardino d’inverno tutta la sua pittura tarda con il debito al Barocco veneziano e i dipinti ispirati alle leggende wagneriane. Dove e quando Museo Mariano Fortuny Y Madrazo, San Marco 3958, Venezia. Aperto tutti i giorni tranne il martedì, ore 10.0017.00. www.fortuny.visitmuve.it
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Da Mozart a Schubert, storia e piacere dell’esecuzione a quattro mani
Carlo Piccardi
Chi ha qualche dimestichezza con il pianoforte sa quanto piacere si può ricavare dall’esecuzione a quattro mani. Genere tipicamente conviviale, soprattutto nella Vienna di Franz Schubert, lasciando da parte le rielaborazioni, la musica per pianoforte a quattro mani ha un suo posto preciso nel repertorio ottocentesco. In riferimento al costume, poi, l’elaborato svolgimento a più voci con i maliziosi incroci di mano sembra fatto apposta per far trasalire le timide coppie di fidanzatini seduti alla stessa tastiera, per cui la funzione sociale di questa musica non va trascurata. Nel Settecento, non appena il pianoforte riuscì a prevalere sul vecchio clavicembalo, manifestò immediatamente tra le sue innumerevoli possibilità anche questo modo d’esecuzione. Inizialmente appunto, com’è normale, si trattava niente più che di un modo d’esecuzione, il quale non sfruttava ancora tutte le caratteristiche dinamiche, polifoniche, ecc. inerenti a questa pratica. L’opera per pianoforte a quattro mani di Wolfgang Amadeus Mozart, dall’infantile Sonata in do maggiore K. 19b, al capolavoro della Sonata in fa maggior, K. 497, ci dà l’esatta nozione dell’evoluzione del genere in quell’inizio dell’epoca pianistica. Comprensibilmente la prima Sonata, K. 19b, composta a nove anni, è di scarso interesse e da allineare fra le occasioni di bambino prodigio a cui Mozart era stato avviato. Si trattava sicuramente di una composizione destinata
alle frequenti esecuzioni di Wolfgang Amadeus con la sorella Nannerl. Tuttavia, anche le successive sonate K. 358 (1774) e K. 381 (1772), nonostante il fatto di essere state composte in un periodo di maggiore maturità, sono opere minori dove la distinzione delle due parti pianistiche è ancora elementare. Passarono molti anni prima che Mozart si decidesse a comporre un’altra sonata per pianoforte a quattro mani, ma questa volta il risultato fu la chiara intuizione che su questo terreno sarebbe stato possibile tentare un saggio organico di tecnica pianistica al servizio dei più alti valori musicali e non più subordinato alle occasioni di facile intrattenimento domestico. La Sonata in fa maggiore K. 497 si pone già su di un altro piano rispetto alle precedenti, iniziando con un «Adagio», un movimento lento, dall’atmosfera rarefatta. Segue l’«Allegro molto», dove una densa tessitura di voci concatenate in un dialogo serrato si articola su rapide modulazioni. Si aggiunga un controllo sapiente delle densità timbrico-dinamiche con esiti che un solo pianista non potrebbe ottenere e che permettono a Mozart di portare la composizione al livello del linguaggio di un quartetto d’archi. Tanto per intenderci, sullo stesso pianoforte, dove il vigore di un solo esecutore può raggiungere un determinato livello di sonorità, due pianisti assieme possono andare ben oltre. Pur sfruttando queste possibilità, Mozart non se n’è ac-
La famiglia Mozart in un’opera del 1763 ca., collezione privata. (Keystone)
