Azione 39 del 21 settembre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Pro Senectute ha creato un nuovo servizio fiduciario che accompagna gli anziani nelle pratiche amministrative

Ambiente e Benessere «Il Filo di speranza» è un’associazione che sostiene le persone confrontate con neuropatie specifiche

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 21 settembre 2020

Azione 39 Politica e Economia Il nuovo libro di Bob Woodward su Trump non sposta l’ago della bilancia elettorale

Cultura e Spettacoli Al Musec di Lugano una mostra straordinaria per scoprire l’arte del Kakemono

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Inizio di disgelo fra arabi e israeliani

Morcote diventa una galleria d’arte

di Peter Schiesser

di Alessia Brughera

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Daniela & Tonatiuh

È l’alba di un nuovo Medio Oriente, come annunciato dal presidente statunitense Trump? Forse. Di certo la decisione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele è un evento storico, come ha rimarcato il premier israeliano Netanyahu, la cui portata sarà misurata sugli effetti che avrà su altri paesi arabi (Egitto e Giordania avevano già normalizzato le relazioni nel 1979 e nel 1994). Ne seguiranno altri? Si parla dell’Oman, ma anche del Sudan, mentre l’Arabia Saudita, potenza regionale che si contende la supremazia con l’Iran, non si muove ancora. Il Bahrain è quasi un suo Stato vassallo, la sua monarchia (sunnita come quella saudita) comanda su una popolazione a maggioranza sciita che occhieggia a Teheran, è poco immaginabile che abbia deciso di normalizzare i rapporti con Israele senza il beneplacito di Ryad, in particolare del principe ereditario Mohamed bin Salman. Per ora la posizione ufficiale della monarchia saudita è che non può esserci normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale (così il ministro degli esteri Faisal Ben Farhan il 17 agosto), coerentemente con «l’iniziativa di pace araba» lanciata nel 2002 dal defunot Re Abdullah; tuttavia nel recente passato Mohamed bin Salman ha lanciato segnali di apertura verso Israele, secondo alcuni vorrebbe coinvolgerlo nella realizzazione del suo piano di sviluppo economico, «Visione 2030», con cui intende liberare l’Arabia Saudita dalla dipendenza dal petrolio. In senso stretto, non si tratta di un accordo di pace, poiché fra questi tre Stati non c’è mai stata guerra. E in realtà intrattengono rapporti in campo economico e della sicurezza da diversi anni, benché in sordina, come fanno anche altri paesi. Riconoscerli ufficialmente cambia però le carte in tavola: Israele cessa di essere considerato un paria e può ambire a una maggiore integrazione in un Medio Oriente in cui fino ad oggi è stato al massimo mal tollerato. Per Netanyahu un bel regalo in un momento di difficoltà interne, con Israele che ha decretato il secondo lockdown a causa della pandemia, per Trump un successo in politica estera più sostanzioso dell’accordo con i talebani afghani e dei tentativi di risolvere il decennale stato di crisi con la Corea del Nord. Ma come si è giunti a questa svolta? Secondo quanto letto sul «New York Times» la proposta di normalizzare le relazioni con Israele è giunta dagli Emirati Arabi Uniti, in cambio della rinuncia da parte di Israele di annettersi la Cisgiordania. L’Amministrazione Trump ha colto la palla al balzo, con il merito di capire la portata storica che poteva avere questa mossa. Tuttavia, una simile decisione non sorge dal nulla: rispetto a 20, 30, 50 anni fa il Medio Oriente è mutato, drammaticamente si può dire. La questione palestinese ha perso la sua centralità, messa in ombra dalle rivoluzioni della cosiddetta «Primavera araba» del 2011 e dalle sanguinose guerre e rivolte che ne sono seguite, in cui le vecchie élite hanno dovuto (e devono tuttora) temere di finire come Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia o peggio come Gheddafi in Libia. Inoltre, le guerre, soprattutto quella in Siria ma anche quella scatenata dall’Arabia Saudita nello Yemen, hanno riportato a galla il fossato fra sunniti e sciiti, i primi capitanati dall’Arabia Saudita, i secondi dall’Iran, rendendo ancora più visibile e palpabile sul terreno lo scontro di potere fra queste due potenze regionali. Infatti, molti commentatori leggono questa svolta in funzione anti-iraniana: alla prova dei fatti ai regnanti arabi fa più paura Teheran di Tel Aviv (ricordiamo che nel Bahrain fra il 2011 e il 2014 ci sono state proteste popolari e scontri con morti e feriti che hanno coinvolto cittadini sciiti contro forze dell’ordine e cittadini sunniti). Dopo questo decennio sanguinoso, che ha visto anche la nascita e il declino dello Stato Islamico, è venuto a cadere l’assioma secondo cui la pace in Medio Oriente dipende solo dall’esistenza e dal comportamento di Israele. I perdenti sono chiaramente i palestinesi. Non possono più contare sull’appoggio incondizionato dei fratelli arabi, né sul fatto che gli Stati Uniti giochino il ruolo di veri mediatori (il piano di pace presentato dall’Amministrazione Trump riconosceva quasi unicamente le pretese israeliane ed è stato quindi rifiutato dai palestinesi). Il loro isolamento è aggravato dalla spaccatura fra Hamas, che controlla Gaza, e l’Autorità nazionale palestinese, radicata nella Cisgiordania. Ottimisticamente, c’é chi ipotizza che, venendo pian piano a cadere le minacce esterne, Israele si ammorbidisca anche verso i palestinesi, che l’idea di uno Stato autonomo per i palestinesi potrebbe tornare d’attualità. Ma potrebbe essere anche il contrario. In quel caso la rabbia dei palestinesi, figlia di una frustrazione e di un’oppressione decennale, potrebbe esplodere nuovamente. Anche oggi, una vera pace in Medio Oriente non può prescindere da una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Attualità Migros

Il nuovo Consiglio di cooperativa Migros Ticino Sarà in carica fino al 2024. Il suo nuovo presidente è Danilo Zanga

Un momento dei lavori, che si sono tenuti nella Sala grande dell’Ex Convento di Monte Carasso. (Stefano Spinelli)

La riunione costitutiva del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino si è tenuta lo scorso mercoledì 16 settembre. Le necessarie misure di controllo, dettate dalle autorità per contenere la pandemia da Covid19, hanno fatto sì che l’incontro si tenesse al di fuori delle mura della Centrale di Sant’Antonino e venisse ospitata nella Sala grande dell’ex Convento di Monte Carasso. Il Consiglio di cooperativa di Migros Ticino è un organo che è chiamato a occuparsi delle questioni di principio della cooperativa regionale e, a livello nazionale, delle relazioni con la Federazione delle cooperative Migros. Il CC possiede sia competenze proprie, sia congiunte con quelle del Consiglio di amministrazione di Migros Ticino. Conformemente allo Statuto, il Consiglio di cooperativa si compone di 48 membri, in maggioranza donne, di cui almeno un terzo deve essere rinnovato al termine di ogni periodo legislativo. I nomi dei membri sono stati pubblicati sul numero 26 di «Azione» del 22 giugno 2020: ben diciannove di loro sono di nuova nomina. Sette sono poi i membri del Consiglio di cooperativa che sono stati eletti quali rappresentanti di Migros Ticino all’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros, che di prassi si riunisce due volte all’anno a Zurigo. Si è proceduto in seguito alla nomina del nuovo Presidente, nella persona di Danilo Zanga.

Fanno inoltre parte del Comitato Gaby Malacrida (vicepresidente), Nadia Bregoli (che, tra l’altro, è stata recentemente eletta quale membro dell’Uf-

ficio dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle Cooperative Migros), Simona Corecco, Matteo Hoderas, Daniele Poggiali e Alessandro Speziali.

È stata costituita inoltre la Commissione culturale del Consiglio di Cooperativa, che sarà composta da Gaby Malacrida (presidente), San-

dra Casoni, Cristina Coduri Mossi, Simona Guenzani, Matteo Hoderas, Franca Rezzonico e da Carmela Stadtmann.

4 domande al nuovo presidente Danilo Zanga La sua nomina comporta un passaggio di testimone importante, dopo la lunga presidenza di Giuseppe Cassina. Cosa le ha lasciato in «eredità»?

Giuseppe Cassina ha diretto il Consiglio di cooperativa di Migros Ticino per ben 24 anni e, grazie a lui, ho potuto entrare a farne parte nel 2008 e avvicinarmi così al mondo Migros. Giuseppe è stato un presidente che ha cercato di stimolare la discussione in modo aperto e collegiale, sollecitando i membri del CC a esprimere riflessioni costruttive e propositive, sensibilizzando così il Consiglio di amministrazione e il Comitato di direzione sulle esigenze dei clienti nei confronti della grande distribuzione. Cassina ha saputo instaurare con tutti, dalla Direzione ai gerenti e ai singoli collaboratori un rapporto cordiale e amichevole. Quali sono le sue aspettative e quali obiettivi si prefigge per il suo mandato?

Sul solco di quanto già intrapreso da Cassina, tenuto conto che i proprie-

Quattro dei membri di Comitato: Gaby Malacrida, Danilo Zanga, Matteo Hoderas, Daniele Poggiali. (Stefano Spinelli)

tari di Migros Ticino sono i suoi oltre 98’000 soci, mi adopererò affinché il dibattito all’interno del CC venga sempre affrontato in modo aperto, schietto e costruttivo, proprio come avrebbe voluto il suo fondatore Duttweiler. È inoltre importante che Migros sappia rinnovarsi e mantenere costantemente quella vicinanza al territorio, alla popolazione e alla clientela che è sempre stata la sua «carta vincente». Cercherò di avvicinare ancora di più i membri

del CC all’organizzazione di Migros, per sensibilizzarli sul ruolo economico, sociale e culturale della nostra cooperativa.

Ci sono dei temi che le stanno particolarmente a cuore?

Migros Ticino riveste all’interno della nostra società un ruolo importante anche a livello culturale, sostenendo (con un contributo totale pari al 0.5% del fatturato della cooperativa) la formazione degli adulti (Scuola Club

Migros Ticino) e diverse attività di produzione e fruizione culturale presenti sul territorio (Percento culturale Migros Ticino). Dare maggiore risalto al contributo che la nostra Cooperativa devolve in Ticino è uno dei compiti che mi prefiggo. Non da ultimo, desidero far conoscere ai membri del CC il ruolo di Migros nell’ambito dello sviluppo della digitalizzazione e del settore sanitario. Dove vede i temi importanti su cui dovrà chinarsi in futuro il CC?

Il commercio online è sicuramente uno di questi, il sostegno e l’ampliamento dell’offerta di prodotti del territorio (trovo azzeccata la campagna in corso con il vecchio camion Migros) è un altro. Importante sarà anche la fidelizzazione dei «nuovi clienti» – penso in particolare alla fascia d’età tra i 15 e i 25/30 anni – che assicureranno il futuro della nostra Cooperativa. Conoscere i loro gusti, le loro aspettative e le loro visioni è fondamentale. È importante che Migros possa mantenere anche in futuro la leadership in ogni settore.

Apprendisti al via presso Migros Ticino

Tirocinio L’azienda ticinese conferma il suo impegno nel settore della formazione professionale,

offrendo un ampio ventaglio di opportunità ai giovani che si affacciano sul mondo del lavoro Nonostante la surreale situazione venutasi a creare da inizio anno nella nostra regione e il futuro quantomeno incerto, Migros Ticino continua a puntare con convinzione sulla forza lavoro indigena e sui giovani ticinesi. Le difficoltà e i ritardi nelle procedure di reclutamento imposti dal lockdown di questa primavera non hanno fermato la Cooperativa regionale, che ha selezionato diversi nuovi tirocinanti. Per l’anno scolastico 2020/21 sono ben 14 tra ragazze, ragazzi e giovani adulti che hanno cominciato il loro percorso formativo nei vari settori d’attività in seno alla Comunità Migros Ticino.

Da sinistra a destra: Domenico Aiello, Manuel Tedeschi, Miki Gocev, Leonardo Bon, Elena Argentiero, Celine Vabanesi e Andrea Jovic.

Da sinistra a destra: Aid Jusufi, Jamiel Guerchadi (Activfitness), Joshua Tiziani (Activfitness), Thomas Mezzo, Ivan Rakic, Bryan Valecce, e Selene Meregalli.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Società e Territorio Svizzera da scoprire Piccoli grandi musei sparsi su tutto il territorio: una ricchezza e un vanto della realtà elvetica

Trappole d’amore Un libro racconta l’inchiesta della trasmissione Chi l’ha visto? sulle truffe romantiche online. Intervista alla giornalista Federica Sciarelli

Una valle da salvaguardare La Fondazione Valle Bavona festeggia i trent’anni di attività a favore di natura, cultura e storia pagina 13

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Volontari amministrativi per gli anziani Pro Senectute La fondazione ha creato

un nuovo servizio fiduciario che accompagna gli anziani nelle pratiche amministrative, ce ne parla la responsabile Lara Cereghetti

Stefania Hubmann Accompagnare gli anziani nelle pratiche amministrative garantendo continuità alle prestazioni nel rispetto della loro autonomia. È quanto offre il nuovo servizio fiduciario di Pro Senectute Ticino e Moesano, avviato all’inizio di quest’anno sulla base delle esperienze raccolte dal servizio informazioni e consulenza sociale e dai volontari amministrativi. Pagamenti, richieste di rimborsi assicurativi, prelevamenti di denaro contante, redazione di lettere, sono operazioni che per alcune persone della terza o quarta età, prive di una rete familiare che possa compierle con loro, diventano difficili. Inoltre, un improvviso peggioramento delle condizioni di salute rischia di bloccare l’evasione di queste pratiche. Grazie ad un contratto che include una procura sul conto corrente e una generale per rivolgersi agli enti istituzionali, i rappresentanti di Pro Senectute possono sostenere l’utenza in base al suo grado di necessità. Alla firma del contratto la persona anziana è capace di discernimento e collaborante, perché si punta a svolgere insieme questi compiti, stimolando le capacità individuali e curando la relazione personale. Questo aspetto è stato centrale nell’elaborazione del progetto, voluto per migliorare e strutturare la risposta ai bisogni espressi dagli anziani stessi. Per Lara Cereghetti, referente del nuovo servizio, è importante chiarire che Pro Senectute non intende sostituirsi alla rete esistente. «In presenza di altre risorse, noi facciamo un passo indietro. Le persone che hanno bisogno del nostro aiuto sono in genere sole oppure con una rete familiare impoverita o che non è in grado per diversi motivi di adempiere a questo compito». Il servizio prevede almeno una visita mensile a domicilio (ma anche in casa per anziani in caso di trasferimento) in modo da effettuare con regolarità i pagamenti e

le richieste di rimborso. Queste operazioni vengono svolte insieme, lasciando la massima autonomia possibile alla persona anziana. La collaborazione fra volontario e utente e la relazione che le due persone costruiscono sono capisaldi del Servizio, concepito quale supporto e forma di prevenzione in caso di urgenze. Al momento vi si appoggiano una ventina di persone di cui tre residenti in case per anziani». Quali sono le difficoltà ricorrenti che il servizio fiduciario aiuta a superare? «Prelevare denaro contante è spesso un problema per questioni di spostamento o di capacità ad utilizzare il bancomat. In diversi casi si finisce quindi con l’affidare la carta bancaria e il relativo codice a terzi con evidenti rischi. Anche chiedere i rimborsi assicurativi è complicato, soprattutto per chi beneficia di una prestazione complementare all’AVS, perché bisogna capire quali fatture indirizzare ai diversi enti. I pagamenti sono un’operazione ricorrente che alcuni anziani riescono a gestire solo in parte o che preferiscono comunque sottoporre a uno dei nostri volontari amministrativi per una conferma». Il servizio fiduciario conta infatti sulla collaborazione di una trentina di volontari amministrativi che coprono tutto il territorio cantonale. Sono quindi operativi nelle quattro regioni – Mendrisiotto, Luganese, Bellinzonese e Locarnese – coordinati dal servizio con sede a Lugano. Lara Cereghetti: «Siamo sempre alla ricerca di volontari, perché prevediamo un aumento delle richieste una volta che il servizio sarà più conosciuto. Il progetto è stato ideato e poi testato a partire dalla seconda metà dell’anno scorso. Da gennaio siamo operativi sostenendo in particolare persone che già erano seguite dalla nostra organizzazione tramite volontari o assistenti sociali. L’aiuto offerto da questi operatori in ambito amministrativo era però limitato, poiché mancava una

Il Servizio fiduciario di Pro Senectute si basa sulla collaborazione e la relazione fra volontario e utente. (www.prosenectute.org)

procura che permettesse loro di compiere determinate operazioni in caso di assenza o impossibilità dell’utente, come è il caso del prelevamento di denaro. Pro Senectute offre ora un servizio a pagamento (con tariffe in base al reddito e alla sostanza) che tutela gli interessi delle persone anziane. I volontari amministrativi e gli impiegati presso gli uffici di Pro Senectute sono appositamente formati e sottostanno all’obbligo di discrezione. I secondi subentrano ai primi quando le visite a domicilio vengono a cadere, ad esempio in presenza di un deterioramento cognitivo o di una lunga degenza in un centro di cura». I primi riscontri sono positivi. La sensazione generale delle persone seguite dal servizio fiduciario è quella di sentirsi rassicurate. L’intervento regolare dei volontari permette di avere ordine e chiarezza nella gestione amministrativa e finanziaria. Redigere una lettera o compilare la dichiarazione fiscale sono altri due impegni che sovente la persona anziana non è più in grado di affronta-

re da sola. Lara Cereghetti precisa che il nuovo servizio non costituisce però un aiuto puntuale per alcune pratiche, bensì un sostegno regolare e duraturo che non si spinge oltre i compiti di gestione amministrativa corrente. In caso di necessità, Pro Senectute fa appello alle autorità preposte. Bloccato per diversi mesi a causa dell’emergenza Coronavirus, anche il servizio fiduciario ha constatato come il forzato isolamento degli anziani abbia compromesso le relazioni con le persone di riferimento, aumentando l’inquietudine e le difficoltà nel far fronte alle incombenze quotidiane, comprese quelle amministrative. Un impoverimento dell’autonomia personale compensato solo in parte dalle telefonate a Pro Senectute, da cui scaturivano comunque consigli e aiuti. «In una situazione così grave – afferma la nostra interlocutrice – essere già accompagnati dal servizio fiduciario ha rappresentato un indubbio vantaggio, perché molto spesso abbiamo usato la cassetta della lettere come zona franca

per lo scambio di documenti, potendo agire in vece dell’utente grazie alle procure firmate all’inizio della collaborazione». La pandemia con le relative misure di confinamento ha quindi evidenziato il ruolo preventivo di questo nuovo servizio che completa un’ampia gamma di prestazioni volte a mantenere il più a lungo possibile le persone al proprio domicilio, autonome nella gestione di tutti gli aspetti della vita quotidiana. Le pratiche amministrative, divenute sempre più complesse e automatizzate, rappresentano sovente per le generazioni più anziane un ostacolo non indifferente. Grazie al servizio fiduciario di Pro Senectute chi è privo di stretti legami personali può contare su un sostegno mirato e adeguato. Informazioni

Servizio fiduciario, Lara Cereghetti, tel. 091 912 17 17. servizio.fiduciario@prosenectute.org www.prosenectute.org


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Un giubileo di successo

Attualità Ultima settimana del viaggio itinerante del camion vendita Migros in occasione

del 15° anniversario dei Nostrani del Ticino. La tappa finale è prevista sabato 26 settembre presso il Centro S. Antonino

Continua a seguire il viaggio del camion vendita su migrosticino.ch e #veramentenostrani

Nelle foto alcuni momenti «In gir par al Cantón» del mitico camion vendita Migros.

Partito lo scorso 9 settembre da Mendrisio, il camion vendita Migros «griffato» con la coccarda dei Nostrani del Ticino questa settimana si appresta a terminare la sua seguitissima «tournée» in giro per il Cantone, con l’ultima tappa prevista il prossimo sabato dalle 10.00 alle 17.00 di fronte al Centro Migros di S. Antonino. Durante queste due settimane e mezzo di viaggio lo storico «negozio ambulante» ha ripercorso alcuni vecchi tracciati, sostando in totale in una trentina di località ai quattro angoli del Ticino e della Mesolcina, accogliendo i molti visitatori che hanno potuto conoscere meglio e acquistare una selezione di prodotti regionali, scoprire molte curiosità legate al mondo Migros e ai Nostrani del Ticino, nonché farsi dei simpatici selfie con il camion vendita.

Formaggio d’alpe ticinese DOP Attualità Le specialità prodotte quest’anno sui nostri alpeggi

I primi formaggi d’alpe a Denominazione di Origine Protetta (DOP) della stagione 2020 sono attualmente disponibili nei maggiori supermercati di Migros Ticino. Lasciatevi convincere e conquistare da queste prelibatezze certificate, prodotte in quota e stagionate per un minimo di 60 giorni sull’alpeggio medesimo. Formaggi dalla ricchezza aromatica straordinaria, ottenuti con l’utilizzo di latte crudo proveniente da mucche che si nutrono liberamente di pregiate erbe e fiori dei pascoli alpini. Il formaggio d’alpeggio ben rappresenta tutta la ge-

nuinità e artigianalità dell’arte casearia ticinese. Un’attività che da giugno a settembre vede decine di allevatori e casari spostarsi con i propri bovini dal piano all’alta montagna con l’intento di ottenere un formaggio dalle caratteristiche organolettiche uniche nel suo genere. I formaggi d’alpe DOP prodotti quest’anno sugli alpeggi ticinesi attualmente disponibili presso le filiali Migros con banco formaggio sono Pesciüm, Camadra, Fortunei, Vallemaggia, Fieudo, Pian Segn, Manegorio, Alpe Croce Lucomagno, Gorda, Pradasca, Cioss Prato e Pontino. Nelle

prossime settimane se ne aggiungeranno altri. Inoltre, per gli amanti dei sapori ancora più corposi, l’assortimento annovera alcune varietà stagionate oltre i 12 mesi, come pure un Piora di oltre 16 mesi di affinamento. Consigli per la conservazione: il formaggio d’alpe a media e lunga stagionatura andrebbe conservato idealmente in una buona cantina a una temperatura compresa tra i 10-15 gradi. In frigorifero va tenuto nella parte meno fredda, tra gli 8-10 gradi, avvolgendolo in un foglio di carta alimentare, in modo da permettere al formaggio di «respirare».

Giovanni Barberis

sono ora in vendita al banco dei formaggi Migros


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Il Nutri-Score fa la sua Aromatica apparizione su alcuni prodotti selvaggina

Attualità Approfittate questa settimana

Novità Scopri a colpo d’occhio le proprietà nutrizionali

dell’offerta speciale sul prelibato filetto di cervo

di un prodotto

Azione 30% Filetto di cervo Nuova Zelanda, al banco per 100 g Fr. 5.40 invece di 7.80 dal 22 al 28.09

A titolo di prova, Migros ha introdotto il sistema di identificazione Nutri-Score sulle confezioni delle sue marche Cornatur e Pelican. Uno dei primi prodotti a riportare questo codice colorato dei valori nutritivi è il Crispy Burger della Cornatur, una gustosa alternativa vegetariana al Chicken Burger impanato. Il prodotto ha ottenuto la nota B su una scala da A a E. Il Nutri-Score permette di confrontare a prima vista i valori nutritivi di un prodotto della stessa cate-

goria. La A di colore verde scuro indica un’elevata qualità dei valori nutritivi, mentre il rosso della E indica una qualità più scarsa. Questo strumento semplice e immediato permette ai consumatori di facilitare la scelta. In ogni caso per un’alimentazione equilibrata valgono sempre le raccomandazioni della piramide alimentare svizzera.

Il filetto di cervo, insieme alla sella di capriolo, è sicuramente uno dei tagli di selvaggina più apprezzati dai consumatori. Impossibile resistere al suo sapore deciso e alla sua tenerezza. Il taglio è indicato per cotture brevi in padella o alla griglia e deve essere servito ancora al sangue, con una temperatura interna ideale di 52-55 gradi. Non eccedere con i condimenti per non comprometterne

Per informazioni: Migros.ch/nutri-score

il gusto. Condire la carne con sale, pepe e a piacere un trito di erbe aromatiche. Rosolarla nell’olio a fuoco vivo per ca. 5 minuti da entrambi i lati, finché si forma una bella crosticina. Trasferire il filetto in una teglia e infornare a 70 °C fino a raggiungere il grado di cottura al cuore desiderato. Avvolgere il filetto nella carta alu e lasciarlo riposare 5 minuti. Affettare e servire. Annuncio pubblicitario

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n ó t n a C l a r a p r i g n I 9-26 settembre

Torna il glorioso camion Migros! Non mancare l’appuntamento con il suo viaggio itinerante in occasione dei festeggiamenti per il 15° anniversario dei Nostrani del Ticino. Il mitico camion vendita Migros ti riaccoglierà fino al 26 settembre in diverse località del Cantone, ripercorrendo alcuni dei vecchi tracciati. Durante le diverse soste potrai scoprire e acquistare pregiati prodotti nostrani a km zero. Trovi tutte le informazioni sul sito www.migrosticino.ch Per ogni tappa i primi 50 clienti verranno omaggiati con una borsa della spesa riutilizzabile griffata Nostrani del Ticino.

Il programma delle tappe LUNEDÌ 21 SETTEMBRE S. Maria (Calanca) Posteggi zona Casa Comunale, ore 9.00 – 11.00 Roveredo (GR) Posteggi Sótt i Nós, ore 14.00 – 16.00

GIOVEDÌ 24 SETTEMBRE Cavergno Piazza, ore 9.00 – 11.00 Brontallo Paese, ore 14.00 – 16.00

MARTEDÌ 22 SETTEMBRE Carena Posteggi Via Carena, ore 9.00 – 11.00 Camorino Piazza, ore 14.00 – 16.00

VENERDÌ 25 SETTEMBRE Dongio Posteggi fermata Autobus, ore 9.00 – 11.00 Aquila Posteggi ex Posta, ore 14.00 – 16.00

MERCOLEDÌ 23 SETTEMBRE Osogna Piazza, ore 9.00 – 11.00 Personico ex Latteria, ore 14.00 – 16.00

SABATO 26 SETTEMBRE S. Antonino Centro Migros, ore 10.00 – 17.00

Attenzione: il programma e l’itinerario potrebbero subire variazioni. Trovate tutti gli aggiornamenti su migrosticino.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Società e Territorio

Dove la Svizzera sorprende

Paesaggio e architettura Piccoli grandi musei sono sparsi su tutto il territorio anche nelle periferie

dove meno te li aspetti: un vanto della composita realtà elvetica

Luciana Caglio È talmente simile al suo stereotipo pubblicitario da sembrare finto. Invece l’Appenzello è proprio così, come lo s’immagina e come l’hanno raffigurato i pittori naïf nei loro paesaggi idealizzati. Lasciando alle spalle l’autostrada, gli impianti industriali, i caseggiati delle periferie urbane nella valle del Reno, ci s’inoltra nel verde dei boschi e poi dei prati, punteggiati dalle fattorie e dalle mucche al pascolo. Nel giro di pochi chilometri, per il visitatore è il tuffo in un passato che pare congelare i luoghi nell’immobilismo. E la sensazione perdura, entrando nella città di Appenzello, capitale del semicantone interno. Qui, il centro storico, storico lo è davvero. Niente da spartire con i raffazzonati tentativi di salvare il salvabile, cui si assiste in località, vittime di una smania edilizia sconsiderata. Qui gli edifici secolari, accuratamente riabilitati da interventi indispensabili, racchiudono gli spazi destinati alle attività commerciali e, in pari tempo, al passeggio, momento d’incontro insostituibile e, non da ultimo, alla vita politica: sulla piazza principale, avviene, ogni anno, il rito della Landsgemeinde, dove, per alzata di mano si decidono le sorti del Cantone: eleggendo i rappresentanti del popolo, approvando o respingendo leggi, iniziative, provvedimenti d’interesse pubblico. I cosiddetti «Tafel», le preziose insegne, appese alle pareti di edifici ridipinti nei colori originali non hanno uno scopo semplicemente decorativo.

