Azione 35 del 30 agosto 2021

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Cooperativa Migros Ticino

società e Territorio L’isolamento imposto dal Covid ha avuto conseguenze sul nostro cervello, come riprendersi?

ambiente e Benessere Incontinenza urinaria nella donna: differenza anatomica e cause di genere. Monica Bianchi ci parla del pavimento pelvico

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 30 agosto 2021

azione 35 Politica e economia Il ridimensionamento del ruolo globale degli Usa e la genesi della débâcle di Kabul

cultura e spettacoli L’imperdibile autobiografia di Thomas Platter, il pastorello che diventò un grande erudito

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Tante nuove idee alla scuola club

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Vaccini, libertà e coerenza di Peter Schiesser La task force scientifica conferma ciò che si poteva intuire in queste settimane: siamo nella quarta ondata della pandemia da Coronavirus, e questa è la pandemia dei non vaccinati. A poco a poco le statistiche sono più dettagliate e mostrano che sono i non vaccinati a subire decorsi gravi. Certo, anche chi è vaccinato può ammalarsi, ma con sintomi meno gravi. Tuttavia, l’evoluzione è tale che le conseguenze riguardano di nuovo tutti, ossia: le ospedalizzazioni crescono a tal punto che in certi cantoni (Zurigo sopra a tutti) i posti nelle terapie intensive sono ora quasi tutti occupati e quindi si corre nuovamente il rischio di dover rinviare interventi su persone con altre malattie, a detrimento della salute collettiva. Ecco quindi che crescono le pressioni per aumentare il numero di vaccinati. La Svizzera ha infatti un tasso di vaccinazione inferiore ai paesi vicini, sia a causa di uno scetticismo di fondo in alcune fasce della popolazione, ma anche per la difficoltà di comunicare in modo credibile quanto sia importante immunizzarsi, non solo ma anche fra gli stranieri, e per una difficoltà di accesso alla vaccina-

zione per un certo numero di persone. Con un certo ritardo, anche in Svizzera si opta ora per soluzioni più creative: vaccinazioni in grandi centri commerciali, nelle farmacie, senza appuntamento. D’altra parte, si deve anche sottolineare una mancanza di coerenza in talune istanze istituzionali, che mina la credibilità delle campagne governative. Per esempio, in Ticino abbiamo due consiglieri di Stato, Norman Gobbi e Claudio Zali, che (almeno fino a poco fa) non si sono vaccinati. Come possiamo pretendere che la maggior parte della popolazione decida di vaccinarsi se due consiglieri di Stato su cinque non lo fanno e un altro, Christian Vitta, pur essendosi vaccinato, trova parole di comprensione per chi decide di non farlo? Vogliamo ricordare che quando si diventa consiglieri di Stato non si è più solo semplici cittadini ma lo specchio delle istituzioni, testimoni di una credibilità collettiva che richiede di andare oltre la libertà personale? In un recente colloquio privato, un ex consigliere di Stato ha coniato un nuovo termine: bisognerebbe sottolineare l’importanza della libertà sostenibile, ossia del concetto di libertà che non danneggia il prossimo, la collettività. L’atteggiamento dei due consiglieri di Stato nuoce alla credibilità

della campagna di vaccinazione e di contenimento della pandemia. E l’Udc nazionale, con la sua opposizione alla legge sul Covid su cui voteremo in novembre, fa altrettanto. A fronte dei contagi in aumento, dovuti in buona parte a chi torna dalle vacanze all’estero, in particolare dal Kosovo e dalla Macedonia del nord (del 40 per cento dei ricoverati che indicano la fonte del contagio, l’80 per cento indica questi due paesi), il Consiglio federale torna a ventilare misure più restrittive, oltre a rendere a pagamento i testi anti-covid da ottobre. Tuttavia, lo fa coerentemente con quanto annunciato nei mesi addietro: le restrizioni varranno solo per chi non è vaccinato, guarito o testato. In questi giorni è in consultazione la richiesta di introdurre il covid pass per tutti i luoghi al chiuso (ristoranti e bar compresi, se non all’aperto), ciò che ha provocato una levata di scudi da parte di Gastrosuisse, che dimentica un dettaglio fondamentale: senza queste restrizioni per i non vaccinati-guariti-testati si andrebbe di nuovo verso un lockdown totale. Lo vogliamo? Il privato cittadino ha il diritto di non vaccinarsi , ma non può pretendere di limitare la libertà e la salute della collettività, godendo delle stesse libertà.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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attualità migros

la formazione non si ferma mai scuola club migros Ticino Ecco le proposte per il nuovo anno di corsi

Riparte alla Scuola Club di Migros Ticino un nuovo, ricco anno di formazione. Particolarmente variegato è il ventaglio delle proposte 2021/2022 che vede, accanto ai classici, tante novità in risposta agli ultimi trend e alle esigenze di un pubblico che desidera essere protagonista di questo tempo. Il grande investimento nel settore Salute conferma l’impegno e la passione della Scuola Club ad accompagnare un intero territorio a vivere meglio e in modo sempre più sano, ogni giorno. Dopo il successo dell’introduzione delle macchine combinate Cadillac/ Reformer nella sede di Lugano, nuove postazioni con macchine di ultima generazione sono ora disponibili anche a Bellinzona e Locarno per coloro che hanno imparato ad apprezzare i numerosi vantaggi offerti da questa straordinaria disciplina. Originariamente denominato «Rehabilitation Table», Cadillac al giorno d’oggi viene considerato l’attrezzo d’elezione poiché permette di toccare una vastità di movimenti in totale tutela della colonna vertebrale. Particolarmente versatile, il lavoro sui lettini risulta efficace sia per coloro che trascorrono molte ore seduti, sia per gli sportivi d’élite che vogliono migliorare il gesto atletico così come per coloro che desiderano mantenere i risultati ottenuti in riabilitazione. Con il nuovo anno, alla Scuola Club non si ampliano solo gli spazi dedicati al movimento, ma anche quelli della formazione di settore con l’introduzione di nuovi percorsi qualificanti. Ad affiancare il recente percorso per

La macchina combinata Cadillac Reformer.

insegnare Pilates Matwork a breve il lancio del modulo di approfondimento per diventare esperti anche in Studio Pilates. Verranno inoltre proposte due nuove formazioni per diventare Istruttori di Fitness di Gruppo e di Power Yoga, oltre che un rivisitato Personal Trainer in linea con i trend del momento. Novità degna di nota per il nuovo anno scolastico, il settore Information Technology è stato totalmente ridisegnato, con un percorso a tappe che ac-

compagna il partecipante dalle Competenze di base a quelle più avanzate, con la possibilità di conquistare certificati sempre più decisivi per un Cv irrobustito di un know-how necessariamente al passo con l’epoca digitale che stiamo vivendo. La sezione dedicata a Smartphone & Tablet è stata invece progettata con brevi moduli indirizzati sia a coloro che non hanno mai utilizzato un moderno cellulare sia a chi desidera sfruttare appieno il potenziale del pro-

prio device. Oggi infatti smartphone e tablet possono diventare veri e propri alleati per diverse incombenze: oltre a scattare foto e mandare messaggi è possibile effettuare molte attività quotidiane come pagare le bollette, gestire il conto in banca, effettuare ordini su Internet e molto altro ancora. Anche in questo ambito la Scuola Club non manca di investire sulla formazione: al via un nuovo percorso volto a qualificare i collaboratori già inseriti in organico con preziose competenze di fast-check ma ideale anche per coloro che cercano nuove opportunità di lavoro o che desiderano riqualificarsi in ambito digitale. È questo il caso del nuovo percorso con diploma Tecnico PC: durante le lezioni i partecipanti avranno a disposizione un’officina laboratorio in cui «mettere le mani in pasta» con l’obiettivo di diventare un profilo informatico in grado di svolgere una funzione di «helpline» di primo livello. Settore di punta della Scuola Club Migros a livello svizzero, le Lingue si rinforzano con una offerta sempre più ampia e diversificata. Accanto al tanto atteso ritorno dei corsi in presenza, si riconferma l’offerta dei corsi online, consolidando il terreno guadagnato in tempo di pandemia. In grande evoluzione, la Formazione per Formatori conferma l’offerta di base con il modulo M1 che permette di proseguire il percorso per l’acquisizione dell’Attestato Federale dedicato all’animazione dei corsi per adulti, così come la proposta Fide, con il percorso

dedicato alla formazione linguistica nell’ambito dell’integrazione. Essere creativi rilassa e rende più felici, come cucire la borsa preferita o suonare l’ukulele: l’importante è trovare nuovi stimoli. Il ritorno delle occasioni di socialità spalanca le porte ai tanto amati corsi di ballo che uniscono lo stare in forma con l’allegria della musica e la gioia della buona compagnia. Per i ballerini di ogni età non c’è che l’imbarazzo di scegliere il ritmo più giusto per sé, dai latino-americani all’hip hop. Se il viaggio resta purtroppo ancora un miraggio per pochi, i corsi della sezione Cucina dal mondo sono un’occasione davvero alla portata di tutti per gustare il sapore di altre culture e tradizioni – dalla Japanese Cotton Cheesecake agli English scones. E per gli interessati ad approfondire le meraviglie dell’universo vegetariano, sono confermati in agenda i ricercati corsi dell’Alta Cucina della Joia Academy per professionisti di settore e appassionati. Anche quest’anno la Scuola Club di Migros Ticino riapre le porte delle sue quattro sedi per rendere possibile ancora oggi la promessa fatta dal suo fondatore Gottlieb Duttweiler di Formazione per tutti. informazioni

Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60 www.scuola-club.ch Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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società e Territorio Un ritorno atteso da molti Dopo una lunga pausa per la gioia dei molti appassionati sono ripresi gli appuntamenti con il Karaoke e la tombola. Ne abbiamo parlato con due protagonisti

collina d’oro da cartolina È stato da poco pubblicato Collina d’Oro un viaggio nel tempo. Nato dalla collezione di Ivo Gentilini il volume racconta in immagini la storia del territorio e dell’architettura pagina 8

incontri Sognava un archivio dedicato alla storia delle donne e l’ha creato: Renata RaggiScala è stata co-fondatrice e per vent’anni presidente dell’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino pagina 9

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il cervello pandemico

allenare la mente Gli ultimi diciotto mesi

di isolamento hanno avuto conseguenze sul nostro equilibrio mentale e sulle nostre capacità cognitive. Ma c’è il modo per riprendersi

Stefania Prandi All’inizio, più di un anno fa, sembravano episodi sporadici. Poi si sono intensificati e ci siamo resi conto che non capitavano soltanto a noi, ma anche ad altri: sentirsi continuamente distratti; perdere il filo del discorso; essere pervasi da un senso di sopraffazione, apatia e stanchezza cronica. Semplici azioni, compiute senza troppo sforzo in condizioni normali, come piegare il bucato oppure preparare un pasto, hanno cominciato a sembrare insormontabili. Adesso sappiamo che si tratta delle conseguenze degli ultimi diciotto mesi di isolamento, più o meno prolungato, dovuti alla pandemia, sul nostro equilibrio mentale. Sui giornali inglesi e americani si discute da settimane di quale sia la situazione dei nostri «cervelli pandemici». La scienziata inglese Catherine Loveday, docente di Neuroscienze cognitive all’Università di Westminster, ha cercato di quantificare il fenomeno con l’Everyday Memory Questionnaire (EMQ). Alla BBC ha detto di avere usato il questionario – sviluppato per misurare soggettivamente, nella vita quotidiana, la mancanza di memoria – per valutare il modo in cui il campione di intervistati avesse percepito lo stato delle proprie condizioni psichiche. Tra le domande: «Vi siete dimenticati qualcosa di importante? Avete realizzato, mentre leggevate un testo, di averlo già letto prima?». L’ottanta per cento ha risposto di considerare deteriorato almeno un aspetto della propria memoria. Alcuni hanno riferito di avere scordato eventi importanti, mentre ad altri mancavano le parole – rimaste sulla punta della lingua – mentre parlavano. La causa, secon-

do Loveday, potrebbe essere dovuta al fatto che, avendo perso l’abitudine all’interazione sociale, i neuroni siano stati meno attivi. Invece di andare al lavoro, muoversi in un ufficio, spostarsi in altri luoghi per riunioni e incontrare colleghi, conoscenti e amici, molte persone sono rimaste per lo più confinate in una stanza, a casa. Uscire e interagire con gli altri, aiuta a ricordare gli impegni oppure un evento imminente, ad esempio un compleanno. Socializzare, oltre ad essere divertente, è necessario per una buona salute psicofisica. Tina Franklin, neuroscienziata dell’Istituto di tecnologia della Georgia, ad Atlanta, ha spiegato su «The Atlantic» che gli esseri umani dimenticano gran parte di ciò che gli accade dopo le prime ventiquattr’ore, in un processo piuttosto rapido. «Il nostro cervello è molto bravo sia a imparare sia a dimenticare le informazioni non ritenute importanti». Con la pandemia abbiamo stabilito una nuova routine, abbandonando abitudini come prendere l’autobus e andare al ristorante, associate alla plasticità sinaptica, la capacità intrinseca di generare nuove connessioni e apprendere nuove cose. Adesso siamo tornati a una sorta di normalità, ma continuiamo comunque a subire gli effetti del periodo trascorso. Michael Yassa, neuroscienziato e direttore del Centro per la neurobiologia dell’apprendimento e della memoria dell’Università della California, a Irvine, sostiene in diverse interviste che resta diffuso «un lieve deterioramento cognitivo». Sulla base delle conoscenze attuali, due fattori sono ritenuti molto importanti per il cervello, la novità e l’attività fisica,

Due fattori sono importanti per la salute del cervello: novità e attività fisica, mentre lo stress cronico lo deteriora. (Shutterstock)

mentre lo stress cronico lo deteriora. Lo stress non sempre si percepisce a livello conscio, a volte agisce in maniera silenziosa, senza nemmeno provocare alti livelli di ansia. A lungo andare, l’esposizione prolungata al cortisolo, il principale ormone dello stress, aumenta il rischio di malattie cardiache, disturbi del sonno e dell’umore. Le abilità cognitive ne risentono perché lo stress cronico danneggia le cellule cerebrali e riduce le dimensioni della corteccia prefrontale, la parte responsabile della memoria, della concentrazione e dell’apprendimento. Per Natasha Rajah, professoressa di Psicologia all’Università McGill di Montreal, «il cervello pandemico» può essere attribuibile a una serie di fattori sovrapposti: lo stress; il dolore; la noia; in certi casi la depressione. Dello stesso parere Yassa. Secondo lui siamo sulla strada giusta per riprenderci, ma ci vorrà del tempo perché

siamo arrivati a questo punto attraverso un processo faticoso, non da un giorno all’altro. Tra le soluzioni utili per recuperare più velocemente, c’è l’allenamento. «Quando le persone mi chiedono quale sia la cosa più importante per migliorare la funzionalità mentale, rispondo con una sola parola: esercizio, cioè muoversi di più e mantenere una regolare routine di fitness», scrive Sanjay Gupta, neurochirurgo e corrispondente medico per la CNN, nel suo ultimo libro, pubblicato nei mesi scorsi in italiano, Fitness mentale. Il rivoluzionario programma per mantenere giovane il cervello. Il moto è «l’unica attività comportamentale scientificamente dimostrata per innescare effetti biologici d’aiuto al cervello». Per esercizio si intende una combinazione di sport aerobici (dal nuoto al ciclismo), allenamento della forza (con i pesi) e della flessibilità (stretching e yoga).

Mantenersi in forma implica condurre una vita attiva durante il giorno: prendere le scale invece dell’ascensore; evitare di stare seduti a lungo; fare passeggiate durante le pause; impegnarsi in hobby come le escursioni e il giardinaggio. In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista «Neurobiology of Learning and Memory», sono state osservate le conseguenze su un gruppo di adulti sedentari che hanno iniziato a esercitarsi due volte la settimana prendendo lezioni di danza aerobica. I loro cervelli, in poco tempo, hanno «riorganizzato in modo flessibile le connessioni neurali», mostrando miglioramenti nelle aree critiche per la memoria e il pensiero. Gli esperti elencano altri quattro «pilastri» per mantenere la mente lucida: coltivare nuovi interessi e competenze; ritagliarsi abbastanza momenti di relax; mangiare sano; restare socialmente connessi con gli altri.


Le settimane dei Nostrani del Ticino 31. 8 – 13.9. 2021

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21%

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Pomodori ramati Ticino, al kg

2.60

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Tutti gli iogurt Nostrani

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1.85

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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società e Territorio

Tanta voglia di stare insieme

intrattenimenti Dopo una lunga pausa dovuta al Covid sono ripresi gli appuntamenti con il Karaoke e la tombola.

Ne abbiamo parlato con due protagonisti: Giuseppe (Pino) Cristallo e Roberto (Chicco) Moresi

Guido Grilli Certe forme di intrattenimento appaiono intramontabili. Tanto che dopo il prolungatissimo stop dovuto alla pandemia di Covid che le ha costrette alla dieta e dopo il semaforo verde acceso dalle autorità federali, da poche settimane stanno risorgendo. Parliamo di Karaoke e di tombole che in comune condensano beni irrinunciabili: condivisione e divertimento. «La gente ha voglia di evadere» – assicura Giuseppe Cristallo, per tutti Pino, che incontriamo in centro a Lugano di nuovo alla «consolle» del suo sofisticato impianto di Karaoke a far cantare ai tavolini all’aperto un numero non trascurabile di appassionati – da Vasco a De Gregori, alle celebri hit americane e inglesi. «Dopo un anno e mezzo di interruzione c’è tanta voglia di cantare. È importante anche per la Città riprendere, perché altrimenti la gente si sposta altrove a cercare la Movida». Come è avvenuta questa rinascita e nuovo inizio del Karaoke? «Gradualmente. Se prima si poteva andare avanti fino alle 24 o all’una del mattino, ora gli orari si sono ridotti dalle 19.30 alle 23». E come vengono garantite le norme igienico sanitarie? «Ad ognuno dei partecipanti alla serata consegno una “cuffietta” personale da infilare sopra il microfono, che viene regolarmente disinfettato. Inoltre sono presenti prodotti igienizzanti per le mani. All’aperto la mascherina non serve, ma occorre mantenere comunque la distanza sociale. E, rispetto al passato,

Microfono igienizzato e distanza sociale ma si torna a cantare. (Shutterstock)

non è consentito ballare, e chi non canta in quel momento deve restare seduto al tavolo. Ma il divertimento non manca». Su un tavolino, poi, i bigliettini dove ogni aspirante interprete ha già scritto il suo nome e il titolo della canzone che intende cantare. E la serata è lanciata. «Attraverso la mia pagina Facebook veicolo le date di Karaoke. Il target? È molto variato, dai 20 anni alla mezza età e oltre». Da Pino arrivano a cantare anche veri talenti, come Omar, 49 anni, già fondatore di una band rock. «La prima canzone me la scrisse Steve Lee dei Gotthard» - ricorda con gli occhi lucidi, dopo la sua notevole interpretazione di My Way di Frank Sinatra. «Da giovane ho pure avuto la possibilità di un ingaggio da Rita

Pavone. Ma litigai con il mio chitarrista e non mi presentai al provino». Quella che si dice l’occasione della vita… «Sì, infatti, ora la mia voce la spendo qui al Karaoke», sorride prima di congedarsi e raggiungere gli amici in trepida attesa del loro turno. Giuseppe Cristallo, dal canto suo, coltiva l’amore per la musica sin da giovanissimo: «A 15 anni ho iniziato a fare il dj. E ormai da oltre vent’anni conduco il Karaoke, che mi appassiona sempre. Negli anni mi sono costruito un costoso impianto. Oggi possiedo 250 mila basi musicali e regolarmente ne acquisto di nuove, originali, direttamente dalle case discografiche. Le parole proiettate sullo schermo abbinate alle singole canzoni

sono invece fornite automaticamente da un programma». Intanto, le prossime serate del venerdì proseguiranno a settembre. Il nostro interlocutore condivide la sua verve di intrattenitore e divertito animatore con altri colleghi attivi in diverse località del Cantone, a Ponte Tresa, Bioggio, Bellinzona. «Siamo tutti amici», assicura, ma ognuno ha la sua musica. «La più gettonata è quella italiana. Vasco Rossi in testa». E infatti, pochi minuti prima delle 23, le ultime note che fanno cantare tutti a squarciagola sono quelle di Alba Chiara. Tra i ritorni a lungo desiderati nel mondo dell’intrattenimento, penalizzato dalla pandemia, c’è anche la tombola. Roberto Moresi, «ma tutti mi conoscono come Chicco», 51 anni, da luglio ha riaperto a Bioggio in via della Posta 23 la «Tombola Malaspada», che prima dell’emergenza sanitaria si trovava nella storica sede di via Brentani a Lugano, dove il locale al pianterreno a vetrate registrava regolarmente una media di 200 ingressi. «Quel luogo è durato 28 anni. A causa del Covid siamo rimasti fermi dal marzo 2020. Ci siamo dovuti trasferire forzatamente perché in via Brentani nel frattempo abbiamo perso la garanzia dei posteggi, dal momento che su quel terreno hanno costruito due nuovi palazzi». Quali regole dovete osservare per assicurare le norme Covid? «Capienza massima di due terzi della superficie e mascherina per entrare, che poi può essere tolta una volta ai tavoli. Le tombole si tengono il martedì, giovedì, venerdì e il sabato alle 20.30. Da settembre do-

vremmo riproporre anche la domenica pomeriggio. Mentre il mercoledì e la domenica sera sono garantiti da un’altra società di tombola con la quale condividiamo gli spazi». Come è ricominciata l’avventura? «Oggi la tombola è divenuta la mia attività principale» – dichiara Moresi. «L’inizio è comunque duro: da un canto bisogna far conoscere alla gente il nuovo posto, dall’altro siamo in estate, molti sono in vacanza. Ho comunque inaugurato il mio sito in Facebook per promuovere le serate, oltre a qualche inserzione sul giornale. Attualmente arrivano dai 70 ai 120 appassionati a sera. Non è moltissimo. La capienza massima del locale è di duecento posti». Come è stata accolta la notizia del ritorno alla tombola? «Con grande felicità. Abbiamo un pubblico di tutte le età. Significa per molti finalmente uscire di nuovo da casa, ritrovarsi, sperimentare nuovamente la socialità». Prosegue il gerente: «Occorrerà del tempo, comunque, prima di poter lavorare come in passato. Abbiamo registrato un calo enorme di frequenze. Ho stimato che ad oggi mancano più di cento persone a sera. Non è troppo confortante, pensando oltretutto che al momento in Ticino siamo i soli a offrire la tombola, a parte una società del Bellinzonese aperta una volta la settimana. Molti, temo, hanno paura del contagio e diversi, a seguito della pandemia, hanno perso il posto di lavoro e non possono forse più permettersi le serate come in passato. Anche per noi, dopo tanti anni, è come se cominciassimo per la prima volta…». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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idee e acquisti per la settimana

Genuine bontà dal nostro territorio attualità Due settimane dedicate ai Nostrani del Ticino: fino al 13 settembre nei supermercati

Migros vi aspettano molte imperdibili offerte sui prodotti tipici della regione, come pure un grande concorso con allettanti premi in palio. Venite a trovarci e approfittatene!

Pomodoro cuore di bue

Rosso, grande, costoluto e dalla caratteristica forma di un cuore: così si presenta il pomodoro cuore di bue. Un singolo frutto può arrivare a pesare quasi mezzo chilo. Carnoso, povero di succo e molto aromatico, è ottimo per la preparazione di una rinfrescante insalata caprese accompagnata da mozzarella e basilico fresco. È coltivato principalmente sul Piano di Magadino. caseificio ambrì

Questo formaggio viene prodotto ad Ambrì, presso l’azienda agricola di Emilio Bossi. È un formaggio a base di latte crudo, dalla pasta morbida ed elastica, dal sapore dolce e delicato. La stagionatura è di circa 4 mesi. Le mucche sono foraggiate con fieno prodotto dall’azienda stessa e mais ticinese. Non vengono utilizzati mangimi insilati.

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mele Gala

Cesare Bassi di S. Antonino è rimasto uno dei pochi frutticoltori ticinesi a produrre mele. Tra i suoi prodotti figurano le mele Gala. Grazie al loro aroma zuccherino e alla consistenza croccante, sono molto amate dai bambini. Questi frutti dal colore giallo-rosso sono ottimi non solo crudi, ma sono adatti anche alla cottura, poiché mantengono la loro compattezza.

cetrioli

La produzione di cetrioli ha una lunga tradizione in Ticino, dove vengono coltivati nel rispetto dell’ambiente sia sul Piano di Magadino che nel Mendrisiotto. I cetrioli nostrani sono di media grandezza, possiedono una buccia spinosa e hanno pochi semini. Sono disponibili da maggio a settembre e sono coltivati principalmente sotto serra. cetrioli nostrani al prezzo del giorno

mele Gala al prezzo del giorno (in vendita dalla prossima settimana)

insalata Güstósa

La scelta di insalate regionali già pronte include una decina di varietà, tra cui l’insalata Güstósa (Saporita). È composta da rucola e cicorino rosso coltivati sui nostri campi che, una volta raccolti, vengono accuratamente mondati e lavati dall’azienda Quarta Gamma di Riazzino. L’insalata necessita solo di essere condita secondo la propria fantasia per un piatto davvero gustoso!

