Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Anche gli uomini fin da piccoli sono condizionati dagli stereotipi di genere, che li penalizzano. Un libro ci spiega come
Ambiente e Benessere Il Gipeto è tornato a vivere sulle nostre montagne e il prossimo 3 ottobre sarà la giornata del suo censimento ufficiale
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 7 settembre 2020
Azione 37 Politica e Economia Le tensioni razziali rischiano di avvantaggiare Donald Trump. Ecco perché
Cultura e Spettacoli Per i novant’anni di Liliana Segre esce da Casagrande Scegliete sempre la vita
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Segnali di paranoia collettiva
Paesaggi e storie in val Pontirone
di Peter Schiesser
di Romano Venziani
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Romano Venziani
Messaggio whatsapp ricevuto il 29 agosto (che non ho condiviso): «Manifestazione di Berlino in diretta! Link per seguire la colossale manifestazione di 5 milioni di persone che oggi scenderanno in piazza (pronte a fermarsi anche 5 giorni e oltre, fino alla caduta del governo) e che lotteranno per liberarsi di questa dittatura sanitaria diventata insostenibile. Per riottenere i nostri diritti che sono intoccabili (...) e non protrarre oltre la pianificata distruzione delle nostre economie, della politica, dei bambini e della nostra salute (...). Adoperiamoci per farla vedere a tutti, perché se i media italiani non parleranno di una manifestazione così grande, colossale e storica, sarà la dimostrazione finale ed evidente a tutti che non ha più senso ascoltare le menzogne delle nostre TV e giornali (...)». Vi risparmio il seguito della filippica. In realtà erano 38mila, e ne hanno riferito i maggiori giornali e media. Anche per il finale, in serata, di quella giornata di manifestazioni: l’assalto di 300-400 neonazisti al Reichstag, sventolando le bandiere care a Hitler, tenuti a stento a bada dalla polizia. Però non confondiamo i neonazisti con gli organizzatori della manifestazione, che fa seguito a quella del 1. agosto sempre a Berlino: c’erano 3-4 migliaia di estremisti di destra, ma anche hippy, esoterici, normali padri madri nonni, antivax e adepti di medicine e terapie al di fuori dello spettro classico, ma gli organizzatori si trovano nella galassia che si sta formando attorno a «Querdenken 711» e al suo leader, l’imprenditore tedesco Michael Ballweg. Il tenore di questi, possiamo chiamarli negazionisti?, è: la pandemia non esiste, non è mai esistita, sul virus (se esiste, è dubbio) ci hanno raccontato un sacco di frottole, ci stanno rubando la libertà e i diritti con una dittatura sanitaria (la mascherina è aborrita), ci vogliono controllare, ma siamo tanti e cresceremo e vinceremo la battaglia. Sul loro sito e sui vari siti linkati escono spiegazioni e teorie che a fatica celano una visione complottista del mondo. Lo stesso Ballweg ha fatto riferimento sibillinamente al fantasmagorico gruppo americano che si denomina QAnon (e a Berlino si è visto chi portava magliette con il loro simbolo), secondo il quale il mondo è controllato da un ristretto gruppo di persone, fra cui il miliardario Soros, Obama, la Clinton, alla testa di un traffico mondiale di bambini, della cui linfa si alimentano per allungarsi la vita; Trump però è venuto a liberarci da quel deep state che controlla l’America e il mondo. Un cocktail di negazionismo, complottismo, attesa messianica non da sottovalutare, indice di un profondo malessere nella società, detonato con l’arrivo del Coronavirus e cresciuto durante il lockdown. Il virus uccide e fa ammalare (fortunatamente non tutti), ma la pandemia ha anche un effetto che coinvolge moltissimi aspetti della vita di ognuno, e soprattutto ha gettato tutto il mondo in una situazione di grande instabilità e incertezza. Tuttavia molte persone non reggono l’incertezza, devono ricrearsi delle certezze. È umano, forse avviene in tutti noi, in fondo anche credere al parere di un esperto (che non siamo in grado di confutare, per i nostri limiti di conoscenza) è una richiesta di certezza. Ma quando entra in gioco la paranoia le cose cambiano. Diventano più pericolose. Una persona paranoica non crederà alla versione ufficiale delle cose, è convinta che lo stanno ingannando, che dietro c’è dell’altro. Crede nella critica, gli serve per smontare la lettura ufficiale del mondo, però anche lui ha bisogno di certezze, per cui si dirige e poi viene attratto da persone che con certezza granitica gli svelano come va veramente il mondo (e a quel momento lo spirito critico viene meno). Nel suo libro Paranoia, lo psicoanalista Luigi Zoja riassume i tratti tipici della paranoia: «Il panaoico grave costruisce una teoria del complotto perché in questo modo la sua sofferenza sembra trovare un senso, e intanto compensa alcune debolezze di fondo. In primo luogo la solitudine, che, circolarmente, è insieme causa e conseguenza della sospettosità, viene spezzata dalla fantasia di essere al centro dell’interesse di tutti». Di conseguenza cerca suoi simili, e la rete è il luogo perfetto per trovarli, si crea così una virtuale comunità globale. Scrive ancora Zoja che «i processi mentali del paranoico sono dettati dalla rigidità (...), questo comporta anche fragilità: non può permettersi di cedere un passo agli avversari». Questo vuol dire che un dialogo, un dibattito non può esistere quando c’è in ballo la paranoia. In realtà, Zoja considera la paranoia non come una malattia, ma come un archetipo, in senso junghiano. Significa che potenzialmente è presente in ognuno. E nel corso della storia la paranoia, essendo inflazionistica, da individuale si è già molte volte trasformata in collettiva, con conseguenze disastrose. Pensiamo ai regimi di Stalin e di Hitler. A questo punto speriamo di riuscire ad evitare che la pandemia ceda il passo a una nuova paranoia collettiva.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Società e Territorio La strada degli alpi A piedi o in bici un’escursione immersa nella natura ci porta attraverso la Valle Leventina e la Valle Bedretto
Storia della Sopracenerina Da sede governativa a banca, fino a diventare la sede della Società elettrica: l’edificio costruito negli anni Trenta dell’Ottocento racconta un pezzo di storia locarnese
Testimonianze Per i suoi 50 anni l’Associazione Inter-Agire ha raccolto in un libro le esperienze dei suoi cooperanti dal 1970 a oggi pagina 10
pagine 8-9
Sempre viva la voce delle famiglie
Avventure nella filiale Mania L ’affascinante
mondo degli acquisti in un gioco
Associazione Atgabbes «include, rappresenta, informa, accompagna e associa»:
la missione a favore delle persone con disabilità mantiene lo slancio propositivo che la caratterizza da oltre cinquant’anni
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Stefania Hubmann
Le catene che imprigionano gli uomini Intervista Bambini, ragazzi e adulti vengono
condizionati dagli stereotipi di genere, che li penalizzano. Ci spiega come Maria Giuseppina Pacilli, professoressa di Psicologia sociale e autrice di Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità
Stefania Prandi Fin da piccoli ai bambini viene detto di comportarsi da «maschietti», sollecitandoli a «non fare le femminucce» quando piangono, hanno paura oppure si lamentano. Crescendo, l’esortazione da parte di adulti e coetanei continua, trasformandosi nell’imperativo di diventare «veri uomini». Ma cosa significa esattamente essere «veri uomini»? La domanda può fare sorridere chi pensa che maschi si nasca, con un corredo di ormoni specifici, tra i quali primeggia il testosterone, e con caratteristiche fisiche e psicologiche ben definite, che vanno dalla forza, alla predisposizione al comando e alla razionalità. La risposta è in realtà complessa, come spiega Maria Giuseppina Pacilli, professoressa di Psicologia sociale all’Università di Perugia, in Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità (Il Mulino). Nel libro si analizzano le cause e le conseguenze degli stereotipi di genere, del sessismo e delle discriminazioni mostrando come possano essere dannose e svantaggiose anche per gli uomini, sebbene in modo diverso rispetto quanto avviene per le donne. Professoressa Pacilli, cosa significa essere «veri uomini»?
L’espressione «vero uomo» è assai suggestiva. Ci avverte, infatti, che uomini e donne devono stare sempre in guardia per non confondere la versione originale e valida del maschio da quella falsa e di scarsa qualità. Per essere un «vero uomo» sono molti gli imperativi da rispettare, ma il primo e più pressante di tutti è senza dubbio quello di tenere lontano dal proprio modo di sentire, di pensare e di comportarsi la femminilità o forse sarebbe meglio dire ciò che, sulla base degli stereotipi, consideriamo femminile. Un uomo «vero» non mostra le proprie emozioni, non chiede mai aiuto, non ha paura di mettere in atto azioni pericolose, è aggressivamente vincente, interessato al potere e al successo professionale. Essere «veri uomini» è un atto sociale oltre che indi-
viduale e richiede continue e affannose dimostrazioni pubbliche. Non a caso, il timore di non essere abbastanza virili è un sentimento spiacevole che si incontra molto presto nel corso della crescita. Quali sono i principali stereotipi e condizionamenti culturali che un bambino incontra?
I condizionamenti sono numerosi e provengono da varie fonti, in primis la famiglia. Un ambito su cui gli stereotipi pesano molto è, ad esempio, quello dell’emotività. I bambini rispetto alle bambine vengono educati a un’emotività limitata. I genitori, anche se non sempre in modo deliberato, scoraggiano i bambini a esprimere emozioni negative che segnalano debolezza, quali paura, vergogna o tristezza, considerando accettabile invece l’espressione di emozioni «forti» come la rabbia. Il rischio è che il mondo emotivo dei bambini diventi sempre più angusto. Inoltre, anche se la pressione sociale ad assumere comportamenti tipici del proprio genere investe sia i bambini sia le bambine, oggi sono soprattutto i maschi a essere puniti o ridicolizzati in caso di trasgressione.
In che modo gli uomini vengono penalizzati dai pregiudizi di genere?
Etichettiamo come femminili l’emotività e la sensibilità e come maschili la razionalità e la forza, ma di fondo si tratta di qualità dell’essere umano, la cui rinuncia compromette un sano sviluppo psichico e un’esistenza soddisfacente. Per gli uomini, nello specifico, questo corrisponde a condannarsi a molti problemi da un punto di vista psicologico. Qualche dato sulla salute mentale maschile può aiutare a capire. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sulle quasi ottocentomila persone che si tolgono la vita ogni anno, la percentuale degli uomini è doppia rispetto a quella delle donne. La depressione maschile è, infatti, spesso sottovalutata in quanto inconciliabile con l’ideale di uomo forte, vincente e invulnerabile. Altro dato non trascurabile è quello per cui, essendo per gli uomini socialmente poco desiderabile
Lo stereotipo del «vero uomo» condiziona i bambini fin da piccoli, pesando soprattutto sull’emotività. (Marka)
ammettere la propria vulnerabilità, chiedere aiuto a familiari o a persone professioniste della salute psicologica diventa una minaccia insidiosa alla propria mascolinità e dunque un tabù. È difficile scegliere una maschilità diversa da quella dominante?
Abbandonare la maschera di potenza e infallibilità può sortire conseguenze molto negative sia in ambito relazionale sia professionale. Del resto, fare delle scelte conformiste è sempre meno costoso. Quando le proprie scelte si allineano con quelle della maggioranza, nessuno chiede conto della loro bontà, non bisogna difenderle pubblicamente: il codice culturale condiviso fa sì che tutti le considerino ovvie, normali e pertanto giuste e indiscutibili. Dunque, non solo è insufficiente, ma è anche profondamente ingiusto chiedere a
ogni singolo uomo di modificare individualmente il proprio comportamento. Diventa quindi cruciale un lavoro di decostruzione degli stereotipi a livello sociale e culturale.
Le società europee sono pronte per superare gli schemi arcaici di pensiero che ancora penalizzano donne e uomini?
È una domanda complessa. Provo a rispondere articolando la mia risposta in due punti che corrispondono a due modi diversi e complementari che mi sembra di registrare rispetto alla questione. Il primo: in Europa abbiamo compiuto senza dubbio dei progressi importanti per allontanarci dagli schemi arcaici di pensiero. Il punto però è che, proprio in virtù di questi miglioramenti, spesso si riscontra un atteggiamento di «minimizza-
zione selettiva». Riconosciamo che la discriminazione di genere sia stata un problema importante nel passato, ma la riteniamo superata nel presente. Sentendoci affrancati da questo modo di pensare arcaico, percepiamo come inutile parlarne o lavorarci ancora. Il secondo punto è relativo al fatto che spesso vediamo l’uguaglianza di genere come un gioco a somma zero, in cui ci deve essere per forza un genere che vince e uno che perde. Le ricerche ci dicono, invece, che vivere in un paese dove è maggiore l’uguaglianza di genere si associa a maggiore benessere psicologico non solo per le donne, ma anche per gli uomini. Questa è senza dubbio una buona notizia per impegnarsi ad abbandonare definitivamente un retaggio culturale che pesa sulla vita di tutti e tutte noi.
Malgrado lo slancio inclusivo a favore delle persone con disabilità sia stato messo a dura prova dalle misure anti-coronavirus, fondate su principi esattamente opposti, l’associazione atgabbes ha avviato la ripartenza con determinazione e spirito innovativo. Da un lato rimangono le solide basi che ha costruito in oltre cinquant’anni di attività nell’ascoltare i bisogni delle famiglie, approfondirli e trasmetterli alle autorità sovente accompagnati da soluzioni già sperimentate. Dall’altro, il confronto con nuove generazioni di famiglie e professionisti impone una continua evoluzione dell’attività. Ecco quindi quest’estate il primo frutto di un lungo lavoro che punta a ribadire con forza in quale direzione si muove l’associazione e ad adeguare la comunicazione alle necessità dei tempi e ai nuovi mezzi disponibili. Lo storico bollettino è ora un’agile rivista che attraverso il nuovo logo colorato chiarifica l’azione di atgabbes estesa a tutti i cicli di vita secondo cinque principi: includere, rappresentare, informare, accompagnare, associare. Ognuno di questi punti cardine è rappresentato nel nuovo bollettino da un colore, così da identificare con facilità in quale ambito ci si sta muovendo. La forma cartacea, che sarà affiancata da un rinnovato sito internt e dalla presenza sui principali social media, è stata mantenuta anche per valorizzare il dossier dedicato all’approfondimento di un tema d’attualità. L’acronimo diventa inoltre preponderante rispetto al nome per esteso – associazione ticinese di genitori ed amici dei bambini bisognosi di educazione speciale – che resta legato alla costituzione dell’ente alla fine degli anni Sessanta e alle prime rivendicazioni poi sfociate nell’adozione della LISPI (Legge sull’integrazione sociale e professionale degli invalidi) e di un modello scolastico integrato. Oggi atgabbes è molto di più e lo ha dimostrato anche durante l’emergenza. «È proprio quando determinate offerte vengono a mancare che tutti si rendono conto di quanto siano indispensabili», spiega la segretaria di organizzazione Donatella OggierFusi. «L’utilità e il valore dei campi estivi, che per questioni di sicurezza abbiamo dovuto annullare, sono stati ribaditi dalle famiglie e dagli stessi partecipanti. Le prime hanno sopportato per mesi la grande fatica di gestire al domicilio i loro cari (essendo chiusi Laboratori e Centri diurni), mentre alle persone con disabilità sono venute meno esperienze stimolanti che infon-
Famiglie e utenti quest’anno hanno sentito la mancanza dei campi estivi organizzati da atgabbes e annullati a causa della pandemia. (www.atgabbes.ch)
dono allegria e creano senso di appartenenza. Le singole giornate che abbiamo proposto non hanno purtroppo la stessa valenza». Queste proposte sono oggi definite «luoghi di aggregazione» in sintonia con il concetto di inclusione che negli ultimi anni è andato a sostituire quello di integrazione. «Si tratta di un normale percorso evolutivo che non rinnega il passato» tiene a precisare la nostra interlocutrice, forte di un’esperienza trentennale in atgabbes di cui l’ultimo decennio trascorso alla guida del segretariato organizzativo. «L’inclusione presuppone un cambiamento di approccio, spostando il focus dall’individuo al contesto, dal compensare le inabilità al creare opportunità e favorire la qualità di vita, cambiamento che atgabbes vuole contribuire a promuovere. Le proposte inclusive previste dal prossimo autunno si basano sull’attivazione di risorse affinché le offerte aperte ai giovani nel tempo libero possano essere frequentate anche da ragazze e ragazzi con disabilità. I preasili inclusivi sono invece già una realtà, ampliata lo scorso anno per giungere a sei strutture complessive fra soluzioni integrate e inclusive». Se dal punto di vista pratico ci si muove in collaborazione con gli enti presenti sul territorio, da quello teorico la cooperazione è transfrontaliera. L’as-
sociazione è infatti il capofila svizzero del progetto Interreg sull’inclusione, entrato nel vivo nel 2019 con l’organizzazione di due convegni destinati ai rappresentanti di servizi istituzionali ed enti privati. Con questa iniziativa l’associazione torna ad assumere quel ruolo trascinatore che ha caratterizzato i suoi inizi. Anche la rete associativa informale si è riattivata, questa volta più che altro a causa della pandemia. In questo modo si è però riscoperta l’importanza del legame fra le famiglie e del contatto con l’associazione. La vicinanza ai soci e la loro implicazione nelle diverse attività sono temi sui quali il Gruppo di Lugano (l’associazione cantonale conta diversi gruppi regionali) si era d’altronde chinato promuovendo un sondaggio in vista della sua assemblea dei delegati poi rinviata. Esso sarà verosimilmente rilanciato nel corso della ripartenza, perché lo scopo è quello di capire e incuriosire. Capire se quanto si sta facendo corrisponde alle aspettative delle famiglie e incuriosire i soci invitandoli a scoprire in prima persona le attività proposte per sollecitare un maggiore coinvolgimento. Essere la voce di chi vive a contatto con la diversità corrisponde al mandato storico dell’associazione, che in occasione del cinquantesimo ha ribadito il ruolo di antenna in un decalogo
che comprende altri punti cruciali già menzionati quali l’inclusione e la comunicazione. Un altro tema caldo del Decalogo è legato ai cicli di vita. L’invecchiamento tocca non solo le persone con disabilità, ma pure i loro genitori, in prima linea sin dalla nascita dei figli. Un po’ come è avvenuto per i preasili, atgabbes assume un ruolo propositivo. È stato infatti presentato alle autorità un progetto di centro diurno che possa fungere da ponte (questo il nome scelto) per accogliere le persone che a causa dell’età non trovano più un’adeguata sistemazione nei laboratori. Questo progetto – elaborato da Monica Lupi, membro di comitato cantonale e sorella di persona con disabilità – offre in realtà una soluzione anche ai giovani adulti che si trovano in difficoltà con un altro tipo di transizione, quella dalla scuola speciale alle strutture lavorative protette. I bisogni delle persone con disabilità e delle loro famiglie seguono l’evoluzione della società e quindi anche il ruolo del loro diretto portavoce risulta in continuo mutamento. In atgabbes lo spirito con il quale si affrontano le nuove sfide e la vicinanza ai diretti interessati rimangono però intatti. Due capisaldi che la riflessione avviata in occasione del Cinquantesimo ribadisce e concretizza con progetti in parte già avviati e altri in fase di sviluppo.
La tiptoi® mania attualmente in corso nelle filiali Migros prende spunto da un conosciutissimo passatempo inventato da Ravensburger, una delle più importanti case di produzione mondiale di giochi da tavola. Grazie alla penna tiptoi® i libri, i puzzle e i memory diventano altrettanti giochi multimediali, in cui una voce narrante espande l’esperienza di lettura. Per partecipare a questa nuova iniziativa promossa da Migros occorre collezionare le figurine che, fino al 28 settembre, vengono consegnate alle casse delle filiali per ogni acquisto minimo di 20 franchi. Le figurine (la collezione totale ne conta 98) possono essere incollate nell’apposito album e grazie all’esclusivo lettore tiptoi® a forma di penna, scansionando gli appositi codici sarà possibile farsi raccontare tutta una serie di interessanti e anche divertenti spiegazioni sul funzionamento di un supermercato Migros. Chi partecipa al gioco accompagnerà dunque i due personaggi, Max e Lara, nel loro viaggio attraverso gli scaffali, scoprendo ad esempio perché le banane sono curve, come viene prodotto lo yogurt, come si faceva la spesa una volta e cosa succede nel supermercato di notte. L’album è in vendita a Fr. 9.90. Per acquistarlo i membri Famigros ricevono un buono sconto di Fr. 5.–. Ogni album, inoltre, contiene un buono sconto di Fr. 20.– che permette di acquistare il lettore tiptoi® al prezzo speciale di Fr. 34.95. Mostrando la carta Famigros o la carta Cumulus i membri Famigros ricevono gratuitamente una bustina di figurine in più. Avventura al supermercato è stato realizzato dal disegnatore tedesco, collaboratore di Ravensburger, Nikolai Renger, un autore di successo che fino ad oggi ha illustrato oltre 50 libri per bambini.
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3 notti con mezza pensione, l‘ingresso giornaliero ai bagni termali del Leukerbad Terme, Sauna e bagno turco, libero accesso per la teleferica della Gemmi, per persona Leukerbad Plus Card 5 notti con mezza pensione, l‘ingresso giornaliero ai bagni termali del Leukerbad Terme, Sauna e bagno turco, libero accesso per la teleferica della Gemmi, per persona Leukerbad Plus Card 7 notti con mezza pensione, l‘ingresso giornaliero ai bagni termali del Leukerbad Terme, Sauna e bagno turco, libero accesso per la teleferica della Gemmi, per persona Leukerbad Plus Card Supplemento per camera singola Fr. 10.– al giorno su qualsiasi arrangiamento. La più grande piscina termale alpina d‘Europa è a vostra disposizione il giorno dell’arrivo dalle 12h 00
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Società e Territorio La strada degli alpi A piedi o in bici un’escursione immersa nella natura ci porta attraverso la Valle Leventina e la Valle Bedretto
Storia della Sopracenerina Da sede governativa a banca, fino a diventare la sede della Società elettrica: l’edificio costruito negli anni Trenta dell’Ottocento racconta un pezzo di storia locarnese
Testimonianze Per i suoi 50 anni l’Associazione Inter-Agire ha raccolto in un libro le esperienze dei suoi cooperanti dal 1970 a oggi pagina 10
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Sempre viva la voce delle famiglie
Avventure nella filiale Mania L ’affascinante
mondo degli acquisti in un gioco
Associazione Atgabbes «include, rappresenta, informa, accompagna e associa»:
la missione a favore delle persone con disabilità mantiene lo slancio propositivo che la caratterizza da oltre cinquant’anni
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Stefania Hubmann
Le catene che imprigionano gli uomini Intervista Bambini, ragazzi e adulti vengono
condizionati dagli stereotipi di genere, che li penalizzano. Ci spiega come Maria Giuseppina Pacilli, professoressa di Psicologia sociale e autrice di Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità
Stefania Prandi Fin da piccoli ai bambini viene detto di comportarsi da «maschietti», sollecitandoli a «non fare le femminucce» quando piangono, hanno paura oppure si lamentano. Crescendo, l’esortazione da parte di adulti e coetanei continua, trasformandosi nell’imperativo di diventare «veri uomini». Ma cosa significa esattamente essere «veri uomini»? La domanda può fare sorridere chi pensa che maschi si nasca, con un corredo di ormoni specifici, tra i quali primeggia il testosterone, e con caratteristiche fisiche e psicologiche ben definite, che vanno dalla forza, alla predisposizione al comando e alla razionalità. La risposta è in realtà complessa, come spiega Maria Giuseppina Pacilli, professoressa di Psicologia sociale all’Università di Perugia, in Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità (Il Mulino). Nel libro si analizzano le cause e le conseguenze degli stereotipi di genere, del sessismo e delle discriminazioni mostrando come possano essere dannose e svantaggiose anche per gli uomini, sebbene in modo diverso rispetto quanto avviene per le donne. Professoressa Pacilli, cosa significa essere «veri uomini»?
L’espressione «vero uomo» è assai suggestiva. Ci avverte, infatti, che uomini e donne devono stare sempre in guardia per non confondere la versione originale e valida del maschio da quella falsa e di scarsa qualità. Per essere un «vero uomo» sono molti gli imperativi da rispettare, ma il primo e più pressante di tutti è senza dubbio quello di tenere lontano dal proprio modo di sentire, di pensare e di comportarsi la femminilità o forse sarebbe meglio dire ciò che, sulla base degli stereotipi, consideriamo femminile. Un uomo «vero» non mostra le proprie emozioni, non chiede mai aiuto, non ha paura di mettere in atto azioni pericolose, è aggressivamente vincente, interessato al potere e al successo professionale. Essere «veri uomini» è un atto sociale oltre che indi-
viduale e richiede continue e affannose dimostrazioni pubbliche. Non a caso, il timore di non essere abbastanza virili è un sentimento spiacevole che si incontra molto presto nel corso della crescita. Quali sono i principali stereotipi e condizionamenti culturali che un bambino incontra?
I condizionamenti sono numerosi e provengono da varie fonti, in primis la famiglia. Un ambito su cui gli stereotipi pesano molto è, ad esempio, quello dell’emotività. I bambini rispetto alle bambine vengono educati a un’emotività limitata. I genitori, anche se non sempre in modo deliberato, scoraggiano i bambini a esprimere emozioni negative che segnalano debolezza, quali paura, vergogna o tristezza, considerando accettabile invece l’espressione di emozioni «forti» come la rabbia. Il rischio è che il mondo emotivo dei bambini diventi sempre più angusto. Inoltre, anche se la pressione sociale ad assumere comportamenti tipici del proprio genere investe sia i bambini sia le bambine, oggi sono soprattutto i maschi a essere puniti o ridicolizzati in caso di trasgressione.
In che modo gli uomini vengono penalizzati dai pregiudizi di genere?
Etichettiamo come femminili l’emotività e la sensibilità e come maschili la razionalità e la forza, ma di fondo si tratta di qualità dell’essere umano, la cui rinuncia compromette un sano sviluppo psichico e un’esistenza soddisfacente. Per gli uomini, nello specifico, questo corrisponde a condannarsi a molti problemi da un punto di vista psicologico. Qualche dato sulla salute mentale maschile può aiutare a capire. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sulle quasi ottocentomila persone che si tolgono la vita ogni anno, la percentuale degli uomini è doppia rispetto a quella delle donne. La depressione maschile è, infatti, spesso sottovalutata in quanto inconciliabile con l’ideale di uomo forte, vincente e invulnerabile. Altro dato non trascurabile è quello per cui, essendo per gli uomini socialmente poco desiderabile
Lo stereotipo del «vero uomo» condiziona i bambini fin da piccoli, pesando soprattutto sull’emotività. (Marka)
ammettere la propria vulnerabilità, chiedere aiuto a familiari o a persone professioniste della salute psicologica diventa una minaccia insidiosa alla propria mascolinità e dunque un tabù. È difficile scegliere una maschilità diversa da quella dominante?
Abbandonare la maschera di potenza e infallibilità può sortire conseguenze molto negative sia in ambito relazionale sia professionale. Del resto, fare delle scelte conformiste è sempre meno costoso. Quando le proprie scelte si allineano con quelle della maggioranza, nessuno chiede conto della loro bontà, non bisogna difenderle pubblicamente: il codice culturale condiviso fa sì che tutti le considerino ovvie, normali e pertanto giuste e indiscutibili. Dunque, non solo è insufficiente, ma è anche profondamente ingiusto chiedere a
ogni singolo uomo di modificare individualmente il proprio comportamento. Diventa quindi cruciale un lavoro di decostruzione degli stereotipi a livello sociale e culturale.
Le società europee sono pronte per superare gli schemi arcaici di pensiero che ancora penalizzano donne e uomini?
È una domanda complessa. Provo a rispondere articolando la mia risposta in due punti che corrispondono a due modi diversi e complementari che mi sembra di registrare rispetto alla questione. Il primo: in Europa abbiamo compiuto senza dubbio dei progressi importanti per allontanarci dagli schemi arcaici di pensiero. Il punto però è che, proprio in virtù di questi miglioramenti, spesso si riscontra un atteggiamento di «minimizza-
zione selettiva». Riconosciamo che la discriminazione di genere sia stata un problema importante nel passato, ma la riteniamo superata nel presente. Sentendoci affrancati da questo modo di pensare arcaico, percepiamo come inutile parlarne o lavorarci ancora. Il secondo punto è relativo al fatto che spesso vediamo l’uguaglianza di genere come un gioco a somma zero, in cui ci deve essere per forza un genere che vince e uno che perde. Le ricerche ci dicono, invece, che vivere in un paese dove è maggiore l’uguaglianza di genere si associa a maggiore benessere psicologico non solo per le donne, ma anche per gli uomini. Questa è senza dubbio una buona notizia per impegnarsi ad abbandonare definitivamente un retaggio culturale che pesa sulla vita di tutti e tutte noi.
Malgrado lo slancio inclusivo a favore delle persone con disabilità sia stato messo a dura prova dalle misure anti-coronavirus, fondate su principi esattamente opposti, l’associazione atgabbes ha avviato la ripartenza con determinazione e spirito innovativo. Da un lato rimangono le solide basi che ha costruito in oltre cinquant’anni di attività nell’ascoltare i bisogni delle famiglie, approfondirli e trasmetterli alle autorità sovente accompagnati da soluzioni già sperimentate. Dall’altro, il confronto con nuove generazioni di famiglie e professionisti impone una continua evoluzione dell’attività. Ecco quindi quest’estate il primo frutto di un lungo lavoro che punta a ribadire con forza in quale direzione si muove l’associazione e ad adeguare la comunicazione alle necessità dei tempi e ai nuovi mezzi disponibili. Lo storico bollettino è ora un’agile rivista che attraverso il nuovo logo colorato chiarifica l’azione di atgabbes estesa a tutti i cicli di vita secondo cinque principi: includere, rappresentare, informare, accompagnare, associare. Ognuno di questi punti cardine è rappresentato nel nuovo bollettino da un colore, così da identificare con facilità in quale ambito ci si sta muovendo. La forma cartacea, che sarà affiancata da un rinnovato sito internt e dalla presenza sui principali social media, è stata mantenuta anche per valorizzare il dossier dedicato all’approfondimento di un tema d’attualità. L’acronimo diventa inoltre preponderante rispetto al nome per esteso – associazione ticinese di genitori ed amici dei bambini bisognosi di educazione speciale – che resta legato alla costituzione dell’ente alla fine degli anni Sessanta e alle prime rivendicazioni poi sfociate nell’adozione della LISPI (Legge sull’integrazione sociale e professionale degli invalidi) e di un modello scolastico integrato. Oggi atgabbes è molto di più e lo ha dimostrato anche durante l’emergenza. «È proprio quando determinate offerte vengono a mancare che tutti si rendono conto di quanto siano indispensabili», spiega la segretaria di organizzazione Donatella OggierFusi. «L’utilità e il valore dei campi estivi, che per questioni di sicurezza abbiamo dovuto annullare, sono stati ribaditi dalle famiglie e dagli stessi partecipanti. Le prime hanno sopportato per mesi la grande fatica di gestire al domicilio i loro cari (essendo chiusi Laboratori e Centri diurni), mentre alle persone con disabilità sono venute meno esperienze stimolanti che infon-
Famiglie e utenti quest’anno hanno sentito la mancanza dei campi estivi organizzati da atgabbes e annullati a causa della pandemia. (www.atgabbes.ch)
dono allegria e creano senso di appartenenza. Le singole giornate che abbiamo proposto non hanno purtroppo la stessa valenza». Queste proposte sono oggi definite «luoghi di aggregazione» in sintonia con il concetto di inclusione che negli ultimi anni è andato a sostituire quello di integrazione. «Si tratta di un normale percorso evolutivo che non rinnega il passato» tiene a precisare la nostra interlocutrice, forte di un’esperienza trentennale in atgabbes di cui l’ultimo decennio trascorso alla guida del segretariato organizzativo. «L’inclusione presuppone un cambiamento di approccio, spostando il focus dall’individuo al contesto, dal compensare le inabilità al creare opportunità e favorire la qualità di vita, cambiamento che atgabbes vuole contribuire a promuovere. Le proposte inclusive previste dal prossimo autunno si basano sull’attivazione di risorse affinché le offerte aperte ai giovani nel tempo libero possano essere frequentate anche da ragazze e ragazzi con disabilità. I preasili inclusivi sono invece già una realtà, ampliata lo scorso anno per giungere a sei strutture complessive fra soluzioni integrate e inclusive». Se dal punto di vista pratico ci si muove in collaborazione con gli enti presenti sul territorio, da quello teorico la cooperazione è transfrontaliera. L’as-
sociazione è infatti il capofila svizzero del progetto Interreg sull’inclusione, entrato nel vivo nel 2019 con l’organizzazione di due convegni destinati ai rappresentanti di servizi istituzionali ed enti privati. Con questa iniziativa l’associazione torna ad assumere quel ruolo trascinatore che ha caratterizzato i suoi inizi. Anche la rete associativa informale si è riattivata, questa volta più che altro a causa della pandemia. In questo modo si è però riscoperta l’importanza del legame fra le famiglie e del contatto con l’associazione. La vicinanza ai soci e la loro implicazione nelle diverse attività sono temi sui quali il Gruppo di Lugano (l’associazione cantonale conta diversi gruppi regionali) si era d’altronde chinato promuovendo un sondaggio in vista della sua assemblea dei delegati poi rinviata. Esso sarà verosimilmente rilanciato nel corso della ripartenza, perché lo scopo è quello di capire e incuriosire. Capire se quanto si sta facendo corrisponde alle aspettative delle famiglie e incuriosire i soci invitandoli a scoprire in prima persona le attività proposte per sollecitare un maggiore coinvolgimento. Essere la voce di chi vive a contatto con la diversità corrisponde al mandato storico dell’associazione, che in occasione del cinquantesimo ha ribadito il ruolo di antenna in un decalogo
che comprende altri punti cruciali già menzionati quali l’inclusione e la comunicazione. Un altro tema caldo del Decalogo è legato ai cicli di vita. L’invecchiamento tocca non solo le persone con disabilità, ma pure i loro genitori, in prima linea sin dalla nascita dei figli. Un po’ come è avvenuto per i preasili, atgabbes assume un ruolo propositivo. È stato infatti presentato alle autorità un progetto di centro diurno che possa fungere da ponte (questo il nome scelto) per accogliere le persone che a causa dell’età non trovano più un’adeguata sistemazione nei laboratori. Questo progetto – elaborato da Monica Lupi, membro di comitato cantonale e sorella di persona con disabilità – offre in realtà una soluzione anche ai giovani adulti che si trovano in difficoltà con un altro tipo di transizione, quella dalla scuola speciale alle strutture lavorative protette. I bisogni delle persone con disabilità e delle loro famiglie seguono l’evoluzione della società e quindi anche il ruolo del loro diretto portavoce risulta in continuo mutamento. In atgabbes lo spirito con il quale si affrontano le nuove sfide e la vicinanza ai diretti interessati rimangono però intatti. Due capisaldi che la riflessione avviata in occasione del Cinquantesimo ribadisce e concretizza con progetti in parte già avviati e altri in fase di sviluppo.