Continuano a indicare negozi, bar, servizi pubblici che svolgono le loro funzioni. Lo scrupolo conservativo non ha bloccato le esigenze economiche e sociali. Anzi, ne è diventato un incentivo. Che funziona, anche sul piano turistico, più che mai nella stagione del covid, che ha indotto gli svizzeri, bon gré-mal gré, alla riscoperta del proprio paese. Che riserva sorprese. Tanto più folgoranti in quest’Appenzello, che, all’improvviso, assicura l’impatto con la modernità, nelle sue forme più incisive. Ecco, a pochi passi dal centro, il Kunstmuseum, edificio segnalato dalle guide dell’Heimatschutz e promosso a icona dell’architettura contemporanea. Con il suo profilo a zigzag, l’edificio lascia un segno originale, all’esterno, e razionale all’interno. Reca, del resto, la firma di progettisti autorevoli, gli zurighesi Annette Gigon e Mike Guyer, già autori del museo Kirchner a Davos e dei restauri dei musei di Winterthur. L’opera, inaugurata nel 1998, in sale ampie e adeguatamente illuminate, ospita fino al 4 ottobre, guarda caso, le visioni mediterranee di Selim, ticinese d’adozione. Ora, l’interrogativo è scontato, come mai una città di 6000 abitanti ha potuto dotarsi di una struttura tanto prestigiosa. E qui si apre un’altra bella pagina di storia locale. Protagonista l’industriale Heinrich Gebert, mecenate lungimirante che, attraverso l’omonima Fondazione, ha finanziato opere d’avanguardia. Oltre il museo dell’arte, la «Ziegelhütte», il centro culturale, ricavato da una fabbrica dismessa di te-

Il Kunstmuseum di Appenzello opera degli architetti Annette Gigon e Mike Guyer.

gole, mattoni, laterizi. Secondo l’autore della ristrutturazione, Robert Bamert, questo è «un esempio di architettura ibrida». Cioè, il secolare involucro di legno che risale al 1566, è diventato il contenitore di necessità attuali: una biblioteca, un teatro, sale da concerto, congressi, shopping. Tutto ciò, senza cancellare le tracce della sua storia, che rispecchia il passaggio dall’era agricola a quella industriale. Come ci spiega, in italiano, la curatrice Sara Petrucci, evidentemente un’oriunda, l’ambiente, prevalentemente in legno e pietra, si è dotato degli impianti tecnologici che consentono concerti, spettacoli teatrali, congressi,incontri gastronomici, adesso per forza di cose rimandati.

Insomma, manifestazioni ed eventi di alta qualità che non sono più la prerogativa dei grandi centri. È una sorta di rivalsa delle periferie rispetto a Zurigo, Basilea, Ginevra. Rappresenta un aspetto, oseremmo dire un vanto, della composita realtà elvetica, di cui si stanno moltiplicando gli esempi, e in particolare con musei coraggiosamente innovativi. Come nel caso di Coira che, secondo dati storici, sarebbe addirittura il più antico agglomerato della Svizzera. Anche qui, il nucleo storico, ben conservato, è diventato un centro vivace commercialmente e un’attrazione turistica. Ma si è saputo andare oltre quella che oggi è persino una moda: i

centri storici riabilitati sono all’ordine del giorno sul piano europeo. Ecco, infatti, la sorpresa: la sede del nuovo Museo cantonale, vera e propria icona, oggetto di accese polemiche. Inaugurata nel maggio 2016, porta la firma degli architetti Barozzi e Veiga di Barcellona, vincitori del concorso internazionale indetto nel 2011. Sorge a fianco della Villa Planta, tipica costruzione signorile fine ’800, già abitazione di Jacques Ambrosius von Planta, commerciante che aveva fatto fortuna in Egitto e innamorato dell’orientalismo. Acquistata dal Cantone, nel 1957, restaurata da Peter Zumthor negli anni 90, ospita il Museo retico, depositario delle tradizioni locali. Mentre, l’arte moderna e contemporanea, trova posto dietro la bianca facciata bugnata, a effetto diamante, inventata dagli architetti spagnoli. Niente di stridente in quest’accostamento. Anzi, conferma la continuità dell’arte, nelle sue migliori espressioni. Certo, per concludere, ne ha fatto di strada l’istituzione museo. Si pensi al più rappresentativo, il British Museum, esempio di architettura neoclassica fine 18.mo secolo, e rinnovato dalla geniale piazza con cupola, introdotta all’interno, ideata da Norman Forster nel 2000. Ma soprattutto, ed è quel che più conta, si pensi all’incessante proliferazione di musei, che documentano grandi e piccole civiltà, da salvare e da conoscere. La Svizzera, in proposito, se la cava bene. Con quasi un migliaio di musei, sparsi su tutto il territorio, figura fra i paesi europei meglio dotati. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Società e Territorio

Il cuore nella rete

Web Le truffe romantiche sono un fenomeno internazionale che tocca anche la Svizzera, ora un libro lo racconta

Simona Sala «Ciao, piacere di conoscerti, hai un bel sorriso», o «Buongiorno cara signora, scusi se la disturbo», o ancora «Ciao bella signora, sono David Patrick, pilota dell’American Aviation Academy». A chi non è capitato di ricevere una richiesta (solitamente educata, anche se con un italiano spesso sgangherato) di questo tenore attraverso i social, in particolar modo Facebook o il più gettonato Instagram? Istintivamente si corre alla foto di profilo, nel tentativo di individuare il mittente del gentile messaggio. Nel peggiore dei casi si tratta di bellocci altamente aitanti, a volte in divisa militare, altre in abbigliamento casual rilassato. Tizi rassicuranti, insomma, ma soprattutto con i piedi ben piantati nella propria esistenza, come raccontano le parate militari o i momenti di relax sul divano di casa immortalati dalle altre foto del profilo. Rispondere in fondo non costa niente, anche perché si ha pur sempre la certezza di rimanere nascosti dietro a uno schermo, al riparo da qualsivoglia tipo di rischio. La realtà però ci svela che non è così: dando seguito al primo messaggio dell’affascinante interlocutore (che può essere anche di sesso femmini-

Un rischio che riguarda chiunque utilizzi i social.

Il cartellone con le «foto rubate» allestito dalla trasmissione Chi l’ha visto di Rai 3; tra i volti anche quello di un ex Mister Svizzera. (Chi l’ha visto)

le, sebbene i casi siano più rari), qualche giorno dopo se ne riceverà uno nuovo, e poi un altro ancora, in un processo di riduzione dei tempi di conoscenza che porterà il misterioso corteggiatore (tale infatti ben presto si rivelerà) a essere sempre più esplicito, sia riguardo ai propri sentimenti, sia riguardo alle proprie aspettative future. E in men che non si dica la corteggiata si ritroverà con un chiodo fisso che si tramuterà in un innamoramento vero e proprio. Infatti, a chi non fa piacere ricevere il buongiorno ogni mattina e la buonanotte prima di andare a dormire? Chi non desidera potere condividere le proprie piccole preoccupazioni quotidiane con un’anima gemella che, per quanto lontana, è sempre presente e disponibile nel mondo virtuale? Queste storie d’amore del ventunesimo secolo hanno però tutte un copione simile: prima o poi via social arriva la richiesta di un sostegno finanziario. Il corteggiatore – nel frattempo diventato fidanzato – all’improvviso ha un incidente, o viene arrestato, o si vede i do-

cumenti confiscati, una cosa, insomma, che in qualche modo impedisce il decorso felice della neonata lovestory. Ma a questo punto è ormai tardi: chi è già accecato da neonati sentimenti d’amore non esiterà a rispondere alla richiesta d’aiuto finanziario proveniente da un ospedale o da una prigione, solitamente in Africa o in un Paese in guerra. Qualche anno fa la trasmissione italiana Chi l’ha visto? (Rai 3), diretta da Federica Sciarelli, cominciò ad occuparsi del fenomeno, rendendosi presto conto che si trattava di un modus operandi seriale, che le frasi utilizzate per adescare erano sempre le stesse e che dietro a tutto questo «movimento sentimentale» non vi era altri che la mafia nigeriana (quinta per importanza in Italia) che, dopo anni dedicati alla cosiddetta «truffa del principe nigeriano», aveva pensato di espandersi in altri campi. Grazie alle ricerche dei giornalisti della fortunata trasmissione si è così riusciti a ricostruire la gerarchia di una struttura piramidale sui generis che, secondo stime dell’FBI e dell’agenzia di

sicurezza informatica CrowdStrike offre lavoro a 5 milioni di persone nel solo distretto di Lagos (ma sono coinvolti nelle truffe anche Ghana, Benin e Costa d’Avorio). Ma che cosa accade esattamente, e da dove provengono i messaggi truffaldini? Fondamentalmente il processo di adescamento delle vittime si suddivide in tre fasi. Come mostrano alcuni filmati che circolano in rete, la mafia nigeriana si è dotata di enormi hangar occupati fino all’ultimo centimetro da centinaia di giovani nigeriani addetti a produrre incessantemente migliaia di richieste d’amicizia con donne e uomini di mezzo mondo. Si tratta dei cosiddetti Yahoo Boys o Café Boys: «rubano» fotografie appartenenti a profili privati di persone realmente esistenti per crearne di nuovi sotto falso nome. Sono giovani facili da reclutare, specie se si considera che questa operazione preliminare è retribuita fino a 1000 franchi al mese, quando lo stipendio medio nigeriano è di 200 franchi. Gli Yahoo Boys, che spesso dormono e

Parola d’ordine: squagliarsela! Da molti anni al timone della trasmissione Chi l’ha visto, la giornalista Federica Sciarelli ha da sempre una sensibilità particolare verso quelle che sono le insidie della quotidianità. Ci ha raccontato come è nata l’inchiesta sulle truffe romantiche. Federica Sciarelli, quando avete cominciato a occuparvi di truffe amorose avete aperto un vaso di Pandora... Quale sensazione resta dopo un’inchiesta di questo tipo?

Alcune persone avevano chiesto al nostro giornalista Ercole Rocchetti di parlare di queste truffe per mettere in guardia le donne. Quando abbiamo iniziato a occuparcene, parecchi anni or sono, non sapevamo quanto fosse esteso il fenomeno. Abbiamo quindi deciso di proseguire con l’inchiesta cercando di far capire al pubblico che si trattava di mafia nigeriana, ossia di un’organizzazione criminale, e non, come mi piace sottolineare, di una ridistribuzione di soldi tra il mondo più ricco occidentale e i poveri dell’Africa. Ora però succede una cosa surreale: ogni giorno donne e uomini inviano foto all’indirizzo 8262@rai.it chiedendoci di verificare se sono state rubate. Siete gli unici ad avere allestito un «cartellone» delle foto rubate?

Dal momento che siamo quelli che hanno scoperto il vaso di Pandora

siamo andati avanti, e con Marina Borrometi, Veronica Briganti ed Ercole Rocchetti abbiamo pensato di fare una cosa utile realizzando un tabellone. Abbiamo iniziato con 20 immagini, e ora ne abbiamo oltre cento. Sul tabellone si può vedere se c’è la fotografia della persona con cui si corrisponde. I truffatori si sono mai fatti vivi?

nei social ci vorrebbe più controllo: se a un’immagine corrispondono venti o trenta nomi diversi dovrebbe essere chiaro che si tratta di profili falsi e di fotografie rubate. Negli uffici Western Union potrebbero appendere il nostro tabellone, così prima di inviare i soldi in Africa a uno sconosciuto che in realtà è un truffatore, la gente ci penserebbe due volte.

In rete è arrivato qualche messaggio da parte dei truffatori contro Ercole. L’imprenditore dell’Azerbaigian le cui foto rubate vanno per la maggiore in Italia – e che è venuto anche in trasmissione a dichiarare di essere felicemente sposato – è riuscito a entrare in contatto con alcuni ragazzi nigeriani, i cosiddetti Yahoo Boys: questi l’hanno preso in giro ringraziandolo per i soldi che hanno intascato grazie a lui; non si vergognano e non temono denunce.

Le chiamiamo così perché è necessario dare dei titoli: le truffe sono romantiche nel senso che questi truffatori dicono delle cose romantiche. Dovremmo chiamarle truffe criminali o qualcosa di più duro, ma volevano fare capire che queste truffe non riguardano la macchina, il computer o il cellulare.

Il problema è lo stesso dei furti in casa: si fa una denuncia, ma poi che succede? È difficile risalire a queste persone perché si tratta di casi molto complicati e le truffe sono ben organizzate. Recuperare i soldi è praticamente impossibile. Io però consiglio sempre di denunciare perché si spera che le istituzioni presto o tardi troveranno un modo di fronteggiarle. Più denunce ci sono e meglio è. Anche

I truffatori sono sicuramente molto bravi ed entrano nella vita piano piano. In un mondo in cui vanno tutti di corsa e magari non si è più giovanissimi, è piacevole ricevere tante attenzioni, e i truffatori fanno leva su questo. Le donne poi per natura sono molto generose. Nel nostro libro c’è il caso della psicologa che aveva capito come dietro al suo amore si nascondesse un truffatore,

C’è reticenza a denunciare?

L’appellativo di truffe romantiche non è un po’ fuorviante?

Secondo lei perché le donne ci cascano serialmente, indipendentemente dal grado di istruzione?

eppure è andata a prenderselo e se l’è portato in Italia.

Questi truffatori sembrano avere una buona preparazione…

I truffatori sfruttano le fotografie degli utenti dei social particolarmente attivi e ne fanno una sceneggiatura. Prendiamo per esempio l’italiano Massimiliano Titone, un uomo di Alcamo con una vita social pazzesca, che pubblica foto con i nipoti, con il cane, il gatto, perfino all’ospedale con la flebo: con tutte queste fotografie i truffatori hanno potuto fare una sceneggiatura talmente verosimile che si finisce per cascarci.

Dev’essere uno choc vedere in televisione la persona amata e scoprire che non si tratta di chi si pensava…

La maggior parte delle donne sono arrabbiatissime, umiliate e offese. Faranno fatica a innamorarsi di nuovo. Alcune donne si riprendono grazie a una struttura familiare forte, altre stanno davvero male, dipende dalle situazioni individuali. Come consiglierebbe di comportarsi a chi riceve una richiesta di amicizia sospetta?

Direi di chiedere ad esempio com’è il tempo a Lagos, o com’è la Nigeria, e poi di squagliarsela! Le donne con cui abbiamo parlato dicono che bisogna stare attentissime perché «loro» sono talmente bravi che alla fine ci si casca comunque.

mangiano negli hangar in cui lavorano, sono talmente veloci da riuscire a seguire numerose chat contemporaneamente. Una volta che la vittima è saldamente adescata, il suo nominativo viene «passato» a un livello superiore, dove si imbastirà una «pseudorelazione», rafforzando la dipendenza amorosa. Si tratta di convincere la vittima della serietà delle proprie intenzioni e dell’autenticità del desiderio di costruire un futuro insieme. In questa fase entra in gioco personale più qualificato (la disoccupazione nigeriana del 23% offre un vasto bacino di manodopera), possibilmente con una specializzazione in psicologia o neurolinguistica, dunque in possesso degli strumenti necessari al consolidamento della relazione virtuale. Quando anche questa fase è superata, la vittima finirà in mano ai «carnefici» veri e propri, ossia a chi è addetto alla formulazione delle richieste finanziarie. Il fenomeno, di cui si parla anche da noi, è in piena espansione, come dimostra il cartellone (v. foto) allestito dalla conduttrice Federica Sciarelli e da alcuni suoi collaboratori: sono centinaia le immagini rubate a gente di tutto il mondo al fine di costruire nuovi falsi profili attraverso cui sedurre con un metodo che assomiglia a quello della pesca a strascico. E le conseguenze sono devastanti: in Italia vi è chi è arrivato addirittura a togliersi la vita, chi è finito sul lastrico dopo avere dilapidato i propri risparmi, per non parlare dell’annichilimento emotivo e sentimentale, accompagnato spesso alla vergogna, per essere cascate e cascati in un tale inganno. «È necessario continuare a parlarne», ribadisce Sciarelli, che per mesi ha battuto il chiodo in trasmissione e ora lo fa anche attraverso un libro di recente pubblicazione. Trappole d’amore, infatti, fa un ritratto completo di un fenomeno subdolo e inquietante, colmo di insidie. Fra i pregi della pubblicazione vi è quello di proporre un approccio differenziato: alle storie vere e proprie (spesso raccontate in forma di diario) di chi coraggiosamente ha voluto raccontare la propria disavventura, si affianca l’inchiesta di Ercole Rocchetti, che scandaglia le radici del fenomeno, svelandone retroscena e lati oscuri. Ma anche l’evidenza che il pericolo è davvero dietro l’angolo, e può essere una realtà per chiunque, indipendentemente dallo status sociale o dalla formazione. Ci sono cascate psicologhe, cuoche, infermiere e casalinghe, a riprova di quanto l’amore nella vita possa essere indispensabile e di come, secondo Sciarelli, «le donne sono per natura generose».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Società e Territorio

Mantenere senza musealizzare

Anniversari La Fondazione Valle Bavona festeggia i trent’anni di attività a favore di natura, cultura e storia

Valentina Grignoli Quando si varcano le soglie della Val Bavona sembra di entrare in un mondo incantato. La Valle è un luogo incontaminato dove il tempo sembra non essere passato, nonostante una strada la percorra da Bignasco e Cavergno (le porte a sud) fin su a San Carlo. La cornice verde, i grandi massi, i muri a secco, il fiume che scorre tra pozze e cascate, e poi gli altissimi dirupi contribuiscono al fascino che emana. Insomma un locus amoenus mirabilmente preservato che tra mistero e storia fa sentire ancora oggi il turista di passaggio un privilegiato. Un museo paesaggistico a cielo aperto? Forse, ma non solo, perché la Val Bavona è ancora abitata, e quindi oltre al luogo e alle tradizioni va preservata anche la qualità di vita di chi ci vive oggi. Si impegna per tutto questo la Fondazione Valle Bavona, che da trent’anni ha come vocazione e compito la salvaguardia e protezione della valle in tutte le sue componenti. Nicoletta Dutly Bondietti, collaboratrice, ci ha accompagnato in un viaggio attraverso la storia di questa splendida valle, iniziando proprio dalla missione della Fondazione. «Nel 1983 la Valle Bavona è stata inserita nell’inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali d’importanza nazionale» ci racconta. Questo significa che i contenuti della Valle meritavano di essere conservati intatti e rispettati nel suo insieme, ed era la Confederazione a salvaguardarne le condizioni, d’intesa con il Cantone e in collaborazione con le autorità locali.

«Riportiamo in vita e manteniamo le tradizioni a scopo divulgativo non solo per i turisti ma anche e soprattutto per la gente del posto, per le scuole» Nel 1985 è stato poi approvato dal Cantone il Piano Regolatore (PRVB), strumento adeguato per la salvaguardia dei valori naturalistici e paesaggistici della valle e allo stesso tempo alla loro promozione nell’interesse della popolazione indigena. Il PR prevedeva l’istituzione di una Fondazione (nata poi nel 1990) e di un gruppo di lavoro ad

hoc (oggi Gruppo operativo) che le garantisse, insieme agli allora comuni di Bignasco e Cavergno, la consulenza per la gestione esecutiva delle norme. «La valle necessitava di un riguardo speciale, perché si era conservata in modo molto genuino. Era necessario farne uno studio approfondito, un piano regolatore molto particolareggiato, unico. Il gruppo operativo si ritrova oggi una volta al mese per affiancare il comune di Cevio nell’affrontare tutto quanto avviene in Val Bavona, come le domande di costruzione, la consulenza ai privati, o situazioni particolari quali ad esempio l’intervento dell’altalena a Foroglio». Ma la Fondazione non ha solo a cuore la parte antropica, ci racconta Nicoletta: «anche quella naturalistica. Se prima si dava tanta importanza agli interventi edilizi ora è altrettanto fondamentale tenere d’occhio la protezione e la valorizzazione della biodiversità. Un esempio significativo è il ripristino delle selve castanili, che rappresenta la relazione per eccellenza tra elemento naturale e uomo». E per quanto riguarda il patrimonio immateriale? «Pubblichiamo alcuni volumi e quaderni dedicati alla memoria culturale, l’anno scorso poi abbiamo ricordato Plinio Martini a 40 anni dalla morte. Riportiamo in vita le tradizioni a scopo divulgativo, per esempio attraverso il laboratorio per le scuole sul mondo del castagno, con la cottura della “fiàscia” (pane di castagne) nello “splüi” dal forno. Certo non è la pagnottona di una volta che doveva durare un mese, lo si fa a scopo didattico». Qual è la sfida principale di una fondazione come la vostra? «Mantenere senza musealizzare. Una divulgazione non prevista solo per i turisti ma anche per la gente del posto, per far capire che questa è stata una valle povera, ma di grande valore». Come ha fatto a mantenersi così intatta la Val Bavona? «Finché non sono iniziati i lavori idroelettrici (Ofima) negli anni 60 a Robiei non c’era la strada carrozzabile da Cavergno. Prima di allora per costruire si usava quello che si aveva sul posto, pietre e legna. C’era sì il trenino della Valmaggina (fino al 1964) che arrivava a Bignasco, poi tutto andava portato a spalle. Quando sono iniziati i lavori alla centrale idroelettrica, paradossalmente nelle Terre non hanno voluto l’elettricità. Ancora oggi tutte le Terre da Mondada a Sonlerto non ce l’hanno. Solo San Carlo (che, come Robiei, si trova su territorio di Bignasco). Un’altra sfida è stata l’avvento del

La Splüia Bèla a Puntìd. (Archivio Fondazione Valle Bavona)

pannello solare: come fare per renderlo estetico? Sono state trovate soluzioni in modo da nasconderli il meglio possibile. La strada e l’afflusso di turisti hanno cambiato la conformazione della Valle. Ma la popolazione ha sempre voluto mantenere quello che aveva». Come Fondazione supportate anche gli anziani che hanno visto cambiare il mondo, la valle? «Il libro Terre di Val Bavona porta testimonianze molto importanti per ogni Terra. Poi da qualche anno abbiamo il Totem RSI Alta Valle Maggia, e regolarmente proponiamo pomeriggi o serate, anche in Casa Anziani a Cevio. Si cerca di fare in modo che la gente racconti ancora quello che si ricorda». Quest’anno ricorrono i 30 anni dalla nascita della Fondazione, filo conduttore della ricorrenza è «Uno spettacolo di paesaggio – Trent’anni a favore di natura, cultura e storia». Purtroppo molti eventi sono slittati alla prossima primavera. Un’iniziativa però avvenuta è la passeggiata da San Carlo a Bignasco, lungo il sentiero della transumanza. «È il percorso che facevano le persone. Si passava l’inverno a Cavergno o Bignasco, poi già a febbraio

si spostavano le capre in valle, andando giornalmente a vederle. C’era quindi un sentiero di fondovalle percorso continuamente, si entrava con la farina per la polenta e si usciva col formaggio. I sentieri proseguivano poi verso i monti e da giugno a inizio settembre si saliva da lì agli alpi, per poi ridiscendere e fare il percorso contrario, tornando in paese a inizio dicembre. Per questo viene chiamato il sentiero della transumanza, lungo il quale passavano continuamente persone e animali. Poche mucche e tante capre, per via della conformazione del paesaggio molto ripido e scosceso, pieno di massi. Ora questo sentiero è stato ripristinato e corretto in certi punti, verso quegli elementi antropici molto particolari come gli splüi, i prati pensili, o oggetti particolari da vedere, come le fornaci». Popolazione che cambia, una società che passa dalla sussistenza al lavoro nel settore primario. Poi i lavori nell’azienda idroelettrica, nelle cave. «Una parte della popolazione ha mantenuto lo stretto legame con la campagna, con il lavoro del contadino, che però oggi è sempre più raro». Anche il territorio evolve: «Ora c’è tanto bosco, i

prati sono stati riassorbiti. Il fondovalle è ancora bello perché la Fondazione si impegna a mantenere gli spazi aperti. Se li lasciamo andare tutto si racchiude e si perdono un’infinità di informazioni, culturali e architettoniche, ma anche il patrimonio naturalistico e l’equilibrio della natura. Come Fondazione facciamo capo a contadini e privati, e dove non arrivano loro promuoviamo campi di volontariato internazionali per gestire il territorio». Mi ha parlato spesso di splüi, Nicoletta Dutly Bondietti, di cosa si tratta esattamente? «Costruzioni sotto le rocce! Ci sono diverse tipologie: le cantine, scavate sotto queste enormi rocce, le stalle, piccole case, luoghi per tessere, il forno... La presenza di questi massi è talmente imponente che l’uomo ha dovuto utilizzarli meglio che poteva. Sopra ci hanno portato la terra e la si coltivava». Insomma, una delle caratteristiche tra le più imponenti di questa Valle che non cessa di stupire. Informazioni

www.bavona.ch

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Peter H. Reynolds, Fatti sentire!, Il Castoro. Da 4 anni Prezioso, questo invito al farsi sentire. Che non vuol dire «imponiti», né «alza la voce». Anzi. A volte «anche un sussurro può cambiare le cose». E ci si può fare sentire anche con le azioni, o con la creatività, non solo con la voce. L’importante è credere che il contributo di ciascuno, per quanto piccolo, possa contribuire a rendere il mondo un posto migliore. Fosse anche di un pochino. Un libro che va dritto al cuore, come tutti quelli di Peter Hamilton Reynolds, che non raccontano storie ma parlano della vita. O meglio, raccontano la storia della vita, con semplicità, ma con un senso filosofico profondo. In questo caso, invitando i bambini non solo a credere in se stessi, al potere rivoluzionario della propria voce, ma anche ad avere il coraggio di sostituire all’indifferenza e all’omertà del «perché proprio io?», la forza del «perché non io?». Così, se «vedi una persona tutta sola... fatti sentire... standole vicino»; «se qualcuno fa il

violento... vai e fatti sentire». Altre volte il fatti sentire è più sul versante artistico: «se hai una tela bianca... fatti sentire con il pennello e i colori» (e qui vediamo citato uno dei libri più noti di Reynolds, Il punto); o sul versante emotivo: «spiega agli altri cosa provi»; o ancora sul versante del proprio stile, della propria identità. Sono tante le modalità del «farsi sentire» a cui Reynolds invita, ma tutte ispirate non certo alla prevaricazione

dell’altro, ma alla bellezza di riconoscersi voci diverse nel grande coro del mondo, ognuna potenzialmente in grado di migliorarlo un po’. Giuseppe Festa, Ursula, Editoriale Scienza. Da 7 anni Giuseppe Festa, naturalista, scrittore e musicista, si è fatto conoscere dal pubblico dei ragazzi nel 2013, con il romanzo Il passaggio dell’orso (Salani), un’avventura tinta di giallo nel Parco Nazionale dell’Abruzzo, a cui sono seguiti altri romanzi di successo, rivolti agli adolescenti e anche agli adulti, accomunati dal fatto di essere «en plein air» e di avere il mondo vegetale e animale non solo come sfondo, ma proprio come protagonista. Gli orsi, ma anche i lupi, sono argomenti centrali nelle sue storie. Con Editoriale Scienza, Giuseppe Festa racconta ancora storie di lupi e di orsi, ma rivolte ad un pubblico più giovane: sono infatti i bambini da 6/7 anni i destinatari di Lupinella. La vita di una lupa nei boschi delle Alpi, uscito nel 2018, e

del recente Ursula. La vita di un’orsa nei boschi d’Italia, uscito quest’anno. Come in Lupinella, anche in Ursula è la giovane protagonista a raccontare in prima persona la sua storia. Il piccolo lettore segue quindi direttamente dal punto di vista della piccola orsa tutto ciò che succede: sono sensazioni olfattive, uditive, tattili. All’inizio legate quasi esclusivamente alla tana

