Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Le emozioni non appartengono solo alla sfera privata ma anche a quella collettiva e le neuroscienze le indagano
Ambiente e Benessere Carlo Chizzolini, immunologo del Centre Medical Universitaire di Ginevra, ci parla di sistema immunitario e Covid-19
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 19 ottobre 2020
Azione 43 Politica e Economia Caos in Spagna, la magistratura contro il governo annulla il lockdown a Madrid
Cultura e Spettacoli Pubblicati da Aragno gli scottanti taccuini «segreti» di Cesare Pavese
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Stefano Spinelli
Storie e tesori alla BiblioBaobab
di Sara Rossi Guidicelli pagina 9
Colti di sorpresa, di nuovo di Peter Schiesser Le parole e i numeri invecchiano rapidamente in tempi di pandemia. In Svizzera siamo passati dai circa 500 casi registrati a inizio mese ai 2800 annunciati mercoledì scorso. Da preoccupante la situazione è diventata... molto preoccupante. Non la si definisce ancora allarmante, poiché gli ospedali (quasi tutti) non sono sovraccarichi, più allarmante è invece constatare come nel complesso la popolazione in Svizzera e in Europa abbia messo da parte la prudenza. Senza dubbio, la seconda ondata è arrivata. E ci ha colti di nuovo di sorpresa, autorità comprese. I dati lo confermano: aumentano le ospedalizzazioni, anche fra chi ha più di 60 anni, il tasso di positività dei tamponi effettuati ha toccato la settimana scorsa un picco del 15 per cento, ciò che ha fatto spinto Matthias Egger, ex presidente della task force di esperti, a stimare un numero di infettati cinque volte superiore a quelli ufficiali (in marzo erano dieci volte tanto, in agosto due-tre, secondo precedenti stime). I decessi ci sono, quotidianamente, ma non ancora in tal numero da spaventare la popolazione. Tuttavia, con lo stesso stupore con cui guardammo le immagini del
lockdown a Wuhan, oggi vediamo il presidente francese Macron ordinare il coprifuoco dalle 21 per quattro settimane a Parigi e in altre sette grandi città francesi, con severe conseguenze per ristoranti, bar, cinema, sale da concerto, teatri. Con la stessa preoccupazione registriamo nuovi lockdown, come quello nell’Irlanda del nord per 4 settimane, quello parziale in Olanda e quelli imposti e contestati in Spagna (vedi Nocioni a pagina 25), ma anche la decisione del Galles di chiudere le frontiere ai cittadini di altri paesi della Gran Bretagna se provenienti da regioni a rischio. Assisteremo presto a nuove chiusure di frontiere? Generalmente oggi si usa di più lo strumento del divieto di viaggiare nei paesi e nelle zone ad alto rischio, ossia quasi ovunque in Europa, di questo passo. Aleggia un nuovo lockdown? Tutti vogliono evitarlo, autorità cantonali e federali, il mondo economico, la popolazione. Ma non aspettiamoci interventi risolutori dalla politica federale (a parte l’invito ad attivare la app SwissCovid): Berna lascia tuttora il timone ai governi cantonali, riattiverebbe la «situazione d’emergenza» solo di fronte al rischio di un collasso delle strutture ospedaliere. I cantoni, ancora in modo poco concertato (d’altronde le realtà sono diverse),
impongono restrizioni à la carte, dall’obbligo della mascherina nei negozi, a restrizioni di aperture di locali pubblici la sera, a limitazioni del numero di persone che possono riunirsi, e probabilmente presto si andrà verso un obbligo generalizzato della mascherina in tutti i luoghi chiusi, ambienti di lavoro compresi (speriamo non anche all’aperto, come in Italia). Ma tutto questo ha e avrà un impatto relativo: se una volta scesi dall’autobus ci si toglie la mascherina e ci si bacia e abbraccia, tanto vale. Pur non dicendolo troppo ad alta voce, anche le autorità constatano che è proprio la disciplina nella popolazione che sta venendo a mancare. Forse l’estate ci ha dato la falsa sicurezza (e il sollievo!) che ci si potesse di nuovo venire più vicini, l’autunno invece ci sta dicendo che così le cose non vanno. La situazione è difficile: si è stanchi delle restrizioni, come lo riconosce anche il Consiglio federale, per cui si è meno disposti a fare di nuovo un passo indietro, a riprendere le distanze dagli amici. Eppure serve di nuovo consapevolezza che saremo solo noi, con il nostro comportamento, a poter schiacciare di nuovo la curva o a farla schizzare ancora più in alto. Alla fine sarà nostra responsabilità collettiva, il nostro fallimento, se verrà decretato un nuovo lockdown.