La tiptoi® mania attualmente in corso nelle filiali Migros prende spunto da un conosciutissimo passatempo inventato da Ravensburger, una delle più importanti case di produzione mondiale di giochi da tavola. Grazie alla penna tiptoi® i libri, i puzzle e i memory diventano altrettanti giochi multimediali, in cui una voce narrante espande l’esperienza di lettura. Per partecipare a questa nuova iniziativa promossa da Migros occorre collezionare le figurine che, fino al 28 settembre, vengono consegnate alle casse delle filiali per ogni acquisto minimo di 20 franchi. Le figurine (la collezione totale ne conta 98) possono essere incollate nell’apposito album e grazie all’esclusivo lettore tiptoi® a forma di penna, scansionando gli appositi codici sarà possibile farsi raccontare tutta una serie di interessanti e anche divertenti spiegazioni sul funzionamento di un supermercato Migros. Chi partecipa al gioco accompagnerà dunque i due personaggi, Max e Lara, nel loro viaggio attraverso gli scaffali, scoprendo ad esempio perché le banane sono curve, come viene prodotto lo yogurt, come si faceva la spesa una volta e cosa succede nel supermercato di notte. L’album è in vendita a Fr. 9.90. Per acquistarlo i membri Famigros ricevono un buono sconto di Fr. 5.–. Ogni album, inoltre, contiene un buono sconto di Fr. 20.– che permette di acquistare il lettore tiptoi® al prezzo speciale di Fr. 34.95. Mostrando la carta Famigros o la carta Cumulus i membri Famigros ricevono gratuitamente una bustina di figurine in più. Avventura al supermercato è stato realizzato dal disegnatore tedesco, collaboratore di Ravensburger, Nikolai Renger, un autore di successo che fino ad oggi ha illustrato oltre 50 libri per bambini.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Idee e acquisti per la settimana
I camion vendita Migros Abbiamo incontrato due ex addetti ai camion vendita Migros – Renato Alessio, autista e Ombretta Grandi, cassiera – che ci hanno raccontato alcuni aneddoti legati alla loro esperienza su questi «negozi ambulanti»
Renato Alessio, ex autista dei camion vendita Migros
«L’ultimo camion vendita Migros è stato dismesso il 22 aprile del 2002. All’epoca la flessibilità di cui si parla tanto oggi era un aspetto all’ordine del giorno. Si era infatti al contempo autisti, cassieri, gerenti, venditori e, talvolta, anche “psicologi” (ride, ndr), soprattutto con gli anziani soli che incontravamo nelle valli e che venivano non solo a fare la spesa, ma anche a scambiare qualche parola. Per noi era sempre un piacere. Ho lavorato sui camion vendita per 12 anni. Ai tempi d’oro avevamo ben undici camion, che non solo si fermavano in quasi tutti i comuni del Ticino, ma che servivano anche la Mesolcina e la Valle Calanca. Uno degli aspetti più belli era il contatto e il rispetto reciproco con i clienti, i quali vedevano nel nostro servizio anche un importante momento di socializzazione. Tra i tragitti indimenticabili percorsi con il camion ricordo quelli delle Centovalli, e in particolare la salita verso Palagnedra, dove a volte le curve strettissime richiedevano di fare anche cinque o più manovre prima di proseguire: una vera impresa. Oppure ancora il passaggio sul ponte di Moneto, un’avventura ad imboccarlo, o ancora non dimenticherò mai le salite verso Brontallo e Verdasio, dove ogni curva era una gioia».
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Il 15° anniversario dei Nostrani del Ticino
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Attualità Festeggia con noi il grande giubileo dei prodotti regionali di Migros Ticino
le. I Nostrani del Ticino rappresentano l’impegno concreto di Migros nel sostenere le più disparate e dinamiche realtà imprenditoriali del territorio ticinese. Acquistando questi prodotti ognuno dà un importante contributo all’economia della nostra bellissima regione. In gir par al Cantón dal 9 al 26 settembre
Quest’anno, in occasione del 15° anniversario, oltre ad una nuova campagna pubblicitaria dedicata ai Nostrani del Ticino, Migros desidera omaggiare l’af-
fezionata clientela rendendola partecipe di un’originale iniziativa. A partire dal 9 e fino al 26 settembre un vecchio camion vendita «griffato» ad hoc ripercorrerà le strade di tutto il Cantone e della Mesolcina con il suo carico di chicche gastronomiche nostrane, facendo tappa in oltre 30 località diverse (si veda programma completo a pag. 6 o su migrosticino.ch). Durante le soste si potranno non solo vedere e acquistare i nostri deliziosi prodotti regionali, ma anche scoprire alcune curiosità e porre delle domande: i visitatori saranno infatti
accolti da due ex addetti ai camion vendita (vedi a fianco) e due promotrici che spiegheranno loro le peculiarità di Migros, Migros Ticino e dei Nostrani del Ticino. Ad ogni tappa i primi 50 clienti riceveranno in omaggio una bellissima borsa della spesa riutilizzabile firmata Nostrani del Ticino. L’ultima tappa del tour itinerante si terrà sabato 26 settembre, presso il Centro S. Antonino, dove il camion vendita sarà presente dalla ore 10.00 alle 17.00. Alcune soste saranno anche seguite da Rete Uno RSI con il programma «C’era una volta… oggi»,
«Sono entrata nella “grande famiglia” Migros proprio lavorando sui camion vendita, nel 1979, dove sono stata attiva fino al 1991. Ho tantissimi bei ricordi legati a questa esperienza. I sacrifici e le peripezie che compivamo pur di poter raggiungere la nostra affezionata clientela sono indimenticabili. Con il brutto e il bel tempo, con la neve o con il ghiaccio, i clienti avevano comunque la certezza che il camion arrivava. Va ricordato che all’epoca non c’erano così tante auto, pertanto il nostro servizio era particolarmente apprezzato. Tra i ricordi più belli c’è sicuramente la prima volta che il camion salì in Val Bavona – credo fosse nell’estate del 1986. Durante il tragitto incontravamo quelle poche macchine di pendolari che scendevano al piano a lavorare e ci davano il benvenuto con strombazzate e cenni di mano dai finestrini. Man mano che si saliva si incontravano donne che falciavano i prati e si fermavano a salutarci. Ad una sosta ci trovammo davanti uno striscione con la scritta “Benvenuta Migros” e almeno 30 persone con borse, gerle e zaini che ci aspettavano con applausi e cori di benvenuto. Poi ci offrirono il caffè dicendoci “ecco un buon caffè per iniziare bene la giornata” e ringraziandoci per aver servito la loro valle. Una grande accoglienza, come grande era la nostra emozione per questa ospitalità inaspettata».
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1. A destinazione con qualsiasi tempo.
e vieni a trovarci sullo storico camion vendita in giro per tutto il Cantone Quest’anno Migros Ticino celebra un importante traguardo: sono infatti passati esattamente 15 anni dal lancio del marchio dei Nostrani del Ticino. La caratteristica coccarda, diventata ormai un simbolo inequivocabile presso la clientela, dal 2005 contrassegna gli oltre 300 prodotti regionali dell’assortimento. Derrate che nascono o vengono trasformate esclusivamente in Ticino da decine di produttori locali che quotidianamente si adoperano con cura e passione nell’offrire ai consumatori delle specialità di qualità ineccepibi-
Ombretta Grandi, ex cassiera sui camion vendita Migros
condotto da Fabrizio Casati e Loriana Sertoni. Ma non finisce qui: per l’occasione è stato creato l’hashtag dedicato #veramentenostrano, dove ognuno potrà pubblicare i propri selfie e partecipare ad un concorso. Infine, segnaliamo che tutte le attività si terranno nel pieno rispetto delle misure di protezione emanate dall’UFSP. Informazioni
Trovi tutte le informazioni aggiornate su migrosticino.ch
2. Nella metà del secolo scorso i camion vendita Migros erano un punto di riferimento essenziale. 3. Non solo la spesa, ma anche un momento di socializzazione. 4. L’assortimento dei camion vendita Migros era in grado di soddisfare le principali necessità quotidiane della clientela.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Idee e acquisti per la settimana
I camion vendita Migros Abbiamo incontrato due ex addetti ai camion vendita Migros – Renato Alessio, autista e Ombretta Grandi, cassiera – che ci hanno raccontato alcuni aneddoti legati alla loro esperienza su questi «negozi ambulanti»
Renato Alessio, ex autista dei camion vendita Migros
«L’ultimo camion vendita Migros è stato dismesso il 22 aprile del 2002. All’epoca la flessibilità di cui si parla tanto oggi era un aspetto all’ordine del giorno. Si era infatti al contempo autisti, cassieri, gerenti, venditori e, talvolta, anche “psicologi” (ride, ndr), soprattutto con gli anziani soli che incontravamo nelle valli e che venivano non solo a fare la spesa, ma anche a scambiare qualche parola. Per noi era sempre un piacere. Ho lavorato sui camion vendita per 12 anni. Ai tempi d’oro avevamo ben undici camion, che non solo si fermavano in quasi tutti i comuni del Ticino, ma che servivano anche la Mesolcina e la Valle Calanca. Uno degli aspetti più belli era il contatto e il rispetto reciproco con i clienti, i quali vedevano nel nostro servizio anche un importante momento di socializzazione. Tra i tragitti indimenticabili percorsi con il camion ricordo quelli delle Centovalli, e in particolare la salita verso Palagnedra, dove a volte le curve strettissime richiedevano di fare anche cinque o più manovre prima di proseguire: una vera impresa. Oppure ancora il passaggio sul ponte di Moneto, un’avventura ad imboccarlo, o ancora non dimenticherò mai le salite verso Brontallo e Verdasio, dove ogni curva era una gioia».
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Il 15° anniversario dei Nostrani del Ticino
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Attualità Festeggia con noi il grande giubileo dei prodotti regionali di Migros Ticino
le. I Nostrani del Ticino rappresentano l’impegno concreto di Migros nel sostenere le più disparate e dinamiche realtà imprenditoriali del territorio ticinese. Acquistando questi prodotti ognuno dà un importante contributo all’economia della nostra bellissima regione. In gir par al Cantón dal 9 al 26 settembre
Quest’anno, in occasione del 15° anniversario, oltre ad una nuova campagna pubblicitaria dedicata ai Nostrani del Ticino, Migros desidera omaggiare l’af-
fezionata clientela rendendola partecipe di un’originale iniziativa. A partire dal 9 e fino al 26 settembre un vecchio camion vendita «griffato» ad hoc ripercorrerà le strade di tutto il Cantone e della Mesolcina con il suo carico di chicche gastronomiche nostrane, facendo tappa in oltre 30 località diverse (si veda programma completo a pag. 6 o su migrosticino.ch). Durante le soste si potranno non solo vedere e acquistare i nostri deliziosi prodotti regionali, ma anche scoprire alcune curiosità e porre delle domande: i visitatori saranno infatti
accolti da due ex addetti ai camion vendita (vedi a fianco) e due promotrici che spiegheranno loro le peculiarità di Migros, Migros Ticino e dei Nostrani del Ticino. Ad ogni tappa i primi 50 clienti riceveranno in omaggio una bellissima borsa della spesa riutilizzabile firmata Nostrani del Ticino. L’ultima tappa del tour itinerante si terrà sabato 26 settembre, presso il Centro S. Antonino, dove il camion vendita sarà presente dalla ore 10.00 alle 17.00. Alcune soste saranno anche seguite da Rete Uno RSI con il programma «C’era una volta… oggi»,
«Sono entrata nella “grande famiglia” Migros proprio lavorando sui camion vendita, nel 1979, dove sono stata attiva fino al 1991. Ho tantissimi bei ricordi legati a questa esperienza. I sacrifici e le peripezie che compivamo pur di poter raggiungere la nostra affezionata clientela sono indimenticabili. Con il brutto e il bel tempo, con la neve o con il ghiaccio, i clienti avevano comunque la certezza che il camion arrivava. Va ricordato che all’epoca non c’erano così tante auto, pertanto il nostro servizio era particolarmente apprezzato. Tra i ricordi più belli c’è sicuramente la prima volta che il camion salì in Val Bavona – credo fosse nell’estate del 1986. Durante il tragitto incontravamo quelle poche macchine di pendolari che scendevano al piano a lavorare e ci davano il benvenuto con strombazzate e cenni di mano dai finestrini. Man mano che si saliva si incontravano donne che falciavano i prati e si fermavano a salutarci. Ad una sosta ci trovammo davanti uno striscione con la scritta “Benvenuta Migros” e almeno 30 persone con borse, gerle e zaini che ci aspettavano con applausi e cori di benvenuto. Poi ci offrirono il caffè dicendoci “ecco un buon caffè per iniziare bene la giornata” e ringraziandoci per aver servito la loro valle. Una grande accoglienza, come grande era la nostra emozione per questa ospitalità inaspettata».
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1. A destinazione con qualsiasi tempo.
e vieni a trovarci sullo storico camion vendita in giro per tutto il Cantone Quest’anno Migros Ticino celebra un importante traguardo: sono infatti passati esattamente 15 anni dal lancio del marchio dei Nostrani del Ticino. La caratteristica coccarda, diventata ormai un simbolo inequivocabile presso la clientela, dal 2005 contrassegna gli oltre 300 prodotti regionali dell’assortimento. Derrate che nascono o vengono trasformate esclusivamente in Ticino da decine di produttori locali che quotidianamente si adoperano con cura e passione nell’offrire ai consumatori delle specialità di qualità ineccepibi-
Ombretta Grandi, ex cassiera sui camion vendita Migros
condotto da Fabrizio Casati e Loriana Sertoni. Ma non finisce qui: per l’occasione è stato creato l’hashtag dedicato #veramentenostrano, dove ognuno potrà pubblicare i propri selfie e partecipare ad un concorso. Infine, segnaliamo che tutte le attività si terranno nel pieno rispetto delle misure di protezione emanate dall’UFSP. Informazioni
Trovi tutte le informazioni aggiornate su migrosticino.ch
2. Nella metà del secolo scorso i camion vendita Migros erano un punto di riferimento essenziale. 3. Non solo la spesa, ma anche un momento di socializzazione. 4. L’assortimento dei camion vendita Migros era in grado di soddisfare le principali necessità quotidiane della clientela.
n ó t n a C l a r a p r i g n I 9-26 settembre
Torna il glorioso camion Migros! Non mancare l’appuntamento con il suo viaggio itinerante in occasione dei festeggiamenti per il 15° anniversario dei Nostrani del Ticino. Il mitico camion vendita Migros ti riaccoglierà a partire dal 9 settembre in diverse località del Cantone, ripercorrendo alcuni dei vecchi tracciati. Durante le diverse soste potrai scoprire e acquistare pregiati prodotti nostrani a km zero. Trovi tutte le informazioni sul sito www.migrosticino.ch Per ogni tappa i primi 50 clienti verranno omaggiati con una borsa della spesa riutilizzabile griffata Nostrani del Ticino.
Il programma delle tappe MERCOLEDÌ 9 SETTEMBRE Piazza Ponte, ore 9.00 – 11.00 Mendrisio Arzo Posteggi Scuole, ore 14.00 – 16.00
VENERDÌ 18 SETTEMBRE Zona Cisüra, ore 9.00 – 11.00 Intragna Palagnedra Casa Comunale, ore 14.00 – 16.00
GIOVEDÌ 10 SETTEMBRE Piazza di giro nucleo, ore 9.00 – 11.00 Bedigliora Arosio Posteggi zona asilo, ore 14.00 – 16.00
SABATO 19 SETTEMBRE Posteggi ex Scuole ore 9.00 – 11.00 Chironico Airolo Piazza di Valle, ore 14.00 – 16.00
VENERDÌ 11 SETTEMBRE Posteggi Via della Chiesa, ore 9.00 – 11.00 Tesserete Bogno Piazza, ore 14.00 – 16.00
LUNEDÌ 21 SETTEMBRE S. Maria (Calanca) Posteggi zona Casa Comunale, ore 9.00 – 11.00 Roveredo (GR) Posteggi Sótt i Nós, ore 14.00 – 16.00
SABATO 12 SETTEMBRE Piazza Castello, ore 9.00 – 16.00 Lugano
MARTEDÌ 22 SETTEMBRE Posteggi Via Carena, ore 9.00 – 11.00 Carena Camorino Piazza, ore 14.00 – 16.00
LUNEDÌ 14 SETTEMBRE Municipio, ore 9.00 – 11.00 Sonogno Brione Verzasca Piazza, ore 14.00 – 16.00 MARTEDÌ 15 SETTEMBRE Piazzale Chiesa S. Martino, ore 9.00 – 11.00 Bironico Isone Piazza San Luriens, ore 14.00 – 16.00 MERCOLEDÌ 16 SETTEMBRE Posteggi Casa Comunale, ore 9.00 – 11.00 Magadino Contone Via delle Scuole, ore 14.00 – 16.00 GIOVEDÌ 17 SETTEMBRE Posteggi Palexpo, ore 9.00 – 11.00 Locarno Losone Posteggi Do it Migros, ore 14.00 – 16.00
MERCOLEDÌ 23 SETTEMBRE Piazza, ore 9.00 – 11.00 Osogna Personico ex Latteria, ore 14.00 – 16.00 GIOVEDÌ 24 SETTEMBRE Piazza, ore 9.00 – 11.00 Cavergno Brontallo Paese, ore 14.00 – 16.00 VENERDÌ 25 SETTEMBRE Posteggi fermata Autobus, ore 9.00 – 11.00 Dongio Aquila Posteggi ex Posta, ore 14.00 – 16.00 SABATO 26 SETTEMBRE Centro Migros, ore 10.00 – 17.00 S. Antonino
Attenzione: il programma e l’itinerario potrebbero subire variazioni. Trovate tutti gli aggiornamenti su migrosticino.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Società e Territorio
Una via tra alpi, pascoli e boschi Escursioni La «Strada degli alpi» unisce una decina di alpi tra Valle Bedretto e Leventina, per una gita,
a piedi o in bicicletta, immersi nella natura
Elia Stampanoni La «Strada degli alpi» collega una decina di alpi e corti dalla Valle Leventina alla Valle Bedretto, sul versante destro e lungo una comoda ma comunque impegnativa via pedestre e anche ciclabile. Il percorso offre differenti possibilità di partenza o d’arrivo, così come anche alcune varianti d’accesso, ma la versione «integrale» prevede la partenza da Airolo, da dove si può approfittare della funivia per salire a Pesciüm e raggiungere così velocemente i 1746 metri d’altitudine. Nel periodo estivo s’udiranno presto i primi rumori tipici degli alpi, ossia i campanacci delle mucche al pascolo, che saranno un elemento ricorrente durante la traversata. La via segue una strada sterrata chiusa al traffico che, alternata a suggestivi tratti di sentiero, conduce dopo una decina di chilometri fino all’Alpe di Valleggia, l’ultimo del percorso e da cui si potrà scendere a Ronco di Bedretto e tornare così al punto di partenza, per esempio utilizzando i trasporti pubblici. Altre possibilità per raggiungere il fondovalle s’incontrano anche in precedenza, in caso si volesse accorciare la gita che, completata interamente, permette di «toccare», nell’ordine dopo Pesciüm con Grasso di Pesciüm e un po’ più discosto Cascina Nuova, l’Alpe Ruinò e quindi Pian Pescia, Cristallina, Stabiello, Folcra e Valleggia. Questi alpi, che appartengono a diversi Patriziati del distretto
di Leventina, per esempio quelli di Airolo, Bedretto, Giornico o Cavagnago, vengono caricati ogni anno soprattutto con mucche da latte e altri bovini, permettendo così anche la produzione di formaggi d’alpe. Al di là degli alpi e del formaggio, la passeggiata offre però innanzitutto un territorio da ammirare, immersi nel silenzio delle montagne che ben s’amalgama ai rumori del bestiame, della natura o dei fiumi, ma anche ai possibili fischi delle marmotte, ormai abituate al passaggio dei camminatori o ciclisti che intraprendono la traversata. Dopo il primo tratto con qualche salita, la strada scende gradualmente verso l’alpe di Ruinò e Pian di Pescia, per poi risalire, dopo aver toccato i 1629 metri d’altitudine, verso l’Alpe Cristallina a 1800 metri, una tra le costruzioni più importanti che s’incontrano. Il percorso continua a montare lungo un bel sentiero e, dopo Stabiell, si raggiunge il punto più alto dell’escursione nei pressi dell’Alpe di Folcra, poco oltre i 1900 metri d’altitudine. Qui, forse ancor maggiormente, si sente «l’aria» d’alta montagna, con altri laghetti e ruscelli, montagne vicine e lontane, lariceti pascolati e sparuti nevai. I boschi s’alternano ai pascoli che, nei pressi degli alpi o delle corti, sono spesso colonizzati da romici alpini, erbe tipiche anche delle Alpi, soprattutto dei pascoli e delle zone dove sostano gli animali. Mucche che nei mesi estivi s’incontreranno o per lo meno si vedranno quasi certa-
Ronco Bedretto, ultima tappa del percorso. (Ti-Press)
mente durante la camminata e accompagneranno fino all’ultimo alpe di questo itinerario, quello di Valleggia, il cui corte principale si trova a 1753 metri d’altitudine. I sentieri escursionistici segnalano qui a soli 50 minuti la località di Ronco, che si può raggiungere dopo una discesa su una strada sterrata e rientrare quindi ad Airolo, per esempio con l’autopostale, percorrendo la valle
Bedretto, dove gli amanti della bicicletta è stato appositamente pensato il percorso «Alpi Bedretto bike». Adatto alla mountain bike, prevede qualche piccola variante per evitare i tratti di sentiero più stretti, ripidi e difficoltosi, ma conduce anch’esso da Airolo (o da Pesciüm) fino a Ronco per poi ritornare al punto di partenza sul fondovalle, percorrendo il lato sinistro della Valle Bedretto. Come indicato da Svizzera
mobile, si tratta di un percorso di media difficoltà, su una distanza di 24 km e «uno dei più belli dell’Alto Ticino». La «Strada degli alpi», oltre ad essere segnalata con questo nome sui cartelli escursionistici gialli (accanto ai cartelli rossi di «Alpi Bedretto bike» e alla segnaletica del «Sentiero dei passi alpini»), è pure indicata con il simbolo «Alpeggi senza confini». Il tragitto è, infatti, parte dell’omonimo progetto transfrontaliero ideato nel corso di un progetto INTERREG e inaugurato nel 2009. Il percorso italo-svizzero unisce la conca alpina dell’Alpe Veglia (nel Parco naturale dell’Alpe Veglia e dell’Alpe Devero) ad Airolo e il tratto in territorio ticinese è in pratica lo stesso di quello della «Strada degli alpi». L’itinerario, di quasi 90 chilometri, voleva già allora avvicinare il turista al mondo alpestre ossolano e ticinese, offrendo la possibilità di avere un contatto con gli alpigiani, d’osservare in prima persona gli animali, i pascoli e le attività svolte. Oltre alla segnaletica disposta lungo il percorso, il progetto aveva permesso d’allestire dei pannelli illustrativi per ogni singolo alpe che oggi sono ancora visibili, riportando alcune informazioni basilari, come altitudine, comune d’appartenenza, nucleo abitativo più vicino, tipi d’animali presenti, proprietario, caricatore e una breve descrizione (in italiano, tedesco, francese e inglese) su come e dove viene prodotto il formaggio e gli altri prodotti degli alpi. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Società e Territorio
Società e Territorio
Un palazzo, cento storie
Locarno Costruito negli anni Trenta dell’Ottocento l’edificio che oggi tutti conoscono come «la Sopracenerina»
è stato la sede governativa nei periodi in cui la città sul Verbano era la capitale del Cantone
Nicola Pini* La realizzazione del Palazzo oggi comunemente definito «della Sopracenerina» – proprietaria dello stabile – data degli anni Trenta dell’Ottocento ed è frutto di una contingenza storica particolare, quella della capitale itinerante, quando Bellinzona, Lugano e Locarno ospitano a rotazione le istituzioni cantonali. Pratica, questa, mai piaciuta al Franscini, che vi avrebbe preferito un nuovo capoluogo sul Ceneri chiamato Concordia, e interrotta nel 1878 da una votazione popolare con 14’000 sì e 7000 no. È proprio un impeto di orgoglio, prima di diventare per la seconda volta capoluogo, che spinge un gruppo di cittadini locarnesi a dare vita al Palazzo Governativo, uno fra i primi edifici ad essere progettato per fungere specificatamente da sede di Autorità e pubblica amministrazione. Il Palazzo è costruito tra il 1837 e il 1839 su iniziativa di un gruppo di cittadini che, costituendo una «Società di azioni», si dice disposto a finanziarlo per dare una degna casa alle Istituzioni. Una prassi, questa, diffusa nell’Ottocento, quando le principali iniziative per modernizzare Locarno – l’asilo infantile nel 1845, l’ospedale La Carità nel 1872, la fondazione della Società Locarnese per l’introduzione del gas nel 1875 e per l’acqua potabile nel 1896 – sono gestite da un nucleo ristretto di famiglie borghesi e terriere, con tutta probabilità per superare un
Il Ferragosto dei lavori di restauro del Palazzo a fine Ottocento. (Archivio di Stato, Fondo BernasconiBrunel)
certo immobilismo e delle evidenti ristrettezze finanziarie. Le informazioni riguardanti la nascita del Palazzo sono copiose e dettagliate, in particolare grazie ad un importante e minuzio-
so lavoro di ricerca da parte di Jessica Beffa («Locarno capoluogo – Il borgo come sede delle autorità cantonali nella prima metà dell’Ottocento», in Bollettino della Società Storica Locarnese, n.
19, 2015), che permette di ripercorrere quasi passo per passo progettazione e realizzazione della struttura. Per farla breve, la Società, dopo aver fatto elaborare differenti progetti, opta per quello
proposto da Giuseppe Pioda, fratello del più famoso Giovan Battista che sostituì Stefano Franscini in Consiglio federale, che ha progettato l’attuale Casa anziani San Carlo e, nel ruolo di
ingegnere del Cantone, diverse strade (fra le quali la litoranea verso Brissago). La convenzione siglata dal Consiglio di Stato comprende la realizzazione di sale per Gran Consiglio, Consiglio di Stato, segretario di Stato, ufficio contabilità generale, archivio cantonale, ufficio del bollo, direzione delle poste, commissione della pubblica istruzione, segretario dei registri militari e di polizia, come anche cucina, camera per l’usciere custode e un sito per il corpo di guardia vicino alla porta. Locarno è stata capitale del Canton Ticino per quattro volte, nei periodi 1821-1827, 1839-1845, 1857-1863 e 1875-1881; la prima volta le Istituzioni occupano il convento di San Francesco, mentre le altre proprio Palazzo Governativo. Secondo Rodolfo Huber, archivista della Città e apprezzato studioso della storia locarnese, questi periodi hanno avuto un effetto modernizzatore e integrativo per Locarno, che poteva beneficiare non solo di una certa immediatezza delle decisioni, ma anche di una Città più pulita e sicura anche grazie a provvedimenti straordinari di utilità pubblica. Quando la politica albergava altrove, il Palazzo ospitava assemblee, cerimonie, veglioni di carnevale, commerci e abitazioni. Insomma, un vero e proprio «Palazzo sociale ad uso Residenza governativa» (così è definito il Palazzo in un carteggio della Mutuo Soccorso). Da segnalare che dal 1854 lo stabile è anche sede, contemporaneamente, del Teatro di Locarno: «fino al 1893» – scrive Teresio Valsesia («Voglia di teatro (1850-1902)» in Amor ci mosse… I cent’anni del Teatro di Locarno, 2003) – «l’austera sala viene usata alternativamente dal Gran Consiglio e dal «carnevale delle rappresentazioni». Si possono immaginare i commenti e gli ammiccamenti su quale fosse, dei due, il «carnevale» più autentico e divertente». Nel 1893 il Palazzo viene acquista-
to dal Credito Ticinese, banca fondata qualche anno prima, che ne fa la propria sede. Un passaggio che avviene dopo un primo mancato acquisto dello stabile da parte della Città, per il quale il Municipio (conservatore) è contestato dal giornale «Il Dovere» (liberale) sia nel metodo (decisione presa in seduta straordinaria e senza l’avvallo dell’assemblea comunale) che nel merito (in quanto l’acquisto avrebbe evitato la costruzione di un nuovo edificio scolastico). All’alluvione del 1907 – superata non senza difficoltà, come quella del 1868, di cui il Palazzo porta ancora il segno su una colonna interna – segue un’altra calamità, un metaforico terremoto: il crack bancario del 1914 che – oltre a polverizzare i risparmi di molti cittadini e causare, secondo le cronache del tempo, dei suicidi – sancisce il fallimento di diverse banche, fra le quali il Credito Ticinese, ma anche la Banca Cantonale, discreditando il mondo economico e imbarazzando quello politico. Fra le cause dei fallimenti, infatti, non solo una generale crisi economica in Svizzera, ma anche strutture inadeguate, operazioni ad alto rischio e una gestione basata su criteri partitici più che economici: da una parte il Credito Ticinese, banca dei conservatori, dall’altra la Banca Cantonale, in mano liberale. Il fallimento di queste due banche sopracenerine – di Locarno il Credito, di Bellinzona la Banca Cantonale – ha favorito lo spostamento dal Sopra al Sottoceneri del centro economico-finanziario del Cantone e portato alla creazione nel 1915 da parte delle Autorità cantonali – per ridare fiducia ai risparmiatori – dell’attuale Banca Stato. Ma torniamo al Palazzo, che viene ripreso da un altro istituto di credito, la Banca Svizzera Americana (ora UBS). La Banca Svizzera Americana intavola trattative per la vendita del Palazzo, in particolare con il Municipio di
Locarno. Trattative che iniziano nel dicembre del 1915 e diventano roventi nel giugno del 1917 con la convocazione di ben tre Consigli Comunali in pochi giorni. In breve la banca chiede 280’000 franchi, mentre il Municipio non vuole andare oltre i 250’000; la Commissione speciale del Consiglio comunale rovescia il parere del Municipio e propone l’acquisto al prezzo richiesto, ma al momento del voto il rapporto commissionale – seppur raccogliendo 20 voti favorevoli (rispetto a 13 contrari) – non raggiunge per un voto la maggioranza assoluta e dunque non è approvato. A pesare per il no ragioni finanziarie (siamo in piena Grande Guerra) e la questione morale relativa al testamento del Barone Marcacci, il quale alla sua morte donò un edificio alla Città proprio perché vi insediasse il Municipio (l’attuale Palazzo Marcacci, in effetti ancora sede del Comune). Caduta l’opzione di un acquisto da parte di Locarno – opzione che tornerà in discussione, ma senza esito, nel 1933 – spunta così la Società elettrica Locarnese (SEL), nata nel 1903: inizia l’epoca elettrica, ancora attuale (nel 1933 la SEL, fondendosi con la Società Elettrica Tre Valli, creerà l’attuale Società Elettrica Sopracenerina). A spiccare, nella vicenda, la figura di Giovanni Pedrazzini, «pioniere» e «benefattore» (parole di Piero Bianconi), il cui busto svetta ancora nel Palazzo, salendo le scale: dopo aver fatto fortuna in America, contribuisce allo sviluppo di Città e regione, fondando e presiedendo Società elettrica e Banca Svizzera-Americana, promuovendo la funicolare Madonna del Sasso e la ferrovia Valmaggina, edificando il Quartiere nuovo (attorno a Piazza Pedrazzini) e ricoprendo le cariche di Gran Consigliere e Sindaco di Locarno (1914-16). Ai più attenti non sarà sfuggita la delicatezza della situazione: Presidente della banca che vuole vendere il Palazzo, già Sindaco di Locarno che
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vede sfumare l’acquisto dell’immobile, Presidente della Società elettrica che per finire lo acquista (con un prestito ipotecario della Banca che presiede). La prima grande trasformazione fisica avviene nel 1893 con l’eliminazione del grande frontone centrale triangolare sovrastante la facciata principale, ad opera dell’architetto Alessandro Ghezzi, pare a causa di perdite d’acqua. Nel 1917 l’architetto Eugenio Cavadini attua invece una ristrutturazione interna e la modifica della facciata posteriore, in particolare l’eliminazione delle scuderie. Negli anni Cinquanta, più precisamente nel 1955, avviene la seconda importante modifica alterante del Palazzo e della facciata principale, ad opera questa volta del celebre architetto locarnese Paolo Mariotta (1905–1972), il quale inserisce degli imponenti archi, probabilmente per ingrandire e illuminare maggiormente gli spazi adibiti ai commerci; modifica che subisce la critica di eminenti intel-
lettuali come Virgilio Gilardoni e Piero Bianconi. Nel 1993 viene installata una cupola di vetro a copertura della corte interna con l’intento di creare un nuovo spazio per incontri e manifestazioni: l’autore è Mario Botta, che definirà l’opera un «prolungamento naturale della Piazza». Una valorizzazione, quella della corte interna, che passa anche dal rifacimento negli anni 2000 della pavimentazione interna (disegno a scacchiera con zone chiare e scure) ed esterna (pensata per dare continuità alla corte interna posando grandi lastre di granito Onsernone), ad opera degli studenti della Hochschule für Technik di Stoccarda guidati dal loro professore, l’architetto ticinese Claudio Cavadini. Un Palazzo aperto, quindi, verso la Piazza e idealmente i suoi cittadini; aperto verso un futuro ancora tutto da vivere e, prima o poi, da raccontare. * Storico Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Società e Territorio
Società e Territorio
Un palazzo, cento storie
Locarno Costruito negli anni Trenta dell’Ottocento l’edificio che oggi tutti conoscono come «la Sopracenerina»
è stato la sede governativa nei periodi in cui la città sul Verbano era la capitale del Cantone
Nicola Pini* La realizzazione del Palazzo oggi comunemente definito «della Sopracenerina» – proprietaria dello stabile – data degli anni Trenta dell’Ottocento ed è frutto di una contingenza storica particolare, quella della capitale itinerante, quando Bellinzona, Lugano e Locarno ospitano a rotazione le istituzioni cantonali. Pratica, questa, mai piaciuta al Franscini, che vi avrebbe preferito un nuovo capoluogo sul Ceneri chiamato Concordia, e interrotta nel 1878 da una votazione popolare con 14’000 sì e 7000 no. È proprio un impeto di orgoglio, prima di diventare per la seconda volta capoluogo, che spinge un gruppo di cittadini locarnesi a dare vita al Palazzo Governativo, uno fra i primi edifici ad essere progettato per fungere specificatamente da sede di Autorità e pubblica amministrazione. Il Palazzo è costruito tra il 1837 e il 1839 su iniziativa di un gruppo di cittadini che, costituendo una «Società di azioni», si dice disposto a finanziarlo per dare una degna casa alle Istituzioni. Una prassi, questa, diffusa nell’Ottocento, quando le principali iniziative per modernizzare Locarno – l’asilo infantile nel 1845, l’ospedale La Carità nel 1872, la fondazione della Società Locarnese per l’introduzione del gas nel 1875 e per l’acqua potabile nel 1896 – sono gestite da un nucleo ristretto di famiglie borghesi e terriere, con tutta probabilità per superare un
Il Ferragosto dei lavori di restauro del Palazzo a fine Ottocento. (Archivio di Stato, Fondo BernasconiBrunel)
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so lavoro di ricerca da parte di Jessica Beffa («Locarno capoluogo – Il borgo come sede delle autorità cantonali nella prima metà dell’Ottocento», in Bollettino della Società Storica Locarnese, n.