Tofu biologico

Prodotto a Cugnasco dall’azienda Tigusto a partire da soia biologica coltivata in Ticino, il tofu nostrano si contraddistingue per la sua delicatezza e versatilità. Povero di calorie, senza colesterolo e neutro di gusto, è ideale per la preparazione di molti piatti vegani sia caldi che freddi. Aggiunto all’insalata, marinato, rosolato, usato in sughi e zuppe… non c’è limite alla fantasia.

insalata Güstósa 200 g, fr. 3.25

Gelato artigianál

Semplici ingredienti naturali lavorati artigianalmente in modo raffinato: i gelati della gelateria Mastro Lucibello di Contone sono davvero inimitabili. Disponibili in otto gusti diversi, sono assolutamente privi di conservanti, aromi artificiali, come pure concentrati di frutta industriali e semilavorati. La mantecatura in piccole quantità permette di ottenere una perfetta consistenza. Gelato artigianale diversi gusti, 330 g fr. 7.70

Dissetarsi al naturale

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Biscotti genuini

Raffinate ricette e amore per il minimo dettaglio fanno nascere queste quattro croccanti bontà di fine biscotteria firmate da Paul Forni: le storiche pastefrolle della Valle Bedretto; le delicate frolle al limone; i biscotti con pregiata farina bona della Valle Onsernone e i crèfli, una specialità arricchita con panna e miele del nostro territorio. crèfli 150 g fr. 5.90 Biscotti alla farina bona 100 g fr. 3.90 frolle al limone 100 g fr. 3.90 Pastefrolle della Valle Bedretto 100 g fr. 3.90

Queste due benefiche bevande biologiche alle erbe officinali hanno un sapore naturale e contengono poco zucchero. La rinfrescante tisana alle erbe contiene estratti di melissa, verbena odorosa, salvia, menta citrata e menta piperita. La tisana con estratti di malva si caratterizza per l’aroma delicato e le proprietà emollienti. Sono entrambe prodotte a Chiasso dall’azienda Sicas. Tisana nostrana 5 dl fr. 2.10 Tisana nostrana alla malva 5 dl fr. 2.10

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idee e acquisti per la settimana

Territorialità e tracciabilità garantite attualità Tutti i prodotti Nostrani del Ticino sono certificati con il marchio

«Ticino regio.garantie», di cui è garante alpinavera. Intervista a Jasmine Said Bucher, direttrice e fondatrice dell’organizzazione signora said Bucher, cos’è l’alpinavera?

alpinavera è una delle quattro organizzazioni sovraregionali che ricevono un sostegno a lungo termine dal governo federale per promuovere i prodotti regionali certificati. A tal fine, alpinavera collabora con marchi regionali come Ticino e Nostrani del Ticino. alpinavera è una piattaforma di marketing e comunicazione per prodotti regionali certificati dei Grigioni, Uri, Glarona e Ticino. L’obiettivo è quello di creare mercati e canali di vendita per i partner dell’industria agricola e alimentare e di risvegliare o aumentare la preferenza dei consumatori per i prodotti regionali. cosa fa alpinavera?

alpinavera è attiva in vari ambiti distinti: comunicazione e marketing, informazione ed educazione e promozione della sostenibilità. alpinavera organizza manifestazioni come mercati, fiere ed eventi per i suoi partner. Qui, i visitatori e gli acquirenti possono immergersi nel mondo dei prodotti artigianali e i produttori usano questi eventi per presentare le loro specialità. alpinavera collabora anche con il commercio al dettaglio per attirare proattivamente l’attenzione dei clienti sui vantaggi dell’artigianato alimentare regionale, ad esempio con Migros nel programma Nostrani del Ticino. Con il motto «Regionale è la prima scelta», viene presentata sui social media la produzione artigianale di prodotti regionali certificati, che vengono spesso realizzati da piccole imprese. Ritratti aziendali, gustose ricette e contributi di conoscenza entusiasman-

Jasmine Said Bucher, direttrice e fondatrice di alpinavera.

ti rendono la varietà e la versatilità dei prodotti regionali un’esperienza multimediale. alpinavera offre una formazione al gusto che fa appello a tutti i sensi e dimostra che la degustazione attenta è molto facile da apprendere. Oltre alla formazione del gusto, alpinavera offre diversi eventi informativi e di perfezionamento, ad esempio sul tema della sostenibilità e dell’alimentazione rispettosa del clima. Infine, una consapevolezza che sta diventando di tendenza: sempre più gli acquirenti di generi alimentari si chiedono quanto siano effettivamente sostenibili i loro acquisti. Il maggiore impatto positivo può essere ottenuto quando l’agricoltura e i consumatori

lavorano insieme. Cioè, quando l’agricoltura si impegna a ridurre l’impatto ambientale e i consumatori richiedono questi prodotti dalla produzione locale. Possiamo davvero presumere che un prodotto regionale sia più rispettoso del clima rispetto, per esempio, a un frutto esotico? «beelong» ha sviluppato una scala di compatibilità ambientale, un eco-score, per rispondere a questa domanda. La compatibilità climatica di un prodotto è calcolata secondo i cinque criteri oggettivi di origine, stagionalità, metodo di produzione, influenza del prodotto sul clima e sulle risorse e lavorazione del prodotto. Il rispetto dell’ambiente è valutato su una scala da A-E. alpinavera lavora a stretto contatto con «beelong» e attual-

mente si stanno valutando i prodotti regionali certificati. A partire dall’autunno 2021, inizierà la campagna di sensibilizzazione per i produttori e i consumatori. Quali prodotti possono essere etichettati con il marchio «regio. garantie»?

I partner di alpinavera sono imprese del settore agricolo e alimentare dei quattro cantoni menzionati. Diversi artigiani sono anche partner di alpinavera. Affinché i loro prodotti possano portare il marchio di qualità nazionale «regio.garantie», tutti devono rispettare le severe direttive per i marchi regionali. Le condizioni più importanti per rilasciare la certificazione richiedono che

i prodotti contengano almeno l’80% d’ingredienti regionali. Questo include anche i «prodotti del patrimonio culinario» che, se gli ingredienti necessari non sono disponibili a livello regionale, devono consistere per almeno l’80% di ingredienti svizzeri. Inoltre, i 2/3 del valore aggiunto devono essere generati nella regione corrispondente. I prodotti sono ispezionati e certificati ogni due anni dall’organismo indipendente d’ispezione e certificazione «bio. inspecta». In caso di sospetti o ambiguità, possono essere ordinate ispezioni senza preavviso. Con queste rigide misure si garantisce agli acquirenti di prodotti regionali certificati che si tratta di prodotti genuini della rispettiva regione affiliata ad alpinavera e che l’acquisto delle specialità promuove la produzione locale. Circa 2.200 prodotti dei partner di alpinavera hanno attualmente diritto al marchio di qualità nazionale «regio.garantie» o sono in fase di certificazione. Qual è il suo prodotto ticinese preferito?

Prima di tutto, devo ammettere che «mangiar bene» è una delle mie attività preferite. La questione di avere un prodotto preferito è effettivamente difficile per me. Mi piacciono molto i formaggi freschi, morbidi e dell’alpe ticinesi. Mi piacciono anche i prodotti peculiari a base di cereali come il riso, la polenta nera e la farina bona. Per la colazione, amo il miele di castagno e robinia. Quindi qui ho decisamente l’imbarazzo della scelta. Ecco perché quando ritorno a casa nei Grigioni dopo una trasferta in Ticino, la mia borsa della spesa è sempre stracolma di buoni prodotti.

lo chef consiglia…

il grande concorso nostrani del Ticino

Guarda la prima su tta videorice ino.ch/

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eltic Nostranidtualita at

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In occasione delle settimane dei Nostrani del Ticino, abbiamo indetto un grande concorso con favolosi e allettanti premi in palio. Il primo premio è costituito nientemeno che da uno Scooter elettrico NIU N-GT

del valore di CHF 5.400.–. Il secondo classificato si porta a casa una bici MTB elettrica Ghost HTX del valore di CHF 2.799.–; mentre come terzo premio vi è in palio una carta regalo Migros del valore di CHF 500.–.

I tagliandi di partecipazione sono ottenibili dopo l’acquisto presso tutte le casse di Migros Ticino a partire dal 31.08.2021. Il termine di partecipazione è il 13.09.2021. Buona Fortuna!

I piaceri della tavola a km zero sono celebrati anche dal noto chef Lorenzo Albrici della Locanda Orico di Bellinzona (nella foto), il quale ha creato altre due appetitose ricette esclusivamente a base di prodotti della linea Nostrani del Ticino: un piatto principale composto da Lonza di maiale nostrano glassato all’agrodolce con cialde di polenta rossa e caviale di melanzane e un dessert di Spuma di yogurt al naturale con biscotti alla farina bona, compo-

sta di frutti rossi e gazosa al limone. Al link indicato nel bollino giallo potete assistere alla preparazione filmata e commentata delle ricette. Vi auguriamo buon divertimento in cucina!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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società e Territorio

la collina d’oro in cartolina

Pubblicazioni Viaggio per immagini attraverso il territorio e l’architettura della bella regione alle porte di Lugano

Elena Robert Ogni cartolina ha tante storie da raccontare, a prescindere dalla sua funzione di mezzo di comunicazione e ricordo di viaggio. Nelle mani di un collezionista poi, anche la più comune finisce per arricchirsi di ulteriori significati. E da cosa nasce cosa. È accaduto per la meta turistica della Collina d’Oro, verde, residenziale e ricca di storia alla periferia di Lugano. La passione di Ivo Gentilini si focalizza da sempre su questa sua terra d’origine, di cui raccoglie materiale filatelico sulla storia postale del Comune e cartoline in bianco e nero fino agli anni Sessanta. Parte di quest’ultima collezione (che riunisce ad oggi 350 cartoline) fu esposta nel 2013 a Montagnola. In considerazione dell’interesse storico, documentaristico, emozionale della raccolta, fu un successo dal quale scaturì, per merito della Fondazione culturale della Collina d’Oro, un nuovo, mirato e più ampio progetto portato a termine quest’anno, con l’intento di andare oltre il ricordo nostalgico per fornire un contributo alla conoscenza del territorio, profondamente trasformato a partire dagli anni Quaranta del Novecento, e della sua architettura. Il viaggio per immagini nella Collina d’Oro di un tempo è così confluito in una pubblicazione della Fontana Edizioni in formato album che si ferma volutamente negli anni Ottanta. Comprende due saggi di Riccardo Bergossi, storico dell’architettura e ricercatore all’Archivio del Moderno USI e contributi di Alessandro

Montagnola, negozio di commestibili Bazzari, Cartoleria Moderna Lugano. (Collezione Ivo Gentilini)

Soldini e Americo Bottani, presidente e vicepresidente della Fondazione sciolta nel 2014. Il nucleo delle cartoline di Gentilini, integrato da materiale iconografico di altri abitanti del Comune, illustra con oltre 300 immagini un percorso ideale alla scoperta delle bellezze e particolarità della regione. Si parte dal laghetto di Muzzano per dirigersi verso il paese di Gentilino, oggi spaccato in due dalla strada cantonale costruita negli anni Quaranta, che accoglie in Cà di Sotto l’antica Casa Gamboni Somazzi Bottani con la facciata decorata a graffito, primo

edificio della Collina messo sotto tutela da Francesco Chiesa in base alla Legge sulla conservazione dei monumenti storici e artistici del 1909. Si raggiunge poi la zona di quello che fu il castagneto e il re dei castagni, abbattuto a metà del secolo scorso, di cui oggi rimane solo il toponimo Bora da Besa. Si sale attraverso i grotti allo splendido complesso monumentale di Sant’Abbondio, bene di importanza federale e si sosta nel nucleo di Certenago per vedere la Villa Berra De Nobili oggi sede dell’American School. La tappa successiva è Arasio affacciato sul Golfo di Agno, culla dei

diversi rami della famiglia Lucchini, dove nacque Pasquale Lucchini, quindi si risale a Montagnola, dove non si può non notare l’eclettica Casa Camuzzi e la contigua Torre Camuzzi sede del museo dedicato a Hermann Hesse, che visse gli ultimi 43 anni della sua vita proprio sul suo territorio. Montagnola e Bigogno furono luoghi di origine delle famiglie di architetti, artisti e capimastri emigrati in Russia, tra i quali i Camuzzi, i Gilardi, gli Adamini, i Bottani. La migrazione artistica verso tutta Europa, in particolare in Piemonte e a Torino, accomunò in passato molte altre famiglie della Collina d’Oro. Ad Agra in paese ci si imbatte oggi nel grande cantiere per il recupero e la riqualifica dello storico Palazzo Poncini e, appena fuori, nel complesso dell’ex Sanatorio per la cura delle malattie polmonari, aperto dal 1913 al 1969, che ospitò numerose personalità e intellettuali provenienti dall’area tedesca, in seguito abbandonato fino al 2004 e nel frattempo trasformato in albergo e residence. Torniamo in territorio di Montagnola e da Cadepiano scendiamo verso il lago e Carabietta, dal 2012 anch’esso parte del Comune Collina d’Oro. D’obbligo infine una sosta a Viglio, sul versante nord-ovest della collina, che ospita il complesso degli antichi edifici dei Triaca, oggi sede del centro terapeutico Villa Argentina. Oltre agli scorci sul paesaggio, i roccoli, gli oratori, le corti, le cartoline ci regalano istantanee imperdibili lungo il percorso: dall’incedere tranquillo, in Cà di Sotto, del fat-

tore Carlo Bettosini col carro trainato dal bue, al gruppo di adulti e bambini in posa sul tronco riverso a terra della storica pianta a Gentilino, alla prima corsa autopostale Lugano-Agra del 1916, a momenti comunitari in piazza a Montagnola davanti al negozio di commestibili Bazzari, alle donne che lavano i panni nella fontana di Agra, alla famiglia che si fa immortalare davanti alla corte dei Giorgetti a Carabietta. La collezione di Ivo Gentilini, essendo molto più ampia della scelta di immagini pubblicata, riserva naturalmente altre sorprese sulla regione e su chi ci visse e soggiornò, come la cartolina con la chiesa di Sant’Abbondio spedita da don Aquilino Mattei a sua mamma a Osogna l’11.10.1945, nell’anno della sua nomina a parroco, o la cartolina personalizzata, spedita da Hermann Hesse in Germania, con il disegno della sua casa rossa a Montagnola tratteggiato dal pittore e illustratore Gunter Böhmer, due personalità notoriamente unite da reciproca stima e amicizia. Il sogno di Ivo Gentilini è di mettere a disposizione del pubblico la raccolta e il suo lavoro di ricerca creando un’applicazione interattiva che permetta sul territorio di scoprire luoghi e persone d’un tempo della Collina d’Oro. Bibliografia

Collina d’Oro un viaggio nel tempo, contributi di Riccardo Bergossi, Alessandro Soldini e Americo Bottani, Fontana Edizioni, 2021 Annuncio pubblicitario

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società e Territorio

il sogno di un archivio al femminile

incontri Renata Raggi-Scala è stata la co-fondatrice e per vent’anni la presidente dell’Associazione Archivi Riuniti

Donne Ticino, oggi si rende conto di essere a sua volta memoria vivente della storia delle donne ticinesi

cooperative d’abitazione esistenti in Ticino. L’edificio, composto da piccoli appartamenti, è situato nel quartiere Loreto a Lugano. Fu un’iniziativa pionieristica promossa da un gruppo di rappresentanti di associazioni femminili fra le quali figuravano Emma Degoli e mia madre, attive a quel tempo anche per il suffragio femminile. A questa storia AARDT ha dedicato una seconda edizione nel 2019.

Stefania Hubmann È una storia che parte da lontano, sul piano personale, ma non solo. Generazioni di donne colte e impegnate legate a una dimora familiare hanno segnato il percorso di Renata Raggi-Scala, cofondatrice e per vent’anni presidente dell’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT). Con impegno, entusiasmo e una grande curiosità intellettuale ha costruito nel tempo, unitamente a un iniziale gruppo di amiche, quello che oggi è a tutti gli effetti un centro di competenze sulla storia delle donne nel nostro cantone. Volumi e fondi archivistici (circa 7000 titoli i primi, oltre 100 i secondi) sono stati preservati, catalogati, in parte studiati e divulgati, restando sempre a disposizione nella sede di Massagno per il pubblico e ulteriori ricerche. Grazie a AARDT sono però in primo luogo riemerse figure e storie rimaste a lungo nell’ombra, poiché l’operato del genere femminile fino a un paio di decenni fa era totalmente trascurato. Figure e storie oggi note e valorizzate. A Renata Raggi-Scala, divenuta presidente onoraria dell’associazione, abbiamo chiesto di ripercorrere soddisfazioni e sfide di questo cammino. signora raggi-scala, con quali sentimenti ha lasciato a giugno la carica di presidente di aarDT, ora ricoperta da Yvonne Pesenti?

Già da qualche anno pensavo di passare il testimone, per cui ho lasciato con serenità, consapevole della necessità di un cambiamento che garantirà all’associazione continuità e al tempo stesso nuovi impulsi. Mi rendo conto di essere divenuta a mia volta memoria vivente della storia delle donne ticinesi, così come lo erano diverse protagoniste che avevo conosciuto e incontrato nei decenni precedenti l’inizio di questa attività. Va precisato che, prima di fondare AARDT con l’essenziale contributo di Franca Cleis, ero già attiva in varie associazioni femminili. Sono stata membra e presidente (dal 1998 al 2004) della Federazione Associazioni Femminili Ticino (FAFT) e da lì in contatto con la relativa realtà nazionale, dalla

oggi che è una realtà affermata, grazie all’incondizionato impegno profuso da tante donne, aarDT ha la via tracciata e assicurata?

Renata RaggiScala nella sede AARDT di Massagno. (Stefano Spinelli)

Fondazione Gosteli (Marthe Gosteli è stata la fondatrice degli Archivi della storia del movimento femminista svizzero) ad alliance F, voce politica delle donne in Svizzera. Per un decennio ho inoltre collaborato con DialogareIncontri che dall’inizio degli anni Novanta ha stimolato le donne ticinesi con corsi di formazione continua a vari livelli. Le esperienze e le conoscenze maturate in tutto questo tempo mi permetteranno di concentrarmi d’ora in poi sul nuovo ruolo quale referente e appunto memoria storica. Per il resto è ancora tutto troppo recente per pensare ad altre attività, sebbene in primo luogo desideri riordinare il mio archivio e in futuro dedicare più tempo ai viaggi.

in questi vent’anni di pionieristico impegno a favore delle tracce lasciate dalle donne nel cantone Ticino – Tracce di donne è un progetto biografico di aarDT – ci sono state sicuramente non poche difficoltà, ma anche grandi soddisfazioni. Di queste ultime quali le piace ricordare?

Partirei dall’ultima, perché è un progetto al quale tengo molto e che ancora necessita di essere incentivato. Grazie soprattutto alla Città di Mendrisio, lo stradario femminile lanciato nel 2005 sta diventando realtà. Anche

Bellinzona e Locarno si sono attivate per intitolare vie e piazze a concittadine che hanno fornito in vari settori il loro apporto alla crescita del cantone. Solo Lugano, polo principale ricco di figure essenziali, sembra essere poco motivata ad accogliere la nostra azione di sensibilizzazione. Mendrisio con il suo progetto valorizza e fa conoscere sette protagoniste di cui si possono leggere sul posto (tramite il quadrato QR) le rispettive biografie realizzate da AARDT. Le iniziative che mi sono rimaste nel cuore sono numerose, anche perché sovente da una prima scoperta è nato il progetto successivo. Come nel caso di Georgette Tentori-Klein, artista vissuta a Barbengo dove si trova tuttora la sua avanguardistica dimora: Casa Sciaredo. Da un incontro organizzato in loco nell’ambito della nostra attività culturale sono nati la collaborazione con la Fondazione Sciaredo, il deposito delle «carte» di Georgette presso AARDT e la pubblicazione di un volume. Molti dei nostri lasciti e depositi hanno avuto inizio con la scoperta di piccoli indizi, alcuni dei quali si sono rivelati veri e propri vasi di Pandora. Testimonianze preziose sono poi le video-interviste che abbiamo realizzato sull’arco di più anni. Questi filmati permettono di salvaguardare la storia

delle loro protagoniste e di disporre al contempo di materiale divulgativo. Cercare, conservare e valorizzare sono d’altronde i tre ambiti di attività sui quali si concentra da sempre AARDT.

all’inizio di quello che lei ha definito durante l’ultima assemblea «un sogno nel cassetto» un ruolo cruciale l’ha svolto anche sua madre, margherita scala-maderni, legata inoltre ad uno dei vostri progetti: «la residenza emmy. storia di un’impresa femminile».

Mia madre, scomparsa da meno di un anno ultracentenaria, ha offerto all’associazione un tetto senza il quale non avremmo potuto esistere. Nella Casa Maderni di Melano, costruita dal mio bisnonno Michele e dove hanno vissuto per lunghi anni tre zie di mia mamma, AARDT è rimasta fino al 2017. Una dimora storica con un grande parco, una casa «di donne», perfetta per accogliere l’associazione, depositare i primi fondi e ospitare la biblioteca. Il trasferimento a Massagno ha però avuto il pregio di garantire una posizione centrale facilmente accessibile. Ciò favorisce l’attività divulgativa, per noi molto importante. La Residenza Emmy, nata nel 1959 come Cooperativa Casa per persone anziane, è ancora oggi una delle poche

Tracciata sicuramente sì. Le nostre competenze nella storia di genere ci sono riconosciute e restiamo uno dei pochi centri del settore in tutto il Paese. Abbiamo d’altronde realizzato molto: raccolto fondi, effettuato ricerche, pubblicato volumi, organizzato incontri culturali e attività nelle scuole e da ultimo istituito, in occasione dei venti anni di fondazione, il Premio cantonale per lavori di maturità (LAM) riservato a tematiche di genere e/o legate alle pari opportunità. Ciò che è mancato è un pieno riconoscimento da parte delle autorità. Riceviamo un contributo limitato e le nostre attività sono finanziate in gran parte da enti e fondazioni private, senza dimenticare il ruolo del volontariato. Il sostegno istituzionale è importante sia dal punto di vista finanziario, sia come segnale verso la società con particolare riferimento alle nuove generazioni.

a questo proposito, come valuta la situazione attuale e la futura evoluzione della posizione della donna nella nostra società?

È indubbio che a tutti i livelli sono indispensabili pari opportunità e una presenza mista di donne e uomini nei vari gremi per assicurare parità di vedute. Organi decisionali composti da soli uomini sono privi del modo di ragionare, organizzare e agire di una parte della società. Sono pertanto favorevole ad un’apertura anche nel senso opposto, ossia che un’associazione come AARDT possa in futuro accogliere nel proprio comitato uomini solidali alla causa, proprio per arricchire il confronto completando i punti di vista.

Un tributo alle pioniere delle pari opportunità

mostre Il cortile del Museo Casorella di Locarno ospita Hommage-Omaggio-Omagi 2021, l’esposizione racconta

le storie e le lotte di 52 donne svizzere in occasione del 50esimo anniversario del suffragio femminile Barbara Manzoni Sono state giornaliste, giuriste, sportive, politiche, insegnanti, direttrici di scuole, artiste, musiciste, infermiere, medici, volontarie… Sono state e sono soprattutto un esempio per le donne venute dopo di loro, che hanno potuto godere di libertà e di diritti per i quali queste pioniere delle pari opportunità hanno lottato. I loro ritratti sono esposti in questi giorni e fino al 1 novembre nel cortile del Museo Casorella di Locarno. La mostra intitolata HommageOmaggio-Omagi 2021 è uno degli eventi che accompagna i festeggiamenti per il 50esimo anniversario del diritto di voto e di elezione delle donne. Sono 52

azione

settimanale edito da migros Ticino fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

i ritratti proposti, due per ogni cantone: il visitatore è invitato a scansionare il QR code impresso sotto ogni ritratto e ascoltare la loro storia che si intreccia con la storia del nostro paese e della nostra società. Le rivendicazioni femminili, come sottolinea bene l’esposizione, non sono infatti servite unicamente a ottenere il diritto di voto nel 1971 ma anche per affermare il successo o semplicemente la presenza delle donne nei più svariati campi, dall’economia al sociale, dall’arte alla politica, ma anche nella chiesa e nella formazione. Una presenza molto spesso ostacolata da mille pregiudizi e per nulla scontata. Il progetto, spiegano i curatori, è stato ideato grazie alla collaborazione di

storiche, figure femminili della cultura e sociologhe di tutti i cantoni, che hanno inizialmente selezionato 5-8 donne dei propri cantoni e hanno scritto i testi biografici (disponibili sul sito web dell’iniziativa). In seguito, delle classi scolastiche in tutta la Svizzera hanno a loro volta individuato due figure femminili all’interno della scelta delle esperte e dato così vita all’esposizione attuale. Per la tappa ticinese della mostra itinerante (prima ospitata a Berna) il Dicastero cultura della Città di Locarno ha chiesto la collaborazione dell’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino per ampliare la mostra con alcuni ritratti di donne che hanno svolto

ruoli di rilievo in Ticino e in particolare nel Locarnese. Sono Olga Fröbe-Kapteyn, Polia Rusca, Elda Marazzi, Gabriella Antognini, Jo Bressani e Pia Pedrazzini. Una mostra da non perdere per conoscere il nostro passato (molto recente) e capire quanto questo ancora pesi sul nostro presente, inteso come quello di tutti, non solo delle donne.

sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’262 copie

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Dove e quando

Museo Casorella, via B. Rusca, Locarno, ma-do 10.00-12.00/14.00-17.00, lu chiuso, fino al 1 novembre. L’entrata al cortile è gratuita. www.omaggio2021.ch

inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Volti e storie da scoprire. (Museo Casorella Locarno) abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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società e Territorio Rubriche

approdi e derive di Lina Bertola Pensieri sull’educazione «Il mio pensiero non ha cambiato lo spirito del tempo. Nei programmi scolastici non c’è traccia delle mie idee sull’educazione. I pensieri si diffondono come polvere tra le persone che li apprezzano. Quello che desidererei, ma che per ora non è accaduto, è che si arrivasse a comprendere come penso per produrre quei pensieri». Sono parole di Edgar Morin, pronunciate recentemente in un dialogo con il filosofo Régis Debray, in occasione dei festeggiamenti per i suoi cent’anni. Con eleganza, ma anche con un velo di rammarico, il filosofo, autore di molti libri tradotti in tante lingue, riconosce che la sua idea di educazione non è riuscita a far breccia nello spirito del tempo. Il destino dell’opera di Morin è sintomo di quell’incolmabile distanza che spesso si produce tra lo spirito del mondo, con le sue visioni dentro cui vuole esistere e riprodursi, e visioni-altre che alimentano invece il desiderio di andare oltre: visioni che guidano la nostra immagi-

nazione verso un orizzonte più luminoso e che, nel caso di Morin, ci offrono il significato più vero del conoscere e dell’educarsi. Il suo sguardo educativo è sempre stato estraneo a un mondo fatto di cose da conoscere, da fare, da avere e da consumare. Il suo sguardo accoglie tutta la complessità della vita, non si ferma sugli oggetti della conoscenza ma è attento ai soggetti, alle persone, alle relazioni, ai legami tra loro, con la natura e con le cose che la abitano. Su questo sfondo, che illumina gli intrecci dell’esistenza, bisognerebbe imparare a vivere e a pensare, conoscere ed agire, in prima persona e come collettività. Un suo saggio del 2014 si presenta proprio come un manifesto per cambiare l’educazione e porta il titolo Insegnare a vivere. Ma che cosa significa imparare a vivere? Innanzitutto imparare a comprendere l’incertezza di ogni avventura umana e imparare ad affrontarla, imparando ad attendere l’inatteso.