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Concorsi per i lettori
Paolo Rossi a ruota libera
L’Osi riprende il ritmo
a tutta la sua attività teatrale e alla tradizione dei grandi personaggi «controcorrente»
autunno-inverno di grandi proposte
Teatro L’attore milanese porta al LAC il suo spettacolo in cui riprende i temi cari
Nella percezione di molti l’immagine di Paolo Rossi è probabilmente legata al suo ruolo e al suo particolare modo di stare sul palco, come un divertente e dissacrante Pierino la Peste che si pone in posizione critica e originale verso il «mainstream» imperante nel mondo dello spettacolo. Di fatto l’attore italiano viaggia ormai tranquillamente verso i 70 anni (è nato nel 1953 a Monfalcone) e questa sua apparenza di perenne adolescente contestatore si va lentamente trasformando in quella di un saggio filosofo con il gusto della battuta divertente. Non a caso il suo nuovo spettacolo, che porterà in scena anche sul palco del LAC di Lugano i prossimi 27 e 28 ottobre, vuole rievocare gli incontri con quelli che ha definito i suoi maestri: alcuni degli artisti con cui ha calcato le scene a partire dagli anni 70 e che hanno segnato il particolare clima culturale della Milano di fine 900. «Giocando con l’illusione di mettermi sul palco – o su ciò che useremo come tale per bisogno o necessità – sia come attore, sia come personaggio e come persona, rievocherò i miei sogni lucidi, fatti di storie che aiutano a resistere, a scegliere tra il pane e la libertà, o a non scegliere proprio» ha dichiarato Rossi presentando il suo spettacolo Pane o libertà. Su la testa. «Sono storie di artisti che per fortuna ho realmente incontrato nella mia vita. I maestri Jannacci, Gaber, De André, Fo e persino il fantasma della Callas; i comici del Derby e altri sconosciuti. Parlerò di queste personalità fantasmagoriche e poetiche, non controllabili da nessun piccolo o grande fratello, che con le loro narrazioni portano conforto, idee per lottare e speran-
Sarà al LAC i prossimi 27 e 28 ottobre. (MoniQue)
za. Vorrei fare qualcosa che dia al mio essere chiamato comico una via di fuga verso un teatro sociale, nella poesia del buffo e della magia. Roba minima. Tanto per alzare le difese immunitarie del pubblico presente… o meno». Il progetto di Rossi, in effetti, è stato elaborato nel periodo di lockdown forzato imposto dall’attuale pandemia. Lo spettacolo unisce come di consueto il ruolo di comico «stand up», i canoni della commedia dell’arte (il personaggio di riferimento per il narratore di questo Pane o libertà è volutamente quello di Arlecchino) e persino suggestioni dalla commedia greca. Senza dimenticare, comunque, la lezione di William Shakespeare, che Paolo Rossi ha saputo portare in scena con grande originalità in più
di un’occasione nelle scorse stagioni. Il suo contributo vuole configurarsi come quello di un teatro di emergenza che si riappropria del ruolo di contastorie per dare conforto agli spettatori. «Il titolo Pane o libertà l’ho ripreso da un libro» ha spiegato Paolo Rossi. «Lo trovo molto emblematico: si impone la scelta tra mangiare, vivere o avere la libertà». Il sottotitolo, Su la testa, invece, è stato coniato dall’attore nel 1992 per la trasmissione televisiva che lo consacrò come «il più rock tra i comici italiani». Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi legati alla rappresentazione teatrale, per lo spettacolo viene garantita la distanza fisica (una poltrona libera): la vendita dei biglietti online rende disponibile unicamente la modalità di prenotazione con la selezione auto-