19, 2015), che permette di ripercorrere quasi passo per passo progettazione e realizzazione della struttura. Per farla breve, la Società, dopo aver fatto elaborare differenti progetti, opta per quello
proposto da Giuseppe Pioda, fratello del più famoso Giovan Battista che sostituì Stefano Franscini in Consiglio federale, che ha progettato l’attuale Casa anziani San Carlo e, nel ruolo di
ingegnere del Cantone, diverse strade (fra le quali la litoranea verso Brissago). La convenzione siglata dal Consiglio di Stato comprende la realizzazione di sale per Gran Consiglio, Consiglio di Stato, segretario di Stato, ufficio contabilità generale, archivio cantonale, ufficio del bollo, direzione delle poste, commissione della pubblica istruzione, segretario dei registri militari e di polizia, come anche cucina, camera per l’usciere custode e un sito per il corpo di guardia vicino alla porta. Locarno è stata capitale del Canton Ticino per quattro volte, nei periodi 1821-1827, 1839-1845, 1857-1863 e 1875-1881; la prima volta le Istituzioni occupano il convento di San Francesco, mentre le altre proprio Palazzo Governativo. Secondo Rodolfo Huber, archivista della Città e apprezzato studioso della storia locarnese, questi periodi hanno avuto un effetto modernizzatore e integrativo per Locarno, che poteva beneficiare non solo di una certa immediatezza delle decisioni, ma anche di una Città più pulita e sicura anche grazie a provvedimenti straordinari di utilità pubblica. Quando la politica albergava altrove, il Palazzo ospitava assemblee, cerimonie, veglioni di carnevale, commerci e abitazioni. Insomma, un vero e proprio «Palazzo sociale ad uso Residenza governativa» (così è definito il Palazzo in un carteggio della Mutuo Soccorso). Da segnalare che dal 1854 lo stabile è anche sede, contemporaneamente, del Teatro di Locarno: «fino al 1893» – scrive Teresio Valsesia («Voglia di teatro (1850-1902)» in Amor ci mosse… I cent’anni del Teatro di Locarno, 2003) – «l’austera sala viene usata alternativamente dal Gran Consiglio e dal «carnevale delle rappresentazioni». Si possono immaginare i commenti e gli ammiccamenti su quale fosse, dei due, il «carnevale» più autentico e divertente». Nel 1893 il Palazzo viene acquista-
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Locarno. Trattative che iniziano nel dicembre del 1915 e diventano roventi nel giugno del 1917 con la convocazione di ben tre Consigli Comunali in pochi giorni. In breve la banca chiede 280’000 franchi, mentre il Municipio non vuole andare oltre i 250’000; la Commissione speciale del Consiglio comunale rovescia il parere del Municipio e propone l’acquisto al prezzo richiesto, ma al momento del voto il rapporto commissionale – seppur raccogliendo 20 voti favorevoli (rispetto a 13 contrari) – non raggiunge per un voto la maggioranza assoluta e dunque non è approvato. A pesare per il no ragioni finanziarie (siamo in piena Grande Guerra) e la questione morale relativa al testamento del Barone Marcacci, il quale alla sua morte donò un edificio alla Città proprio perché vi insediasse il Municipio (l’attuale Palazzo Marcacci, in effetti ancora sede del Comune). Caduta l’opzione di un acquisto da parte di Locarno – opzione che tornerà in discussione, ma senza esito, nel 1933 – spunta così la Società elettrica Locarnese (SEL), nata nel 1903: inizia l’epoca elettrica, ancora attuale (nel 1933 la SEL, fondendosi con la Società Elettrica Tre Valli, creerà l’attuale Società Elettrica Sopracenerina). A spiccare, nella vicenda, la figura di Giovanni Pedrazzini, «pioniere» e «benefattore» (parole di Piero Bianconi), il cui busto svetta ancora nel Palazzo, salendo le scale: dopo aver fatto fortuna in America, contribuisce allo sviluppo di Città e regione, fondando e presiedendo Società elettrica e Banca Svizzera-Americana, promuovendo la funicolare Madonna del Sasso e la ferrovia Valmaggina, edificando il Quartiere nuovo (attorno a Piazza Pedrazzini) e ricoprendo le cariche di Gran Consigliere e Sindaco di Locarno (1914-16). Ai più attenti non sarà sfuggita la delicatezza della situazione: Presidente della banca che vuole vendere il Palazzo, già Sindaco di Locarno che
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lettuali come Virgilio Gilardoni e Piero Bianconi. Nel 1993 viene installata una cupola di vetro a copertura della corte interna con l’intento di creare un nuovo spazio per incontri e manifestazioni: l’autore è Mario Botta, che definirà l’opera un «prolungamento naturale della Piazza». Una valorizzazione, quella della corte interna, che passa anche dal rifacimento negli anni 2000 della pavimentazione interna (disegno a scacchiera con zone chiare e scure) ed esterna (pensata per dare continuità alla corte interna posando grandi lastre di granito Onsernone), ad opera degli studenti della Hochschule für Technik di Stoccarda guidati dal loro professore, l’architetto ticinese Claudio Cavadini. Un Palazzo aperto, quindi, verso la Piazza e idealmente i suoi cittadini; aperto verso un futuro ancora tutto da vivere e, prima o poi, da raccontare. * Storico Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Partire è uno stato d’animo
Pubblicazioni Per i suoi 50 anni l’Associazione Inter-Agire ha raccolto in un libro le esperienze dei suoi cooperanti
dal 1970 a oggi. L’autrice, la giornalista Sara Rossi Guidicelli, ci racconta gli incontri e le emozioni che hanno reso possibile la stesura di Storie di questo mondo
Sara Rossi Guidicelli Partire. Da giovani o in età matura. Spinti da un senso di giustizia ma anche dalla voglia di conoscere se stessi in un altro luogo. La voglia di accorgersi che siamo tutti esseri umani e che la distanza da casa fa crescere nuove idee. A oggi sono 160 i cooperanti che dalla Svizzera italiana sono partiti in cinquant’anni di storia di Inter-Agire: dal 1970, quando un prete, Padre Silvio, ha creato il solco di un’associazione che ancora oggi continua a distinguersi per il suo modo di dare sostegno ai paesi del Sud: senza inviare soldi né materiale, ma solo persone. Interscambio lo chiamano, perché sanno che quando si semina, si raccoglie, che quando si regala un pezzetto di sé, tutto il bene ricade sulle proprie spalle.
Si parte con umiltà e voglia di rimboccarsi le maniche insieme, con la «valigia possibilmente vuota» La cooperazione secondo Inter-Agire (che fino agli anni Novanta si chiamava Solidarietà Terzo Mondo) non è fatta di carità ma di lavoro insieme. Esiste un disagio a volte: abitanti del Nord che si sentono più fortunati, troppo; e allora, a causa di quella sensazione forte di squilibrio, a qualcuno viene voglia di andare a portare qualche sua competenza a Sud. Lo scopo non è tanto fare né costruire, ma piuttosto sostenere i processi di autodeterminazione in atto presso le popolazioni più fragili che escono da lunghi periodi di colonizzazione. E così Padre Silvio creò l’associazione e iniziò questa bella storia di incontri per agire insieme. Oggi Inter-Agire opera sotto il cappello di Comundo, insieme a due altre associazioni svizzere che lavorano
con gli stessi principi. Un cooperante può farsi avanti e sarà valutato per le sue competenze lavorative, la sua motivazione e il suo approccio all’idea di un intervento di cooperazione. La formazione per chi intraprende un percorso dura un anno, durante il quale si imparano tecniche di comunicazione e di relazione, si riflette su se stessi nel gruppo e sul senso profondo della cooperazione. Ci si prepara, non si parte allo sbaraglio. Inter-Agire/Comundo ha collaborazioni con sette paesi e 64 associazioni locali in cui ha fiducia. Solo quando scaturisce un bisogno preciso di una figura professionale si può pensare di iniziare un intervento. Per esempio, se sono un insegnante, un ingegnere o un videomaker e desidero partire per un’esperienza all’estero, devo aspettare che Comundo riceva una richiesta da un partner locale specifica per il mio profilo. Non si va a «rubare il posto di lavoro» a qualcun altro; non si va a «insegnare qualcosa che anche all’altro capo del mondo sanno benissimo»; si parte con umiltà e voglia di rimboccarsi le maniche insieme, con la «valigia possibilmente vuota», come mi hanno raccontato due ragazzi che stavano per partire, o meglio: piena di semi, da lanciare e da farsi germogliare dentro. Il primo anno si osserva, il secondo si fa insieme e il terzo si cerca di trasmettere le competenze al gruppo o a qualcun altro; così da rendere indipendente l’associazione partner. Creare dipendenza da un aiuto esterno è il peggio che si possa fare. Per i suoi cinquant’anni, InterAgire ha deciso di realizzare un libro: la loro storia raccontata dai protagonisti, chi è partito, chi ha accolto, chi ha permesso di partire. Mi hanno chiesto di raccogliere quelle storie; e così per sette mesi, Covid permettendo, ho ascoltato persone che 50, 40, 30, 20, 10 anni fa sono andate oltre oceano per lavorare. Per vivere, qualcuno mi ha detto. Per imparare a buttare l’orologio, per in-
L’immagine di copertina del libro.
tessere amicizie profonde, per trovare una famiglia, per scoprire cosa significa abitare con un camaleonte come animale di compagnia che ti mangia le mosche; per affiancare i partigiani di una dittatura, per trovare l’amore e non tornare più, non per vivere e basta, che sarebbe poco, ma per convivere, su questa Terra, l’unica di cui disponiamo tutti noi. Così tanti, così diversi. Gli ultimi che partivano li ho incontrati due giorni prima del grande giorno: scalpitavano. I primi, che hanno raggiunto l’Africa, l’America Latina e l’Asia negli anni Settanta, alcuni dei quali in nave, hanno ancora gli occhi accesi; non è un ricordo che mi raccontano: è uno stato d’animo che non ti lascia mai più. Ho parlato anche con chi fa parte di un’associazione locale, ho chiesto:
ma com’è avere un cooperante dalla Svizzera, a cosa serve? Vede il bosco, mi hanno detto. Guarda ciò che noi non vediamo più. Ci porta idee fresche, ci dà visibilità, ci protegge anche, perché a volte se siamo nascosti siamo in pericolo, ci aiuta a valorizzare qualcosa che possediamo già ma che non interessa il mondo, prima che qualcuno non arrivi e torni a casa sua a parlarne. Il ritorno, già. Il ritorno è difficile, non ci si abitua più a certe cose. Si resta sempre un po’ sospesi tra due mondi, con quella valigia lì pronta a volare via di nuovo, leggera. Si appartiene a due colori, a due modi diversi di vivere e di intendere. Ma per gli amici, per la famiglia, qualcuno che va e che torna a raccontare è una grande ricchezza: si viaggia stando fermi, si apre la testa, si fa giardinaggio, si strappano le erbacce
dei pregiudizi, si lascia spazio ai fiori. Idealisti, alcuni. Con la fede, altri. Solidali, tutti. Ma più che altro questi 160 cooperanti volontari sono un esercito del bene colmo di desiderio, colmo di un’esperienza di incontro con gente diversa, con realtà diverse, di un nuovo modo di pensare e di guardare il mondo, quello conosciuto e tutto il resto. Forse eccolo il modo per non invecchiare mai, l’unico: partire, senza dimenticare di portarsi dietro qualche sogno. Informazioni
Storie di questo mondo. Cinquant’anni di cooperanti e cooperazione sarà presentato il 12 settembre alle 17 al Centro Al Ciossetto di Sementina (iscrizione obbligatoria allo 058 854 12 10). www.comundo.org/50anni.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani John Bond, Mini Coniglio. Perso non troppo, Zoolibri. Da 3 anni «Mini Coniglio e Mamma Coniglio stanno facendo una torta. La torta, la torta, la torta!». Questo è uno di quegli albi da cui sembra sgorgare, sin da subito, una baldanzosa, felicissima, lettura ad alta voce. Favorita dal ritmo, dall’alternarsi ad effetto della voce narrante, che pacatamente porta avanti la storia, e della squillante voce in discorso diretto di Mini Coniglio (e dei vari personaggi che interagiscono con lui), entusiasta per la torta e tenacemente determinato ad andare alla ricerca delle bacche per guarnirla. «Troverò delle bacche. Io voglio la torta!». Così Mini Coniglio parte arditamente per la sua personalissima quête, senza ascoltare la mamma che gli dice che le bacche si trovano proprio sotto casa. Se avventura dev’essere, bisogna intraprenderla in autonomia, con coraggio e accettandone i rischi. E spingendosi oltre la propria comfort zone. Solo che Mini Coniglio va proprio molto
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
oltre, e attraversa il bosco, il mare, le montagne, negando ogni offerta di aiuto: «Non ho bisogno di aiuto... non ho freddo... non sono troppo piccolo...» fino al culminante «non mi sono perso». O forse sì? Povero Mini Coniglio, è davvero molto lontano da casa, è tutto solo in una grotta e si è fatto buio! A questo punto sembra di avvertire, da queste pagine così espressive, il fiato sospeso dei piccoli lettori, di certo molto coinvolti nel racconto. Cosa succederà ora? Sniff, sniff... ma è un profumo di torta quello che sente Mini Coniglio! E ci sono delle bacche nella grotta! Ecco che, seguendo il profumo
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
di torta (di casa, di mamma), Mini Coniglio (e il piccolo lettore con lui) ripercorrerà a ritroso il suo viaggio, attraverso montagna-mare-bosco, fino a ritrovare la sua mamma (e la torta!). Un ultimo guizzo umoristico nel finale concluderà degnamente questa deliziosa storia, riuscitissima opera prima dell’artista inglese John Bond. Annalisa Strada, serie Le Sfate, Edizioni De Agostini. Da 7 anni Ci sono le fate. E ci sono le Sfate. Le fate sono aggraziate, eleganti e magiche. Le Sfate sono un po’ goffe, vestono sportive, pedalano su biciclette scassate e quanto alla magia, niente. Non sono magiche, però risolvono i problemi con il loro ingegno, che è proprio tanto. Che problemi risolvono le Sfate? Quelli legati alle ingiustizie che subiscono i bambini. Ogni bambino ha una Sfata. È piccola, invisibile, ma c’è. E resta fino a quando il bambino è diventato grande e non ha più bisogno di lei. Allora va da un altro bambino o bambina. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Ci sono Sfate femmine e Sfate maschi. Sono invisibili ma i gatti le vedono. Alcuni gatti le amano, altri le vorrebbero mangiare, quindi devono stare molto attente. Adesso che sapete un po’ di cose sulle Sfate, siete pronti per godervi le loro avventure. Le loro e quelle dei bambini a cui sono state affidate. Avventure legate a ingiustizie propinate ai piccoli dagli adulti. Ingiustizie apparentemente di poco conto, ma brutte. Per esempio, quando un papà promette al suo bambino di andare a giocare al parco nel pomeriggio e poi invece dopo Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
pranzo si piazza sul divano a fare un sonnellino e quando si sveglia è troppo buio e freddo per uscire; o quando una mamma promette frettolosamente alla sua bambina che potrà andare a mangiare la pizza indossando il tutù, e poi venuto il momento le dice «ma sei matta a uscire così»? Ecco, le promesse non mantenute deludono, e mettono tristezza. Per fortuna ci sono le Sfate a vendicare i bambini! Le Sfate sono una piccola serie di libri usciti già due anni fa, ma i libri belli non devono essere per forza nuovi. E questa serie è proprio bella. È scritta da Annalisa Strada, con la sua consueta brillante vivacità, e ha tre titoli: Te lo prometto (sulle promesse inattendibili dei genitori); Siamo tutti amici (quando i genitori ti forzano a giocare con chi non ti è proprio simpaticissimo); e Che nome ti hanno dato? (in cui il povero BluArancio è alle prese con un nome che gli causa un po’ di prese in giro). Ma le Sfate risolveranno tutto: saranno pure non-magiche ma sono meglio dei supereroi! Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Marko Polo e la battaglia di Curzola La rivalità fra Venezia e Genova si esprime oggi nel contesto della Regata Storica delle Repubbliche Marinare. A partire dal 1950, fra la fine di maggio e gli inizi di luglio, quattro equipaggi di otto vogatori agli ordini di un timoniere in rappresentanza di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia si sfidano lungo un percorso di due chilometri. L’evento è organizzato a rotazione dalle quattro città che si assumono l’onere di finanziare una manifestazione che richiama migliaia di turisti e televisioni da tutto il mondo. Sarebbe sbagliato ritenere che si tratti ormai solo di un evento folclorico «ad usum turistae», al pari del Palio di Siena. È invece un evento estremamente complesso nel quale gioca ancora un ruolo importante l’orgoglio civico di spettatori e regatanti, e questo sia detto non soltanto per quanto riguarda i rapporti intercittadini, ma anche e forse soprattutto, i rapporti interni alle singole Repubbliche che vedono le locali associazioni remiere contendersi
con ogni mezzo i posti voga disponibili. Risparmio ai miei lettori i dettagli dei «negoziati» – così come sono stati soffiati all’Altropologo dalle fedeli, informatissime talpe (o forse, nella fattispecie, pantegane dei canali venexiani) – che, come al Palio di Siena, accompagnano una concezione del fair play sportivo non proprio allineata su quelle dei College di Oxford e Cambridge. A darsele più di santa ragione nello sforzo di battere il nemico storico sono i gozzi di Venezia e Genova. La Serenissima, guarda caso, guida la classifica con 34 vittorie, seguita da Amalfi con 12. Terza è la Superba con 9 seguita da Pisa con 8. Ma gli occhi di tutti sono puntati sugli scafi verde di Venezia e bianco di Genova, non fosse per il fatto che le due potenze marittime erano dirette concorrenti ed acerrime nemiche per la supremazia commerciale nel Mediterraneo per secoli – e specialmente fra il XIII ed il XIV. Amalfi aveva raggiunto l’apice della sua potenza nell’XI secolo
per poi iniziare un lento declino. Pisa, sonoramente battuta nella Battaglia della Meloria nell’agosto del 1284, si era anch’essa indebolita. Insomma: quando nel 1298 i Genovesi decisero che fosse ora di chiudere i conti con Venezia erano all’apice della loro baldanza. Laddove Genova cercava di accaparrarsi privilegi commerciali verso il Mar Nero negoziando con Costantinopoli, Venezia, alleata a Carlo d’Angiò, non esitava a negoziare col Khan dei Tartari per ottenere basi commerciali in Crimea. A seguito di provocazioni, rappresaglie e vendette, si arrivò al fatale 8 settembre 1298. Location: il braccio di mare fra l’Isola di Curzola e Lastovo (l’antica Augusta Insula), nella parte meridionale dell’odierna Croazia, braccio di mare cruciale per in controllo del traffico fra Alto e Basso Adriatico. Protagoniste: 78 fra galee, galeotte e fuste genovesi vs. 95 analoghi legni veneziani. In comando Pietro Gradenigo, Doge e l’Ammiraglio Andrea Dandolo per Venezia vs. Lamba
Doria, Capitano del Popolo di Genova. Quest’ultimo aveva avuto l’ordine di attaccare la flotta veneziana «anche a costo di stanarla nella sua stessa laguna». A favore di vento, la flotta genovese piombò addosso ai veneziani «all’arrancata», ovvero sotto il massimo sforzo di remi, e ne ruppe i ranghi. Lo scontro fu terribile. Quando i veneziani, in netta superiorità numerica, credevano di avere la meglio, dal ridosso dell’isola di Lastovo scapolò a tutta velocità una squadra di quindici galee genovesi che Lamba Doria aveva tenuto in agguato. Poi il caos: 78 galee veneziane furono affondate e 18 catturate. 7500 i morti e 7000 i prigionieri. Per quanto vittoriosi, anche i genovesi uscirono malconci dallo scontro. Tanto da dover rinunciare a far vela su Venezia ormai sguarnita: il figlio di Lamba Doria stesso fu ucciso. A sua volta, l’ammiraglio Andrea Dandolo, catturato e incatenato ad un banco di galea, nel resoconto si tolse la vita, secondo lo storico Sabellico,
«rompendosi il cranio contro il banco al quale era stato incatenato». Dandolo era lo zio di Marco Polo. Questi, a sua volta, comandava una delle galee veneziane come riconoscimento per le sue imprese nel Catai. Portato a Genova, condivise la cella con Rustichello da Pisa, celebre prigioniero della battaglia della Meloria. A questi detterà Il Milione, passato alla storia come opera di Marco Polo, Veneziano. O no?! Da qualche tempo un’attiva ed agguerrita pattuglia di storici croati rivendica una qualche forma di identità (nazionale? etnica?) croata ad un certo Marko Polo, nativo di Curzola. Forse. Sarà. Perché no. A patto che si abbandonino anacronistiche etichette nazional-burocratiche che molto ed ahimè troppo danno hanno fatto. La forza di Venezia – come quella dei secoli migliori dell’Impero Romano – era costruita anche sul fatto che «veneziano» era chi contribuiva alla sua grandezza. Marko o Marco che si facesse chiamare – che poi non cambia niente.
analoghe, ciò che varia è il modo di considerarle e di risolverle. Di conseguenza variano le mie risposte tenendo conto che le persone sono diverse e ognuno reagisce ai conflitti in modo particolare. Nel tuo caso la pandemia, l’isolamento ha esasperato l’insofferenza che Gianna ha incontrato un anno fa. Il lockdown ha costituito la classica goccia che fa traboccare il vaso ma non è l’unica causa. Sono d’accordo con te che il tuo malessere ha radici lunghe ma riconoscerlo può divenire un bene. Le crisi offrono l’occasione di riflettere e cambiare ciò che non va. La classica educazione femminile suggeriva di non reagire, di adattarsi alla realtà, di accettare la propria infelicità per proteggere il benessere degli altri. Senza considerare che quando una mamma sta male nessuno in famiglia può star bene. Per fortuna negli ultimi anni molte cose sono cambiate e stiamo imparando a non lasciar perdere, a esprimere le nostre esigenze, a dar voce ai nostri desideri. Ma innanzitutto dobbiamo riconoscerli, cerca quindi di far chiarezza in te stessa. Ricostruisci la tua storia perché nella donna di oggi sopravvivo-
no la bambina di ieri, con i suoi sogni, e la ragazza che ha sacrificato, almeno in parte, la propria realizzazione alle esigenze del matrimonio. Ma ora i figli sono cresciuti ed è giunto il momento di riprendere il controllo della tua vita. Non si tratta di raggiungere la perfezione ma di recuperare le potenzialità, di attivare le risorse inutilizzate, di dar valore a te stessa. Se consideri tuo marito una «nullità», è probabile che lui ti veda allo stesso modo. In fondo i sentimenti sono sempre reciproci. Tuttavia non penso che tu ti sia innamorata e sposata con un uomo inesistente. Vi dev’essere qualche cosa di positivo in un rapporto durato più di vent’anni. Lo stesso vale per i ragazzi. Il tuo improvviso allontanamento deve essere stato traumatico per i familiari e se non hanno reagito non è certo per cattiveria quanto per analfabetismo emotivo, per incapacità di esprimere i loro sentimenti. Anche se dall’esterno tutto poteva apparire normale, probabilmente la vostra famiglia era ibernata e i vostri cuori raggelati. Il disgelo inizia quando il ghiaccio s’incrina, le incrostazioni si sgretolano e termina quando l’acqua riprende a scorrere liberamente. Ma perché acca-
da è necessario si alzi la temperatura e i raggi del sole spezzino la coltre delle nuvole. Quel sole puoi essere soltanto tu. Sta a te, al tuo temperamento forte e passionale, trasformare un gesto di rottura in un’azione di ricomposizione. E non è detto che l’unica soluzione sia ripristinare la convivenza, potresti confermare la separazione, purché affrontiate insieme il problema e, ammettendo le responsabilità genitoriali, troviate il modo di rassicurare i ragazzi che per loro ci sarete sempre. Non è giusto abbandonarli nel momento più difficile della loro vita. Né per te rinunciare alla componente materna che, per il momento, sembri aver accantonato. La questione è complessa ma datti tempo, rifletti a fondo e poi decidi con convinzione: dopo l’inverno viene sempre la primavera ed è quella la stagione per ricominciare.
le conseguenze economiche, professionali, assicurative e, in pari tempo, attribuisce alla prole il valore aggiunto di una garanzia di continuità. Ciò che, implicitamente, lusinga la funzione di mamma e papà, promossa anche sul piano mediatico, e non da ultimo perché concerne adulti sempre più maturi. Il caso Johnson non è isolato. Come dicono le statistiche elvetiche, negli ultimi vent’anni, si è triplicato il numero delle paternità over 50 e delle maternità over 35. Una situazione anagrafica che giustifica il diffuso orgoglio genitoriale e il relativo piacere di sfoggiarlo, cui stiamo assistendo. Sempre che non superi il livello di guardia e rimanga un fatto privato, condiviso nell’intimità, tra familiari e amici. L’istinto, però, gioca anche brutti scherzi inducendo a raccontare pubblicamente, sin nei
minimi particolari, le prodezze del pargolo, come fossero una rarità. Difficile, poi, se si è del mestiere, non ricavarne un libro. Per citare un caso recente, anche Massimo Gramellini, bravo giornalista, si è messo in gioco pubblicando la sua esperienza di neopadre quasi sessantenne. Una sfida letteraria, tutta a suo rischio e pericolo. Le cose vanno diversamente, quando l’«Io come madre» (o padre) si presta a un uso politico. In mancanza di altre qualifiche professionali o culturali, si sfrutta una condizione familiare che, di per sé, non significa niente. Siamo tutti, per forza di cose, senza nessun merito, padri, madri, figli, nipoti e via enumerando legami di sangue e affettivi, importanti per il nostro personale vissuto, ma insignificanti per le sorti della collettività.
Invece, proprio un fatto casuale qual è una parentela, doveva produrre, negli ultimi anni, una corrente politica e persino un partito di successo. Ispirati all’ideologia, chiamiamola così, dell’«Io come madre o come padre», nella versione, riveduta da Beppe Grillo, «Io come casalinga sarei in grado di gestire l’economia nazionale». In altre parole, il mestiere del politico esonera dal dovere dell’apprendimento e della competenza. Sono eccessi pittoreschi a cui, noi, protetti dalla frontiera, siamo abituati a guardare con ironia e distacco, sicuri di esserne immuni. In realtà, lo spirito anticasta, antisistema, anti per essere anti, ci sta contagiando. E capita persino che qualche nostro candidato giochi la carta dei buoni sentimenti, presentandosi «come padre».
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Una stagione per ricominciare Cara Silvia, leggendo la lettera del 24 agosto, «Le contraddizioni del cuore», inviata da Gianna, ho scoperto che per certi versi raccontava la mia stessa situazione e affrontava le mie stesse domande. La risposta che le ha dato mi ha fatto venir voglia di averne una anch’io. Mentre il Covid-19 cambiava la vita di tutti, mi sono trovata a fare i conti con la mia. Conti difficili quando si sono superati i cinquanta, si hanno due figli di 16 e 18 anni, ancora studenti, un marito che definire una «nullità» è poco, un vecchio cane e… un colpo di testa che mi sembrava necessario e inevitabile. Invece, man mano che passa il tempo, i motivi sbiadiscono ed emergono le conseguenze. Il lockdown ha esasperato le tensioni e dopo vent’anni di matrimonio mi sono trovata a dire: BASTA! Basta vivere accanto a un marito che non mi vede, a due figli maschi pigri e disordinati, a un cane che sbava e perde pelo, basta sfiancarmi per metter ordine nel caos, lavare, stirare e cucinare per maschi ingrati e perennemente affamati. E, per giunta, impegnarmi a distanza in un’occupazione che non mi va, agli ordini di un capufficio che non vuol prendere atto
che non si può continuare come niente fosse. Altre, nelle mie stesse condizioni ce l’hanno fatta, io no. Le ammiro e nello stesso tempo le compiango perché non si può chinare la testa e accettare tutto senza reagire. Insomma un giorno ho preso tutte le mie cose e sono andata a vivere da sola, decisa a chiedere la separazione. I maschi di casa sono rimasti sconcertati (non si erano accorti di niente?) ma, di fronte alla mia ostinazione, hanno lasciato perdere e si sono organizzati, dio sa come! All’inizio è stato bellissimo tornare ragazza, padrona del mio tempo, dei miei pensieri. Ho trascorso una piacevole vacanza al mare con un’amica di vecchia data ma ora che tutto ricomincia mi chiedo: che cosa me ne faccio della mia libertà? La prego, mi aiuti a trovare una risposta! / Maria Cara Maria, sono sorpresa anch’io della coincidenza ma, dopo tanti anni di ascolto, mi rendo conto che, ciò che della nostra storia crediamo eccezionale, unico e irrepetibile è in realtà comune a molti. Vivere negli stessi anni, magari negli stessi luoghi, provoca difficoltà
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio «Io come madre» e la politica Discoteche aperte o chiuse? Effetto pandemia, l’interrogativo che, in tempi normali, concerneva casi isolati di bullismo o rumori notturni, adesso è diventato un test impegnativo, persino imbarazzante. Mette, infatti, alle prese con una scelta d’ordine non soltanto sanitario, ma economico e soprattutto morale, psicologico, generazionale. Optando per la chiusura, si rischia insomma di passare per retrogradi, insensibili alle esigenze dei giovani. Mentre, schierandosi per l’apertura, si dimostra ampiezza di vedute e duttilità. Verrebbe, in un primo momento, da pensare alla classica contrapposizione destra-sinistra che, però, nella confusione attuale è stata stravolta. Come ha confermato, addirittura esemplarmente, Daniela Santanchè ospite, il 18 agosto scorso, della trasmissione «In onda», su La 7. La senatrice di
Fratelli d’Italia, esponente di una destra senza se e senza ma, si è espressa a favore delle aperture, difendendo logicamente il proprio interesse di imprenditrice, che gestisce, a Forte dei Marmi, un esclusivo e redditizio ritrovo notturno. Sin qui, niente da eccepire. Ma ecco che, a sostegno della sua tesi, la Santanchè, dichiara con solennità e a voce alta: «Io parlo da madre». Con ciò sottintende che proprio il fatto di essere madre le conferisce la competenza e l’autorevolezza necessarie per svolgere un ruolo pubblico e politico. Ora, non si tratta di un episodio raro, e neppure tipicamente italiano. L’esibizione della maternità, come pure in un crescendo della paternità, non conosce confini. Accomuna gran parte dei paesi occidentali, Svizzera in primis, dove il calo delle nascite preoccupa per
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Ambiente e Benessere I geni ci cambiano Per lo psicobiologo Robert Sapolsky il nostro patrimonio genetico si adatta all’ambiente
Nella valle sperduta Romano Venziani ci porta nella Val Pontirone, una delle più discoste e impervie del Ticino pagine 16-17
I vini di Sardegna Nell’isola sono prodotte specialità molto conosciute che approfittano della particolare situazione climatica
Il gipeto è tornato La reintroduzione di questo abitante dei nostri cieli ha avuto successo: ora vanno censiti
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Grandi ruoli per piccole molecole
Biologia I MicroRNA hanno un ruolo
fondamentale per la regolazione di molte funzioni delle cellule e sono anche causa di malattie, ma possono pure curarle
Sergio Sciancalepore Hanno un ruolo importante nello sviluppo di tumori, diabete, infarto ma sono importanti anche per il corretto funzionamento degli organismi vegetali e animali, uomo compreso. Non solo. Potrebbero essere utilizzati in medicina per la diagnosi precoce delle malattie e come farmaci per curarle: sono i microRNA, una sigla che appare sempre più di frequente negli articoli dedicati alla salute. Per sapere cosa sono i microRNA e perché sono così importanti, partiamo dalla spazzatura, una spazzatura un po’ particolare perché si tratta di «DNA spazzatura». I geni – contenuti nei cromosomi delle cellule, contengono l’acido desossiribonucleico, in sigla DNA: tramite il DNA e un suo particolare codice chimico (codice genetico), i geni hanno le istruzioni per fabbricare tutte le proteine necessarie per la vita dell’organismo. Abbiamo circa 21mila diversi tipi di proteine e un numero (quasi) corrispondente di geni: un gene, una proteina. Il fatto è che quei 21mila geni sono circa l’uno per cento di tutto il DNA: l’altro 99 per cento, a che serve? In un primo tempo si ipotizzò che non servisse, che fosse – appunto – «spazzatura», poi si scoprì che molta parte di quel DNA ha una funzione, cioè contiene altri geni che non servono per fabbricare proteine, per esempio ci sono moltissimi geni che controllano il funzionamento dei geni per le proteine: in tal modo, sono prodotte quelle che servono, quando servono e in quantità adatta. Cercando in questo (ex) DNA spazzatura, nel 1993 gli scienziati scoprirono una piccolissima molecola formata da acido ribonucleico (RNA) e la chiamarono microRNA: da allora sono stati individuati circa 2000 diversi di tipi di microRNA e ne esistono molti altri ancora scoprire. I microRNA sono fondamentali per il controllo del funzionamento
delle cellule, si ritiene che almeno un terzo delle complesse trasformazioni chimiche cellulari sia regolato dai microRNA. Tuttavia, i microRNA hanno anche un ruolo nel causare malattie di diverso genere come tumori, disturbi cardiovascolari, diabete: ci limitiamo a considerare i tumori, il campo di ricerca più sviluppato per quanto riguarda i microRNA. La prima prova che queste sostanze sono coinvolte nello sviluppo di un tumore (la leucemia linfocitica cronica) risale al 2002, con la scoperta che – su un cromosoma dei linfociti – due geni che producono i microRNA-15 e 16 sono danneggiati: di conseguenza, i due microRNA non ci sono e questo permette la trasformazione dei linfociti in cellule cancerose. Con quale meccanismo? Si sa da tempo che il buon funzionamento di una cellula – in particolare il suo corretto sviluppo e riproduzione per formare altre cellule – dipende dall’equilibrio di due tendenze opposte. Da una parte ci sono i proto-oncogèni che spingono per lo sviluppo della cellula (sono come un acceleratore), dall’altra ci sono i geni onco-soppressori che moderano la prima azione (sono come dei freni): se c’è equilibrio, la cellula si sviluppa correttamente. Può accadere che un proto-oncogène subisca una mutazione e diventi un oncogène più attivo del proto-oncogène e un onco-soppressore, (sempre a causa di una mutazione) non funzioni. In tal modo, l’equilibrio è rotto, è come guidare un’auto premendo a fondo l’acceleratore e frenando poche volte, oppure avere i freni rotti: nel caso della cellula, la moltiplicazione diventa incontrollata e aumenta la probabilità che una cellula normale diventi cancerosa. In anni recenti, la ricerca ha dimostrato che diversi microRNA – in particolari situazioni – agiscono come oncogèni o perdono la funzione di onco-soppressore. Tre microRNA tra loro simili (identificati con le sigle microR-
Lo chiamano anche «DNA spazzatura»: di una parte del codice genetico si scoprono solo oggi le funzioni. (Marka)
NA-34-a, b e c) funzionano come oncosoppressori e quando perdono questa caratteristica svolgono un ruolo importante nello sviluppo dei tumori del colon, della prostata, del seno, del polmone e del fegato e pare siano coinvolti anche nella formazione delle metastasi. Lo studio dei microRNA, ha inoltre dimostrato il loro possibile uso nella diagnosi dei tumori. Nel 2011, uno studio clinico ha provato che microRNA presenti nel sangue sono in grado di dare informazioni importanti circa la diagnosi e la gravità (prognosi) del tumore del polmone anche 1-2 anni prima che la malattia si sviluppi: altre ricerche sull’uso dei microRNA come indicatori per la diagnosi e la prognosi di altri tumori sono in corso, ma occorre precisare che si tratta di metodi la cui validità deve essere attentamente valutata. I microRNA potrebbero avere un ruolo importante nella terapia dei tu-
mori, per esempio dando indicazioni circa la terapia più adatta e l’efficacia durante la sua somministrazione. Nel tumore del seno cosiddetto HER2 positivo, è possibile conoscere in anticipo – grazie allo studio di microRNA «predittivi» – per quali pazienti la somministrazione del farmaco trastuzumab è utile per la terapia neoadiuvante, quella che permette di ridurre le dimensioni del tumore, prima che sia asportato chirurgicamente. Abbiamo visto che i microRNA possono avere un ruolo importante per lo sviluppo dei tumori quando non hanno caratteristiche normali: è possibile allora «correggerli» con un intervento adeguato? È quanto stanno sperimentando (l’annuncio è dell’anno scorso) ricercatori dell’università texana di S. Antonio, sempre su tumori del seno, quelli che si sviluppano in presenza di un difetto ereditario del
gene BRCA1. In questo tumore, la mutazione inattiva il microRNA 223-3p favorendo lo sviluppo della malattia: in uno studio sperimentale su animali, la somministrazione di questo microRNA si è rivelata utile per ripristinare la funzione inattivata. Sempre per il tumore del seno, ricercatori italiani stanno sperimentando la somministrazione del microRNA-34a che controlla lo sviluppo delle cellule mature della ghiandola mammaria. È stato scoperto che il microRNA-34a può bloccare anche lo sviluppo delle cellule staminali cancerose, pericolose perché possono provocare recidive del tumore: l’idea del gruppo di ricerca è di somministrare il microRNA per prevenire le recidive del cancro del seno. In questo caso, la difficoltà consiste nel trovare la giusta modalità di somministrazione, un problema comune a tutti i possibili tipi di terapia con i microRNA.