Perché questo inatteso abita sempre la realtà della vita, al di là di ogni illusorio desiderio di poter prevedere e controllare tutto. Imparare a vivere significa imparare ad accogliere ogni apertura sul possibile, a comprendersi e a comprendere la realtà e noi stessi in una prospettiva ecologica, olistica, attenta alla complessità del nostro stare al mondo. Si tratta di un forte messaggio etico circa il compito di prestare attenzione alla buona vita, di prendersene cura. Comprendere, insomma, per vivere bene. Questo sguardo ritorna ancora in uno dei suoi saggi più recenti, dedicato all’esperienza estetica. Qui Morin parla della poesia della vita come fioritura, comunione, pienezza. L’esperienza estetica, la percezione della bellezza è un’emozione che alimenta la conoscenza. Siamo migliori nell’esperienza estetica, scrive, perché il meglio di noi stessi si esprime nell’ammirazione e nella meraviglia che ci apre alla vera comprensione,

che è espressione preziosa dell’umano, sovente assopita o congelata. In questi pensieri è contenuto tutto il valore della cultura umanistica intesa come comprensione riflessiva, come capacità di riflettere sulle nostre conoscenze, quando leggo una poesia e mi emoziono, certo, ma anche quando mi avvicino ad una formula matematica e riesco a capirla. Questa cultura umanistica ci invita ad andare oltre le gabbie riduttive di una razionalità calcolatrice, capace di offrire conoscenze solo quantitative, misurabili e spendibili. Ci invita ad andare oltre per incontrare la bellezza dell’esperienza della conoscenza, la sua gratuità come nutrimento di vite sbocciate, il suo essere pura finalità, comprensione vera che nutre i legami. Benché, come lamenta Morin, non sembra che questi pensieri vengano accolti nei programmi scolastici, ho voluto riprenderli per dedicarli, nel giorno di riapertura delle nostre scuole, a tutti

i Maestri che rendono la scuola viva, giorno dopo giorno. Lo sappiamo bene, oggi l’istituzione scolastica appare sempre più preoccupata di rispondere alle esigenze della società (e del mercato). Sia chiaro, il compito di inserire i giovani nel tessuto sociale ed economico ha ovviamente le sue ottime ragioni. Ma rendere questo compito priorità assoluta significa lasciare sullo sfondo, direi quasi ferire l’anima più vera dell’educazione, quella che custodisce da sempre un progetto di umanità. Educazione è progettualità vissuta, impegno a coltivare il «viaggio verso sé stessi». Questa sua anima può allora esprimersi anche come luogo di resistenza nei confronti delle spinte antieducative che attraversano la società. Dentro un’istituzione sempre più preoccupata delle griglie orarie e dell’uso didattico delle tecnologie, ancora e sempre il compito di insegnare a vivere bene è affidato alla presenza fondamentale e irrinunciabile dei Maestri.

forma di salsiccia della Typha latifolia è ritagliata alla perfezione, mimetizzandosi a un primo sguardo frettoloso. Non per niente l’arte del ricamo, qui, è di casa da secoli: penso al pizzo di San Gallo. Di pregio, alzando lo sguardo sul frontone, disegnate sempre attraverso il ritaglio, altre forme emergono, simmetriche, tra il legno bianco e il buio: aironi in posa tra i canneti, ranocchie nuotanti. Scettico sulla qualità dell’acqua, viziato dai pozzoni trasparenti in Lavizzara, non ero motivatissimo a entrare, ma dopo poche bracciate a rana, la situazione si ribalta e sfocia quasi – forse anche grazie al preludio-torta alla cannella – in un’appartenenza al luogo. Incontro vecchiette commoventi che nuotano piano e serene, gli orti condivisi, sulla riva opposta, riescono ancora una volta, d’un tratto, a trovarmi d’accordo su questa attività benefica per lo spirito e il paesaggio. Un’altra collina, metà bosco metà prato, con alcune fattorie, si staglia laggiù sopra la città. Nuoto fino al guardaroba a traliccio e noto come altre volte, però poi si dimentica a fu-

ria di stanzialità, che nuotando, come correndo o camminando sul serio, si vive in pieno il paesaggio; vale a dire si gusta, di nuovo, davvero, il mondo. Doccia fredda veloce dopo la nuotata pluviale e via, ancora sotto il tiglio secolare che domina lo stagno. È l’ora della niçoise: l’insalata nizzarda (uova sode, fagiolini, pomodorini, tonno, basilico, olive taggiasche) che estraggo dal mio zaino. «Piccobello!» esclama uno alla moglie che gli porge la birretta fresca. Ovvio, naturale, spontaneo, quasi necessario ed essenziale, il bis torta alla cannella al chioschetto-baita adesso preso d’assalto non solo per le torte, ma anche per le patatine fritte e dolciumi vari che mi ricordano le scuole medie. La ricetta della torta alla cannella, bella umida e profumata, con un’idea di marmellata ai lamponi sul fondo, è antica quanto gli stagni e proviene dal Toggenburgo. Ritorno all’ombra magistrale del tiglio, riassaporando, senza sensi di colpa né pentimento alcuno, la torta alla cannella numero due. Con in più, quel sapore malinconico, addolcitosi con l’andar degli anni, di quasi fine estate.

Street Journal», due reporter indiani che nel 2018 indagavano sull’utilizzo di Facebook, due giornalisti ungheresi del sito investigativo Direkt36, Ben Hubbard responsabile dell’ufficio del «New York Times» a Beirut e Cecilio Pineda Birto, ucciso in un autolavaggio. Come ha scritto Lukas Mäder sulla «Neue Zürcher Zeitung» qualche settimana fa, il fatto che stati autoritari utilizzino strumenti di spionaggio così potenti per spiare giornalisti e dissidenti è un problema e l’Occidente ha tutto l’interesse di fermare questa pratica. Il tempo per agire e prendere misure però stringe. Sempre la NZZ ha rivelato che il software di sorveglianza israeliano sarebbe in uso anche nel nostro paese. Dal 2017 ad oggi sarebbe infatti stato utilizzato più volte dalla Fedpol contro criminali e terroristi. Da parte sua la società israeliana Nso

invece sostiene che una volta venduto il software a governi attentamente selezionati, non ne ha più il controllo operativo, né ha accesso ai dati delle persone spiate. Ai giornalisti del Pegasus Project – in tutto sono ottanta attivi in tutto il mondo - ha detto che i 50’000 numeri di telefono sarebbero un’esagerazione e che il fine non era quello della sorveglianza ma della raccolta dati per scopi commerciali. Per tornare alla lettera di Sally Suzbee, la direttrice del «Washington Post» cita le parole di un esperto di cybersorveglianza coinvolto nel progetto del consorzio investigativo: «l’umanità non è un posto dove possiamo permetterci di avere così tanto potere accessibile a chiunque». E conclude «Il Post è orgoglioso di prendere parte ad un’investigazione che porta alla luce questo tipo di informazione».

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf i tre stagni di san Gallo Il primo che appare, tra gli alberi, se arrivate pigramente con il bus specifico per fare il bagno (Bäderbus) che parte, in estate, dalla stazione, ogni mezz’ora, è il Chrüzweier (776 m). Lo stagno della Croce, noto anche meglio come Frauenweier, lo stagno delle Donne dove colpisce, in un angolo, la straordinaria struttura balneare heimatstil, tutta in legno, risalente al 1897. Costruita secondo i piani dell’architetto Albert Pfeiffer (1851-1908) con un pennacchio-campanile che spunta dal tetto spiovente, è ancora riservata alle donne. Tranne in inverno, dove da qualche anno, c’è una sauna accessibile anche agli uomini. Cammino nel bosco ed ecco che a un certo punto fanno capolino gli altri due stagni artificiali, creati qui in collina nel seicento per i pompieri e i candeggiatori del lino. Nel Buebenweier (775 m), lo stagno dei Bambini, non nuota nessuno, l’acqua sembra molto stagnante, tante ninfee. Un ripostiglio similchiesetta finlandese, verniciato di bianco, su una piattaforma, si affaccia placido sullo stagno e s’impone alla vista come

un quadretto mistico amatoriale. Lì, un vecchietto, le gambe penzoloni sull’acqua, legge un libro. Mentre dalla parte che dà solo sull’acqua, uno tipo giocoliere ambulante, fa ginnastica. Sulla facciata in alto, c’è scritta, a pennello, in caratteri gotici, una poesia in rima baciata che inizia con Le nuvole ci danno la pioggia. Uno stemma dipinto accanto, mostra un gallo con una spada sopra un elmo. Pennellato a dovere, c’è anche l’anno dello stagno: 1677. Un’altra casetta balneare in legno, verniciata di un bel verdino pistacchio chiaro, con certe travi in azzurro, attira il mio sguardo. È la Milchhüsli: chioschetto storico rinomato per le sue torte, in particolarmodo per la torta alla cannella. Situata tra il Buebenweier – in realtà lo stagno di Nessuno, una via di fuga ideale per riposare lo sguardo irrequieto – e il Mannenweier (770 m) dove ci sono già diversi natanti tranquilli, non resisto a buttarci un occhio a questa Casetta del latte e le sue torte. Quella al rabarbaro e quella al ribes guardano fuori bene, italianizzando un’espressione dialettale ticinese abbastanza

esatta, ma cedo alla fama della torta alla cannella. E così, mi ritrovo, senza neanche ancora fatto qualche bracciata né camminato poi troppo, a divorare, sorseggiando un espresso seduto sull’erba sotto un maestoso tiglio, tra due dei tre stagni di San Gallo, una tarda mattina di un sabato verso fine agosto, la torta alla cannella. Quissotto, il guardaroba del 1906 che riprende i colori del chioschetto in stile case a traliccio, incorona lo stagno degli Uomini. Un bel pontile con un trampolino per i tuffi, si delinea più in là. La struttura balneare azzurrina stile chalet, sulla riva in mezzo allo stagno, con balconi intagliati e altre decorazioni lignee ottenute con l’arte del ritaglio, è la mia meta. Le vecchie cabine per cambiarsi sono così graziose che uno nei giorni di pioggia potrebbe quasi rifugiarsi qui a leggere. Alcune massime, sempre pennellate in caratteri gotici, non sono altrettanto memorabili. Il motivo dei balconi che non si indovina subitissimo, mi lascia invece a bocca aperta: è un giunco di palude alternato a un iris palustre. L’iconica spiga cilindrica a

la società connessa di Natascha Fioretti Testate internazionali unite contro Pegasus «Caro lettore, oggi il “Washington Post” si unisce agli altri media di informazione di tutto il mondo per raccontarti una storia importante. La sorveglianza digitale pervade la nostra società e le nuove tecnologie offrono sempre più potere per tracciare ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Il pericolo di abusi non è mai stato così grande. In molti paesi non ci sono regolamentazioni efficienti o standard che limitino le aziende private nella vendita di tecnologia di sorveglianza ai governi o ad altri. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di unirci al Progetto Pegaso». La lettera firmata da Sally Suzbee nuova direttrice del «Washington Post» è stata pubblicata il 18 luglio scorso e racconta come la testata insieme ad altre come il «Guardian», la «Süddeutsche Zeitung», «Le Monde» e «Die Zeit» abbia preso parte a un’inchiesta giornalisti-

ca internazionale volta a svelare una grande operazione di cyber spionaggio globale attraverso un software militare venduto dalla società israeliana Nso. Il software Nso è in grado di sorvegliare ogni tipo di informazione contenuta in uno smartphone, dai messaggi alle fotografie alle email fino ai contenuti delle telefonate. Persino le app criptate sono un libro aperto per questo software di spionaggio che traccia la posizione del cellulare in tempo reale. A dare il via all’inchiesta lanciata dal colletivo no profit francese Forbidden Stories in collaborazione con Amnesty International è stato un leak di 50mila numeri di telefono che sarebbero stati spiati attraverso il programma e distribuiti in 45 Paesi. Più di mille gli smartphone infettati e sorvegliati soltanto in Europa compreso quello della direttrice del «Financial Times»

Roula Khalaf. Secondo un articolo uscito sul «Guardian» ad utilizzare il programma sarebbero stati l’Ungheria, l’Azerbaigian, il Bahrain, il Kazakistan, il Messico, il Marocco, il Ruanda, l’Arabia Saudita, l’India e gli Emirati arabi. Nel mirino dell’operazione centinaia tra uomini d’affari, autorità religiose, accademici, operatori di Organizzazioni non governative, sindacalisti, funzionari governativi, ministri, presidenti e primi ministri. Ma anche molti giornalisti, quasi duecento, di testate come «Financial Times», Cnn, «New York Times», «France 24», «The Economist», «Al Jazeera», «Mediapart», «El Pais», «Bloomberg», le agenzie di stampa Associated Press, Agence France-Presse e Reuters. In particolare sarebbero stati spiati il giornalista americano Bradley Hope che all’epoca della sorveglianza lavorava per il «Wall



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ambiente e Benessere ritorno alla terra Una settimana di visioni neolitiche e di storie d’antichi nomadi sahariani

Vino nella storia Orazio, il vero, grande, convinto e autentico cantore del vino, il poeta di Bacco per eccellenza in lingua latina

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Uno scrittore per l’ambiente L’attivista islandese Andri Snær Magnason, il 4 settembre sarà ospite di Chiassoletteraria

motori per l’ambiente Honda promette di piantare un albero per ogni test drive e ogni auto elettrica venduta

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Pavimento pelvico, questo sconosciuto Prevenzione Una regione anatomica

che va curata e rinforzata – Seconda parte

Maria Grazia Buletti Dopo aver parlato dell’incontinenza urinaria e delle sue implicazioni con particolare accento all’universo maschile (v. «Azione» numero 31 del 2 agosto 2021) oggi ci concentriamo sul genere femminile. Qualsiasi donna potrebbe essere soggetta a perdita di urina e, in circa il 20 per cento dei casi, i disturbi compaiono addirittura prima dei 30 anni. «Nella donna, l’incontinenza è spesso dovuta a un indebolimento del pavimento pelvico, a un’ipermobilità dell’uretra o a una diminuzione del tono sfinterico dell’uretra». A riassumerne le possibili cause è l’infermiera e ostetrica Monica Bianchi della Clinica Sant’Anna di Sorengo che contestualizza la parte anatomica (ancora così poco nota) di cui stiamo parlando: «Il pavimento pelvico è quell’insieme di muscoli, fasce e legamenti che chiudono in basso lo spazio addominale e contengono i visceri al suo interno». Coincide con la zona più profonda dell’area perineale: quella fra l’ano e gli organi sessuali: «Il pavimento pelvico è coinvolto nell’attività di minzione e defecazione, può creare problemi di incontinenza e svolge una funzione attiva anche nelle attività sessuali e riproduttive. Funge inoltre da insostituibile sostegno agli organi interni». L’ostetrica porta l’attenzione sul fatto che gli organi della pelvi subiscono «modificazioni pressorie» importanti: «Il pavimento pelvico è dunque un supporto estremamente forte, con una grande tonicità e, grazie alla sua capacità contrattile, riesce a contrapporsi a quelle spinte pressorie che potrebbero comprometterne la statica e la funzionalità della piccola pelvi». In alcune situazioni particolari, il pavimento pelvico può rilassarsi e perdere il suo tono muscolare: «A quel punto, il problema maggiore è l’incon-

tinenza urinaria a cui possono essere associati stitichezza o prolasso d’organo». Non è difficile comprendere quando qualcosa non va: «L’incontinenza urinaria si manifesta nella quotidianità: sforzi, tosse e starnuti possono provocare piccole perdite fino a scatenare fastidi costanti e imbarazzanti al persistere del problema». Problema molto più diffuso di quanto si pensi, dicevamo, perché le disfunzioni del pavimento pelvico riguardano circa un quarto della popolazione adulta, in gran parte donne per le quali una delle possibili cause di disfunzione è proprio la gravidanza: «Parliamo di una di quelle strutture del corpo che viene maggiormente messa sotto stress dal parto, ma anche la prima struttura muscolare che dovremmo avere cura di rimettere in forma». Nella donna il corpo impiega nove mesi per trasformarsi, parallelamente esso avrà bisogno di un po’ di tempo anche per riprendersi dalle fatiche del parto: è noto che occorrono circa sei settimane affinché l’utero ritrovi il suo volume, i muscoli dell’addome si riavvicinino e i fianchi si rimodellino. In tutto questo processo, bisogna avere particolare cura del pavimento pelvico: «La sua rieducazione risolve parecchi di questi problemi: aumenta la consapevolezza e la percezione di questa regione anatomica sconosciuta ai più, rinforza e mantiene tonica la muscolatura perineale, migliora il controllo degli sfinteri e della continenza». Eppure, del pavimento pelvico, della sua importanza anatomica e funzionale, ancora se ne parla troppo poco: «In effetti pare essere un piccolo tabù perché viene associato alla sfera sessuale e come tale viene spesso taciuto». Si preferisce mantenere un certo riserbo che in fondo è ingiustificato, visto che anche a livello di prevenzione si potrebbe fare parecchio: «Il primo

L’infermiera e ostetrica Monica Bianchi. (Stefano Spinelli)

passo sta nel rendere consapevole la giovane donna della presenza di questo piano muscolare nel suo corpo: esso si contrae e lavora in modo autonomo e involontario, ma può essere attivato volontariamente e a scopo di esercizio soprattutto nei soggetti molto giovani». L’ostetrica pone pure l’accento sul pavimento pelvico iperallenato, altrettanto problematico: «La pratica di alcune attività sportive tende a rendere super allenato e ipertrofico il pavimento pelvico che in seguito potrebbe dare grossi problemi proprio perché, sottoposto a stress acuto, potrebbe non reagire tanto quanto un muscolo ipotonico». Conoscere dunque di cosa stiamo parlando, e saper gestire bene questa delicata zona anatomica, permette alla donna di prevenire e limitare eventuali problemi ad esso legati: «Non parliamo solo di incontinenza urinaria: ad esempio, la vulvodinia è un distur-

bo che causa molto dolore alla donna proprio a causa dell’ipertonicità del pavimento pelvico; bisognerà allora lavorare in modo adeguato per riuscire a rilassarlo». La rieducazione del pavimento pelvico è sempre consigliata a tutti per i numerosi benefici che si ottengono: «Vi sono però particolari momenti della vita o delle patologie che necessitano di un percorso di attivazione del pavimento pelvico nello specifico: prima e dopo il parto, in menopausa, in casi di prolasso uterino, vescicale o rettale, dopo un intervento chirurgico e in caso di dolore pelvico». La presa a carico di questo tipo di problemi legati al pavimento pelvico può coinvolgere diversi specialisti, secondo il problema stesso cui si è confrontati: «Nella cura dell’incontinenza e soprattutto nella fase di prevenzione possono entrare in campo il gineco-

logo (per le donne) e l’andrologo (per l’uomo). Ci può essere inoltre una condivisione di obiettivi laddove dalla diagnosi di incontinenza bisogna riuscire a risalire alla sua causa. Ad esempio, cisti recidivanti, che hanno compromesso la fisiologia della mucosa uretrale, potrebbero richiedere le competenze dell’urologo. Mentre se l’incontinenza fosse conseguenza di prolasso urogenitale (o esiti post parto), la competenza sarebbe piuttosto ginecologica». Poi entrano in campo esperti nella rieducazione del pavimento pelvico: «Si eseguono specifici esercizi di contrazione e rilassamento dei muscoli perineali al fine di facilitare la presa di coscienza e rinforzare il sistema di sostegno degli organi pelvici. I classici addominali non sono sempre gli esercizi più indicati per riattivare i muscoli dell’addome, specialmente dopo una gravidanza».


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ambiente e Benessere

Il deserto Erg d’Ajmer. (Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica)

l’alba del mondo

reportage Un viaggio tra sabbia, sassi e antiche iscrizioni nel Sahara algerino

Paolo Brovelli, testo e foto Bello è, quando l’inverno declina, migrare verso sud e scavallare in Africa, sia pur dirimpettaia, nella stagione in cui i cieli sono limpidi e il solleone è preso alla catena. E allora via, Milano, Roma, giù fino ad Algeri, a passeggiar nella grandeur dei viali ariosi ottocenteschi eredità di Francia, e a mescolarsi tra la gente su e giù per i vicoli e nelle piazzette bianche della vecchia casbah in odor d’Arabia. Nell’ora in bilico tra giorno e sera, ai tavolini dei caffè, sui marciapiedi, gli uomini si ristorano dietro il fumo d’una sigaretta e davanti a un tè forte come l’estate tropicale. E io con loro siedo, sentendomi parente nemmeno troppo lontano per la comune origine dal mare nostro. Le spalle al porto e ai pescherecci che attendono la notte per uscire, odo la sirena del traghetto che sta salpando per Valencia, in Spagna, e penso all’altro mare, quello di sabbia e di sassi, che m’aspetta domani laggiù, oltre i monti dell’Atlante, a più di due ore di volo, nel respiro delle gole dipinte e tra i picchi rocciosi che fan del Sahara uno sconfinato scrigno di misteri.

«...gli occhi prigionieri tra l’ocra e l’azzurro, e le orecchie colme delle melodie corali e ipnotiche tuareg» Djanet è una perla in quello scrigno, anzi una rosa del deserto, rassicurante come molte delle oasi che dan respiro ai viaggiatori lungo le rotte sahariane. Alto su un colle, poggiato a mille metri sull’altopiano nel punto in cui l’Algeria incontra la Libia e il Niger, il suo nucleo antico, intricato e ormai deserto come i canyon che serpeggiano per la regione, s’affaccia digradante sul palmeto e gli orti, tesori ricavati con secolar fatica lungo le rive di un uadi (il letto prosciugato di un torrente) accanto agli anonimi e bassi edifici della città nuova. È lì, nella polvere di quelle vie d’asfalto rotto mascherato da sterrato che finalmente scovo Amastan, disteso a martellare sotto una Toyota carica d’anni e di fango secco. È lui, guida tuareg di lungo corso e, a tempo perso, meccanico pro-

Oued in-Djeran, verso il confine libico. Giraffa del VII - VI millennio a.C..

vetto (o viceversa), che m’accompagnerà a fare un giro in un angolo del deserto più vasto del pianeta. Sono finiti i tempi in cui si poteva scorrazzare liberamente per la regione. Ora, l’unica zona visitabile, perché sotto controllo militare, è il Tadrart, a sudest della città, un lungo fuoripista verso le frontiere preso tra il Tassili n’Ajjer (a ovest) e l’Acacus libico, del quale è di fatto il lembo occidentale. Ho avuto la fortuna di visitare in altri tempi questi territori che, nell’insieme, formano una delle gallerie d’arte neolitica tra le più antiche e suggestive del pianeta. Una settimana di viaggio lento da mattina a sera, ad arrancare con le ruote dai tasselli consumati sui dirupi e per

le dune, gli occhi prigionieri tra l’ocra e l’azzurro, e le orecchie colme delle melodie corali e ipnotiche tuareg. Una settimana di campi nella gelida notte invernale sahariana e di risvegli col tepor del primo sole; di serate intorno al fuoco a preparare pane sotto la sabbia, a sorseggiare tè, a barattarmi il racconto della vita in città con quello della vita nel deserto. Una settimana d’odor di brace, di lavacri frugali dietro una roccia con l’acqua sabbiosa d’un catino, quando c’è. Una settimana di ritorno alla terra, di visioni neolitiche e di storie d’antichi nomadi, oggi sedentari. Anche questa zona del Tadrart, pur meno conosciuta del Tassili e dell’Acacus, nasconde tesori d’arte figurativa, le

Amastan, in un momento di pausa per il tè di rito.