contentato: la sua attenzione rimase essenzialmente musicale nel senso che non ha perduto di vista valori prioritari di tipo armonico e contrappuntistico. L’«Andante», soprattutto, è un movimento poliedrico sfaccettato da superfici tonali che alternano rapidamente maggiore e minore. L’«Allegro finale», più brillante e ampio quanto un rondò da concerto, conferma l’impostazione imitativa dell’impianto a più voci, introducendo motivi che corrono
parallelamente, scontrandosi e respingendosi talvolta con interessanti combinazioni di urti dissonanti. La Sonata in fa maggiore è senza dubbio un modello compiuto, ma purtroppo non ebbe un seguito. La successiva Sonata in do maggiore K. 521 (1787) è infatti poco più di un’abile composizione in stile concertante. Perché questo fatto? È difficile fornire una risposta. Probabilmente ciò che fu intuito da Mozart non poteva
adattarsi alle convenienze. La figura del pianista stava per emanciparsi definitivamente, per cui l’apparizione a due davanti a una tastiera poteva forse dare l’impressione di un compromesso (d’altronde nemmeno le esecuzioni a due pianoforti riuscirono ad attecchire). I decenni successivi confermano in tutti i casi questa supposizione, mantenendo la musica per pianoforte a quattro mani confinata agli ambienti domestici. Annuncio pubblicitario
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Anno LXXXV 25 luglio 2022
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CULTURA / RUBRICHE
In fin della fiera
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●
di Bruno Gambarotta
Sorprese in birreria
◆
Per me mangiare e bere è l’ultimo pensiero al mondo. Vivrei d’aria. Mi siedo a tavola solo per senso del dovere. Sono disposto a saltare un pasto, una volta per ogni decennio, ma devo essere io a deciderlo, non gli addetti al traffico aereo. Mi spiego: facciamo il caso che io organizzi il mio rientro serale da Roma a Torino in modo da arrivare a casa a un’ora accettabile per cenare. Arrivo a Fiumicino in tempo per scoprire che non c’è traccia dell’aeromobile del mio volo, sostituito da un altro che non si sa quando partirà. Alla fine il ritardo sarà di oltre tre ore. A saperlo avrei avuto tutto il tempo di sedermi a un pranzo di nozze per chiudere con il limoncello fatto in casa. Questo fatto che se mi avessero comunicato subito l’entità del ritardo avrei potuto mangiare un pasto completo, non so a voi ma a me mette addosso una fame da ultimi giorni
dell’umanità. Sbarcato all’aeroporto, recuperata l’auto e rientrato in città, mi trovo vicino a casa che è trascorsa da poco la mezzanotte. I familiari dormono, di mettersi a spadellare non se ne parla. Rassegniamoci, siamo persone adulte, ragionevoli, il digiuno non può che farci bene. C’era uno scienziato russo che faceva digiunare le galline vecchie e loro riprendevano a fare le uova. Io, però, anche se digiunassi per un intero anno, non riuscirei a fare le uova. Forse Marco Pannella ci riusciva, chissà. Mi torna in mente un saggio, scritto da uno scienziato che o aveva vinto il premio Nobel o stavano per darglielo. Costui dimostrava che è letale digiunare dopo aver a lungo fantasticato su un’abbuffata, perché i suddetti organi nel frattempo hanno secreto potenti succhi gastrici, che lavorano come martelli pneumatici e perforano tutto quello che hanno davanti. Perciò mi
Un mondo storto