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Ambiente e Benessere
Geni e cultura per domesticare la nostra natura Biologia Per Robert Sapolsky i geni regolano le risposte del nostro corpo all’ambiente
Lorenzo De Carli C’è un momento della vita, a partire dal quale ci diventa estranea la musica ascoltata da chi ha vent’anni. Strano, perché ci sembrava di essere ben aggiornati, in fatto di musica; e avevamo una chiara consapevolezza di quanto radicalmente diverso fosse il nostro gusto musicale rispetto a quello delle persone più vecchie di noi. Più o meno, è lo stesso momento della vita, in cui anche il piercing alla lingua ci sembra una pratica priva di senso e anche un po’ ripugnante; eppure non ci consideriamo affatto incapaci di apprezzare le novità, se – con un po’ di coraggio – recentemente abbiamo anche cominciato ad gradire persino il sushi, e quindi non può essere da vecchi provare il piacere di riascoltare Gaber, o Marley, o Springsteen, i quali – almeno per ora – non sono gli autori più gettonati nelle case di riposo. Forse perché ogni ricercatore o docente universitario ha l’obbligo di produrre di tanto in tanto articoli per riviste scientifiche, assieme con i suoi studenti, Robert M. Sapolsky – professore di Biologia e di Neurologia alla Stanford University, famoso per aver scritto Perché alle zebre non viene l’ulcera? (vedi «Azione 13» del 2019)– si è chiesto se, per caso, davvero nella nostra vita non ci siano delle stagioni per questa o quest’altra passione, per questa o quest’altra attività; cominciando a trovare una risposta alla domanda: «Quando si formano i nostri gusti musicali? E quando cominciamo ad essere aperti alla maggior parte della musica nuova?» L’ipotesi di partenza – constatando che, dopotutto, è abbastanza facile intuire l’età delle persone in base ai motivetti che canticchiano più frequentemente – è che vi sia una finestra temporale, nella quale il nostro cervello è più ricettivo a certi stimoli, diventando successivamente molto meno permeabile alle novità. Su questo argomento, in un volume che raccoglie i risultati delle ultime ricerche di Sapolsky intitolato L’uomo bestiale. Come l’ambiente e i geni costruiscono la nostra identità, leg-
Il nostro gusto musicale si fissa attorno ai vent’anni. (openairallagh.ch)
giamo che: «in base ai nostri risultati la maggior parte della gente ha vent’anni quando ascolta la musica pop che sceglie per il resto della vita» e che dopo i trentacinque anni la probabilità di apprezzare nuova musica pop si riduce al 5%: «la finestra è chiusa». Chissà se la ricerca condotta negli Stati Uniti sia significativa anche per l’Europa; Sapolsky e i suoi hanno fatto anche indagini sul sushi, osservando che: «il cliente medio non asiatico del Midwest, quando il sushi era entrato per la prima volta in città, aveva un’età massima di ventotto anni mentre più del 95% di coloro che all’epoca avevano trentacinque anni non avrebbero mai toccato quella roba. Un’altra finestra chiusa». Per il piercing alla lingua, ci dicono Sapolsky e i suoi ricercatori, la finestra si chiude molto prima: a diciott’anni; sicché se avete figli con più di vent’anni dovreste essere già fuori pericolo.
Di primo acchito, di fronte a queste osservazioni, il neuroscienziato direbbe che, dopotutto, i risultati sono prevedibili: i cervelli dei giovani sono molto più plastici di quelli delle persone in là con gli anni; non solo più ricettivi alle novità ma anche spiccatamente orientati a cercarle, se non altro per godere degli effetti provocati da neurotrasmettitori come la dopamina o l’ossitocina. Tuttavia ci sono tante ricerche che dimostrano come nuovi e stimolanti ambienti sono in grado di indurre neuroni adulti a formare nuove connessioni e che, dunque, non c’è una traiettoria definita a priori dai geni, ma una interazione ininterrotta con l’ambiente, e che variando questo variano anche le espressioni di quelli. Il filo conduttore delle ricerche documentate in L’uomo bestiale è il rapporto tra geni e ambiente. L’obiettivo che si propone Sapolsky è quello di criticare
l’idea secondo la quale i geni – magari codificando in maniera specifica per questa o quest’altra proteina – determinerebbero la nostra vita, eseguendo per così dire un programma prestabilito. Per Sapolsky i geni non determinano alcunché: «i geni regolano il modo di rispondere all’ambiente». È quindi privo di senso parlare di geni e di ambiente, tenendoli separati: occorre prendere in considerazione solo la loro interazione. Quanto sbagliato sia prescindere dall’interazione geni/ambiente lo dimostra l’inconsistenza di affermazioni che attribuiscono a questo o a quel gene un determinato comportamento. Il motivo è semplice: una stringa di DNA non produce nessun comportamento, nessuna emozione, nessun pensiero: produce solo una specifica proteina. La classe delle proteine è ampia e comprende anche ormoni e neurotrasmettitori, ragion per cui, in effetti, i geni
sono coinvolti in un’estrema varietà di processi biochimici: «ma il punto chiave è che è estremamente raro che un comportamento sia causato da cose come gli ormoni e i neurotrasmettitori: piuttosto queste sostanze producono la tendenza a rispondere all’ambiente in un determinato modo». Il problema di noi esseri umani è che, «ambiente», sono anche i pensieri che abbiamo in testa, la narrazione che ci facciamo della nostra vita e di quella degli altri – spesso causando problemi ignoti agli altri primati. Prendiamo l’ansia, per esempio: si manifesta quando un organismo avverte pericolo e ostilità nell’ambiente, induce uno stato di vigilanza e attiva le strategie utili per far fronte al pericolo. Cessato il pericolo, cessa anche l’ansia. Peccato che, evolvendo noi la capacità di prefigurare pericoli non ancora presenti, scivoliamo spesso lungo la china della moltiplicazione di questi pericoli, i quali continuano ad indurre una risposta ansiosa nei nostri corpi: non siamo «geneticamente ansiosi»; si tratta di prendere consapevolezza di questo meccanismo. Il problema è che non è così semplice perché, se è pur vero che abbiamo una mente che ci permette di fare questi ragionamenti, il corpo reagisce e prende decisioni molto prima di noi. Su questo tema Sapolsky è d’accordo con Damasio: l’intensità delle emozioni è modulata dal tipo di eventi anatomici che si verificano nel corpo in un dato momento: «Il sistema limbico si attiva e cambia marcia istantaneamente». Ne è un buon esempio l’aggressività che talvolta osserviamo tra gli automobilisti: se fatica a smorzarsi è perché «le risposte corporee continuano il loro moto sbuffante da treno merci». Le ricerche di Sapolsky sintetizzate in L’uomo bestiale sono appassionanti perché ci spingono ad osservare in che modo le nostre risposte emotive sono vincolate a reazioni all’ambiente che abbiamo sviluppato lungo tutta la nostra storia evolutiva: davvero troppo lunga per non permanere solidamente in noi, facendoci spesso comportare come bestie. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
La valle che (r)esiste
Itinerari Qualche appunto per un’escursione nella sperduta Val Pontirone
Romano Venziani Mi chiamo Cesarino, borbotta, fissando il foglietto su cui prendo nota del nome. Non è poi così strano per un «Biasca», penso. Anche se, a dire il vero, mi sarei aspettato piuttosto un «Ateo» o un «Attila» oppure un «Lenin», o ancora il nome di un qualche arbusto o un appellativo silvicolo, come l’«Oliveto», il maestro archivista, che ho incontrato un attimo fa fuori dalla sua cascina intento a trascrivere un plico di lettere con un’enorme macchina per scrivere elettrica (il tic tac del battito delle due dita mi ha seguito fin qui). Cesarino compare ad una curva del viottolo, mi viene incontro a passo lento e si siede sul muricciolo di sasso, appoggiando pensieroso il mento sul bastone. Lo saluto e gli chiedo di parlarmi della sua valle. E lui, tò sarèt bè miscgia om tagliàn, mi fa, scrutandomi da sotto in su con due occhietti da furetto. Mi vien da ridere. No, a som miga un tagliàn, gli rispondo. Sorvolando sull’approssimazione della mia trascrizione fonetica, quella domanda, me ne rendo conto oggi ripensandoci, è un distillato dell’essenza stessa della valle, il condensato di secoli di isolamento, di autarchia e diffidenza. Sì, perché la storia della valle Pontirone è la storia di una terra di rifugio. È la natura che ha voluto così, facendola remota e selvaggia, intagliata profondamente nello gneiss e quasi invisibile dal piano. La Lesgiüna, il torrente che l’ha erosa completando l’opera dei ghiacciai, ne esce a stento. Basta andar
lì a guardare, sul vecchio ponte che ne prende il nome, prima di Malvaglia. Vedi una pozza verde e poi solo roccia e ti chiedi come fa l’acqua a venirne fuori. E infatti, pare che in tempi remoti non ne venisse fuori, per niente. C’è voluto il diavolo in persona per creare un varco nella pietra dando libero sfogo al fiume, narra la leggenda, e sembra l’abbia fatto con una tecnica molto umana. Individuata una piega nella muraglia, vi si appoggiò con i piedi e il fondo schiena e cominciò a spingere con tutte le sue forze. Dopo un po’, un’angusta fessura si aprì e la Lesgiüna, finalmente libera, sgorgò tutt’allegra avviandosi all’atteso appuntamento con il Brenno. Non si sa cosa volle in cambio l’artefice di quello sforzo erculeo, fatto sta che oggi ancora l’osservatore acuto può intravedere, impresse nella roccia poco sopra il pelo dell’acqua, le impronte dei piedi e del sedere di Belzebù. Ci si arriva piuttosto facilmente, ora, in Val Pontirone. Certo, la strada non è delle più comode, si incrocia con difficoltà e spesso e volentieri devi ingranare la retromarcia e sperare che Dio te la mandi buona, ma, tutto sommato, la valle è diventata più accessibile. La carrozzabile, che serpeggia tra i boschi sopra Malvaglia, attraversa il primo nucleo, Pontironetto, o Sant’Anna, una manciata di case ancora affacciate sulla Valle di Blenio, poi s’infila nella stretta gola fino a Pontirone, chiamato anche San Giovanni, o semplicemente Val, nel dialetto locale, il villaggio principale. Da lì, s’inerpica con stretti tornanti
Pontirone o San Giovanni o Val nel dialetto locale (sul nostro sito www.azione.ch altre immagini). (R. Venziani)
collegando le altre ville, Scirésa, Chievrèi, Fontana, Biborgh, con le loro tòure, le costruzioni in pietra e legno, chiara memoria d’architettura walser, e poi più su fino agli alpi di Sceng e di Cava. Prima dell’apertura della carrozzabile, nel 1933, per arrivare quassù c’erano solo una mulattiera e ripidi sentieri, che lasciavano alquanto inorriditi i viandanti, che si azzardavano a
percorrerli. Anche l’arcivescovo di Milano, fatto poi cardinale e santo, Carlo Borromeo, cacciatore di streghe e gran fustigatore del clero godereccio di quei tempi, in una delle sue visite pastorali nelle terre ambrosiane, nel 1570, si avventura in Val Pontirone. E ne rimane talmente sconvolto e agitato, da farsi pesantemente redarguire dai due vallerani, portatori della traballante por-
tantina, che lo zittiscono e gli ordinano in malo modo di starsene seduto se non vuol finire ruzzoloni giù dal dirupo. «Non so se ci ha messo piede anche quel suo cugino, Federico» – racconta Cesarino – «è lui che ha costituito la parrocchia di Pontirone nel 1607, perché in valle si viveva stabilmente, c’era più gente qui che al piano». Ed è vero. Nel XVII secolo, quando
Biasca, del cui territorio fa parte la val Pontirone, contava 421 abitanti, quassù ce n’erano 440. A quei tempi non ci si era ancora ripresi dalle conseguenze infauste della famosa Buzza, che nel 1515 aveva devastato la pianura fin giù al lago Maggiore, provocando centinaia di vittime, a cui si erano aggiunte quelle delle tre epidemie di peste, che avevano sconvolto in quei periodi la regione. E molti abitanti di Biasca si erano ritirati tra questi monti. Ma la val Pontirone, già da molto prima, era terra di rifugio per chi fuggiva da battaglie, saccheggi e pestilenze. Non che questo fosse un luogo di tutto riposo. Anzi. La soldataglia svizzera, all’epoca delle guerre con Milano, vi aveva fatto irruzione, bruciando case e razziando il bestiame, l’Inquisizione aveva perseguitato tante povere donne in odore di stregoneria, frane e valanghe non si contavano e nemmeno le alluvioni, come quella del 1799, che aveva distrutto la chiesa di Pontirone. «A Biasca si scendeva solo a prendere il vino» – si sbottona Cesarino, fattosi più loquace – «lo portavano su le donne con la brenta. Ogni tanto qualcuna rotolava giù dal Foss. Come la povera Albina, madre di parecchi figli, che aveva inciampato ed era caduta ammazzandosi, nel settembre del 1921». La comunità viveva in completa autarchia, con l’allevamento del bestiame e un po’ di campicoltura. «Intorno all’abitato fanno corona brevi campicelli, ove maturano la segale, il lino, la canapa e la patata» scrive Luigi Lavizzari, che visita la valle nell’agosto del 1850, «laboriosi sono gli abitanti e abilissimi nell’arte del costruire, sull’orlo di spaventevoli balze, quelle strade pensili dette sovende e strusoni, che servono di celere veicolo ai tronchi quando da remote valli si spingono in seno ai fiumi e da questi ai laghi subalpini. Mentre gli uomini si dedicano a
lavori siffatti nelle vicine valli a richiesta degli incettatori di legnami, le donne attendono alla cura del bestiame e alla raccolta del fieno silvestre in dirupi quasi inaccessibili*». C’era anche la scuola, a Pontirone. La chiudono nel 1926, ma fino a pochi anni prima gli allievi sono ancora parecchi; 35 nel 1910, quando il comune di Biasca indice il concorso per una maestra, con la promessa di un onorario di 650 franchi annui e «l’alloggio e la legna …a carico del Comune». Con l’apertura della strada carrozzabile, nel 1933, che rende più agevole l’accesso alla valle, quest’ultima, paradossalmente, inizia a spopolarsi. Oggi è essenzialmente un luogo di villeggiatura per molti biaschesi, che hanno ristrutturato le vecchie dimore contadine, destinandole a nuova vita. Certo, qua e là, senso estetico, rigore architettonico e buon gusto lasciano un po’ a desiderare e non sempre le carte sono in regola. L’eco delle conseguenze di tutto ciò è storia più o meno recente, ma le vicende dei rustici testimoniano della volontà della gente di recuperare e valorizzare l’ingente patrimonio dell’edilizia rurale, affinché la vita in valle possa continuare a (r)esistere. Resistenti, lo erano anche gli ultimi due abitanti stabili, che avevo incontrato in una tiepida giornata di febbraio alla fine degli anni Novanta. Felice e Giovanni Caprara vivevano tutto l’anno a Mazzorino, un’altra delle ville pontironesi, adagiata su un ampio terrazzo panoramico a millecinquecento metri di quota, una mezz’oretta di cammino sopra Fontana. L’erba secca del sentiero non si era ancora ripresa dal peso della neve, che a tratti lasciava sporadiche macchie bianco sporco nell’ocra del paesaggio. Mazzorign mi era apparso dietro un velo di nebbia. Una quarantina di costruzioni, tra cascine e stalle, strette in un abbraccio solidale dettato dalla
La Lesgiüna con l’impronta dei piedi e del sedere di Belzebù. (R. Venziani)
necessità di utilizzare con oculatezza lo spazio a disposizione. Tutt’attorno prati e campi e più su un bosco fitto di conifere scure. Un comignolo con un filo di fumo mi aveva indicato la meta come un evanescente waypoint. Felice era vicino agli ottanta. Un viso affilato su un corpo magro che si perdeva nella stoffa ampia e pesante dei pantaloni militari. «Si può dire che ho fatto la vita quassù» – mi aveva raccontato – «Ero già qui con “la pòvra àva”. Adesso non c’è più scopo di tornare al piano». E al piano, Felice scenderà solo per finire i suoi giorni nella casa per anziani. Più giovane di qualche anno, Giovanni aveva l’aria furba e perspicace, con due occhietti che brillavano come gocce d’acqua in una faccia rotonda. Era stato fabbro ferraio, poi nel 1973 era andato in pensione e si era ritirato a vivere a Mazzorino. Aveva messo in piedi una mezza officina. Al riparo di un semplice tetto in piode c’era una forgia e un’incudine, su cui batteva il ferro rovente riducendolo a lamine dalla sono-
rità cristallina, con cui costruiva ciòcc di vac e di chiavri, che vendeva quando gli capitava l’occasione. «Vengono a prenderle anche i tagliàn» – mi aveva detto – «sono amici, brava gente, ce n’è uno che ti darebbe il cuore». Mi aveva mostrato la chiesetta voluta dai boràtt, i rinomati borradori pontironesi, abili costruttori di sovende, specie di toboga chilometrici su cui si facevano scivolare i tronchi. «Andavano in Calanca a lavorare, attraverso il Pass Giümela. Con il loro guadagno hanno costruito la chiesa. La porta gliel’abbiamo fatta noi, in memoria della nostra povera mamma». Anche a Mazzorino si viveva stabilmente. Si allevava il bestiame, si coltivavano le patate, che venivano conservate nelle tonghe, profonde buche scavate nel terreno e chiuse con una pietra. «Questi erano tutti campi» – aveva continuato a raccontare Giovanni, abbracciando con un ampio gesto ra Mota da Mazzorign, il gobbone ora ricoperto di prati a valle del villaggio. «Avevano
la segale, per il pane, e il lino, con cui tessevano la stoffa per le lenzuola, che erano ruvide e dure come lamiere». Sono ripassato da Mazzorino nel maggio di quest’anno, diretto al rifugio dell’alpe di Biasàgn. Una giornata sazia di sole e di azzurro, brillante e limpida da ferirti gli occhi, prati fioriti, un viavai di lucertole tra le vecchie pietre, il canto lontano di un cuculo, la terra fresca negli orti vangati da poco, un paio di cascine aperte e due o tre persone. «Nelle settimane del picco della pandemia c’era parecchia gente, venuta a rifugiarsi quassù» mi dicono. Giovanni non c’è più, nell’ottobre del 2016 è sceso da Mazzorino e non vi ha più fatto ritorno. È morto nel giugno dell’anno seguente. Sotto la tettoia, ci sono ancora la forgia e l’incudine, qualche attrezzo buttato lì alla rinfusa, un paio di racchette da neve antiquate appese al muro. C’è da farsi venire il magone, penso, ma la val Pontirone vive e resiste e questo mi consola mentre riprendo il cammino. Intravedo il rifugio di Biasàgn, lassù, poco oltre i duemila metri, sovrastato dalla cresta che si allunga dal Pizzo Muncréch fino allo Strega. Davanti agli occhi, un panorama straordinario, con la vasta conca glaciale dell’alta valle, rigata dalle cascate, i pascoli di Sceng, il passo Giümela, ad oriente, e uno sgranare di cime che fanno il solletico ai Tremila, a meridione: il Piz da Termin, il Torent Alto e il Torent Basso, dal cui ghiacciaio, ormai esangue, a fine Ottocento la società Cristallina cavava il ghiaccio, portato al piano con una teleferica e spedito a Milano, a tintinnare bicchieri nei caffè dei Meneghini. Nota
* Luigi Lavizzari, Escursioni nel Cantone Ticino, Armando Dadò Editore, Locarno 1992, pag. 320.
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La valle che (r)esiste
Itinerari Qualche appunto per un’escursione nella sperduta Val Pontirone
Romano Venziani Mi chiamo Cesarino, borbotta, fissando il foglietto su cui prendo nota del nome. Non è poi così strano per un «Biasca», penso. Anche se, a dire il vero, mi sarei aspettato piuttosto un «Ateo» o un «Attila» oppure un «Lenin», o ancora il nome di un qualche arbusto o un appellativo silvicolo, come l’«Oliveto», il maestro archivista, che ho incontrato un attimo fa fuori dalla sua cascina intento a trascrivere un plico di lettere con un’enorme macchina per scrivere elettrica (il tic tac del battito delle due dita mi ha seguito fin qui). Cesarino compare ad una curva del viottolo, mi viene incontro a passo lento e si siede sul muricciolo di sasso, appoggiando pensieroso il mento sul bastone. Lo saluto e gli chiedo di parlarmi della sua valle. E lui, tò sarèt bè miscgia om tagliàn, mi fa, scrutandomi da sotto in su con due occhietti da furetto. Mi vien da ridere. No, a som miga un tagliàn, gli rispondo. Sorvolando sull’approssimazione della mia trascrizione fonetica, quella domanda, me ne rendo conto oggi ripensandoci, è un distillato dell’essenza stessa della valle, il condensato di secoli di isolamento, di autarchia e diffidenza. Sì, perché la storia della valle Pontirone è la storia di una terra di rifugio. È la natura che ha voluto così, facendola remota e selvaggia, intagliata profondamente nello gneiss e quasi invisibile dal piano. La Lesgiüna, il torrente che l’ha erosa completando l’opera dei ghiacciai, ne esce a stento. Basta andar
lì a guardare, sul vecchio ponte che ne prende il nome, prima di Malvaglia. Vedi una pozza verde e poi solo roccia e ti chiedi come fa l’acqua a venirne fuori. E infatti, pare che in tempi remoti non ne venisse fuori, per niente. C’è voluto il diavolo in persona per creare un varco nella pietra dando libero sfogo al fiume, narra la leggenda, e sembra l’abbia fatto con una tecnica molto umana. Individuata una piega nella muraglia, vi si appoggiò con i piedi e il fondo schiena e cominciò a spingere con tutte le sue forze. Dopo un po’, un’angusta fessura si aprì e la Lesgiüna, finalmente libera, sgorgò tutt’allegra avviandosi all’atteso appuntamento con il Brenno. Non si sa cosa volle in cambio l’artefice di quello sforzo erculeo, fatto sta che oggi ancora l’osservatore acuto può intravedere, impresse nella roccia poco sopra il pelo dell’acqua, le impronte dei piedi e del sedere di Belzebù. Ci si arriva piuttosto facilmente, ora, in Val Pontirone. Certo, la strada non è delle più comode, si incrocia con difficoltà e spesso e volentieri devi ingranare la retromarcia e sperare che Dio te la mandi buona, ma, tutto sommato, la valle è diventata più accessibile. La carrozzabile, che serpeggia tra i boschi sopra Malvaglia, attraversa il primo nucleo, Pontironetto, o Sant’Anna, una manciata di case ancora affacciate sulla Valle di Blenio, poi s’infila nella stretta gola fino a Pontirone, chiamato anche San Giovanni, o semplicemente Val, nel dialetto locale, il villaggio principale. Da lì, s’inerpica con stretti tornanti
Pontirone o San Giovanni o Val nel dialetto locale (sul nostro sito www.azione.ch altre immagini). (R. Venziani)
collegando le altre ville, Scirésa, Chievrèi, Fontana, Biborgh, con le loro tòure, le costruzioni in pietra e legno, chiara memoria d’architettura walser, e poi più su fino agli alpi di Sceng e di Cava. Prima dell’apertura della carrozzabile, nel 1933, per arrivare quassù c’erano solo una mulattiera e ripidi sentieri, che lasciavano alquanto inorriditi i viandanti, che si azzardavano a
percorrerli. Anche l’arcivescovo di Milano, fatto poi cardinale e santo, Carlo Borromeo, cacciatore di streghe e gran fustigatore del clero godereccio di quei tempi, in una delle sue visite pastorali nelle terre ambrosiane, nel 1570, si avventura in Val Pontirone. E ne rimane talmente sconvolto e agitato, da farsi pesantemente redarguire dai due vallerani, portatori della traballante por-
tantina, che lo zittiscono e gli ordinano in malo modo di starsene seduto se non vuol finire ruzzoloni giù dal dirupo. «Non so se ci ha messo piede anche quel suo cugino, Federico» – racconta Cesarino – «è lui che ha costituito la parrocchia di Pontirone nel 1607, perché in valle si viveva stabilmente, c’era più gente qui che al piano». Ed è vero. Nel XVII secolo, quando
Biasca, del cui territorio fa parte la val Pontirone, contava 421 abitanti, quassù ce n’erano 440. A quei tempi non ci si era ancora ripresi dalle conseguenze infauste della famosa Buzza, che nel 1515 aveva devastato la pianura fin giù al lago Maggiore, provocando centinaia di vittime, a cui si erano aggiunte quelle delle tre epidemie di peste, che avevano sconvolto in quei periodi la regione. E molti abitanti di Biasca si erano ritirati tra questi monti. Ma la val Pontirone, già da molto prima, era terra di rifugio per chi fuggiva da battaglie, saccheggi e pestilenze. Non che questo fosse un luogo di tutto riposo. Anzi. La soldataglia svizzera, all’epoca delle guerre con Milano, vi aveva fatto irruzione, bruciando case e razziando il bestiame, l’Inquisizione aveva perseguitato tante povere donne in odore di stregoneria, frane e valanghe non si contavano e nemmeno le alluvioni, come quella del 1799, che aveva distrutto la chiesa di Pontirone. «A Biasca si scendeva solo a prendere il vino» – si sbottona Cesarino, fattosi più loquace – «lo portavano su le donne con la brenta. Ogni tanto qualcuna rotolava giù dal Foss. Come la povera Albina, madre di parecchi figli, che aveva inciampato ed era caduta ammazzandosi, nel settembre del 1921». La comunità viveva in completa autarchia, con l’allevamento del bestiame e un po’ di campicoltura. «Intorno all’abitato fanno corona brevi campicelli, ove maturano la segale, il lino, la canapa e la patata» scrive Luigi Lavizzari, che visita la valle nell’agosto del 1850, «laboriosi sono gli abitanti e abilissimi nell’arte del costruire, sull’orlo di spaventevoli balze, quelle strade pensili dette sovende e strusoni, che servono di celere veicolo ai tronchi quando da remote valli si spingono in seno ai fiumi e da questi ai laghi subalpini. Mentre gli uomini si dedicano a
lavori siffatti nelle vicine valli a richiesta degli incettatori di legnami, le donne attendono alla cura del bestiame e alla raccolta del fieno silvestre in dirupi quasi inaccessibili*». C’era anche la scuola, a Pontirone. La chiudono nel 1926, ma fino a pochi anni prima gli allievi sono ancora parecchi; 35 nel 1910, quando il comune di Biasca indice il concorso per una maestra, con la promessa di un onorario di 650 franchi annui e «l’alloggio e la legna …a carico del Comune». Con l’apertura della strada carrozzabile, nel 1933, che rende più agevole l’accesso alla valle, quest’ultima, paradossalmente, inizia a spopolarsi. Oggi è essenzialmente un luogo di villeggiatura per molti biaschesi, che hanno ristrutturato le vecchie dimore contadine, destinandole a nuova vita. Certo, qua e là, senso estetico, rigore architettonico e buon gusto lasciano un po’ a desiderare e non sempre le carte sono in regola. L’eco delle conseguenze di tutto ciò è storia più o meno recente, ma le vicende dei rustici testimoniano della volontà della gente di recuperare e valorizzare l’ingente patrimonio dell’edilizia rurale, affinché la vita in valle possa continuare a (r)esistere. Resistenti, lo erano anche gli ultimi due abitanti stabili, che avevo incontrato in una tiepida giornata di febbraio alla fine degli anni Novanta. Felice e Giovanni Caprara vivevano tutto l’anno a Mazzorino, un’altra delle ville pontironesi, adagiata su un ampio terrazzo panoramico a millecinquecento metri di quota, una mezz’oretta di cammino sopra Fontana. L’erba secca del sentiero non si era ancora ripresa dal peso della neve, che a tratti lasciava sporadiche macchie bianco sporco nell’ocra del paesaggio. Mazzorign mi era apparso dietro un velo di nebbia. Una quarantina di costruzioni, tra cascine e stalle, strette in un abbraccio solidale dettato dalla
La Lesgiüna con l’impronta dei piedi e del sedere di Belzebù. (R. Venziani)
necessità di utilizzare con oculatezza lo spazio a disposizione. Tutt’attorno prati e campi e più su un bosco fitto di conifere scure. Un comignolo con un filo di fumo mi aveva indicato la meta come un evanescente waypoint. Felice era vicino agli ottanta. Un viso affilato su un corpo magro che si perdeva nella stoffa ampia e pesante dei pantaloni militari. «Si può dire che ho fatto la vita quassù» – mi aveva raccontato – «Ero già qui con “la pòvra àva”. Adesso non c’è più scopo di tornare al piano». E al piano, Felice scenderà solo per finire i suoi giorni nella casa per anziani. Più giovane di qualche anno, Giovanni aveva l’aria furba e perspicace, con due occhietti che brillavano come gocce d’acqua in una faccia rotonda. Era stato fabbro ferraio, poi nel 1973 era andato in pensione e si era ritirato a vivere a Mazzorino. Aveva messo in piedi una mezza officina. Al riparo di un semplice tetto in piode c’era una forgia e un’incudine, su cui batteva il ferro rovente riducendolo a lamine dalla sono-
rità cristallina, con cui costruiva ciòcc di vac e di chiavri, che vendeva quando gli capitava l’occasione. «Vengono a prenderle anche i tagliàn» – mi aveva detto – «sono amici, brava gente, ce n’è uno che ti darebbe il cuore». Mi aveva mostrato la chiesetta voluta dai boràtt, i rinomati borradori pontironesi, abili costruttori di sovende, specie di toboga chilometrici su cui si facevano scivolare i tronchi. «Andavano in Calanca a lavorare, attraverso il Pass Giümela. Con il loro guadagno hanno costruito la chiesa. La porta gliel’abbiamo fatta noi, in memoria della nostra povera mamma». Anche a Mazzorino si viveva stabilmente. Si allevava il bestiame, si coltivavano le patate, che venivano conservate nelle tonghe, profonde buche scavate nel terreno e chiuse con una pietra. «Questi erano tutti campi» – aveva continuato a raccontare Giovanni, abbracciando con un ampio gesto ra Mota da Mazzorign, il gobbone ora ricoperto di prati a valle del villaggio. «Avevano
la segale, per il pane, e il lino, con cui tessevano la stoffa per le lenzuola, che erano ruvide e dure come lamiere». Sono ripassato da Mazzorino nel maggio di quest’anno, diretto al rifugio dell’alpe di Biasàgn. Una giornata sazia di sole e di azzurro, brillante e limpida da ferirti gli occhi, prati fioriti, un viavai di lucertole tra le vecchie pietre, il canto lontano di un cuculo, la terra fresca negli orti vangati da poco, un paio di cascine aperte e due o tre persone. «Nelle settimane del picco della pandemia c’era parecchia gente, venuta a rifugiarsi quassù» mi dicono. Giovanni non c’è più, nell’ottobre del 2016 è sceso da Mazzorino e non vi ha più fatto ritorno. È morto nel giugno dell’anno seguente. Sotto la tettoia, ci sono ancora la forgia e l’incudine, qualche attrezzo buttato lì alla rinfusa, un paio di racchette da neve antiquate appese al muro. C’è da farsi venire il magone, penso, ma la val Pontirone vive e resiste e questo mi consola mentre riprendo il cammino. Intravedo il rifugio di Biasàgn, lassù, poco oltre i duemila metri, sovrastato dalla cresta che si allunga dal Pizzo Muncréch fino allo Strega. Davanti agli occhi, un panorama straordinario, con la vasta conca glaciale dell’alta valle, rigata dalle cascate, i pascoli di Sceng, il passo Giümela, ad oriente, e uno sgranare di cime che fanno il solletico ai Tremila, a meridione: il Piz da Termin, il Torent Alto e il Torent Basso, dal cui ghiacciaio, ormai esangue, a fine Ottocento la società Cristallina cavava il ghiaccio, portato al piano con una teleferica e spedito a Milano, a tintinnare bicchieri nei caffè dei Meneghini. Nota
* Luigi Lavizzari, Escursioni nel Cantone Ticino, Armando Dadò Editore, Locarno 1992, pag. 320.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Ambiente e Benessere
Nella terra del Cannonau
Scelto per voi
Vino nella storia La Sardegna per estensione è la seconda isola del Mediterraneo,
divisa dalla Corsica dalle Bocche di Bonifacio Davide Comoli Circondata da 1800 km di coste, la Sardegna ha potuto conservare fino a oggi gran parte del suo patrimonio viticolo. Il vento non manca mai, e in questa splendida isola anche in piena estate, violente raffiche rendono problematiche se non impossibili un piacevole pomeriggio in spiaggia o una gita in barca. Maestrale e Scirocco nel bene e nel male, contribuiscono in ogni caso a dare particolare sapidità ai vini ottenuti nelle zone più esposte della costa. Tranne il Gennargentu (1834 m) l’isola non ha montagne molto alte, ma predominano altopiani rocciosi, prodotti dall’erosione delle rocce che risalgono a 300 milioni di anni fa, composte da granito, basalto, scisto e trachite. I vigneti sono spesso impiantati su terreni poco profondi, ma di limitata fertilità. In compenso i vini prodotti godono di un’ottima mineralità; la superficie vitata è di ca. 27’000 ettari. La coltura della vite risale probabilmente al VIII sec. a.C., quando un gruppo di Fenici (Cartaginesi), si insediò nelle zone costiere dove fondò tra l’altro «Coralis» (Cagliari), ma presso un nuraghe a Borore (NU), sono stati trovati semi di vite datati 1300 anni a.C. Questi ritrovamenti confermano quello che in caratteri cuneiformi è scritto su una tavoletta proveniente
da Ugarit (antica città siriana) relativa al XIII sec. a.C., dove viene citato un soldato Shardana (antica popolazione della Sardegna) della guardia reale, che oltre a campi e saline, possedeva anche un vigneto. Anche Roma fu presente sull’isola, impiantando «villae rusticae» provviste di colline vinarie. Per ritrovare notizie sul vino, bisogna però aspettare la famosa «giudicessa» Eleonora d’Arborea, autrice della Carta de Logu (1392), raccolta di leggi estese a tutta l’isola da Alfonso d’Aragona detto il «Magnanimo». Malgrado l’isolamento e il persistere di strutture arcaiche, la coltura dell’uva che gli isolani ponevano sotto la protezione di «Sardus Pater», continuò a prosperare anche dopo Eleonora d’Arborea, tant’è che il Bacci (1576) nel suo trattato sui vini d’Italia, definì la grande isola: «Sardinia insula vini». Dopo molte traversie tra cui la filossera, la vitivinicoltura sarda, alla fine degli anni 50, era segnata da un marcato dualismo tra le province di Sassari e Nuoro da un lato e il sud dell’isola dall’altro. Nelle prime in terreni collinari, dominava ancora (ad eccezione delle importanti tenute di Sella & Mosca, vera locomotiva trainante della resurrezione vitivinicola sarda), il tradizionale allevamento ad alberello; al sud si concentravano le aziende contadine del
Tra archeologia ed enologia. (facebook.com/paleoworking.sardegna)
settore, in cui cominciava a diffondersi il sistema a spalliera. Tra il 1960 e il 1980, grazie a sovvenzioni della regione, ci fu un’espansione incontrollata del settore che portò ad una politica di espianto, alla quale seguì una vendita dei vigneti a produttori che arrivavano dal «continente» soprattutto toscani e veneti. Il sostanziale miglioramento dei livelli quantitativi dal 2007 ha portato alla produzione di vini che hanno ottenuto importanti riconoscimenti. Oggi al 30% dei vini è riconosciuto il marchio D.O.C. e al Vermentino di Gallura è stata attribuita la D.O.C.G. Dalla fine degli anni 80 è iniziata in modo molto positivo la valorizzazione dei vini sardi, che hanno permesso ai prodotti dell’isola di confrontarsi in modo positivo con i vini italiani e mondiali. Il settore turistico è stato senza dubbio il principale trascinatore per l’evoluzione del vino, in modo particolare i «bianchi». Oggi si producono vini freschi, profumati e soprattutto piacevoli da bere: ormai è solo un ricordo quello che ci torna in mente dei bianchi ossidati e piatti degli anni 70, che arrivavano alle nostre latitudini dopo essere stati per giorni sotto il sole, sulle banchine dei porti d’imbarco. Dal 2006 la Regione Sardegna ha istituito cinque «strade del vino»: tra Barbagia e Ogliastra per il Cannonau, il Campidano per il Nuragus, il Sulcis per il Carignano, la Planargia e Oristano per la Malvasia e la Vernaccia e la Gallura per il Vermentino. Per meglio gustare queste tipologie, bisogna viaggiare e farsi stregare dalla selvaggia bellezza di questa terra: bere la Malvasia a Bosa, ammirando il castello dei Malaspina da un ristorante sul fiume Temo, la Vernaccia ad Oristano tra i monti del Marghine e il fiume Tirso, alla ricerca di antichi vitigni, il Cannonau a Sorso, lo spumeggiante Moscato a Tempio Pausania, il Torbato sul lungomare di Alghero, il Monica nel Campidano di Cagliari. Il modo migliore per poter valutare queste gemme dell’enologia è quella di «maritarli» con le perle della gastronomia locale.