Verso il doppio confine del Tadrart.

opere di anonimi artisti preistorici che han lasciato rappresentazioni e storie a suggerirci il mondo nei millenni addietro, e la sua evoluzione climatica e sociale. Su pareti di granito o d’arenaria più o meno concave, spesso argine d’antichi fiumi, decine sono i siti ove ammirar pitture e incisioni: giraffe, elefanti e bubali (grossi bovidi ormai estinti) vecchi di sei-sette-ottomila anni s’abbeverano tra persone senza volto, magari giustapposte a mandriani e capanne disegnati molto più tardi, o accanto a cavalli, introdotti qui solo mille anni prima di Cristo, o anche a dromedari, diffusi ancor più di recente, sempre da Oriente, per mano romana. Son luoghi di reiterate sessioni pittoriche d’altrettanti maestri illustratori, che nei millenni hanno tratteggiato arcieri, battaglie, cacce, danze, donne acconciate, maschere zoomorfe che paiono egizie, riti… Nelle ricostruzioni storiche degli esperti − avallate da Amastan il meccanico, da decenni in giro per questi luoghi con turisti curiosi ed esimi professori − appare chiaro che il Sahara, almeno da queste parti, all’epoca delle immagini più antiche era tutt’altro che deserto. In cima a una cresta sabbiosa scendiamo dall’auto nel sole già caldo di mezza mattina. Io scalzo, per sentir la sabbia, prendo a camminare, ma Amastan, lo sguardo trasognato sotto il tagelmust (il turbante), mi irretisce con una visione: «Immagina fiumi copiosi, laghi, gli animali della savana…» comincia, indi-

cando con la mano avanti a sé, come se li vedesse davvero. «Sai, dicono che queste zone alte del Sahara centrale – l’Hoggar, il Tassili, il Tadrart, qui in Algeria, e poi anche il Tibesti e l’Ennedi, laggiù in Ciad, a due-tremila metri d’altezza – siano state culla dell’agricoltura e dell’allevamento, propaggine più occidentale d’una ghirlanda di altre “culle” più note che da qui, attraverso il Nilo e la Mezzaluna fertile, arriva fino alla valle dell’Indo… Forse i nostri antenati, mentre i laghi si prosciugavano, migrarono a est, sulle rive del Nilo, per dare origine alla cultura egizia». Per un attimo la visione mi affascina ma certo son solo ipotesi, ci diciamo riscotendoci dal sogno e rimontando in macchina. Ma allora la scrittura? Mi chiedo. Quei simboli geometrici neolitici che si vedono incisi per tutto il Sahara e che molti dicono abbiano poi originato, tremila anni or sono, l’alfabeto tuareg, berbero, il tifinagh che ora, come neotifinagh, è persino insegnato a scuola, in Marocco? Sono quesiti senza risposta. E così per ora ci accontentiamo di ammirare, confrontare, ipotizzare. E ci viaggiamo in mezzo, a queste storie e a questo mondo che nell’immaginario collettivo è vuoto d’uomini e animali e piante, e tutto uguale, pien di sabbia e sassi. Ma a guardarlo da vicino non è mai lo stesso, e cambia in ogni dove, e non smette di parlarmi, e mi richiama a sé di tanto in tanto, come una madre preoccupata dei suoi figli.


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ambiente e Benessere

orazio, il poeta di Bacco

scelto per voi

Vino nella storia Sua la famosa locuzione latina «Carpe diem», ma anche tante altre

dedicate alla poetica bevanda Davide Comoli «Nunc est bibendum» («Ora bisogna bere»). Orazio esulta con le stesse parole di Alceo per l’uccisone di Mirsilo, all’annuncio della fine di un mortale pericolo per Roma, quale poteva essere quello rappresentato dal sodalizio tra Cleopatra e Antonio. Cosicché quando nel 30 a.C. a Roma giunge notizia che entrambi gli amanti sono morti, anche Orazio, traducendo in modo letterale Alceo, festeggia l’avvenimento: «Ora bisogna bere, ora bisogna battere la terra a piede libero. È tornato amici, il tempo di ornare l’altare degli dèi con un banchetto da fare invidia ai Salii. Prima di ora non era lecito spillare il Cecubo (ndr: vino di ottima qualità) dalle cantine degli antenati…». Orazio, è per noi il vero, grande, convinto e autentico cantore del vino, il poeta del vino per eccellenza in lingua latina. Quinto Orazio Flacco (Venosa 65Roma 8 a.C.), figlio di un liberto che aveva messo insieme un piccolo patrimonio, grazie al quale era riuscito a collocarsi socialmente in quella che oggi si chiama «piccola borghesia», studiò a Roma e ad Atene. Nel 42 a.C. combatté a Filippi nell’esercito repubblicano di Bruto e Cassio, gli uccisori di Giulio Cesare. La sconfitta di Bruto e un infortunio personale (l’abbandono dello scudo sul campo), ebbero decisive ripercussioni sulla sua vita e sulla sua psicologia. Perdute le terre paterne, si ridusse a un modesto ufficio di scrivano dedicandosi alle lettere. Virgilio lo presentò a Mecenate, il finanziere dai natali etruschi (qualcuno dice fosse di Montalcino), a cui si legò di stretta amicizia. Fu allora che Orazio realizzò il suo sogno (munifico dono dell’amico sopraccitato): una villa e un podere nell’idilliaca campagna in Sabina, luogo di evasione dalla convulsa vita dell’Urbe. Entrato nelle grazie di Augusto, rifiutò incarichi ufficiali e preferì gli ozii meditativi, dedicati alla poesia. Seguace della dottrina epicurea, fu il cantore dell’aurea mediocritas, ideale equilibrio etico tra capacità di rinuncia e piaceri immediati (amore, serenità campestre, amicizia e naturalmente vino), calati nel quotidiano e ispirati a un intenso senso del presente e della fugacità

Quinto Orazio Flacco in un ritratto immaginario di Anton von Werner.

della vita. Rispetto alla quale fugacità, il poeta lucano esprime la sua filosofia (che è diventata anche la nostra), concentrata nel famoso imperativo: «Carpe diem» («Cogli l’attimo» - Ode 1,11). Ma noi dobbiamo parlare di vino, e citare tutti i passi nei quali Orazio parla della nostra bevanda preferita, è un’ardua impresa. Ma ce ne sono alcuni, come quello citato all’inizio, dove Orazio sulle ali del vino tocca alti vertici poetici. Quello che vi proponiamo, tratto dall’Ode 1,7 a Planco, è uno dei suoi versi più belli, dove l’eroe greco Teucro in fuga con pochi amici dall’ira paterna, si rivolge a loro per incoraggiarli «[…] O fortes peioraque passi mecum saepe viri, nunc vino pellite curas: cras ingens iterabimus aequor» («[…] O uomini forti, che spesso avete sopportato con me mali peggiori, scacciate ora gli affanni col vino; domani sarà immensa l’acqua del mare e continueremo il (nostro) viaggio»). Ma a noi piace molto la già citata Ode 1,11 dedicata a Leuconoe, «No, non chiederlo agli dèi,

Leucònoe, non chiedere né il mio, né il tuo destino. Non ti è concesso di saperlo […]. Sii saggia: bevi un sorso di vino e in quel breve attimo tronca una lunga speranza. Già mentre stavi parlando il tempo invidioso se ne è fuggito. Afferralo questo attimo: Carpe diem! e pensa che forse non ci sarà domani». In sintesi, questa è la filosofia di Orazio, con la quale si può o non si può concordare, ma che certamente lo imparenta col greco Alceo, altro grande cantore del vino. E come Alceo, anche Orazio sembra voler approfittare di ogni occasione per sorseggiare una coppa di vino. Il vino è, anche per Orazio, lo strumento o se preferite «la magica pozione» per propiziare quegli attimi di abbandono e di felicità che può procurare un incontro amoroso. Per amore del vino, Orazio, parco nei bisogni, modesto nelle aspettative, dedica una delle Odi (111,21) a un’anfora colma di prezioso Màssico, il «cru» pregiato del Falerno. Si tratta di un vino vecchio, di poco meno di 40 anni (è del

consolato di Manlio Torquato, 65 a.C.), e quell’anfora sarà aperta per festeggiare l’invito a pranzo del caro amico del poeta, il console Marco Valerio Messala Corvino. Orazio ci dimostra con questo brano di conoscere molte varietà di vini, di apprezzare le differenze, tanto da non accontentarsi di un vino qualsiasi: «Tu nata con me al tempo del console Manlio, sia che con te porti lamenti o gioia e litigio o amori folli o un sonno senza sogni, tu, anfora consacrata, a qualunque titolo hai affinato il Massico che conservi, ma certo di essere aperta in un giorno felice, scendi qui fra noi, ora che Corvino impone d’offrire un vino prelibato… Agli animi che meno sono inclini tu fai dolce violenza; col giocondo Lieo tu riveli l’angoscia dei sapienti e i pensieri che nell’animo nascondono; tu ridoni speranza ai cuori che s’angustiano e al povero, che dopo il vino più non teme l’ira dei re e l’arma dei soldati, regali forza e coraggio». Le anfore che Orazio conservava nella sua cantina, contenevano senz’altro vini di buon livello, perché il poeta, lo racconta lui stesso, ama trattarsi piuttosto bene, grazie all’amico Mecenate non doveva avere soverchi problemi economici. Salvo però, di tanto in tanto, piangere miseria sulle robuste spalle di quel Mecenate, perché il benefattore non avesse a scordare che il trattamento economico a lui riservato poteva essere suscettibile di qualche miglioramento, ma tenendo sempre il vino come termine di riferimento (Odi 1,20): «In coppe modeste berrai un vinello sabino di quello che in un’anfora greca ho io stesso imbottigliato, con tanto di sigillo, il giorno in cui ti tributarono, a teatro un’ovazione, caro cavaliere Mecenate, di tale intensità che le rive del nostro fiume e la festosa eco del colle Vaticano ti restituirono all’unisono, l’applauso. Sarai certo abituato a degustare Cecubo e Caleno d’uva spremuta con il torchio; i miei bicchieri però non sono rallegrati dalle viti del Falerno o dei colli di Formia». A parte queste lacrime di circostanza, però, va ribadito che a vini Orazio non si trattava certamente male. Quel che è certo è che il vino e il suo dio du-

Doral – carla

Carla è un vino prodotto da Davide Cadenazzi, ottenuto con uve Doral (incrocio tra Chasselas x Chardonnay creato nel 1965), le quali maturano su ceppi di vite che affondano e traggono nutrimento dai terreni ghiaiosi ai piedi del Generoso. Il nome di questo Doral è un omaggio che Davide Cadenazzi ha voluto dedicare alla memoria della madre. Nel bicchiere, Carla si presenta con un bel colore giallo dorato brillante e da subito si librano nell’aria note aromatiche che il naso poi conferma: agrumi e sentori d’albicocca si rincorrono rendendo molto gradevole l’esame olfattivo. La piacevole acidità e l’elegante morbidezza creano un bell’equilibrio in questo vino, dove l’alcol non la fa da padrone, e il finale lungo è un delizioso ricordo di burro d’arachidi che ci riporta alla giovinezza passata negli USA. Da servire fresco (circa 12° C), ottimo come aperitivo e con piatti estivi profumati con le erbe del vostro giardino; noi lo abbiamo provato con un «Orata al forno», eccellente connubio. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 17.60 rante l’aurea mediocritas di cui Orazio era la voce poetica di Augusto e dopo Virgilio, non più fuoco per passioni, entrò per così dire, in una dimensione più domestica e di emozioni più contenute. Bacco, comunque, non si turbò più di tanto, sapeva che dal circolo formatosi intorno a Mecenate, non poteva aspettarsi altro. Il dio guardò con altera indifferenza alcuni moralisti che ignorarono scientemente l’ambiguità del suo dono e come Seneca ne illustrarono solo: «gli effetti collaterali». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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il futuro colonizzato

ambiente e Benessere

incontri A colloquio con lo scrittore e attivista islandese Andri Snær Magnason, che sarà ospite di Chiassoletteraria

Simona Sala È proprio di questi giorni l’inquietante nuovo studio dell’ONU, il sesto Rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc): nel 2019 è stato battuto un record da brivido. Le emissioni di CO2 rilasciate in quell’anno (36,8 miliardi di tonnellate) sono le più alte di sempre. Peccato che nel frattempo siamo già nel 2021, e i dati, comunque preoccupanti, non sono aggiornati… non osiamo pensare al prossimo bollettino, al termine di due anni che passeranno alla storia, oltre che per la pandemia, anche per gli incendi che hanno attraversato il mondo, dall’outback australiano fino alla California, passando per Francia, Grecia, Turchia, Italia, Spagna, eccetera, eccetera. Anche se ancora vi è chi rinnega l’effettivo influsso del CO2 sui cambiamenti climatici, ormai da molti fronti giudicati irreversibili, per la comunità scientifica i dubbi sono definitivamente fugati: il nostro pianeta sta assistendo (in molti casi in modo impotente) a cambiamenti che pregiudicheranno il modo di vivere delle prossime generazioni. Ne abbiamo parlato con Andri Snær Magnason, attivista ambientalista e divulgatore scientifico islandese, autore di Il tempo e l’acqua (v. «Azione» del 12 aprile 2021), che dal suo osservatorio privilegiato – l’Islanda per molti versi, grazie a vulcani, ghiacciai e geyser, rappresenta l’espressione più completa e inquietante di ciò che sta cambiando – lancia un monito, accorato ma forse anche disilluso. Sarà a Chiassoletteraria, nel solco di un percorso che lo porterà in diverse località italofone, per tentare ancora una volta una forma di sensibilizzazione che permetta a ogni cittadino di almeno prendere coscienza di quanto sta accadendo. andri snær magnason, è da tutta l’estate che l’europa brucia o lotta con l’acqua. siamo davanti a una svolta epocale, probabilmente irreversibile: è preoccupato?

Certo che sono preoccupato, perché sta succedendo esattamente quello che si prevedeva. Purtroppo, in questo caso così come in molti altri, la gente non riesce a capire le cose prima che accadono. È un problema dell’umanità, ma anche della democrazia. Il mondo sta cambiando: stiamo assistendo a una trasformazione del paesaggio. Qual è la sfida più grande in questo momento?

Credo che una delle sfide maggiori sia quella di creare un’urgenza di fronte a eventi che accadranno sul lungo termine. Come si può stimolare l’immaginazione riguardo a questi eventi? Come si può permettere alle persone di relazionarsi con eventi la cui portata si vedrà solo tra vent’anni? È questa la vera sfida. Il risultato è che si finisce per preoccuparsi di cose apparentemente più urgenti. Sembra quasi che per comprendere la portata del problema sia necessario vedere ad esempio gli incendi con i propri occhi.

reputa che gli eventi di quest’estate siano gravi abbastanza per modificare la posizione di chi ancora è scettico?

Andri Snær Magnason è nato a Reykjavik il 14 luglio 1973.

ciare ad alcuno dei comfort acquisiti in questi anni. Dobbiamo invece renderci conto del fatto che le cose da cambiare sono molte e che devono cambiare in fretta. All’inizio si pensava che fosse un problema riguardante solo i paesi poveri e tutt’al più i Poli, ora però abbiamo visto che riguarda tutti e tutto. Il problema tocca ognuno di noi: in Germania ci sono state le alluvioni, in Canada si è morti per il caldo, l’anno scorso la costa di Malibù è bruciata, riducendo in cenere le case dei ricchi.

chi deve, se è ancora possibile, arginare un disastro che avrà conseguenze letali?

Non credo sia compito dei giovani mettere a posto questo disastro, ma presto sarà il turno delle nuove generazioni, che quando andranno al potere avranno sicuramente una connessione diversa con il futuro. Noi viviamo come se i prosperi anni Settanta risalissero a trent’anni fa, invece sono già passati quasi cinquant’anni. I giovani sentiranno di non potere vivere in un futuro non abitabile, e questo è un dolore che sta emergendo piano piano. Saranno le nuove generazioni a stabilire le regole, così come le giovani donne stabiliranno le regole sul posto di lavoro grazie alla cultura nata dal movimento #Metoo. Perché fa riferimento agli anni settanta?

Pensiamo per un attimo di essere nel 2070: cent’anni prima, nel 1970, noi pensavamo tutt’al più a dove giocare a golf e a dove trascorrere le vacanze estive per renderci la vita più confortevole. I giovani invece vedranno un mondo in fiamme, quindi le priorità saranno altre.

È risaputo che i paesi nordici sono da sempre più sensibili ai temi ambientali. se guardiamo all’agenda politica di paesi del sud dell’europa come l’italia, la Turchia o la Grecia (ma anche la svizzera), ci rendiamo conto che i temi ambientali si trovano nelle ultime pagine. come potrà avvenire il cambiamento se i problemi climatici non raggiungono una posizione più in vista?

Il Sud è ben equipaggiato per sviluppare ad esempio la tecnologia solare; credo che una nazione come l’Italia, che riesce a progettare la migliore automobile del mondo, possa investire le proprie conoscenze anche nelle tecnologie votate all’ambiente, creando ad esempio i migliori pannelli solari del mondo.

Uno sguardo più attento alla realtà non lascia esattamente ben sperare, però. Pensiamo alla svizzera, dove negli anni ottanta si sono vinte battaglie importanti, come quella legata alla protezione delle alpi, o ad avanti no. svizzere e svizzeri sono reduci da una votazione (13 giugno) che chiede il mantenimento dello status quo per quanto riguarda ad esempio i pesticidi. non ha l’impressione che si cerchi di sfruttare le risorse fino all’ultimo, incuranti delle generazioni successive?

Il problema è dovuto al fatto che il sistema è guidato soprattutto da gente sulla sessantina, quindi siamo di fronte a un gap generazionale. Vi sono ancora persone convinte del fatto che possedere azioni nelle compagnie petrolifere possa dare un futuro, poiché queste garantiscono guadagni immediati. Ma non vi è nulla di meno razionale o di più malvagio che investire in una compagnia petrolifera; questo per due motivi: da una parte perché fra qualche anno queste compagnie avranno bruciato il mondo, dall’altra perché avranno fatto bancarotta, quindi non ci saranno più nemmeno i soldi. Sicuramente qualche grosso manager delle compagnie in questione finirà in tribunale per la cattiva gestione di territorio e soldi. Spesso i manager sono ben consapevoli delle conseguenze del proprio agire, ma, opponendosi apertamente alla scienza, si spingono al punto da assumere delle persone per indurre in errore il pubblico. Esattamente come è successo nell’industria del tabacco. non crede che la crisi legata al covid ci stia già dimostrando quello che succede quando si impongono

Forse la gente comincia finalmente a rendersi conto di quello che sta succedendo.

La questione è più complessa. In questo caso non si tratta di non fare delle cose, ma si tratta di farle in modo diverso. Prendiamo la questione del cibo: esso andrà ripartito diversamente, ma mangeremo ancora. Saremo ancora mobili, ma viaggeremo in modo diverso. Non si tratterà più di non potersi riunire o di non poter abbracciare la nonna, saranno restrizioni diverse, ma credo che le nuove generazioni le percepiranno come molto inferiori rispetto a quelle dettate dall’emergenza Covid.

«(...) non vi è nulla di meno razionale o di più malvagio che investire in una compagnia petrolifera» recentemente sono incappata nell’affermazione di un artista svizzero che in modo provocatorio asseriva la necessità di togliere il voto agli over 65, soprattutto alla luce dei recenti risultati alle urne nel nostro Paese. cosa ne pensa?

Le nuove generazioni hanno avuto trent’anni per confrontarsi con quanto professa la scienza. Le persone di una certa età che rimangono arroccate sulle proprie posizioni ai miei occhi non hanno più scuse, non hanno nessun terreno, né sul piano morale, né a livello logistico. Se queste persone non cominciano a capire i problemi e ad affrontarli, correremo il rischio di un importante conflitto generazionale. La sostenibilità non presuppone che si viva a spese delle generazioni successive. In fondo assistiamo a una generazione che sta letteralmente colonizzando quelle successive attraverso la sottrazione delle risorse e dello spazio vitale. non crede che ci troviamo in una situazione nuova? fino ad oggi i sacrifici per le nuove generazioni erano di natura formativa ed economica, dunque del tutto diversi da quelli che sarebbero necessari adesso.

In questo senso siamo di fronte a un cambiamento di paradigma, le generazioni più vecchie pensano ancora in termini economici, ma in questo momento l’urgenza è un’altra.

il cambiamento, se mai ci sarà, verrà dai governi o dalla scienza?

lei abita in islanda: come affrontate i temi ambientali? c’è molta sensibilizzazione?

Pxhere.com

Molte soluzioni giungono da attori privati, ma dovranno venire prese a carico dalle politiche governative. L’impressione generale è che si cerchi di «farla facile», convinti che sia semplice passare a uno stile di vita più «verde», un po’ come passare da un Diesel a una Tesla. In pratica cerchiamo di continuare a fare le stesse cose, seppur con un impatto minore, ma senza rinun-

delle restrizioni alla gente? non andremo incontro a nuovi disordini e a proteste?

Recentemente ho tenuto una conferenza a Bologna, in occasione di un convegno dei docenti di scienze europei. Come ho spiegato in quell’occasione, credo che a questo punto della nostra storia dobbiamo cambiare i target

educativi, che risalgono a trent’anni or sono. La sfida ambientale è talmente grande che dovrebbe coinvolgere ogni materia, mentre ci ritroviamo con dei testi scolastici di dieci anni fa, quando la questione non era ancora così urgente, e riguardo al cambiamento climatico si credeva in una probabilità del 50%. La biologia, ad esempio, dovrebbe essere al servizio dell’agricoltura, per permettere lo sviluppo della sensibilità e di nuove metodologie. La stessa cosa vale per la matematica, che dovrebbe occuparsi di nuove tecnologie e di nuove invenzioni ecologicamente più sostenibili. In fondo si tratta di una sorta di rivoluzione. In Islanda c’è una certa consapevolezza, ma senza grandi rotture. Quando importi il petrolio non devi poi stupirti se questo brucia!

Questi cambiamenti (che presuppongono migrazioni, spostamenti di popoli, nuove restrizioni, eccetera) a lungo termine pregiudicheranno la pace sociale?

Io resto fiducioso. Se pensiamo alla storia del progresso, mi piace citare proprio l’Islanda. La mia isola è stata a lungo di difficile abitabilità, la gente era costretta ad andarsene alla ricerca di un futuro migliore. Con il tempo però, siamo riusciti a trasformare in vantaggi quelli che erano svantaggi: i vulcani sono diventati una fonte di energia e grazie ad essi abbiamo cominciato a fare delle serre in cui coltivare frutta e verdura. Se penso all’Italia del sud, dove stanno divampando gli incendi, immagino un futuro dove si possa sfruttare questo immenso calore convertendolo in energia. Pensando soprattutto alla classe politica, non crede che per l’essere umano sia difficile proiettarsi in un tempo che non gli appartiene, situato addirittura in un’epoca in cui lei o lui sarà già morto?

Io credo che per ogni essere umano vi siano anche questioni legate all’eredità e alla tradizione. Questo è il motivo per cui ancora oggi abbiamo statue e castelli realizzati da persone che volevano essere ricordate dopo la morte. La nostra generazione deve rendersi conto che se non agiamo, non solo non lasceremo nulla alle generazioni future, ma addirittura ne cancelleremo la cultura. Di una cosa sono certo: saremo ricordati come le generazioni che non hanno speso alcuna energia per affrontare queste problematiche. Dove e quando

Andri Snær Magnason incontrerà il suo pubblico italofono in occasione di Chiassoletteraria sabato 4 settembre 2021 alle 15.30 al Cinema Teatro. Sarà intervistato da Mario Casella; info chiassoletteraria.ch


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ambiente e Benessere

Una foresta di automobili

motori Iniziativa lodevole quella di Honda che sta per presentare la sua nuova HR-V HEV Full Hybrid

Mario Alberto Cucchi Davvero lodevole l’iniziativa intrapresa da Honda in Svizzera. Per ogni test drive di un loro veicolo, la Casa automobilistica giapponese si impegna a contribuire finanziariamente al progetto di riforestazione di Almighty Tree (www.almightytree.ch) che prevede la piantumazione sul territorio elvetico di nuove specie di alberi. Ma non finisce qui. A fronte di un acquisto di un’automobile elettrificata del brand orientale verrà anche piantato un albero a nome dell’acquirente nella «foresta Honda» più vicina a casa sua. Inoltre, un sistema di geolocalizzazione permetterà di identificare la pianta e la sua posizione in modo da seguirne la crescita e goderne la fioritura in primavera.

Ecco allora che in quest’ottica diventa ancora più interessante il prossimo debutto della nuova Honda HR-V HEV Full Hybrid che entra a far parte della famiglia e:HEV raggiungendo CR-V e Jazz tra i modelli disponibili solo in versione ibrida. HR-V è un mezzo dotato di serie della tecnologia Honda a due motori. Potenti e compatti propulsori elettrici lavorano in simbiosi con un motore alimentato a benzina da 1,5 litri. Decisamente innovativa la trasmissione a ingranaggi fissi abbinata a un’unità di controllo intelligente. L’energia è fornita da una batteria a ioni di litio. Il risultato si basa su un perfetto equilibrio tra efficienze nei consumi, basse emissioni e prestazioni dinamiche. Il nuovo propulsore ibrido e:HEV di HR-V genera una potenza di 96 kW, ovvero 131 cavalli, e una coppia massima

Giochi cruciverba La paziente al dottore: «Dottore quanti metri dovrei essere alta per i chili che ho?». Trova la risposta del dottore leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 11, 7, 5) orizzonTali

1. Un antico foglio 6. Consumato 11. Bocca in latino 12. Si spostano… con i monti 14. L’eccesso nei prefissi 15. Si ode nella cova 17. Piccola costellazione australe 19. Le iniziali dell’attore Tirabassi 20. Sono di uguale livello 22. Prefisso che vuol dire orecchio 23. Avverbio di luogo 24. Nel calcio c’è quella tornante 26. Impegnative, faticose 28. Fanno parte dei fiori 30. Lontano predecessore 32. Le colpevoli 33. L’attore Selleck 35. Il viaggio dei latini 37. Le iniziali del matematico

Torricelli 38. Parassita dell’intestino umano 40. Mercurio le aveva ai piedi 41. Si può fare di presenza

regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch

di 253 NewtonMetro. L’accelerazione da 0 a 100 orari avviene in 10,6 secondi. Numeri che consentono di mantenere una guida fluida e confortevole, sia in città sia nelle strade a veloce percorrenza. Inoltre, si tratta di un sistema ibrido a ridotte emissioni di CO2 da 122 g/km e consumo medio di 5.4 L/100km (secondo il ciclo WLTP).

Honda si impegna a finanziare in Svizzera il progetto di riforestazione di Almighty Tree e:HEV si distingue da altri sistemi per le tre modalità di guida che si alternano garantendo prestazioni ottimali in ogni condizione di traffico. L’unità di controllo elettronico intelligente effettua automaticamente e in modo costante il passaggio tra le modalità Electric Drive, Hybrid Drive ed Engine Drive. Secondo gli ingegneri il tutto avviene in modo dolce e impercettibile a tal punto che, a bordo, guidatore e passeggeri non si accorgono di nulla. Una tecnologia basata su oltre vent’anni di esperienza ibrida sviluppata sulle auto stradali. Basti ricordare che nel 1999, Honda ha lanciato Insight. Mezzo dalle linee futuristiche che è stato il primo modello ibrido di qualsiasi Casa automobilistica ad essere venduto in Europa. Importan-

Per ogni auto elettrica venduta sarà piantato un albero. (Honda)

te anche l’esperienza sportiva derivata dalle corse, specialmente dalla Formula 1. D’altra parte, Honda è il primo costruttore di veicoli al mondo. Non produce solo auto ma anche moto, scooter, automobili, motori fuoribordo, prodotti garden-agri-industry e aeroplani per trasporto privato.