matica del miglior posto. La modalità di acquisto con selezione del posto in pianta sala è disponibile invece presso la Biglietteria del LAC, telefonando al numero +41 58 866 42 22. Il Percento culturale di Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» la possibilità di aggiudicarsi alcuni biglietti gratuiti per la serata del 27 ottobre. Biglietti in palio
Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi In collaborazione con
Concerti Un
L’Orchestra della Svizzera Italiana riprende il ciclo delle sue esibizioni e torna ad abitare il suo spazio ideale, la sala da concerto del LAC di Lugano. Il programma delle esibizioni previste fino alla fine di dicembre propone un cartellone di grande prestigio, con scelte musicali che spaziano attraverso la storia della musica, dall’epoca classica a quella contemporanea, e che, come di consueto, daranno al nostro pubblico la possibilità di ascoltare alcuni tra i più importanti interpreti attualmente attivi sulle scene internazionali. La scaletta dei concerti si apre i prossimi 29 e 30 ottobre (ore 20:30) sotto la direzione di François Leleux e con la prestigiosa partecipazione di Alexandra Dovgan al pianoforte (si veda la presentazione a p. 41 di questo numero); saranno proposte musiche di L. Dallapiccola (Piccola musica notturna per orchestra), W. A. Mozart (Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in la maggiore KV 488) e di F. Mendelssohn (Sinfonia n. 4 in la maggiore Italiana) ( Sempre al LAC di Lugano il 19 novembre 2020 (ore 20.30) sotto la direzione di François Leleux e con Sergej Krylov al violino verranno eseguiti brani di Carl Maria von Weber (Der Freischütz ouverture), Niccolò Paganini (Concerto per violino e orchestra n. 5 in la minore) e di Johannes Brahms (Sinfonia n. 3 in fa maggiore).
Tempo di speranza
Letteratura Dal 29 ottobre al 1° novembre tornano gli Eventi letterari Monte Verità
che propongono una riflessione sul futuro e sulle nostre aspettative L’ottava edizione degli Eventi letterari Monte Verità, inizialmente prevista per lo scorso aprile e sospesa a causa della pandemia, avrà luogo da giovedì 29 ottobre a domenica 1° novembre 2020 al Monte Verità, la leggendaria collina delle utopie sopra Ascona, e al PalaCinema di Locarno. «Grandi Speranze» rimane il tema, che prende spunto dal celebre romanzo
di Charles Dickens, del quale ricorrono i 150 anni dalla morte. Tema che, alla luce del difficile periodo che ci siamo trovati ad affrontare, assume ulteriori significati e contenuti. Come previsto, sarà lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi, una delle voci più interessanti e originali della letteratura contemporanea, ad aprire le giornate letterarie, la sera di giovedì
La collina delle utopie si anima grazie ai protagonisti della scrittura.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
29 ottobre (ore 19.00), al PalaCinema di Locarno. Gli incontri proseguiranno nel pomeriggio di venerdì 30 ottobre al Monte Verità di Ascona con lo scienziato-filosofo Emanuele Coccia (ore 16.00),poi con la scrittrice e drammaturga georgiana Nino Haratischwili (ore 17.30). La giornata si concluderà con la scrittrice Melania G. Mazzucco (ore 21.00). Sabato 31 ottobre (ore 11.00) sarà dedicato alla cerimonia di consegna del prestigioso Premio Enrico Filippini. La giornata proseguirà con il poeta e scrittore islandese Jón Kalman Stefánsson (ore 14.00) e Simone Lappert (ore 16.00). Di nuovi schiavismi parlerà invece Tahar Ben Jelloun (ore 17.30).Alle (ore 21.00) il poeta tedesco Durs Grünbein dialogherà con Fabio Pusterla e Stefano Prandi sull’opera di Dante Alighieri. L’attore Leonardo de Colle leggerà brani della Divina Commedia. Domenica 1° novembre (ore 11.00) lo scrittore tedesco Ingo Schulze si porrà un interrogativo radicale su socialismo e capitalismo. L’evento di chiusura si svolgerà quest’anno al Monte Verità, sempre domenica, nel pomeriggio (ore Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