Tra i vitigni a bacca bianca il Vermentino è il più coltivato: sembra che provenga dalla Corsica, ma è originario della penisola iberica. Il Vermentino di Gallura, è l’unica D.O.C.G. in Sardegna, ottenuta nel 1996. È un’eccellente aperitivo ed è l’ideale con «l’aragosta e crostacei grigliati». Molto diffuso nel sud dell’isola è il Nuragus, considerato il più antico vitigno della Sardegna, molto probabilmente introdotto dai Fenici. I suoi piacevoli profumi di pesca, sposano in modo ottimale gli antipasti e gli spaghetti con la bottarga. Con il Torbato, introdotto dagli Spagnoli, si producono ad Alghero degli ottimi spumanti metodo Martinotti, ma anche per vini fermi dalle note floreali, ottimo con le «impanadas». L’antico Nasco di Cagliari, vinificato in dolce, secco e passito, da provare con le «seadas», l’autoctono Semidano d’abbinare alla «fregula», piatto di antiche tradizioni, la Vernaccia, forse introdotta dai Greci che fondarono l’antica Tharros, coltivata nei terreni alluvionali in quel di Oristano, la consigliamo a fine pasto con il «pecorino sardo» o in versione Spumante con i tipici «prosciutti sardi». Il Moscato con la tipica pasticceria secca a base di mandorle, «gli amarettos», la Malvasia introdotta dai monaci Bizantini, la troviamo in due diversi biotipi, a Cagliari e a Bosa, che danno vini diversi da dessert, in entrambe percepiamo dolcissime note di agrumi canditi, fichi, datteri secchi e vellutati in bocca, da bere anche fuori pasto. Le uve a bacca nera occupano il 65% del vigneto sardo: il Monica nel centro/sud dell’isola, il Girò con il quale si produce un vino liquoroso, il Bovale che dà vini molto colorati, il Nieddera con il quale si producono rosati profumati, il Muristellu, il Cagnulari, il Carignano. La cucina sarda di carne, ricca di specialità di selvaggina, maiale, agnelli, trova nei «rossi» di questa terra compagni di tavola ideali, tra tutti primeggia il Cannonau, il più coltivato in Sardegna. Lo spazio non ci permette di scrivere di più di questo vino, ma il consiglio è di abbinarlo al classico «porceddu furria furria».
Campocroce Amarone 2015
Con le uve Corvina Veronese, Rondinella, Molinara ed eventuali altri vitigni autorizzati a bacca rossa, rigorosamente selezionate e lasciate appassire sulle «arele» per 3-4 mesi, si ottiene l’Amarone. Un vino che pare sia nato per caso da alcune botti dimenticate in cantina per produrre il dolce Recioto: la prima etichetta di Amarone è datata 1950, da allora questa tipologia di vino ne ha fatta di strada. Oggi il nome Amarone è conosciuto a livello mondiale ed è considerato alla stregua dei vini più prestigiosi. Il Campocroce che oggi vi proponiamo con i suoi 16,5% di alcol, ha una grossa potenza strutturale, è un ampio concentrato di frutta, ciliegie marasche, mirtilli ed è talmente di colore scuro che è quasi impenetrabile alla vista, equilibrio e complessità sfiorano i vertici dell’eccellenza. Lunga la sua permanenza in bocca, dove note di frutta secca e nera ci avvolgono il palato, lasciando un piacevole ricordo di amarene. Lo consigliamo con piatti di cacciagione di pelo e formaggi erborinati stagionati, facendo attenzione che l’impatto gustativo sia equivalente alla struttura del vino. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 38.–. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Ambiente e Benessere
L’auto intelligente ci aiuta
Motori I progressi della tecnologia permettono nuove dotazioni di accessori che assistono la guida
aumentando sicurezza e confort Mario Alberto Cucchi Un’automobile che parla ormai non fa quasi più notizia. Il guidatore dice: «Hey Volkswagen». E il computer risponde chiedendo come può rendersi utile. Quindi già oggi molti veicoli, non solo le Volkswagen, comunicano attraverso la voce. Non abbiamo fatto in tempo ad abituarci che gli ingegneri delle Case automobilistiche sono pronti a stupirci ancora puntando questa volta sulle luci di bordo. Tecnologia al servizio dell’interazione tra il veicolo e tutto ciò che lo circonda. Un esempio è la nuova Opel Grandland X plug-in hybrid. Quando viaggia in modalità elettrica lo comunica all’esterno attraverso una luce blu sul parabrezza. Si trova esattamente appena sotto allo specchietto retrovisore centrale. Se brilla il blu, il motore a combustione è in pausa, il guidatore ha selezionato l’impostazione «elettrico» dalle opzioni di guida disponibili e la vettura viaggia a emissioni zero. La luce blu rende le cose più evidenti quando, per esempio, Opel Grandland X transita in aree dove è consentito l’accesso solo ai mezzi che non inquinano. Grazie a questa inedita tecnologia basta infatti alle forze dell’ordine solo un’occhiata per capire se devono fermare l’automobilista o se possono lasciarlo passare. Un’idea semplice ma preziosa che potrebbe essere adottata anche da altri Costruttori. Ci sono molte innovazioni
tecnologiche relative alle luci che potremmo presto trovare su tutte le auto, o almeno sarebbe auspicabile. Un fenomeno più comune di quanto si pensi coinvolge gli automobilisti sbadati che non si accorgono del sopraggiungere dei ciclisti e aprono improvvisamente la portiera rischiando di provocare gravi incidenti. La tecnologia questa volta viene in soccorso attraverso una telecamera posta nello specchietto retrovisore laterale che individuata la bicicletta provvede a illuminare di rosso tutto il pannello della portiera sia internamente che esternamente per evidenziare la situazione di potenziale pericolo. Una rivoluzione luminosa che coinvolge tutti gli utenti della strada attraverso una comunicazione bidirezionale. D’altra parte il dialogo visivo è importante da sempre. Tutto nuovo ma niente di nuovo. Basti ricordare che già gli indiani si parlavano attraverso i segnali di fumo. Chi si ferma è perduto e lo ricorda la nuova Classe S, ammiraglia Mercedes che arriverà presto nelle concessionarie. Con lei debutta il sistema MBUX di seconda generazione che riduce ulteriormente le possibilità di distrazione alla guida. Molti i comandi fisici che sono stati eliminati: 27 tasti in meno. Inedita la funzionalità Interior Assist, che sfrutta le telecamere nel soffitto dell’abitacolo e l’intelligenza artificiale. Traccia addirittura i movimenti della testa degli occupanti. Se il guida-
La Opel Grandland X plug-in hybrid.
tore alla ricerca di un oggetto si volta verso il cassettino anteriore l’MBUX accende le luci interne. Se si volta posteriormente, il sistema abbassa la ten-
dina copri-sole presente nel lunotto. Le telecamere vedono anche il movimento della mano davanti alla consolle. Interpretando i comandi gestuali
permettono, ad esempio, di alzare o abbassare il volume dell’impianto audio muovendo soltanto un dito nell’aria. La sicurezza innanzitutto. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Ambiente e Benessere
Il ritorno del Gipeto Mondoanimale Il metodo di reintroduzione del maestoso rapace nelle Alpi si rivela efficace del Gipeto sull’arco alpino fu dovuto anche una errata convinzione radicata Sabato 3 ottobre 2020 si terrà la Giorna- nel passato: «Parliamo di un maestoso ta europea di osservazione degli uccelli necrofago, un rapace che si nutre solo migratori, ma non solo, spiega l’ornito- di ossa, e che erroneamente fu tacciato logo Roberto Lardelli: «Questo giorno di prelevare agnelli e perfino pastorelli coincide con il conteggio annuale del per cibarsene». La credenza, del tutto Gipeto sulle Alpi, coordinato in Tici- infondata, che il Gipeto fosse un cacno da Ficedula che per la prima volta ciatore di agnelli è testimoniata e rafè aperto al grande pubblico degli inte- forzata nel 1868 da Einrich von Tschudi ressati che potranno accompagnare i che nel suo Tierleben der Alpenwelt lo censitori del rapace in una cinquantina raffigura con una preda fra gli artigli, di punti di osservazione sparsi in tutto racconta Lardelli, che ribadisce però il Canton Ticino». Questa giornata di l’assoluta infondatezza di questa superosservazione e censimento (gratuita stizione capace di causarne lo stermino ma alla quale è necessario iscriversi a e l’estinzione: «Le condizioni che hansegreteria.ficedula@gmail.com; 079 no causato la sua scomparsa dall’arco 207 14 07) segna ogni anno il culmine alpino furono l’ingiusta e infamante del progetto di reintroduzione del Gi- accusa di rapire bambini e agnelli, conpeto sulle Alpi: un progetto struttura- comitante al venir meno della sua fonte to nel suo monitoraggio regolare e che di sostentamento». quindi non si è concluso con la libera«Si nutre di ossa e se trova resti di zione del rapace tra le rocce: «La prima pelli di animale raccoglie peli e lana e idea di reintroduzione del Gipeto risale li trasporta nel suo nido per utilizzaral 1975, quando si iniziò a pianificare li come rivestimento. È peraltro assai tutto il progetto che permise di recupe- curioso e spesso confidente, ciò che ha rare alcuni esemplari provenienti dal anche alimentato ancestrali paure. Da Caucaso, regione le cui popolazioni del questi indizi ne è derivata, dicevamo, rapace hanno un patrimonio genetico la sua cattiva ma ingiustificata fama molto simile a quello dei Gipeti che abi- che ha spinto l’uomo a combatterlo con tavano le nostre Alpi. Nel 1985 è inizia- trappole ed esche avvelenate, con l’abto il suo lento processo di reintroduzio- battimento mirato e con la rimozione ne su tutto l’arco alpino con oltre 250 dei piccoli dal nido». Senza dimentiindividui nati in cattività in Austria, care che la prima legge sulla caccia del Svizzera e Francia». 1875 classificava il Gipeto come specie Un ripopolamento conseguente al nociva: «Per il suo abbattimento lo Stasuo completo sterminio dei due secoli to elargiva persino dei premi, e a questo passati: «Questa specie era sparita com- aggiungiamo la rarefazione degli unpletamente dall’arco alpino a inizio del gulati selvatici, privando l’animale del 1 stato2 suo 3sostentamento». 4 5 secolo scorso. Infatti non è più osservato alcun esemplare dopo un’ulOggi il Gipeto è ritornato a ripopotima cattura datata 1912 in Val6 d’Ao- lare l’arco alpino, ma fino 7a pochi8anni sta». La storia riporta che lo sterminio fa in Ticino non si osservavano esemMaria Grazia Buletti
(N. 33 - ... con la lingua viola - Cina)
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In passato è stato ritenuto erroneamente un cacciatore di agnelli e a questa fama si deve la sua scomparsa dal nostro territorio. In realtà è un uccello necrofago. (Michelangelo Giordano )
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plari e tantomeno nidi: «Le reintroduzioni sono state effettuate in Austria, Francia, nei Grigioni e in Vallese; il primo caso di nidificazione è però stato osservato in Italia nel 1990, anche se fu uno svizzero, David Jenny a individuarlo». Bisogna aspettare fino al 2017 per riuscire a osservare in modo intensivo e coordinato il Gipeto nel nostro Cantone: «Tre anni fa, presentando la situazione ticinese a un convegno, ho potuto confermare la presenza regolare di più di cinque individui anche in Ticino». Lardelli racconta di come si sia chiesto, a un certo punto, se l’assenza di questo rapace a sud delle Alpi fosse imputabile al fatto di non riuscire a
dui presenti nel nostro territorio in quel periodo fra adulti e giovani appena involati: dal Monte Generoso, passando dal Tamaro fino all’alto Ticino». Però, a tutt’oggi, non è ancora stata provata la nidificazione del Gipeto, probabilmente per una ragione anagrafica: «Il 4 la9maturità sessuale Gipeto5 raggiunge solo all’età di 6 – 7 anni, mentre la prima vera e propria 2 nidificazione 6 8 avviene 1 dopo gli 8 anni». Ora 3 sarà molto probabile riuscire a individuare anche qualche nido, è convinto 9 Lardelli, 3 che rinnova l’invito a tutti gli interessati per accompagnare gli esperti ornitologi a partecipare al censimento1del Gipeto del 3 ottobre prossimo: «La giornata sarà del tutto 5 2 9informativo gratuita, previo incontro attraverso una piattaforma informatica 1 la settimana precedente, 7 8 e che avverrà soprattutto saranno rispettate sul campo tutte le misure di3 protezione dal 9 Coronavirus (gruppi di due o tre persone, con ampio 8 distanziamento 5 1 sociale)». 6 I partecipanti, invitati a scattare foto, impareranno a riconoscere il Gipeto e l’Aquila reale e le loro classi d’età, e potranno offrire un contributo alla conoscenza del 9 2nostro territorio e5degli animali che lo popolano. «Se il Coronavirus ci ha in un certo senso costretti entro i nostri 6 confini, si tratta di un’occasione d’oro per imparare ad apprez4 ciò che abbiamo zare e conoscere di più in casa nostra», conclude Lardelli che ricorda9come, in quanto 2 necrofago, il Gipeto ripulisce il suo habitat da quello 6che rimane8delle carcasse: «Anche in quest’ottica, il suo ritorno nel territorio alpino costituisce un vantaggio per l’uomo e per la7natura». Tutti i dettagli e le informazioni su www.ficedula.ch.
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riconoscerlo. Per questo, nel 2016 Ficedula aveva organizzato una giornata di sensibilizzazione per la popolazione che viene avvicinata sul piazzale della Migros di Sant’Antonino: «Mostrando le gigantografie del Gipeto ai passanti, chiedevamo se lo riconoscessero e un aneddoto di quel giorno è che persino Lara Gut, che passava di lì, lo riconobbe 3 immediatamente… per1 averlo studiato a scuola». Aneddoti a parte, l’ornitologo riferisce di 11 osservazioni del Gipeto effettuate durante il censimento 2019, insieme a molte di più dell’Aquila reale: «Durante una splendida giornata 5 reali abbiamo contato più di 45 Aquile corrispondente alla metà degli indivi-
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Giochi per “Azione” - Settembre 2020 Stefania Sargentini
C O N D O R A L E A 3 A L8 2 9 10 I Mregalo O da 50 T franchi R A6 con il cruciverba Vinci una delle 3 carte 9 8 4 Giochi 11 12 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con N O G U A I4 il sudoku 9 13 14 15 16 17 ORIZZONTALI Cruciverba V I T T O Sudoku L A TN.31 C 1. Intingolo Come si chiama questo attrezzo e a che cosa serve? 4. Stato dell’Europa sudorientale 18 19 I Bacco R I S DSoluzione: E i3 S T 9 R I 5 1 Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo le 9. Allevò Scoprire 10. Frammento di pianta che ne genera numeri corretti 20 21 lettere evidenziate. un’altra inserire nelle 6 7 L A C P Edacaselle Scolorate. C O S (Frase: 7 – 10, 2, 5) 11. Due vocali 22 23 24 12. Molti furono scritti da Davide 8 T dell’attore Alpi P R A T O N M 13.T Le iniziali 14. Una sezione del coro 25 26 4 1 3 9 15. Isola delle Bahamas A I U T A R E M I O 16. La «legge» del silenzio (N. 34 - Sgorbia - Intagliare il legno) 1
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VERTICALI 1. Conserva la mozzarella 2. Primo cardinale italiano... 3. Le ali del gallo 4. Ballo di coppia caraibico 5. Pesanti copricapi 6. Vanno in cerca di alibi 7. Le (N. 33iniziali - ... condel lacantante lingua viola - Cina) Antonacci 1 2 3 4 5 8. Nome femminile 7 10. Meglio non6toccarlo se è delicato 9 10 12. È un anagramma di «astro» 11 12 13. I raggi del vate 13 14 15 16 17 14. Si sente nell’ovile 15. Le iniziali del Lippi della TV 18 19 17. Avverbio di tempo 20 21 20. Vigore, forza 22 23 24 21. Pronome dimostrativo 22. Sono di famiglia 25 26 23. Le iniziali dello stilista Armani
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S E R 9 B3 4I A 3 5 587 2 6 9 3 8 9 3 4 2 1 8 9 3 1 A 1 L E5 A 2 9 G 1 6 47 5 7 8 9 2 5 3 1 6 9 5 1 7 8 L 6Soluzione M Giochi Idella R A 3 9 persettimana “Azione” - precedente Settembre 2020 6 8 1 7 4 2 N.chow 32 3 4della 7 frase: 9 8 5 AMICO – 5Il chow 7 CANE 8Stefania 1 Sargentini 6 è l’unico cane… Resto SN. …CON I C A LA LINGUA VIOLA –T Risposta risultante: CINA. 30 3 9 9 2 5 6 4 7 9 3 2 C O N D O R A E L I A A6 L E A A8 L 5 9 28 5 1 4 6 1 L 3 1 2 3 7 8 5 I M4 O T R A 9 N O2 7 6 1 3 9 4 G5U A I Z VE I T6 T O8 L A T C 4 3 2 6 5 8 8 5 9 2 1 7 I5 R I S 7 D 9E S7T R4 I I 3 LNA8 C 2 P E 5S C O S 3 9 824 2 1 2 1 6 5 7 9 T T6 P R9 A8 T4 O N M I AA I4 U T A R9 E 2 M I2 O 5 17 4 8 6 3 8
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SUDOKU PER AZIONE - AGOSTO 2020
34 - Sgorbia - Intagliare il legno) la N.31 I premi, cinque carte regalo Migros (N. Partecipazione online: inserire luzione, corredata da nome, cogno9me, indirizzo, email 5 1del partecipandel valore di 50 franchi, saranno sor- 1 soluzione del cruciverba 2 3 4 5 6o del 7 sudoku 8 S deve U Gessere O 6 spedita S E a 7R teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato te «Redazione 2B I A 9 10 fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. Azione, Concorsi, C.P. 6315, I N O T A L E A 6901 G 5 6 7 8 9 8 12 13 entro il venerdì seguente la pubblica- 11Partecipazione postale: la lettera o Lugano». E O S A L M I R A 1 3 9corrispondenza sui zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- Non si4intratterrà 14 15 R B A S S I C A T 11 3 2
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concorsi. Le vie legali sono escluse. 2 8 un 7 pagamento 4 5 1 in6con3 Non è9possibile tanti 5dei 3premi. I vincitori saranno 1 9 6 8 4 7 2 avvertiti per iscritto. Partecipazione 6 4 7 3 1 2 8 5 9 riservata esclusivamente a lettori che 8 7in Svizzera. 4 1 3 9 6 2 5 risiedono
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Politica e Economia Nuova serie: 1. parte Storie di rinascite o ripartenze dopo alcune catastrofi, antiche e moderne. Cominciando con la caduta di Roma
Shinzo Abe getta la spugna Il primo ministro giapponese ha rassegnato le dimissioni dopo una lunga carriera politica. Che è stata anche una lunga storia di successi pagina 26
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La libertà più fondamentale Per l’UE la libera circolazione è il pilastro su cui si reggono tutte le libertà e gli accordi con la Svizzera; il 27 settembre se ne decreta la sorte
Votazioni federali Il 27 settembre alle urne anche la revisione della legge sulla caccia, con modifiche importanti sulle razze protette pagina 28
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A Kenosha bande di violenti hanno appiccato il fuoco e devastato molti edifici. (AFP)
Perché le tensioni danneggiano Biden Stati Uniti Se da una parte Trump è responsabile della situazione sociale perché da anni usa una retorica divisiva,
dall’altra viene considerato come il più deciso quando si tratta di ordine pubblico e di sostegno alla polizia Daniele Raineri Il «Sunday Times» ha mandato un inviato nel Wisconsin, Stati Uniti, per spiegare che «le rovine bruciate di Kenosha rischiano di bloccare la marcia di Biden verso la presidenza», come diceva il titolo del reportage. Sarebbe difficile fare una sintesi migliore. Kenosha è quella città dove due settimane fa la polizia ha sparato sette colpi di pistola nella schiena di un afroamericano. La sera stessa e la notte dopo sono cominciate manifestazioni contro la brutalità poliziesca – un tema che è reale e preoccupante – ma nel corso delle proteste bande di violenti per l’ennesima volta hanno appiccato il fuoco e devastato molti edifici. Tre giorni dopo un minorenne che era arrivato in città con un fucile «per proteggere le proprietà private» si è scontrato con alcuni manifestanti e ne ha uccisi due – che erano disarmati – a fucilate. Nel giro di pochissimo tempo una cittadina che nessuno qui saprebbe indicare sulla mappa degli Stati Uniti è diventato un tema centrale della campagna elettorale. E il presidente americano, Donald Trump, ha tirato un sospiro di sollievo e ha subito fiutato l’occasione per riguadagnare punti percentuali rispetto allo sfidante Joe Biden, che per il momento è in testa a
tutti i sondaggi con un buon distacco. Perché le violenze come quelle di Kenosha, che in questi mesi avevano colpito molte altre città, vanno a vantaggio di Trump e danneggiano Biden? Per almeno tre ordini di motivi. Il primo è che Trump è alla Casa Bianca, ma la responsabilità per l’ordine pubblico spetta ai governatori e ai sindaci e nei luoghi dove ci sono le manifestazioni più violente spesso governano i democratici. Quindi la responsabilità cade su di loro, che di colpo si trovano davanti a un dilemma: accettare le offerte di Trump, che vuole mandare nelle città contingenti di rinforzo formati da agenti federali e anche da militari per bloccare con la mano pesante i saccheggi – ma anche le proteste – oppure respingere quelle offerte e provare a cavarsela da soli? I democratici scelgono quasi sempre la seconda strada, ma spesso non funziona. Nel Wisconsin il governatore democratico Tony Evers ha chiamato la Guardia nazionale e ha bloccato i saccheggi in tempi brevissimi, ma non abbastanza in fretta da evitare l’arrivo delle milizie armate con il beneplacito della polizia locale e le due uccisioni che abbiamo già menzionato. A Seattle il sindaco Jenny Durkan ha accolto con favore la nascita di una zona autogestita dai manifestanti
che si estendeva per alcuni isolati nel centro della città, ma l’esperimento si è trasformato in un incubo. Bande di vigilantes hanno preso il controllo dell’area, hanno processato in pubblico le persone che non aderivano all’iniziativa e non sono state capaci di fermare i reati veri. Polizia, vigili del fuoco e ambulanze rifiutavano di entrare. Alla fine ci sono stati due morti e nel giro di un mese l’utopia si è autodisintegrata. A Chicago dopo un episodio di brutalità poliziesca il sindaco democratico, donna e afroamericana, Lori Lightfoot, una notte di agosto ha ordinato di alzare i ponti e di bloccare i treni e i bus che collegano il centro della città dagli altri quartieri nel tentativo di bloccare le bande di saccheggiatori che erano calate sul centro per sfasciare i negozi. In pratica ha diviso la città in due zone per un giorno. A Portland, in Oregon, l’Amministrazione Trump ha prima inviato e poi ritirato alcune squadre di agenti federali per fermare le proteste, con il risultato di attirare molti più manifestanti e di creare molti più scontri. Il governatore dell’Oregon, Kate Brown, ha detto che gli agenti federali mandati da Trump erano «una forza d’occupazione». Il sindaco della città, Ted Wheeler, ha detto «non li vogliamo e non ne
abbiamo bisogno». Ma l’impressione è che i democratici siano in difficoltà a gestire questi mesi di tensioni razziali e di violenze. E gli elettori preferiscono per istinto la stabilità e l’ordine. Un sondaggio Harvard Caps/Harris dice che il 77 per cento degli americani è «estremamente preoccupato» per la frequenza dei crimini nelle città. Il secondo problema per Biden è che i democratici stanno facendo la figura di quelli che condonano queste violenze. Non lui in persona, che anzi chiede l’arresto e una pena da scontare in carcere per i saccheggiatori, ma voci che possono essere ricondotte al suo schieramento. I democratici americani sono un partito d’ordine e in Europa sarebbero alla destra di tutti i partiti di sinistra, ma non condannano con abbastanza vigore i saccheggi e le violenze – o almeno la percezione è questa e la percezione conta molto. Kamala Harris, la vice di Biden, ha fatto una raccolta fondi per gli arrestati durante le proteste in Minnesota. La convention nazionale, che si è chiusa da poco, non ha parlato molto di questo tema. E, come se non bastasse, circolano prese di posizione radicali che flirtano con i razziatori. «The Nation», la più antica rivista degli Stati Uniti, che è considerata un punto di riferimento della sinistra, ha pubblicato un artico-
lo che era intitolato: «In difesa della distruzione di proprietà». Una settimana fa è uscito un saggio simile, «In difesa del saccheggio», che non è stato scritto da qualcuno del Partito democratico ma di sicuro l’autrice, Vicky Osterweil, non è di area trumpiana. Il terzo problema, per Biden e soci, è che Trump invece viene identificato con la legge e l’ordine. Law and order!, come continua a scrivere su Twitter, molto consapevole che è il momento di sfruttare l’allarme dell’elettorato. È persino andato a visitare Kenosha e si è fatto fotografare tra le rovine annerite dalle fiamme, tanto per sottolineare il concetto. È una situazione paradossale, perché per tutto il mandato Trump ha soffiato sul fuoco della tensione razziale e ha sempre scelto una retorica divisiva che ovviamente contribuisce ad alzare il livello dello scontro e della violenza, ma allo stesso tempo può mettersi il cappello di quello che risolverà tutto. Non è vero che risolverà tutto e il fatto che queste manifestazioni e questi scontri siano avvenuti durante la sua presidenza non è un caso, ma tutto questo fa passare in secondo piano altri grandi temi, come la pandemia e la crisi dell’economia. Come ha detto un ristoratore di Kenosha ai saccheggiatori: «Perché fate così? Volete fare rieleggere Trump?».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Politica e Economia
La caduta di Roma, ossessione di Trump Storie di rinascite – 1. parte Nel dibattito sull’America di oggi
il riferimento alla fine dell’Impero è costante e fondamentale per capire il proprio destino Federico Rampini Pandemia e cambiamento climatico, calo demografico e impoverimento economico. Per noi occidentali nel 2020 questo «paesaggio» è familiare. Lo era anche per i romani del basso impero. Lo storico americano Kyle Harper descrive gli ultimi secoli dell’impero d’Occidente come una concatenazione di crisi epidemiologiche e ambientali, che fiaccano le resistenze alle invasioni barbariche e precipitano l’Europa intera verso un arretramento politico, sociale, tecnologico, culturale. Pubblicato in inglese nel 2017, il saggio di Harper non è uno dei tanti instant-book lanciati sul mercato dopo il Coronavirus. Fondato su solide basi scientifiche, dalle rilevazioni sui ghiacciai alle analisi sul Dna, è un affresco angosciante sulla ritirata di una delle civiltà più avanzate della storia: «Pur immaginando che la peste di Giustiniano avesse ucciso metà della popolazione, esistevano pur sempre degli esseri umani sparsi sul territorio. La verità è che in alcune regioni dell’impero era diventato difficile trovarli. Dalle testimonianze materiali dell’Italia le persone sembrano misteriosamente sparite. Villaggi e fattorie che da un migliaio di anni sostentavano un notevole livello di civiltà sembrano per la maggior par-
te scomparsi. … L’Italia retrocesse barcollando a livelli di tecnologia e cultura materiale che non si erano visti neppure prima degli Etruschi. L’alleanza tra guerra, peste e cambiamento climatico cospirò per invertire un millennio di progresso materiale e trasformò l’Italia in una zona arretrata dell’Alto Medioevo, più importante per le ossa dei suoi santi che per la sua ricchezza economica o politica». È una delle letture che vi propongo in questo percorso alla ricerca di precedenti storici: le grandi crisi del passato a cui seguirono rinascite, ripartenze. In seguito, crolli e ricostruzioni li cercherò soprattutto in epoca contemporanea. Ma partire da Roma è obbligatorio perché la caduta di quell’impero divenne l’ossessione di tutti i suoi successori. Nel dibattito sull’America di oggi, il riferimento alla fine di Roma è costante. Un saggio ormai classico applicò il filone «decadentista» agli Stati Uniti trent’anni fa: Ascesa e declino delle grandi potenze dello storico britannico Paul Kennedy. La sua analisi in realtà parte dal tardo Rinascimento e arriva all’età contemporanea, ma l’archetipo è pur sempre la decadenza di Roma. È curioso ricordare che l’opera di Kennedy uscì due anni prima della caduta del Muro di Berlino. Lo storico bri-
tannico analizzava le possibili cause di un declino degli Stati Uniti poco prima che il crollo dell’Unione sovietica regalasse l’illusione di un’egemonia illimitatata: la Pax Americana o «momento unipolare» in cui nessuno sembrava poter sfidare la supremazia Usa. Tra gli impliciti parallelismi fra Roma e l’America, analizzava l’overstretch o iper-dilatazione della presenza militare ai confini dell’impero. Durante l’Alto Impero romano, il bilancio statale complessivo era dell’ordine di 250 milioni di denarii: due terzi erano assorbiti dall’esercito. L’impero britannico finì in bancarotta dopo la Seconda guerra mondiale. Donald Trump sta tentando di rinviare la resa dei conti, scaricando una parte del problema sui bilanci degli alleati europei e asiatici? Un tema diverso si è affacciato spesso nella cultura di sinistra: il parallelo tra Roma e Stati Uniti nel passaggio dalla Repubblica ai Cesari, visto come il tradimento di un ideale; nel caso americano certe presidenze «imperiali» come quella di Richard Nixon furono denunciate come scivolamenti verso forme autoritarie. L’idea che un presidente possa eccedere nell’uso del proprio potere è una costante da Theodore Roosevelt a Trump, negli argomenti dei loro oppositori. Il destino di Roma – che all’origi-
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La distruzione dell’Impero romano di Thomas Cole (Olio su tela 1836).
ne non fu una democrazia sul modello ateniese, però una Repubblica con una direzione collegiale affidata al Senato – è sempre un punto di riferimento anche nel dibattito sulla crisi delle liberaldemocrazie. L’idea che i nuovi imperi d’Occidente debbano studiare la storia di Roma per capire il proprio destino, fu imposta con particolare efficacia 250 anni fa da un altro inglese, Edward Gibbon. L’autore della monumentale Storia della decadenza e caduta dell’impero romano era uno straordinario narratore, la qualità della sua scrittura fa sì che un’opera così datata e spesso superata continui ad essere letta oggi con gusto. Gibbon era un uomo del Settecento, un allievo di Voltaire, una delle sue tesi più controverse riguarda il ruolo del cristianesimo: decisivo per indebolire Roma e consegnarla ai barbari. Era però una tesi già diffusa tra i romani del Basso impero, come ricordava il grande medievista italiano Girolamo Arnaldi, nelle sue pagine sul sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti: «Era inevitabile che, giunti alla stretta finale, con Alarico che si avvicinava alle porte di Roma, venissero al pettine i nodi della storia degli ultimi cento anni, da Costantino (306-337) in poi. Motivata dall’esigenza di infondere una nuova vita all’impero, la conversione al cristianesimo sembrava aver avuto il solo risultato di predisporre gli animi alla rassegnazione e alla resa. L’osservanza del principio evangelico in base al quale, se uno ti colpisce sulla guancia destra, devi porgergli anche l’altra (Matteo 5, 39), era da molti giudicata incompatibile con la salvezza della respublica». Il sacco dei Visigoti infierisce su una Roma già fiaccata da tempo. Nella storia dell’antichità curata da Umberto Eco si ricorda che dalla morte di Commodoro (192 d.C.) all’ascesa al trono di Diocleziano (284 d.C.) si erano succeduti con un ritmo «drammaticamente inarrestabile», una trentina di imperatori ufficiali e decine di usurpatori o pretendenti al trono. «Quasi tutti periscono di morte violenta, uno addirittura fatto prigioniero dal sovrano della rinata Persia». L’impero arriva a spaccarsi in tre tronconi, l’unico che sarà durevole è Bisanzio ma al prezzo di una «orientalizzazione» anche politica, con gli imperatori che diventano figure sacrali. Insieme con le pandemie, gli effetti del cambiamento climatico che sconvolgono i raccolti, l’iperinflazione e la pressione dei barbari, un altro fenomeno corrode l’impero romano dal suo interno: la fine dello spirito civico, del senso di appartenenza ad una comunità. Lo storico francese Robert Fossier descrive una «società che fugge dallo Stato nel V secolo dopo Cristo». I romani di quel tempo si ritirano «nel proprio guscio», per sfuggire allo Stato, alle sue tasse e ai doveri di difesa. Generali, vescovi e monaci denunciano l’apatia generale. Ma i cittadini si ritirano dalla sfera pubblicano, cercano la protezione di qualche potente per conservare i benefici della Pax Romana senza sopportarne oneri e responsabilità. Ciò che accade dopo la caduta dell’impero d’Occidente, resta un ammonimento tremendo sulla possibilità che la storia torni indietro, che la disgregazione di un ordine politico e sociale apra la strada a un lungo regresso, con
condizioni di vita materiali sempre più degradate. L’impero romano fondava la sua economia sullo schiavismo e quindi la prosperità materiale non era certo ripartita in modo equo. Era stato però un ordine «globalista», diremmo oggi: sia nella sua capacità di cooptare nuove etnìe, concedendo la cittadinanza anche a popoli periferici; sia perché la Pax Romana garantiva la sicurezza nel Mediterraneo e quindi favoriva i commerci e la crescita. Con la fine di quell’ordine imperiale il tessuto economico si disgrega, s’interrompono le relazioni tra regioni diverse dell’Europa, del Mediterraneo, dell’Asia minore, il localismo tribale è il nuovo orizzonte di un mondo rimpicciolito e avvinghiato dalla scarsità di risorse. La «peste giustiniana» che arriva a Roma nel 543 contribuisce a indebolire ogni capacità di resistenza verso le invasioni barbariche (i longobardi in questo caso). In occasione di un altro sacco di Roma, da parte del re ostrogoto Totila nel 546-547, la città viene svuotata completamente. Poco dopo vi torneranno dalle campagne 40’000 persone, un numero minuscolo rispetto agli 800’000 abitanti del secolo prima. Oltre alla ricchezza materiale, si disperde quella culturale: muore la conoscenza di lingue antiche come il greco, essenziali per leggere di scienza e filosofia; avanza l’analfabetismo di massa, anche tra le élite nobiliari barbariche molti non sanno scrivere neppure il proprio nome. E senza scrittura si depaupera la trasmissione del sapere. È in questa fase che si apre un «cantiere» destinato a dare i suoi risultati per secoli: il monachesimo. I religiosi diventano i custodi non solo dei testi sacri, ma anche della sapienza profana e pagana. Nei monasteri medievali vengono salvati dalla distruzione e dall’oblìo i più importanti tesori della civiltà ellenistica e latina. La fantasia di Umberto Eco ne Il nome della rosa mette al centro della trama del suo giallo medievale proprio una rarissima opera di Aristotele salvata in un monastero. I monaci non si limitano a ricopiare a mano per tramandare ai posteri: creano scuole, come tante piccole dighe contro il dilagare dell’ignoranza. Inoltre quando il monachesimo medievale diventa un fenomeno di massa, con le «regole» (a cominciare da quella benedettina) i monasteri diventano delle oasi di ordine, disciplina, armonia: tutto ciò che era esistito e poi scomparso nel caos dopo la caduta di Roma. Il cantiere monacale non poteva immaginare a cosa sarebbe servito il suo lavoro di preservazione. Ci vollero secoli per raccoglierne i risultati. Né l’Umanesimo né il Rinascimento e neppure l’Illuminismo sarebbero come li conosciamo, se qualcuno (molto prima degli arabi nel IX secolo) non avesse custodito i tesori della cultura occidentale. Che cosa spinse quei monaci a preservare i tesori della cultura classica? Perché la loro fede cristiana non ostacolò l’apprezzamento per la saggezza pagana? Una delle chiavi va cercata nella componente celtica del monachesimo: all’inizio molti vennero dall’Irlanda. Erano dei convertiti che avevano dovuto studiare il latino come una lingua straniera. La fatica a cui si erano sottoposti li aveva resi ancora più consapevoli del traguardo raggiunto, dell’accesso conquistato.