Il nuovo HR-V ibrido arriverà nelle concessionarie svizzere entro la fine del 2021 ma già oggi ci si può prenotare per una prova sul sito Honda.ch. L’obiettivo è ambizioso: il costruttore giapponese prevede di elettrificare tutti i suoi principali modelli entro il 2022. Il pianeta ringrazia.

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43. Una consonante 45. Le iniziali della tennista Trevisan 46. Non sollecito 47. Illustre

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1. Estremità posteriore

dell’imbarcazione 2. Dagli Urali al Giappone 3. Le separa la «L» 4. Nobili etiopi 5. Personaggio fiabesco 7. Vicolo di Venezia 8. Un grido dell’acrobata 9. Che viene dopo 10. Un anagramma di tiro 13. Una fibra grezza I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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16. Pesci dalle carni pregiate 18. I fiumi Riparia e Baltea 21. Isola in Francia 23. Parte di una somma globale 25. Un aggettivo da montagne 27. 506 romani 28. Gruppi ideologici chiusi 29. Carico di elettricità 31. Ridotto in pezzettini 32. Antica moneta spagnola 34. Ambiziosi scopi 36. Facevano parte dell’armatura 38. Una cifra vaga 39. Fa binomio con labor 42. Le hanno tenente e capitano 44. Pronome poetico

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CARTA D’IDENTITÀ – Vero nome di Lady Gaga: STEFANI GERMANOTTA. S A G A C E

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Politica e economia il Panshir che resiste Ahmad Massud si oppone ai talebani come aveva fatto suo padre Ahmad Shah ma...

nell’inferno afgano Mentre i terroristi attaccano l’aeroporto, Francesca Mannocchi ricorda i suoi ultimi giorni in Afghanistan pagina 23

la solitudine del presidente Biden e il ridimensionamento del ruolo globale degli Usa attirano pesanti critiche pagina 25

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imposta sulle obbligazioni Il Consiglio federale intende toglierla e grazie al sostegno di alcuni partiti può riuscirci

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la donna più potente se ne va

Germania Dopo sedici anni alla guida

del Governo, Angela Merkel lascerà la politica. Ripercorriamo i momenti salienti della sua carriera, tra luci e ombre

Marzio Rigonalli Fra poche settimane lascerà il potere. Durante 16 anni Angela Merkel ha fatto parte della quotidianità dei tedeschi, ma un po’ anche della vita di tutti gli altri cittadini europei. È stata la prima cancelliera donna e anche la prima cancelliera proveniente dall’altra parte della cortina di ferro. Per ben 4 successivi mandati ha guidato la prima potenza economica europea e più volte è stata ritenuta la donna più potente del mondo (ad esempio da «Forbes»). Ha affrontato un bel numero di crisi, riuscendo spesso a trovare compromessi e a farli accettare. Nella sua presenza e nella sua azione, molti leader europei hanno individuato spesso un punto di riferimento, un partner affidabile, un baluardo in difesa della democrazia e dei valori occidentali. Un lungo periodo sta per concludersi e spontanee sorgono alcune riflessioni e domande: quale immagine resterà di lei sul piano interno e su quello internazionale? Sarà positiva come lo fu per alcuni suoi illustri predecessori, come i cancellieri Konrad Adenauer e Helmut Kohl, oppure lascerà la porta aperta a svariate critiche? Prima di cercare di rispondere, conviene ricordare come fu la prima parte della vita di Merkel. La futura cancelliera nacque ad Amburgo nel 1954. Suo padre era un pastore protestante e sua madre professoressa d’inglese. Nell’estate del 1961, quando venne eretto il Muro intorno ai tre settori occidentali di Berlino per fermare l’esodo delle persone dalla Germania dell’est, la sua famiglia si ritrovò sotto il regime comunista, senza la possibilità di recarsi nella parte occidentale della Germania. Per quasi trent’anni, Merkel dovette convivere con le regole, gli obblighi, lo spionaggio di un regime che non apprezzava, ma che non le rendeva la vita particolarmente difficile. Seguì un ciclo di studi che la portò all’Università Karl Marx di Lipsia, il più grande centro universitario della Germania dell’est, dove studierà Fisica e otterrà il dottorato. Sposerà un collega di studi, Ulrich Merkel,

dal quale divorzierà qualche anno dopo, conservando il suo nome, anche quando si sposerà la seconda volta. Ha dunque avuto una formazione scientifica, dalla quale deriva una forte capacità analitica, il bisogno di conoscere a fondo i dossier e la volontà di trovare soluzioni. I contesti familiare e sociale le hanno inculcato l’umiltà e la modestia, che l’hanno portata ancora oggi a vivere nell’appartamento di una palazzina, a Berlino, e a fare lei stessa la propria spesa, nonché il valore supremo della libertà e della necessità di difenderla in ogni situazione. Angela Merkel poteva diventare una ricercatrice o una docente universitaria. Non fu così. Dopo la caduta del Muro nel 1989, quando aveva 35 anni, cominciò a interessarsi alla politica e quindi a scegliere un’altra strada. Diventò portavoce dell’ultimo Governo della Germania dell’est prima della riunificazione e rispose all’invito di Kohl di far parte del suo Governo. Il cancelliere voleva includere nella sua compagine una persona proveniente dalla Germania dell’est. Angela Merkel divenne allora ministra delle donne, della gioventù e dello sport e qualche anno dopo, grazie a un buon risultato elettorale, le venne affidato il Ministero dell’ambiente. Nel 1998 Helmut Kohl perse le elezioni legislative e dovette cedere il posto a Gerhard Schröder. Cominciò così il declino politico del padre della riunificazione tedesca, un declino che venne poi accentuato dallo scandalo dei fondi neri usati illegalmente negli anni Novanta per finanziare la Cdu. Nel frattempo Angela Merkel proseguiva nella sua scalata verso il potere, dapprima come presidente regionale della Cdu, poi come segretaria nazionale del partito e infine, nel 2000, come presidente del partito e quindi come futura candidata alla cancelleria. Una donna protestante, divorziata, senza figli riuscì a imporsi in seno al grande partito popolare conservatore della Germania, tradizionalmente fedele ai valori della religione cattolica e della famiglia. Nel 2005 la Cdu vinse di poco le elezioni davanti alla Spd di Schröder

Cresciuta nella Germania dell’est, è dottoressa in Fisica. (Shutterstock)

e Angela Merkel divenne cancelliera. Guiderà una coalizione con i socialdemocratici e darà inizio ai 16 anni passati al vertice del potere. Sul piano interno Merkel ha saputo proteggere i tedeschi e assicurare loro una certa stabilità, spesso privilegiando gli interessi economici del Paese nel contesto europeo. Le sue scelte le hanno garantito una costante popolarità, mai scesa sotto il 50%. Oggi ancora si aggira intorno al 70% e la maggioranza dei tedeschi avrebbe voluto che affrontasse un quinto mandato. Tra le numerose decisioni prese, due emergono sulle altre e troveranno spazio nei libri di storia: l’abbandono del nucleare nel 2011, dopo la catastrofe di Fukushima, e l’accoglienza di quasi un milione di profughi nel 2015. La prima decisione ha avviato la svolta energetica che per decenni continuerà a occupare la politica tedesca, come d’altronde avviene anche in tanti altri Paesi. La seconda decisione, simboleggiata dalla famosa frase «Wir schaffen das» (possiamo farcela), portò all’apertura delle frontiere ai profughi

che fuggivano la guerra in Siria. Un forte gesto umano che ha salvato l’onore dell’Europa, ma che ha avuto anche conseguenze politiche negative per la cancelleria. La destra estrema e i populisti ne hanno tratto profitto. L’Afd (Alternativa per la Germania), per esempio, è riuscita ad entrare al Bundestag per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Una macchia questa, in un bilancio prevalentemente positivo, alla quale si potrebbe aggiungere anche l’incomprensione che la cancelliera ha suscitato quando ha difeso a spada tratta il gasdotto Nordstream che assicura alla Germania i rifornimenti di gas, ma che la mette in uno stato di dipendenza energetica nei confronti della Russia. Sul piano europeo Angela Merkel ha conosciuto un’evoluzione. Durante i suoi primi mandati ha difeso il rigore dei bilanci e l’austerità. Ben nota è stata la sua intransigenza nei confronti della Grecia durante la crisi del debito sovrano. Basta ricordare il suo viaggio ad Atene nel 2012, accolta dalle proteste di migliaia di dimostranti, dai mani-

festi e dalle prime pagine dei giornali piene delle caricature della sua fotografia, con i baffetti alla Hitler e con le svastiche naziste. Nell’ultima parte del suo mandato la cancelliera ha dato spazio alla solidarietà fra gli Stati europei, riconoscendo la necessità di una maggiore integrazione europea. Il simbolo di questa evoluzione è stato il piano deciso nel 2020 dall’Ue, su proposta della Germania e della Francia, per aiutare gli Stati membri a lottare contro le conseguenze economiche della pandemia. Un piano che prevede lo stanziamento di 750 miliardi di euro, una parte a fondo perso e una parte sotto forma di prestiti, e che integra il principio di un debito comune europeo. Angela Merkel se ne va con la sua semplicità, il suo modo di vestire, la sua calma, la sua affannosa ricerca del compromesso, la sua lentezza nel prendere le decisioni, il suo rifiuto di una qualsiasi forma di populismo, cominciando dal trumpismo, e la sua fede nel futuro dell’Europa. Un po’ ci mancherà e probabilmente non sarà facile sostituirla.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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Politica e economia

la fiacca resistenza ai talebani

il personaggioAhmad Massud si oppone al nuovo regime dalla Valle del Panshir, come aveva fatto suo padre

Ahmad Shah. Ma gli mancano armi, cibo e medicine sufficienti a sostenere un assedio o fare una guerra Francesca Marino «Qualunque cosa accada, difenderemo il Panshir come l’ultimo bastione di libertà dell’Afghanistan. Il morale è alto, sappiamo da passate esperienze cosa ci aspetta». E ancora: «Sono il figlio di Ahmad Shah Massud, arrendersi non fa parte del mio vocabolario». Così il giovane Ahmad Massud, figlio del leggendario Ahmad Shah ucciso poco prima dell’11 settembre da un commando di Al Qaeda travestito da troupe televisiva, annuncia al mondo di aver preso il posto del padre. Lo annuncia con un editoriale sul «Washington post», tramite interviste e tweet di Bernard-Henri Lévy che da anni fa del suo meglio per rivestire padre e figlio di un alone romantico e romanzesco. Effettivamente Massud padre dell’eroe romantico aveva tutti i tratti: era bello, decentemente colto e capace di parlare agli occidentali facendo leva si tutti i tasti giusti. Massud, eroe della guerra contro i sovietici, comandava l’Alleanza del nord, una coalizione di afgani di etnia tajika e uzbeka che si opponeva, in seguito, ai talebani di etnia prevalentemente pashtun. Ed era riuscito, per tutti gli anni in cui i talebani hanno governato a Kabul, a mantenere la Valle del Panshir libera dall’influenza degli «studenti di teologia». Non vendendo lapislazzuli dalle sue miniere, come vuole la leggenda, ma con il più concreto aiuto di Tagikistan e Uzbekistan e soprattutto dell’India. Alcuni rapporti de-secretati di recente da Sigar (Special inspector general for Afghanistan reconstruction), confermano infatti quelle che a fino a poco fa erano soltanto voci: Massud si era incontrato a Dushambe con l’ambasciatore indiano, e durante la guerra l’India aveva inviato al «leone del Panshir» armi, munizioni, viveri e medicine via elicottero passando dal Tagikistan. Curiosamente negli ultimi tempi, da quando cioè Massud figlio ha an-

Due generazioni a confronto. (AFP)

nunciato la rinascita della resistenza nella valle, si sono diffuse voci non confermate di elicotteri che dal Tagiskistan atterrano nel Panshir. Le fonti più o meno ufficiali negano ma non si sa in realtà, in questo ultimo sviluppo della infinita guerra afgana, cosa davvero succeda nella zona. Ricapitolando: Massud figlio, che ha studiato all’Accademia militare di Sandhurst e si è poi laureato al King’s College di Londra, è tornato a casa per prendere il posto di suo padre. In Panshir è stato raggiunto da Amrullah Saleh, ex aiuto di Massud padre ed ex vicepresidente del Governo appena caduto in Afghanistan. Saleh, dal Panshir, ha annunciato di essere, secondo la Costituzione afgana, l’unico vero presidente del Paese dopo la fuga del presidente Ghani. Dichiarando che non si arrenderà mai ai talebani. Massud figlio e Saleh sono stati raggiunti nella valle da pezzi dell’esercito afgano regolare in fuga e da un

certo numero di ufficiali che non intendono arrendersi. Secondo quanto dichiarato da Massud figlio, l’esercito del Panshir dispone di «munizioni e armi che stiamo accumulando dal giorno della scomparsa di mio padre, sapendo che prima o poi questo giorno sarebbe arrivato». Secondo voci più o meno confermate, Massud dispone al momento di poche migliaia di uomini e, oltre alle armi di cui parla, delle armi portate dagli ex ufficiali dell’esercito. Troppo poche, se si arriverà a una guerra. I combattimenti, più che altro scaramucce, sono già cominciati ma le notizie sono frammentarie e contraddittorie visto che arrivano via social media, da account legati all’una o all’altra fazione, e spesso si smentiscono a vicenda. Di certo c’è soltanto che la Valle del Panshir è si un nido d’aquila difficilmente espugnabile, ma è anche facilmente assediabile. I talebani, a quanto pare con i membri della brigata

speciale Badri 313, assediano l’ingresso alla valle. E mentre da una parte e dall’altra si rilasciano dichiarazioni roboanti, vanno intanto in scena trattative più o meno segrete, cominciate a Islamabad giorni fa dal fratello di Massud padre, Ahmad Wali Massud.

Massud padre era fautore di un Islam appena meno radicale di quello dei talebani, non di una democrazia A quanto pare i Massud sono in rotta con i talebani sia per motivi ideologici che per la forma di Governo da scegliere. Parliamoci chiaro: nonostante le dichiarazioni del giovane Massud, cresciuto a Londra: «Abbiamo lottato per anni per avere una società aperta in cui

le donne possono diventare mediche, la stampa può essere libera, i giovani ballare e ascoltare musica» le cose non stanno esattamente così. Massud padre, così come suo fratello Ahmad Wali, era fautore di un Islam appena meno radicale di quello dei talebani, non di una democrazia all’occidentale. I suoi uomini sono stati accusati spesso, a Kabul, di violazioni dei diritti umani. Quindi la lotta ideologica tra le due fazioni si riduce a mere questioni di interpretazione della Sharia, la legge islamica. Diciamo, per semplificare, che i Massud sono più propensi a una Sharia del tipo pakistano. Per quanto riguarda la politica, Wali Massud chiede una forma di Governo inclusivo, una specie di federazione regionale, in cui i capi delle varie fazioni abbiano un certo grado di flessibilità e di potere decisionale. Le trattative sono in corso ma, ancora una volta, le notizie al riguardo sono incerte e contraddittorie. Per i talebani, a livello di immagine, avere il figlio del leggendario «Leone del Panshir» nel Governo, e poter quindi cantare vittoria anche sulla rinata Alleanza del nord, sarebbe la ciliegina su una torta già ricca. Per il ragazzo sarebbe una disfatta totale, visto che suo padre ai tempi aveva dichiarato: «io combatterò fino a quando mi rimarrà un palmo di terra, anche grande quanto un cappello». Difficile fare i conti con una leggenda, specie se è tuo padre. La verità è che il Panshir non ha né armi, né cibo, né medicine sufficienti a sostenere un assedio prolungato o a fare una guerra. A meno che non intervengano altri fattori. Pare che le lobby di alcuni Paesi, ma non è chiaro quali o a quale scopo, siano già in contatto coi Massud. Per il momento l’accordo, un accordo che salvi il buon nome della prole di Ahmed Shah Massud, e contemporaneamente consenta ai talebani di cantare vittoria, è l’ipotesi più probabile. Ma in Afghanistan, la storia lo ha messo in luce più volte, niente o quasi è come sembra. Non resta che aspettare.

litio, rame e oppio: i tesori di Kabul

l’analisi Con il ritorno al potere dei fondamentalisti è probabile che gli aiuti internazionali si riducano drasticamente.

Il Paese può però contare su un mondo che vive di tecnologia e sull’avanzata della Cina nell’economia mondiale Marzio Minoli Per vent’anni, da quando fu instaurata la democrazia nel 2001, l’economia afgana ha vissuto soprattutto grazie agli aiuti internazionali. Oggi, con il ritorno al potere dei talebani, questi aiuti potrebbero ridimensionarsi drasticamente. Usiamo il condizionale in quanto non è ancora chiaro quale atteggiamento avranno Cina e Russia di fronte al nuovo Governo. Ma queste sono questioni complesse. Qui vogliamo parlare di economia, ovvero di cosa vivranno in Afghanistan da oggi in poi.

Cominciamo con lo snocciolare qualche cifra per dare il quadro generale della situazione. Il Prodotto interno lordo afgano è di circa 20 miliardi di dollari. A titolo di paragone quello svizzero è di 750 miliardi. Ma ancora più vicino a noi, quello del Canton Ticino è di 25 miliardi. La grossa differenza è che in Afghanistan vivono 40 milioni di persone. Già solo questo dato ci mostra come a volere una fetta di torta, non delle più grandi, siano in molti. Ergo si tratta di uno dei Paesi più poveri del mondo. Come detto negli ultimi vent’anni a sostenere l’economia sono

Un contadino afgano davanti a un campo di papaveri nel distretto di Panjwaii. (Shutterstock)

stati principalmente gli aiuti esteri. Secondo un rapporto della Banca mondiale del marzo 2021, il settore privato è molto fragile. Basti pensare che il 44% della forza lavoro è impiegato nell’agricoltura e che almeno il 60% di ogni economia domestica ha il reddito, o parte del reddito, dipendente da questo settore. E fare business in Afghanistan non è facile. Il Paese occupa il 173. posto su 190 per quel che concerne le condizioni per poter operare. La spesa pubblica (sempre nel marzo 2021) era finanziata al 75% dagli aiuti internazionali e per il 30% si trattava di risorse impiegate per la sicurezza. Una cifra impressionante se si pensa che la media dei Paesi a basso reddito spende circa il 3%. Un Paese che non invoglia certo gli investitori esteri a spostare le attività entro i suoi confini. Negli ultimi due anni non ci sono stati investimenti esteri e dal 2014 ci sono stati solo quattro progetti «partiti da zero». Statistiche che sono state fornite dall’Onu. Come detto, con l’arrivo dei talebani probabilmente vi sarà un drastico taglio degli aiuti internazionali. Ma il disimpegno internazionale è iniziato almeno una decina di anni fa. Nel 2009 infatti gli aiuti internazionali erano praticamente il 100% del Pil. Nel 2020 questa percentuale era scesa al 42,9%, sempre stando ai rapporti della Banca mondiale. Non per nulla la cre-

scita economica è passata da una media del 9,4% nel periodo 2003-2012, al 2,5% tra il 2015 e il 2020. Meno aiuti, meno prosperità, se così vogliamo chiamarla, e parallelamente disimpegno militare graduale. E intanto i talebani avanzavano. Questa la fotografia dell’Afghanistan degli ultimi anni. Ma da oggi in poi l’economia come si evolverà? Rispetto al periodo 1996-2001 ci sono almeno due nuovi elementi che potrebbero giocare un ruolo molto importante per l’economica afgana. Il primo è che al giorno d’oggi il mondo vive di tecnologia. Smartphone, computer e via dicendo. Nel solo Afghanistan, secondo la Banca mondiale, l’accesso alla telefonia mobile nel 2002 arrivava all’1% della popolazione. Oggi siamo al 60%. Ma è così in tutto il mondo. E uno dei materiali fondamentali per questo settore è il litio, necessario per le batterie. Il sottosuolo dell’Afghanistan ne è pieno, tanto da far dire a un generale statunitense che il Paese può essere considerato «l’Arabia saudita del litio». Miniere che sono sempre esistite, come quelle di altri materiali, ma che a causa della forte instabilità di questi due decenni non sono mai state sfruttate adeguatamente. Un altro elemento di diversità degli ultimi vent’anni è la presenza preponderante della Cina sullo scacchiere economico internazionale. La Cina già

da qualche anno ha messo gli occhi (e le mani) su alcune miniere, soprattutto di rame. Ma, stando alle dichiarazioni di Pechino, prima di impegnarsi ulteriormente si vuole che il Paese raggiunga una certa stabilità. Una curiosità: l’industria del burka ora vivrà un secondo momento di espansione. Confezionare un burka è un lavoro che richiede molto tempo e dedizione. Ebbene, molte famiglie che hanno vissuto di questo da qualche tempo sono in grosse difficoltà. Infatti proprio i cinesi riescono a produrre burka in quantità molto maggiori e a prezzi decisamente inferiori, lasciando senza lavoro molte famiglie afgane. Altre importanti fonti di entrate sono tasse e balzelli che vengono imposti sui commerci legali transfrontalieri, ma non si può non citare il settore degli stupefacenti. L’Afghanistan è il più grosso produttore di oppio. Ne produce l’80% del totale mondiale. Nel 2020 la produzione è cresciuta del 37%, secondo l’agenzia Onu che si occupa di stupefacenti. Il fatturato, di tutte le droghe, è stato stimato in 6,6 miliardi di dollari. E l’importanza di questa voce è anche storica. Nel luglio 2001 il famoso Mullah Omar aveva proibito la coltivazione del papavero da oppio, salvo poi fare marcia indietro. Purtroppo la droga è una fonte troppo importante per il sostentamento di molte famiglie.


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Politica e economia

«non c’è più un posto sicuro» la testimonianza La nostra collaboratrice ricorda i suoi ultimi giorni in Afghanistan

e la fuga dei più fortunati. Intanto lo Stato islamico attacca l’aeroporto, simbolo di libertà

Francesca Mannocchi Giovedì scorso l’aeroporto di Kabul è stato colpito da attacchi kamikaze, rivendicati dallo Stato islamico, che hanno causato la morte di un centinaio di persone. Una decina di soldati statunitensi e molti più civili che tentavano di scappare dall’incubo incarnato dal ritorno dei talebani. La paura e l’istinto di fuga emergono sempre quando c’è la guerra. Già il giorno prima che i talebani entrassero a Kabul, la fila davanti all’ambasciata iraniana nelle prime ore del mattino era lunga centinaia di metri. L’Ambasciata turca aveva già sospeso il rilascio di nuovi visti, così come le ambasciate pachistana, tagika e uzbeka. C’erano file davanti alle banche, gente ansiosa di ritirare i propri risparmi. Molto prima che il presidente Ashraf Ghani lasciasse Kabul, su un volo con valigie contenenti milioni di dollari (secondo Reuters), circolavano voci sulla sua fuga. Le voci erano talmente tante che poco prima dell’entrata in città dei talebani, l’ormai ex presidente aveva registrato un video alla Nazione per promettere di unire le forze armate e le milizie di resistenza, invitando tutti a combattere il nemico. Molte parole poca sostanza. Quel video era più un modo per dire che non era ancora fuggito, un mostrarsi nel palazzo presidenziale, che una convinta e sicura strategia militare e politica. Purtroppo il minuto che avrebbe dovuto rassicurare il Paese e indebolire il nemico non ha sortito l’effetto desiderato. I talebani erano in città meno di tre giorni dopo. Qarib ha 30 anni, una moglie e due figli piccoli. Un buon lavoro anche. E dall’Afghanistan non vorrebbe uscire, c’è la sua vita, la sua comunità, i suoi risparmi, tutti investiti in una bottega e in una casa. Non avrebbe voluto scappare, ma era in fila all’ufficio passaporti a Kabul, il giorno prima che la città cadesse. Arrivavano notizie strazianti dai parenti lontani, dai familiari che vivevano sotto le aree controllate dai talebani, già da qualche settimana: donne segregate, scuole chiuse. Collaboratori degli americani trucidati. Attivisti scomparsi. Sua moglie per due anni aveva lavorato come traduttrice per un’organizzazione umanitaria internazionale, e Qarib pensa che anche lei sia in pericolo. Che rischi di finire come troppe donne, attiviste, freddate in questi anni. Punite per essersi esposte. «Devo portarli via, lei e i miei figli», dice. «Non mi perdonerei se accadesse loro qualcosa». Aveva ricevuto una telefonata, Qarib, mentre parlava con noi. Dopo aver chiuso la comunicazione aveva detto: «È caduta Maidan Sharh, ormai è questione di ore». Maidan Shahr è la capitale della provincia di Wardak, l’ultima porta prima di Kabul. «Non è più questione di se, è solo questione di quando», aveva detto Qarib. Una profezia. «Non sarà difficile entrare per i talebani perché hanno bisogno delle truppe occidentali e contemporaneamente non ne

L’attacco del 26 agosto ha causato un centinaio di vittime. (Shutterstock)

possono più. Ma ora sta vincendo il secondo sentimento: non ne possono più di voi». Anche noi avevamo respirato la medesima sensazione pochi giorni prima e proprio a Maidan Sharh, porta fortificata di Kabul. Avevamo assistito ai funerali di due soldati uccisi dai talebani. Le due bare erano disposte in una stanza adiacente alla base delle forze speciali dell’esercito afgano. Circa 50 uomini pregavano in ginocchio. La vista di due occidentali giunti in Afghanistan per raccontare le conseguenze del ritiro delle truppe statunitensi ha suscitato una palese ostilità tra gli afgani: «Ci avete invaso, ci avete illuso con la vostra libertà e poi ve ne siete andati. E ora avete ripreso a bombardarci con i vostri B-52. Andate via, non siete più i benvenuti», ci aveva gridato un uomo in fondo alla stanza. Gli altri, prima silenziosi, si erano uniti al coro: «Andate via!».