e alla mamma, poi, nei 2 anni in cui si svolgono le vicende, il raggio d’azione e di percezione si allargherà sempre più, sia in termini spaziali (il territorio attorno), sia temporali (l’alternarsi delle stagioni), sia relazionali (i nuovi incontri). Ci congederemo da Ursula quando sarà pronta per vivere da sola, affrontando la separazione dalla mamma. Una separazione graduale, dapprima in un territorio vicino, finché, verso i 5 anni, Ursula sarà pronta ad avere una famiglia sua, come apprendiamo dai commenti scientifici dell’«Orsologa Valentina», una delle ricercatrici del MUSE-Museo delle Scienze di Trento, che ha collaborato al libro. Un libro sugli orsi bruni che interesserà molto i bambini, anche grazie al triplice, ben integrato, apporto dei suoi realizzatori: Giuseppe Festa per il testo narrativo, il MUSE di Trento per gli approfondimenti scientifici e non da ultimo Mariachiara Di Giorgio per le bellissime illustrazioni. Non manca un’appendice di giochi e attività da fare nella natura.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Cultura: identica e sovrana Uno degli effetti collaterali di quello straordinario periodo di cambiamento culturale inaugurato dal cosiddetto Sessantotto fu il revival delle minoranze etno-linguistiche di tutta Europa. Il fenomeno rimase largamente... minoritario, ma investì inaspettato l’intero continente. Sami scandinavi, baschi e catalani di qua e di là dai Pirenei, Bretoni, Gallesi e «Celti» di ogni sorta, Provenzali, Occitani, Arpitani e Franco-Provenzali – i misteriosi Frisoni ed i remoti Galleghi ed Asturiani – poi per altri e più drammatici versi gli stessi Irlandesi dell’Ulster e i Fiamminghi del Belgio... insomma, una foresta di nuove bandiere di nazioni minoritarie scuoteva i confini statali consolidati dai massacri delle due guerre mondiali per proporre un rimescolamento delle carte. Era un movimento allo stesso tempo drammatico e gioioso. Gli stessi esiti violenti delle prime rivendicazioni nei paesi baschi e in Irlanda facevano sperare gli utopisti più avventurosi e sognatori in una rapida soluzione

dei conflitti nel quadro di un’Europa democratica e federale di nazioni libere e sovrane oltre le camicie di forza della forma-Stato che per molti aveva concluso la sua parabola storica. A Sud delle Alpi l’Articolo 6 di quella che molti vogliono essere la costituzione più bella (e inapplicata) del mondo recitava con un’improvvisa ed inedita autorità «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Detto ma non ancora fatto: slavi e croati, albanesi, grecanici e griki, ladini e friulani, walser e brigaschi, valdostani, arpitani e franco-provenzali in diaspora dagli occitani coi quali non volevano essere confusi – per non far menzione di quante altre comunità a quel tempo tentarono di accreditarsi come minoranze – era un fiorire di bandiere nazionali sui campanili di un Gran Pavese che il Bel Paese (il gioco di parole è troppo ghiotto) inalberava a celebrazione di una democrazia confusa però perlomeno variopinta. Al centro delle rivendicazioni il concetto di Cultura. Erano quelli,

peraltro, gli anni nei quali il grande pubblico scopriva l’antropologia – la disciplina che aveva nel cuore storico – ed aveva a cuore – il concetto di Cultura come base della diversità delle formazioni sociali di ogni lingua e colore. In quegli anni Lévi-Strauss non era solo una marca di jeans e qualcuno lo leggeva pure. Altri rimanevano fulminati da Carlos Castaneda e dai fumi emanati da una pseudoletteratura esotizzante figlia dei fiori e dei Peter Kolosimo. Si trattò di un lungo momento nel quale «essere minoranza» era dignum et justum. La tutela, la difesa e la promozione delle tradizioni culturali – se e soprattutto se «in via di estinzione» – testimonianza di libertà, tolleranza e democrazia compiuta. Nel 1973 sarebbe uscito il popolarissimo Small is Beautiful di Ernst Friedrich Schumacher: insomma la Cultura che ancora appariva conservata dalle Piccole Patrie attraeva – a torto o a ragione, ma non è questo il luogo per dibatterne – come garanzia di diversità culturale di fronte alle minacce

del mondo massificato sul quale già si levavano le ombre sinistre della globalizzazione prossima ventura. Insomma, per un Attimo Corto nel Secolo Breve sembrava che la Cultura – la stessa delle ricette della nonna e del Canto Popolare intonato in lingue non più sottovoce – ci avrebbe salvato dall’omologazione. A distanza di mezzo secolo quel modo di leggere le dinamiche storiche ha dovuto convertire quell’antropologia in altropologia. Poiché sono cambiate non solo le carte, ma anche il gioco su di un tavolo radicalmente rovesciato. Il Bel Paese – quello della Bella Costituzione che ama e cura le minoranze – è investito dall’onda del Sovranismo che rivendica a sé la tutela, difesa e promozione della Cultura Nazionale. Il tornado populista che oggi, 21 settembre, secondo ogni previsione canterà vittoria rivoluzionaria un taglio delle spese parlamentari ad impatto pressoché zero, procede verso il Sol dell’Avvenire mano nella mano (sì, poiché accompagnato dal negazionismo complottista

antivaccinale che nega l’esistenza del Virus e dunque non rispetta la distanza sociale) con la rivendicazione del diritto che la Cultura Nazionale avrebbe di proteggersi dai contagi minoritari. Si è scoperta la biodiversità di nematelminti e platelminti (trattasi di vermi) e la si vuole giustamente tutelare. Così come si vuole oggi tutelare una fantomatica «cultura della maggioranza» dall’infezione di subdoli agenti esterni, portatori insani di pericolose culture di minoranza degne – quelle – di scomparire. Il tavolo da gioco è stato rovesciato, e delle speranze nuove che conoscemmo in un passato seppur difficile almeno colorato rien ne va plus. L’Altropologo dubita fortemente che esista un qualcosa che si possa chiamare «cultura nazionale» in un Paese che ha visto nazioni di ogni ordine grado e colore contribuire a quel che siamo. Sovrani sì, oggi come sempre, di contribuire ovunque si sia e ovunque si vada, a pari merito, e chi più ne ha più ne metta. E dunque anche a casa nostra, senza paura.

tempo collegati con cellulari e video che li portavano lontano, in un altro spazio, quello virtuale. A 14 anni tutte le ragazze sono innamorate dell’amore e, soprattutto le lettrici di romanzi come Sofia, non fanno che fantasticare su quelle vicende, identificandosi con le protagoniste. Ricordo che alla sua età mi comportavo come uno zombie: facevo i compiti, apparecchiavo la tavola, accompagnavo la mamma a fare la spesa ma in realtà ero Rossella O’Hara che, amata appassionatamente dall’affascinante avventuriero Rhett Butler, si ostina per tutta la vita a desiderare il pallido aristocratico Ashley Wilkes. Il sogno d’amore precede da sempre l’incontro con l’amato. In una bella scena del film Ovo sodo, un’adolescente, commentando il suo primo turbamento dice: «non sapevo quello che volevo ma lo volevo tanto!». Questa specie d’introduzione serve a preparare i giovani all’incontro reale, quando dovranno trovare pensieri e parole per trasformare un incontro casuale in una esperienza significativa, degna di essere, non solo vissuta, ma anche raccontata

e ricordata nella propria biografia. Ora mi sembra che le due ragazzine, Sofia e Irene, siano alle prese con un fatto che, anche se in modo diverso, le ha turbate profondamente: un evento imprevisto nello svolgimento del sogno d’amore e, proprio per questo, particolarmente avvincente. Se hanno parlato tanto è perché sentivano il bisogno di capire la complessità dei rapporti umani, di mettere a punto la loro identità e di comprendere l’orientamento della loro sessualità. La sessualità umana è prevalentemente maschile o femminile ma non esclusivamente. Esistono zone d’ombra ove le due componenti ora si fondono, ora si separano. Un tempo la morale e l’educazione imponevano uno schieramento preciso, ma ora viviamo in una «società liquida» e i giovani devono fare chiarezza dentro di sé, imparare a interrogarsi anche, e soprattutto, parlando tra di loro. Si comprende davvero solo ciò che si condivide. Probabilmente quello che hanno fatto le due amiche durante le loro interminabili conversazioni è stato un percorso di formazione, un cammino verso l’età adulta.

Se consideriamo la costruzione di sé e la relazione con gli altri un compito evolutivo, ci rendiamo conto che non è il caso né di colpevolizzarle né di separarle. Ha ragione sua figlia a rifiutarsi di intervenire in modo autoritario, come si sarebbe fatto un tempo. Difficilmente questi turbamenti giovanili, teatri di prova del proprio futuro, possono cambiare l’orientamento sessuale delle persone. L’omosessualità non è contagiosa. Servono piuttosto a comprendere i propri desideri e ad accettarli con senso di responsabilità, valutando le loro conseguenze. Segnalo a Sofia «lettrice forte» e, se crede, a Irene un libro appena uscito Colpo su colpo di Riccardo Gazzaniga che, affronta, tra l’altro, anche il problema del bullismo che spesso colpisce chi esce dal coro.

nel contesto urbano e, naturalmente, i saggi di fine anno e fine ciclo con spettacoli, concerti, sfilate, aperti al pubblico, autorità politiche comprese. Dopo di che, la scuola trovava continuità con le colonie estive. Comune denominatore, in tutte queste attività, l’esigenza di riunirsi per condividere le contrastanti emozioni provocate da successi o insuccessi, lungo un itinerario percorso con altri: insieme e vicini nella diversità potrebbero essere, al di là della retorica, le parole emblema di una scuola, a volte idealizzata. Com’è successo, negli ultimi mesi, quando il lockdown ha trovato proprio nella scuola la sua vittima più illustre. E chiacchierata. Scuole chiuse, scuole aperte, del tutto o parzialmente, insegnamento dal vivo o digitale, e via enumerando i temi più dibattuti sul piano mediatico e politico. Senza finire

nel grottesco, com’è avvenuto in Italia, con la vicenda dei banchi a rotelle, anche da noi la scuola ha preso il via in un clima di incertezze e contraddizioni, con sfumature di ridicolo. Basta, insomma, un colpo di tosse o uno starnuto a turbare lo svolgimento di una lezione, comunque decurtata, per via delle nuove regole igieniche. Ma, non sono queste le ricadute più preoccupanti della pandemia sul piano scolastico. È il clima psicologico, mentale, persino ideologico che concerne la scuola, di cui appunto il primo giorno è stato rivelatore. Celebrato, in sordina, senz’allegria. Insomma niente goliardia, del resto in disuso, ormai da decenni. E meno male, verrebbe da dire, ricordando il rito della matricola che sottoponeva il neofita a prove stupide e persino umilianti: anche scherzare è un’arte difficile. Festeggiamenti a parte,

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il cammino verso l’età adulta Gentile Professoressa, sono mamma di tre figli e nonna di cinque nipoti. Alcuni vivono lontani mentre Sofia, 14 anni, si può dire che l’ho cresciuta io. Da quando è alle superiori però viene a stare con me solo d’estate. Anche quest’anno abbiamo passato insieme due mesi. Problemi non ce ne sono mai stati. È una bambina timida, silenziosa, che non ha bisogno di compagnia tanto che non ha né amici né amiche del cuore. In compenso legge molti romanzi. Solo una sua compagna di classe, Irene, la invita ogni tanto a fare i compiti o qualche piccolo acquisto, ma di amicizia vera e propria non si può parlare. Irene sembra molto più grande di Sofia. Fuma di nascosto, si veste in modo strano, si è tinta le unghie e i capelli di viola e pare che ha molti fidanzatini. I genitori, che sono separati, le lasciano fare tutto quello che vuole. A me non è mai piaciuta ma, visto che è l’unica amica di Sofia, mia figlia ha deciso di lasciargliela frequentare. Di solito durante le vacanze si sentivano poco o niente ma quest’anno è stata tutta una telefonata: ore e ore di chiacchiere, da una parte sola però perché mentre

Irene non taceva mai, Sofia ascoltava e sussurrava qualche brevissima risposta. Ero incuriosita ma non avevo il coraggio di ascoltare di nascosto. È stata mia nipote che una sera, a cena, mi ha confidato che Irene si è innamorata di una ragazza e si sono baciate. A questo punto mi sono preoccupata e, le dico la verità, se fosse per me, le avrei ordinato di troncare subito un’amicizia così pericolosa. Mia figlia invece non è dello stesso parere e mi chiede di non intervenire. Forse sono troppo vecchia per capire i giovani di oggi ma mi piacerebbe sapere il suo parere. Grazie. / Nonna Maria Cara nonna, non è l’unica a non capire i giovani d’oggi, mi pare sia difficile per tutti. Sino a qualche generazione fa sapevamo più o meno che cosa facevano, con chi andavano, quali erano gli amici del cuore. Ora invece la loro vita si svolge soprattutto lontano da noi. È vero che durante l’emergenza del Coronavirus li abbiamo avuti sempre vicini, anche troppo, ma era una vicinanza fisica più che psicologica perché, di fatto, erano tutto il

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Un primo giorno senz’allegria Più di ogni altra ricorrenza, imposta dal calendario civile o religioso, l’inizio dell’anno scolastico suscita emozioni spontanee e lascia un segno indelebile nella memoria. Soprattutto quando si tratta del primo giorno in assoluto. Proprio nell’aula della prima classe elementare, avviene, del resto, un passaggio, decisivo nella nostra crescita: dal limbo dell’infanzia alla consapevolezza di un giovanissimo adulto, in grado di apprendere, ragionare e ricordare. E così questa giornata, sempre più lontana, diventa un punto di riferimento stabile nella nostra storia personale, in cui si rispecchiano anche le condizioni ambientali del momento. Nella mia personale esperienza, con quel primo giorno di tanti decenni fa rivive l’edificio color ocra delle elementari e maggiori comunali di Lugano centro, oggi demolito. Che fosse bello

o brutto, funzionale o inadatto, poco m’importava. Quel che contava invece, come emerge appunto dalla memoria, era la vita in aula, dove avevo scoperto, da figlia unica, il piacere dello stare insieme, dell’amicizia, persino dell’ incontro con i «ragazzacci di Sassello», cresciuti in un quartiere, per così dire «off limits», rispetto alla Lugano piccolo borghese, da cui provenivo. Allora non si parlava d’integrazione, il socialese era di là da venire. A suo modo, però, la vecchia scuola pubblica la praticava già, moltiplicando le occasioni collettive e, in pari tempo, rispettose dell’individualità. Oltre alle lezioni, affidate alla capacità comunicativa di maestri, privi di supporti tecnologici (a parte un malandato proiettore di diapositive), il calendario scolastico prevedeva gite in battello, visite a mulini e fattorie superstiti

le restrizioni adottate nelle università se, si spera, salvaguardano la salute, d’altro canto creano difficoltà imbarazzanti. Come osservare la distanza negli studi di medicina dove il contatto fisico è determinante? La distanza rappresenta, infatti, il principale ostacolo nelle relazioni didattiche, fra docente e allievi e, non da ultimo, nei rapporti quotidiani fra gli studenti. Trovarsi di persona per confrontare opinioni o risultati di ricerche rimane un fattore insostituibile. Lo confermano le dichiarazioni dei diretti interessanti, studenti dell’università e del politecnico di Zurigo, pubblicate nel domenicale della NZZ, sotto un titolo ironicamente allusivo «Dov’è finita l’allegra vita studentesca?». Sarà più noiosa la condizione studentesca di oggi, però continua ad attirare. La popolazione universitaria ha toccato quota 260’000, un nuovo primato.


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Ambiente e Benessere In moto verso nord In sella a una mitica Royal Enfield i nostri viaggiatori si avventurano fino al Baltico

Prede e predatori La paura del lupo e di altri animali selvatici è atavica, ma il maggior predatore resta l’uomo e il maggior pericolo per l’uomo la zanzara

Crostate salate e dolci Sembra sia una delle torte più amate in Italia: certo è una delle più versatili e saporite pagina 25

È l’auto più bella ma non c’è Pure se ancora sulla carta, il progetto della Lucid si appresta a brillare tra i veicoli elettrici

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Il Filo di speranza

Salute Un’associazione tende la mano a chi

soffre di dolori neuropatici specifici

Maria Grazia Buletti «Nel corso di una visita ginecologica, presumibilmente a causa di una manovra maldestra dell’assistente, ho provato un dolore fortissimo che dopo due giorni si è tramutato in un bruciore lancinante che a sua volta è diventato cronico. Tutto ciò ha reso la mia vita un inferno, oltre che per il male continuo, anche per i pregiudizi che questo tipo di situazione causava nei miei confronti». È la voce di Elena, mentre racconta come è iniziato il suo calvario che oggi ha un nome, nevralgia del nervo pudendo, e una neocostituita associazione, Filo di speranza, votata a sensibilizzare chi ne soffre (e tutta la popolazione) su una patologia per la verità poco nota e per questo spesso causa di incomprensioni e pregiudizi sociali verso chi malauguratamente ne è afflitto. Per meglio comprendere l’importanza dell’associazione che si occupa di questa patologia nevralgica per lo più sconosciuta, bisogna innanzitutto sapere che per questo tipo di dolori acuti è sufficiente poco tempo affinché il cervello li registri e li ricordi, continuando a reiterarli anche dopo che è passato l’evento che li ha causati. È inoltre importante conoscerne l’epidemiologia e le cause, oltre che gli effetti devastanti di una presa a carico terapeutica inadeguata come spesso ancora avviene. «Si stima che l’11-15 percento della popolazione ne sia affetta, uomini e donne, con prevalenza femminile. Ma la sua diffusione è spesso sottostimata: alcune statistiche europee parlano di un caso ogni cinquemila abitanti. Tuttavia si tratta di un dato epidemiologico non proprio attendibile perché spesso il disturbo è sottaciuto dal paziente o mal diagnosticato dal medico, essendo coinvolta la sfera genitale, con tutto il suo portato anatomico e funzionale», spiega la responsabile scientifica dell’Associazione dottoressa Caterina Podella. È la neurologa a cui è approdata Elena dopo quello da lei stessa descritto, come narrano tutte le persone che si confrontano con questa patologia: «Il calvario di un dolore bruciante, di intensità insopportabile che non si placa

giorno e notte, e che può causare forte disagio, impossibilità a sedersi e via dicendo. Un tormento che si traduce nella ricerca spasmodica di chi, senza pregiudizio e con un approccio adeguato, ci può aiutare a guarire da questi dolori invalidanti». Sebbene il disturbo sia spesso ed erroneamente considerato psicosomatico o psichiatrico, la specialista chiarisce che le cause reali devono sovente essere messe in relazione a un intrappolamento anatomico del nervo pudendo che ha un decorso piuttosto tortuoso all’interno della pelvi, contraendo rapporti anatomici con molteplici strutture muscolari e legamentose. La dottoressa Podella chiude così il quadro delle cause e della sintomatologia che portano i pazienti alla ricerca disperata di soluzioni terapeutiche adeguate: «Il dolore nevralgico può essere causato da incaute manovre ginecologiche, ostetriche o chirurgiche sul perineo, oppure derivare da insulti meccanici con traumi acuti e ripetuti sempre nella zona perineale, come in alcune attività fisiche protratte (ad esempio il ciclismo). Una lesione del nervo pudendo può infine risultare anche da infezioni, infiammazioni idiopatiche o tumori delle strutture perineali contigue». Essenziale la diagnosi che, emblematico il racconto di Elena, giunge dopo una «via crucis» da un professionista all’altro: «A un certo punto, grazie a un agopuntore sono stata a galla e ho gestito meglio le scosse elettriche, i bruciori, la mancanza di sonno causata dai dolori e via dicendo, finché una ginecologa ha diagnosticato il trauma al nervo pudendo, mentre poi di mia iniziativa sono riuscita a contattare la dottoressa Podella: la neurologa che mi ha accolta e compresa fino in fondo». Elena inizia così una terapia adeguata che, spiega la dottoressa, deve abbracciare il procedere di una medicina integrata: «Otteniamo ottimi risultati con la farmacologia del dolore, con cui lavoro da parecchi anni, unendo l’agopuntura o altre terapie dalle quali i pazienti possono trarre sollievo, verso una qualità di vita soddisfacente. Pensiamo ad esempio alla Mindfulness, lo Yoga e via dicendo: tutte tecniche molto efficaci cui oggi viene finalmente rico-

Elena Pellanda, presidente deIl’associazione, e la neurologa Caterina Podella. (S. Spinelli)

nosciuta una base neuro-scientifica». Una presa a carico terapeutica «in rete» dove un professionista fra tutti si occupa della modulazione del percorso terapeutico che è assolutamente individualizzato: «La comunicazione fra specialisti diventa essenziale, così come la verifica del percorso, perché il dolore neuropatico è estremamente complicato da affrontare: è un dolore cronico che le persone difficilmente sanno inquadrare e che per questo va curato con la multidisciplinarietà». Da qui nasce l’importanza di orientare pure i medici attivi sul territorio ai quali la persona di solito si rivolge come primo contatto: «Le diagnosi pregiudiziali nascono quando non si conosce il problema; qui giungono spesso pazienti col sintomo ma senza sospetto diagnostico». La costituzione dell’associazione Filo di speranza, associazione svizzera per la

nevralgia del pudendo e le neuropatie dolorose ha quindi un duplice obiettivo: sensibilizzare le persone su questa patologia, e nel contempo allargare le conoscenze dei curanti su un disturbo ancora troppo poco conosciuto, per questo considerato raro e di difficile diagnosi. L’idea è stata generata dalla testimonianza di Elena, localizzata sulla sua motivazione di intenti e di entusiasmo nel voler aiutare altre persone che si trovano nelle stesse condizioni, affinché trovino subito sostegno, comprensione, aiuto e non da ultimo le terapie adeguate. «Vorremmo che le persone confrontate con questa nevralgia (con gli stessi sintomi descritti) non si sentano sole e ci contattino (www.filodisperanza.ch) ; cercheremo di aiutarle e orientarle», Elena mostra con impeto il motore che l’ha fortemente portata a creare, con la dottoressa Podella, un contatto efficace per

approdare alla corretta presa a carico della nevralgia del pudendo. L’esortazione finale è condivisa fra le fondatrici di Filo di speranza: «Se vi riconoscete in alcuni o tutti i sintomi di cui abbiamo parlato, potreste essere affetti da questo disturbo: una patologia che merita la presa a carico interdisciplinare, dalla diagnosi alla terapia più adatta, affinché il paziente non si senta disperato. Bisogna sapere che esiste un percorso terapeutico nel quale il dolore diminuisce gradatamente e la guarigione diventa possibile!». Informazioni

Immersione guidata nel dolore cronico è il tema della conferenza pubblica organizzata dal sodalizio e avrà luogo con entrata libera martedì 22 settembre alla Filanda di Mendrisio, alle ore 18.30.


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Ambiente e Benessere

Il mare sbagliato

Viaggiatori d’Occidente In moto attraverso l’Europa sino al Mar Baltico

Guido Bosticco Oggi non ci sono ombrelloni, il sole non è così cattivo. Ma il vento sì, e quindi i gruppetti sulla spiaggia si riparano con quei teloni che si srotolano come striscioni da stadio e si piantano a terra con paletti di abete. Solitamente sono a righe bianche e azzurre. È pieno agosto, ma la spiaggia non è affollata. Il mare è calmo, azzurrissimo e fresco perfino, la sabbia fine e chiara si fa lambire dalla risacca senza troppo clamore. Arriva una famiglia con borsa frigo, da lontano una coppia si avvicina passeggiando con le scarpe in mano. All’orizzonte sul mare, oltre quel cargo là in fondo, pare di scorgere qualcosa. Terra. Sì, dev’essere la Svezia. Nell’estate 2020 forse questo è il mare sbagliato. Tutti sono giù nel Tirreno o sull’Adriatico organizzato e safe. C’è da dire però che qui il distanziamento è assicurato.

Le vacanze all'epoca del Covid chiedono di ripensare i percorsi e magari sperimentare dei nuovi itinerari Słowinski Park, costa nord della Polonia, non lontano da Danzica. Il Baltico nei giorni di sole sembra un Mare del sud, impressioni momentanee: il resto dell’anno è freddo e nebbia. Ma la cittadina di Łeba oggi espone canotti e teli mare, le gelaterie hanno la fila, i bagnanti si dividono fra il Baltico e il grande lago di Łebsko alle sue spalle. In mezzo c’è uno dei luoghi più curiosi della Polonia, un piccolo deserto fatto di dune «mobili», così le definiscono per i continui mutamenti di forma dovuti ai venti. Qui la Volpe del deserto, il generale nazista Erwin

Praga, una casa del centro e un dettaglio della facciata, il Golem, l’antico Municipio e una testa di donna di Alfons Mucha. (Sara Pellicoro)

Rommel, allenò i soldati dell’Afrikakorps prima della campagna in Libia. Oggi i turisti passeggiano e scattano selfie in uno scenario di luce accecante a dir poco inaspettato a queste latitudini. Solo pochi giorni fa la Royal Enfield, storica moto indiana per chi non ha fretta, rimasta praticamente identica dagli anni Cinquanta ad oggi, varcava le Dolomiti borbottando sicura con i suoi due passeggeri in sella, in una domenica di sole. Questo nostro viaggio è stato il risultato di una serie di veti e divieti. Dapprima abbiamo pensato al progetto ardito di una Tangeri-Dakar, ma qualsiasi spostamento fuori dall’Europa sembrava impossibile. Poi l’ipotesi del Mar Nero sulle orme dei Traci, naufragato per il diffondersi del contagio nei Balcani. E allora, Europa settentrionale sia. Dalle Dolomiti a

Ponte di Tumski a Wrocław e la piantina dell’Abbazia di Lubia˛ż. (Sara Pellicoro)

La chiesa della Pace di Świdnica interamente in legno senza chiodi. (SP)

Murale su una casa di Innsbruck. (Sara Pellicoro)

Innsbruck, che approfitta dei pochi turisti per rifarsi il look nelle vie del centro, poi Monaco di Baviera, che ogni anno sembra diventare più elegante, e in tre giorni si arriva a Praga. Pausa. La moto sta al sicuro nel parcheggio dell’hotel (a proposito, di questi tempi, anche per chi viaggia con budget ristretti si aprono le porte di alberghi mica male), scarpe buone e un quaderno di appunti, come recita il titolo di un libretto di Čechov per aspiranti reporter di viaggio, e Praga da scandagliare. Inutile fare troppo gli originali: quando ci si trova in città come queste, i percorsi turistici standard sono inevitabili. Si tratta semmai di esplorarli con curiosità, senza fretta, seguendo i propri interessi e selezionando molto. Così per un pilota-filosofo e una calligrafa-illustratrice (questi i ruoli assunti in viaggio), non può mancare una giornata dedicata al Monastero di Strahov, che ospita due sontuose biblioteche barocche colme di manoscritti medievali, e la «Casa Municipale», oggi prevalentemente usata per concerti ed eventi di rappresentanza, trionfo dell’art nouveau, che comprende una sala interamente progettata e realizzata da Alphonse Mucha, uno dei massimi interpreti di questo stile. La guida in lingua ceca è lo scotto da pagare al Covid: pochissimi turisti stranieri, molto movimento locale e tutta l’offerta orientata ai connazionali. Ma basta fingere di seguirla per i primi minuti e poi disperdersi da una porta laterale, per una visita in solitudine. Stessa cosa in Polonia, in Slovacchia, in Ungheria e in Slovenia, che saranno le tappe successive del viaggio. Un viaggio di città, meno on the road di altre traversate fatte con la fedele Royal Enfield, un viaggio più storico e artistico, forse più tradizionale. Ma non per questo meno sorprendente. A cominciare da Danzica, i cui cantieri navali, quelli storici della protesta di Solidarność, sono visitabi-

La ruota panoramica in Königsplatz a Monaco. (Sara Pellicoro)

li, aggirandosi fra i capannoni semidistrutti che pure oggi sono ancora attivi e producono yacht di lusso. Saranno oggetto di un grande piano di valorizzazione. Non è chiaro se da museo a cielo aperto – con polvere, pietre e vecchi macchinari che ancora parlano – si trasformeranno in un luogo più sicuro e fruibile o se in un quartiere per lo struscio, decretando la definitiva vittoria del capitalismo chic in questa terra martoriata da tutti i totalitarismi della storia. Il museo dedicato alla Seconda guerra mondiale, non lontano da quella zona, però rimette in fila per bene gli eventi e i sentimenti anche del viaggiatore più distratto. Ogni città parla dei tanti passati dolorosi della Polonia, Poznań e Toruń, patria di Copernico, Wrocław

e Cracovia, al sud, capaci di mettere in dialogo centri storici eleganti, orgogliosamente ricostruiti, come quasi tutte le città polacche, e zone supergiovani, le università votate al futuro e le tradizioni popolari, hotel di gran lusso e la rete nascosta ai turisti di «jadłodajnia», le piccole mense operaie dove mangiare con pochi spiccioli. In mezzo, una grande pianura, da attraversare veloci in moto. Vale la pena mollare le strade principali solo in Slovacchia, dove i panorami montani si offrono al piacere della guida. Il relax di questo viaggio mitteleuropeo ha però i suoi vantaggi: c’è tempo per disegnare e per scrivere, per camminare e perfino per provare il malefico monopattino elettrico sui lunghi viali di Budapest. In fondo si tratta sempre di un mezzo a due ruote. È lecito.