fermo davanti all’insegna ancora accesa di una birreria ed entro. Ignoro se le persone al suo interno, l’addetto al bancone, una giovane cameriera, il ragazzo che mi accompagna al tavolo, due coppie e un solitario bevitore di birra, stessero parlando. Sta di fatto che al mio ingresso tutti tacciono. Tranne il ragazzo, vestito di nero e con le scarpe da ginnastica. «Faccio in tempo a mangiare qualcosa?», domando. «Sono rimasti spaghetti alla carbonara e costata di manzo con patate». «Vada per spaghetti e costata». Nel silenzio totale, si percepisce lo schiumare della birra spillata dal fusto. Il ragazzo con le scarpe da ginnastica torna al mio tavolo reggendo un vassoio con un bicchiere ripieno fino all’orlo di un liquido denso, lattiginoso, nel colore ricorda il latte di mandorla. Lo posa sul mio tavolo: «L’aperitivo della casa», mi spiega in risposta al mio sguardo interrogativo. Tutti
fissi a guardarmi, compreso il titolare. Sollevo il bicchiere, abbozzo un gesto circolare rivolto al mio pubblico e ne trangugio lentamente il contenuto. È gradevole, piuttosto alcolico, con un lontano sentore di anice. Ed ecco che mentre il liquido inizia a scendere nel gorgozzule percepisco nitidamente la cameriera lontana, in piedi, le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, affermare in tono aspro: «Se non arrivavi tu adesso, chiudevamo». Sto per chiederle «Scusi, cosa ha detto?» quando mi rendo conto che non ha aperto bocca. Ho percepito il suo pensiero! Sarà l’effetto dell’aperitivo della casa: siamo tutti sottotitolati. Mi portano gli spaghetti. Una montagna. «Non sono troppi?» domando al ragazzo. Risponde: «Le porzioni abbondanti sono una specialità della casa». E pensa: «Bisognava finirli. Domani sarebbero stati da buttare. Voglio proprio vedere come farai a
mangiarli tutti». «Si può almeno fermare la costata?», domando. «No», mi risponde. «È già in cottura». E pensa: «L’hai ordinata? Adesso la mangi o almeno la paghi!» Mi verrebbe da augurargli qualcosa di brutto, mi ferma il pensiero che se gli altri hanno bevuto l’aperitivo della casa possono leggere il mio pensiero. Mentre inizio a demolire la tonnellata di spaghetti, impegno il cervello a calcolare la radice quadrata di numeri primari di sei cifre e a risolvere sistemi di due equazioni con due incognite. Dopo un po’ hanno tutti la fronte tramata di rughe, l’occhio perso nel vuoto, la bocca semi aperta nel vano tentativo di starmi dietro. Per la cronaca, ho spazzolato tutto. Appartengo al partito di quelli che «è un delitto lasciare qualcosa nel piatto». La prossima volta che faccio tardi digiuno. Promesso. A costo di mettermi a fare le uova.
●
di Ermanno Cavazzoni
La data di morte
◆
Se si sapesse la data di morte? Cioè se ognuno avesse stampigliata la data della sua scadenza, come il latte, il burro, lo stracchino, come qualunque cosa che si compera al supermercato? Secondo me sarebbe più onesto. Uno viene al mondo e sa quando scade, l’anno, il giorno e l’ora. Io sarei favorevole, come per tutta la merce deperibile. Uno potrebbe fare i suoi calcoli in modo avveduto; le trattenute per la pensione, tanto per fare un esempio, sarebbero calcolate sul tempo di durata individuale. È chiaro che la data di scadenza è valida se il prodotto è conservato secondo le modalità prescritte; se un individuo ad esempio è della categoria dei prodotti che vanno tenuti in frigo, questo individuo dovrà trasferirsi in Norvegia o in Svezia e tenere basso il riscaldamento; se l’individuo è paragonabile a un surgelato, dovrà abitare oltre il Circolo Polare Artico,