I talebani ostentano il loro «volto presentabile», un messaggio per le potenze straniere che abbandonano il Paese Era vero. Gli americani avevano ricominciato a bombardare le posizioni talebane con i B-52. Spiegare agli afgani quale fosse il senso di quei bombardamenti mentre i talebani si prendevano il Paese non era possibile. Non capivano loro, non capivamo noi. Ma ci era chiaro, camminando nel Paese, che Kabul era questione di ore, non di mesi come sosteneva il Pentagono. Il 14 agosto Maidan Shahr è caduta. Il governatore, che fino a poche ore prima si mostrava tronfio e battagliero, pronto a riunire le truppe contro il nemico, era fuggito coi suoi uomini, in salvo. Mentre Kabul si preparava alla

sua notte peggiore, era chiaro che il Paese stesse per dividersi tra chi poteva garantirsi una fuga in sicurezza all’estero e chi era destinato a fare i conti con nuovo futuro, quello in mano ai talebani. «Non c’è via d’uscita e non c’è un posto dove andare», «non c’è un posto sicuro in Afghanistan». Sono le frasi che più abbiamo ascoltato in quasi venti giorni di Afghanistan. La notte del 15 agosto Kabul è scoppiata di rumore e paura. Il rumore era quello del ponte aereo che spostava i dipendenti dell’ambasciata americana verso l’aeroporto. La paura quella dei cittadini di Kabul che apprendevano le notizie dalla tv e dai social: i talebani sono a 12 km, i talebani hanno assaltato la prigione liberando i prigionieri, i talebani occupano i distretti di polizia. I talebani hanno preso la città. Tanto più si faceva alto il rumore delle evacuazioni, tanto più gli afgani si riversavano all’aeroporto (nemmeno quello un posto sicuro). L’Occidente era in fuga e i talebani, ormai vittoriosi, mettevano in scena la loro versione presentabile. Nella sua prima comunicazione pubblica dopo la caduta di Kabul, persino il mullah Abdul Ghani Baradar, il nuovo presidente ad interim, ha assunto un tono non ostile. «Abbiamo raggiunto una vittoria che non ci aspettavamo», ha detto in un messaggio ai talebani. «Dobbiamo mostrare umiltà davanti ad Allah. (...) Ora è il momento dei test, ora si tratta di come serviamo e proteggiamo le persone e assicuriamo loro una buona vita al meglio delle nostre capacità». Ma queste comunicazioni, che ormai vanno avanti da tempo, sembrano rivolte non tanto ai cittadini afgani quanto alle potenze straniere. Quelli che non corrono rischi, che se ne stanno andando. E che hanno tempo per andarsene fino al 31 di agosto. Le ambasciate occidentali si sono affrettate a evacuare i propri cittadini, compresi

gli operatori umanitari internazionali, aggravando i problemi per gli afgani. La grande popolazione di sfollati interni dovrà ora fare a meno degli aiuti esteri e dell’illusione di libertà cui aveva creduto per vent’anni. È caduta Kabul e insieme a lei è caduto il Governo Ghani, corrotto, imposto, delegittimato, non amato. È caduta Kabul e sono già in fuga tutti i signori della guerra che fino a pochi giorni fa giuravano di essere disposti a versare fino all’ultima goccia di sangue per difendere il Paese dalla furia oscurantista. Oggi osservano quella furia impadronirsi del Paese dal comodo, temporaneo esilio. Qualcuno resterà via, qualcuno tratterà con il nemico. Cade Kabul e chi può scappa. Nel Paese, troppo umili, troppo ordinari, restano milioni di cittadini in balia della paura, con una moneta in caduta libera, un’economia che dipende dagli aiuti internazionali, e metà del Paese che vive in uno stato di bisogno. Restano lì, come il nostro traduttore, collega, amico, che non abbiamo fatto in tempo ad abbracciare. Bevevamo tè insieme poche ore prima che ci sfollassero. Non abbiamo fatto in tempo a salutarci. «Sarà per la prossima volta», ci siamo detti al telefono in questi giorni. Mentre noi eravamo al sicuro e lui nascosto in casa per paura di ritorsioni, perché ha lavorato come traduttore e autista per i giornali internazionali. «Alla prossima volta», ho risposto io, scaramanticamente, o forse con l’ingenuità di una speranza che serve a mascherare il timore che non sia così. Il giorno del nostro arrivo a Kabul, mentre ci accompagnava in hotel, in quella che sarebbe diventata la nostra dimora blindata e protetta per qualche settimana, ci aveva detto: questa è la differenza tra noi e voi. Voi potete proteggervi, noi no. Oggi è quanto mai vera. Noi siamo potuti andare via, lui e altri milioni di afgani no.

fra i libri di Paolo a. Dossena sonia ahsan-Tirmizi, Pious peripheries: Runaway women in post-taliban Afghanistan (stanford University Press, maggio 2021) La famiglia di Sonia Ahsan-Tirmizi, l’autrice del libro, aveva un’amica chiamata Samia Sarwar. Questa giovane pachistana, dopo essere stata obbligata a sposare suo cugino, è fuggita nascondendosi in un rifugio per donne gestito dall’attivista Asma Jehangir. Ma la donna è stata rintracciata e assassinata dalla madre. Questo omicidio del 1999 è diventato il soggetto di studi accademici anglo-americani, lavori scritti a distanza e che mancano di un dato centrale, quello etnografico. Quei saggi hanno tirato in ballo l’Islam, ma Samia e la sua famiglia erano dei laici benestanti e istruiti. La famiglia dell’autrice e quella di Samia erano cresciute nella parte secolare, colta e ricca di Peshawar, città pachistana dove si pratica il golf. Le ragazze dei due nuclei familiari studiavano in una scuola «progressista». Dopo la morte di Samia, la cugina (a sua volta data in sposa a un primo cugino) e la zia dell’autrice sono morte in circostanze analoghe. Tra le cose che queste e molte altre tragedie hanno in comune c’è l’incomprensione dei media occidentali sul loro significato, che può essere compreso anche tramite l’etnologia. Scesi dall’Altai, i nomadi turchizzarono l’Asia centrale, strappandola alle popolazioni iraniche autoctone, agricole e stanziali, che furono sospinte più a sud, dove sono tutt’ora, nella cintura che va dall’Iran al Tagikistan attraverso Afghanistan, Uzbekistan del sud e Pakistan. Tuttavia quando si parla di popolazioni iraniche si indica una pluralità di sotto-etnie, ad una delle quali appartiene l’autrice del saggio. Sonia Ahsan-Tirmizi è un’antropologa dell’etnia iranica pashtun e questo è il primo libro di etnologia sulle donne pashtun (insediate tra Afghanistan sudorientale e Pakistan occidentale) scritto da una donna pashtun. Le morti descritte in precedenza sono il risultato di vari fattori, uno dei quali è il Pashtunwali, il codice d’onore della vita pashtun, legge comune più antica dell’Islam che governa quelle antiche tribù claniche e patriarcali dalla notte dei tempi. Il regime talebano dell’Afghanistan (dal 1996 al 2001) era una creatura dell’etnia pashtun, combinando l’Islam radicale al Pashtunwali con lo scopo di sottoporre le donne a una doppia pressione. Il nucleo della narrazione del saggio riguarda le vicende di donne pashtun che scappano di casa trovando riparo nel rifugio per donne di Kabul. È laggiù che l’autrice ha fatto ricerca sul campo, raccogliendo le testimonianze delle donne che fuggivano dai talebani. Sullo sfondo della narrazione rimane l’etnologia, importante chiave interpretativa del libro. Il Pashtunwali è una severa legge che definisce anche l’esistenza delle donne del rifugio di Kabul, le quali, formando legami di solidarietà tra loro, resistono a quel codice d’onore e allo stesso tempo lo potenziano. Il saggio è scritto secondo criteri rigorosamente accademici. Ricco d’informazioni inedite, può insegnare qualcosa di nuovo. Annuncio pubblicitario

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Politica e economia

Joe Biden solo contro tutti

l’analisi Il presidente appare come una figura di transizione, con la missione quasi impossibile di ridimensionare

il ruolo globale degli Usa senza che questo appaia troppo umiliante. Ma qual è la vera genesi della débâcle di Kabul?

Federico Rampini Il 26 agosto 2021, la giornata più tragica dell’ultimo decennio per gli americani in Afghanistan, segna anche il punto più basso toccato finora da Joe Biden. Ma non esistono ritirate gloriose. E non può essere un bello spettacolo, l’abbandono della periferia di un impero che era ormai al di sopra della forza reale dell’America, nonché inadeguato alle sfide del domani. Biden appare come una figura di transizione, con la missione quasi impossibile di ridimensionare il ruolo globale degli Stati uniti senza che questo appaia troppo umiliante. L’essere stato il vice di Barack Obama nella Situation room quando venne ucciso Osama Bin Laden, rende abbastanza affidabile anche la sua promessa di fare giustizia colpendo i responsabili della strage di marines e civili a Kabul. Ma il capo di Al Qaida venne giustiziato il 2 maggio 2011 cioè quasi dieci anni dopo l’attacco dell’11 settembre. Può Biden placare la sete di giustizia in tempi più rapidi? Lo scenario più virtuoso include un ruolo attivo dei talebani, interessati ad accreditarsi all’estero e magari anche a sbloccare un po’ di fondi sequestrati nelle banche americane. Un fattivo aiuto dei talebani sul terreno potrebbe forse aiutare a punire i terroristi dell’Isis-K in tempi ravvicinati. Ma neanche i talebani sono onnipotenti, tant’è che l’Afghanistan ha continuato ad essere il teatro di attentati e stragi contro la popolazione civile, anche durante quella tregua in cui le forze Nato venivano risparmiate.

Un fattivo aiuto dei talebani sul terreno potrebbe forse aiutare a punire i terroristi dell’Isis-K in tempi ravvicinati Quello che Biden esclude è di inviare altre truppe con la missione di dare la caccia ai terroristi: sarebbe un altro modo per darla vinta al Pentagono e ritornare allo scenario della «Guerra dei cent’anni», come la chiamò John Mc-

Non esistono ritirate gloriose. (Shutterstock)

Cain, un falco repubblicano che era un alleato di ferro dei generali, ma al punto da trarre le estreme conseguenze del loro disegno: trasformare l’Afghanistan in una colonia o un protettorato americano. Il coro di critiche contro Biden si fa sempre più assordante. I repubblicani pronunciano la parola impeachment, com’era prevedibile in un Paese dove il «loro» leader ne subì ben due in un solo mandato. Con una decina di morti sulla coscienza, il comandante supremo delle forze armate che è il presidente degli Usa è per forza macchiato, indebolito. Tenere duro sul progetto di lungo periodo forse è l’unica cosa che gli resta da fare, nella speranza che i tempi della storia partoriscano un giudizio diverso. La storia a volte gioca degli scherzi a chi tiene lo sguardo incollato sull’attualità. La caduta di Hanoi nel 1975 – spesso evocata a sproposito nei paragoni con la débâcle di Kabul – fu seguita 14 anni dopo dal trionfo americano nella guerra fredda. Ma qual è la vera genesi della

débâcle di Kabul? A sguarnire il dispositivo militare Usa sul terreno chiudendo la base aerea di Bagram sono stati i generali. Gli stessi che per 20 anni hanno «allevato» un esercito afgano che poi si è squagliato in 20 giorni. La trappola per Biden è classica: per eseguire una decisione rischiosa e traumatica, ha dovuto affidarsi alla classe dirigente che aveva voluto e applicato la strategia opposta. Il Pentagono non ammetteva di aver sbagliato, ha continuato a favoleggiare di un esercito regolare afgano che avrebbe resistito almeno uno o due anni. Con 715 miliardi di budget annuo «ordinario» e 33 livelli di burocrazie stratificate ai suoi vertici, il Dipartimento della difesa è il classico organismo autoreferenziale, che nutre se stesso, seleziona per cooptazione, premia il conformismo, non ama gli innovatori, odia ammettere di avere sbagliato. Attorno alla lobby militare ne sono cresciute altre. Biden viene processato dai colpevoli del disastro afgano che allignano in tutto l’establishment di

politica estera: la élite globalista – repubblicana e democratica – che pratica il «groupthink», il conformismo del pensiero unico internazionalista. È l’establishment globalista, organico a una visione bipartisan del ruolo «imperiale» degli Stati uniti, contro cui Biden si scontrò invano nel 2009-2016. La compattezza bipartisan dell’establishment globalista ebbe come simbolo la decisione di Barack Obama di confermare come segretario alla Difesa un repubblicano dell’era Bush, Robert Gates. Lo shock dell’elezione di Trump nel 2016, la rinascita di una corrente isolazionista di destra nella politica estera, ha fatto uscire allo scoperto anche una nuova leva di democratici con una visione strategica molto diversa da quella che dominò sotto i vari Roosevelt, Truman, Kennedy, Carter, Clinton. Il ricambio generazionale e culturale ha portato alla guida del National security council il 44enne Jake Sullivan, fautore di «una politica estera nell’interesse dei lavoratori ameri-

cani». Lo slogan può sembrare trumpiano, in realtà attinge a una corrente teorica che ha solide radici in campo democratico. Paul Kennedy cominciò in Ascesa e declino delle grandi potenze ad avvisare l’establishment americano contro i pericoli della hybris imperiale: ricordando quanti imperi del passato morirono di «overstretching», collasso economico per l’eccessiva dilatazione della presenza militare. Nella squadra di Jake Sullivan una lettura obbligata in questi giorni è The long game di Rush Doshi. È la ricostruzione della lunga marcia della Cina verso la sua potenza attuale: per decenni Pechino ha dissimulato le sue intenzioni, ha esibito modestia nello stile diplomatico, ha concentrato gli sforzi sulla costruzione della sua forza economica, ha evitato ambizioni irrealistiche e spese inutili, ha minimizzato le aspettative degli avversari. Solo contro tutti? Per Biden è una situazione familiare. La stessa in cui si trovò nel 2009-2010. Era vicepresidente quando il Pentagono pretese di ovviare ai tanti segnali di fallimento in Afghanistan con una massiccia escalation di truppe. Obama ricorda quella vicenda nelle sue memorie, anche negli aspetti imbarazzanti: «Fu la più gigantesca operazione di lobbying e relazioni pubbliche scatenata dai militari verso la presidenza degli Stati uniti». Riuscirono a piegare Obama, che ammette oggi di non avere avuto la forza politica (eletto da un anno, giovane, afroamericano, «e non avevo mai fatto il servizio militare») per resistere alla pressione del Pentagono. Obama con un decennio di ritardo nel suo libro di memorie ha dato ragione a Biden. Prolungare l’avventura militare in Afghanistan era sbagliato già allora. Il presidente «solo contro tutti» è convinto che l’opinione pubblica americana abbia abbandonato da tempo le illusioni imperiali, i sogni di gloria su un’America «iper-potenza» capace di raddrizzare i torti e guarire le ingiustizie a ogni angolo del pianeta. Già Obama nel 2009 aveva promesso ai suoi che «il nation-building si farà a casa nostra, è qui che abbiamo una Nazione da ricostruire alle fondamenta». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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Politica e economia

Verrà soppressa l’imposta preventiva sulle emissioni di obbligazioni? fiscalità Il progetto del Consiglio federale, con alcune modifiche in Commissione, sembra avviato sulla buona

strada. Favorirà la piazza finanziaria, con perdite fiscali limitate.

Ignazio Bonoli Con la scomparsa del segreto bancario (per i capitali esteri) e i timori che ciò possa avvenire anche sul piano interno, ma soprattutto grazie alla vasta amnistia fiscale, il problema del sistema di prelievo alla fonte dell’imposta sui redditi da capitale può aver perso d’importanza in Svizzera. Resta però aperta una questione importante per la piazza finanziaria. Le grandi imprese svizzere preferiscono spesso raccogliere denaro sotto forma di prestiti, all’estero, appunto per evitare che i sottoscrittori di queste obbligazioni si vedano sottratto il 35% di imposta preventiva sui redditi, per un prestito emesso in Svizzera. È questo uno dei motivi (forse il principale) per cui il Consiglio federale ha riproposto il tema (vedi «Azione» 28.9.2020). Trascorso il periodo di consultazione del nuovo progetto, ora il testo definitivo è all’esame delle Camere federali. Questa volta, a quanto sembra, con buone prospettive di riuscita. Infatti, la Commissione dell’economia del Consiglio nazionale, con qualche piccola variazione, ha accettato il progetto del Consiglio federale con 17 voti contro 8. Una delle modifiche chiede la soppressione dell’imposta preventiva sulle obbligazioni svizzere che sono detenute da fondi di investi-

mento, a patto che i rendimenti vengano segnalati a parte. Inoltre chiede la soppressione della tassa di transazione, oltre che sulle obbligazioni svizzere, anche su quelle estere con scadenza entro dodici mesi.

Secondo «Swiss Holding» la riforma farà sì che numerose imprese straniere trasferiranno in Svizzera operazioni oggi compiute all’estero In Parlamento il rapporto commissionale dovrebbe essere accettato quasi unanimemente dal centro-destra, mentre verrebbe respinto dalla sinistra. Quest’ultima lamenta un calo delle entrate fiscali e un eventuale aumento dell’evasione fiscale. Cosa che i sostenitori della riforma negano, perché ci sarebbe comunque già oggi il modo di evitare imposte da pagare e perché oggi i redditi da interessi sono così bassi da non giustificare il rischio di un’evasione. Un eventuale referendum non sarebbe comunque da escludere. Come già avvenuto per la soppressione della

tassa sulle emissioni per il capitale proprio, la sinistra potrebbe usare la riforma dell’imposta preventiva, inserendola nel discorso generale contro i «regali fiscali ai ricchi», senza però tener conto che l’imposta non viene pagata dalle società, ma va a carico dell’investitore. In Commissione è sorto anche il problema del segreto bancario. Questo perché a un certo punto delle discussioni è stata portata l’idea di introdurre un sistema di denuncia dei redditi da interessi e dividendi. Si è però ricordato che un simile provvedimento smentirebbe la promessa di non sopprimere il segreto bancario interno, che avrebbe favorito il ritiro dell’iniziativa nel 2018. La proposta è stata respinta in commissione oltre che per questo motivo, anche perché in ogni caso il reddito da interessi è oggi già soggetto all’obbligo di denuncia. Per contro, la «Swiss Holding», associazione che riunisce una sessantina di operatori internazionali dell’industria e dei servizi, ritiene la riforma di grande importanza. Grazie ad essa, le imprese trasferiranno in Svizzera operazioni che oggi vengono fatte all’estero e questo provocherà un aumento di gettito fiscale. Un’inchiesta interna all’associazione indica che l’80% delle imprese pensa che la riforma avrà effetti positivi per la Svizzera e due terzi di esse prevedono un aumento delle loro

Al nazionale, è previsto un sì del centro-destra e un no della sinistra. (Keystone)

attività finanziarie in Svizzera. La prevista soppressione dell’imposta preventiva, infatti, dovrebbe favorire un aumento delle attività di finanziamento di gruppi residenti in Svizzera e, quindi, anche un miglioramento della piazza finanziaria. La soppressione della tassa sulle transazioni e obbligazioni svizzere (anch’essa prevista dal Consiglio federale) dovrebbe pure contribuire a questi miglioramenti. Sul piano fiscale si prevede un effetto finanziario unico di circa un miliardo di franchi. Questo perché nella fase

transitoria ci saranno ancora restituzioni dell’imposta pagata in precedenza, mentre la Confederazione non ne incasserà di nuove. Il buco è però compensato con riserve contabili. Le minori entrate nette, se non si verificano sostanziali modifiche nei comportamenti, vengono valutate in 200 milioni all’anno. Ma uno studio del BAK dice che le perdite saranno assorbite in quattro o cinque anni, grazie all’effetto positivo della riforma sull’economia che, a sua volta, genererà nuove entrate fiscali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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Politica e economia

l’economia statunitense si mantiene in forma la consulenza della Banca migros

Thomas Pentsy

continua la ripresa del mercato del lavoro statunitense Continua la ripresa del mercato del lavoro statunitense

16 % 14 % 12 % 10 % 8% 6% 4% 2% 0% 2016

2017

2018

2019

2020

Tasso di disoccupazione

ce è rimasto al di sotto del suo massimo recente, pur rimanendo in linea con una forte dinamica economica. Nel complesso si tratta di un solido inizio per il terzo trimestre dell’anno. Tuttavia, data l’elevata crescita economica storica e l’indebolimento dell’effetto degli stimoli, è inevitabile

un certo rallentamento, ma la crescita rimane vigorosa. Il mercato del lavoro statunitense dovrebbe pertanto continuare a progredire nei prossimi mesi. Grazie alla netta ripresa degli utili, le imprese statunitensi possono assumere nuovi dipendenti. L’elevata fiducia delle

2021 Fonte: Bloomberg

Fonte: Bloomberg

Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros

La variante Delta del coronavirus si sta diffondendo rapidamente, offuscando le prospettive di crescita dell’economia mondiale. Tuttavia, le prospettive per l’economia statunitense rimangono incoraggianti. La fiducia delle imprese e dei consumatori è tornata ai livelli precedenti allo scoppio della pandemia di coronavirus, mentre il mercato del lavoro continua a riprendersi. A luglio le aziende statunitensi hanno creato 943 000 nuovi posti di lavoro, molti di più del previsto. Soprattutto i settori come quello del tempo libero e quello alberghiero, i quali hanno risentito pesantemente della crisi del coronavirus, hanno segnalato notevoli incrementi di posti di lavoro. Di conseguenza, il tasso di disoccupazione è sceso dal 5,9% al 5,4%, registrando il calo più significativo da ottobre 2020. Questo significa che l’economia statunitense ha nel frattempo recuperato circa il 75% dei posti di lavoro persi a seguito della pandemia. Tuttavia, vi sono ancora circa 5,7 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a febbraio 2020. L’indice dei direttori degli acquisti per il settore dei servizi ha raggiunto il massimo storico a luglio, mentre per l’industria manifatturiera l’indi-

imprese indica che queste sono anche disposte ad investire. Infine, secondo il cosiddetto rapporto JOLTS, negli Stati Uniti vi sono 10,1 milioni di posti vacanti per i quali non si riescono a trovare candidati idonei e questo lascia presagire che la creazione di posti di lavoro continui a rimanere solida. Annuncio pubblicitario

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Politica e economia Rubriche

il mercato e la Piazza di Angelo Rossi covid 19, chi paga la fattura A causa della pandemia le economie del mondo intero funzionano, da più di un anno, in modo irregolare. Vi sono state sospensioni di attività, imposte dal diffondersi del virus. Vi sono stati lunghi periodi di lavoro a domicilio che pure hanno influito negativamente sull’evoluzione della produzione e della produttività. Gli approvvigionamenti in materie prime e semifiniti sono stati interrotti o ridotti in misura significativa e continuano a non funzionare secondo le esigenze del sistema «just in time», oramai diffuso in molte grandi aziende. I ritardi e i mancati rifornimenti, determinati dalla chiusura temporanea delle frontiere e dai numerosi controlli imposti dal diffondersi della pandemia, disturbano l’evoluzione

regolare delle attività di produzione, fanno aumentare i costi e si traducono, mese per mese, in un aumento del livello dei prezzi, del lavoro a tempo ridotto e della disoccupazione. Recentemente Hansueli Schöchli ha cercato di tracciare, sulla NZZ, un bilancio d’assieme di questi costi per l’economia del nostro paese, tentando inoltre di individuare quali gruppi di agenti siano stati chiamati, sin qui, a pagare la fattura. Si tratta di una stima aggregata azzardata perché, come ognuno può ben pensare, non esiste nessuna contabilità per il Covid. Secondo lui i costi economici della pandemia dovrebbero raggiungere nei due anni, 2020 e 2021, i 45 miliardi di franchi e sarebbero stati sopportati da tre gruppi di agenti: i lavoratori,

ossia le perdite di salario determinato dal mancato aumento dell’effettivo di occupati. La quota di costi più importante è stata però presa in conto dallo Stato. Così la Confederazione, per i due anni 2020 e 2021, pagherà circa 25 miliardi per indennità di lavoro a orario ridotto, indennità per perdita di guadagno da parte di lavoratori indipendenti e aiuti finanziari alle aziende in gravi difficoltà. A questo montante bisogna aggiungere il calo delle entrate fiscali di Confederazione, Cantoni e Comuni e possibili perdite su fideiussioni Covid. In tutto Schöchli calcola che lo Stato dovrà finanziare costi per circa 30 miliardi di franchi. Il resto dei costi, ossia qualcosa tra gli 8,25 e i 10 miliardi è rappresentato da perdite e diminuzioni di guadagni

che dovrebbero andare a carico delle aziende. Le riflessioni del giornalista della NZZ si fermano a questo punto. Ma chi conosce le finanze dello Stato sa che l’imputazione dei costi del Covid non si fermerà qui. La quota dei costi sopportata dallo Stato si ripercuoterà dapprima in aumenti dei deficit e dei debiti pubblici e, in seguito, dovrà essere ammortizzata con i mezzi che lo Stato può procurarsi attraverso il fisco. Col tempo quindi anche la parte più importante dei costi della pandemia ricadrà sulle spalle dei lavoratori e degli imprenditori. È inoltre chiaro che gli imprenditori, in parte, potranno spostare il loro carico di costi sui consumatori attraverso aumenti dei prezzi. Alla fine, insomma, a pagare sarà, come sempre, il povero Pantalone.