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Ambiente e Benessere

Chi è il più grande predatore?

Uomo e natura La paura del lupo e di altri animali selvatici è atavica, storie e leggende la perpetuano da secoli.

Ma i dati accertati parlano un’altra lingua: la maggiore minaccia per la fauna restiamo noi e per l’umanità... la zanzara

Samantha Bourgoin Le cronache del medioevo parlano di persone uccise dai lupi, ma vi è il sospetto che diversi di questi racconti siano il frutto di insabbiamenti di ben altri crimini, il lupo essendo il colpevole ideale. All’epoca si accusavano infatti anche i gipeti di rubare agnelli e bambini e si bruciavano sul rogo migliaia di donne accusate di stregoneria e dei più orrendi crimini. In barba alla favola di Cappuccetto rosso, oggi possiamo basarci su prove più scientifiche e queste raccontano un’altra storia. Ad esempio dal Canada, dove i lupi sono oltre 60’000, e da dove da oltre mezzo secolo non si segnala alcun caso di aggressione da parte di lupi. Le statistiche sono impietose: il peggior nemico dell’uomo è la zanzara, che causa ogni anno nel mondo la morte di circa 750’000 persone. Sul secondo gradino del podio si piazza l’uomo, che uccide ogni anno quasi 440’000 dei suoi consimili. Al terzo si piazzano i serpenti con 100’000 morti e al quarto il nostro caro amico a quattro zampe, il cane, che di persone ne uccide 35’000. Il lupo si piazza al penultimo posto con appena 10 persone uccise in media ogni anno nel mondo, nota bene non persone sbranate, ma morte perché contagiate dal virus della rabbia trasmesso loro tramite il morso di un lupo malato di rabbia. Certo, e nessuno lo nega, anche la lince e il lupo sono predatori, ma le cifre delle loro prede

sono briciole nei confronti delle nostre. L’anno scorso, in Svizzera, il lupo s’è pappato 400 delle nostre capre e pecore, mentre i cacciatori nostrani gli hanno «rubato», si fa per dire, oltre 90’000 delle sue potenziali prede. Anche i nostri cani, non tenuti come si dovrebbe al guinzaglio, hanno partecipato alla mattanza, uccidendo ad esempio oltre 500 caprioli. Al massacro di selvaggina abbiamo partecipato anche con il traffico stradale e quello ferroviario: con oltre 22’000 animali selvatici finiti schiacciati sotto le nostre ruote. Va ricordato che appena un secolo fa nelle foreste svizzere non v’era praticamente più nulla da cacciare. Non solo erano stati cacciati fino all’estinzione la lince, il lupo, la lontra, il castoro, l’orso, lo stambecco, il cervo, il cinghiale, l’uro, il gipeto, l’ibis eremita, la cicogna e numerose altre specie di uccelli, anche caprioli e camosci erano quasi completamente scomparsi. A testimonianza della loro importanza nella nostra fauna elvetica, alcuni di questi animali ornano ancora oggi le nostre bandiere: l’uro (Bos primigenius) quella del Canton Uri, l’orso quella di Berna e lo stambecco quella dei Grigioni. Una volta diffusissimi in tutto l’arco alpino, gli stambecchi erano stati sterminati a causa delle superstizioni popolari. Erano infatti diventati una preda molto ambita perché si credeva che la punta delle loro corna, ridotta in polvere, servisse a combattere l’impotenza sessuale (non vi ricorda la storia dei rinoceron-

La sua presenza sul nostro territorio suscita sempre molte discussioni. (Keystone)

ti?). Il loro sangue era poi impiegato come rimedio contro i calcoli alla vescica, mentre alcune parti dello stomaco erano reputate un rimedio efficace contro la malinconia (sic!). L’ultimo manipolo di questi magnifici caprini sopravvisse alla mattanza trovando rifugio nel Gran Paradiso, l’allora riserva di caccia personale del re d’Italia. Se oggi lo stambecco è

tornato a popolare le cime delle nostre montagne lo dobbiamo ad alcuni bracconieri italiani, che nel 1906, con il malcelato beneplacito della Confederazione, rubarono dalla riserva di caccia del re due giovani femmine di stambecco e un maschio, portandoli in Svizzera, dove dapprima furono allevati e riprodotti in cattività, per poi essere rilasciati negli anni 20 del secolo

scorso nel Parco Nazionale Svizzero. Oggi i boschi svizzeri abbondano di nuovo di selvaggina e anche diverse delle specie un tempo estinte nel nostro paese stanno lentamente e timidamente tornando a popolarli, grazie alle misure di ripopolamento e di protezione adottate a livello federale. Così oggi troviamo di nuovo nel nostro paese 1600 castori, 14 coppie di gipeti, 200 coppie di cicogne, 170 linci, 80 lupi e una manciata di lontre. Si tratta tuttavia di ben poca cosa, se si considera che noi uomini e donne di questo paese siamo oltre 8 milioni e mezzo. Se oggi tutte queste specie sono protette e possono riprendersi il loro habitat, lo dobbiamo alla legge sulla caccia e sulla protezione dei mammiferi e degli uccelli selvatici varata nel 1986. A suo tempo quella legge fu approvata quasi all’unanimità dal parlamento federale perché rappresentava un buon compromesso fra gli interessi venatori e quelli di protezione delle specie. La proposta di legge sulla quale siamo chiamati a votare il 27 settembre ha invece letteralmente spaccato in due il parlamento e spinto le maggiori associazioni di protezione della natura e degli animali a lanciare con successo il referendum. Essa indebolisce infatti la protezione delle specie a rischio e rende possibile l’abbattimento di animali di specie protette, addirittura nelle stesse bandite di caccia, e ciò senza che abbiano ancora arrecato il benché minimo danno. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

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Da un paio di mesi sono uscito dalla casa dei miei genitori e adesso devo occuparmi da solo del bucato. Solo ora mi rendo conto di quanto conosca poco del lavaggio della biancheria. Dopo che le mie calze bianche sono diventate rosa, ho imparato a separare i capi secondo il colore. Ma a cosa serve l’ammorbidente? Come lo utilizzo e a cosa devo prestare attenzione? Saluti, Daniel

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Ambiente e Benessere

Una pianta grassa... che non lo è

Per il benessere degli animali

Mondoverde Il mesembriantemo forma dei bei cuscini colorati

venderà solo uova di allevamento all’aperto

Anita Negretti

Migros ha deciso di stralciare dall’assortimento tutte le uova di allevamento al suolo. In futuro venderà, abbassandone contemporaneamente il prezzo, esclusivamente uova provenienti da allevamenti all’aperto rispettosi degli animali. Ancora una volta Migros dimostra il suo spirito pionieristico: già 20 anni fa, infatti, è stata il primo grande commerciante al dettaglio svizzero a rinunciare all’offerta di uova da allevamenti in gabbia. Al più tardi entro il 2020, tutte le galline che depongono le uova in vendita da Migros avranno accesso a un pascolo. Negli allevamenti all’aperto,

Cercate una pianta decorativa, con esigenze minime, fiorita da maggio fino ai primi freddi, di rapidissimo sviluppo e che resiste per anni? Ecco a voi il mesembriantemo, che di complicato ha solo il nome: pianta ritenuta «grassa» essendo una succulenta in grado di immagazzinare acqua nelle sue carnose foglie, è molto resistente alla siccità e non solo non vi darà da fare, ma vi regalerà anche splendidi cuscini fioriti. Piantata in vasi, vasche, giardini rocciosi, aiuole o sotto la chioma di alti alberi, esige posizioni al pieno sole, scarsissime concimazioni e poche bagnature. In cambio, se lasciata indisturbata, si allargherà notevolmente, riempiendosi di fiori a forma di margherita e dagli allegri colori che variano dal fucsia al rosso, passando per l’arancio, il bianco ed il rosa declinato in molte sfumature. Appartenenti alla famiglia delle Aizoaceae, raggiungono un’altezza di 15-20 cm, foglie verde brillante e fiori portati su steli solitari, che hanno la particolarità di chiudersi la sera o nelle giornate nuvolose. Perenni, in inverno assumono una colorazione delle foglie rosso bruna, ma da marzo in avanti ritornano ad essere verdi fino ai primi di novembre.

Alimentazione D’ora in poi Migros Ticino

Un esemplare di Lampranthus multiradiatus. (Wikipedia)

Di origine Sud africana, i mesembriantemi sono in realtà un gruppo di piante estremamente simili tra di loro: Delosperma, Lampranthus e Aplenia, tutte tappezzanti perenni, con fusti carnosi e foglie dalla forma triangolare. Esistono in vendita più di 100 specie di queste piante adatte anche ai pollici più neri, e si distinguono per via del colore dei fiori o della forma delle foglie, più o meno affusolate, ma tutte caratterizzate dalla facilità della coltivazione.

Il terreno ideale dove coltivarle dovrà essere mescolato se possibile con qualche manciata di sabbia per renderlo maggiormente drenante. La propagazione di queste piante è estremamente semplice, se si ricorre alla tecnica della talea, da eseguirsi dalla primavera fino all’autunno: basterà prelevare dei rametti lunghi circa 10 cm, togliere alcune delle foglie ed interrarli per circa 3-4 cm, mantenendo il terreno umido per le prime settimane fintanto che non radicheranno.

Da oggi saranno in vendita anche nelle filiali del nostro cantone.

oltre a disporre di stalle dotate di aree coperte a clima esterno, ciascuna gallina ha accesso a 2,5 mq di pascolo. La disponibilità di un pascolo su cui razzolare e beccare ha effetti positivi sul loro benessere. E i consumatori attribuiscono molta importanza a un allevamento rispettoso degli animali. Con lo stralcio delle uova da allevamento al suolo, Migros abbassa anche il costo delle uova svizzere di allevamento all’aperto. In questo modo si va incontro ai clienti più attenti ai prezzi. Inoltre, con le uova di importazione M-Budget provenienti da allevamenti all’aperto, Migros continuerà anche in futuro a vendere le uova più convenienti su tutto il mercato svizzero. I costi supplementari saranno coperti dalla stessa Migros. Il prezzo corrisposto ai produttori resta invece invariato. Con questa misura Migros intende soddisfare la richiesta sempre crescente di uova di allevamento all’aperto. Il cambiamento necessita però di una pianificazione a lungo termine, che accordi ai produttori il tempo necessario per adattare le loro aziende. La modifica dell’assortimento avrà quindi luogo a tappe e si concluderà entro la fine del 2020. Migros Ticino, dal canto suo, si adegua a questa decisione proprio da oggi. In un paio di settimane saranno smaltite le giacenze di uova d’allevamento che eventualmente si trovassero ancora sugli scaffali. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Dioniso e il suo «doveroso» mandato

Scelto per voi

Vino nella storia Nelle vicende e nella mitologia dell’epoca classica il nettare di Bacco

ricopre un ruolo assolutamente importante

Davide Comoli Dioniso nacque da una capricciosa relazione di Zeus, il padre degli dei, con Semele, una principessa di Tebe. Il suo concepimento provocò una furibonda gelosia da parte di Era, la moglie di Zeus, che ordì un crudele disegno per sopprimere la madre e il nascituro. Ma Zeus salvò Dioniso, cucendolo nella propria coscia, naturale incubatrice fino al momento della nascita. Alla sua nascita, Dioniso fu affidato alle Ninfe della montagna di Nisa e da queste allevato in una grotta, dove lussureggianti piante di vite facevano da tappezzeria. Crebbe in assoluta libertà, tra canti e musica, girando libero tra i boschi, in perfetta assonanza con la natura, seguito ovunque da due tigri da lui ammansite, simili a due gattini. Un giorno per caso, dopo aver spremuto dei grappoli che pendevano nella grotta, versò il succo in una coppa d’oro e ne bevve a lungo. Ben presto fu preso da una certa

svagatezza e desideroso di condividere l’imprevista sensazione di giocondità ne offrì a satiri e ninfe, pervasi da una invasata vitalità. Dioniso sperimentò così il potere inebriante della bevanda e il potere generativo dell’allegria e dell’oblio. È a questo punto che esce la componente divina della sua personalità: egli non doveva e non poteva essere un edonista individualista; doveva al contrario dimostrarsi solidale con gli uomini e insegnare loro come vivere felici. Dioniso allora si veste da «missionario», scanzonato e perfino dissacrante, accompagnato dal «centauro», Sileno, che porta in mano una coppa sempre piena e sempre vuota, per insegnare agli uomini la coltivazione della vite e l’uso del vino attraversa varie regioni, Siria, Egitto, India. Il messaggio di Dioniso era semplice e allettante: trasgressione, rimozione dell’angoscia esistenziale, voglia di vivere. I suoi precetti trovarono, è vero, una benevola accoglienza in larghi

Dioniso, statua di epoca romana, 150-200 d. C. (Wikimedia Commons)

strati della società civile, ma incontrarono anche l’ostilità dei «potenti», per quel disordine e turbamento che essi generavano. Per questi motivi la sua missione non fu cosa facile; furono infatti molti ad impedire il consumo del vino che veniva considerato un pericolo per la stabilità sociale e politica. Il re di Tracia, Licurgo, utilizzò l’esercito per far prigioniere le «baccanti», e i «satiri», ma Dioniso adirato lo punì rendendolo cieco; Perseo, re di Tebe, molto preoccupato per le orge notturne che specialmente le «Menadi», (le donne seguaci di Dioniso) facevano sui monti, ne volle impedire il culto, ma venne ucciso dalla madre seguace del dio. Fu appunto per tali gesta che egli meritò di ascendere all’Olimpo e di sedere tra gli dei. Divenuto a tutti gli effetti «dio», poté concedersi qualche licenza, ebbe una relazione con Afrodite, da cui nacque Priapo, simbolo dell’esuberanza sessuale e protettore dell’orto e della vigna. Ma se un figlio integra e perfeziona la figura paterna, ecco che Priapo, ovvero i piaceri del sesso, integra a perfezione Dioniso, ovvero i piaceri dell’ebbrezza da vino. E gli uomini quale divinità «più amica» potevano avere in sorte? È giusto quindi che essi abbiano tributato a Dioniso sin dalla notte dei tempi onori degni di un siffatto dio, ebbro e folle. Celebrare il dio significò innanzitutto «trasgredire». Questo era infatti ciò che accendeva nei riti dionisiaci, dove il «menadismo», vera celebrazione della follia e dell’irrazionalità, faceva la parte del leone. La festa dionisiaca, infatti, rappresentava l’occasione per scardinare tutte le regole che tengono insieme gli individui in una società, era instaurare l’uguaglianza tra ricchi e poveri e tra i sessi diversi.

A partire dal VI sec. a.C., il culto e la stessa immagine di Dioniso, subisce una trasformazione che le fanno perdere l’aspetto primitivo e la rendono più adatta ad una società più raffinata di quel tempo, molto ben descritta nelle opere del poeta tragico greco Euripide (480-406 a.C.). Certo è che Dioniso nella società greca tra il VI-V sec. a.C., si presenta con vesti più decorose, un dio dell’eccesso e della follia collettiva, un dio in grado di sconvolgere le menti, appare senz’altro riprovevole, meglio indossare quindi vesti più borghesi. La società bene dell’epoca, dovendo comunque onorare quel grande amico dell’umanità (senza voler rinunciare al vino), per prima cosa riformò i riti dionisiaci, che diventarono semplici rappresentazioni mimiche e canore a futuro ricordo di quello che essi erano stati originariamente e poi si diedero delle norme per usare «correttamente», il vino: non bisognava bere vino novello; il vino maturo doveva essere miscelato con l’acqua, bere vino schietto era considerato un costume barbaro, bisognava evitare di ubriacarsi. A Sparta si costringevano i prigionieri Iloti a bere sino ad ubriacarsi e a mostrarsi in quello stato ai giovani spartani che imparavano a disprezzare il vino puro. Così regolato, il vino fece il suo ingresso nei salotti degli intellettuali della Grecia antica, come animatore delle serate che si trascorrevano in compagnia in casa di amici,: nasceva il «Simposio». Sì perché il Simposio nella sua forma «istituzionale», era anche una forma di intrattenimento, diciamo per gente di cultura superiore, gente che sapeva bene che il «piacere», non può dirsi completo, se non provocato dalla giusta combinazione equilibrata di tutti i sensi. Ma del «Simposio», ne parleremo prossimamente.

Friulano 2017

Il Friulano è il vino più amato dalla gente del Friuli, con il nome di Tocai è sempre stato il vino del popolo che all’osteria era solito ordinare un «taj di Tocai». Recentemente identificato con il francese Sauvignasse, è un vitigno molto versatile e spesso viene usato in uvaggi ai quali aumenta la struttura. Il Collio è una bella area di colline tappezzate di vigne e frutteti che si estende ad ovest di Gorizia lungo il confine con la Slovenia. Il Friuliano che oggi presentiamo è prodotto da Franco Blazic nella sua Azienda Agricola in località Zegla, lungo la strada del vino e delle ciliegie a Cormons, nel Collio intermedio, dove i pendii protetti dalle Prealpi Giulie e la vicinanza del mare, creano le ideali condizioni per elaborare ottimi vini bianchi. Dal colore giallo paglierino con riflessi verdolini, al primo impatto olfattivo è leggermente pungente nei richiami all’erbaceo a cui subito subentrano sentori di albicocca e mango. Al palato ritornano con evidenza le note vegetali e fruttate, ma quello che ci colpisce è la freschezza e sapidità anche in fase retrogustativa. È l’ottimo compagno per il classico prosciutto e melone, noi ve lo consigliamo con dei tagliolini agli scampi. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 24.–. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Lilian: caritas.ch/uganda-i

Lilian Ariokot (25 anni), contadina in Uganda, supera la fame


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Ambiente e Benessere

La storia delle trecento crostate Premessa metodologica. Amo il salato, e amo molto meno il dolce, non so il perché. Quasi tutti i miei amici stravedono per i dolci, io no. Che sia stato un trauma infantile, legato a un’indigestione di paste, a 12 anni, che mi creò una colica tremenda? Chi lo sa. È il fato che ha deciso. E peraltro, quando vado in un ristorante, è il mio mestiere, giudico i piatti salati ma molto meno i dolci, che spesso non ordino; per chiudere un pasto mi basta un frutto.

Sono uno dei dolci più tradizionali della cucina italiana, anche perché davvero semplici da preparare, estremamente versatili nella farcitura Detto questo, non tutti i dolci sono uguali. Per esempio si potrebbe dire che io ami, un po’, le crostate, se proprio devo scegliere. Un «quasi amore», condiviso con tanti. Perché sono il cavallo di battaglia della nostra pasticceria casalinga, il più facile dolce da fare in casa, il primo che si impara: e questo forma il nostro dna. E infatti, da giovane, pasticciando in cucina, amando la carne e i piatti salati (non lo ripeterò mai abbastanza…) ho imparato questi ultimi, in prima battuta. E infatti il primo dolce poi fatto, ma decenni fa, fu appunto una crostata, fatta con un’ottima marmellata inglese, ovviamente comprata, di arance amare. (Nota bene, per legge, in Italia ma credo anche in Svizzera: le marmellate si possono dichiarare tali se fatte con agrumi. Se fatte con altri frutti si devono chiamare confetture). Poi altri dolci seguirono, ovviamente. Ora una noterella. Quando preparo una cena con amici, mai più di otto, un dolce mi sento in dovere di

farlo. Però i dolci che ho fatto, statisticamente parlando, erano, e sono, per lo più al cucchiaio, quindi senza farina. Sono perfetti secondo me per chiudere correttamente un pasto all’italiana, dove il fabbisogno di zuccheri era ed è coperto da pasta e riso. Forse è questa la ragione (oggi mi è chiara, da giovane meno) che mi spinse a snobbare i dolci, tradizionalmente fatti con farina – e grassi, anche se questi non mi hanno mai spaventato…? Ma mi piaceva comunque fare crostate salate. Spesso non come piatti forti ma anche quali antipasto, e ciò è poco coerente con quanto scritto appena sopra. Succede. Molti dicono che in questo caso il termine è improprio, bisognerebbe chiamarle torte salate: ma chi se ne importa, io e tutti usiamo il termine «crostata salata». Continuo a prepararle, soprattutto i timballi, che per me sono «crostate», con gli ingredienti all’interno di pasta sfoglia o pasta frolla, ripiene di pasta. Dopo di che vi racconto che una volta mi capitò un tellurico crostata day. Una cara amica, in origine pasticcera, che si «appoggiava», alla mia attrezzatissima cucina e che aiutavo volentieri, doveva fare un banqueting per 30 persone, ma il committente voleva un banchetto in piedi senza piatti o posate. Volevano impugnare con una mano il cibo e l’altra un bicchiere e basta: ottima cosa, sono in pochi quelli che hanno tre mani... Che fare? Lei propose solo mini crostate, due terzi salate e un terzo dolci. Loro accettarono e lei mi disse: è inutile comprarle, le faccio io a casa tua. E ne fece, in due giorni, 300, col mio aiuto. Il forno fu ininterrottamente acceso: io sostanzialmente facevo i ripieni salati, le confetture le aveva fatte la settimana prima. Grande successo! Solo che ne mangiarono solo 200: lei aveva un po’ esagerato nelle dosi: per le altre, che fare? Gettarle, mai: quindi, lentamente, le finimmo, ma forse meglio dire le dovemmo finire, intimando ad amici cari di darci una mano. Fu dura…

CSF (come si fa)

Wikipedia

Allan Bay

Marka

Gastronomia Un tipo di preparazione molto apprezzato che si presta per specialità dolci e salate

Negli anni, qui su «Azione», credo di aver dato solo 4 ricette di crostate. Vediamo come se ne preparano altre 2, un po’ eterodosse. Crostata di crema. Per 6/8 persone. Preparate – o comprate – la pasta frolla con 250 g di farina. Preparate la crema pasticcera con 5 dl di latte. Stendete i 3 quarti della pasta frolla e rivestite uno stampo per crostate, leggermente imburrato e infarinato, coprendo

anche i bordi. Bucherellate il fondo della frolla con i rebbi della forchetta, copritela con un foglio di carta da forno e adagiateci sopra uno strato di legumi secchi. Cuocete in forno a 200° per 15 minuti, eliminate i legumi e la carta e riempite il guscio con la crema. Stendete la pasta rimasta, tagliatela a strisce larghe 1,5 cm e disponetele a griglia sopra al ripieno. Rimettete la crostata in forno a 180° e cuocete per 20’. A piacere, riempite il guscio di pasta frolla crudo e bucherellato con la crema, decorate con la griglia di pasta frolla e cuocete in forno a 200° per 40’. Ma è meglio la doppia cottura. Crostata di mandorle. Per 6/8 persone. Sbollentate 400 g di mandorle, scolatele, pelatele e fatele asciugare in forno a 150° per 10’. Tritate le mandorle fino a ridurle in polvere e mescolatele con

5 cucchiaiate di zucchero. Mescolate metà delle mandorle tritate con 250 g di farina e la scorza grattugiata di 1 limone non trattato poi impastate con 3 tuorli fino ad ottenere una pasta soda. Amalgamate le mandorle rimaste con 1 pizzico di cannella in polvere, 3 chiodi di garofano pestati e ridotti in polvere, 1 uovo e 3 tuorli. Stendete la frolla alle mandorle, ricavatene 2 dischi del diametro dello stampo da crostate e deponetene uno sul fondo della tortiera imburrata e infarinata. Con la pasta rimasta formate un cordoncino dello spessore di 2 cm e fatelo aderire al disco di pasta lungo i bordi dello stampo. Riempite lo stampo con la crema di mandorle e ricopritela con il disco di frolla rimasto unendo bene i bordi. Cuocete in forno a 180° per circa 35’.

Ballando coi gusti Oggi due proposte a base di cuscus: ovviamente consiglio di utilizzare quello precotto, perché con quello crudo il procedimento è molto più lungo.

Cuscus a base di patate e verdure

Cuscus profumato di ceci e verdure

Ingredienti per 4 o più persone: cuscus precotto g 400 · 2 o più patate · 2 cipolle ·

Ingredienti per 4 o più persone: cuscus precotto g 400 · ceci cotti g 250 · verdure miste a piacere g 800 · curry · curcuma · coriandolo tritato · prezzemolo · olio di oliva · sale e pepe.

verdure miste a piacere g 400 · olio di oliva o burro · sale e pepe.

In un ampio tegame scaldate 50 g di olio o sciogliete 50 g di burro e versatevi i ceci, le patate a tocchetti, le cipolle affettate, le verdure a pezzetti. Aggiungete 2 mestoli di acqua bollente e portate il tutto a cottura, bastano una ventina di minuti, bagnando con acqua bollente se necessario. Alla fine regolate di sale e di pepe. Preparate il cuscus seguendo le indicazioni riportate sulla confezione; versatelo in un piatto da portata, conditelo con burro o olio e servitelo con le verdure disposte al centro.

Mondate le verdure, tagliatele a pezzi e fatele rosolare in padella, partendo ovviamente da quelle più dure e aggiungendo man mano le altre, fino a che non saranno al dente. Alla fine aggiungete i ceci e cuocete ancora per pochi minuti. Preparate il cuscus come indicato sulla confezione. Regolatelo di sale e mescolatelo con curry, curcuma, coriandolo e prezzemolo a piacere. Mettetelo in un piatto di portata, sui bordi ceci e verdure e servite.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Attivi in tutta sicurezza

Si stima che in Svizzera siano oltre 500’000 le persone che hanno problemi di controllo della vescica. I prodotti Secure della Migros sono stati sviluppati da esperti e permettono a chi ne è interessato di godersi la quotidianità in modo spensierato. Sia le mutandine che gli inserti sono infatti discreti, confortevoli, assorbenti e inodori. E sono adatti a tutte le situazioni della vita. Oltre ai modelli a mutandina e agli inserti sono disponibili anche diversi prodotti supplementari, che permettono di sentirsi protetti in modo affidabile anche quando si è fuori casa, per un’intera giornata di attività

Azione 25% sull’intero assortimento Secure dal 22.09 al 5.10

Per una leggera incontinenza: Secure Light Plus 12 pezzi Fr. 2.65

Protezione affidabile in caso di incontinenza grave: Secure Pants Plus L 14 pezzi Fr. 24.80 Nelle maggiori filiali

Per saperne di più sull’incontinenza

iMpuls è l’iniziativa in favore della salute della Migros.