15.00), con un incontro dal titolo Voci dal mondo sospeso, con Nino Haratischwili, Fabio Pusterla ed Emanuele Trevi. Gli Eventi letterari Monte Verità si svolgeranno nel pieno rispetto delle norme di sicurezza vigenti. Gli incontri in programma potranno inoltre essere seguiti anche in diretta streaming, accessibile sul sito www.eventiletterari.swiss. È previsto anche un appuntamento prefestival: la proiezione del film My Beautiful Laundrette il 25.10 (ore 18.30) al Cinema Otello di Ascona. Il Percento culturale di Migros Ticino, che sostiene la manifestazione offre ai lettori di «Azione» alcuni biglietti omaggio per l’evento con lo scrittore britannico Hanif Kureishi. Biglietti in palio
Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi In collaborazione con
Tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Alexandra Dovgan al pianoforte sarà protagonista il 29 e 30 ottobre.
Il 24 novembre (ore 20.30) l’Osi si sposterà in trasferta al Teatro di Chiasso per un omaggio ad Arturo Benedetti Michelangeli, in occasione del suo centenario dalla nascita. L’OSI sarà diretta per l’occasione da Pietro Mianiti, mentre al pianoforte siederà Giuseppe Albanese. Il programma prevede musiche di L. van Beethoven, di cui quest’anno ricorrono i 250 anni dalla nascita. Il prossimo 2 dicembre 2020 (ore 20.30) l’OSI si unirà all’Orchestra del Conservatorio della Svizzera italiana e sotto la bacchetta di Markus Poschner proporrà due classici novecenteschi, Le Sacre du printemps, quadri della Russia pagana di Igor Stravinskij e La valse, poema coreografico, di Maurice Ravel. Biglietti in palio
«Azione» in collaborazione con l’OSI mette in palio per i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto del 30 ottobre prossimo. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione. ch/concorsi. Buona Fortuna! Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Società e Territorio Nuovi direttori Tre testate giornalistiche in Ticino cambieranno direttore, «Corriere del Ticino» e «laRegione» hanno già nominato i successori, si attende la RSI
Libri, storie, incontri e tanti progetti Nel cuore di Bellinzona scopriamo la biblioteca interculturale gestita dalla Cooperativa Baobab pagina 9
Castagno, albero per antonomasia Il designer Giulio Parini e l’architetto Federico Rella hanno compiuto un viaggio etnografico alla ricerca della grande civiltà perduta del castagno pagina 10
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Anche le neuroscienze studiano le emozioni rilevando l’aspetto fisiologico, cioè le risposte del corpo e del cervello. (Pixabay)
Le emozioni sociali
Psicologia Sono le emozioni che ci permettono di sentirci parte di una comunità e condividere valori morali Stefania Prandi Le emozioni permettono di sentirci parte di una comunità, avere valori morali condivisi, provare empatia e immedesimarci negli altri. Non appartengono soltanto alla dimensione privata della vita, ma anche a quella collettiva. La filosofia ha indagato le emozioni – chiamate sentimenti, affetti o passioni – dalla Grecia antica, con Platone e Aristotele. Nei secoli successivi se ne sono occupati René Descartes, Baruch Spinoza, David Hume, solo per fare qualche nome, fino ad arrivare alla contemporanea Martha Nussbaum. In anni più recenti questi «stati psichici» sono stati studiati anche dalle neuroscienze, utilizzando (grazie all’evoluzione tecnologica), fuori dai laboratori, strumenti come la risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalografia che hanno fornito informazioni rilevanti sui meccanismi neurali coinvolti nei processi di interazione sociale. Metodi e scoperte più recenti sono raccontate in Neuroscienze delle emozioni (Franco Angeli) da Michela Balconi, docente di Psicofisiologia e neuroscienze cognitive e direttrice dell’International research center for