Joe Biden ha fallito la gestione del ritiro. (Shutterstock)

chi ha sbagliato di più tra Bush che disperse le forze, Obama che autorizzò escalation inutili, Trump che condusse negoziati maldestri e Biden che ha fallito clamorosamente la gestione operativa e mediatica del ritiro. Il paragone con Saigon 1975 è suggestivo ma improprio. Là non c’era una galassia di fazioni come quella che per semplicità chiamiamo talebani. C’era il governo filosovietico di Hanoi con cui negoziare. All’epoca Nixon e Kissinger capovolsero la partita geopolitica, avviando il dialogo con Mao, riconoscendo la Cina popolare, spaccando il fronte comunista (e Pechino sarebbe arrivata a combattere con il Vietnam una guerra di confine). A quel punto, tenere Saigon a ogni costo non era più una necessità strategica e gli alleati sudvietnamiti vennero abbandonati al loro destino. Oggi il Vietnam è una potenza capitalista, che ha superato la Germania per numero di abitanti e dialoga con l’Occidente. Ma Biden e la nuova Amministrazione democratica non hanno compiuto alcun progresso significativo nel rapporto con il mondo islamico. Anzi, ereditano le conseguenze del disimpegno di Trump dal

Nord Africa e dal Medio Oriente, dove il vuoto purtroppo non è stato riempito dall’Europa ma nell’immediato dalle potenze regionali – Turchia, Arabia Saudita, Iran – e in prospettiva da Russia e Cina. Il problema è che proprio sull’Europa gravano ora le principali incognite, sia in termini di migrazioni – davvero tutto quello che Angela Merkel ha da proporre è un altro assegno a Erdogan perché si tenga i profughi? – sia in termini di contrasto al terrorismo islamista, che in questi anni ha colpito duramente in quasi tutte le capitali, arrivando a ribaltare l’esito delle elezioni spagnole del 2004 e a cambiare la storia francese con lo shock del Bataclan. In Italia alcuni esponenti politici che non saprei se definire ingenui o irresponsabili hanno fatto un’apertura di credito ai talebani, confidando nel fatto che siano cambiati. Ovviamente con il nemico si parla, da sempre. Dialogare è inevitabile. Quel che non si può fare è fingere che il nemico sia diverso da ciò che è. I talebani apriranno ai russi, forse ai cinesi. Ma dopo vent’anni di guerra non diventeranno certo amici dell’Occidente di punto in bianco e senza contropartite.

tra «terre alte» e «terre basse» (il testo è consultabile come epaper sul sito www.coscienzasvizzera.ch). L’autore ricorda che lo spopolamento delle valli aveva allarmato l’opinione pubblica già nella seconda metà dell’Ottocento, in concomitanza con i forti espatri verso l’Australia e la California, fenomeno grave sia in termini quantitativi sia in termini socio-economici, giacché privava la fascia alpina di preziose risorse umane. Quell’esodo colpì per la sua ampiezza, ma le partenze proseguirono in modo surrettizio anche nel ventesimo secolo. I distretti montani, con in testa Leventina, Blenio e Vallemaggia, continuarono a perdere abitanti, sia pure con percentuali diverse. Quella leventinese è stata l’emorragia che ha maggiormente sfibrato la comunità locale, giacché nonostante gli sforzi e i piani di rilancio, in parte legati ad AlpTransit, è rimasta ai bordi dell’accelerazione urbana. Vedremo se i cantieri aperti, o in fase di apertura, riusciranno ad invertire la tendenza,

soprattutto nell’alta valle. Il vuoto non è soltanto demografico, anche se questo dato colpisce per la sua crudezza. Interrogare la demografia vuol dire infatti aprire molte finestre sullo stato di salute di una comunità, sul suo spirito imprenditoriale, sulla capacità di avviare iniziative, sulla sua vivacità culturale. Ogni programma, anche il più innovativo, è destinato a fallire in assenza di un adeguato sostrato di forze vive, giovani e creative. Un tempo, ricorda ancora Lorenzetti, la montagna dialogava ad armi pari, o quasi, con la città. In ogni paese c’erano scuole, osterie, negozi di alimentari, uffici postali; nei centri più popolosi, come a Faido, sorgevano eleganti alberghi in grado di attirare la buona borghesia sin da Milano; e gli ospedali non erano ancora considerati una zavorra insostenibile. Poi, certo, a dare una mano c’era la Confederazione, la Berna delle FFS, delle PTT e dell’esercito, per molte economie domestiche una manna.

Ora tutto questo ha subìto un forte ridimensionamento, accentuando sentimenti di sfiducia e talvolta di astio verso le autorità. Ricette pronte all’uso non esistono, ma già l’approccio scelto da Lorenzetti nel suo saggio suggerisce una possibile soluzione: fare in modo che la montagna possa riprendere a vivere sulla base di un oculato ripopolamento e di politiche che valorizzino le risorse locali. Alcuni segnali sono già visibili, come il micro-esodo dagli agglomerati urbani provocato dalla pandemia (telelavoro), la riscoperta di coltivazioni abbandonate, il turismo di prossimità fondato sul rispetto. Ma sicuramente contrapporre la città alla campagna non ha senso. «Solo appoggiandosi alle città – sottolinea Lorenzetti – i territori montani potranno diventare sedi di processi di innovazione e di apprendimento, in cui la città è chiamata a mediare i rapporti con le reti sovralocali e a interagire con le peculiarità dei territori locali».

le aziende e lo Stato dove, per Stato, si intende, come nella contabilità nazionale, l’aggregato della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni. Sempre stando alle stime di Schöchli dal 10 al 15% di questa somma, ossia dai 4 ai 6.75 miliardi, sarebbero andati a carico dei lavoratori. Si tratterebbe di perdite di salario di diversa origine che non si sarebbero registrate se non ci fosse stata la pandemia. Precisiamo che queste perdite corrispondono alla somma delle perdite di salario dei lavoratori occupati nella nostra economia con la perdita di salario subita dall’effettivo supplementare di lavoratori che avrebbero potuto essere impiegati se la stessa non ci fosse stata. Stando a Schöchli, dei due fattori di questa somma il più importante è stato il secondo,

in&outlet di Aldo Cazzullo in afghanistan senza troppo impegno Come si può essere così feroci, diciamo pure così cattivi, da colpire una folla inerme che tenta di entrare nell’aeroporto di Kabul per sfuggire a morte certa? Eppure è accaduto. Un altro evento terribile, che rende ancora più grave il bilancio di quanto è successo. La discussione su un fatto epocale come la caduta di Kabul e l’umiliazione dell’Occidente deve partire però dal chiarimento di un equivoco. Venti anni fa in Afghanistan non ci fu nessuna vittoria occidentale, americana o della Nato. Ci fu una serie massiccia di bombardamenti Usa che colpirono duramente i talebani e diedero ai loro nemici interni la forza di entrare a Kabul, che cadde nello stesso modo repentino e inatteso di queste settimane. I nuovi padroni vennero definiti impropriamente l’Alleanza del nord, e tra loro primeggiava quel Dostum di cui adesso si finge di scoprire che non era un sincero liberaldemocratico con la casa piena di libri, ma un capoclan che arredava la sua reggia con il gusto e il senso del bello appunto di un capoclan. All’indomani dell’attacco alle Torri gemelle, l’America in sostanza intervenne in una guerra civile afghana, che

si combatteva da tempo, spostandone gli equilibri a sfavore di un regime che proteggeva Osama Bin Laden. Nei venti anni successivi le truppe occidentali si limitarono, con alcuni contrattacchi quando la situazione si faceva troppo difficile, a contenere e di fatto rinviare la riscossa dei talebani, i quali adesso – con il ritiro giustappunto dell’aviazione Usa e dei contractors che consentivano a quella afgana di volare – si sono presi una rivincita di cui erano incerti i tempi, non la sostanza (tutto questo ovviamente non rappresenta un’attenuante per l’Occidente, semmai un’aggravante). La vera guerra americana è sempre stata quella irachena. In Iraq i diversi presidenti – a cominciare da Bush junior, che con Saddam aveva ereditato dal padre un conto aperto – hanno profuso una quantità di risorse, armi, uomini ed energie incomparabile rispetto all’Afghanistan. E in effetti, pur dopo immenso dolore, oggi a Baghdad c’è un Governo – sciita, com’è ovvio che sia in un Paese dove la maggioranza sciita era stata tenuta a lungo sotto il tallone della cricca sunnita del dittatore – che bene o male regge, nonostante il disimpegno americano in corso.

Resta, quella irachena, una guerra che era meglio non fare. Ma in Iraq oggi davvero di Saddam non resta nulla, tanto meno nelle regioni settentrionali dove il coraggioso popolo curdo si è conquistato un’ampia autonomia. In Afghanistan l’America si è mossa sempre senza impegnarsi sino in fondo, senza affrontare davvero il nemico o supposto tale; e non si saprebbe dire

cantoni e spigoli di Orazio Martinetti obiettivo: riabitare la montagna Le ormai celebri esternazioni del presidente dell’Udc nazionale, Marco Chiesa, sul rapporto, a suo dire unilaterale e malsano, tra la città e la campagna hanno riacceso i riflettori su un groviglio di questioni che ha accompagnato come un torrente carsico l’evoluzione della Confederazione fin dall’epoca rinascimentale. Tensioni, disagi e conflitti non sono mai scomparsi; anzi, come testimonia l’agenda politica, guadagnano la luce a scadenze regolari, che si parli delle residenze secondarie o dei canoni d’acqua, della gestione del lupo o delle sovvenzioni all’agricoltura. La discussione ha ripreso quota da tempo anche nel nostro cantone, a margine del concetto di «Città Ticino», che alcuni – sbrigativamente – riconducono ad una visione urbanocentrica del territorio, un unico e continuo tessuto punteggiato di nodi («poli») interconnessi dalla rete viaria e ferroviaria. Non è così, naturalmente. Per rendersene conto, basta alzare lo

guardo, osservare i rilievi e le vette che sovrastano i fondivalle percorsi dalle grandi vie di comunicazione, seguire con l’occhio le linee degli insediamenti, inventariare i «pieni» e i «vuoti», le zone abitate e quelle rimaste spoglie, abbandonate e occupate da sterpaglie. La prima, superficiale impressione è quella di assistere ad un Ticino che marcia a due velocità; veloce e propulsivo, quello cittadino; lento e anchilosato quello rurale. Ma poi, aguzzando la vista, si scopre che tale dicotomia funziona solo in parte, dato che negli ultimi decenni la città ha rotto gli argini diventando conglomerazione. In tal modo ha occupato a macchia d’olio le zone circostanti collinari, sull’onda di uno sviluppo edilizio senza precedenti. All’esame di queste dinamiche, con puntuali riferimenti ai trascorsi demografici otto-novecenteschi, lo storico Luigi Lorenzetti, responsabile del Laboratorio di storia delle Alpi, ha dedicato un sintetico ma denso saggio: La città Ticino e il rapporto


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

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cultura e spettacoli Un museo che è una vita Alla Fondazione Tito Balestra di Longiano per scoprire un poeta e la sua collezione

il magico sodalizio lenya-Weill L’incredibile ascesa di Lotte Lenya, la cui «disposizione d’animo» favorì la collaborazione tra Weill e Brecht pagina 35

i mondi di lethem Distopie per un mondo in rovina: ne L’arresto Jonathan Lethem spinge alla riflessione pagina 37

pagina 34

controversa Bührle La Collezione Bührle si è confrontata ancora una volta con il proprio passato

pagina 39

la cultura umanistica di un pastorello vallesano letteratura Una nuova, affascinante

traduzione della vita di Thomas Platter

Pietro Montorfani Quando inizia una letteratura? Con il primo testo noto in una lingua e in una cultura, verrebbe da rispondere a colpo sicuro, in ossequio al comune e ragionevole primato della cronologia. Ma la questione non è così semplice come potrebbe sembrare a prima vista. Ne sa qualcosa la tradizione italiana, che soprattutto in ambito pedagogico (leggi: le antologie scolastiche) si è sovente divisa tra il cosiddetto «contrasto» di Cielo d’Alcamo, con il suo elogio giullaresco della «rosa fresca aulentissima» − e lascio a ciascuno il compito di sciogliere la metafora, evidentemente erotica –, e il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi, proposto tra gli altri da Gianfranco Contini nella sua Letteratura italiana delle origini, pubblicata da Sansoni nel 1970. Due testi che più non potrebbero essere agli antipodi, per stile e per contenuti, e che proiettano sulla produzione successiva un’ipoteca morale assai diversa. La letteratura svizzera di lingua tedesca, di fatto poco meno che la letteratura svizzera tout court, ha conosciuto circa i propri albori un’opposizione simile, anche se forse non così marcata. L’ha messa in evidenza quell’agent provocateur che è stato lo scrittore zurighese Hugo Loetscher (1929-2009), nel contrapporre Le Alpi di Albrecht von Haller, poema settecentesco unanimemente riconosciuto quale fondamento di una (certa) cultura elvetica di purezza e amore per la montagna, e l’autobiografia di Thomas Platter, scritta sul finire del XVI secolo e molto meno idillica nel tratteggiare i contorni della realtà alpina. Da una parte, con Haller, quei monti «dove la virtù trasforma

la fatica in gioia, la povertà rende lieti», mentre dall’altra capitava «che la sete fosse tale che il giovane [Platter] si mingesse nelle mani e poi bevesse il suo stesso liquido». Una contrapposizione estrema tra l’idealizzazione del ritorno alla natura e la conquista della città (cioè della cultura) frutto di lavoro e fatica, secondo una dinamica non diversa da quella che nella letteratura svizzera di lingua italiana ha potuto accostare il troppo ingenuo Libro dell’alpe di Giuseppe Zoppi (1922) al più cinico e realistico Fondo del sacco di Plinio Martini (1970), senza dimenticare i precoci «racconti tristi» riuniti in Quando tutto va male da Guido Calgari (1933). Tutto questo è stato riassunto da Loetscher nella celebre formula «Lesen statt Klettern», «è meglio leggere che arrampicare», per ribadire il primato della dimensione urbana su quella mitologica delle montagne, il desiderio di andare a scuola («I wott id Schuel» nel tedesco protomoderno di Platter) contrapposto alla finta semplicità della vita in alta quota. A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico non c’è forse lettura più indicata della nuova traduzione dell’autobiografia di questo sorprendente umanista, nato poverissimo in Vallese senza alcuna prospettiva di riscatto e morto invece a Basilea con la fama di avere appreso da solo il greco antico e l’ebraico, stimato e benvoluto dall’intera comunità cittadina. Mi sorprende che un simile testo, veramente fondativo di una delle grandi tradizioni culturali elvetiche (l’umanesimo protestante), entri soltanto ora nella collana «Cristalli» dell’editore Dadò, che da tempo propone agli

Hans Böck der Ältere, Bildnis des Thomas Platter, 1581. (Kunstmuseum Basel)

italofoni i migliori testi delle altre tre lingue nazionali. Curatela e traduzione, non c’è quasi bisogno di dirlo, sono di Mattia Mantovani, la cui opera sta assumendo vieppiù dimensioni imponenti e meriterebbe, prima o poi, una lettura trasversale e complessiva. Se l’interpretazione di massima della Vita di Platter è ancora quella offerta da Loetscher, di cui giustamente si ripropone il saggio eponimo di Lesen statt Klettern a mo’ di prefazione, il lavoro di Mantovani si esalta nella ricerca di quei termini che possano mettere il lettore di oggi, a cinque secoli e anni luce di distanza, nella migliore condizione per entrare nell’universo di Platter. Un esempio su tutti, il recupero di una parola curiosa come «Tedescheria» per la resa di «Tütschland», termine con il quale gli uomini dell’epoca di Platter individua-

vano le terre di lingua tedesca (Zurigo, Basilea, la Baviera,...) al di fuori dei confini dell’angusto Vallese. Basterebbe questo dato per cogliere una delle anime dell’autobiografia, scritta in pochi giorni su richiesta del figlio Felix (celebre medico) e concepita per continue coppie oppositive: povertà e ricchezza, riformati e cattolici, uomini onesti e piccoli farabutti, fortuna e destino. Sono tante e tali le avventure toccate in sorte al pastorello vallesano che in passato c’è chi ha pensato a un romanzo d’invenzione, giocato sul registro stilistico del meraviglioso. Nulla di più sbagliato: Platter non dà spazio che alla verità dei fatti, mettendo in fila come perle di un’unica, affascinante collana i suoi vagabondaggi da accattone nella Germania meridionale, i soggiorni illibati

nei bordelli di Zurigo, la lenta e faticosa conquista dell’indipendenza economica e la fama crescente di intellettuale autodidatta, tra i massimi del suo tempo. Nelle sue pagine transitano il vivace mondo dell’editoria basilese, con i Froben e gli Oporinus, e le aspre contese tra l’università che fu di Erasmo e le scuole religiose dirette dallo stesso Platter. Su tutto, un grande, vastissimo desiderio di conoscenza, che non conosce limiti né requie, al lume di una piccola candela, tra le rocce scure dell’alto Vallese o nel sottotetto di una città addormentata. Bibliografia

Thomas Platter, La mia vita, a cura di Mattia Mantovani, introduzione di Hugo Loetscher, Armando Dadò, 2021


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cultura e spettacoli

la fortezza della poesia

itinerari artistici A Longiano la Fondazione Tito Balestra conserva una collezione

iconografica unica in Italia e l’archivio personale del poeta italiano

in scena Ad Arzo

le problematiche sociali viste con gli occhi del teatro

Alessandro Zanoli L’entroterra romagnolo, per chi cerca momenti di svago lontani dalla liturgia delle vacanze sulla spiaggia, offre numerosi spunti di scoperta. Le cime dei colli appenninici, così come succede del resto dal piacentino in giù, ospitano spesso castelli che attirano l’occhio del turista curioso. Amministrazioni comunali lungimiranti, in tempi recenti, sembrano aver captato questo interesse. Un’esempio tra i più affascinanti, in un arco di territorio che ospita peraltro altre significative offerte, è quello del Castello di Longiano, vicino a Cesena. Qui sono ospitate dal 1991 le opere pittoriche della Fondazione Tito Balestra Onlus, una raccolta di quadri e incisioni dalla fisionomia sicuramente unica nel panorama museale italiano. Le bellissime sale della fortificazione, che è stata appannaggio nel corso dei secoli di importanti famiglie quali i Malatesta e i Borgia, ospitano oggi la collezione personale del poeta romagnolo Tito Balestra e di sua moglie, Anna Maria de Agazio. Balestra è un personaggio poco noto nel mondo della cultura italiana ma certamente uno tra i più interessanti, meritevole di mag-

anna Anna, ho comprato un pezzo di terra, ho un cavallo, una frusta e sollevo /la polvere e chiamo il vicino e gli tocco la spalla oppure un altro, un sogno più piccolo, io e te insieme abitiamo una stanza e abbiamo vetri contro il vento /e la pioggia e un cuscino un po’ grande che basta /per due; guardami in faccia ho gli occhi /castani. Da: Tito Balestra, Quiproquo, Rizzoli, 1974

Giorgio Thoeni

Alcuni dei diari di appunti e notizie esposti. (AZ)

giore riconoscimento. Attentissimo mercante d’arte, ha operato per molti anni nella Roma della rinascita economica, nel secondo dopoguerra. In quel clima di grande fervore creativo, che era stato del resto favorevole alla nascita del cinema italiano di successo, aveva stretto forti contatti con molti giovani pittori emergenti. Dal suo punto di osservazione privilegiato, era riuscito a intercettare sul nascere molti dei loro lavori e a costituire un proprio patrimonio di opere significative. Sono quelle che si vedono oggi esposte a Longiano e che forniscono un sorprendente spaccato iconografico di quell’epoca. I nomi degli autori sono reputati oggi tra i più autorevoli, Maccari, Rosai, Morandi, De Pisis, Guttuso, Vespignani, e accanto ad essi si ritrovano poi alcuni pezzi di grandi artisti come Matisse, Chagall, Kokoschka, Goya. Visitando gli spazi del bellissimo castello si attraversa quindi un mondo di immagini affascinanti e significative che rendono pienamente merito al gusto e all’intuizione collezionistica di chi li ha raccolti. Balestra, che pure ha sempre tenuto a ricordare le sue origini po-

polari, è stato un uomo di cultura raffinatissimo. Lo testimoniano le sue opere letterarie, Quiproquo del 1974 e Se hai una montagna di neve tienila all’ombra del 1979, due libri di poesia pubblicati da Garzanti nella sua collana dedicata alla lirica. Proprio le prime sale dell’allestimento di Longiano offrono al visitatore un ritratto di Balestra scrittore, attraverso l’esposizione di appunti, taccuini, ritagli di giornale. Ci sono anche alcune sue incisioni xilografiche, di impronta «popolaresca», che testimoniano persino di una sua capacità figurativa sicura e di ottimo gusto. Basta poco, comunque, per farsi coinvolgere dalla scrittura di Tito Balestra. I suoi versi chiari e misurati, racchiusi in brevi strofe dall’apparente semplicità, mettono in luce la sua profonda capacità di osservazione del mondo. Il desiderio di recuperare valori autentici nelle relazioni, negli affetti e nell’esperienza quotidiana sembra il tema fondamentale del suo discorso lirico, racchiuso in flash folgoranti. Il suo lavoro è certo affine alla ricerca di molti poeti suoi conterranei, a partire da To-

nino Guerra, il quale ha definito Anna, una delle liriche di Balestra, «la più bella poesia d’amore del 900 italiano». Insomma, percorrendo gli spazi del castello di Longiano, in un curioso contrasto culturale tra gli ambienti antichi e il repertorio figurativo prepotentemente novecentesco, ci si stupisce ad ogni passo. Tra pittura e architettura, lascia senza fiato da un lato il loggiato con colonnine che si apre sulle colline e poi sul mare, dall’altro la bellezza e vivacità di una collezione assortita con un gusto unico. All’ultimo piano della torre, in una sorta di conclusione catartica, sono racchiuse testimonianze fotografiche dell’ultimo periodo di vita di Balestra e altre sue pubblicazioni d’arte. Scomparso a 53 anni, ha lasciato nelle sue Poesie di Liestal, scritte dalla clinica svizzera in cui era stato ricoverato, il suo ultimo gesto poetico. Dove e quando

Fondazione Tito Balestra, Longiano (FC), Castello Malatestiano. Info: 0039 054 766 58 50; fondazionetitobalestra.org.

seduzioni e persuasioni

Pubblicazioni Che cosa ci insegnano l’antica Grecia e i suoi miti dell’arte della persuasione

e della tecnica di sedurre il prossimo con le parole, anche mentendo? Stefano Vassere «A un uomo può capitare di essere brutto nell’aspetto, ma se un dio incorona di bellezza le sue parole, tutti guardano a lui rallegrandosi: egli parla con sicurezza, con dolce modestia, si distingue tra chi è riunito, e quando gira per la città tutti lo contemplano come un dio». Non ci affanneremo certo a dimostrare il primato dell’antica Grecia nell’insegnarci molte cose sulle arti della retorica e della persuasione, così come molte cose su come stare al mondo; tutt’al più si tratterà invece di ricercare i motivi di tanto successo dopo i millenni. Lo fa molto bene Laura Pepe nelle duecento pagine di questo La voce delle sirene. I Greci e l’arte della persuasione, pagine che volano in un battibaleno, una virtù che è dei libri migliori. Laura Pepe insegna Diritto greco antico all’Università degli Studi di Milano e ha attività di ricerca e divulgazione parimenti distribuite: suoi sono per esempio un saggio sul diritto ateniese nelle orazioni giudiziarie del 2019 e un Gli eroi bevono vino. Il mondo antico in un bicchiere, del 2018. Questo libro divide la materia (che è abbondante e prende, se si vuole, innumeri direzioni) in quattro tronconi

nuovi confini narrativi, ma senza confini

La copertina del libro di Pepe.

che sostanziano la comunicazione nella Grecia antica: l’ambito dei miti che ci arriva in gran parte dalla letteratura, quello del discorso politico, quello della filosofia e dei Sofisti in particolare, quello dei tribunali e dei processi. Non sempre la ricerca etimologica ci premia con indicazioni attendibili sul nucleo semantico essenziale di una parola; però qui è interessante, oltre che carico di fascino, il fatto che i Greci parlassero di peithó per indicare la «persuasione» ma in origine anche la «seduzione»; cosa che

carica di erotismo in senso stretto un’abitudine sociale che si sarebbe poi nei secoli voluta solo comunicativa. Nella mitologia Peito è anche la dea della persuasione, raccontata nell’iconografia come una che frequenta Eros e Venere, e ovviamente anche Afrodite, in un mondo fatto di profumi e di ovatta. Il ragionamento sui miti – va riconosciuto – è veramente uno spasso: un po’ perché da come si comportano gli dei si capisce come si comporteranno e si comportano ancora oggi gli uomini e un po’ perché quella letteratura è fondante di gran parte delle espressioni estetiche poi sviluppatesi nell’intero mondo occidentale (cinema, melodramma, serie tv ecc.). Le storie che corrono, soprattutto quelle che rendono conto degli affetti e dei legami famigliari non sono nel frattempo cambiate di molto, tanto che la vicenda della seduzione di Zeus da parte di Era nel quattordicesimo canto dell’Iliade, con i maneggi che coinvolgono un rapporto opportunistico della dea con la rivale Afrodite e tutta una serie di altre ipocrisie, se vestita e caramellata un po’ avrebbe un sicuro successo ancora in questi anni. Piuttosto, negli intenti di questo libro, si tratta di identificare chi seduce chi: di fatto, non Zeus (piuttosto «un molestatore seriale», come dice Eva Cantarella), bensì la stessa Era, essendo

presso i Greci la seduzione un processo supremamente femminile. Fuori da quell’immenso universo mitologico, il libro ci racconta della democrazia ateniese e delle sue istituzioni, dell’attività dei Sofisti con la loro messa in ridicolo nelle commedie di Aristofane e delle orazioni nell’esercizio della giustizia. Forse la parte più commovente del libro è quella che racconta del processo e della condanna a morte di Socrate, esempio di «come non bisogna comportarsi in tribunale». C’è modo e modo di raccontarla, ma scegliere la prospettiva dell’operazione di persuasione mancata e della confusione tra tribunale e tribuna filosofica è uno dei tesori del testo di Laura Pepe. Il quadro si conclude con l’immagine del maestro che discorre di filosofia con i suoi discepoli e con il carceriere che, portandogli la cicuta, «gli chiede di camminare un po’ e poi, quando avesse sentito le gambe pesanti, di distendersi sul letto». Il libro è adattissimo anche a chi abbia – che so – un figlio che inizia il Liceo classico.