o sopra i tremila metri, accanto a un ghiacciaio. Certi prodotti si conservano solo se sono sotto vuoto; questo è difficile per un umano, ma può provare a tenere una tutina impermeabile. I sistemi di conservazione sono tanti, stare sotto sale, stare sott’olio, essiccarsi, rimanere sott’aceto o sotto spirito, esistono dei buoni conservanti; ma anche la pastorizzazione è un buon metodo. Non so ancora come si possa applicare all’uomo, occorrerebbero studi, esperimenti, la cottura, la sterilizzazione coi raggi X o Gamma e l’individuo durerà fino alla naturale scadenza. In caso di difetti di fabbrica occorrerebbe un certificato di garanzia, come per le automobili, la lavastoviglie, il frigo ecc. Ossia chi venga al mondo col radiatore che perde, sarà rimandato in fabbrica e il radiatore sostituito. Oggi già sostituiscono cuore, reni; un domani con le staminali
ogni organo avrà il suo ricambio, e quindi ciascuno sarà totalmente sotto garanzia, a meno di un uso improprio, non rabboccare l’acqua quando s’accende la spia, non cambiare l’olio ogni 20 mila chilometri, non cambiare la cinghia della distribuzione, che per un uomo equivale a non bere abbastanza, a non assumere vitamine, a non fare movimento. Queste cose andranno controllate e certificate; la pressione degli pneumatici non è diversa dalla pressione arteriosa; gli zuccheri non vanno consumati in eccesso, perché sarebbe come mettere alcol invece della benzina. Se uno mantiene tutto sotto controllo e fa la revisione a ogni scadenza, è garantito che morirà alla data indicata. Quindi nell’imminenza può prepararsi, fare un giro di saluti agli amici e ai parenti. «Scado la prossima settimana, mercoledì, alle sei del pomeriggio». «Hai già la bara?» «Sì, l’ho
trovata d’occasione su internet, era un po’ che la cercavo, la volevo semplice e comoda». «Ah peccato, ti volevo dare quella di mia bisnonna che si è liberata». «Grazie, ma non volevo una cosa d’antiquariato, preferisco il moderno, è una bara dell’Ikea, me l’hanno data smontata, è più comoda da trasportare, è usata ma sembra nuova, è solo da rimontare, mi diverto a farlo». «Scusami, ma io sono per la raccolta differenziata: i denti con i denti, gli occhi con gli occhi, i peli e i capelli insieme alla lana e al cotone, la pelle e le interiora con l’umido, il resto può essere cotto e seccato e dato come crocchette agli animali domestici; è un peccato consumare tante proteine. Mia nonna ad esempio l’ho data al gatto, era d’accordo anche lei, era così affezionata al gatto che non vedeva l’ora di arrivare a scadere. La ditta che se n’è occupata, in parte l’ha messa in scatola come bocconcini, e
in parte crocchette insaporite col pesce. Il gatto l’ha riconosciuta, voleva mangiare solo la nonna; non gli piaceva invece mio zio, forse perché era un po’ affumicato». Certo che, pensandoci bene, questa data invalicabile sarebbe come un macigno che incombe. Anche adesso sappiamo di essere mortali, ma si spera sempre in una posticipazione; che chi sovrintende alla vita e alla morte si scordi la nostra pratica; che uno sciopero dei funzionari preposti sospenda l’esecuzione; che improvvisamente si scopra di essere articoli a lunga conservazione. Sono speranze; anche se la data è scritta, questo è certo, ma così in piccolo che non la si vede; perciò uno spera nel disordine amministrativo dell’aldilà. Forse questa incertezza, questa miopia, ci è stata data come conforto; forse è un vantaggio, che la data di scadenza la si sappia solo dopo.