Volete saperne di più sulle cause della debolezza vescicale e di come si può intervenire? Informazioni: migros-impuls.ch/incontinenza

La «Società svizzera d’aiuto alle persone incontinenti» offre consulenza (ma non offre consigli sui prodotti): inkontinex.ch; Tel. 0449947430

Illustrazione Corina Vögele

Discreto e espressamente adattato all’anatomia maschile: Secure Man Light 16 pezzi Fr. 6.90


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Ambiente e Benessere

Lucid, il guanto di sfida è stato lanciato Motori Il neocostruttore automobilistico presenta al mondo il suo primo modello: non esiste ancora

ma fa già parlare di sé Mario Alberto Cucchi

A cosa possono servire oltre mille cavalli su un’automobile? Nella vita di tutti i giorni non lo sappiamo. Basti pensare che neppure la bellissima Ferrari Roma, la sportiva Porsche GT3 RS e la velocissima Lamborghini Aventador SVJ arrivano a tanto. Nessuna di queste si avvicina a mille cavalli. Eppure negli Stati Uniti, proprio in questi giorni, nel cuore della Silicon Valley è stata svelata un auto che vanta una potenza totale di 1080 cavalli. Nel giorno del 170° anniversario dello Stato della California, The Golden State, Lucid ha scelto il suo quartier generale americano per parlare di sé, neo costruttore automobilistico, e del suo primo modello: la berlina elettrica «Air»,. Public Investement Fund of Saudi Arabia, proprietaria al 67% di Lucid, è pronta a sfidare Tesla nel segmento delle elettriche di lusso. Sì, i 1080 cavalli vengono erogati da due motori elettrici che permettono ad Air di scattare da ferma a cento orari in soli 2,5 secondi e di raggiungere una velocità massima di 269 chilometri orari. Numeri impressionanti, da vera supercar, che appartengono per l’appunto alla versione Dream Edition. Il Costruttore a stelle e strisce dichiara anche un’autonomia interessante: 809 chilometri con le batterie Long Range da 113 kWh che sono sviluppate in proprio. Per entrare in possesso dell’ultimo grido a zero emissioni bisognerà aspettare la primavera del 2021 ed avere un cospicuo conto in banca. Per ora sono stati annunciati solo i

Un bolide da 1000 cavalli, tutti elettrici.

prezzi per gli USA: a partire da 169’000 dollari. Ben superiore al prezzo di Tesla. Dall’estate del 2021 sarà poi la volta di un altro modello Lucid: la Grand Touring in grado di erogare 800 cavalli. La Casa per quest’ultima dichiara 269 chilometri orari di velocità massima e 3 secondi nello 0-100 km/h. L’autonomia? 827 chilometri di

Giochi Cruciverba

«Caro, sono in ritardo per preparare il pranzo, intanto fai bollire l’acqua e butta il dado poi ti richiamo per altre istruzioni». Dopo un po’ la moglie richiama: «Allora caro hai fatto quello che ti ho detto?». Trova la risposta del marito a soluzione ultimata leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 1, 6, 3, 3, 6) ORIZZONTALI 1. Associazione criminale napoletana 7. Taglio di carne per bistecche 11. Tifosi organizzati di società sportive 12. Distrugge la dentina 13. Le iniziali del ballerino Bolle 14. In crisi... fanno coristi 15. C’è… per te con Maria De Filippi 16. Mezzo brindisi 18. Ricurvo 21. Consacrati da Dio 23. Nella mitologia erano semidei 24. LacittàdelcompositoreBellini(Sigla) 25. Adesso a Mendrisio 26. Sulle ricette 28. Minuscoli arnesi 30. Romanzi a puntate 32. Si paga espiando 33. Una sosta della nave 34. Le hanno tutte e due 36. Le iniziali dell’attore Preziosi Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

percorrenza con le batterie cariche al massimo. Per comprare questo modello bisognerà staccare un assegno da 139’000 dollari. Ma non è finita qui. Lucid annuncia un terzo modello che arriverà nell’autunno 2021. Si tratta della Touring da 620 cavalli. La velocità massima in questo caso è di «soli», 248 orari. Il cronometro si ferma a 3,2 se-

condi nello 0-100 km/h e l’autonomia è di 650 chilometri. Il prezzo questa volta ha uno zero in meno: 95’000 dollari. Come se non bastasse annunciare 3 nuovi modelli per un Costruttore che ad oggi non vende ancora nulla, Lucid ci anticipa anche cosa arriverà nel 2022. Una versione entry level che verrà proposta a circa 80’000 dollari. D’altra

parte Elon Musk, patron di Tesla, ci ha abituati da anni a parlare delle sue auto molto prima del debutto. La model Y non è ancora arrivata in Europa e già sembra vecchia. Il Tesla Cyber Truck ha già raccolto decine di migliaia di ordini e non è ancora in produzione. Gli uomini Lucid devono aver pensato che se ha funzionato con Tesla il metodo Musk può funzionare anche per loro. Parole ma non solo. La nuova Lucid Air adotta una piattaforma dedicata LEAP (Lucid Electric Advanced Platform) che abbinata a ridotti ingombri di meccanica ed elettronica ha permesso di massimizzare lo spazio interno. La plancia è dominata da uno schermo curvo da 34 pollici con grafica 5K, mentre i comandi secondari sono collocati su un secondo display centrale. La vettura offre di serie l’assistente virtuale Alexa di Amazon per controllare le principali funzioni di bordo, mentre in dotazione è anche la possibilità di aggiornare over-the-air il software e implementare nuove funzionalità. La sicurezza attiva è affidata alla piattaforma DreamDrive che integra i dati dei 32 sensori di bordo divisi tra telecamere, radar e ultrasuoni, ai quali si aggiungono il primo Lidar ad alta risoluzione su una vettura di serie e il sistema di geo-fencing basato sul segnale GPS. Per combattere ad armi pari con Tesla non poteva mancare un sistema di guida autonoma. Lucid Air è già predisposta per la guida autonoma di Livello 2 per passare al 3° non appena saranno regolamentate le disposizioni governative.

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37. Di carne nelle polpette 38. Si esclama vedendo arrivare gli amici 40. Brillanti in testa... 41. Ski lift VERTICALI 1. Detta anche zafferano delle indie 2. Privo di pigmentazione 3. Le iniziali del pugile Tyson 4. Il suo simbolo chimico è au 5. Si paga a scadenza fissa 6. Le iniziali del pittore Sanzio 7. C’è quella per il sindaco e quella per i capelli 8. Ripido, scosceso 9. Congiunzione e avverbio 10. Le iniziali del fisico della relatività

12. Figura geometrica 15. Un passato di patate 17. Le iniziali del filosofo Tommaseo 19. Il desiderio del poeta 20. Stato dell’Africa orientale 22. Concepite, architettate 24. Si uniscono in mazzi 27. Un ripiego... marginale 29. Le iniziali del giornalista Floris 30. Le tracce più labili 31. Spariscono al buio 33. Sordo... senza cerchi 35. La ninfa che amò Narciso 37. Pronome personale 38. Le iniziali della Casalegno 39. Le iniziali della Vanoni

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SCHERZI DEL DESTINO – Federico Barbarossa, scampato a mille pericoli… Resto della frase: …ANNEGÒ IN UN PICCOLO FIUME.

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Politica e Economia L’America dopo il New Deal Prosegue la serie di Federico Rampini sulle rinascite seguite a grandi crisi: 3. parte

In Tunisia è crisi profonda A quasi dieci anni dalla rivoluzione, la democrazia è messa a rischio dalle difficoltà quotidiane, da una economia in ginocchio, un sistema politico che risponde solo a logiche di spartizione

Troppi pesticidi Le analisi indicano un’eccessiva presenza di pesticidi sintetici nell’acqua, la politica comincia ad occuparsene pagina 39

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pagina 31 Bod Woodward nel gennaio 2017 prima di incontrare Donald Trump a New York. (AFP)

Verità imbarazzanti

Rivelazioni Il nuovo libro Rabbia del leggendario giornalista del Watergate Bob Woodward viene ad aggiungersi

ad altri usciti sul presidente Trump durante l’estate Daniele Raineri È l’estate prima delle elezioni presidenziali e quindi è anche la stagione dei libri contro il presidente in carica. Il rischio è che nel giro di poche settimane perdano valore editoriale e quindi è ora oppure mai più. C’è anche da dire che se il presidente in carica è Donald Trump, il più controverso della storia recente, gli editori ringraziano. Trump offre materiale in abbondanza. E così nel giro di un mese abbiamo visto uscire il libro di sua nipote, Mary L. Trump, il libro del suo ex avvocato e tuttofare, Michael Cohen, e infine, da martedì scorso, il libro del decano dei giornalisti americani Bob Woodward, che ha scritto un volume sull’Amministrazione Trump pieno di dettagli micidiali intitolato Rabbia. Se poi aggiungiamo i libri sul presidente usciti da qualche mese e includiamo anche la moglie Melania c’è da riempire una piccola biblioteca. Woodward aveva già scritto un primo libro sull’Amministrazione Trump che aveva per titolo Paura. Anche quello era pieno zeppo di passaggi da far rizzare i capelli. Quando il presidente dava ordini troppo dannosi e impulsivi – come «ritirate tutte le truppe dalla Corea del sud» – alcuni del suo

staff facevano sparire dalla sua scrivania il pezzo di carta con l’ordine scritto e aspettavano semplicemente che Trump se ne dimenticasse e passasse ad altri argomenti. Ma ormai sono passati due danni da Paura e quelle pagine non sono più così inquietanti, considerato quello che è venuto dopo. Di questa ultima tornata di libri quello che merita sicuramente più attenzione è l’ultimo, quello scritto da Woodward, perché a differenza degli altri due non ci sono rancori da placare o conti in famiglia da regolare. La nipote di Trump si trascina dietro litigi che affondano nel tempo e ha senz’altro un punto di vista molto addentro alle questioni di casa – tra le altre cose cita la sorella di Trump che definisce il presidente «un clown senza principi». È stata lei a passare al «New York Times» alcuni documenti importanti che hanno permesso ai giornalisti di ricostruire in parte il profilo fiscale del presidente, che è ancora un mistero perché lui si rifiuta di pubblicare la dichiarazione dei redditi come di solito fanno tutti i candidati. Ma l’onda è passata senza fare danni. L’ex avvocato Cohen è finito in prigione per Trump, dopo avere passato anni al suo servizio e avere sistemato per conto del presidente molte faccende

sordide. Anche lui usa la mano pesante e racconta che il presidente ha un pregiudizio fortissimo contro i leader neri, «fammi l’esempio di un paese guidato da un nero che vada bene», chiedeva ai suoi. «Sono tutti dei buchi di merda». Trump arrivò a ingaggiare un attore che impersonasse Obama per girare un video in cui gli dichiarava stentoreo «You are fired!», sei licenziato, che era il suo slogan quando faceva il programma The Apprentice. Cohen è finito in cella, è considerato un complice a sinistra e un traditore a destra, e Trump è ancora presidente con ottime possibilità di essere rieletto. «Sono stato testimone di come si comporta davvero, dentro strip club, a losche riunioni d’affari e nei momenti in cui abbassava la guardia e rivelava ciò che è davvero: un imbroglione, un infedele, un bullo, un razzista, un predatore, un manipolatore». Si sente tutta l’amarezza dell’avvocato per la sua carriera stroncata in modo ignominioso. Woodward invece affronta la questione Trump alla Casa Bianca – per essere più precisi: la seconda metà del suo mandato – con calma e a ciglio asciutto. Fa un lavoro meticoloso di ricostruzione dell’accaduto e di fonti, che è un po’ il suo marchio di fabbrica. E,

soprattutto, ha le registrazioni di sedici interviste fatte con Trump tra febbraio e luglio. Quelle interviste sono un disastro per Trump, perché si sente la sua voce dire in privato a Woodward quello che nel frattempo negava in pubblico: quindi che il virus era molto pericoloso, che ha una velocità di contagio spaventosa – «si muove attraverso l’aria» – e che può danneggiare anche i giovani e non soltanto gli anziani. Queste sono parole di Trump che risalgono all’inizio di febbraio e a marzo. Però poi andava in conferenza stampa e, con un calcolo inspiegabile (cosa pensava di fare?), diceva che il virus stava per sparire dagli Stati Uniti, che era stato bloccato in tempo e che c’erano soltanto quindici casi che sarebbero diventati zero in pochi giorni. Come abbiamo appreso un po’ tutti a nostre spese, l’efficacia delle misure anti Covid è tanto maggiore quanto più sono prese in anticipo. Se Trump a febbraio avesse cominciato a martellare gli americani e a dire loro che mascherine, gel disinfettante per le mani e molti meno contatti rispetto a prima erano la nuova normalità, è molto probabile che avrebbe salvato vite. Invece nella testa di molti americani il Covid-19 è rima-

sto un guaio che interessava soltanto cinesi ed europei. Era una cosa che non sarebbe toccata loro. A partire da marzo la pandemia ha fatto sfracelli negli Stati Uniti, più di sei milioni di contagiati e più di 190 mila morti, e sono numeri in aggiornamento. Eppure anche ora che abbiamo questi libri così pieni di informazioni micidiali la lancetta della competizione elettorale non si sposta di un millimetro. È un po’ come se fossero pubblicati su un altro pianeta e in effetti è la verità: sono consumati soltanto dalla squadra molto numerosa degli anti-trumpiani, che in essi cercano una conferma di quello che pensano già. Sono ignorati dalla larga base dei fedelissimi trumpiani, che li sdegna come portatori infetti di informazioni false. È un meccanismo incredibile, che di fatto separa in due gli Stati Uniti. Da una parte gli scandalizzati permanenti che detestano Trump, dall’altra i suoi difensori che non credono a una parola di quello che viene detto. Gli scandali passano, le percentuali di gradimento non si spostano. Il quaranta per cento di Trump non cambia idea. Alle elezioni, con la giusta sequenza di Stati e qualche defezione nel fronte di Biden, potrebbe festeggiare di nuovo.


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Politica e Economia

L’America delle sicurezze

Storie di rinascita – 3. parte Nei cinque anni del New Deal (1933-38) dopo la Grande Depressione si concentrano

più trasformazioni istituzionali e innovazioni sociali che in tutta la storia americana Federico Rampini «Quello che devi fare, è girare il paese e osservare quel che succede. Non voglio statistiche, non voglio sociologia. Parla con gli insegnanti e coi sacerdoti, con gli imprenditori e i lavoratori e gli agricoltori. Parla coi disoccupati, quelli che ricevono sussidi e quelli che non li ricevono. Non dimenticarti mai che tu o io potremmo essere nelle stesse condizioni. Vai, e raccontami». Luglio 1933, parla Harry Hopkins, un collaboratore del presidente Franklin Roosevelt. Nell’America impoverita dalla Grande Depressione, Hopkins deve amministrare i primi piani di aiuti ai disoccupati varati con il New Deal. Hopkins affida la missione di «vedere e raccontare» a una donna speciale. La destinataria delle sue istruzioni si chiama Lorena Hickok, si è conquistata la fama della più brava reporter americana della sua generazione. La Hickok della miseria ha un’esperienza personale. È nata nel 1893 nell’America rurale, a East Troy nel Wisconsin. Orfana di madre a 14 anni, ha lavorato come domestica. La gavetta del giornalismo l’ha fatta nella provincia profonda, accettando i turni di notte. Lei si descrive come «una creatura dell’epoca dell’individualismo americano, quando sono nata eravamo ancora un popolo di pionieri, la filosofia nazionale ci diceva che ciascuno poteva farsi strada con il suo talento e la sua determinazione». Massiccia e sovrappeso, con problemi di alcolismo, lei arriva lontano: a New York, alla redazione dell’agenzia Associated Press. La svolta della sua vita è la prima campagna elettorale di Roosevelt nel 1932. La Hickok stringe un’amicizia profonda, che in seguito diventa una relazione sentimentale stabile, con la First Lady Eleanor Roosevelt, altra donna eccezionale. Lorena lascia il giornalismo quando i Roosevelt la ingaggiano nella squadra del New Deal. Il suo viaggio attraverso l’America, anziché finire sulla stampa diventa una collezione di reportage per pochi intimi: Eleanor, il presidente, Hopkins. Grazie ai resoconti di Lorena la Casa Bianca percepisce l’immensità della tragedia vissuta dagli americani. Dal 1933 al 1936 la Hickok non si ferma mai. Guidando da sola attraversa il New England e il Midwest, intervista migliaia di americani. Nessun altro accumula così tanta informazione in presa diretta, ritratti e testimonianze. Alle sue lettere dalla provincia devastata – alla Depressione si aggiunge la siccità che caccia masse di contadini da

terreni ormai sterili – si ispira il presidente quando dice: «Vedo milioni di famiglie che cercano di vivere con redditi così miseri che l’ombra di un disastro incombe su di loro ogni giorno. Vedo un terzo della nazione male alloggiata, poco vestita, malnutrita». Nelle città file sterminate sono in coda per i sussidi, per le mense dei poveri, per i ricoveri dei senzatetto. L’insieme dei suoi reportage è uscito solo dopo la sua morte, con le illustrazioni di un’altra esploratrice della tragedia, la fotografa Dorothea Lange. Quelle parole e immagini oggi inseguono l’America come un incubo. La Grande Depressione è una tragedia forse irripetibile per le punte estreme di deprivazione di massa, eppure densa di lezioni. Nella crisi da pandemia e lockdown del 2020 un americano su otto è malnutrito e denutrito. Lo Stato è diventato molto grosso rispetto al New Deal, ma la mole mastodontica non rassicura né conforta gli afflitti. «Uomini già oltre i quaranta, con famiglie cresciute, che potrebbero non ritrovare mai più il lavoro. A furia di essere inattivi perdono capacità, subiscono un declino fisico e mentale, la disoccupazione senza fine li trasforma in clienti dell’assistenza, una classe di persone non più impiegabili, come utensili arrugginiti, che non vale più la pena recuperare. Sopravvivono così, queste legioni dei dannati dell’economia: frastornati, apatici, molti di loro pazienti fino alla rassegnazione…» Così nel Capodanno 1935 Lorena descrive la «generazione abbandonata» degli anni Trenta. Tra «crolli e rinascite», la Grande Depressione è il precedente storico per eccellenza. È anche un evento incompreso, semplificato, mitizzato, viene ridotto a una storia in bianco e nero, con buoni e cattivi, peccato e redenzione, fino allo Happy Ending. Il cattivo è il capitalismo americano dell’Età dell’Oro, raccontato da Francis Scott Fitzgerald nel Grande Gatsby. Il re dei cattivi è il presidente repubblicano, l’ultra-liberista Herbert Hoover: dopo il crack del 1929 vuole che sia il mercato a favorire la ripresa. Il cavaliere bianco è FDR, il democratico Franklin Delano Roosevelt, che dal 1933 lancia la stagione delle riforme progressiste, mobilita le risorse dello Stato e salva gli americani dalla miseria. Come tante leggende è troppo bella per essere vera. Hoover è finito ingiustamente nella spazzatura della storia. In realtà è un leader efficiente e onesto, competente e rispettato. La sua fama risale alla tragedia del 1914-’18. Si è guadagnato una

FD Roosevelt parla in piazza a Butte, Montana, nel 1932. (Keystone)

reputazione mondiale nella Grande Guerra come artefice di una delle operazioni umanitarie più riuscite di tutti i tempi, l’aiuto alimentare a dieci milioni di persone nei paesi europei martoriati dal conflitto. Lungi dall’essere una marionetta dei capitalisti, insensibile alle sofferenze del suo popolo, Hoover prefigura alcune politiche del New Deal: dopo il crack del 1929 convince gli industriali a mantenere il potere d’acquisto dei lavoratori: una manovra che più tardi sarebbe stata definita «keynesiana» (dal nome dell’economista inglese John Maynard Keynes). Lancia la costruzione di opere pubbliche come la diga che porta il suo nome, tra il Nevada e l’Arizona. Quando Roosevelt lo sconfigge alle urne nel 1932, in campagna elettorale è parso più cauto del suo avversario repubblicano, accusando Hoover di avere accumulato un deficit pubblico eccessivo. I «cento giorni» sono un altro mito, costruito da un presidente che è un genio della comunicazione. Roosevelt non ha un’ideologia, non ha un piano, sperimenta quasi tutte le nuove idee che gli vengono proposte per combattere la Depressione. Uno dei suoi più stretti collaboratori disse: «Guardare il New Deal come un piano unitario e coerente, equivale a osservare la stanza caotica di un adolescente dove ha accumulato alla rinfusa giochi, vecchie foto, libri scolastici, scarpe, e credere che sia l’opera di un decoratore».

Di tutti i lasciti dei cento giorni però quello ecologico è davvero pionieristico e continua ad affascinarci oggi. Roosevelt, influenzato dai pionieri dell’ambientalismo, è convinto che si sta chiudendo un’era segnata dalla conquista di nuove frontiere, dalla colonizzazione di spazi immensi. La Depressione non è un incidente, è il segnale che non ci sarà mai più la crescita del passato. È l’epoca delle teorie sulla «stagnazione secolare». Uno dei programmi del New Deal che lascia l’eredità più durevole è il Civilian Conservation Corps, servizio civile ambientalista. Remunerato, dà lavoro a tre milioni di giovani dal 1933 al 1942: costruiranno infrastrutture dei grandi parchi nazionali, sentieri, musei di scienze naturali, osservatori e barriere antincendio. Il New Deal non cura affatto la Depressione. La disoccupazione media per tutto il decennio fino alla Seconda guerra mondiale rimane del 17%. Scrive uno dei più autorevoli storici di quel periodo, David M. Kennedy: «Depressione e New Deal sono due gemelli siamesi, convivono per un decennio in un rapporto di dolorosa simbiosi». Il 1937 è l’anno della ricaduta. È la Roosevelt Recession, una seconda Depressione, con altri crack di Borsa, crolli di produzione industriale. Una teoria l’attribuisce ad una specie di «sciopero dei capitalisti», castigati e spaventati dalle politiche anti-business del New Deal: troppe tasse, troppe regole, trop-

po potere ai sindacati, e un’incertezza permanente sui piani imperscrutabili di Roosevelt e dei suoi «consiglieri socialisti». Una vasta contro-reazione, anche popolare, viene dalle zone rurali: l’alimenta la convinzione che il New Deal sia stato una svolta tutta «metropolitana», una stagione di riforme fatte per la classe operaia delle grandi città (dalle misure contro il lavoro minorile ai diritti sindacali). Nasce una nuova coalizione conservatrice, che unisce il profondo Sud alle zone rurali del Midwest. Precipita la svolta ideologica del 1938. Fino a quel momento i progressisti avevano cercato riforme strutturali per imporre la giustizia distributiva, un cambio di modello economico che avrebbe alterato i rapporti di forza tra le classi. Da questo momento FDR si converte al deficit-spending keynesiano che lascia invariate le regole dell’economia capitalistica, non interviene sulla distribuzione dei redditi tra capitale e lavoro. Se prima vedevano il capitalismo come un organismo malato da curare, i neo-convertiti al pensiero keynesiano lo vedono come un organismo che va nutrito di maggiore spesa perché si rimetta a funzionare con benefici per tutti. Bisogna aspettare il 1941 e la spesa bellica perché l’America faccia deficitspending in dimensione adeguata per uscire dalla crisi. Anche se il 1938 segna la fine degli esperimenti riformisti, nei cinque anni del New Deal 1933-38 si concentrano più trasformazioni istituzionali e innovazioni sociali che in tutta la storia americana. Solo dopo la Seconda guerra mondiale sarà possibile capire quanto l’America sia cambiata in profondità. Scrive Kennedy: «La grande trasformazione del New Deal si riassume in una parola sola: sicurezza. Sicurezza per gli individui vulnerabili. Ma sicurezza anche per capitalisti, consumatori, lavoratori e padroni, imprese e fattorie, proprietari di case e banchieri e costruttori edili. Sicurezza del posto di lavoro, del reddito in età anziana, sicurezza finanziaria, sicurezza dei mercati. Lo Stato viene potenziato per diventare lo strumento principale di questa stabilità. Obiettivo comune è generare un nuovo tipo di capitalismo senza rischi». Per spiegare il boom del dopoguerra è essenziale il deficit-spending dello sforzo bellico. La crescita poderosa che continuerà dopo la fine del conflitto è possibile grazie alla nuova sicurezza che è l’impalcatura durevole del New Deal. Mai prima di allora si era chiesto e si era atteso così tanto dallo Stato. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Una lontana primavera

Politica e Economia

Tunisia Economia in ginocchio, sistema politico che risponde solo a logiche di spartizione: a quasi dieci anni

dalla rivoluzione, la democrazia è messa a rischio dalle difficoltà quotidiane, mentre dal paese nordafricano aumentano le partenze verso l’Italia

Francesca Mannocchi Sono passati quasi dieci anni dalla primavera di rivolte, la primavera della dignità, che nel 2011 ha portato alla deposizione di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia. Dieci anni da quando il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid, in segno di protesta contro gli abusi delle forze di sicurezza locali che chiedevano soldi in cambio della possibilità di lavorare. Quei giorni, quelle fiamme e quella morte ispirarono le rivolte popolari che hanno rovesciato – o tentato di rovesciare – dittature e governi autocratici in Nord Africa e Medio Oriente. Da allora molte cose sono cambiate in Tunisia, tuttavia le disuguaglianze sociali e la profonda crisi economica che a cavallo tra il 2010 e il 2011 accesero l’animo di migliaia di giovani, sono tutt’altro che risolte. L’instabilità politica ne è specchio e causa. La Tunisia in nove anni e mezzo ha cambiato undici governi appoggiati da alleanze fluide e frastagliate. L’ultimo in ordine di tempo, nominato il 25 luglio dal presidente tunisino Kaïs Saïed, è Hichem Mechichi, quarantaseienne, ex ministro dell’Interno, che ha assunto formalmente l’incarico di capo di gabinetto dall’assemblea dei rappresentanti del popolo (parlamento tunisino), a seguito delle dimissioni – dopo nemmeno cinque mesi di mandato – dell’ex primo ministro Elyes Fakhfakh accusato di corruzione e conflitto di interesse. Mechichi ha annunciato la formazione di un governo composto da 28 membri, tutti tecnocrati indipendenti, esperti e accademici, nonché alti dirigenti dell’amministrazione e del settore privato. Lo scopo è recuperare la fiducia della popolazione e contrastare la stagnazione economica aggravata negli ultimi mesi. In conseguenza dell’epidemia Covid-19 il governo ha infatti previsto un aumento del deficit fino al 7% del Pil e una contrazione economica del 6.5%, dati che vanno ad aggiungersi alla riduzione dei redditi di un quinto degli ultimi dieci anni e ai drammatici numeri della disoccupazione, che è salita dal 15% al 18% nel secondo trimestre di quest’anno e che tocca picchi del 36% tra i giovani, secondo l’istituto nazionale di statistica. Durante la cerimonia di insediamento Mechichi ha sottolineato che «compirà tutti gli sforzi necessari per fermare l’emorragia economica e garantire la stabilità del Paese», a tale scopo ha riunito i Ministeri dell’economia, delle finanze e degli investimenti in un unico dipartimento sotto la guida dell’economista Ali Kooli, Ceo dell’Arab Bank Corporation tunisina. Già definito il «superministro», Ali Kooli ha più di trent’anni di esperienza finanziaria e bancaria, ha ricoperto numerosi incarichi presso l’Unione delle Banche Arabe e Francesi (UBAF) è stato direttore generale della Banca ABC di Tunisi e Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Arab Leasing Corporation. È unendo insieme figure come quella di Ali Kooli che il nuovo capo di