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Politica e Economia
Abe, fine di un’era
Giappone Il primo ministro più longevo della storia del Giappone ha annunciato le sue dimissioni il 28 agosto
per motivi di salute. La sua eredità politica è anche una storia di successo
Giulia Pompili Shinzo Abe, il leader della stabilità del Giappone, alla fine ha dovuto arrendersi. Dopo quasi otto anni da primo ministro la colite ulcerosa lo ha costretto alle dimissioni, annunciate nel corso di una conferenza stampa a sorpresa venerdì 28 agosto scorso. «Lo scopo di un politico è quello di fare le cose», ha detto Abe, «e io non sono nelle condizioni di dedicarmi completamente al mio ufficio». Era accaduto più o meno lo stesso nel 2007, quando dopo una breve esperienza di governo aveva lasciato la poltrona di primo ministro sempre per problemi di salute. A quell’epoca, però, Abe non aveva avuto nemmeno il tempo di imporsi come figura carismatica e di rilievo, riconosciuta internamente e all’estero. Per farlo, aveva dovuto aspettare altri cinque anni. Nel 2012 era tornato con una campagna elettorale convincente, ed era riuscito soprattutto a tenere insieme tutte le correnti del Partito liberal democratico, il partito conservatore attualmente al governo in Giappone. Dopo un periodo di estrema instabilità politica, con primi ministri e governi che cambiavano nel giro di pochi mesi, Abe era tornato a guidare il governo e soprattutto a far vincere il Partito. È rimasto leader per quasi due mandati di seguito, sperando – si dice – perfino in un terzo. La malattia, però, è tornata implacabile e quando è stato visto più
volte entrare e uscire dall’ospedale è cominciata a circolare insistente la voce delle sue dimissioni: «Sto provando dei nuovi trattamenti», ha detto durante la conferenza stampa Abe, «e questo mi impedisce di essere totalmente concentrato sul lavoro». La terza economia del mondo si trova adesso ad affrontare una delle successioni più importanti dal Dopoguerra, perché Abe è stato il premier riformista, e soprattutto il più longevo della storia democratica del Paese. E lo fa in un momento di grande instabilità politica per il mondo occidentale, in attesa dei risultati delle elezioni americane di novembre. Chi arriverà dopo Shinzo Abe avrà numerosi dossier da gestire, dall’economia alla politica estera, ma soprattutto dovrà prendersi la responsabilità della complicata gestione dell’epidemia. I più critici dicono che la malattia c’entri relativamente poco: negli ultimi mesi il consenso intorno al primo ministro Abe era in caduta libera. La pandemia un po’ ovunque nel mondo ha messo in luce le difficoltà di una gestione centralizzata dell’emergenza, e ha fatto emergere nuovi volti di politici locali, che spesso hanno criticato l’operato e le decisioni del governo centrale. Il primo ministro giapponese è stato accusato di aver ritardato la dichiarazione d’emergenza per motivi politici. Non voleva rassegnarsi a dover rinviare, o addirittura cancellare l’even-
Nella storia politica del Giappone Shinzo Abe sarà ricordato come il grande riformista e il grande diplomatico. (AFP)
to che, nei suoi piani, avrebbe dovuto rilanciare il ruolo del Giappone nel mondo: i Giochi olimpici di Tokyo del 2020. Poi è stato accusato di minimizzare l’epidemia nel tentativo di evitare
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l’ennesimo rinvio di una delle visite di Stato più attese di quest’anno: quella del presidente cinese Xi Jinping nella capitale giapponese, un viaggio che avrebbe dovuto sancire la normalizzazione dei rapporti tra Giappone e Cina. Ma sarebbe superficiale fare un’analisi del Giappone di Abe partendo dalla fine, cioè dall’epidemia che ha sconvolto il mondo e messo in ginocchio economia e società. Nella storia politica del Giappone Shinzo Abe sarà ricordato come il grande riformista e il grande diplomatico. Anche perché nel dicembre del 2012 è arrivato a guidare il Paese in un momento molto particolare. Il Partito democratico era riuscito a vincere le elezioni e a governare per qualche anno, ma poi la catastrofe del terremoto e dello tsunami dell’11 marzo del 2011, con l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, ha cambiato tutto. Quel cataclisma colpisce non solo l’economia del Paese ma è anche uno shock per la società. Nello stesso periodo arriva anche lo storico sorpasso della Cina sul Giappone come seconda economia del mondo, subito dopo l’America. Abe si presenta come il leader del cambiamento, ma allo stesso tempo i giapponesi lo conoscono benissimo: come quasi tutti i politici del Sol levante è figlio e nipote d’arte. Suo padre, Shintaro Abe, è stato ministro degli Esteri e leader del Partito liberal democratico. Ma a essere conosciuto è soprattutto suo nonno, Nobusuke Kishi, un altro ex primo ministro che faceva parte del gabinetto di guerra di Tokyo durante la Seconda guerra mondiale, e nel Dopoguerra imprigionato e sospettato di crimini contro l’umanità. Da una parte il bagaglio famigliare di Abe è la garanzia per i conservatori che sia legato a certe idee tradizionaliste; dall’altra però è un ingombrante peso in politica estera. È grazie alla sapienza diplomatica dello staff di cui si circonda, dicono gli analisti giapponesi, che Shinzo Abe nel corso degli anni è riuscito a tessere delle relazioni che vanno al di là della sua storia politica, soprattutto con la Cina. Senza presentare scuse formali per l’occupazione nipponica, era riuscito, nel 2016, a firmare un accordo di pace anche con l’allora presidente sudcoreana Park Geun-hye – accordo poi completamente ignorato dal successivo presidente democratico, Moon Jae-in.
In questi anni Tokyo si è avvicinata più che mai a un accordo di pace anche con la Russia di Vladimir Putin, una questione così importante da essere stata menzionata da Abe nel corso della sua conferenza stampa. Uno degli ultimi fronti ancora aperti della Seconda guerra mondiale sono i cosiddetti territori del nord, lì dove l’arcipelago giapponese incontra la sconfinata Russia, contesi da settant’anni da Tokyo e Mosca. Il gabinetto di Abe lavora da anni all’accordo di massima per un uso condiviso delle aree del nord (soprattutto il loro sfruttamento economico), un dossier che probabilmente il suo successore, invece, dovrà ricominciare da capo. Il primo ministro giapponese si è guadagnato le copertine di molti magazine internazionali proprio per la sua capacità di tessere relazioni diplomatiche vantaggiose per un Giappone che negli ultimi vent’anni era uscito dalla scena internazionale: dall’Africa al Medio Oriente, di nuovo Tokyo aveva una sua visibilità. I vent’anni, appunto, sono quelli della grande depressione, la «morte lenta» come chiamano gli economisti nipponici il lunghissimo periodo di deflazione che ha strozzato l’economia giapponese. Per cercare di invertire la rotta, nel 2014 Shinzo Abe ha lanciato l’«Abenomics», un sistema di politiche monetarie espansive mai azzardata da nessun governo, unita all’aumento della tassa sui consumi per cercare di far crescere l’inflazione. L’altro risultato positivo, in termini economici, è il trattato di libero scambio con l’Unione europea, entrato in vigore il 1 febbraio del 2019. In un editoriale di qualche giorno fa il «New York Times» ha scritto che le politiche economiche di Abe hanno «contribuito a spingere la crescita, l’occupazione e il fatturato delle aziende. Abe ha sfidato il modo in cui il Giappone ha sempre fatto business, aumentando la partecipazione nel mondo del lavoro di donne e immigrati, in una società profondamente conservatrice». Secondo il giornale di New York Abe ha il merito di aver cercato di «normalizzare» il Giappone. Sono i vertici del Partito liberal democratico adesso a dover decidere chi sarà a ereditare questa responsabilità. L’accordo su un successore andrà trovato entro poche settimane. Chiunque sarà il nuovo leader, è difficile che abbia la forza politica di Shinzo Abe.
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Politica e Economia
La libera circolazione è la base CH-UE È una delle quattro libertà garantite dall’ordinamento giuridico europeo, da cui deriva anche lo Spazio
di Schengen e di cui approfitta largamente anche la Svizzera – Il 27 settembre il Popolo ne deciderà la sorte Marzio Rigonalli Il 27 settembre saremo chiamati in votazione a pronunciarci su un diritto fondamentale molto importante: la libera circolazione delle persone. Vogliamo abolirla come chiede l’iniziativa popolare dell’Udc, «Per un’immigrazione moderata (iniziativa per la limitazione)»? Oppure vogliamo preservarla, pur accettando di porle dei limiti, come spesso avviene con tutte le libertà fondamentali? La libera circolazione delle persone è una delle quattro grandi libertà garantite dall’ordinamento giuridico dell’Unione europea, accanto alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. Inizialmente fu concepita dai trattati istitutivi come libera circolazione degli operatori economici. In seguito, con gli accordi di Schengen del 1985 e con il trattato di Maastricht del 1992, che ha introdotto l’istituto della cittadinanza europea, questa libertà ha assunto un valore più ampio ed ha incluso per tutti i cittadini europei il diritto di soggiorno e di circolazione in tutto il territorio dell’UE. In pratica, ogni cittadino europeo può scegliere in quale Stato vuol prendere dimora e svolgervi un’attività lavorativa. I trattati esistenti non ammettono discriminazioni tra i lavoratori degli Stati membri fondate sulla nazionalità. Accanto ai diritti vi sono però anche obblighi per i cittadini europei che scelgono di lasciare un paese per vivere in un altro, vincoli che riguardano la possibilità di lavorare, o la durata del soggiorno. Infine, i trattati ammettono che la libera circolazione possa non venire applicata in alcuni casi, in particolare quando ci sono seri motivi di ordine pubblico e quando sono in gioco la sicurezza e la sanità pubbliche.
Un sì all’iniziativa dell’UDC contro la libera circolazione impedirebbe nuovi accordi bilaterali Uno dei risultati concreti più evidenti dell’applicazione della libera circolazione fu la nascita dello spazio Schengen. Lo spazio comprende la maggior parte dei paesi dell’UE ed i quattro paesi dell’AELS (Associazione europea di libero scambio), Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein, che hanno lo status di paesi associati. Questo spazio ha permesso di abolire i controlli alle frontiere interne, di adottare misure per rafforzare ed armonizzare i controlli alle frontiere esterne, di definire una politica comune dei visti per soggiorni brevi, che consente ai cittadini di paesi non membri dell’UE di ottenere un visto unico valido per l’intero spazio, di rafforzare la cooperazione giudiziaria e di polizia, nonché di istituire e di sviluppare il Sistema d’informazione Schengen. Nonostante il suo successo, negli ultimi tempi lo spazio Schengen è stato sottoposto a forti pressioni, prima a causa dell’afflusso senza precedenti di rifugiati e migranti nell’UE, poi a causa della pandemia. I governi di vari Stati membri hanno reintrodotto i controlli temporanei alle frontiere interne di Schengen. Sono misure eccezionali, permesse dai trattati, che spariscono però non appena la situazione in causa ridiventa normale. La libera circolazione delle persone è stata introdotta in Svizzera con l’accordo bilaterale firmato il 21 giugno 1999, accettato dal popolo nel maggio 2000, nell’ambito della votazione sui Bilaterali 1, ed entrato in vigore il 1.
Perdere tutti gli accordi conclusi nel 1999 per abolire la libera circolazione? (Keystone)
giugno 2002. L’accordo sulla libera circolazione è il più importante dei sette accordi che formano il primo pacchetto dei bilaterali. Più tardi, l’intesa è stata estesa ai nuovi Stati membri dell’UE, offrendo al popolo elvetico la possibilità di decidere ogni singola estensione. L’accordo vale anche per gli altri tre paesi dell’AELS. Con la Gran Bretagna, il paese più critico riguardo la libera circolazione delle persone, l’intesa verrà applicata solo fino al 31 dicembre 2020, data alla quale Londra uscirà dall’UE. Per quella data, Berna e Londra sperano di avere a disposizione un nuovo accordo bilaterale. I due paesi stanno negoziando un trattato di cooperazione delle rispettive polizie, al fine di impedire il sorgere di un vuoto in settori così importanti come la sicurezza e la migrazione. Secondo la consigliera federale Karin Keller-Sutter la trattativa è già in una fase avanzata. Il principio della libera circolazione include il diritto per i cittadini europei di soggiornare e lavorare in Svizzera e per i cittadini svizzeri di prendere domicilio nello spazio europeo e di godere in larga misura delle stesse condizioni di vita e di lavoro dei cittadini dell’Unione europea. La vita dei nostri confederati vien semplificata, e non di poco, dall’esercizio di questa libertà. Il diritto alla libera circolazione non è però assoluto. Il Consiglio federale ha avuto ed ha la possibilità di limitarne la portata, soprattutto per contenere le sue conseguenze negative. Lo ha fatto quando c’era la possibilità di ricorrere alla cosiddetta clausola di salvaguardia, che per alcuni anni ha consentito di limitare il numero di determinati tipi di permesso. Lo sta facendo adesso con le misure di accompagnamento, che sono la principale difesa contro ogni tipo di abuso, riguardante il mercato, le condizioni di lavoro, i salari e il versamento dei contributi assicurativi, e lo sta attuando anche con gli aiuti messi a disposizione per i lavoratori anziani che stentano a trovare un lavoro. La libera circolazione delle persone fa parte delle nostre libertà fondamentali. Le frontiere nazionali non sono più l’orizzonte dei nostri spazi di vita, di lavoro e d’interessi. Rimangono i baluardi di tutti i nazionalismi, ma sono sempre più viste come dei passaggi che consentono la vivacità degli scambi economici, la reciproca conoscenza di culture diverse ma vicine, l’arricchimento delle esperienze professionali ed uma-
ne. Le frontiere aperte offrono numerosi vantaggi, che consideriamo ovvi, naturali, facenti parte della nostra vita e di cui soffriremo la mancanza se dovessero venire a mancare. È quanto è succes-
so durante la fase acuta della pandemia, quando i governi che avevano chiuso le frontiere hanno dovuto confrontarsi con le pressioni che esercitavano tutti coloro che volevano riaprirle.
Il 27 settembre sarà una giornata che si rivelerà importante per il futuro del nostro paese. L’accettazione dell’iniziativa popolare dell’UDC porterà alla fine della libera circolazione delle persone, alla disdetta degli accordi Bilaterali 1 e, probabilmente, anche all’accantonamento di altri accordi bilaterali. Le nostre libertà verranno intaccate. L’economia svizzera ne risentirà, perché le aziende non avranno più l’accesso diretto al mercato unico europeo e, in fin dei conti, i nostri rapporti con l’Unione europea si faranno più difficili. Bruxelles non accetterà più di continuare sulla via bilaterale seguita fino adesso e renderà difficile la conclusione di un futuro accordo di libero scambio, o di altri accordi. Il rifiuto dell’iniziativa per la limitazione, invece, avrà almeno due conseguenze positive. Consentirà di non peggiorare le nostre relazioni con l’UE, che è il nostro principale partner politico ed economico, e di rilanciare il negoziato sull’accordo istituzionale. L’accordo è tutt’ora bloccato su tre punti che il Consiglio federale vorrebbe rinegoziare: la protezione dei salari, gli aiuti di Stato e la direttiva sulla cittadinanza europea. La sua conclusione è però necessaria, sia per consolidare la via bilaterale tracciata fin ora, sia per poter concludere nuovi accordi bilaterali che facilitino l’accesso al mercato unico come per esempio l’accordo sull’energia elettrica. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Politica e Economia
Caccia: una revisione per gestire meglio il lupo Votazioni federali La nuova legge permetterebbe di regolare la popolazione di determinate specie protette – Nel caso
del lupo, potrebbero essere abbattuti singoli esemplari per la protezione delle greggi ma non interi branchi
Alessandro Carli Tra i vari temi in votazione il 27 settembre prossimo, i cittadini dovranno esprimersi anche sulla revisione della legge sulla caccia, che permetterà una forma di regolazione di determinate specie animali protette come il lupo, revisione contro la quale è stato lanciato il referendum. In sostanza, si tratta di decidere se si debbano inasprire le condizioni contro questo predatore, accordando ai Cantoni la regolazione preventiva degli effettivi. Ma quando si parla di caccia, si cade inevitabilmente in uno scontro ideologico, con i fautori dell’arte venatoria a sostenere, tra l’altro, la necessità di regolare in modo controllato la selvaggina e con i contrari a difendere gli animali e il loro habitat. Consiglio federale e Parlamento (con una maggioranza di 2 a 1) raccomandano di accettare la nuova legge perché rafforza la protezione di molte specie di animali selvatici e offre nel contempo una soluzione pragmatica per la gestione della crescente popolazione di lupi, sebbene quest’ultimi restino una specie protetta. Per gli oppositori, la riveduta legge è «mal concepita», perché consente l’abbattimento di animali protetti, senza che questi abbiano causato danni. Se la revisione dovesse fallire, resterebbe in vigore la legge attuale, che risale al 1986, definita «molto equilibrata» dai fautori del referendum. Si è invece sentita la necessità di attualizzarla, proprio perché allora il lupo non aveva ancora colonizzato il territorio elvetico. Dalla formazione di un primo branco nel 2012, gli effettivi si sono moltiplicati. Alla fine del 2019, in Svizzera si contavano circa 80 lupi, distribuiti su una dozzina di cantoni, tra cui Vallese, Grigioni (accertata la presenza di dieci branchi in Svizzera) e retroterra di Bellinzona. I lupi attaccano pecore e capre e colpiscono anche greggi protette, ciò che crea conflitti con i proprietari. Ogni anno vengono uccisi dai 300 ai 500 animali (ovini e caprini). La riveduta legge sulla caccia è destinata ad adattare alle realtà attuali le regole di coabitazione tra il lupo e l’essere umano. I Cantoni potranno autorizzare abbattimenti di lupi, al fine di evitare danni alle pecore e alle capre. Lo scopo è di fare in modo che i lupi
continuino a temere l’uomo, rimanendo a debita distanza dalle zone abitate. In ogni caso, gli abbattimenti sono sottoposti a varie condizioni: i Cantoni non potranno intervenire se un branco di lupi si mantiene a distanza dalle greggi e dagli insediamenti e dovranno giustificarne l’abbattimento alla Confederazione. Le organizzazioni di protezione della natura potranno ricorrere contro la decisione cantonale. Secondo la nuova legge sulla caccia, i Cantoni potranno autorizzare i guardacaccia a sopprimere un lupo isolato se attacca greggi, nonostante le misure di protezione o se si aggira nei pressi dei villaggi. Si tratta di una possibilità che già esiste. La revisione della legge non cambia lo statuto del lupo, che – come detto – resta una specie protetta e i branchi rimangono preservati. Per questo, non si potrà cacciare. Secondo la legge sono ammissibili unicamente interventi sugli effettivi di lupi e di stambecchi. Se vi fossero motivi oggettivi, il Consiglio federale può dichiarare regolabili altre specie, che perturbano l’attività di contadini, cacciatori e pescatori. Il parlamento, d’accordo il governo, ha però espressamente respinto questa possibilità per linci, castori, aironi cenerini e smerghi maggiori, ma ha ammesso che in futuro si potranno regolare gli effettivi di cigni reali. La revisione della legge sulla caccia non concerne soltanto il lupo. Introduce nuove condizioni sulla protezione degli animali selvatici e stabilisce anche le condizioni per prevenire i danni causati dai castori a edifici e impianti d’interesse pubblici e dalle lontre agli impianti di piscicoltura. Inoltre, colombaccio, tortora dal collare orientale, corvo comune e imperiale, cornacchia grigia e nera, ghiandaia e gazza sono protetti dal 16 febbraio al 31 luglio. Folaga, svasso maggiore, alzavola, moretta e germano reale lo sono dal 1° febbraio al 31 agosto. La beccaccia dal 15 dicembre al 15 ottobre; il cormorano dal 16 marzo al 31 agosto. Secondo la consigliera federale Simonetta Sommaruga, la nuova legge sulla caccia è un «buon compromesso». Grazie a questo progetto – ricorda – il numero di lupi potrà essere controllato, ma i branchi preservati. Sarà possibile ridurre i conflitti. I contadini dovranno proteggere i loro animali con recinti o
In Svizzera si contano oggi dieci branchi di lupi, di cui sette nei Grigioni e uno in Ticino (Val Morobbia). (Keystone)
cani, se vogliono percepire risarcimenti per le bestie uccise. Ora possono invece chiedere un risarcimento per gli animali uccisi da questi predatori, anche se non li hanno protetti. Dal 1995 al 2019, la Confederazione ha riconosciuto risarcimenti per circa 1,8 milioni di franchi. Infine, il progetto tiene conto dei vari interessi in gioco. Dà ai Cantoni uno strumento moderato per regolare la popolazione dei lupi e contribuisce alla coabitazione dell’uomo con il lupo. Per i fautori della revisione, essa offre anche una migliore protezione della natura e degli animali selvatici, preservando da costruzioni, strade e binari circa 300 vie di collegamento loro riservate. Permette alla Confederazione di sostenere i Cantoni nella valorizzazione degli spazi vitali. Circa 4 milioni di
franchi all’anno saranno accordati in favore delle riserve, delle zone protette e dei corridoi faunistici. Ma questa descrizione della nuova legge non è condivisa dalle organizzazioni di protezione dell’ambiente e degli animali, all’origine del referendum. A loro modo di vedere, la revisione è sbagliata e inaccettabile. Con il pretesto di regolare la presenza del lupo si vogliono inserire nell’elenco degli animali cacciabili altre specie protette. Perciò, la riforma – secondo gli oppositori – è estremamente inquietante: azzera la protezione delle specie minacciate al posto di rafforzarla. Essi sostengono che la revisione ha un solo obiettivo: facilitare ed estendere la regolazione alle specie protette, senza un valido motivo, tanto che il governo potrà comunque allungare la lista delle
specie da abbattere, quali lince, castoro, orso, airone, smergo maggiore, lontra e via dicendo. I Cantoni saranno liberi d’interpretare a loro modo la protezione delle specie. I fautori ripetono che la nuova legge è un buon compromesso e un valido strumento per gestire la fauna selvatica in modo sostenibile. Gli avversari non ci credono e dicono che è tutto un inganno, mettendo in dubbio la buona volontà del legislatore. In questa ennesima battaglia tra cacciatori e ambientalisti, l’elettore potrebbe anche – almeno stando ai sondaggi – privilegiare quest’ultimi e chiudere la porta al compromesso. In caso di no, resterebbe in vigore la legge del 1986 che nega ai Cantoni – come ricorda il Consiglio federale – la possibilità di gestire con lungimiranza la crescente presenza del lupo. Annuncio pubblicitario
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28.08.20 15:11
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il contributo dell’economia immobiliare L’economia di una nazione o di una regione può contare sul contributo di numerosi rami di produzione. Tanto numerosi sono gli stessi che gli statistici, quando si interessano all’importanza della produzione di una data economia, preferiscono raggrupparli in settori come il primario (agricoltura, foresticoltura, pesca e miniere), il secondario (industria, artigianato, edilizia) e il terziario, il settore dei servizi (servizi alla popolazione e alle imprese). Questo anche perché ogni analisi al livello aggregato dei settori costa meno che al livello dei singoli rami di produzione. Siccome però i dati sull’impiego, sul contributo al valore aggiunto dell’economia regionale e sulla produttività sono dati che interessano anche i rappresentanti dei singoli rami, se non addirittura dei singoli sotto-rami, non fosse altro che per rafforzare la loro posizione nelle
discussioni con le autorità o all’interno delle organizzazioni economiche alle quali appartengono, ecco che quando la statistica ufficiale non li mette a disposizione sono le organizzazioni di categoria che cominciano a produrli. Un esempio di questa casistica è rappresentato dalla nuova statistica sulle attività e l’importanza del ramo immobiliare, che l’Associazione svizzera dei proprietari di case e l’Ufficio federale per le abitazioni hanno di recente fatto preparare dalle ditte di consulenza e di ricerca pom+ e Rütter Soceco. Si tratta di un complesso di dati e stime che ora si possono consultare nel sito dell’Associazione sotto il titolo di «Atlante digitale dell’economia immobiliare della Svizzera». Vi troviamo informazioni concernenti aspetti importanti come il contributo al prodotto nazionale lordo, l’occupazione, la produttività,
l’evoluzione nel corso degli ultimi anni, come pure indicazioni sui fattori che possono influenzare l’evoluzione di queste variabili quali l’ampiezza delle zone edificabili, il mercato ipotecario, la consistenza del parco di abitazioni, le imposte, l’attività dell’edilizia, ecc. Questi dati sono disponibili, e questo è sicuramente uno dei grossi vantaggi della nuova banca digitale, sia per l’insieme della Svizzera che per i singoli Cantoni. Il periodo analizzato è praticamente quello degli anni dopo la crisi finanziaria. L’importanza dell’economia immobiliare varia da un Cantone all’altro. Per esempio, il suo contributo al Pil varia dal 14%, nel caso del Canton Zugo, al 23%, nel caso del Canton Glarona. In Ticino, il contributo al Pil è pari al 19% ed è leggermente superiore alla media nazionale che è del 17%. Anche la quota dell’economia immobiliare
nel totale dell’impiego è in Ticino, di nuovo un pochino più elevata che a livello nazionale (15% contro 14%). Per quel che riguarda la produttività, invece, la situazione si capovolge. In Ticino la produttività, per posto di lavoro è pari a 123’232 franchi, mentre la media nazionale è di 125’857 franchi. Grazie alla ricchezza in informazioni disponibili possiamo addirittura cercare di stabilire perché la produttività del ramo in Ticino sia leggermente inferiore a quella media nazionale. Ricordiamo dapprima che, nella statistica che stiamo presentando, l’economia immobiliare è formata da sette sotto-rami, vale a dire dagli uffici di architettura e di ingegneria, dall’edilizia, dalle attività finanziarie connesse, dalla gestione degli immobili e dai servizi di sicurezza, dalla produzione, dai servizi prodotti dagli enti pubblici e collegati all’atti-
vità edile e dall’amministrazione del patrimonio immobiliare. La produttività dei sotto-rami ticinesi è sempre inferiore ai valori medi svizzeri, fatta eccezione per l’edilizia che, in Ticino, ha una produttività pari a 112’874 franchi per posto di lavoro, mentre a livello nazionale raggiunge solo i 104’069 franchi. La differenza maggiore nei livelli di produttività dei sotto-rami si riscontra nel sotto-ramo dei servizi finanziari, quella minore nel sotto-ramo della produzione. La differenza complessiva nella produttività del ramo è da far risalire al grande gap che esiste nella produttività dei servizi finanziari del ramo immobiliare molto più produttivi a livello nazionale che in Ticino. A questo punto, visto come stanno le cose, potrebbero cominciare le domande alle quali l’atlante statistico dei proprietari di case non dà risposta.
trincerata in quel camuffamento e negazionismo che la serie tv Chernobyl ha di recente riportato alla memoria (e la scienziata che ha capito tutto è bielorussa). E quando la Germania ha scoperto che per avvelenare Navalny è stato utilizzato il Novichok – un agente nervino di produzione militare russa, non facile da reperire, non la produzione di un laboratorio qualsiasi – Mosca ha detto che i suoi esami tossicologici non avevano rivelato nulla di simile, e che anzi non c’era veleno, come a dire: è un complotto contro di noi. Ma quest’ultima intimidazione sulla pelle del leader dell’anticorruzione, il volto della lotta a Putin e al putinismo, ha scioccato il governo tedesco che già era in guerra diplomatica russa per via dell’omicidio di un cittadino ceceno in un parco di Berlino per mano – dicono gli inquirenti – di un sicario russo. A giugno la Merkel (foto), dopo aver espulso due funzionari dell’ambasciata russa, aveva parlato di nuove sanzioni possibili contro una Russia già sotto sanzioni per l’Ucraina e l’annessione della Crimea. Poi la questione si era
persa di fronte alle tante altre incombenze da pandemia, ma ora è tornata urgente: ci vuole un’azione coordinata dell’Ue e anche della Nato, che è lo spettro contro cui combatte la Russia (e anche Lukashenko che ripete che l’alleanza vuole prendersi la Bielorussia). Il rapporto con Mosca e Putin si intreccia con tutte le variabili geopolitiche che possono venirvi in mente, in particolare la rielezione di Donald Trump in America, il presidente più esposto sulla questione russa. Trump pensa – proprio come Putin – che il mondo sia ossessionato dalla Russia e che questa ostilità bisognerebbe piuttosto rivolgerla verso la Cina. Soprattutto, Trump ha lavorato contro la Nato e i suoi membri scrocconi e in particolare contro la Germania, con l’ultimo dislocamento di truppe voluto contro il parere di tutti i militari. Cosa riuscirà a fare l’Europa in sede comunitaria e all’interno della Nato verso la Russia segnerà non soltanto i rapporti con Putin ma anche l’ambizione da superpotenza del continente. E no, senza America nulla è facile.
residenti, oltre che dei turisti ospiti da noi. La seconda ha invece favorito la riscoperta di nuovi e inaspettati equilibri: «fra cuore e cervello», come ha ben evidenziato Fabrizio Quadranti parlando del romanzo di Andina sulla rivista «Gas». A estate conclusa è incontestabile che le valli – complice non tanto la generale «morìa» di eventi nei centri, ma soprattutto il prolungato e costante riavvicinamento alla vita semplice, ai silenzi, al pensare lento – si sono rivelate fonti di salvezza anche per combattere l’asfissia del turismo. Inutile chiedersi se questo trend potrà garantire futuri sviluppi oppure se si rivelerà solo una sorta di by-pass temporaneo, perché la valorizzazione e le scelte di un futuro per le valli dipenderanno da centri di potere e da cittadini poco propensi a reinventarsi. Questo fa temere che anche i flussi nuovi del turismo tornino a scorrere nell’alveo di un consumismo che «è sempre più problema e sempre meno
soluzione». Sto citando un poeta, Giovanni Lindo Ferretti, da anni impegnato a evitare che gli abitanti delle valli dei suoi Appennini diventino guardiani del paesaggio o figuranti di presepi, «mestieri di un’età che ha rigettato agricoltura e allevamento e si trova a dover accalappiare e foraggiare turisti». V’è da sperare che gli indirizzi futuri del turismo incontrino lo stesso «miracolo» che Fabio Andina ha confessato allo «Spiegel»: «Mi ero ripromesso di scrivere un romanzo duro ed estremamente asciutto sulla condizione del mondo. Ma il calore e la delicatezza di Felice hanno fatto in modo che alla fine sia stato pubblicato un libro del tutto diverso e più dolce». Dimenticavo: l’incontro con gli amabili cugini lucernesi, combinato per riavvolgere il vissuto di mesi di lontananza e dare certezze a episodi e emozioni captati durante la pandemia, è avvenuto a Sagno, durante un ritorno in valle.
Affari Esteri di Paola Peduzzi L’Ue? Senza l’America nulla è facile
AFP
Le intimidazioni non serviranno a nulla, ha detto Sviatlana Tsikhanouskaya, sfidante del regime di Minsk, al Parlamento europeo, la Bielorussia si è svegliata, la sua rivoluzione pacifica vuole restaurare i valori della democrazia e del dialogo che fanno parte della sua cultura europea. Le intimidazioni non serviranno a nulla, ha detto
Angela Merkel, cancelliera tedesca, denunciando l’avvelenamento con il Novichok dell’oppositore al regime di Mosca Alexei Navalny, questo è un crimine contro i valori fondamentali che noi difendiamo. Il mese di agosto ha segnato un’altra svolta dei rapporti tra l’Europa e la Russia e del ruolo che l’Europa può avere nel mondo nel difendere i valori occidentali. La rivolta in Bielorussia contro il regime di Lukashenko ha mostrato ancora una volta la forza del risveglio democratico, improvviso, potente come solo le lotte per la sopravvivenza sanno essere. L’Unione europea si muove cauta: il precedente ucraino è lì come un monito, con la sua guerra permanente e logorante a dimostrare che l’attrazione europea ha bisogno di sostegni concreti se vuole battere le intimidazioni. La cautela non è quasi mai bella da vedere, si trasforma quasi subito in disattenzione, o peggio disinteresse. Ma la stessa opposizione bielorussa chiede questa cautela, tiene le bandiere europee nell’armadio perché sono rischiose, possono sembrare
un drappo rosso buono per una corrida con la Russia destinata a fare male. Il gioco di sguardi resta l’unica alternativa, mentre la piazza bielorussa prova a farcela da sola, con le sue donne vestite di bianco che fanno rotolare zucche davanti ai palazzi del regime – il simbolo, nella tradizione, dell’abbandono di fidanzati noiosi – e che sconfiggono con le loro file per abbracciare i poliziotti il padre-padrone che continua a mostrarsi imbracciando il mitra. La piazza bielorussa combatte le intimidazioni così, con la sua non violenza ostentata: non diventeremo come voi scagnozzi del regime. Mosca guarda e dispone, invade i media per alimentare la propaganda, nasconde le donne e gli studenti e gli operai con le tute perché ne riconosce la forza rivoluzionaria. Non si sa quanto Putin tenga a Lukashenko, di certo tiene al feudo bielorusso e tutto farà per non farlo cadere in mano dell’Europa. Perché la sfida è tutta qui, non cedere all’Europa. È il motivo per cui Mosca ha cercato di evitare il trasferimento di Navalny in Germania fin all’ultimo,
Zig-Zag di Ovidio Biffi Valli per il futuro e futuro per le valli Ritorno alle valli e a bellezze trascurate, riscoperta di emozioni e ritmi nuovi ritenuti superflui o dimenticati: è il trend che sta spingendo il nostro settore turistico verso un futuro diverso. Stranamente però è lo stesso che da alcuni mesi alimenta anche un intrigante fenomeno letterario. Il mio è un raffronto solo abbozzato, forse anche azzardato. Mi è venuto in mente quando cugini in visita in Ticino mi dicono il titolo tedesco del romanzo di uno scrittore ticinese, letto in questi mesi di clausura. Quando i miei «mi spiace, non lo conosco» stanno rasentando l’imbarazzo, un nome (Felice) presente nel titolo del romanzo tradotto in tedesco mi riporta prima a un bel documentario visto alla TSI, poi a recensioni di colleghi che sui media ticinesi consigliavano la lettura del libro. Tra questi ricordo Natascha Fioretti che in febbraio su «Illustrazione Ticinese» ha scritto: «Se avete voglia di un libro che vi ricordi i ritmi lenti e umani della
vita quotidiana, vi racconti di luoghi, paesi e monti ticinesi, un libro di sentimenti ed emozioni delicate, profondo nello sguardo e schietto nella lingua perché è quella parlata, allora La pozza del Felice (Rubettino) di Fabio Andina fa al caso vostro». Inviti sempre disattesi e di conseguenza arrivo a parlare del romanzo solo adesso, vale a dire dopo che la traduzione ne ha decretato negli ultimi mesi un forte interesse e maggior successo nella Svizzera tedesca e in Germania: sulla rivista «Der Spiegel» in un lungo servizio (con visita e intervista allo scrittore a Leontica, sua seconda dimora) si legge che «lo scrittore Andina (…) è riuscito a scrivere un romanzo meraviglioso», e che il libro è subito andato esaurito nelle librerie tedesche. Giusto quindi fare ammenda e arrivare a pensare che libro e autore meritino una più diffusa accoglienza anche da noi. Chi vorrà approfittarne (e ci sarò anch’io), oltre a cercare il romanzo in libreria potrà
scrutare su fabioandina.com le date di un intenso giro di incontri autunnali che lo scrittore malcantonese ha in programma partendo da Altomonte in Calabria, toccando poi Zugo, Berna, Zurigo e persino l’Austria. Intercalate ci sono comunque anche serate a Curio e Stabio: il 19 settembre e il 7 ottobre. Dicevo all’inizio che è strano trovare i contenuti che stanno decretando il successo di Fabio Andina anche alla base della tenuta del nostro turismo. È un po’ come se il flusso a cui l’autore ha affidato la trama del suo romanzo dopo qualche anno abbia consentito di acquistare velocità e di ritrovare una rotta anche alla navicella del turismo ticinese. A muovere queste correnti ci sono due spinte: il «ritorno in valle» e il «ritorno all’antica». La prima, riconducibile a visite, soggiorni, escursioni, circoscritti alla Svizzera italiana o al massimo in cantoni o regioni confinanti, ha caratterizzato il diverso modo di fare vacanza di moltissimi
Foto: Fabian Biasio
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Sicurezza dei mezzi di sussistenza per le famiglie contadine La povertà è particolarmente elevata nella regione ugandese di Teso, dove l’84 per cento della popolazione è povera. È una conseguenza della guerra civile. La situazione è ulteriormente aggravata dal cambiamento climatico, dalla crisi da coronavirus e dalle ricorrenti invasioni di cavallette. Sono stati scelti 1600 contadini per partecipare a un progetto svolto da Caritas Svizzera insieme all’organizzazione locale «Teso Initiative for Peace». Imparano che la doppia aratura prepara meglio il terreno e che la coltivazione a colture miste è più rispettosa del suolo. I contadini ricevono sementi adattate al clima che generano raccolti più sostanziosi e quindi contribuiscono alla sicurezza alimentare.
