Azione 39 del 21 settembre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Pro Senectute ha creato un nuovo servizio fiduciario che accompagna gli anziani nelle pratiche amministrative

Ambiente e Benessere «Il Filo di speranza» è un’associazione che sostiene le persone confrontate con neuropatie specifiche

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 21 settembre 2020

Azione 39 Politica e Economia Il nuovo libro di Bob Woodward su Trump non sposta l’ago della bilancia elettorale

Cultura e Spettacoli Al Musec di Lugano una mostra straordinaria per scoprire l’arte del Kakemono

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Inizio di disgelo fra arabi e israeliani

Morcote diventa una galleria d’arte

di Peter Schiesser

di Alessia Brughera

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Daniela & Tonatiuh

È l’alba di un nuovo Medio Oriente, come annunciato dal presidente statunitense Trump? Forse. Di certo la decisione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele è un evento storico, come ha rimarcato il premier israeliano Netanyahu, la cui portata sarà misurata sugli effetti che avrà su altri paesi arabi (Egitto e Giordania avevano già normalizzato le relazioni nel 1979 e nel 1994). Ne seguiranno altri? Si parla dell’Oman, ma anche del Sudan, mentre l’Arabia Saudita, potenza regionale che si contende la supremazia con l’Iran, non si muove ancora. Il Bahrain è quasi un suo Stato vassallo, la sua monarchia (sunnita come quella saudita) comanda su una popolazione a maggioranza sciita che occhieggia a Teheran, è poco immaginabile che abbia deciso di normalizzare i rapporti con Israele senza il beneplacito di Ryad, in particolare del principe ereditario Mohamed bin Salman. Per ora la posizione ufficiale della monarchia saudita è che non può esserci normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale (così il ministro degli esteri Faisal Ben Farhan il 17 agosto), coerentemente con «l’iniziativa di pace araba» lanciata nel 2002 dal defunot Re Abdullah; tuttavia nel recente passato Mohamed bin Salman ha lanciato segnali di apertura verso Israele, secondo alcuni vorrebbe coinvolgerlo nella realizzazione del suo piano di sviluppo economico, «Visione 2030», con cui intende liberare l’Arabia Saudita dalla dipendenza dal petrolio. In senso stretto, non si tratta di un accordo di pace, poiché fra questi tre Stati non c’è mai stata guerra. E in realtà intrattengono rapporti in campo economico e della sicurezza da diversi anni, benché in sordina, come fanno anche altri paesi. Riconoscerli ufficialmente cambia però le carte in tavola: Israele cessa di essere considerato un paria e può ambire a una maggiore integrazione in un Medio Oriente in cui fino ad oggi è stato al massimo mal tollerato. Per Netanyahu un bel regalo in un momento di difficoltà interne, con Israele che ha decretato il secondo lockdown a causa della pandemia, per Trump un successo in politica estera più sostanzioso dell’accordo con i talebani afghani e dei tentativi di risolvere il decennale stato di crisi con la Corea del Nord. Ma come si è giunti a questa svolta? Secondo quanto letto sul «New York Times» la proposta di normalizzare le relazioni con Israele è giunta dagli Emirati Arabi Uniti, in cambio della rinuncia da parte di Israele di annettersi la Cisgiordania. L’Amministrazione Trump ha colto la palla al balzo, con il merito di capire la portata storica che poteva avere questa mossa. Tuttavia, una simile decisione non sorge dal nulla: rispetto a 20, 30, 50 anni fa il Medio Oriente è mutato, drammaticamente si può dire. La questione palestinese ha perso la sua centralità, messa in ombra dalle rivoluzioni della cosiddetta «Primavera araba» del 2011 e dalle sanguinose guerre e rivolte che ne sono seguite, in cui le vecchie élite hanno dovuto (e devono tuttora) temere di finire come Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia o peggio come Gheddafi in Libia. Inoltre, le guerre, soprattutto quella in Siria ma anche quella scatenata dall’Arabia Saudita nello Yemen, hanno riportato a galla il fossato fra sunniti e sciiti, i primi capitanati dall’Arabia Saudita, i secondi dall’Iran, rendendo ancora più visibile e palpabile sul terreno lo scontro di potere fra queste due potenze regionali. Infatti, molti commentatori leggono questa svolta in funzione anti-iraniana: alla prova dei fatti ai regnanti arabi fa più paura Teheran di Tel Aviv (ricordiamo che nel Bahrain fra il 2011 e il 2014 ci sono state proteste popolari e scontri con morti e feriti che hanno coinvolto cittadini sciiti contro forze dell’ordine e cittadini sunniti). Dopo questo decennio sanguinoso, che ha visto anche la nascita e il declino dello Stato Islamico, è venuto a cadere l’assioma secondo cui la pace in Medio Oriente dipende solo dall’esistenza e dal comportamento di Israele. I perdenti sono chiaramente i palestinesi. Non possono più contare sull’appoggio incondizionato dei fratelli arabi, né sul fatto che gli Stati Uniti giochino il ruolo di veri mediatori (il piano di pace presentato dall’Amministrazione Trump riconosceva quasi unicamente le pretese israeliane ed è stato quindi rifiutato dai palestinesi). Il loro isolamento è aggravato dalla spaccatura fra Hamas, che controlla Gaza, e l’Autorità nazionale palestinese, radicata nella Cisgiordania. Ottimisticamente, c’é chi ipotizza che, venendo pian piano a cadere le minacce esterne, Israele si ammorbidisca anche verso i palestinesi, che l’idea di uno Stato autonomo per i palestinesi potrebbe tornare d’attualità. Ma potrebbe essere anche il contrario. In quel caso la rabbia dei palestinesi, figlia di una frustrazione e di un’oppressione decennale, potrebbe esplodere nuovamente. Anche oggi, una vera pace in Medio Oriente non può prescindere da una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

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