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

governo vuole concentrarsi sul salvataggio delle finanze pubbliche e superare le beghe interne ai partiti, i cartelli di alleanze e le spartizioni di potere, condizioni che hanno progressivamente distanziato i cittadini dalle urne, il tasso di partecipazione al voto è infatti in costante calo dal 2011. Mechichi ha ribadito nel discorso di insediamento che «mentre si trascinano i disordini molti tunisini non hanno ancora l’acqua potabile e questo non è più accettabile». Nonostante la Tunisia venga citata come l’unico esempio delle rivoluzioni del 2011 che abbia avuto una transizione relativamente riuscita da decenni di regime autocratico a un sistema democratico, la maggioranza dei cittadini soffre una crisi economica che non ha visto sostanziali miglioramenti negli anni. Il debito pubblico è quasi raddoppiato rispetto a dieci anni fa, passando dal 40% del Pil nel 2010 al 73% nel 2019, secondo il rapporto «Tunisia’s Upcoming Challenge» dell’Arab Reform Initiative. Per fronteggiare la crisi i governi tunisini hanno fatto affidamento sui prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che però non sono a fondo perduto ma devono corrispondere a un programma di revisione delle spese che si traduce in un abbassamento dei redditi e riduzione del potere di acquisto delle famiglie. Le difficoltà sono maggiormente sofferte nelle aree periferiche del Paese, le differenze tra zone costiere sviluppate e aree remote, infatti, non sono ancora state risolte. In zone come Kasserine o come la stessa Sisi Bouzid da cui partirono le proteste dieci anni fa, circa un terzo della popolazione vive ancora in condizioni di povertà. «Il divario coste-periferie è un problema antico e irrisolto, la crisi pandemica l’ha solo esacerbato» dice Clara Capelli, economista dello sviluppo e esperta di Nord Africa che ha lavorato dal 2014 al 2017 per la Banca Africana di Sviluppo a Tunisi. Per Capelli, la crisi attuale non è distinguibile dalla situazione economica del 2010-2011 e dalle proteste che si sono ripetute nel corso degli anni a ondate, nel 2016 e poi ancora nel 2018 a seguito della legge finanziaria che incorporava i diktat del Fondo Monetario Internazionale, imponendo riforme strutturali in cambio del prestito di tre miliardi di euro: «naturalmente ora la crisi è più evidente perché ha abbattuto la produzione industriale e la stagione turistica. Il problema principale è che la Tunisia è un paese piccolo, dipendente dalla domanda estera e se un’emergenza globale blocca i flussi internazionali, il Paese che non ha riserve di liquidità è in ginocchio velocemente». Il dinaro tunisino è debolissimo, l’economia turistica è diminuita del 22% nel secondo trimestre dell’anno, rispetto al 2019, a causa del Covid, le rimesse dall’estero si sono drasticamente ridotte. Secondo Capelli la situazione attuale è anche la conferma che in questi anni non ci sia stata una risposta adeguata di medio e lungo termine alle necessità strutturali della Tunisia «ora mancano certamente gli investimenti, ma la domanda – quando c’è – è una domanda fragile perché spinta dal basso costo delSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Le periferie sono le più colpite dalla crisi. (AFP)

la manodopera. Le aziende europee delocalizzano perché la manodopera costa poco, così come i turisti europei viaggiano in Tunisia perché è conveniente. Questo non crea sviluppo, crea un guadagno di breve periodo per i locali e una sostanziale fragilità per il loro futuro, come ha dimostrato la crisi pandemica». Inoltre metà dell’economia tunisina è costituita dal settore informale, un insieme di attività commerciali svolta da lavoratori giornalieri, gli interinali, gli apprendisti, che sfuggono alle statistiche e che oggi stanno doppiamente soffrendo perché escluse dalle misure previste dal governo per arginare la crisi economica da Covid: 90 milioni di euro per i lavoratori in cassa integrazione, 50 milioni per le fasce precarie e a basso reddito e rinvio dei crediti bancari per i salariati. «I lavoratori dei settori informali – continua Capelli – guadagnano il necessario per sfamarsi un giorno o due, appena viene a mancare la fonte di salario non hanno riserve e questo ha ripercussioni su tutta la struttura sociale che sono chiamati a mantenere. È evidente che la situazione che la Tunisia vive ora presenti il conto delle risposte che politica tunisina ma anche internazionale non ha saputo dare a queste frange di popolazione». I numeri e le stime in peggioramento sono la mappa della fragilità tunisina, così come lo sono i numeri dei flussi migratori. Sono ottomila i cittadini tunisini arrivati in Italia nel 2020, 4000 solo a luglio. Quattro volte in più rispetto ai numeri dello scorso anno. Secondo il report del Carnegie Middle East Center del marzo 2020 «Tunisia’s perennial priorities», nel corso dell’ultimo decennio sarebbero più di 90 mila i cittadini tunisini che hanno lasciato il Paese a causa della difficile situazione sociale ed economica e che l’80% avesse un livello di educazione medio-alto. L’Italia è corsa ai ripari facendo pressioni sulla Tunisia per ridurre le partenze, sottovalutando che molte delle persone rimpatriate in questi anni abbiano più volte riprovato a partire e che dunque l’agenda del controllo delle frontiere non sia la risposta al malessere economico del Paese nordafricano. Nelle settimane degli sbarchi autonomi dalla Tunisia la ministra dell’interno Luciana Lamorgese ha incon-

trato il presidente Saied sottolineando l’urgenza di azioni comuni. Saied dal canto suo ha dichiarato che non sia più tempo di valutare i fenomeni migratori solo come questioni di sicurezza ma che sia arrivato il momento di riflettere sulle ragioni antiche e profonde che spingono le persone a partire, cioè gli irrisolti problemi economici. Il messaggio sembra non essere arrivato a destinazione: il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha annunciato il blocco di sei milioni e mezzo di fondi della cooperazione italiani destinati alla Tunisia «finché le autorità non daranno risposte certe per fermare le partenze». «L’incidenza di questa cifra sulle casse e dunque sul futuro tunisino è minima – dice l’economista Capelli – ma il blocco ha un rilievo politico e rappresenta un messaggio forte che il governo italiano vuole dare alla politica tunisina. Purtroppo si inserisce nel quadro di una risposta internazionale che non sa come approcciarsi alle questioni economiche strutturali dei paesi partner e risponde con le minacce». L’Italia inoltre ha ripreso i rimpatri che erano stati sospesi a causa dell’epidemia e annunciato altri 10 milioni di euro di finanziamento per la Guardia Costiera Tunisina, in totale dal 2016 la Tunisia ha beneficiato di quasi 60 milioni di euro del Fondo di Emergenza Ue per ridurre le migrazioni verso l’Europa. Tuttavia solo una piccola quota di questi fondi è stata destinata a progetti di sviluppo per rifugiati e migranti e la maggior parte assegnata a progetti di pattugliamento delle frontiere; come sottolinea Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti sociali ed economici (FTDE) «la decisione italiana di congelare i fondi è ricattatoria: per far sì che il governo tunisino faccia da guardia costiera all’Italia si promettono aiuti finanziari mascherati da aiuto allo sviluppo, in realtà sono leve di ricatto e contribuiscono a peggiorare la crisi sociale dei giovani tunisini, che sono gli stessi che partono». Ben Amor aggiunge che i paesi Ue in questi anni hanno gravemente sfruttato i governi tunisini che si sono succeduti, e che a loro volta hanno cercato di ottenere piccoli aiuti finanziari in cambio di sostegno politico. Ma l’impatto vero degli aiuti non si vede: «gli investimenti esteri hanno avuto un impatto solo sul fronte securitario.

Al contrario sul lato degli aiuti economici allo sviluppo l’impatto non si vede, il che stride con le dichiarazioni dei governi Ue a sostegno della cosiddetta eccezione tunisina. La minaccia più grande a questa eccezione, alla transizione democratica riguarda il fronte economico e sociale e su questo non ci sono reali investimenti». Secondo i dati di FTDE, dal 1. gennaio al 31 luglio 2020, più di 600 minori tunisini hanno raggiunto le coste italiane, alcuni dei quali non accompagnati dalle loro famiglie. Secondo le statistiche del Ministero dell’Istruzione, 100’000 studenti interrompono prematuramente i loro studi ogni anno, in dieci anni significa l’abbandono scolastico di un milione di ragazzi, senza che esista alcun organismo pubblico che li segua. Non rientrano nelle statistiche perché non sono identificabili né come disoccupati né come studenti e saranno probabilmente destinati al settore del commercio parallelo, o le reti della droga o all’immigrazione irregolare. «Questi ragazzi vanno ad aggiungersi ai diplomati e laureati che pure partono e cercano una nuova vita perché la corruzione e le politiche clientelari impediscono loro di accedere a un posto di lavoro e dunque a condizioni di vita migliori – continua Ben Amor – la spinta migratoria per tutti questi giovani è molto alta. Da un lato c’è un’economia in ginocchio, un sistema politico che risponde solo a logiche di spartizione, e i servizi pubblici disintegrati, dall’altra c’è la speranza di una vita nuova». Quello che descrive il Forum dei Diritti tunisino è un progetto migratorio che si sta modificando col tempo, ora integra il cambiamento della vita di intere famiglie. Non è più il singolo che si muove per mandare rimesse a casa, ma la famiglia nella sua interezza che lascia la Tunisia perché la vede un Paese incapace di cambiare. «L’Europa deve aprire gli occhi e responsabilizzarsi – conclude Ben Amor – e investire in aiuti mirati da un lato e pressioni sul governo tunisino, non solo sul lato securitario ma per garantire la giustizia sociale in Tunisia. Solo se riparte l’economia, se i giovani si fideranno del governo e di chi li rappresenta si ridurrà la voglia di migrare, che al momento è molto alta».

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Politica e Economia

Il «pozzo della nazione» è in pericolo Pesticidi Nelle acquee sotterranee dell’Altopiano svizzero e in Ticino si riscontrano sempre più residui

di prodotti fitosanitari e nitrati, presenza che compromette la qualità dell’acqua potabile

Luca Beti In Svizzera, circa un milione di persone beve acqua del rubinetto contenente quantità superiori al valore limite consentito del fungicida clorotalonil, una sostanza vietata dal 1° gennaio perché ritenuta pericolosa per la salute, probabilmente cancerogena. Così anche gli abitanti del villaggio di Kappelen, nel Seeland bernese. Qui si sono misurati addirittura 0,35 milligrammi per litro del prodotto fitosanitario, una quantità decisamente superiore agli 0,1 microgrammi fissati nell’ordinanza sulla protezione delle acque. «Siamo nel cuore dell’orto della nazione e qui la terra viene coltivata in maniera intensiva. È quindi ovvio che nelle nostre acquee sotterranee si riscontrino residui di prodotti usati in agricoltura», dice il sindaco Hans-Martin Oetiker. Infatti, il comune di 1500 abitanti si trova nel Grosses Moos, regione situata tra i laghi di Bienne, Neuchâtel e Morat ai piedi del Giura da dove proviene oltre un quarto degli ortaggi coltivati in Svizzera. «Per soddisfare i requisiti di qualità dell’acqua potabile siamo costretti a collegarci agli acquedotti dei comuni vicini di Aarberg e Worben. Un progetto che ci costerà quasi un milione di franchi. Prevediamo di mettere fuori servizio la nostra captazione entro il 2023», continua Oetiker. Oltre che a Kappelen, i prodotti di degradazione del clorotalonil, i cosiddetti metaboliti, superano il valore limite nelle acque potabili di oltre la metà dei cantoni, tra cui anche il Ticino. Ad essere particolarmente toccato è l’Altopiano, territorio coltivato in modo intensivo e dove i residui dei prodotti fitosanitari sono presenti in più del 90% delle stazioni di misurazione delle acque sotterranee. Ciò significa che l’acqua del rubinetto è imbevibile? «La qualità dell’acqua potabile è buona a livello nazionale, mentre a livello regionale sono necessari dei miglioramenti», indica l’Associazione dei chimici cantonali, autorità responsabile del controllo e dell’analisi.

Contro l’uso di pesticidi sintetici sono state lanciate due iniziative popolari, nel frattempo della questione si occupano anche Governo e Parlamento Attualmente, in Svizzera è permesso l’impiego di circa 300 diversi pesticidi per proteggere verdura, frutta e cereali da erbacce, insetti e funghi. Se buona parte delle 2000 tonnellate di prodotti fitosanitari impiegati annualmente nella Confederazione si degrada e viene assorbita dal terreno, una parte raggiunge le acquee sotterranee da dove proviene l’80% dell’acqua potabile consumata in Svizzera. Una risorsa fondamentale per l’approvvigionamento idrico e che viene controllata regolarmente da un programma di monitoraggio congiunto di Confederazione e cantoni tramite 600 stazioni di misurazione distribuite sull’intero territorio nazionale. Nel suo ultimo rapporto, l’Osservazione nazionale NAQUA evidenzia che la qualità delle acquee sotterranee è compromessa in modo duraturo, soprattutto da nitrati e residui di prodotti fitosanitari. Dato il lento rinnovo delle acque del sottosuolo è quindi importante adottare misure preventive sul lungo termine per proteggere il «pozzo della nazione». Ed è proprio ciò che vogliono due

L’uso di pesticidi sintetici è stato a lungo sottovalutato, ora il dibattito si è fatto ampio e la politica è chiamata a dare risposte. (Keytone)

iniziative popolari – «Per una Svizzera senza pesticidi sintetici» e «Acqua potabile pulita e cibo sano» – depositate presso la Cancelleria federale nella primavera 2018 e su cui si voterà probabilmente nell’estate del 2021. In estrema sintesi, i due oggetti chiedono di vietare l’uso di pesticidi sintetici in agricoltura e di versare pagamenti diretti solo alle aziende agricole che non vi fanno ricorso. Il Consiglio federale si è già espresso al riguardo, respingendole senza controprogetti. Così anche il Consiglio nazionale nel giugno 2019. Lunedì scorso, le iniziative sono state trattate in Consiglio degli Stati, dove sono state ampiamente bocciate dai senatori, perché considerate troppo «radicali». Stando a vari sondaggi, le due iniziative godono però di un ampio sostegno nella popolazione. Le due proposte rispondono a una diffusa preoccupazione delle svizzere e degli svizzeri per quanto riguarda la presenza di sostanze inquinanti nell’acqua potabile e a una crescente sensibilizzazione sulle questioni ambientali. Per scongiurare un sì alle urne, nell’agosto 2019 la Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli Stati ha presentato l’iniziativa parlamentare «Ridurre il rischio associato all’uso di pesticidi», una normativa che formalmente non costituisce un controprogetto alle due iniziative popolari. Con il suo progetto, la commissione vuole disciplinare in modo più severo l’impiego dei pesticidi. Uno degli obiettivi della riforma di legge è dimezzare entro il 2027 i rischi riconducibili all’impiego di prodotti fitosanitari per le acque superficiali, gli habitat naturali e la falda freatica. L’iniziativa parlamentare, approvata dalla Camera dei cantoni nell’attuale sessione, passa ora al vaglio del Consiglio nazionale. Tale progetto segue la scia di altri provvedimenti volti a limitare l’impiego di pesticidi. Tra questi ricordiamo il «Piano d’azione dei prodotti fitosanitari», presentato nel 2017 dal Consiglio federale. Uno dei suoi obiettivi non vincolanti è la riduzione di un terzo dei pesticidi con un «particolare potenziale di rischio» entro dieci anni. I risultati raggiunti finora sono però deludenti. Stando agli ultimi dati pubblicati dall’Ufficio federale dell’agricoltura, il volume totale delle vendite di sostanze antiparassitarie è rimasto pressoché invariato negli ultimi dieci anni, fatta eccezione per gli erbicidi in cui si registra un calo del 33 per cento. Nel 2018 sono

state vendute 2050 tonnellate di fungicidi, insetticidi, diserbanti, appena 200 in meno rispetto al 2008. Con la Politica agricola 22+ (PA22+), il governo intende ora dotarsi di un altro strumento per salvaguar-

dare l’ambiente e l’acqua potabile, per esempio tramite misure volte a favorire l’impiego di prodotti fitosanitari più ecologici e riducendo le emissioni di azoto e fosforo. Tuttavia, proprio la Commissione dell’economia e dei

tributi del Consiglio degli Stati ha proposto di sospendere il dibattito sul messaggio PA22+ perché non soddisfatta del disegno di legge del Consiglio federale. Con il postulato «Futuro orientamento della politica agricola», la commissione chiede un ulteriore rapporto al governo, documento che sarà disponibile al più tardi nel 2022. Se la proposta di sospensione sarà approvata dalla Camera dei cantoni nella prossima sessione, i provvedimenti per tutelare l’acqua potabile rischiano di finire in ghiacciaia per mesi o anni. Invece servirebbero misure incisive, sistematiche e immediate per proteggere la più importante risorsa d’acqua potabile in Svizzera, quella nel sottosuolo. Infatti, i divieti, come quello per il clorotalonil, hanno effetto sul lungo termine visto che i processi di degradazione sono molto lenti. Per esempio, l’erbicida «atrazina» è stato proibito da oltre dieci anni, eppure i suoi residui sono ancora presenti nelle risorse idriche del sottosuolo. Per il sindaco del villaggio di Kappelen, il problema è invece pressante. «Le autorità cantonali mi hanno dato due anni di tempo per ridurre la concentrazione di metaboliti di clorotalonil nell’acquedotto comunale. Non do certo la colpa ai contadini della regione», sostiene Hans-Martin Oetiker, mentre vicino transita un trattore che ha appena lasciato un campo di barbabietole da zucchero. «Loro hanno solo impiegato i prodotti fitosanitari permessi dalla Confederazione». Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Ottimismo di fine estate La congiuntura economica è entrata nell’ultimo quarto dell’anno e dagli istituti che si occupano di previsioni stanno giungendo note relativamente ottimiste per quel che riguarda i risultati per l’anno intero. I lettori forse si ricorderanno come le previsioni relative all’evoluzione del prodotto interno lordo si siano modificate a partire dall’inizio della pandemia di coronavirus. A metà marzo si riteneva che l’economia svizzera sarebbe passata per una lieve recessione. Per il 2020 si prevedeva così una diminuzione del Pil dell’ordine dell’1,5%. Alla fine di aprile, nel culmine della pandemia, le prospettive erano diventate nerissime. Si pensava allora che nel 2020 avremmo conosciuto la peggiore recessione economica da sempre – o per lo meno da quando esistono stime per gli aggregati della contabilità nazionale, ossia dalla fine della prima guerra mondiale. Si par-

lava allora di una diminuzione del Pil superiore all’8%. Di fatto una recessione di questa ampiezza c’è stata, ma solo nel secondo trimestre. Le stime della SECO davano infatti, per i tre mesi da aprile a giugno una riduzione del Pil pari a –8,2%. Da giugno a oggi la situazione è migliorata. A inizio agosto, tuttavia, si continuava a pensare che la ripresa dopo la pandemia sarebbe stata più lenta di quella che si era manifestata dopo la crisi finanziaria del 2008. Nelle ultime settimane, però, l’ottimismo è tornato ad essere di rigore tra gli specialisti delle previsioni congiunturali. A fine agosto il KOF del Politecnico federale di Zurigo stimava che la diminuzione del Pil per il 2020 sarebbe stata solo del 4,7%. Il gruppo di esperti per l’esame della congiuntura della Confederazione ha, a sua volta, rivisto la sua previsione dal –6,2% di fine giugno a –5%. Anche il BAK Economics

ha ridotto l’ampiezza della recessione, correggendo la diminuzione del Pil per il 2020 da –5,8% a –4,5%. non si tratterebbe comunque di una recessione da poco. Il tasso di diminuzione del 5% è vicino a quello che l’economia svizzera ha sperimentato nel 1975, l’anno in cui, sin qui, si registrò la recessione maggiore. Chi dei lettori può contare sulle ottanta primavere, come il sottoscritto, si ricorderà forse che nel 1975 la recessione era costata al nostro paese diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro. Di conseguenza, anche se la situazione in materia di previsioni dovesse ancora migliorare, da qui alla fine dell’anno, la pillola da trangugiare sarà molto amara. Oltre a rivedere verso il basso l’ampiezza della recessione gli esperti si interrogano al momento sulle ragioni che possono spiegare questo miglioramento e soprattutto perché l’economia svizzera sembra, fino ad oggi, aver

sopportato meglio i contraccolpi della pandemia dell’economia dei paesi a noi vicini. Il fattore che viene citato in quasi tutti i commenti è quello di sempre: la struttura particolarmente bilanciata del nostro sistema di produzione. Anche in questa occasione, l’apporto al Pil dei rami che più hanno sofferto delle conseguenze negative della pandemia – come il turismo, per fare un solo esempio – è in Svizzera meno importante che in paesi come l’Austria o l’Italia. Il contributo, invece, di rami come il farmaceutico – che sicuramente ha tratto profitto dalla pandemia – è certamente più importante in Svizzera che nei paesi confinanti. A spiegare la migliore tenuta dell’economia svizzera rispetto a quelle degli altri paesi europei vengono poi citati aspetti circonstanziali come il fatto che il lockdown sia durato meno che in altre economie o il fatto che il consumo abbia ripreso rapidamente, una volta terminato il

periodo di chiusure. Sembra tra l’altro che l’ottimismo dei consumatori perduri e non sia stato influenzato negativamente dall’aumento dei casi di pazienti contagiati di queste ultime settimane. I commentatori convengono infine nell’attribuire alla politica di sostegno dello Stato una buona parte del merito per il miglioramento della congiuntura registratosi nel corso degli ultimi mesi. Ci sono però anche dei cattivi auguri che si chiedono se il fatto, per loro irritante, che il numero dei fallimenti sia attualmente inferiore a quello registrato nel 2019 non sia la prova che lo Stato sia andato a sostenere anche aziende che – indipendentemente dalle perdite generate dalla pandemia – non erano più in grado di continuare la propria attività. Sì, cari lettori, come potete constatare anche nel commento alla congiuntura economica c’è sempre chi va a cercare il pelo nell’uovo!

di chi?), hanno bevuto il disinfettante o l’ammoniaca. Nella sua corsa negazionista, Trump ha via via suggerito antidoti semplici, il rimedio della nonna (sì una nonna fuori di testa) per gli accidenti passeggeri, come la carne cruda su una scottatura. Anche questo è un aspetto della strategia: la situazione non è grave, basta qualche accorgimento. Ha un che di surreale che in questo meccanismo dei piccoli rimedi utili sia rimasta esclusa la mascherina, la più semplice e la meno invasiva delle metodologie di prevenzione che è subito diventata un simbolo politico. Il trumpiano non se la mette, la mascherina. Beve l’ammoniaca piuttosto, e aspetta il vaccino, un’altra chimera venduta come presente e reale, a portata di mano al punto che il presidente smentisce i suoi funzionari e consiglieri quando dicono in testimonianze ufficiali al Congresso che i tempi sono lunghi, il vaccino va trovato e poi anche prodotto e distribuito. I roghi che stanno devastando la California e l’Oregon sono un altro esempio

della difficoltà del presidente americano a governare crisi naturali. Anche in questo caso la politicizzazione c’è eccome, la California è la patria dell’antitrumpismo (e l’attuale governatore è l’ex marito della fidanzata di Donald Jr: chissà se pesa questo elemento familiare, chissà se se n’è accorto questo padre distratto che non ha mai apprezzato particolarmente il figlio se non quando gli fa da megafono) e quindi un buon bersaglio per il presidente. Però è anche uno Stato che elettoralmente parlando per Trump ha pochissimo fascino: non è conquistabile, tanto vale lasciarlo perdere. Ma brucia, brucia moltissimo, e il presidente non può sfacciatamente far finta di niente come vorrebbe la sua indole, non per sempre almeno. Così Trump ha fatto visita in California, si è fatto spiegare tutto dagli addetti ai lavori, e ha sentenziato: poi passa. Anzi: passa se questi liberal che vi governano la smettono di fare stupidaggini. I roghi non sono legati al cambiamento climatico e il pianeta presto si

raffredderà così come il virus scomparirà appena staremo all’aperto (detto da uno che odia tutto ciò che è outdoor, tra l’altro), quel che è caldo diventerà freddo, quel che uccide smetterà di farlo: la teoria di Trump è così, si sistemano le cose se i democratici non le ostacolano. Perché a mettersi in mezzo a questo assestamento naturale possono essere soltanto i liberal, gli antifà, gli anarchici, cioè i bersagli politici privilegiati della campagna elettorale 2020 di Trump. Questa leggerezza nella gestione delle catastrofi mista al tentativo di incasellare ogni discussione dentro al solito duello ideologico è frutto di un calcolo. La saggista americana Anne Applebaum scrive: «La compassione per i morti che perdono la vita nelle catastrofi naturali non è un combustibile buono per il traffico sui social quanto l’odio per i cittadini che sono dall’altra parte dello spettro politico, e Trump ha bisogno di questo traffico per vincere». Unità, empatia, vicinanza non servono elettoralmente a Trump: quindi non servono e basta.

e standard anche in settori che ancora riuscivano sopportare o a nascondere l’incidenza e i danni della pandemia. È quanto confermano anche indicatori economici e segnali contrastanti con notizie e dati che da un lato garantiscono o promettono che ci sono tutti gli elementi per consentire una ripresa, dall’altro lasciano intravedere che la crisi prosegue e sta anzi intaccando livelli sino a ieri considerati solidissimi. Trovo emblematico il caso delle nostre Ffs che nelle scorse settimane hanno annunciato di aver «perso» quasi mezzo miliardo di introiti rispetto all’anno precedente. Altro segnale eloquente: la possibilità di abolire i tragitti casa – lavoro che lavoratori e imprese del terziario sfruttano (generando cambiamenti non solo logistici) grazie al tele-lavoro o smartworking che dir si voglia. A dimostrazione che un po’ tutta la popolazione convive sempre con la paura, ma opera scelte e rinunce non solo per i rischi pandemici. I due esempi citati accentuano la

sensazione di come (per tornare al gergo sportivo) la partita venga giocata, anche a livello politico e sociale, su un campo di calcio che ormai non ha più nemmeno il rilievo delle porte dove indirizzare la palla. L’analogia mi sembra appropriata per capire che il coronavirus continua a bloccare ogni progettualità e ogni aspirazione volte ad affrontare gli effetti collaterali della pandemia e a uscire da una visione orizzontale. Di riflesso sussiste il pericolo che lo stesso regime di «non spettacolo» che sta modificando sport e Tv-postcovid possa arrivare a minacciare anche altri settori, proponendosi come passaggio «obbligato». Per impedire a questo rischio di fare danni in una società sempre più fragile, vale forse la pena di seguire i consigli dell’ex-governatore della Banca europea Mario Draghi: accettare i cambiamenti con realismo, senza però «rinnegare i nostri princìpi. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla».

Affari Esteri di Paola Peduzzi Quel che serve a Trump

Wikipedia

Le catastrofi naturali sono poco maneggiabili da Donald Trump perché non gli permettono di trovare qualcuno su cui scaricare responsabilità e inadempienze. È per questo che tende a ignorarle, le catastrofi, o a trasformarle in battaglie ideologiche che non fanno molto per contenere la crisi – anzi, semmai la peggiorano. La pandemia, il virus invisibile che colpisce e si spande indiscriminatamen-

te, è l’esempio più calzante, oltre che la dimostrazione di quanto l’approccio negazionista sia letale. In Rage, l’ultimo libro di Bob Woodward, il giornalista del Watergate che ha un accesso straordinario alla Casa Bianca, Trump dice candidamente di aver voluto ignorare la pandemia: sapeva che la situazione era grave e che sarebbe peggiorata ma ha pianificato di non dire nulla agli americani e di giocare al ribasso sulla minaccia. Una decisione fatta per rassicurare e non allarmare troppo i cittadini? Macché: quel che non si riesce a gestire, si ignora, anche questa è strategia. L’effetto è evidente nel numero dei morti, nella guerricciola inutile scatenata tra Stati americani per conquistare respiratori e materiale sanitario, tutti invitati a un’asta in cui contavano soprattutto appartenenza politica e fedeltà a Trump. Ma è ancora più mortificante un altro dato: ci sono ancora persone che vengono ricoverate perché, seguendo il consiglio del presidente (se non ti fidi del presidente,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Cambiamenti, incertezze e controlli Qualche domenica fa mi è capitato di seguire in tv una gara di Formula 1 disputata su uno splendido circuito assolutamente vuoto: pubblico assente, ma su un megaschermo, al passaggio delle vetture in certi punti, compaiono personaggi che si esaltano e strepitano come se stessero seguendo la corsa. Poco dopo guardo una partita di calcio, sempre senza pubblico, in un clima quasi surreale, distante mille miglia dal rito che da sempre associa il gioco del pallone a tifo e partecipazione. Il palliativo per ricordare il pubblico qui è rappresentato da sagome di spettatori fissate ai sedili delle tribune. Improvvisamente mi convinco di avere davanti agli occhi la nuova televisione, o la postcovid-TV se volete: obbligata a seguire (e un po’ anche a inventare) e comunque a trasmettere, un «non spettacolo» per fare... spettacolo e riuscire a tenere in vita tutto quanto vi è collegato: pubblicità, sponsor, risultati sportivi, audience, scommesse ecc. ecc. Ma non è di postcovid-TV che intendo parlare,

anche se il tema mi intriga. Mi propongo invece di partire da quanto la crisi pandemica sta causando non solo al calcio o alla formula 1, ma allo sport in genere (e a tutti i livelli: da quello professionistico sino ai movimenti giovanili e dilettantistici) immaginando di poterne ricavare l’ennesima conferma che il calcio non è solo un gioco, ma riesce a essere un fatto sociale. Come spiegava Ignacio Ramonet, direttore di «Le Monde», in un editoriale di oltre venti anni fa, analizzando tutte le numerose componenti del gioco del calcio – ludica, sociale, economica, politica, culturale e tecnologica – è possibile ottenere una radiografia della nostra vita sociale, tanto da identificare e capire meglio i valori e le contraddizioni che modellano la nostra quotidianità. Così, davanti agli stadi vuoti e alle paure che minano una continuità che dura ormai da oltre un secolo nel mondo dello sport, mi chiedo: verranno adottate analoghe soluzioni anche in altri settori? Anche in economia? Anche in politica?