L’essenza del teatro è nella narrazione. Anche la narrazione è linfa per il teatro, dove tutto è finto ma niente è falso, come ricorda un’aforisma di Gigi Proietti. Tutta la sua dimensione è contenuta in quell’aforisma così come la sua fascinazione è parte dell’abito che indossa la stessa narrazione. Abbiamo ritrovato quelle fondamentali caratteristiche nella riuscita e appena conclusa ventunesima edizione del Festival internazionale di narrazione di Arzo, un insieme di proposte che hanno saputo conservare un carattere aperto lasciando che l’atmosfera, tra finzione e verità, creasse immagini e emozioni anche su temi delicati e scottanti. Oltre ad aver allargato i suoi confini coinvolgendo Meride e Tremona, il Festival di Arzo, nonostante le pause forzate e le esigenze dettate dall’emergenza sanitaria, non ha deluso le aspettative. Spettacoli, incontri, installazioni e intrattenimento hanno animato i tre borghi lasciando spazio alla socialità e al dialogo, caratteristiche che accompagnano l’evento sin dalle prime edizioni. Abbiamo accennato a momenti coinvolgenti per attualità e importanza. Non solo per i soggetti trattati, ma anche per i protagonisti in scena. Ci riferiamo a Mario Perrotta e Saverio La Ruina, due esponenti di spicco e pluripremiati della drammaturgia italiana contemporanea attraverso soluzioni interessanti e originali. La cifra teatrale di Perrotta ha trovato nuovamente conferma al Festival di Arzo, una piazza dove ha già avuto modo di esordire con successo con la sua Odissea. Percorsi che ama anche costruire in trilogie, come ad esempio quella dedicata a Antonio Ligabue a cui ora si aggiunge In nome del padre, uno spettacolo frutto di un intenso dialogo con lo psicoanalista Massimo Recalcati sulla dissoluzione della figura del padre come tratto tipico del nostro tempo. Perrotta ricostruisce per il palco tre padri diversi per carattere, formazione e provenienza: un giornalista siciliano, un operaio lombardo e un imprenditore napoletano che hanno in comune il dialogo mancato con i propri figli: un vuoto difficile da colmare. Saverio La Ruina ha riportato alla luce Polvere. Dialogo tra uomo e donna, un testo che indaga, attraverso una dinamica di falsa, subdola e minacciosa pacatezza, situazioni di violenza domestica dell’uomo sulla donna, preludio del femminicidio. Un rapporto che nasce da una gelosia morbosa, dove basta un nonnulla per scatenare sospetti e che mostrano una sindrome di Otello, quando le ferite e le umiliazioni verbali possono trasformarsi in violenza fisica. Lo spettacolo è nato nel 2015 e dimostra purtroppo ancora tutta l’attualità della problematica anche grazie all’ottima interpretazione di Cecilia Foti ben sorretta dallo stesso La Ruina.

Bibliografia

Laura Pepe, La voce delle sirene. I Greci e l’arte della persuasione, Roma-Bari, Editori Laterza, 2020

L’artista Mario Perrotta.


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cultura e spettacoli

lotte lenya: una voce, un’epoca musica Il sodalizio Kurt Weill-Lotte Lenya favorì certamente anche quello tra Weill e

il grande drammaturgo, regista e poeta Bertolt Brecht

concerti Otto

imperdibili appuntamenti

Carlo Piccardi «Mia moglie è una casalinga incapace, ma un’eccellente attrice. Non sa leggere una nota, ma quando canta la gente la sta ad ascoltare come fosse Caruso. (D’altra parte si può forse lamentare un compositore la cui moglie non sappia leggere la musica?). Non si cura del mio lavoro (questo è uno dei suoi più grandi pregi). Ma andrebbe su tutte le furie se io non mi interessassi del suo. Ama circondarsi di alcuni fedeli amici, e spiega ciò col fatto di trovarsi assai male con le donne. (Forse le capita di trovarsi tanto male con le donne proprio in quanto si accontenta della compagnia di alcuni amici). Mi ha sposato con l’intenzione di conoscere la bruttezza e oggi afferma di essere riuscita a esaudire il suo desiderio in misura sufficiente. Mia moglie si chiama Lotte Lenya» (14 aprile 1929). Con queste parole, pronunciate con paradossale affettuosità, Kurt Weill descriveva la personalità di Lotte Lenya, l’attrice che egli conobbe di sfuggita all’epoca della rappresentazione della pantomima Die Zaubernacht (1922) e che poi ritrovò nel 1925 in casa di Georg Kaiser, il drammaturgo con il quale collaborò prima di passare al sodalizio con Bertolt Brecht. In casa dei Kaiser la Lenya ripagava il vantaggio di entrare in contatto col grande mondo del teatro prestandosi a svolgere compiti di donna delle pulizie. Niente di più facile per una ragazza nata nel 1898 nel quartiere popolare viennese di Hitzig, figlia di un vetturino e di una lavandaia. L’istinto del teatro l’aveva d’altronde già portata a danzare la czarda a sei anni in un circo di periferia e a esibirsi a otto come equilibrista sulla fune. Sbaglieremmo tuttavia a considerare le sue capacità sceniche come semplice frutto di natura. Durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando andò ad abitare a Zurigo presso una zia, Lotte Lenya studiò regolarmente danza nella scuola dello Stadttheater, dove riuscì anche a farsi affidare qualche ruolo in operette, pantomime e lavori teatrali in genere. Stabilitasi a Berlino in cerca di miglior fortuna, l’incontro con Weill, istituzionalizzato col matrimonio nel 1926, fu de-

l’osi in versione open air

Lotte Lenya e Kurt Weill in un’immagine del 1930. (Shutterstock)

terminante. Di fronte agli esiti di Mahagonny, dell’Opera da tre soldi, di Happy End, dei Sette peccati capitali possiamo oggi ben dire che, dietro la riuscita del binomio Brecht-Weill, si celasse un altro collaudatissimo binomio (Weill-Lenya), senza il quale non potremmo acquisire la chiave per penetrare la pregnanza dei celebri song del musicista. La Lenya fu protagonista di tutti questi lavori, fornendo al marito la possibilità di mettere a punto e di verificare una nuova maniera di canto direttamente compenetrata alla recitazione, indispensabile ad assicurare all’esito quel mordente e quell’aggressività che di quei prodotti fecero strumenti di denuncia delle ipocrisie, delle manie e delle colpe della società del tempo. Nelle sue interpretazioni fu codificato per la prima volta il principio del distacco, quel gioco ammiccante di piani distinti (dal parlato al canto spiegato) messi in opera per vincere la tentazione dell’immedesimazione, che Brecht concepì come uno dei termini costitutivi dell’estetica del teatro epico, che Weill tratteggiava nella sua notazione punteggiata di colpi risolutori tra la protervia di un recitare cantando che il drammaturgo chiamò «parlare contro la musica» e il rapimento melodico di esagerati gesti lirici, e che

Lotte Lenya profilò con una voce capace di passare dal lacerato accento di denuncia a un grado struggente di partecipazione a sentimento carico di morbosità. Ancor oggi il problema dell’interpretazione dei song di Weill resta in gran parte irrisolto, per il fatto di non poter contare su artisti di formazione accademica o su attori sufficientemente duttili da poter adeguarsi a un’esigenza che oltretutto non può essere sintetizzata in una tecnica bensì piuttosto in una disposizione d’animo. L’unico riferimento per tenere in vita uno dei repertori più significativi del nostro tempo rimane dunque il modello di Lotte Lenya, fortunatamente conservato attraverso le registrazioni fonografiche per mezzo delle quali sarà ancora possibile cogliere la traccia di un modo espressivo senza cui la semplice notazione sul pentagramma non potrebbe raggiungere lo scopo. La musica di Weill è grande e insostituibile. Legata com’essa fu alle singolari vicende amare ed entusiasmanti, profondamente tragiche e intensamente creative dell’epoca che attraversò (la stagione della Repubblica di Weimar), essa sopravvive ancora nella misura in cui vi appare radicata, quindi anche nel gesto, nel tratto graffiante con cui aveva spaval-

damente affrontato il pubblico berlinese. Per questo motivo l’aspetto interpretativo vi è indissolubilmente connesso e assume un peso ben maggiore di quanto possa valere per una qualsiasi altra restituzione musicale. La voce di Lotte Lenya ne fu depositaria tanto quanto la sua sferzante scrittura. Accompagnando il compositore nel destino che nel 1933 lo condusse emigrante in Francia e nel 1936 negli Stati Uniti, ella gli fu vicina nel non facile processo di adattamento a un contesto completamente diverso che costrinse Weill al compromesso con le consuetudini sostanzialmente commerciali di Broadway. Ascoltando oggi la sua voce in Mon ami, my Friend (da Johnny Johnson, 1936), nella Saga of Jenny (da Lady in the Dark, 1941) e in altre canzoni da commedie musicali di Weill che accettò di interpretare almeno su disco, riusciamo a capire il peso e l’importanza da lei avuti nel consentire al musicista di contrabbandare perfino nelle forme convenzionali ed evasive degli standardizzati modi americani l’enorme capacità d’impatto, la sfigurata durezza di timbro e la carica provocatoria preservata in una delle espressioni fondamentali del secolo scorso.

Una «sorpresa di fine estate» è stata definita in comunicato stampa dalla stessa OSI questa iniziativa dal sapore spontaneo e forse per questo tanto più prezioso, presentata al pubblico degli amanti della musica classica la settimana scorsa. L’Orchestra della Svizzera Italiana ha infatti deciso di proporre una serie di otto concerti in attesa dell’avvio ufficiale della stagione a fine settembre. Protagonisti di questa iniziativa, che ha preso il via il 24 agosto e coinvolge le località di Lugano, Carona e Bellinzona, vi sono Piotr Il’ic Caikovskij, in quello che vuole essere un assaggio del progetto Tracce (grazie al quale, nella prossima stagione si partirà per un viaggio alla riscoperta del grande compositore russo) e Astor Piazzolla, il musicista e compositore argentino di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Il 31 agosto (ore 19.00) e il 1. settembre (ore 16.00) a Carona in Piazza Montàa risuoneranno le note dell’Ouverture del Flauto Magico di Mozart e della Quinta sinfonia in mi minore di Caikovskij sotto la direzione del Maestro Markus Poschner, mentre il gran finale avrà luogo il 6 e il 7 settembre (Lugano, piazzale LAC, ore 21; replica 8 settembre, Bellinzona, Piazzale Banca Stato, 20.30) con un omaggio a Piazzolla sotto la direzione del Maestro argentino Mariano Chiacchiarini e con l’accompagnamento del bandoneon di Davide Vendramin. Dove e quando

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cultura e spettacoli

i mondi altri di Jonathan lethem

Dalle parti di Douglas

Pubblicazioni Un intrigante mistero

nel nuovo giallo di Patrick Mancini

narrativa Un futuro (o un presente?) dal sapore apocalittico,

quello presentato da Jonathan Lethem ne L’arresto

Simona Sala Blanche Greco Una madre cantante folk e attivista politica che se ne è andata troppo presto, una nonna contestatrice, un padre pittore modernista, l’infanzia a Brooklyn in una comune hippy e poi la fascinazione ispiratrice per Graham Greene che troneggia sulla sua adolescenza e oltre, assieme a Edgar Allan Poe, a Philip Dick, Kurt Vonnegut e a una dozzina di altri scrittori, cantanti, fumettisti e registi come David Cronenberg che costituiscono parte del «magma» creativo di Jonathan Lethem, scrittore americano ormai famoso (Brooklyn senza madre; La fortezza della solitudine) che adesso nel nuovo libro dal titolo: L’Arresto edito da La Nave di Teseo, si diverte a immaginare una storia futuribile, una distopia «pastorale» che sa di fumetto e di cinema. Tutto inizia con «l’arresto, il collasso, la frammentazione, la rilocalizzazione del mondo familiare avvenuta di colpo dopo tutti gli annunci possibili», ma che era diventata reale solo quando «tutti gli schermi avevano cominciato a morire. La televisione fu la prima con una forma di demenza senile per cui i canali si confondevano, i segnali si accavallavano e Playhouse ’90, Piccole grandi bugie, la Guerra in Vietnam tornarono in onda insieme a Casa Keaton finché non evaporarono». Poi fu la volta dei cellulari, dei condizionatori, dei computer, mentre gli aerei cadevano dal cielo e le auto, i treni e gli autobus si bloccavano come colpiti da una sincope, così che molte persone dovettero fermarsi e ricominciare a vivere lì dove si trovavano in quel momento, proprio come succede al protagonista della storia: Alexander Duplessis, sceneggiatore cinematografico un po’ in ribasso, casualmente in visita a sua sorella Maddy alla Spodosol, la fattoria biologica modello da lei fondata nel Maine. Nessuno sa la causa di questa paralisi tecnologica planetaria, e lì, tra le varie fattorie vista mare che si riforniscono a vicenda di leccornie biologiche dove il tempo ha il ritmo delle stagioni, non ci si chiede più che ne è del resto del mondo e neppure se l’altra America esiste ancora visto che il «Cordone», una masnada di violenti stile Hells Angels in sella a delle «merdaciclette», moto a biocarburante, ha deciso di pattugliare e chiudere i confini della zona, per prevenire sedicenti «orribili assalti esterni»; loro d’altronde sono stati gli ultimi ad avere armi funzionanti e perciò vengono rabboniti con graditi doni come salsicce, sgombri affumicati,

Un particolare della copertina del libro di Lethem.

salsa di rose e ottima marijuana prodotta in loco. Alexander «Sandy» Duplessis si è adattato a questo microcosmo senza riuscire a condividere gli entusiasmi naturalistici di sua sorella: detesta sempre tuffarsi nell’oceano invaso da «fronde verdi, meduse morte, e grumi appiccicosi non identificati dovuti al riscaldamento globale», così come gli riesce difficile ignorare «il brulicare di putridume e marcescenza persino nel cibo sulla punta della sua forchetta», ma ha trovato un suo ruolo come aiuto di Augustus ex-direttore di banca divenuto macellaio, con il quale fa fuori le anatre che vengono trasformate in salsicce, e si occupa delle consegne a domicilio e per questo è conosciuto da tutti come Garzone. Ma ecco che in questo «villaggio» ordinato e operoso arriva con l’accecante bagliore di un lampo la Saetta Azzurra, una mostruosa combinazione tra un escavatore-talpa e un razzo anfibio: è a propulsione atomica, tutta congegni e cromature e alla guida c’è Peter Todbaum, ex compagno di Yale di Sandy, nonché famoso produttore cinematografico hollywoodiano, che lo ha spremuto e tartassato per anni. Ma cosa vuole adesso da Sandy tanto da lasciare Malibu e affrontare un viaggio di un anno e mille pericoli sulla supermacchina, l’unico congegno funzionante al mondo, solo per trovarlo? E perché cerca Maddy che invece lo rifugge con odio dopo un incontro troppo ravvicinato con lui molti anni prima? E cosa c’entra la serie di fantascienza tivù Un Altro Mondo Ancora che Sandy, Peter e Maddy idearono e che sembra anticipare l’arresto? Il romanzo procede spedito tra ironie e facezie, invenzioni, misteri, film

famosi, metafore e frecciatine che tirano in ballo la politica americana e Hollywood e i suoi miti, con Todbaum che con la sua inarrestabile parlantina affascina agricoltori, merdaciclisti e adolescenti, irresistibile dispensatore di avventure terrificanti; di visioni apocalittiche del mondo esterno e di caffè espresso, delizia ormai perduta divenuta una delle decantate specialità della Saetta Azzurra che con i suoi terribili segreti ogni giorno che passa suscita le voglie di chi adesso pensa alla fuga per ritrovare i propri cari; o vedere il mondo esterno; o ancora ambisce servirsene per prendere il Potere. È come se il cinema avesse fatto irruzione nel meraviglioso giardino dell’Eden popolandolo di visioni, portando a galla insoddisfazioni e desideri nascosti. E Jonathan Lethem che conosce bene Hollywood per aver tentato a suo tempo la strada dello sceneggiatore cinematografico, trasforma Peter Todbaum nel serpente tentatore, ammantato di effluvi di caffè, affabulatore, megalomane forse in cerca del copione vincente del Post-Arresto. Un libro che è un divertissement, L’Arresto ci spinge a uscire dalla malinconia dei tempi attuali e a ritrovare la voglia di giocare con la realtà, le idee e le immagini come forse fa il protagonista, Alexander Duplessis (guarda caso porta il nome di Dumas figlio e il cognome della Signora delle Camelie) che magari è sempre rimasto nella sua stanzetta a Los Angeles intento a riscrivere l’ennesimo episodio di Un Altro Mondo Ancora.

Douglas Delfino, 24 anni, è morto di morte violenta. Qualcuno l’ha ammazzato a sangue freddo, e c’è già un sospetto. È il giorno dei funerali, e la chiesa è traboccante di famigliari e amici, affranti per avere perso un ragazzo turbolento e a tratti difficile, ma dal cuore tutto sommato d’oro. Di fianco all’imperturbabile padre Andrea piange disperata la mamma Camilla, con lei la sorella Nora (reduce da uno scandalo che ha scosso la piccola comunità) e la fidanzata Chiara (a più riprese ma inconsapevolmente tradita dal fidanzato). Insieme ai famigliari Douglas viene pianto e ricordato anche dagli amici David (e da sua madre, la libertina Agatha), da Manuel e Thomas. A raccontarci l’atmosfera in chiesa e le reazioni ed emozioni di tanto variata umanità, vi è niente meno che lo stesso Douglas, non più essere umano, non ancora abitante degli Inferi (o del Paradiso, circostanza che non è dato sapere a nessuno), ma sorta di spirito sospeso e onniscente, con accesso privilegiato al presente e al passato di ogni singola persona presente in chiesa. Douglas passa in rassegna le persone che lo interessano, ne studia le reazioni e cerca di capirne le finalità, sfruttando con un’ironia presto assai inconfondibile la sua posizione di spettatore invisibile. Ne esce un ritratto dissacrante che non risparmia nessuno, dove le pecche e le (apparenti) virtù di una piccola comunità vengono messe in piazza alla mercè di chi ha occhi sufficientemente svegli per vederle – come l’ispettore Gress o il detective Ferri, entrambi sulle tracce di chi potrebbe avere sparato al giovane Douglas, decretandone la scomparsa prematura. RIP - Il mio funerale è un libro di

gradevole lettura, e questo grazie soprattutto a uno stile scorrevole e sciolto, e al lungo elenco di brevi e densi capitoletti di cui è composto. I personaggi sono uniti, oltre che dalla propria appartenenza territoriale, dalla lunga serie di piccoli e grandi vizi che più o meno nell’ombra, accompagnano ognuno di noi, ma che, soprattutto, ognuno di noi vorrebbe tenere segreti. L’idea di Patrick Mancini, entusiasta giornalista di Ticinonline, nonché già autore di Cuorebuiorrore (2015) e #Promessi sposi (2019), non è nuova: solo per citarne un paio, di salme fluttuanti e attente avevano già raccontato ad esempio Alice Sebold in Amabili resti (una ragazza abusata e assassinata racconta quanto avviene dopo la propria morte) o Alan Bennett in La cerimonia del massaggio (dove l’estinto, che fisicamente si è occupato di donne e uomini, inanellando una serie di rapporti non proprio trasparenti con loro, se ne prende gioco fino all’ultimo). Questo non toglie freschezza al lavoro di Mancini, che non si sottrae al proprio dovere di cronaca quando si parla di violenza o di abusi sui più deboli, di ciò che, insomma, si consuma sotto il famigerato ponte più volte citato nel libro, luogo di sfogo del protagonista, nonché topos da cui prende avvio tutta quanta la vicenda. Ma questa è un’altra storia, e si rivelerà al lettore a poco a poco, incanalando così questo RIP nel solco dei due libri che l’hanno preceduto, e in cui il valore dell’attualità e dei temi che bruciano in società, si mescola sapientemente con la suspense della fiction vera e propria. Bibliografia

Patrick Mancini, RIP – Il mio funerale, Fontana Edizioni, 2021

Bibliografia

Jonathan Lethem, L’arresto, La Nave di Teseo, 2021

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 agosto 2021 • N. 35

39

cultura e spettacoli

la collezione delle polemiche

Politiche museali La prestigiosa e controversa collezione del fabbricante di armi e mecenate Emil Bührle

sarà esposta dal 9 ottobre nella nuova ala del Kunsthaus di Zurigo Emanuela Burgazzoli La storia, quella dell’industriale Emil Georg Bührle e della sua collezione, è nota, più recente invece le polemiche suscitate da quello che resta un capitolo controverso della storia nazionale. Della collezione Bührle si è occupata la commissione Bergier, ma anche recenti pubblicazioni, fra queste Il libro nero di Bührle (co-autore lo storico ed ex vicedirettore del Kunsthaus di Zurigo Vincenzo Magnaguagno) e nuovi impulsi li ha forniti anche il dibattito sul lascito della «collezione Gurlitt» al Kunstmuseum di Berna che ha dato avvio alla ricerca sulla provenienza dei beni culturali a livello nazionale. Nell’imminenza della collocazione pubblica nella nuova ala del Kunsthaus di Zurigo di una parte dei 633 capolavori dell’Impressionismo che ne fanno una delle più importanti collezioni private al mondo – con capolavori di Renoir, Van Gogh, Monet, Gauguin (che avrebbe dovuto fare tappa anche al Masi nel 2020) – con un valore stimato a 3 miliardi di franchi, la città e il cantone di Zurigo hanno deciso di fare chiarezza sulla storia di una collezione costituita da Bührle fra il 1936 e il 1956 e portatrice di una pesante eredità. Un incarico politicamente gravoso che viene affidato all’Università di Zurigo nel 2017 e che nel novembre scorso sfocia in un rapporto di duecento pagine. Per la prima volta si documenta e analizza nel dettaglio

l’ascesa dell’industriale Emil Georg Bührle, cittadino tedesco giunto in Svizzera nel 1924 per riorganizzare la WO (Werkzeugmaschinenfabrik) e che ben presto si concentra sull’esportazione di cannoni alla Germania nazionalsocialista prima e durante la guerra. In pochi anni la OW diviene la maggiore industria di armamenti in Svizzera, e Bührle – ormai unico azionista e in possesso del passaporto svizzero – l’uomo più ricco del paese: fra il ’38 e il ’45 il suo patrimonio passa da 8 a ben 162 milioni di franchi. Dalle ricerche emerge la figura di un opportunista senza scrupoli, che dopo la guerra, non esita a espandere le sue attività commerciali negli Stati Uniti, impegnati nella guerra di Corea. Bührle nel frattempo ha avviato anche la sua carriera di collezionista, approfittando di un mercato inondato dalle opere d’arte confiscate o vendute da ebrei costretti alla fuga o perseguitati durante la guerra. Sulle 633 opere che conta la collezione, 13 quelle restituite da Bührle ai loro proprietari dopo la guerra, perché frutto di spoliazioni. La questione sulla provenienza delle opere ribadisce con forza dal canto suo Lukas Gloor, direttore della Fondazione (e curatore di un recente catalogo generale della collezione) è già stata chiarita in passato; dal canto loro gli storici dell’Università di Zurigo non intendono ridurre la ricerca a una mera questione di passaggi di proprietà. La ricchezza di imprenditore e il

Emil Georg Bührle con un operaio in occasione dell’apertura della fabbrica di elettrodi a Zurigo-Oerlikon, reparto motori aerei, 1942. (Keystone)

suo mecenatismo (l’industriale diviene vicepresidente della società di belle arti di Zurigo e finanzia il primo ampliamento del Kunsthaus inaugurato nel 1958) spalancano a Bührle le porte dell’élite zurighese: nuove fonti dimostrano gli intrecci fra la vendita di armi, l’acquisizione delle opere d’arte e l’ascesa sociale ed economica del collezionista-industriale. Ma la questione era e resta delicata; lo prova il fatto che ancora prima della pubblicazione lo studio ha dato adito a polemiche e conflitti interni al gruppo di ricercatori che hanno por-

tato alla dimissione di Erich Keller. Lo storico ha contestato che lo studio fosse il frutto di un lavoro indipendente e libero da pressioni istituzionali; l’errore sarebbe stato affiancare una commissione di controllo (dove siedono membri della stessa fondazione, della famiglia e del Kunsthaus) che ha in effetti proposto emendamenti e modifiche. Tre in particolare i passaggi non graditi: il termine «Freikorps», utilizzato per indicare i corpi franchi Roeder, di cui Bühler aveva fatto parte in Germania nel primo dopoguerra; l’espressione «insulto antisemita»

per definire una frase di Bührle in una lettera a un giornale satirico; un terzo punto riguardava i benefici finanziari ottenuti grazie ai «lavori forzati» in Germania. Modifiche dapprima integrate e accolte dai ricercatori, ma poi ritrattate, in seguito ai rapporti di due esperti indipendenti, incaricati sempre dall’ateneo zurighese, ormai nella posizione di dover scagionare i suoi ricercatori dalle accuse di aver ceduto a pressioni politiche. Pur riconoscendo la portata e la qualità scientifica della ricerca (una «pietra miliare» l’ha definita anche Corine Mauch, sindaca di Zurigo), uno di loro ha tuttavia osservato che la libertà e l’indipendenza istituzionali richieste da un tale progetto non sono state garantite, considerata la delicatezza politica del tema. Col senno di poi è stato un errore affiancare una commissione di controllo, ha ammesso dal canto suo Mauch che ora dice di voler seguire con attenzione l’allestimento delle oltre duecento opere della controversa collezione nei nuovi spazi del Kunsthaus; dal museo zurighese, che si appresta a diventare una delle più prestigiose istituzioni al mondo per l’Impressionismo, ci si attende che assuma le proprie responsabilità, proponendo al pubblico una presentazione attenta al contesto storico, non soltanto agli aspetti estetici, per sgombrare il campo dal sospetto di essere quel «museo contaminato» che è il titolo dell’atteso saggio di prossima pubblicazione di Erich Keller. Annuncio pubblicitario

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Fiori e giardino

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