Allevare polli ha aiutato Lilian e Augustine a superare periodi di carestia.
«I polli ci hanno migliorato la vita» L’Uganda è uno dei Paesi più poveri al mondo. Solo pochi anni fa, Lilian Ariokot (25 anni) e suo marito Augustine Ejiet (31 anni) soffrivano la fame. Ora si sono costruiti un’esistenza migliore lavorando duro. Grazie all’allevamento di polli e alla vendita, i loro due figli possono andare a scuola. Lilian non è nata facendo la contadina. Suo padre era insegnante e voleva offrire anche alla figlia una buona formazione. Ma la guerra civile che ha flagellato l’Uganda ha distrutto molte speranze e ha fatto scivolare
nella povertà anche la famiglia di Lilian. All’età di 17 anni ha conosciuto Augustine. I due si sono sposati e con coraggio si sono presi la fattoria abbandonata dopo l’uccisione del padre di Augustine per mano dei ribelli.
«All’inizio non sapevamo quasi niente di agricoltura. Lavoravamo tanto, ma i raccolti erano scarsi. Molte volte andavamo a letto senza aver mangiato» racconta Augustine. Non è quindi scontato che la coppia oggi possa mandare a scuola i due figli Matthew (8 anni) e Gerald (5 anni). È possibile grazie a un progetto agricolo di Caritas Svizzera al quale i genitori partecipano da un anno e mezzo. «Abbiamo imparato molte cose su come migliorare e diversificare la coltivazione dei campi. Ma la cosa più importante sono i polli» dice Lilian. Augustine ha seguito una formazione ed è diventato incaricato per le vaccinazioni. «Prima i polli morivano a causa delle malattie. Da quando li vacciniamo restano sani. Ora il loro numero aumenta e possiamo vendere i polli al mercato a buon prezzo» racconta Augustine. «Adesso stiamo meglio. Abbiamo da mangiare a sufficienza, possiamo pagare le rette scolastiche e persino mettere da parte un po’ di soldi» aggiunge Lilian soddisfatta. Per saperne di più su Lilian: caritas.ch/uganda-i
Raccolti più sostanziosi con nuove tecniche di coltivazione: Augustine e Lilian seminano arachidi.
Caritas sostiene inoltre le famiglie contadine a creare allevamenti di pollame, promuovendo anche il pensiero imprenditoriale e la costituzione di cooperative per una distribuzione comune.
Le famiglie di contadini imparano a contrastare l’insorgere di malattie con le vaccinazioni.
Conto donazioni: 60-7000-4 Per le donazioni online: caritas.ch/uganda-i
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Cultura e Spettacoli La febbre di Bazzi Il racconto autobiografico del giovane Jonathan Bazzi è arrivato in finale allo Strega
In onore dei Celti Un’importante mostra al Laténium di Neuchâtel celebra un popolo grandioso e al contempo misterioso pagina 35
Storie americane Su Netflix una serie sulle vicende della mafia a NY; al cinema TeneT di Nolan pagina 39
Ridere e pensare Arriva a Paradiso Clown Syndrom, uno spettacolo che annulla le diversità
pagina 40
pagina 34
Scegliere sempre la vita Testimonianze La lezione di Liliana Segre
ai ragazzi delle scuole ticinesi
Pietro Montorfani «Considerato che Hitler mi voleva uccidere e che io invece sono addirittura diventata mamma e poi nonna, mi sembra che alla fine ho vinto io». Senza timore di parere eccessivi, si potrebbe affermare che dopo l’epoca di Primo Levi c’è stata un’epoca di Liliana Segre. Non per la portata della sua opera, che è naturalmente incomparabile con quella del più celebre chimico-scrittore, ma per l’efficacia e la peculiarità della sua testimonianza. La voce di Liliana Segre, il suo stile sobrio, delicato eppure molto fermo, rigorosissimo nel richiamo alla responsabilità individuale di ciascuno, era esattamente ciò di cui questa stagione incerta e un po’ infantile aveva bisogno. Al chiudersi di un trentennio di conferenze e incontri nelle scuole (compirà novant’anni il prossimo 10 settembre) è un bene che le Edizioni Casagrande abbiano avuto l’idea di raccogliere in volume le tracce del suo recente passaggio nella Svizzera italiana. Invitata all’USI dalla Goren Monti Ferrari Foundation il 3 dicembre 2018, Liliana Segre vi ha incontrato alcune centinaia di giovani studenti ticinesi, intervenendo per la prima volta ufficialmente in quella terra che l’aveva respinta tredicenne alla dogana di Arzo, assieme al padre e a due anziani cugini. Le conseguenze dirette di quella mancata concessione dell’asilo, favorita dall’agire miope e volgare di un responsabile delle guardie di confine, furono l’immediato arresto in Italia, l’incarceramento a Como, Varese e San Vittore («Perché? Perché una persona che non ha fatto niente di male, che è solo colpevole di essere nata, entra in un carcere?») e infine il viaggio verso Auschwitz sui vagoni della morte partiti dal Binario 21, là dove la stessa Segre ha promosso nel 2013 l’istituzione del Me-
moriale della Shoah, sotto la Stazione Centrale di Milano. Alla richiesta di perdono del Consigliere di Stato Manuele Bertoli, responsabile cantonale della pubblica educazione, ha fatto seguito un vivace dibattito sui media ticinesi, un prezioso momento di autocritica in cui è emersa però, in parte dell’opinione pubblica, anche una sottile resistenza ad affrontare con coraggio questi temi. Dopo lo scandalo dei beni ebraici rimasti silenti nelle banche svizzere e il successivo dibattito attorno ai risultati (discutibili) del Rapporto Bergier, erano in molti a considerare finalmente concluso quel triste capitolo della nostra storia. La visita di Liliana Segre ha riaperto una ferita, costringendoci a uno sguardo retrospettivo senza sconti, con conseguenze che si proiettano anche sull’interpretazione del nostro presente. La sua condanna dell’indifferenza in ogni forma – tacere, nascondersi, guardare di lato − è infatti una provocazione che tocca tutti, nessuno escluso, perché l’opzione in favore del bene e della giustizia è una scelta che va costantemente rinnovata nella quotidianità, non un patrimonio morale ereditato in blocco una volta e per sempre (dal passato, dalle circostanze, dalla convinzione di essere diversi e migliori). Pur essendo una vittima, e soltanto più fortunata di altre, con grande sensibilità pedagogica nei suoi incontri con i giovani ha sempre voluto spostare l’attenzione sui carnefici, cioè su tutti i responsabili diretti o indiretti del terribile destino che si è trovata ad affrontare. Implacabile nella sua fermezza, Liliana Segre ha avuto il coraggio di puntare il dito non soltanto contro i gerarchi nazisti o i kapò dei campi di sterminio, ma anche contro i moltissimi collaboratori italiani, francesi, ungheresi, contro i soldati svizzeri e le donne di Arzo che finsero di non vederla la mattina del
Liliana Segre in occasione della sua visita a Lugano, dicembre 2018. (CdT - Reguzzi)
suo arrivo, o ancora contro le compagne di scuola non ebree ai cui occhi era diventata invisibile subito dopo l’applicazione delle leggi razziali (e a se stessa non perdona, tra le altre cose, di non essersi voltata per salutare l’ultima volta una compagna di prigionia condannata a morte). Insomma tutti i protagonisti di un film che potrebbe intitolarsi Indifferenza − è la parola da lei scelta per il Memoriale di Milano − e che ciclicamente si ripropone non appena abbassiamo la guardia dell’attenzione nei confronti dell’altro, ogni qual volta decidiamo di non «scegliere sempre la vita» in favore di comodità ed egoismo. Rispetto al suo libro maggiore, La memoria rende liberi, pubblicato nel 2015 in collaborazione con Enrico Mentana, il volume proposto da Casagrande ha il merito di concentrare in poche pagine, frutto di un esercizio continuo di affinamento e cristalliz-
zazione, l’intera parabola della sua drammatica esperienza: saltano alcuni dettagli ma le tappe principali ci sono tutte, al punto che è davvero semplice, nel corso della lettura, sovrapporre al volto della donna anziana quello della ragazzina ingenua e spaurita. Ciò che non finisce di soprendere è come queste due identità così apparentemente lontane possano continuare a coesistere in una persona che non ha abbandonato la speranza di poter cambiare gli altri con la forza pacata delle proprie parole. La lezione luganese è introdotta da un’orazione civile di Giulio Cavalli modulata su toni politici non proprio in linea con lo stile di Liliana Segre (il consiglio sarebbe semmai di leggerla dopo, o di saltarla del tutto) ed è chiusa dalla trascrizione dell’intervista curata da Bruno Boccaletti per la Radiotelevisione svizzera RSI, in cui la senatrice ritorna con ancor maggiore chiarezza su
alcuni temi cruciali: «Io sono ligia alle leggi [...] non sono una vecchia pazza che va per il mondo predicando violenza e sono molto attenta ai miei doveri di cittadina, però sono anche convinta che qualche volta ci può essere un ordine a cui bisogna disobbedire per salvare vite umane». Il grande rispetto per la Costituzione italiana e per le premesse culturali che hanno portato alla sua stesura ferma Liliana Segre ben al di qua della disobbedienza civile, non senza additare una via (libera e alternativa) che ciascuno è chiamato a percorrere con il proprio bagaglio di essere umano, fratello di tanti altri al pari di lui. Bibliografia
Liliana Segre, Scegliete sempre la vita. La mia storia raccontata ai ragazzi. Prefazione di Giulio Cavalli, Edizioni Casagrande, 2020.
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Idee e acquisti per la settimana
Solo per breve tempo! L’agnello d’alpe è disponibile dal 15.9 fino a metà ottobre nelle maggiori filiali Migros
Fresco dal banco: Stefan Früh si rallegra di preparare la carne per la clientela (s.).
Il capo macellaio Stefan Früh consiglia con competenza la clientela nella scelta della migliore carne.
Tradizione: la salita all’alpe degli agnelli (d.)
È tornato l’agnello d’alpe Da settembre a metà ottobre presso i banchi carne Migros trovate l’agnello d’alpe fresco di TerraSuisse, con tanto di consigli di preparazione. Ciò avviene anche alla Migros Parkside di Rüschlikon ZH, dove il capo macellaio Stefan Früh è sempre pronto a servire la clientela
Consigli e servizi dal macellaio Stefan Früh consiglia non solo di assaggiare arrosti o brasati di delicata carne di agnello d’alpe svizzero. Le costolette e gli hamburger sono per esempio facili e veloci da preparare sia in padella che sulla griglia. Oltre a consigli sulla preparazione, la clientela può anche usufruire di un servizio versatile presso i banchi della carne: per una maggiore conservabilità la carne viene posta sottovuoto. Oppure, su richiesta, la carne viene marinata e l’arrosto arrotolato e lardellato.
Testo Claudia Schmidt Foto Paolo Dutto
«U
n prodotto indigeno straordinario. Particolarmente sostenibile – tuteliamo la nostra agricoltura e proteggiamo le nostre alpi – e parte della nostra cultura». Stefan Früh, capo macellaio presso la Migros Parkside di Rüschlikon, si entusiasma quando parla di agnello d’alpe. Lui e i suoi colleghi del banco della carne si rallegrano quando ritorna la stagione. Spesso viene chiesto a Stefan Früh da dove proviene la carne. «È bello poter nuovamente offrire ai nostri clienti dell’agnello d’alpe sviz-
zero», commenta l’appassionato cuoco di formazione. Al reparto carne si trovano per esempio il gigot e l’arrosto spalla di agnello. Che vantaggio c’è ad acquistare del gigot? «È molto gustoso e rimane particolarmente succoso. Inoltre cuoce in modo uniforme», precisa il professionista della carne. Qual è la differenza rispetto all’arrosto di spalla, disponibile anch’esso, di agnello d’alpe? L’arrosto spalla è più marezzato, leggermente grasso, ma anche più succoso. Il metodo di preparazione è lo stesso del gigot.
I consigli professionali sono gratis
Stefan Früh fornisce naturalmente anche consigli sulla preparazione. «Un gigot da un chilo e mezzo necessita di ca. due ore di cottura in forno. Iniziare a 220 gradi, poi abbassare a 170-180 gradi. È un valore di riferimento – essendo un prodotto naturale, dipende sempre dal peso». Con l’agnello d’alpe, secondo Sfefan Früh, si sposano bene erbe aromatiche quali rosmarino, timo e naturalmente aglio. «Il timo cresce anch’esso nelle alpi. Spesso i prodotti che crescono insieme si abbinano bene tra loro». MM
Foto Paolo Dutto (Portrait), Stephan Bösch (Paesaggio)
*Nelle maggiori filiali dal 15.9
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TerraSuisse Costolette d’agnello d’alpe al banco, per 100 g* al prezzo del giorno
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Progetto agnello d’alpe Con il progetto Migros «Agnello d’alpe» Micarna, IP-Suisse e la Federazione svizzera d’allevamento ovino lavorano in stretta collaborazione. Durante l’estate gli agnelli (e naturalmente anche i genitori) si nutrono di aromatiche erbe alpine a volontà. L’allevamento naturale e adeguato alla specie contribuisce all’elevata qualità della carne. L’allevamento sugli alpi è controllato da IP-Suisse. Ogni agnello d’alpe porta un marchio all’orecchio che permette di risalire all’alpeggio e per quanto tempo vi è rimasto durante l’estate. L’allevamento di agnelli d’alpe sottostà all’Ordinanza sulle designazioni «montagna» e «alpe» del Consiglio Federale (ODMA) e contribuisce a preservare una gestione naturale e attenta degli alpi.
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Idee e acquisti per la settimana
Solo per breve tempo! L’agnello d’alpe è disponibile dal 15.9 fino a metà ottobre nelle maggiori filiali Migros
Fresco dal banco: Stefan Früh si rallegra di preparare la carne per la clientela (s.).
Il capo macellaio Stefan Früh consiglia con competenza la clientela nella scelta della migliore carne.
Tradizione: la salita all’alpe degli agnelli (d.)
È tornato l’agnello d’alpe Da settembre a metà ottobre presso i banchi carne Migros trovate l’agnello d’alpe fresco di TerraSuisse, con tanto di consigli di preparazione. Ciò avviene anche alla Migros Parkside di Rüschlikon ZH, dove il capo macellaio Stefan Früh è sempre pronto a servire la clientela
Consigli e servizi dal macellaio Stefan Früh consiglia non solo di assaggiare arrosti o brasati di delicata carne di agnello d’alpe svizzero. Le costolette e gli hamburger sono per esempio facili e veloci da preparare sia in padella che sulla griglia. Oltre a consigli sulla preparazione, la clientela può anche usufruire di un servizio versatile presso i banchi della carne: per una maggiore conservabilità la carne viene posta sottovuoto. Oppure, su richiesta, la carne viene marinata e l’arrosto arrotolato e lardellato.
Testo Claudia Schmidt Foto Paolo Dutto
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n prodotto indigeno straordinario. Particolarmente sostenibile – tuteliamo la nostra agricoltura e proteggiamo le nostre alpi – e parte della nostra cultura». Stefan Früh, capo macellaio presso la Migros Parkside di Rüschlikon, si entusiasma quando parla di agnello d’alpe. Lui e i suoi colleghi del banco della carne si rallegrano quando ritorna la stagione. Spesso viene chiesto a Stefan Früh da dove proviene la carne. «È bello poter nuovamente offrire ai nostri clienti dell’agnello d’alpe sviz-
zero», commenta l’appassionato cuoco di formazione. Al reparto carne si trovano per esempio il gigot e l’arrosto spalla di agnello. Che vantaggio c’è ad acquistare del gigot? «È molto gustoso e rimane particolarmente succoso. Inoltre cuoce in modo uniforme», precisa il professionista della carne. Qual è la differenza rispetto all’arrosto di spalla, disponibile anch’esso, di agnello d’alpe? L’arrosto spalla è più marezzato, leggermente grasso, ma anche più succoso. Il metodo di preparazione è lo stesso del gigot.
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Stefan Früh fornisce naturalmente anche consigli sulla preparazione. «Un gigot da un chilo e mezzo necessita di ca. due ore di cottura in forno. Iniziare a 220 gradi, poi abbassare a 170-180 gradi. È un valore di riferimento – essendo un prodotto naturale, dipende sempre dal peso». Con l’agnello d’alpe, secondo Sfefan Früh, si sposano bene erbe aromatiche quali rosmarino, timo e naturalmente aglio. «Il timo cresce anch’esso nelle alpi. Spesso i prodotti che crescono insieme si abbinano bene tra loro». MM
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Progetto agnello d’alpe Con il progetto Migros «Agnello d’alpe» Micarna, IP-Suisse e la Federazione svizzera d’allevamento ovino lavorano in stretta collaborazione. Durante l’estate gli agnelli (e naturalmente anche i genitori) si nutrono di aromatiche erbe alpine a volontà. L’allevamento naturale e adeguato alla specie contribuisce all’elevata qualità della carne. L’allevamento sugli alpi è controllato da IP-Suisse. Ogni agnello d’alpe porta un marchio all’orecchio che permette di risalire all’alpeggio e per quanto tempo vi è rimasto durante l’estate. L’allevamento di agnelli d’alpe sottostà all’Ordinanza sulle designazioni «montagna» e «alpe» del Consiglio Federale (ODMA) e contribuisce a preservare una gestione naturale e attenta degli alpi.
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Cultura e Spettacoli
L’io svelato
Editoria Tra i finalisti del Premio Strega quest’anno c’era anche Febbre, libro autobiografico
di Jonathan Bazzi che tocca il tema della sieropositività
Laura Marzi In questo 2020 così tragico e anomalo alcuni pilastri hanno resistito: i picnic al mare a Ferragosto, le ferie estive e il Premio Strega, assegnato a Sandro Veronesi col suo romanzo Il Colibrì. Il più importante riconoscimento letterario italiano però non è rimasto indenne dall’eccezionalità dei tempi e ha visto in finale al posto della consueta cinquina, una sestina. Sono stati infatti sei i finalisti che hanno raggiunto la fase decisiva della competizione. La ragione di questa «stranezza» è scritta nel regolamento: nel caso in cui i cinque romanzi finalisti siano tutti pubblicati da case editrici medio-grandi, arriva in finale il primo romanzo escluso edito però da una casa editrice più piccola. Per questo, nella inusuale sestina è approdato il romanzo di esordio di Jonathan Bazzi, per Fandango Edizioni, dal titolo Febbre. Si tratta di un testo del tutto autobiografico: le prime pagine raccontano della febbre che affligge Jonathan per settimane, spossandolo e rendendogli impossibile fare qualsiasi cosa. I controlli in poco tempo gli restituiscono una diagnosi di sieropositività. Jonathan non reagisce disperandosi, segue il protocollo che prevede un tempo e delle analisi specifiche per comprendere quale tipo di terapia sia idonea per lui. Attende che le medicine comincino a fare effetto, ma non succede. Il suo malessere, l’incapacità di uscire dal letto o di alzarsi dal divano persistono.
È molto interessante in questa sezione del romanzo leggere di come Jonathan abbia pensato a lungo che la diagnosi dell’HIV non fosse corretta e soprattutto non fosse sufficiente. Il suo malessere peggiora: ci deve essere qualcos’altro che i medici non cercano, solo perché si sono convinti di avere già trovato la vera causa. Jonathan scoprirà dopo essersi sottoposto a tutti i controlli possibili che a essere annidato nel suo corpo non era né un tumore al cervello né la SLA, ma un terrore sacrosanto e profondo. Dal momento in cui accetta di seguire la terapia psichiatrica le cose iniziano a migliorare, comincia tutto con dei biscotti agli anacardi che Benedetta Parodi prepara in TV e che Jonathan vuole replicare. Esce a fare la spesa, dispone gli ingredienti sul ripiano della cucina e, per la prima volta dopo mesi, fa. Poi arriva un’offerta importante: la possibilità di lavorare a una rivista online, di guadagnarsi da vivere scrivendo. All’inizio domina l’incertezza di non avere la forza di uscire di casa tutte le mattine per andare in redazione, ma le cose cambiano. Il punto di vista di Bazzi sulla sieropositività è molto interessante non solo perché scrive a partire dalla sua esperienza personale, ma perché nella sua scelta di condividere la sua storia, la sua intimità, la condizione inalienabile di persona malata, c’è una visione. La malattia costituisce una parte dell’identità ed è come se Bazzi si dicesse che
Jonathan Bazzi è nato a Milano nel 1985.
nella ricerca spasmodica di essere qualcosa o qualcuno, negare e nascondere un dato incontrovertibile come quello della sieropositività sarebbe incomprensibile e ingiusto. Lo svelamento, del resto, costituisce la cifra fondamentale di questo testo. Il romanzo non si esaurisce nel rac-
conto della scoperta della malattia e del tempo successivo ad essa: alla narrazione di questo passato più recente si affianca quella di una vita intera. Incontriamo Jonathan bambino una notte in cui cercano di scassinare la loro casa e sua madre chiama aiuto. È l’unico ricordo che ha del tempo in cui i genitori
sono stati insieme, quello di un pericolo imminente. Si tratta di un sentimento che lo perseguiterà: vivendo a casa di nonna Lidia a generare angoscia sarà la figura del nonno e poi una volta tornato a stare con la madre, ci penserà Alex, il nuovo compagno di Tina, a esercitare questo ruolo. Il pericolo col passare degli anni diventano le prese in giro dei compagni, il silenzio assordante di quando viene interrogato in classe, ma non riesce a rispondere, bloccato dalla balbuzie. Il personaggio di Jonathan non soccombe alla sofferenza e impara, molto grazie allo yoga, a fronteggiare le difficoltà e le paure. Per quanto riguarda l’autore Jonathan Bazzi, stupisce la sua abilità analitica, lo scandaglio che fa della sua stessa vita, la capacità di costruire delle figure letterarie vive e complesse: non è affatto scontato che una persona diventi un personaggio, bisogna saperlo far accadere. La sfida per Bazzi, come per tutti gli esordienti che iniziano la loro carriera letteraria con un testo del tutto autobiografico, è il passaggio successivo: l’invenzione di una storia. Dalla sua, a sostenerlo, l’abilità nella scrittura e la maledizione di un destino avventuroso. Bibliografia
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Cultura e Spettacoli
I celti sono tornati a casa
Mostra Al Laténium di Neuchâtel le vicende storiche di un affascinante insieme di popoli
Marco Horat Il mondo dei Celti è una nebulosa nella quale si sono mossi, grosso modo nella seconda metà del I millennio a.C. a nord della catena alpina tra penisola iberica e bacino del Danubio, popolazioni diverse: dalle tribù riconducibili ai Galli tra le quali quella degli Elvezi e dei Reti, ai Britanni, ai Galati, ai Celtiberi e altri ancora; organizzati in regni diversi ma accomunati da una koiné che comprendeva lingua parlata ed espressioni artistiche. Negli ultimi secoli dell’Età del ferro si trovarono schiacciati tra Roma e i Germani che alla fine, malgrado qualche episodio controcorrente come il sacco di Roma a opera di Brenno nel IV secolo, li cancellarono dalla geografia del mondo attraverso azioni militari e una politica culturale di assimilazione. Popoli che conosciamo quindi attraverso gli occhi dei conquistatori romani (chi ha studiato latino avrà letto qualcosa del De bello gallico di Cesare) poiché i Celti non usavano la scrittura e quindi non possiamo far capo a fonti autoctone e a documenti diretti. Venivano descritti come valenti guerrieri ma anche provetti agricoltori, buoni parlatori e artigiani abilissimi nella lavorazione del ferro per la creazione di armi, suppellettili e gioielli. Quello che l’archeologia ci ha tramandato sono infatti manufatti artistici di grande qualità che ora vengono esposti al Laténium di Hauterive presso Neuchâtel, provenienti da collezioni europee soprattutto tedesche e svizzere: quella del Museo archeologico di Monaco che conser-
va i reperti venuti alla luce nello scavo dell’oppidum di Mansching il più ricco di sepolture, di depositi e abitazioni mai trovato; e naturalmente dal sito di La Tène, proprio adiacente al Laténium, che nel V secolo era uno dei centri più importanti, in tempi moderni ampiamente indagato e studiato, e che ha anche dato il nome alla cultura detta appunto di La Tène. Il percorso della mostra, curata da Marc Antoine Kaeser in collaborazione con altre istituzioni francesi, spagnole, austriache e tedesche che si propongono l’approfondimento di temi legati all’Età del ferro (I millennio a.C.), riunite sotto il cappello denominato «Iron Age Europe», è cronologico e vuole seguire fin dalle origini, cioè dalla fine dell’Età del bronzo, la nascita e lo sviluppo del mondo immaginifico trasmesso dalle rappresentazioni artistiche che esprimono una cultura comune ai vari popoli, e illustrano le reciproche influenze dovute ai contatti con il mondo mediterraneo: greci, romani, etruschi, fenici. Uno stile essenziale che tende all’astrazione, come si può vedere paragonando la rappresentazione di un cinghiale celtico in bronzo dalle forme schematizzate con quello romano invece descrittivo al limite dell’iperrealismo. Non quindi di barbari primitivi si tratta, ma di popoli che praticavano tecniche sviluppate, avevano un sistema economico e sociale elaborato e relazioni commerciali col mondo mediterraneo e oltre. Un ampio universo da scoprire ammirando gli oggetti esposti nelle
Figurina di maiale in bronzo con cresta argentata (II sec. a.C.), sud-est delle Alpi. (Museo archeologico di Monaco)
tradizionali vetrine, ma anche seguendo i testi essenziali che sulle pareti del museo contestualizzano i reperti, come pure soffermandosi nelle postazioni audiovisive in francese e inglese. A differenza di altre culture, il mondo celtico viene raccontato non solo da oggetti di prestigio riservati alle classi dominanti, ma anche da oggetti di uso corrente. «Queste armi, i gioielli, le monete, il vasellame, la ceramica e gli utensili – fa notare Marc Antoine Kaeser – rivelano un immaginario popolato da figu-
re e da motivi che si riferiscono a miti, racconti eroici e leggende popolari dei quali purtroppo abbiamo perso la memoria»; come detto a causa della mancanza di scrittura. Così, fortunatamente, non è successo con i racconti omerici! Ma qualcosa del loro mondo riusciamo a ricostruire grazie all’archeologia e agli oggetti che sono in qualche modo la materializzazione del mondo celtico e della sua organizzazione sociale e culturale sempre in mutamento. Chiude il percorso espositivo la spet-
tacolare vetrina con alcuni bracciali in oro, di proprietà del Landesmuseum di Zurigo, che fanno parte del famoso Tesoro di Erstfeld, scoperto nel 1962 e che ha fatto tappa anche al Museo d’arte di Lugano alcuni anni or sono. Dove e quando
Celtes – Un millénaire d’images, Neuchâtel, Laténium. Orari: ma-do 10.0017.00; lu chiuso. Fino al 10 gennaio 2021. latenium.ch Annuncio pubblicitario
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tempo elimina il 99,9 percento di batteri. «Inoltre è particolarmente facile da utilizzare: basta aggiungere un po’ di gel al detersivo e in seguito lavare i capi come di consueto». Patrick è soddisfatto d’aver trovato un prodotto che elimina spiacevoli residui: nessuno sporco, nessun cattivo odore e al contempo una protezione ottimale dal calcare per la lavatrice! Una volta al mese effettua un lavaggio a vuo-
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Settembre
13, domenica – Brunch in vetta Compromesso gastronomico tra una colazione dolce e salata 13, domenica – Performance emozionali con flauti in pietra Tra acqua e cielo nel Fiore di pietra 18, venerdì sera – AperiBio Ticinese con Bisbino e Sambì Aperitivo per degustare le bevande naturali del territorio 19, sabato sera – A cena con Marisa Clericetti Riscopriamo il pollo dai sapori antichi 20, domenica – Brunch in vetta Il compromesso gastronomico tra una colazione dolce e salata 25, venerdì sera – Degustazione con Gialdi Vini Aperitivo per degustare i vini del territorio 26, sabato sera – Raclette a volontà Antipasto, Raclette e Dessert
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Ottobre
2, venerdì sera – Oktoberfest L’atmosfera della più grande festa popolare del mondo 3, sabato sera – A cena con Marisa Clericetti Assaporiamo la famosa Luganighetta ticinese 4, domenica – Pranzo di stagione Viaggio gastronomico tra i sapori di stagione 9, venerdì sera – Degustazione con Fumagalli Vini Aperitivo per degustare i vini del territorio 10, sabato sera – Raclette a volontà Antipasto, Raclette e Dessert 11, domenica – Brunch in vetta Il compromesso gastronomico tra una colazione dolce e salata 15, giovedì sera – Candlelight Dinner Una cena romantica a lume di candela con menù à la carte 17, sabato sera - A cena con Marisa Clericetti Gustiamo i sapori della selvaggina 18, domenica – Brunch in vetta Il compromesso gastronomico tra una colazione dolce e salata 22, giovedì sera – Candlelight Dinner Una cena romantica a lume di candela con menù à la carte 25, domenica – Generoso Trail Un’affascinante corsa in salita fino alla vetta 29, giovedì sera – Candlelight Dinner Una cena romantica a lume di candela con menù à la carte
Novembre
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Cultura e Spettacoli
Quando New York era della mafia e come le fu strappata Netflix La docuserie Fear City racconta la lotta dell’FBI contro il crimine organizzato Fabrizio Coli «Non si trattava di arrivare a governare New York. La città era già nostra». Hanno soprannomi come Fat Tony o Big Paulie, facce e modi che sembrano usciti da un film di Scorsese. Ma sono tutt’altro che personaggi di finzione. Al contrario, quegli stereotipi divenuti familiari attraverso infiniti gangster movie è stata gente come loro a crearli: sono gli originali. Negli anni Settanta e Ottanta New York era governata con ferocia, violenza e astuzia da cinque grandi famiglie, i Bonanno, i Lucchese, i Colombo, i Genovese e i Gambino, ognuna con boss, capitani e soldati. Erano loro a spartirsi il potere e il denaro in una metropoli ribattezzata ai tempi la «città della paura».
Per l’FBI affrontare la mafia fu una sfida senza precedenti poiché mancavano strategia ed esperienza Lo Stato assisteva impotente. Qualche pesce piccolo ogni tanto finiva nella rete, ma niente di più. Almeno fino a quando un manipolo di uomini e donne decisi trovò lo strumento giusto per scardinare questo impero criminale.
Nella serie si mescolano materiali d’archivio e ricostruzioni.
Attraverso filmati d’archivio, nastri di reali intercettazioni, ricostruzioni e interviste a chi quel periodo l’ha vissuto – dalla parte della legge o da quella del crimine – Fear City: New York contro la mafia racconta questa epopea, fino al grande processo che nel 1986 decapitò la cosiddetta «commissione», la testa del crimine organizzato di New York. A firmare per Netflix questa nuova miniserie documentaristica true crime – tre puntate di cinquanta minuti – è Sam Hobkinson, autore fra l’altro di
The Kleptokrats e The Hunt for the Boston Bombers. Per gli agenti dell’FBI e per procuratori come un giovane Rudy Giuliani, che era già un duro ben prima di diventare il sindaco della tolleranza zero, non fu un lavoro facile. «La malavita era organizzata. Noi non lo eravamo affatto, non avevamo né strategia né piano d’azione», racconta uno dei protagonisti. A cambiare le cose fu una legge fino ad allora poco nota. Chiamata RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act), permetteva di
condannare gli affiliati a un’organizzazione criminale anche per reati ai quali non avevano preso parte attiva. Grazie alla RICO un boss avrebbe potuto essere condannato per aver ordinato un omicidio o una frode che non aveva direttamente commesso. Avrebbe: perché prima c’era da provare che facesse parte di un’organizzazione criminale e che tale organizzazione esistesse. Quelle organizzazioni esistevano eccome. Controllavano estorsioni e traffico di droga (benché la droga teoricamente fosse un tabù per i malavitosi
della vecchia scuola). Controllavano i sindacati, le potentissime «union», da quella dei trasportatori a quella dei lavoratori dell’edilizia. Gli affari più grossi, roba da miliardi, erano legati proprio al boom edilizio della New York di allora. Ogni lavoro del costo superiore ai due milioni di dollari passava attraverso le ditte controllate dalla mafia. Se qualcuno si metteva di traverso volava dal 56. piano di un palazzo in costruzione. Ci furono vittime ed eroi segreti in questa guerra. E anche armi decisive: le microspie. Rischiando grosso, i tecnici dell’FBI ne piazzarono a decine nelle case e nelle auto dei gangster, a tutti i livelli, ottenendo con le registrazioni le prove di cui avevano bisogno. La tensione riverbera La conversazione di Coppola. Le immagini d’epoca così come i reenactment hanno un look vintage che cattura immediatamente. Anche la colonna sonora – a partire dalla sigla Hard Times di Baby Huey – cala nella giusta atmosfera. Fear City è la storia di una battaglia vinta. Dopo le condanne ai vecchi boss però, il crimine organizzato tornò con altre forme e altri volti. Il cancro della mafia è duro da estirpare e si insinua dappertutto. Lo abbiamo visto ultimamente sulle pagine dei giornali perfino in un tranquillo Paese come il nostro. Ma tenere alta la guardia e continuare a combattere porta a grandi risultati. Annuncio pubblicitario
Tenet opera rotas... Cinema Solo il tempo saprà giudicare
il vero valore dell’ultimo lavoro di Nolan Nicola Mazzi TeneT, l’ultimo film di Christopher Nolan, assomiglia a Eyes Wide Shut, il lavoro che ci ha lasciato, postumo, Stanley Kubrick. Perché, ancora più che negli ultimi lavori di Tarantino (C’era una volta… a Hollywood) e Scorsese (The Irishman), riprende i suoi precedenti film, li rielabora, li seziona e li trasforma, proprio come aveva fatto Kubrick in quell’occasione. Questo film è una summa e uno sviluppo dei film precedenti dove l’aspetto centrale, che come sempre nel suo cinema è il tempo, viene capovolto, riscritto, analizzato, spiegato e alla fine esploso davanti a noi. Abbiamo quindi la relatività del tempo che diventa reversibile come in Memento, alternata come in The Prestige o a spirale come in Inception. Ma abbiamo anche il tempo immobile, tipico di Insomnia e infine abbiamo il tempo trasceso dall’amore e che rompe le catene che lo costringono a una linearità artificiosa come in Interstellar. Lo sguardo non è però rivolto solo all’interno e quindi alla sua filmografia, Nolan si apre al cinema e accoglie in quest’opera molto altro. Ad esempio, fa suoi i film di spionaggio di James
Protagonista di TeneT è John David Washington, figlio di Denzel.