Cercando qualche risposta a questi interrogativi sorprende quanto sia limitato il numero di coloro che, dissertando di pandemia e di problemi collaterali da affrontare, si sbilanciano sino a fare previsioni a breve o a lungo termine: vittime della persistente incertezza. Eppure sarebbe utile di questi tempi sapere se questa pandemia imporrà anche in altri settori traguardi indicibili e «non vaccinabili». Anche perché, finita l’estate che avrebbe dovuto calmare la crisi, quel che sta succedendo in Spagna, Francia e Germania – tanto per restare nei dintorni – ci fa temere che il peggio possa ancora arrivare, cioè che l’incertezza aumenti e minacci sempre più di estendersi ad ogni livello e in quasi tutte le nostre attività. In parallelo si rafforza anche il timore che la crisi, proprio come dimostra la continuità «inventata» dalle televisioni per lo sport, stia lentamente scivolando verso un diverso modello che accetti nuovi parametri modificando valori, abitudini


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 settembre 2020 • N. 39

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Cultura e Spettacoli L’incanto di Trajal Harrell Il coraggioso coreografo e ballerino statunitense incanta Ginevra e Zurigo

Non solo prostitute Grazie alla sapiente penna della scrittrice inglese Hallie Rubenhold le vittime di Jack lo Squartatore si trasformano in esseri umani

Nello splendore autunnale Una magnifica mostra a cielo aperto invita a scoprire gli angoli più suggestivi di Morcote pagina 53

Un furto misterioso Ancora non si sa cosa sia accaduto alle opere trafugate dal Musée d’art moderne di Parigi

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Armature di samurai all’interno dell’esposizione Kakemono. (© 2020 FCM/ MUSEC)

Il segno, l’essenza e il vuoto Mostre Fino a febbraio, cinque secoli di pittura giapponese al MUSEC di Lugano Daniele Bernardi L’oscurità ben si addice al pensiero nipponico, così lontano, rispetto all’occidente, dalle statuarie certezze della luce e della razionalità. Sarà per questo che l’importante mostra Kakemono, cinque secoli di pittura giapponese, inaugurata lo scorso luglio al MUSEC – Museo delle Culture di Lugano, accoglie il visitatore come un antro in cui si spande il chiarore di una torcia: l’illuminazione è fioca, calda, quasi rimandasse alla sostanza del Libro d’ombra, celebre saggio del grande Jun’ichirō Tanizaki sullo spirito del proprio paese. Progetto a cura dello storico dell’arte Matthi Forrer nato dalla collaborazione fra l’istituzione ticinese e il MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, la mostra attinge al ricco archivio del collezionista Claudio Perino ed è «la più estesa esposizione mai dedicata» all’argomento (si tratta di opere che vanno dal XVI al XX secolo). Come giustamente sottolinea Marco Guglielminotti Trivel nella sua

nota introduttiva al catalogo, per chi è alieno a questa cultura, qui, innanzitutto, sarà interessante notare come a differenza degli artisti occidentali – tradizionalmente ossessionati dalla fedeltà al soggetto – i pittori del Sol Levante praticassero già originariamente stili «impressionistici», «espressionistici» e «astratti»: ciò che conta non è infatti la somiglianza, ma l’essenza; non si tratta di rappresentare, ma, piuttosto, di trasformare. Ecco dunque che dopo essere stati accolti, a inizio percorso, da una coppia delle splendide corazze cerimoniali già esposte al MUSEC all’epoca di Il samurai, da guerriero a icona, il pubblico comincia il suo viaggio inoltrandosi in una radura tempestata di volatili: Kachō-ga: dipinti di fiori e di uccelli è infatti il primo, classico nucleo tematico della mostra. Tratteggiate da abili artigiani al fine di decorare stanze di palazzi che avrebbero dovuto accogliere ospiti di riguardo o per essere esibite durante riti all’aperto, le bestiole che figurano su questi rotoli di tessuto

o carta (i kakemono, appunto) sono tipici simboli della tradizione: fagiani che richiamano alla felicità coniugale, usignoli su rami di pruno celebranti la primavera, galli con galline e pulcini a sottolineare l’importanza dell’armonia familiare. Già in questo gruppo di opere subito balzano all’occhio, con la maestria dei pittori, quelle che si presentano come le caratteristiche portanti di quest’arte (e di questa cultura): un dominio pressoché totale della composizione imperniato su un sapiente utilizzo del vuoto, l’estrema parsimonia nell’utilizzo dei colori, la creazione di molteplici forze e direzioni in una o più forme, un fortissimo ed equilibrato legame tra gesto e segno. E dopo una breve parentesi dedicata ad alcune figure antropomorfe (divinità, seguaci e discepoli del Buddha, monaci e geishe), col terzo nucleo tematico sono ancora le bestie a spadroneggiare: e benché in confronto alle evocazioni di pennuti gli altri membri del mondo animale rappre-

sentino una minoranza, l’intensità di queste presenze è a dir poco indubbia: potenti tigri dai grandi occhi affiancano le forme monche di impetuosi draghi (secondo una credenza, difatti, la visione di questo essere mitico nella sua interezza non è sostenibile all’occhio umano) mentre carpe che lottano controcorrente incarnano la forza della perseveranza; vi sono poi famiglie di scimmie attaccate da api indiavolate, leoni cinesi dalla criniera d’inchiostro, minuscoli cani dal pelo color del Tao e pacifici cervi. Le ultime due sezioni della mostra sono invece rispettivamente dedicate a Piante e fiori vari e ai Paesaggi. Nella prima, dove, ancora più che nelle rappresentazioni di animali, a ogni specie è associata una precisa stagione con le sue feste e le sue usanze (non va dimenticato che i kakemono erano tematicamente esposti a seconda del periodo dell’anno), un ruolo di rilievo lo ha certo il bambù, la cui raffigurazione era, per letterati e artisti, un arduo esercizio assimilabile a quello della calligrafia;

infatti, tale era l’impegno richiesto dalla pratica da far sì che certuni vi dedicassero l’intera esistenza. Nella seconda, infine, si ammirano vedute particolareggiate – rigorosamente prive di tinte – in cui spesso scorgiamo minute figure umane, piccoli templi, padiglioni ed edifici. Qui, specialmente in certi dipinti in cui è rappresentato il mitico Monte Fuji o in alcune immagini di cascate, al visitatore appare ancora evidente quel sopraccitato, sapiente utilizzo del vuoto che tanto caratterizza non solo un modo di intendere l’arte, ma la vita: è attraverso la messa in evidenza del contorno del cielo che la montagna appare, poiché yin e yang attraversano l’esercizio del pennello nella misura in cui governano le leggi dell’universo. Dove e quando

Kakemono, Lugano, Museo delle culture, Villa Malpensata. Orari: ludo 11.00-18.00; ma chiuso. Fino al 21 febbraio 2021. www.musec.ch


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Cultura e Spettacoli

Occorre credere nell’impossibile

Danza Trajal Harrell, artista camaleontico e ipnotico, conquista il pubblico grazie alla sua anticonvenzionalità

Muriel Del Don Trajal Harrell è un artista camaleontico, inafferrabile e affascinante che riesce ad impossessarsi della scena come se la sua vita ne dipendesse. Che si tratti di danza post moderna, voguing, hoochie coochie o ancora di butoh, Trajal affronta la storia della danza attraverso il prisma della sessualità, dei generi e dell’appartenenza razziale. Quello che gli interessa è confrontare il pubblico con una storia che necessita di essere rivisitata e riletta da un punto di vista diverso, ribelle e outsider. Cosa lui, in quanto coreografo, rappresenti per la danza e cosa la danza rappresenti per lui: sono queste le domande essenziali alle quali tenta, attraverso la sua arte, di rispondere. Il suo stile è unico, miscela improbabile di generi che possono essere percepiti come molto distanti tra loro (basti pensare al voguing e al butoh) ma che si amalgamano grazie a una dose salvifica di fragilità e humor. Chi è realmente Trajal Harrell? Chi si nasconde dietro a un artista diventato ormai essenziale al punto che tre anni fa il Barbican Arts Center di Londra gli ha dedicato una retrospettiva? Nato in una piccola città nel sud della Georgia (USA), Trajal Harrell ha scoperto il mondo della danza un po’ per caso, di nascosto, un «guilty pleasure» che lo ha da subito catturato come una trappola dalla quale è impossibile fuggire. Quando aveva otto anni quello che amava era rimanere in palestra a spiare le lezioni di danza che

si svolgevano dopo i suoi corsi di ginnastica, un mondo a lui estraneo fatto di rituali condivisi e corpi costretti in movimenti ripetitivi che ai suoi occhi risultavano estranei e poetici. È forse da ricercare in queste visioni rubate il germe della sua passione per la danza, una passione che l’ha spinto a seguire i suoi sogni malgrado il fatto che in Georgia «i ragazzi non frequentano i corsi di danza». Trajal è stato da sempre animato dalla volontà di andare contro le convenzioni: di genere, di sesso, di razza e di classe per costruire qualcosa di nuovo, di personale, al contempo stravolgente ed esteticamente rigoroso. Con i suoi lavori vuole spingere il pubblico a credere nell’impossibile, nel potere della danza in quanto strumento di cambiamento verso un mondo nel quale i concetti di esotismo, colonialismo, sessismo e razzismo sono decostruiti e mostrati in tutta la loro grottesca assurdità. Nell’universo del nostro coreografo statunitense la storia, la ricostruzione di un passato che da reale si trasforma in utopico, occupa un posto centrale. A partire dalla serie di otto coreografie Twenty Looks or Paris is Burning at The Judson Church che l’ha proiettato sul davanti della scena trasformandolo nel gioiellino della New York underground (nel 2012 vince niente meno che il prestigioso Bessie Award), l’analisi storica della danza l’ha guidato e spinto verso una sperimentazione sempre più audace. Declinato in differenti formati che vanno dalla taglia XS alla XL, Twenty

Trajal Harrell (in primo piano) e il suoi ballerini durante The Köln Concert a Zurigo. (Reto Schmid)

Looks affronta la storia della danza attraverso la messa in parallelo di due realtà in apparenza contrapposte: quella dell’America «arty» bianca, borghese e sperimentale del Judson Dance Theatre che si pone l’obiettivo di analizzare la danza dal punto di vista politico, e quella decisamente più libera, sgargiante e underground della comunità afroamericana e latina LGBTIQ del voguing nella quale lo spettacolo domina sovrano. Trajal mette a confronto due realtà in apparenza antitetiche che non si sono mai veramente incontrate estrapolandone la magia e la forza del gesto primitivo, carico di significato e libero

dalle convenzioni. Grazie a una coreografia energica e potente che non consente tempi morti e a cambi di costumi repentini simili a una corsa a ostacoli dai colori flashy, Trajal ci trasporta nel suo mondo fatto di Storia (con la S maiuscola) ma anche di struggente intimità. Il passato si trasforma in presente attraverso il suo corpo, l’impossibile si intreccia con il possibile in un duetto improbabile tra vulnerabilità e rivendicazione politica. Grazie a Twenty Looks il concetto di «verità» caro al voguing si amalgama con quello postmoderno di «autenticità» ricercato dal Judson Theatre, come a volerci mostrare che la danza ha il potere di unire quello che

tutto sembra separare. L’immaginazione che permette di sognare dei mondi possibili al di fuori delle convenzioni è vista da Trajal come strumento fondamentale per vivere insieme, in armonia malgrado le differenze culturali e i preconcetti. Il pubblico svizzero ha potuto gustare Dancer of the Year una delle sue ultime performance, al Festival la Bâtie di Ginevra («Azione» 14 settembre 2020, NdR) e The Köln Concert alla Schauspielhaus di Zurigo. Dopo essere stato nominato nel 2018 dal «Tanz magazine» ballerino dell’anno, Dancer of the Year gli ha permesso di porsi delle domande cruciali sulle origini del gesto creativo, sull’eredità che esso porta con sé e sul suo valore in quanto merce di scambio. Per Dancer of the Year il coreografo statunitense si è interessato alla potente danza giapponese butoh e più in particolare a uno dei suoi maggiori esponenti: Tatsumi Hijikata, che spingeva i suoi ballerini a esibirsi nei night club per guadagnarsi da vivere. Sulla scena del Grand théâtre di Ginevra Trajal ripete gesti che sono iscritti nel suo corpo, rivisita movimenti e materiale delle sue precedenti coreografie in un sovrapporsi di emozioni che sembrano infinite. Più la coreografia avanza, più il corpo del coreografo sembra svuotarsi, stremato dallo sforzo. Trajal condivide con noi la sua fatica, ci dona la sua danza in regalo come a volerci ricordare che nulla è impossibile e che i limiti che ci imponiamo non sono in fondo che nella nostra testa. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Cinque donne da non dimenticare

Kaufman, un film che è un viaggio

Narrativa Esce anche in italiano Le cinque donne, bestseller dell’inglese Hallie Rubenhold

in cui si ripercorrono le vicende di alcune vittime di Jack Lo Squartatore Blanche Greco Era l’autunno del 1888, e a Londra non si parlava che di loro: cinque donne che sembravano uscite dal nulla e che, come in un lampo di luce accecante, erano apparse sotto gli occhi di tutti per poi tornare di nuovo nell’ombra, ma quella improvvisa «popolarità» l’avevano pagata con la vita e con la propria dignità: sono le vittime di Jack lo Squartatore. Chi era questo efferato assassino? Un nobile rampollo ricco e annoiato? Un povero demente di alto lignaggio imparentato con la casa reale? Un barbiere polacco? Un marinaio, un ebreo, un macellaio, un chirurgo? La sua vera identità non è mai stata scoperta, ma «Jack» è sempre rimasto al centro della scena, reso famoso dalle proprie gesta, avvolto nel mistero, glorificato dalla sua inafferrabilità, epigono di tutta quella schiera di «killer seriali» che sarebbero emersi sempre più spesso nel secolo a seguire, raccontati dalle cronache dei giornali e gettonati protagonisti di film e serie televisive. Ma Mary Ann (Polly) Nichols, Annie Chapman, Elizabeth Stride, Catherine Eddowes, e Mary Jane Kelly uccise dalle sue coltellate, sgozzate e sventrate, sono state seppellite da 130 anni di silenzio, «cancellate» perché etichettate come prostitute e, come tali, poveri esseri che una notte avevano finito con l’incontrare il loro inevitabile destino. Ma chi erano realmente? La verità ce la racconta Hallie Rubenhold, giovane scrittrice e storica inglese, nel libro The Five. Le cinque donne. La storia vera delle vittime di Jack lo Squartatore, (in Italia appena pubblicato da Neri Pozza), dove con una indagine appassionante, ricostruisce la Londra vittoriana, il quadro politico e sociale di quegli anni e al suo interno colloca Polly, la figlia del fabbro

che aveva sposato un tipografo; Annie, la figlia del soldato, moglie del cocchiere personale di una ricca famiglia; Elizabeth, la giovane cameriera svedese immigrata a Londra e sposata a un attempato mobiliere con il quale era stata padrona di un caffè. E poi c’è Catherine «Kate» Eddowes, la figlia dello stagnino specializzato di Wolverhampton, la vita della quale assomiglia a una di quelle ballate che cantava con successo assieme al suo compagno irlandese per il piacere dei frequentatori delle fiere e delle esecuzioni capitali; e infine la venticinquenne Mary Jane. Era di certo lei, la più giovane, la più carina e la più colta delle cinque, forse di una famiglia agiata del Galles, o d’Irlanda, come le piaceva narrare spalancando gli occhi blu, ma il suo nome e molto di ciò che raccontava di sé era frutto della sua fantasia, un modo, secondo alcuni, per coprire un errore che l’aveva obbligata a fuggire, adolescente, dal paese d’origine per diventare una elegante e ricercata «accompagnatrice» di alto bordo e poi una «lucciola» di Londra. Cinque donne, salvo Elizabeth, dotate di una certa istruzione, di ambizione e che, come ci racconta Hallie Rubenhold, avevano avuto, ognuna, un’occasione per migliorare la propria vita. Mary Jane era la sola ad esercitare, per sua stessa ammissione, il mestiere di prostituta, l’unica che non venne uccisa per strada, ma nella sua camera e a differenza delle altre, smembrata nel suo letto. In The Five, divenuto subito un bestseller in Inghilterra, l’autrice mette in luce molti dei misteri che circondano le cinque vittime di Jack lo Squartatore, a cominciare dalle circostanze del loro assassinio, al silenzio in cui avvenne, sino alla topografia del quartiere di Whitechapel, teatro degli omicidi, all’epoca uno dei luoghi più malfamati e sordidi dell’East End.

Netflix I’m Thinking

of Ending Things incanta e stupisce Alessandro Panelli

Immagine tratta da «The Illustrated Police News», Londra, 1888. (Keystone)

Spulciando la montagna di articoli sensazionalistici dei giornali di quegli anni, e i documenti raccolti nell’inchiesta pubblica del coroner, dalle testimonianze alle deposizioni di parenti e amici delle vittime; sino ai resoconti dei poliziotti che tentavano di rassicurare la popolazione in preda al panico e che si trovavano ad affrontare un caso di omicidio come non ne avevano mai visti, Halli Rubenhold fa emergere dal buio Polly, Annie, Elizabeth, Kate e Mary Jane, emblemi di una Londra dickensiana che un anno prima nel giugno del 1887, aveva assistito alle sfarzose celebrazioni per il Giubileo d’Oro della Regina Vittoria, costellate di cortei di teste coronate di ogni parte del mondo e dell’Impero, di luci e di feste che animarono la Londra opulenta. Forse c’erano anche loro in quello stesso giugno assolato nei capannelli di Trafalgar Square, dove invece cresceva la disperazione e s’ingrossava un vasto e maleodorante accampamento di disoccupati e diseredati scacciati dai

campi e dalle proprie case dalla siccità e dalla mancanza di lavoro agricolo. Un fardello umano di famiglie numerose, di vedove con figli, di persone rese inabili dalle malattie; di donne sole; di artigiani e operai specializzati tagliati fuori dalla rivoluzione industriale e ridotti a manodopera sottopagata, di gente che viveva nella piazza poiché senza i mezzi per mangiare e pagare l’affitto di una stanza. Perché quella fu la cornice degli «eventi» delittuosi, in cui le cinque donne persero la vita e Rubenhold segue le loro tracce con l’umanità, la tenacia e la sagacia degne di Sherlock Holmes per svelare, non il nome del loro assassino, ma il mistero della loro esistenza e della loro morte violenta, e, cosa altrettanto importante: chi e perché le condannò all’oblio.

I’m Thinking of Ending Things (2020) è l’ultima fatica di Charlie Kaufman. Il film è ispirato all’omonimo romanzo di Iain Reid, che Kaufman (Oscar per la migliore sceneggiatura nel 2005 per Eternal Sunshine of the Spotless Mind e sceneggiatore di Being John Malkovich, Anomalisa, Adaptation) ha liberamente adattato per lo schermo. La nuova opera di Kaufman conferma ulteriormente l’abilità dell’autore nel raccontare una storia innovativa e spiazzante, riuscendo a portare una ventata di aria fresca. Grazie a una profonda e ponderata caratterizzazione del rapporto tra la protagonista femminile e il protagonista maschile, Kaufman ricicla ancora una volta i propri schemi narrativi, quali la rappresentazione di personaggi che faticano ad accettare il proprio status all’interno della società. In questo caso la trama parla di una giovane donna costretta a conoscere i genitori del suo ragazzo quando è sul punto di lasciarlo. Nonostante ci siano tutte le carte in regola per il classico film dall’impronta «Kaufmaniana» l’opera si trasforma vertiginosamente col passare dei minuti implementando uno stile che strizza l’occhio al surrealismo di David Lynch. Quest’ultimo lavoro dello sceneggiatore newyorkese è in grado di proporre una storia geniale, astratta, sconvolgente e dalle mille citazioni artistiche. Laddove si crede che verso la

Bibliografia

Hallie Rubenhold, Le cinque donne. La vera storia di Jack lo Squartatore, Vicenza, Neri Pozza, 2020

Stampa e libertà

Editoria Numerosi tipi di libertà di stampa in un libro del giornalista

ed esperto di storia del giornalismo Pierluigi Allotti Stefano Vassere «Chi dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede». Sono almeno tre o quattro i tipi di libertà di stampa di cui si occupa con ricchezza di documentazione Pierluigi Allotti in questo La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi, appena pubblicato nelle edizioni del Mulino. Quella storica, conquistata a fatica insieme ad altre libertà e affrancata dai poteri politici che l’hanno afflitta nei secoli; quella ancora non del tutto raggiunta, piegata com’è da intolleranze e fondamentalismi che entrano con i fucili nelle redazioni dei giornali satirici; una sorta di nuovo regime, dettato dal politicamente corretto, che spesso non lascia fiato a chi scrive, perseguitato dai «blogger che ci bacchettano come maestrine» perché non rispettiamo le morfologie di genere e le prescrizioni del linguaggio corretto. Più indiretti sono i condizionamenti dovuti a certi vizi della grande editoria, quando questa oltre che monopolistica sia illiberale e irresponsabile; anche qui la libertà è asfittica e non riesce a esprimersi appieno. Oppure l’abuso di liti temerarie per

Esiste più di un tipo di libertà di stampa, come dimostra questo libro.

diffamazione, che tendono a inibire l’azione dei giornalisti. Il libro è scandito da capitoli-data, che ci dicono che la libertà di stampa ha spesso una sua geometria-geografia variabile e che gli stati nazione sono arrivati chi prima e chi dopo (qualcuno ancora arranca a fatica) alla conquista di libertà e democrazie. Così, «Londra

1695» (abolizione del regime di censura preventiva), «Parigi 1789» (Rivoluzione francese), «Filadelfia 1798» (discussione al Senato del Sedition Act, «una legge che autorizzava di fatto a perseguire chiunque contestasse il governo»); ma anche «Il Quarantotto» (morte di Chateaubriand) e «Il Sessantotto» (il Sessantotto), fino a giungere, in conclusione, a «I nemici di oggi». All’inizio, più che a un’opera organica si sarebbe tentati di pensare dunque a una serie di monografie localizzate, geograficamente e storicamente, con temi a volte non proprio omogenei; poi, però, la sequenza ci fa pensare appunto a una diversa velocità, una serie di conquiste storiche più isolate che universali, dettate spesso dagli equilibri politici interni più che da mentalità condivise, e all’approdo, solo infine e con la globalizzazione, verso tematiche comuni: la «finta libertà» del web, il ruolo diminuito dei poteri statali, ancora il politically correct. Il materiale documentario è ricchissimo. Così, valgono per esempio il prezzo di copertina le pagine dedicate a John Milton e ai suoi interventi sulla libertà di stampare libri in Inghilterra all’altezza della metà del Seicento: «i libri non sono cose morte, bensì cose contenenti in sé una potenza di vita che li rende tanto attivi quanto quello spirito di cui sono la progenie. È quasi

Una scena del nuovo film di Charlie Kaufman, in onda su Netflix.

uguale uccidere un uomo che uccidere un buon libro. Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa». E poi, nel capitolo sul Sessantotto si rende conto del civilissimo studio affidato ad Angelo Del Boca (successivamente eroe della ricerca scientifica sulle malefatte italiane nell’Africa orientale) volto a definire le caratteristiche di una crisi dei quotidiani all’epoca, con incursioni e viaggi in tutto il mondo; Del Boca sentì anche l’allora direttore della «Neue Zürcher Zeitung» Edmund Richner in mezzo a molti altri e definì la stampa italiana sull’orlo di una sorta di «tramonto del quotidiano», esito poi per qualche decennio almeno attenuato. L’autore ci ricorda che l’idea di questo libro risponde alla necessità di celebrare l’opera di un eroe della libertà di stampa in Italia, il liberaldemocratico Mario Borsa, che nel 1925, all’inizio del buio periodo mussoliniano, pubblicò in duemila copie un libro intitolato La libertà di stampa, omaggiato ora dall’omonimia del titolo. Bibliografia

Pierluigi Allotti, La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi, Bologna, il Mulino, 2020.

conclusione ci sarà una spiegazione di quanto visto, inizia invece una serie di sequenze oniriche, simbolistiche, metaforiche e criptiche che lascerà lo spettatore a dover ricostruire da solo i pezzi del puzzle. Ma il vero punto di forza di questo film non risiede nell’accurato utilizzo della grammatica che caratterizza il cinema classico, ma piuttosto nel saperla sfruttare a proprio piacimento per cambiarla e conseguentemente introdurre nuove dinamiche narrative originali ed efficaci. Lo spettatore percepisce quando una scena risulta più lunga dello standard previsto dalla legge dei codici classici. Le frequenti ellissi temporali fatte attraverso jumpcuts destabilizzanti riescono a creare un’unica e appagante atmosfera horror. Tutte queste scelte tecnico-stilistiche provocano una confusione e un’eversione nello spettatore che lo porterà più volte a riflettere sulle tematiche affrontate. Tra le molte, la più rilevante è la natura pessimistica della vecchiaia, rappresentata su due piste narrative differenti in un montaggio alternato che sfocia nella riflessione per cui la vita non è altro che un momento stazionario. Quest’ultimo è rappresentato da un vento gelido che anno dopo anno, sofferenza dopo sofferenza, arriva a una conclusione amara, incompiuta, alla quale tutti noi siamo destinati.


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Idee e acquisti per la settimana

Gallinacci con purè di zucca e barbabietola Ingredienti per 4 persone • 1 barbabietola cruda di ca. 180 g • 700 g di zucca, pesata già mondata, p.es. hokkaido • 2 rametti di timo • 6 cucchiai d’olio d’oliva • sale • pepe • 100 g di crème fraîche • 0,5 dl di latte • 2 cipolle rosse grosse • 4 cucchiai d’aceto balsamico invecchiato • 250 g di gallinacci • 1 spicchio d’aglio • ½ mazzetto di salvia

Thomas Fiechter con una selezione di funghi freschi.

«Gallinacci e porcini sono ora di stagione»

Il responsabile dell’acquisto dei funghi di Migros Lucerna Thomas Fiechter spiega quali sono le delizie attualmente di stagione e come si conservano e trattano correttamente a casa Intervista: Claudia Schmidt

Thomas Fiechter, quali varietà di funghi sono disponibili attualmente alla Migros?

Ci sono funghi coltivati come cardoncelli, champignon e shiitake, e anche i pleurotus, conosciuti come orecchioni o funghi ostrica. Tra i funghi selvatici, raccolti a mano, abbiamo i gallinacci e i porcini. Le spugnole sono disponibili solamente in primavera. I funghi selvatici sono ottenibili solo per un breve periodo. E siccome crescono all’aperto, la disponibilità dipende dalle condizioni climatiche. Tra i funghi coltivati ve ne sono di biologici. Da dove arrivano?

Funghi nobili quali cardoncelli, shiitake o pleurotus provengono da coltivazioni svizzere. A dipendenza della regione di vendita, alcuni funghi bio sono anche importati.

Come si conservano correttamente i funghi?

In un sacchetto di carta si mantengono da tre fino a quattro giorni in frigorifero. Si possono anche congelare, ciò che rappresenta un’ottima possibilità di evitare sprechi alimentari. Nei champignon il gambo inizialmente è racchiuso da una membrana. Successivamente si apre. Ciò comporta qualche rilevanza per il consumo?

Questo indica il grado di maturazione del fungo. Se la membrana è aperta, ossia lacerata, il fungo è maturo e non si conserverà ancora a lungo. In ogni caso il fungo è ottimo anche quando la membrana è ancora chiusa. Come si puliscono i funghi?