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Xenia
di Melania Mazzucco
Andrés Aguyar ◆
A Roma, lungo il viale alberato che sale da Trastevere verso la sommità del colle Gianicolo (l’ottavo di Roma, fuori dall’elenco-filastrocca che imparavamo a memoria), c’è un monumento razionalista che ricorda il Colosseo Quadrato dell’EUR: un tempietto di travertino bianco, coi lati a portico alleggeriti da tre arcate a tutto sesto. È cinto su un fianco da una balaustra e vi si si accede salendo una gradinata. Sui pilastri, imponenti bracieri di bronzo, accesi solo in ricorrenze speciali. All’interno, come nella cella del tempio, un’ara di granito rosso, decorata con simboli romani (la lupa, l’aquila, il gladio). È poco visitato – forse perché, inaugurato nel 1941, ha un’aria fascista. Forse perché ha un nome triste e funebre: Mausoleo Ossario Garibaldino. La costruzione – realizzata solo 63 anni dopo la legge promossa da Garibaldi e dal figlio Menotti che ne rico-
nosceva la necessità, e solo grazie alla tenacia del figlio di Menotti, Enzo – ospita, nel sacrario posto sul retro, i resti di circa 1600 morti. I loro nomi sono ricordati sulle lapidi che chiudono i loculi, anche se di molti si trovarono solo frammenti. Dopo la fine della Repubblica, i francesi vietarono di raccogliere i corpi dei nemici. La maggior parte erano giovani venuti da ogni regione d’Italia (ma anche stranieri) per difendere la Repubblica Romana dall’esercito dei Borboni, che premeva da sud, e dall’esercito francese, sbarcato a nord, a Civitavecchia, nell’aprile del 1849, con migliaia di uomini e cannoni per restaurare il dominio del papa (in verità l’ossario raccoglie anche i resti dei caduti per la libertà di Roma fino al 1870). Nella primavera del 1849 la Repubblica Romana era già – insieme a Venezia – l’ultimo ancora libero degli stati democratici nati dalle rivoluzioni del
1848, altrove represse nel sangue. Fra loro c’è Mameli (però ospitato in un sepolcro a parte), ci sono eroi notissimi come Francesco Daverio, Luciano Manara ed Enrico Dandolo, ed eroine riscoperte più di recente, come Colomba Antonietti Porzi e Giuditta Tavani Arquati. E poi c’è lui, Andrés Aguyar (Aguiar in America latina): un nero – anzi un moro, come si diceva allora – che lottò per la libertà d’Italia e la propria. Era uruguayano, schiavo figlio di africani schiavi (la schiavitù in Uruguay sarebbe stata abolita solo dopo la guerra civile e la proclamazione della Repubblica). Era servitore nella famiglia del generale Félix Eduardo Aguiar. Non sappiamo come si guadagnò la libertà: forse, come cinquemila suoi compagni, entrando nell’esercito per combattere alla difesa di Montevideo. Aveva il ruolo di domatore di cavalli. Non sapeva né leggere né scrivere ma
era un cavaliere provetto, e abilissimo a usare lancia e lazo. Le principali informazioni sulla sua vita le hanno fornite Alexandre Dumas (Memorie di Garibaldi, 1860), che ne esalta la fedeltà e il coraggio e che dovette interessarsi a lui perché a sua volta figlio di un ufficiale mulatto, e l’uomo di cui divenne prima domestico, poi assistente e infine amico: Giuseppe Garibaldi, nella versione delle Memorie che curò lui stesso. La verifica delle fonti è ardua: dunque la sua figura resta avvolta da un alone di leggenda. Di certo, si unì alla Legione italiana di Garibaldi (che dal Brasile e dall’Argentina era passato in Uruguay), insieme a due compagni rimasti non identificati: il moro Costa e il negro di Marquez. Combatté – per terra e per mare (Garibaldi guidava anche le operazioni navali) – e poi seguì Garibaldi a Montevideo, dove si era stabilita la giovane moglie Ani-
ta e i loro bambini. Ne avevano già due: Menotti Domingo (nato il 16 settembre 1840) e Rosita (nata il 30 novembre 1842, sarebbe morta il 23 dicembre 45); altri due si aggiunsero (Teresita, il 22 febbraio 45, e poi Ricciotti, nato il 24 marzo1847). Aguyar si occupava del padre, della madre e dei bambini, per i quali era uno di famiglia. Partì con loro per l’Italia all’inizio del 1848 sulla nave Carolina. Partecipò, con Garibaldi, alle battaglie di Luino e Morazzone durante la prima guerra di indipendenza italiana. Gli salvò più volte la vita. Molti testimoni oculari lo descrivono accanto a Garibaldi nei giorni epici della resistenza, a Roma. Avvolto in un mantello nero, nel pugno una lancia alla cui estremità sventolava un drappo rosso. Erano colpiti dal colore della sua pelle, che spiccava vicino al bianco del cavallo di Garibaldi. (1 – Continua)
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