Bond grazie a scene come quella in cui scala un grattacielo, i western con una rivisitazione di un topos come l’uomo attaccato alla corda e trascinato da un cavallo. O ancora guarda agli inseguimenti tipici dei polizieschi degli anni 70 e all’action movie moderno alla Matrix, ma iniziando – forse anche senza volerlo – con una scena che ricorda la prima di Senso di Visconti. Attraverso TeneT Nolan osserva quindi (già il titolo palindromo ne è il primo segnale) la propria storia e anche la storia del cinema. Ma anche la Storia vera e propria grazie al Quadrato di Sator e alle 5 parole palindrome e latine che lo compongono. Termini, che come TeneT, hanno un loro posto e significato all’interno del film, della cui trama non scriviamo nulla perché è di secondaria importanza. Più di una volta Nolan è stato paragonato al regista di Arancia Meccanica. Ma mai come in TeneT l’uso della materia cinematografica lo avvicina al maestro. Ci sono solo un paio di differenze: Eyes Wide Shut è stato l’ultimo lavoro di Kubrick mentre TeneT non lo è per Nolan. Inoltre, la grande differenza che distanzia i due registi è il didascalismo. A Kubrick bastava uno sguardo, un leggero movimento di camera, un termine al momento giusto per far viaggiare la mente. Nolan è all’opposto, tutto il suo cinema è pieno di parole, spiegazioni. E questo, inevitabilmente, inceppa il meccanismo narrativo e, ancora peggio, provoca la sensazione di noia in chi lo guarda. Solo il tempo saprà dire se TeneT avrà portato qualche elemento nuovo al cinema oppure se è solo un bellissimo e costoso (205 milioni) giocattolo che dopo pochi istanti smette di funzionare. Solo il tempo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Cultura e Spettacoli
Clown in scena contro la diversità per un messaggio di inclusione Teatro Dopo una tappa al Teatro Dimitri approda a Paradiso lo spettacolo Clown Syndrom
con Olli Hauenstein ed Eric Gadient Giorgio Thoeni Disabilità, diversità, handicap, normalità, diversamente normali, alterità: un esercizio semantico che potrebbe continuare a lungo a dipendenza dei generi a cui un progetto viene accostato e sviluppato per includere persone che, per cause diverse, non appartengono all’insieme dei cosiddetti normodotati o a particolari gruppi sociali. Il mondo del lavoro, della formazione in generale e, in particolare, quello dello spettacolo hanno da tempo dato ampio accesso a soggetti portatori di anomalie scoprendo un universo di poesia e bellezza, leggerezza e profondità messe in luce attraverso un linguaggio unico e originale che, assolutamente distante da parametri dove l’accettazione è velata da imbarazzante pietismo, permette scoperte straordinarie, arricchenti sotto ogni punto di vista. Il mondo dello spettacolo conosce bene questa dimensione che negli ultimi due decenni ha conquistato uno spazio di equidistanza e rispetto. La scena ha trasformato certe realtà in territori di fascinazione e dialogo avvicinando i confini della periferia del disagio. Gli esempi sono molti e abbracciano più ambiti, dal teatro alla danza
Eric Gadient (a sinistra) con Olli Hauenstein.
e ognuno di essi ha mostrato e tuttora mostra parametri di unicità e di originalità che diventano antidoti ai luoghi comuni accanto all’indubbio valore del messaggio. Inclusione sociale per una scena aperta su una piattaforma didattica e formativa di alto valore. Qualunque sia il linguaggio scelto per i progetti che li associano. Un esempio è quello legato a Clown Syndrom che andrà in scena il 19 settembre nella Sala Multiuso di Paradiso (ore 20.00) promosso, fra
gli altri, dalla Chiesa Evangelica Riformata del Sottoceneri. Ne è autore Olli Hauenstein, personaggio noto che, oltre aver frequentato per molti anni le scene nazionali e internazionali, molti ricorderanno nel duo Illi & Olli. L’artista svizzero è al centro dell’attenzione con uno spettacolo da lui ideato e diretto che lo vede protagonista con Eric Gadient, attore con la sindrome di Down. I due sono accompagnati alle tastiere da Andreas Kohl.
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Clown Syndrom ha debuttato tre anni fa e vanta oltre 150 repliche fra Svizzera tedesca, Germania, Austria e anche Italia. La sua valenza internazionale è data dall’uso di immagini, gesti, suoni e situazioni dove le parole non sono necessarie. «Non è uno spettacolo diverso dagli altri», ha spesso dichiarato Olli Hauenstein, «il mio partner ed io siamo in scena allo stesso livello, Eric ha un grande talento». Un elemento importante in questo
progetto è certamente legato alla figura del clown, ideale per abbracciare e contenere in sé situazioni di apparente diversità lasciando emergere quella comicità e quella poesia che contraddistinguono la semplicità e la leggerezza degli sketch. I problemi del personaggio clownesco, quel suo essere eternamente a disagio con la normalità, quelle sue battaglie per la sopravvivenza con la sua ricerca di soluzioni per risolvere certi insormontabili problemi, tutto questo è l’essenza della sua unicità: una caratteristica che è stata utilizzata da personaggi leggendari, sia del mondo del circo sia di quello del palcoscenico dove l’handicap e quel mondo stralunato e alieno sono da sempre la matrice e nutrimento, linfa di ispirazione per numeri straordinari nella ricerca di un linguaggio universalmente riconoscibile. Clown Syndrom si prefigge di raggiungere proprio in scena una sorta di uguaglianza teatrale attraverso il clown, trasformandola in una sindrome: il senso di un titolo che è anche il racconto di un’amicizia trasformatasi in complicità teatrale. Dove e quando
Clown Syndrom, con Olli Hauenstein ed Eric Gadient, 19 settembre 2020, Sala Multiuso Paradiso. Acquisto biglietti: ilmosaico.cers@gmail.com
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po di partecipanti avevano dato vita a Totentanz, un progetto teatrale multimediale costruito sulla base di un diario della quarantena per quattro attori, una scrittrice, un designer e un regista. Su quell’onda creativa il Laboratorio si prefigge, come sottolineano gli ideatori, di «trovare e ritrovare il piacere per la scrittura, creare una connessione tra memoria e immaginazione attraverso elaborati creativi, trovare nuove vie per liberare un flusso immaginativo e trasformarlo in scrittura, in personaggi, situazioni, mondi, storie». / GT Informazioni e iscrizioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 settembre 2020 • N. 37
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Ci sono ancora Maestri? Le stelle ci aiutano a decifrare l’enigma dell’artista? A spiegarci il mistero della sua venuta tra noi? Per avere una risposta affermativa è sufficiente ripercorrere le biografie degli artisti. Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori (1550) al passo relativo alla nascita di Michelangelo scrive che «avendo Mercurio e Venere in seconda nella casa di Giove con aspetto benigno ricevuto (…) si doveva vedere ne’ fatti di costui, per arte di mano e d’ingegno, opere maravigliose e stupende». Non c’è nulla di deterministico, non è detto che colui che nasce sotto una favorevole configurazione di astri debba diventare da grande un artista. «Su una moltitudine di bambini dotati solo una ristretta minoranza riesce in seguito ad affermarsi in virtù della propria creatività artistica». (Ernst Kris e Otto Kurz, La leggenda dell’artista). Affinché dal bruco ricco di doni celesti nasca la farfalla artista è necessario che il bambino riceva gli stimoli giusti. Il
piccolo Michelangelo fu portato a Settignano dove fu allattato dalla moglie di un tagliapietre, una circostanza che gli consentirà di affermare «tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e ’l mazzuolo con che io fo le figure». Se invece che moglie di un tagliapietre la balia di Michelangelo fosse stata moglie di un cuoco, gusteremmo dei piatti straordinari? Avremmo forse «il cinghiale alla Michelangelo»? Le stelle devono cooperare a rendere propizie le circostanze in cui avviene la prima rivelazione delle doti dell’artista in nuce. Ricordiamo tutti il celeberrimo episodio relativo alla vita di Giotto, un topos ricorrente nelle biografie di molti altri artisti. Il futuro maestro della Cappella degli Scrovegni è un pastorello che, citiamo ancora il Vasari, «sopra una lastra piana e pulita con un sasso un poco appuntito, ritraeva una pecora al naturale». Come ci raccontava la nostra maestra delle elementari (l’immagine del ragazzo Giotto era riprodotta sul coperchio della mia scato-
la di matite colorate), il grande Cimabue che passava da quelle parti, lo vede e lo porta a lavorare nella sua bottega. «E ben presto l’allievo superò il maestro». Un ragazzo che vuol diventare pittore quali opportunità avrebbe oggi di farsi notare da un maestro? Ammesso che riesca a convincere un allevatore a prestargli un paio di pecore, come deve muoversi per incocciare «per caso» nel maestro? Costui corre veloce in autostrada o in treno; ammesso che lo noti e s’incuriosisca non ha modo di fermarsi per proporgli di entrare nel suo studio (dove per i primi dieci anni sarà addetto alla pulizia dei pennelli). L’unica possibilità che resta al nostro ragazzo per farsi notare consiste nell’agire da graffitista, imbrattando il muro della casa di fronte a quella del maestro nell’ora in cui lui, appena sveglio e ancora in vestaglia, sorbisce il primo caffè della giornata guardando fuori dalla finestra per decidere, in base al tempo atmosferico, cosa indossare. Sempre che la custode del palazzo signo-
rile non abbia nel frattempo telefonato ai vigili urbani. Dobbiamo augurarci la benevolenza delle stelle anche nel faticoso cammino che l’artista deve compiere per far sì che la società nella quale vive e opera riconosca il suo status. È un problema che hanno anche gli scrittori. Raccontava Luis Sepulveda: «Mi ricordo sempre di un ufficiale di dogana a Quito: ogni volta che dovevo mendicare un visto mi chiedeva la professione. Quando gli rispondevo scrittore ripeteva: le ho chiesto la professione». Si tratta di un passaggio chiave nella vita di un artista e tutte le biografie vi si soffermano compiaciute. Tra gli episodi più citati figurano: l’imperatore Massimiliano ordina a un nobiluomo di tenere ferma la scala su cui sta lavorando Dürer; Carlo V raccoglie il pennello caduto a Tiziano. Van Mander racconta che Hans Holbein aveva avuto una lite con un gentiluomo e l’aveva buttato giù dalle scale. Costui era andato a lamentarsi dal re meritandosi la seguente risposta: «Volendo potrei
fare di sette contadini altrettanti conti, ma mai un Hans Holbein da sette conti». Ai giorni nostri potrebbero ripetersi episodi analoghi? Chi deleghiamo a tener ferma la scala o a raccogliere il pennello caduto? Un critico d’arte sarebbe felice di farlo ma, consentendoglielo, corriamo il rischio che lui ne approfitti per costruirci sopra una nuova teoria estetica in base alla quale la vera opera d’arte non è il quadro ma il suo gesto di reggere la scala o di raccogliere il pennello. Anche le opere, una volta terminate, hanno bisogno di una felice congiunzione degli astri. Un tempo restavano uniche. Ora troviamo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Walter Benjamin, 1936) che si diffonde nel mondo. Jackson Pollock, roso dall’ansia di non riuscire più a esprimere il suo mondo interiore, si è tolto la vita. Ma non l’ha fatto per permettere all’arredatore di appendere la riproduzione di un suo quadro sulla parete dell’ufficio del mio commercialista.
repubblica dalla malinconia; che non dovesse anche lui a sentirsi una rana in un pantano. Ma… perché coi nazisti c’è sempre un ma… la vera questione che mi spaventa non è la castrazione in sé, diventare una specie di femminiello, ce ne sono sempre stati, e molti sono felici. Ma anche questa ipotetica possibilità a Himmler non piaceva, che il quarto ebraico potesse essere felice. Allora Himmler, nella sua nera logica ha pensato che per la castrazione si doveva procedere con un’iniezione di petrolio nei testicoli. Sì, avete capito bene, di petrolio, da sveglio, magari con due SS che mi tenevano fermo. Mi avrebbero fatto un’iniezione nei testicoli per evitare emorragie, che insorgono se si usano le forbici, quindi per il mio bene, cioè per il bene del 75% ariano, ma il petrolio era per il 25 ebraico; e solo l’idea mi ha sempre raccapricciato; più del forno crematorio, più del gas Zyklon B. Perché il petrolio? uno si chiede. Beh, ci sono due ragioni, logiche, ineccepi-
bili. Una economica, il petrolio costa poco, con un litro si castrano fino a 100 individui; un centesimo e mezzo l’uno. Quando Himmler ha emanato queste disposizioni, i tedeschi stavano quasi per arrivare ai pozzi petroliferi russi del Caucaso, quindi in prospettiva il costo del petrolio sarebbe ulteriormente calato. L’altra ragione è simbolica, il petrolio è usato per sterminare gli insetti nocivi, che in questo caso sono i testicoli. C’è sempre una ragione in ciò che fanno i tedeschi nazisti, ed è sempre la ragione più orripilante e nera; il particolare del petrolio ha qualcosa di demoniaco, che neanche Dante Alighieri è riuscito a immaginarlo, per i sodomiti, i lussuriosi del secondo girone infernale. Pensate a quella bellissima scena di Paolo e Francesca portati in volo dal turbine amoroso se solo Dante Alighieri avesse delegato Himmler a trovare le pene: Paolo col petrolio nei testicoli mica riusciva a volare più, addio bellezze della Divina Commedia.
Io sono nato dopo finita la guerra, quindi questa eventualità non si è prospettata, l’ho scampata; ma se avessero vinto i nazisti, ci pensate? avrei un’altra voce, magari cantavo con gran successo. Ma credo che all’iniezione di petrolio non sarei sopravvissuto. Himmler l’aveva pensata anche come deterrente musicale. Dopo che ho letto anni fa le disposizioni di Himmler, il petrolio e l’iniezione mi tornano ogni tanto di notte in qualche orribile incubo atroce. Poi mi sveglio, e sono contentissimo che la guerra sia finita così, canticchio e ringrazio russi e americani, ringrazio Stalin (pur con tutti i suoi difetti), ringrazio Roosevelt, Churchill, sorvolando anche sui loro difetti, poi ripenso al petrolio scampato e mi viene da dire grazie a tutti, alla legione polacca (che si è sacrificata), agli australiani, ai canadesi, ai marocchini (coi loro noti difetti), ai sudafricani… grazie, grazie, ci hanno salvato… se no…
il libro su «Il Foglio», Claudia Gualdana scrive: «Il pianto e l’arte oratoria, che a Roma ha vissuto il massimo splendore, vanno di pari passo. Il politico è oratore per definizione: deve motivare e commuovere le masse e il pianto fa parte della strategia». Il buon uso delle lacrime in politica è il capitolo in cui l’autrice colleziona pianti teatrali, in cui i grandi del mondo antico somigliano ad attori o a registi di ottime rappresentazioni. «A Roma il più eloquente è anche il più potente», spiega l’autrice. Si dice che Nerone abbia deciso di uccidere Britannico dopo averlo sentito declamare i versi di Ennio, perché era troppo bravo: un rivale da eliminare. Leggenda o meno che sia, dà la misura di quanto importante fosse, anche in tempi di potere assoluto, il favore del popolo». Anche nel secolo della Ragione si piangeva, anche allora da una lacrima sul viso si capivano tante cose. Marco Menin ha scritto un libro molto interessante, La filosofia delle lacrime. Il pianto nella cultura francese da Cartesio a Sade
(il Mulino), che ha per tema l’emozione e la sua manifestazione più evidente. È vero che non c’è epoca in cui non si siano versate lacrime, ma nei pensatori che Menin prende in esame la lacrima, sospesa tra l’immediatezza naturale e l’artificio culturale, è un ottimo banco di prova per indagare le relazioni enigmatiche che legano la dimensione fisiologica e quella psicologica, il «fisico» e il «morale». Non potendo limitarsi alla ragione stessa, l’uomo ha cominciato a guardare il mondo attraverso il velo di una lacrima. Non è più necessario dover vivere e comportarsi «siccis oculis», con gli occhi secchi. In uno dei racconti più suggestivi della Bibbia si piange: «Allora Giuseppe disse ai fratelli: “Avvicinatevi a me!”. Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto”… Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse» (Genesi 45, 4-15).
Gioia, dolore, delusione, sconfitta, successo: gli stati d’animo legati al pianto sono pressoché infiniti, e innumerevoli sono le modalità, i rituali, le prescrizioni che ogni epoca e ogni cultura hanno adottato per regolarne l’uso. Le lacrime parlano, ma non sono parola, nemmeno gesto, affiorano dagli occhi e, significativamente, scorrono per dirci qualcosa: le arti figurative, la poesia, il teatro, la letteratura, il cinema sembrano averlo saputo da sempre, poiché ne hanno fissato da tempo immemorabile i canoni espressivi. Nelle ultime sequenze di C’era una volta in America si piange. È una delle pagine più ermetiche e toccanti del film: non ci sono dialoghi, l’unico rumore che squarcia il silenzio notturno è quello di un camion della spazzatura. E il pianto, indotto, non fa che aumentare il mistero di quel finale. Senza le lacrime dello spettatore tutto sarebbe più scontato. Come scrive Emil Cioran, «al giudizio universale verranno pesate soltanto le lacrime».
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni L’incubo più nero Sono sempre sorpreso dalla meticolosa precisione germanica anche durante il più barbaro tempo nazista. Vi racconto un caso dove io stesso mi continuo a sentire minacciato. La madre di mio padre (mia nonna Elda Fuchs) era ebrea, quindi mio padre era ebreo al 50%, il che, secondo i parametri nazisti di Himmler, bastava; se non fosse scappato in montagna fra i partigiani non sarebbe sopravvissuto. Allora era giovanissimo, e non aveva ancora incontrato mia madre; se no, se l’avessero preso, io non sarei qui a scrivere. Invece sono stato concepito, ed essendo mia madre ariana (secondo i canoni nazisti), io (sempre secondo i canoni nazisti) sono ariano al 75% ed ebreo al 25. Che si fa in questi casi? si era chiesto Himmler. Ed è qui che bisogna riconoscere una ineccepibile coerenza nel suo pensiero. Uccidermi non si poteva, per via dei tre quarti ariani. E allora? Beh, Himmler molto semplicemente ha pensato che avrei dovuto essere castrato,
per non trasmettere il quarto di sangue ebraico. Va beh! non è un piacere essere castrato; la carriera di don Giovanni, tanto per dire, mi sarebbe stata preclusa. Però, magari chissà, la castrazione cambia la voce, avrei potuto intraprendere la carriera lirica, con la voce rara del sopranista, che al giorno d’oggi non ce l’ha più nessuno, quella voce flautata e indefinibile, che era tanto ricercata fino almeno all’inizio dell’800; come il famoso Farinelli, che con la sua voce intermedia era diventato ricco; il re di Spagna, Filippo V, che era pazzo a intermittenza e ogni tanto si credeva una rana, lo pagava 2000 sterline l’anno perché gli cantasse le stesse arie tutte le sere, e gli ammorbidisse la malinconia. Magari mi chiamava il presidente della repubblica vicino al suo letto, nelle sere che per via della farraginosa politica italiana non riesce a prendere sonno; gli cantavo, che so? … casta diva che inargenti. Avrei potuto essere assunto a tempo indeterminato, per togliere il presidente della
A video spento di Aldo Grasso Lacrime e politica Ogni tanto i politici piangono. Lacrime di coccodrillo, come si dice? Devono farsi perdonare qualcosa? Non sempre. Teresa Bellanova, ministra delle politiche agricole alimentari e forestali della Repubblica Italiana, si è commossa illustrando la norma da lei fortemente voluta sulla regolarizzazione dei migranti. Segno di debolezza? Non credo proprio. Il pianto non è solo una prerogativa femminile, come il senso comune vuol farci credere, un segno di fragilità, qualcosa di cui vergognarsi. Hanno pianto anche Silvio Berlusconi, Sandro Pertini e tanti altri. Nel gennaio 2016 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha pianto in pubblico. Sottolineando l’intreccio di forza e debolezza, la stampa si è interrogata: «Obama ha reso accettabile il fatto di piangere in pubblico?». In realtà la novità è meno importante di ciò che lascia intravedere: un’attenzione collettiva verso le lacrime. Il dato che forse colpisce di più è che tale attenzione nasce da una dimenticanza. Le lacrime un tempo era-
no frequenti, tanto in pubblico quanto in privato. Nella Roma antica fornivano un ausilio imprescindibile al politico, erano l’arma preferita degli oratori e il mezzo con cui distinguersi dal volgo. Contribuivano anche a veicolare i presagi riguardanti la città. Le lacrime, insomma, scorrevano abbondanti tra i romani. Sara Rey ha pubblicato presso l’editore Einaudi un libro che si intitola Le lacrime di Roma: la tesi di fondo è che nell’antica Roma il pianto era alquanto diffuso e accompagnava gli avvenimenti della vita pubblica e privata. Si trattava di esercitare un potere politico e simbolico: per aumentare la loro autorità, senatori, imperatori e brillanti condottieri non esitavano a versare lacrime. Esse venivano usate nelle più svariate situazioni: per esprimere la sofferenza del lutto, la volontà di espiazione quando oscuri presagi appaiono minacciosi, la paura di un’esclusione sociale per cui si invoca la tradizione della propria famiglia; per manifestare la propria grandezza d’animo davanti agli sconfitti. Nel recensire
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25% 2.20
23% 4.90
Cetrioli bio Ticino, al pezzo
Mele Gala bio Svizzera, imballate, al kg
invece di 6.40
invece di 2.95
20% 4.50
41% 2.30 invece di 3.90
Lamponi
Fichi blu provenienza: vedi confezione, vaschetta da 500 g
Svizzera, confezione da 250 g
invece di 5.80
a partire da 2 pezzi
30% Tutte le verdure miste Farmer's Best surgelate, per es. verdura mista svizzera, 750 g, 3.65 invece di 5.20
Migros Ticino
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20% 4.70
Zucchine bio Ticino, sciolte, al kg
invece di 5.90
Offerte valide solo dall’8.9 al 14.9.2020, fino a esaurimento dello stock
02.09.2020 14:55:18
Pesce e frutti di mare
Sapore di mare
20% Tutti i molluschi bivalvi per es. cozze M-Classic, MSC, confezionato, per 100 g, 7.– invece di 9.20
C prov e ni on g ambe re t t i e nt i d g e s t i t i a a l l e v a me n t i in r e s p o n s m o do ab i l e
20x PUNTI
Novità
6.95
Shrimp Appetizers Anna's Best, ASC
25% 2.70 invece di 3.60
42% 11.– invece di 19.–
Salmone selvatico Sockeye, MSC pesca, Pacifico nordorientale, confezionato, in self-service, 280 g
conf. da 2
Filetto di passera MSC Atlantico nord-orientale, per 100 g, valido fino al 12.9.2020
4 x 2 pezzi, 226 g, offerta valida fino al 21.9.2020
40% Filetti di salmone Pelican, ASC e filetti dorsali di merluzzo dell'Atlantico Pelican, MSC surgelati, per es. filetti di salmone, ASC, 2 x 250 g, 9.45 invece di 15.80
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02.09.2020 14:55:32
Carne e salumi
Tagli eccellenti a ottimi prezzi
40% 1.35 invece di 2.30
30% 5.60 invece di 8.–
Costine di maiale Svizzera, per 100 g, al banco a servizio (Angolo del Buongustaio)
invece di 19.20
invece di 1.90
Carne di manzo macinata M-Classic Germania/Svizzera, confezionato, in self-service, per 100 g
20% 2.90
Entrecôte di manzo TerraSuisse
invece di 3.65
Svizzera, imballato, per 100 g
conf. da 2
30% 13.40
33% 1.25
Prosciutto crudo di Parma Ferrarini Italia, affettato in vaschetta da 2 x 90 g
Migros Ticino
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30% 5.90 invece di 8.55
Prosciutto cotto Svizzera, affettato in conf. da, 2 x 148 g
Tutto l’assortimento di polleria fresca Optigal (esclusi gli articoli già in azione), per es. Mini filetti di pollo, Svizzera, imballati, per 100 g
30% 1.45 invece di 2.10
Fleischkäse TerraSuisse affettato finemente, in conf. speciale, in self-service, per 100 g
Offerte valide solo dall’8.9 al 14.9.2020, fino a esaurimento dello stock
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Formaggi e latticini
Il meglio per il brunch
conf. da 12
20% 1.35 invece di 1.70
20% 12.95
conf. da 3
Tilsiter Surchoix confezionato, in self-service, ca. 250 g, per 100 g
20% 5.85 invece di 7.35
invece di 16.20
Formaggio grattugiato Grana Padano 3 x 120 g
Latte intero Valflora UHT 12 x 1 l
si m o Gust o fini s e xt ra à e c r e m o si t
20% 20% 1.75 invece di 2.20
15% 4.40 invece di 5.20
Tutti gli yogurt Excellence per es. ai truffes, 150 g, –.75 invece di –.95
Gottardo Caseificio prodotto in Ticino, a libero servizio, per 100 g
Burrata Pugliese Murgella conf. da 200 g
20% –.65 invece di –.85
Tutti gli yogurt e i drink Bifidus per es. yogurt alla fragola, 150 g
Migros Ticino
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Pane e prodotti da forno
Delizie cotte al forno
conf. da 6
25% 5.40
Biberli d'Appenzello confezionati, 6 x 75 g
invece di 7.20
20% 1.80
Millefoglie confezionato, 2 pezzi, 157 g
invece di 2.25
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c asa: D a f a r e i n r e z i o se pane c on p e ntari f i b r e al i m
33% Pasta sfoglia o pasta per crostate M-Classic per es. pasta sfoglia, 2 x 270 g, 1.80 invece di 2.70
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3.60
Miscele per pane You Active Bread e Power Bread, per es. Active Bread, 300 g, offerta valida fino al 21.9.2020
Offerte valide solo dall’8.9 al 14.9.2020, fino a esaurimento dello stock
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Dolce e salato
L’angolo dei golosoni ti dà il benvenuto
conf. da 50
50%
20%
Branches Frey, UTZ Classic, Eimalzin o Noir, per es. Noir, 50 x 27 g, 13.95 invece di 28.–
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50%
Tutti i biscotti in sacchetto Midor (articoli Tradition e Petit Beurre esclusi), per es. zampe d'orso, 380 g, 2.35 invece di 2.95
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Tavolette di cioccolato Frey, UTZ al latte e alle nocciole o al latte finissimo, per es. al latte e alle nocciole, 12 x 100 g, 11.95 invece di 24.–
20x
Tutti i praliné Ferrero per es. Raffaello, 230 g, 3.80 invece di 4.50
12.40 invece di 24.80
Palline di cioccolato Frey, assortite, UTZ in conf. speciale, 1 kg
PUNTI
conf. da 12
50%
Novità
8.80
Crème d'Or Xocolatl Limited Edition, surgelato, 750 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
MegaStar alla mandorla, alla vaniglia e al cappuccino, in conf. speciale, per es. alla mandorla, 12 pezzi, 12 x 120 ml, 8.95 invece di 17.90
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02.09.2020 10:40:15
Bevande
Lo snack proteic o tra un pasto e l’altro
20x PUNTI
Novità
20x PUNTI
3.–
Barretta Sponser Crunchy Peanut/Caramel o Raspberry, per es. Peanut/Caramel, il pezzo, offerta valida fino al 21.9.2020
Novità
5.60
Proteinballs Cranberry You 120 g, offerta valida fino al 21.9.2020
20% Tutto l'assortimento Sarasay per es. succo d'arancia, Fairtrade, 1 l, 2.30 invece di 2.90
conf. da 4
20% Chips, pretzel o cracker Zweifel disponibili in diverse varietà, in conf. multiple, per es. chips alla paprica, 4 x 30 g, 4.45 invece di 5.60
33% 7.90 invece di 11.80
1.–
Biscotti al caramello Lotus in conf. speciale, 1 kg
20%
Tutti gli smoothie Naked
Tutte le gomme da masticare Skai, Ice Tea e alla vaniglia per es. Real Gum Spearmint, 20 g, 2.20 invece di 2.80
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di riduzione
disponibili in diverse varietà, per es. Mango Machine, 360 ml, 2.95 invece di 3.95
Offerte valide solo dall’8.9 al 14.9.2020, fino a esaurimento dello stock
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Scorta
Serviti a 360 gradi
conf. da 2
20%
a partire da 2 pezzi
–.50 di riduzione
Pasta Anna's Best gnocchi alla caprese o fiori ai funghi, per es. gnocchi alla caprese, 2 x 400 g, 7.90 invece di 9.90
Tutti i tipi di pasta M-Classic per es. reginette, 500 g, 1.25 invece di 1.75
20x
20x
PUNTI
Novità
4.90
PUNTI
Novità
Crema di zucca Knorr 450 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
4.90
Novità
Zuppa di pomodoro Knorr 450 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
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Big Tortillas Pancho Villa 350 g, offerta valida fino al 21.9.2020
4.70
Zuppa di miso con tofu Kikkoman 3 x 10 g, offerta valida fino al 21.9.2020
PUNTI
Novità
Novità
3.30
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PUNTI
PUNTI
5.50
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PUNTI
Novità
Tortillas di frumento integrale Pancho Villa 326 g, offerta valida fino al 21.9.2020
5.80
Tortillas senza glutine Pancho Villa 216 g, offerta valida fino al 21.9.2020
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25% 5.10 invece di 6.80
conf. da 3
conf. da 2
Tutto l’assortimento i Raviöö prodotti in Ticino, per es. col pién da Brasaa (al brasato), 250 g
26% 5.– invece di 6.80
33% Funghi misti o funghi prataioli M-Classic
Pesto Agnesi alla genovese o rosso, per es. alla genovese, 2 x 185 g
per es. funghi misti, 3 x 200 g, 7.80 invece di 11.70
conf. da 2
30% Pizza al prosciutto e mascarpone o mini prosciutto Anna's Best per es. al prosciutto e mascarpone, 2 x 400 g, 9.60 invece di 13.80
a partire da 2 pezzi
20% Tutte le salse Bon Chef per es. salsa al pepe verde, 45 g, 1.30 invece di 1.60
Migros Ticino
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20%
20%
Tutti i ketchup e tutte le salse per grigliate Heinz e Bull's Eye
Tutti i tè e le tisane (articoli Alnatura esclusi), per es. Tea Time Fantastic Berries, 50 bustine, 1.80 invece di 2.25
per es. Tomato Ketchup Heinz, 342 g, 1.40 invece di 1.75
a partire da 2 pezzi
40%
42%
Patate fritte o patate fritte al forno M-Classic surgelate, 2 kg, per es. patate fritte al forno, 5.65 invece di 9.45
Tutte le capsule di caffè M-Classic, UTZ compatibili con il sistema Nespresso®*, per es. espresso, 30 capsule, 4.– invece di 6.90, *Questa marca appartiene a terzi che non sono in alcun modo legati all'impresa Delica SA.
Offerte valide solo dall’8.9 al 14.9.2020, fino a esaurimento dello stock
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Bellezza e cura del corpo
In ordine, dalla testa ai piedi
20x PUNTI
conf. da 2
20%
conf. da 3
25%
Novità
Igiene orale Meridol per es. collutorio, 2 x 400 ml, 9.90 invece di 12.40, offerta valida fino al 21.9.2020
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Dentifricio anticarie Elmex o Sensitive Plus Elmex
Deodorante roll-on Garnier Invisible e Protection, per es. Invisible, 50 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
per es. dentifricio anticarie, 3 x 75 ml, 7.40 invece di 9.90, offerta valida fino al 21.9.2020
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Prodotti per la doccia Nivea per es. docciacrema trattante Creme Soft, 3 x 250 ml, 4.95 invece di 7.20, offerta valida fino al 21.9.2020
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Peeling al riso Nivea Aloe vera o lampone, per es. Aloe vera, 75 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
n l a pe l l e c o l e d a n a r A f fina la gi f rag ola nat urali s e mi d
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Novità
2.80
Balsamo Silver & Shine I am Professional 250 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
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Prodotti Syoss Repair shampoo, balsamo o trattamento, per es. shampoo, 440 ml, 4.50, offerta valida fino al 21.9.2020
Novità
4.50
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Peeling I am Sugar con guscio di noce di cocco, semi di fragola o semi di canapa in polvere, per es. semi di fragola, 50 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
Novità
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Olio Oil Repair Elixir I am Professional 75 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
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a partire da 2 pezzi
CONSIGLIO SUI PRODOTTI Tra le cause delle doppie punte troviamo spesso la disidratazione dei capelli. Tinte frequenti o lavaggi a temperatura elevata tendono ad aggravare ancora di più il problema delle doppie punte. Prodotti come Spliss Rescue Fluid di I am Professional sigillano e riparano le doppie punte. Il fluido, sviluppato e prodotto a Buchs, può essere applicato sui capelli umidi o asciutti esercitando un massaggio. Non risciacquare.
25% Prodotti per la cura del viso L'Oréal (prodotti L’Oréal Men e confezioni multiple esclusi), per es. Revitalift Filler 7 giorni Hyaluron-Shots, 7 fiale, 14.95 invece di 19.90, offerta valida fino al 21.9.2020
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Hair spray M-Classic Strong Non-Aerosol 200 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
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Spliss Rescue Fluid I am Professional 50 ml, offerta valida fino al 21.9.2020
20% Tutto l'assortimento di prodotti per la cura delle labbra (Bellena, Kneipp e cosmesi decorativa esclusi), per es. Labello Original, 2 pezzi, 2.55 invece di 3.20, offerta valida fino al 21.9.2020 Offerte valide solo dall’8.9 al 14.9.2020, fino a esaurimento dello stock
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Varie
Un affare pulito in tutto e per tutto
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50%
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Ammorbidenti e profumi per il bucato Exelia per es. ammorbidente Golden Temptation, 1 l, 3.25 invece di 6.50
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Vanish Oxi Action Gold, Extra Hygiene e White Gold, in conf. speciali, per es. Gold, 1,5 kg, offerta valida fino al 21.9.2020
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Calgon per es. gel, 3 x 750 ml, 19.– invece di 28.50, offerta valida fino al 21.9.2020
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Vanish Oxi Action in polvere pink o bianco, in conf. speciale, per es. pink, 1,5 kg, offerta valida fino al 21.9.2020
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Tutti i pannolini Pampers
Salviettine igieniche umide Soft
(Pampers Pure Protection e Premium Protection Pants esclusi), per es. Baby Dry 4, 46 pezzi, 12.70 invece di 18.90, offerta valida fino al 21.9.2020
Alla camomilla, Sensitive e Comfort Deluxe, in confezioni multiple, per es. Comfort Deluxe, 5 x 50 pezzi, 7.60 invece di 9.50, offerta valida fino al 21.9.2020
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02.09.2020 14:55:04
Fiori e giardino i r a nt e p s a r t o t E f fe t ant e di e i so l c o l o g i c a ne e p r o du z i o
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Giacca in pile da donna e da uomo disponibile in diversi colori, taglie S– XXL, per es. da donna, viola, tg. M, il pezzo, offerta valida fino al 21.9.2020
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Deliziosi consigli per le escursioni.
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Minipic Svizzera, confezionato, in self-service, 3 x 90 g
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Blévita Mini Sweet & Thin Miele e rosmarino o fagottini alle pere, per es. Miele e rosmarino, 125 g, offerta valida fino al 21.9.2020
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Tutta la frutta secca e le noci
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