Non sotto l’acqua, ma a secco con una spazzola per funghi. MM

Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Tagliate la barbabietola a dadini di ½ cm e la zucca a dadini di 2 cm. Staccate le foglioline di timo. Condite separatamente la barbabietola e la zucca con timo, sale, pepe e un po’ d’olio d’oliva. Sistemate le verdure una vicina all’altra su una teglia da forno e cuocetele al centro del forno per ca. 20 minuti. 2. Frullate le barbabietole assieme alla crème fraîche con un frullatore a immersione e schiacciate la zucca, poi mescolate tutto insieme e incorporate il latte. Aggiustate di sale e di pepe. Conservate il purè al caldo. 3. Nel frattempo, dimezzate la cipolla e tagliatela a spicchi. Fatela appassire nella metà dell’olio rimasto, finché diventa morbida. Sfumate con l’aceto balsamico, condite con sale e pepe, incoperchiate e tenete in caldo. 4. Mondate i gallinacci e tagliateli a pezzettoni. Tritate l’aglio e staccate le foglioline di salvia. Rosolate tutto nell’olio restante e condite con sale e pepe. Servite i funghi con il purè e la cipolla all’aceto balsamico. Suggerimento Al posto di una barbabietola cruda usatene una già cotta. Tagliatela non troppo finemente ma a dadini di ca. 2 cm. Al posto della zucca usate le patate dolci. Sostituite o aggiungete ai gallinacci altri tipi di funghi ad es. i funghi champignon. Tempo di preparazione a. 25 minuti + c ca. 15 minuti tostatura Vegetariano Costo:

Competente

economico

Per persona ca. 5 g di proteine, 23 g di grassi, 19 g di carboidrati, 1350 kJ/330 kcal


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Il piacere dei funghi in ogni stagione

Altre info e ricette: migusto.ch/funghi

L’assortimento di funghi della Migros conta fino a 15 varietà. Mentre funghi quali spugnole, gallinacci e porcini sono disponibili per un breve periodo, le varianti coltivate sono invece ottenibili tutto l’anno.

Gallinacci nella vaschetta di legno 200 g al prezzo del giorno

Pleurotus 200 g* al prezzo del giorno

Porcini nella vaschetta di legno 125 g* al prezzo del giorno

Bio Champignons marroni 250 g* al prezzo del giorno

Champignons bianchi 250 g al prezzo del giorno

*Nelle maggiori filiali

Migusto è la piattaforma di cucina Migros www.migusto.ch


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Cultura e Spettacoli

L’arte nel suo habitat Mostre A Morcote la terza edizione della mostra a cielo aperto

Alessia Brughera La storia di Morcote è sempre stata intrisa di arte. A parlarci di questo profonda simbiosi sono le tante testimonianze di epoche passate, soprattutto tardogotiche e rinascimentali, che il quieto borgo sulle sponde del lago di Lugano, tra i più pittoreschi della Confederazione, custodisce gelosamente tra le viuzze e le gradinate che caratterizzano il suo centro. Molti dei vicoli che dal lungolago salgono verso la porzione più alta del paese, poi, portano i nomi delle famiglie di artisti che a cominciare dal XVII secolo sono emigrati verso le più celebri città europee, prima fra tutte Venezia, mettendo a disposizione la loro preparazione per progettarne lo sviluppo urbano o per decorarne gli edifici di maggior pregio. Queste figure, formatesi alla Scuola dei Comacini Morcotesi fondata nel 1623 dall’architetto Giuseppe Fossati e rimasta in vita fino al 1902, ci ricordano il rilevante passato di questo villaggio ticinese quale fucina di talenti artistici. Sulla scia di tale vocazione culturale, oggi Morcote rinsalda il proprio intrinseco rapporto con l’arte attraverso una mostra che coinvolge l’intero paese, spingendosi fino al Parco Scherrer, disseminando così il territorio di segni artistici della contemporaneità. La rassegna, curata da Daniele Agostini, è giunta alla sua terza edizione e incomincia a porsi come un evento «di casa» a Morcote, un progetto che in questa località privilegiata costituisce dal 2016 (l’anno in cui la «Perla del Ce-

resio» si è guadagnata il titolo del più bel borgo della Svizzera) un amato appuntamento estivo a cadenza biennale capace di portare la creatività a diretto contatto con la gente. Fuori dai luoghi tradizionali a essa deputati, l’arte è così libera di invadere la quotidianità delle persone, innescando nuovi meccanismi di partecipazione e di dialogo e caricando di contenuti inediti gli abituali contesti del vivere umano. Fecondo connubio tra storia, natura e arte contemporanea, il percorso morcotese di quest’anno si snoda, come già accadeva nelle edizioni precedenti, tra le vie e le piazzette del paese, toccando alcuni dei suoi punti panoramici e interessando anche i suoi monumenti storici. Sono quattordici gli artisti elvetici o residenti in Svizzera, tra nuove leve e nomi già affermati, invitati a partecipare a questa mostra a cielo aperto e a confrontarsi con il tema di grande attualità che dà il titolo all’evento: Habitat, uno spunto di riflessione che parte dal significato stesso della parola, ovvero l’insieme delle caratteristiche fisiche che favoriscono l’insediamento di una data specie, per sollevare nuovi e più incalzanti quesiti sul delicato rapporto tra uomo e ambiente. Un tema, questo, scelto non a caso per Morcote, da secoli luogo congeniale allo stanziamento umano per il suo clima e la sua posizione strategica. Il percorso, che annovera alcuni interventi site-specific concepiti per colloquiare in maniera ancor più intensa con le peculiarità del borgo lacustre, diventa così una preziosa op-

portunità per esplorare attraverso il mezzo artistico le condizioni di vita dell’individuo e della natura nelle loro molteplici forme di relazione. Tra le opere a inizio itinerario scegliamo di parlare di quella realizzata da Brigham Baker, artista californiano che vive e lavora a Zurigo, la cui ricerca è improntata sull’indagine delle connessioni tra fenomeni naturali e materiali quotidiani. Nella sua installazione dal titolo Patched Islands, ideata appositamente per la rassegna e collocata in Piazza Pomée, alcune palme del Giappone, ribattezzate affettuosamente dai confederati «Tessinerpalme» e divenute simbolo della mediterraneità ticinese, sono state raccolte nei boschi circostanti e posizionate su zerbini di produzione industriale. Private del terreno fertile che le nutre, queste piante insediate su un elemento artificiale sono destinate a inaridirsi, ponendo riflessioni sullo sradicamento dal proprio habitat e sui processi di vita e di morte. Altra opera concepita per Morcote è quella di Alan Bogana, giovane ticinese che sviluppa la propria pratica tra arte, sapere scientifico e immaginario tecnologico. Con l’approccio sperimentale che contraddistingue la sua attività, l’artista ha creato Very Ephemeral Energy Diverter, un’installazione costituita da alcuni bacini sospesi che deviano il naturale flusso di luce e acqua, ponendosi così come un corpo estraneo che invade e ridefinisce il contesto ambientale di origine. Tra i lavori collocati nell’eclettico

Remo Albert Alig & Marionna Fontana, Ninfea, 2017/2020, ottone e alluminio. (Courtesy gli artisti. Daniela & Tonatiuh)

«giardino delle meraviglie» fatto realizzare negli anni Trenta da Arturo Scherrer menzioniamo le sculture in acciaio inossidabile del basilese Florian Graf, solide figure plastiche dalle forme architettoniche che per l’occasione sono state messe in stretto dialogo con le cariatidi dell’Eretteo. Interessanti, poi, le opere della ginevrina Vanessa Billy composte da cavi elettrici e in fibra ottica che, lasciati appositamente scoperti, mimano le sembianze di una pianta, facendoci meditare sul concetto di simulazione e sul labile confine tra organico e artificiale attraverso la coincidenza tra i modelli della vita e quelli dell’arte. Infine, per il tocco di lirismo che conferiscono alla rassegna, citiamo i

due artisti di Coira Remo Albert Alig e Marionna Fontana, che con le loro ninfee dalle foglie dorate, placidamente adagiate sulle acque della Fontana Romana del parco, danno vita a un idilliaco brano di silenzio e poesia in cui uomo e natura paiono trovare un imperturbabile momento di serenità. Dove e quando

Habitat. Rassegna di arte pubblica. Morcote. Fino al 4 ottobre 2020. Nel borgo le opere sono fruibili gratuitamente e senza limiti di accesso. Orari Parco Scherrer: settembre e ottobre 10.00-17.00. L’entrata al parco è gratuita fino a fine mostra. www.morcoteturismo.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Tomic, un bottino da100 milioni di euro Opere scomparse e mai ritrovate/4 La rocambolesca vicenda dell’«uomo ragno» Vréjan Tomic,

cui nel 2010 riesce un furto clamoroso al Musée d’art moderne di Parigi

Emanuela Burgazzoli Il ladro, l’antiquario e l’orologiaio; non è un titolo alla Greenaway ma quello che riassume uno spettacolare furto d’arte, dai risvolti ancora inesplicabili. Il ladro è un quarantaduenne d’origine bosniache, Vréjan Tomic, soprannominato «l’uomo ragno», perché specializzato in arrampicata urbana; ha alle spalle una lunga carriera cominciata da ragazzo nei cimiteri parigini e già una serie di condanne. Una moderna figura di ladro gentiluomo, alla stregua di Arsenio Lupin, come lo definisce il designer Philipp Starck, una vittima di Tomic, in un articolo che il raffinato «New Yorker» ha dedicato al ladro. Nell’aprile 2010 gli viene commissionato il furto di un dipinto di Léger, Les Disques, esposto al Musée d’art moderne della città di Parigi. Per prima cosa effettua i sopralluoghi; entra al museo come visitatore. «Ho calcolato che avevo comunque il tempo di impadronirmi del quadro passando per l’avenue New York, sull’esplanade, e di scappare correndo», dichiarerà Tomic. Qualche giorno più tardi scopre però che Les disques è stato sostituito con un altro dipinto di Léger, la Nature morte aux chandeliers, «altrettanto bello». Tomic è molto meticoloso: impiega alcune notti per preparare la finestra che sarà la via d’accesso al museo e la notte del 20 maggio, poco dopo le due del mattino si introduce nel museo: ha il volto coperto, si aspetta di essere filmato, ma di certo non si aspetta di trovare i

dispositivi d’allarme già disattivati (in parte disattivati dagli stessi sorveglianti per «malfunzionamento», o fuori uso per difetti tecnici, si scoprirà in seguito). Una missione quasi troppo facile per il ladro, che a quel punto, preso il Léger, non resiste alla tentazione di scegliere altre opere d’arte: La Pastorale di Matisse, L’Olivier près de l’Estaque di Braque e il celebre Pigeon aux petits pois di Picasso. Ricordandosi di una prima richiesta del committente Tomic raggiunge la sala all’altro lato del piano e preleva un Modigliani, il Ritratto di Lunia Czechowska con ventaglio. Per poter trasportare i cinque dipinti alla sua auto, si libera delle cornici, ma non dei telai; non vuole correre il rischio di danneggiarli. Sono le 4 e 30: la più grande razzia di opere d’arte dell’ultimo quarto di secolo in Francia è compiuta; il bottino viene stimato a 100 milioni di euro. Non c’è tempo da perdere e già nella tarda mattinata le opere passano dal bagagliaio della sua Renault a quello della Porsche Cayenne del suo ricettatore, un antiquario, che sostiene di essere in contatto con un misterioso acquirente degli Emirati Arabi. Ma il clamore suscitato dal furto ridimensionerà i suoi piani: i dipinti sono diventati le opere d’arte più ricercate di Francia e ormai invendibili, trasformandosi in una vera e propria spada di Damocle, tanto che la pressione si trasforma rapidamente in panico. Ed è a questo punto che entra in scena un esperto di orologi di lusso, suo cliente e amico, che

Le pigeon aux petits pois fu realizzato da Picasso nel 1911. (Wikipedia)

promette di aiutarlo: un sabato mattina dell’inverno del 2010 i dipinti avvolti in sacchi della spazzatura sono trasferiti e nascosti nell’atelier di quest’ultimo. Ma nella primavera del 2011 la svolta con l’arresto di Tomic e dell’antiquario, incolpati per altri furti. Una registrazione telefonica porta gli inquirenti all’orologiaio, che viene interrogato ma rilasciato per insufficienza di prove. A questo

punto però il panico contagia anche lui; sostiene di essere stato intimidito dalla polizia e cede alla paranoia, convincendosi che l’unica soluzione sia liberarsi dei dipinti. Pochi giorni dopo il rilascio, getta i dipinti (o almeno così racconta) nel cassonetto davanti al suo palazzo; un gesto che spiegherà così al giudice istruttore, dopo essere scoppiato in lacrime: «Non piango per me,

ma perché ciò che è fatto è mostruoso. Sono un pazzo». Il suo legale dichiarerà: «Forse sono l’unica persona a Parigi a credere che abbia davvero distrutto i dipinti. Anche se preferirei sbagliarmi». Ma prove certe della loro distruzione non ne esistono. Per il furto sarà processato Tomic, condannato a otto anni di reclusione «per aver sottratto rilevanti beni del patrimonio artistico dell’umanità a beneficio solo di qualche singolo». Ma l’inchiesta lascia ancora zone d’ombra: è realistico pensare che i poliziotti abbiano perquisito l’atelier dell’orologiaio, come lui sostiene, senza aver scoperto i quadri nascosti dietro un armadio? Il fatto di non averli trovati invece sarebbe la prova che le opere erano già finite sul mercato nero o all’estero. Non si sa quindi se il Pigeon aux petits pois di Picasso riemergerà fra qualche decennio: per ora ci restano soltanto le riproduzioni di questa celebre tela dall’ironico titolo dipinta nel 1911, in cui si distinguono un tavolino con bicchiere a stelo, un piatto con piccione ai piselli (omaggio al padre, professore di disegno ed esperto nel dipingere uccelli?), il tutto ambientato in un caffè parigino, come lascia intuire l’unica parola dipinta sulla tela (café) che costituisce un significativo esempio di come la tecnica cubista, con la prospettiva schiacciata per permettere la simultaneità di angolazioni diverse, poteva sovvertire i canoni di un genere antico e nobile come quello della «natura morta». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il testamento infinito Clemente Pautasso, cittadino integerrimo, torinese almeno da tre generazioni, non vuole morire intestato, in altre parole senza aver fatto testamento; non avendo eredi diretti, non vuole che, quando prenderà posto sul pullman in partenza per l’Ultima Gita, i suoi risparmi vadano a ingrassare sedicenti nipoti mai sentiti nominare. Perciò, seguendo il consiglio di un collega, Clemente Pautasso sceglie la formula del testamento olografo, scritto tutto di suo pugno e lo deposita in busta sigillata presso un notaio. Il dispositivo è lineare e non lascia spazio a qualsivoglia dubbio: «Io sottoscritto Clemente Pautasso, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, nomino mio erede universale la città di Torino». Punto. Ne facciano l’uso che meglio credono, lui non pretende lapidi o l’intestazione di una via. Di ritorno dal notaio si ferma a comprare le sigarette e abbandona per due minuti l’auto parcheggiata in seconda fila, giusto in tempo perché

si materializzino un vigile e il suo blocchetto per le multe. Clemente tenta invano di fermarlo: «Guardi che se lei insiste a farmi la multa io ci metto niente a stracciare il mio testamento ancora fresco di inchiostro». «Per me faccia pure», gli risponde il vigile. «Lei non sa cosa fa perdere al suo comune». «No, ma so quello che gli faccio guadagnare facendole la contravvenzione». Clemente paga e s’incammina per ritornare dal notaio, deciso a diseredare il Comune. Per strada gli viene un dubbio: è giusto che la colpa di un singolo individuo venga fatta scontare a un’intera collettività? Non straccerà più il testamento ma aggiungerà un codicillo: lascio ecc. ecc. a condizione che non venga a beneficiarne il Corpo dei Vigili. Già, ma è giusto che il valoroso Corpo dei Vigili venga penalizzato per colpa di una pecora nera? Mettiamola così: che non ne tragga alcun vantaggio quel vigile che il giorno x all’ora y mi ha multato ingiustamente davanti alla tabaccheria sita

in corso Cibrario al civico 2. Giustizia è fatta. Da quel giorno Clemente decide di muoversi in tram per non trovarsi nella condizione di dover diseredare qualche altro vigile. Sennonché un giorno, dopo aver atteso per mezz’ora il passaggio del 15 di fronte a casa sua, quando finalmente arriva una vettura, l’autista non ti va a saltare la fermata nonostante il gesto imperioso del Nostro? Non importa che dietro arrivino altre tre vetture semivuote, la giustizia faccia il suo corso, si riapra l’olografo: «a condizione che non ne beneficino il vigile che ecc. ecc. e il tranviere che ecc. ecc.». Meglio, per non correre altri rischi, muoversi a piedi per andare a Palazzo Madama a visitare la mostra del Mantegna. Per arrivare a scoprire, dopo una lunga camminata, che è stato cambiato l’orario di apertura e che qualcuno si è dimenticato di comunicarlo agli organi di informazione. Chi è questo disgraziato da diseredare senza pietà? Come se fosse facile scoprire un colpevole

nella pubblica amministrazione! Dibattendosi fra il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, Pautasso ogni giorno riscrive il suo testamento e lo va a depositare. Nell’ufficio del notaio hanno fatto l’abitudine alle sue visite quotidiane, tanto che, se qualche rara volta non lo vedono arrivare, gli telefonano a casa per informarsi se sta poco bene e ha bisogno di qualcosa visto che vive da solo. Un giorno volevano fare uno scherzo a una nuova impiegata facendole credere che quel vecchietto era il fattorino dello studio ma non ha funzionato perché, quando lei lo ha mandato a comprare delle marche da bollo, ci è andato senza fare storie. Così, piano piano, fattorino lo è diventato veramente: preciso, fidato, scrupoloso e a costo zero. A stare tutto il giorno in giro per la città a fare commissioni di cose che non vanno se ne vedono, roba che uno deve rubare ore al sonno per riscrivere il suo testamento in modo che l’eredità vada a chi se l’è meritata e

non a qualche infingardo mangiapane a tradimento. Oramai è un malloppo che supera le cinquecento pagine: «nomino ecc. ecc. alla sola condizione che non ne beneficino i seguenti signori: l’addetto alle alberate che, mentre tagliava i rami di un albero ha gridato a me seduto in panchina “Togliti nonno!”; l’operatore ecologico che, avendo io omesso di centrare il bersaglio consistente in cestino di rifiuti con un preciso lancio di bucce di banana, mi apostrofava con l’epiteto di terrone; l’impiegata della biblioteca civica che, avendo io, nella scheda per la richiesta di un romanzo giallo, sbagliato di pochi numeri la sua collocazione, nel consegnarmi l’edizione tedesca della Critica della ragione pura di Kant, parlando con una collega esprimeva qualche dubbio sulla mia capacità di leggere e comprendere la suddetta opera. Richiamando inoltre l’attenzione dell’esecutore testamentario ai casi precedentemente segnalati del vigile, del tranviere, ecc. ecc.»

frattempo. E che non era in grado di integrare le perdite. Accese la luce. Rilesse per l’ennesima volta il breve messaggio con cui il vecchio aveva accompagnato le banconote «Non se ne abbia a male per questo ruvido omaggio. Lo consideri per quello che è». Già, bravo e che cos’è? Un anticipo su future prestazioni? Il biglietto d’ingresso nella vita di una donna tanto più giovane di te? Certo, non sarebbe stata né la prima volta né l’ultima. La madre di Tom li aveva intrattenuti un’intera serata sul tema. Pare che negli Stati Uniti ci siano centinaia di siti che regolano quello scambio: bellezza e giovinezza in cambio di soldi e protezione, soldi e occasioni per guadagnarne altri, soldi e opportunità di lavoro. La madre di Tom non si era astenuta dal sottolineare che loro, lei e Tom, comunque, non erano più abbastanza giovani, benché non fossero certo vecchi. In quei siti le donne che offrivano la loro compagnia avevano

sedici anni, diciotto, mica quaranta. Il ricordo di quel discorso la fece sentire ancora peggio. Si alzò, prese la borsa, aprì il portafoglio, guardò, ancora una volta, l’ambiguo bottino. Potrei bruciarli, questi schifosi soldi, pensò, poi pensò che poteva usarli più utilmente per riempire il frigorifero, ma anche per far incazzare Tom, anzi no, meglio: per farlo sentire inadeguato a proteggerla dagli insulti del mondo. Poteva anche destinarli a pagare l’analista. Ecco, sì, avrebbe fatto così. Li avrebbe dati all’analista come acconto. Gli avrebbe spiegato come li aveva avuti, gli avrebbe raccontato tutto quanto e ne avrebbero parlato a fondo (lei angosciata, lui impassibile) e alla fine lui li avrebbe rifiutati, ovviamente, e quindi lei avrebbe potuto comprare prosciutto, yogurth, frutta, salmone, biscotti... Si addormentò sognando la lista della spesa. La svegliò Sara, scuotendole una spalla.

Era pronta per la scuola e si lamentava che non c’era niente per fare colazione. Betta le diede dieci euro. Ricevette un bacio. Sara adorava spendere soldi al bar. Si alzò adagio, dolorante, come se qualcuno l’avesse picchiata per tutta la notte. Con la luce del giorno le fu perfettamente chiaro che non poteva, in ogni caso, restituire il «ruvido omaggio», nemmeno i 400 euro rimasti, per il semplicissimo motivo che non era in grado di rintracciare il donatore. Non sapeva neanche il suo nome. Si truccò con cura, indossò il cappotto costoso e uscì, pensando che si sarebbe fatto vivo lui. Non poteva non farlo. L’avrebbe trovato fuori dal palazzo, in attesa. Le avrebbe detto qualcosa di spiritoso e galante. Betta si accorse che, al di là di qualsiasi doverosa rimostranza, aveva una gran voglia di vederlo. Non c’era, il vecchio, fuori dal portone. Ma nella buca delle lettere giaceva, intonsa, un’altra busta bianca. (Continua)

Dunque, Camus sembra rivolgersi a noi quando, nella conferenza sulla «crisi dell’uomo», esordisce raccontando qualche episodio recente (il nazismo, contro cui aveva combattuto come partigiano, è caduto non da molto). Episodio 1: nell’edificio della Gestapo di una città europea due torturati sanguinanti sono legati dopo una notte di interrogatori: la portinaia sta facendo le pulizie dopo aver fatto colazione e uno di loro trova la forza di rimproverarle l’assoluta indifferenza. Risposta: «Quel che fanno i miei inquilini non è affar mio». Episodio 2: A Lione un compagno di Camus viene fatto uscire dalla cella per un nuovo interrogatorio: porta una benda intorno alla testa perché in un interrogatorio precedente gli hanno strappato le orecchie. Un ufficiale tedesco gli si avvicina: «Allora, come vanno queste orecchie?». Episodio 3: In Grecia un ufficiale nazista ha ordinato di fucilare tre fratelli partigiani. La madre si getta ai suoi piedi: lui accetta di risparmiarne uno

purché sia lei a sceglierlo. La madre non riesce a decidersi, ma quando il plotone spiana i fucili, lei indica il figlio maggiore, perché ha famiglia. Senza voler semplificare troppo, si tratta di casi estremi che, secondo Camus, permettono di rispondere sì a una domanda chiave: «C’è una crisi dell’uomo?». Potremmo rispondere affermativamente anche noi, sostituendo i tre episodi narrati dallo scrittore francese con altrettanti casi attuali di indifferenza e cinismo. Quanti di noi, pur avendo la tv accesa tutto il giorno, ignorano (come la portinaia di Camus) il destino brutale a cui sono ridotti milioni di profughi in fuga dalle guerre e dalla tortura? Viviamo un sacco di situazioni estreme senza minimamente sentirci coinvolti (e spesso neanche commossi): gli afroamericani uccisi dalla polizia, la ragazza eliminata dal fratello perché innamorata di un trans, il giovane massacrato per essere intervenuto a difesa dell’amico, le minorenni stuprate durante una festa, l’invasato diviso tra Allah e Satana che ammazza un amico,

il prete dei poveri accoltellato per strada da un folle… Tutti casi di cronaca nerissima, diversi tra loro eppure simili nel chiamarci alla nostra partecipazione umana e alla nostra responsabilità. Anche queste vittime, come quelle di Camus, erano persone «in rivolta», con valori negati (amicizia compresa) che non appartengono solo a loro ma sono un «bene comune» su cui bisognerebbe essere «spontaneamente solidali». Che fare? Abbandonare ogni pensiero fatalista, per esempio, metterci in rivolta anche noi. Cambiare prospettiva, mentalità, usare le parole giuste, esprimere la propria indignazione (se c’è). Camus ha risposte illuminate e illuminanti. La prima cosa da fare è: «Chiamare le cose con il loro nome e renderci conto che uccidiamo milioni di uomini ogni volta che accettiamo di pensare certi pensieri. Un uomo non pensa male perché è un assassino. È un assassino perché pensa male. Perciò si può essere assassini senza apparentemente avere mai ucciso. Ed è così che siamo più o meno tutti degli assassini».

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/10 Da Remo, a piazza di Santa Maria Liberatrice, rise con sua figlia, come non accadeva da tempo. Ordinò mezza bottiglia di vino, la bevve fino all’ultimo goccio e concesse a sé stessa e a Sara un dessert da 12 euro, cremoso e sontuoso. Uno a testa, non uno solo con due cucchiaini. Tornarono a casa a braccetto, cantando. L’allegria durò per tutto il tempo dei preparativi per andare a dormire. Sara, per ringraziare sua madre della pizza del dessert della scheda telefonica nuova e dei soldi per risarcire i debiti contratti a scuola, recitò la parte della bambina piccola, chiese il bacio della buona notte e anche «Raccontami una storia, mammina». In genere Betta si commuoveva per quelle pause di regressione. Questa volta si scansò, seppure con gentilezza. «Mammina sta per collassare e deve andare a letto subito subito». Il bacio fu lungo e significativo, però,

come per cancellare settimane di scaramucce e proteste. Qualsiasi morbosa curiosità sulla scomparsa del padre fu accantonata. Dunque basta così poco, pensò Betta, mentre cercava, inutilmente, di prendere sonno. Bastano cinque banconote da cento euro e siamo di nuovo tutti amici. Improvvisamente, nel buio denso delle quattro del mattino, quei soldi le parvero sporchi. Decise che glieli avrebbe restituiti e si compose in testa una lettera glaciale e dignitosa. Egregio signore, ho accettato in una serata di malinconia una caipirinha e una cena. Ho gradito la sua cortesia e la sua compagnia ma questo non le dà il diritto di offendermi come mi ha offesa. Non ho bisogno né desiderio dei suoi soldi. E non ho niente da offrirle in cambio. Pensò che l’avrebbe scritta, la lettera, poi l’avrebbe stampata e infilata in una busta con i 500 euro. Peccato che i 500 euro erano diventati 410, nel

Voti d’aria di Paolo Di Stefano In rivolta con Camus Ovunque echeggi nell’aria il nome di Albert Camus, si avverte immediatamente un irresistibile profumo di intelligenza e di verità. E per fortuna è capitato spesso in quest’anno disgraziato. È capitato perché l’epidemia e la condizione che ne è derivata hanno suggerito a molti di leggere o rileggere quel capolavoro della narrazione morale che è La peste, non a caso comparso nelle classifiche di vendita: piacevole sorpresa accanto ai tanti altri titoli inguardabili (illeggibili) che vanno per la maggiore. Si è parlato di Camus anche perché il 4 gennaio sono caduti i sessant’anni dalla morte: avvenuta per un incidente stradale a Villeblevin, in Borgogna, mentre con l’editore Michel Gallimard e la sua famiglia lo scrittore tornava a Parigi dalla Provenza, dove aveva passato il Capodanno. Morirono quasi sul colpo gli amici Albert e Michel, che guidava l’elegante Facel Vega FV3B impazzita, mentre rimasero pressoché illese la moglie e la figlia dell’editore. Questo sia detto per dovere di cronaca, con l’aggiunta che sull’inci-

dente incombe l’ombra del delitto politico ordito dal KGB contro l’autorevole e severo oppositore dell’occupazione sovietica in Ungheria. Tre anni prima, a soli 44 anni, Camus aveva vinto il premio Nobel: ma a soli 44 anni aveva già scritto Lo straniero, La peste, La caduta, oltre ai saggi del Mito di Sisifo e de L’uomo in rivolta. Al quale ultimo va il massimo dei voti d’aria, come ai primi due romanzi. In realtà, Camus non stava simpatico neppure agli Stati Uniti, anche se nella primavera del 1946 fu invitato dal Ministero degli esteri a tenere una serie di lezioni in Nord America. Il primo intervento pubblico, letto la sera del 28 marzo alla Columbia University, si intitolava «La crisi dell’uomo» e viene ripubblicato ora da Bompiani nel volume Conferenze e discorsi (1927-1958). Sono discorsi stupefacenti, perché parlano del dopoguerra ma potrebbero benissimo trattare dell’oggi, dando l’impressione che settant’anni e più, per tanti aspetti (umani e civili più che strettamente politici), siano trascorsi invano.


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