cognitive applied neuroscience (Irccan) all’Università Cattolica di Milano e Brescia. La professoressa e ricercatrice spiega ad «Azione»: «Le emozioni sono un caleidoscopio di componenti perché sono fatte di molte parti e si studiano da prospettive diverse. C’è chi si occupa dell’esperienza personale, chi del fattore di tipo relazionale, chiamando in causa le situazioni e i rapporti con le persone. Io mi occupo di rilevare l’aspetto fisiologico, cioè le risposte del corpo e del cervello». Le emozioni non sono innate e uguali per tutti. Al contrario, vengono condizionate dalla predisposizione e dall’ambiente di appartenenza. «Sappiamo con certezza che non tutti i popoli hanno gli stessi correlati emotivi. Ad esempio, chi vive nel continente asiatico esprime emozioni diverse, in maniere differenti, dagli europei. Una situazione dovuta al modo in cui le emozioni vengono regolate dalla cultura di riferimento, capace di renderne alcune preminenti rispetto ad altre. In occidente prevalgono le emozioni individuali, mentre in oriente il soggetto non è prioritario, è il bene della società che conta anche a scapito dell’auto sacrificio dei singoli» dice Balconi. Ci sono emozioni sociali comuni a
certe aree del mondo, come ad esempio la schadenfreude, la gioia per le disgrazie degli altri, che nasce dall’invidia, dal senso di impotenza e frustrazione, dal desiderare qualcosa che non si ha. La schadenfreude deriva dalla consapevolezza di non potere raggiungere lo stato di felicità di qualcuno che conosciamo, anche indirettamente, e ci fa godere della sua malasorte. «Possiamo considerarla un’emozione che esiste da sempre. Sicuramente trova terreno fertile quando le persone vivono in società dove devono dimostrare in continuazione di non essere da meno degli altri. I mass media e i social network sono un potente diffusore di schadenfreude perché spingono a fare paragoni rispetto alle proprie capacità e performance». A questo proposito, è utile puntualizzare che le emozioni che si diffondono in rete non sono meno reali di quelle che scaturiscono dall’interazione dei corpi. Le esperienze online, secondo Balconi, sono «emotive» a tutti gli effetti, anche se si rivelano meno stabili nel breve tempo, «più volubili, quasi volatili». Si spalmano su gruppi di individui, a piccoli pezzi, nelle community dove c’è una figura oppure un tema che fa da leader e dà la connotazione emotiva, il «mood». Col passare del tempo, sosten-
gono gli esperti, le emozioni virtuali porteranno a un profondo cambiamento sociale, nella percezione e nell’espressione di ciò che proviamo, sia nelle macro sia nelle micro-culture. Emozioni e moralità sono strettamente imparentate. Sono la colpa e la vergogna per qualcosa che commettiamo a farci capire di non essere in linea con la nostra cultura di appartenenza. E la paura di essere puniti materialmente è un deterrente che ci scoraggia dal compiere certe azioni nocive per gli altri. Però non tutte le persone provano le stesse emozioni sociali. Esiste, infatti, una componente fisiologica, una maggiore sensibilità di alcuni individui a usare i meccanismi di «mirroring» e «mentalizzazione». Con il termine «mirroring» ci si riferisce «a una mappatura spontanea prodotta in risposta agli stati emotivi degli altri, che possono essere espressi attraverso le espressioni facciali, i gesti, i suoni e le posture del corpo, consentendo la formulazione di una rappresentazione condivisa delle emozioni tra l’osservato e l’osservatore». La «mentalizzazione» permette, «attraverso una proiezione mentale di se stessi sugli altri e il rispecchiamento delle rappresentazioni interne sulle azioni altrui», la
riproduzione delle emozioni come se fossero le proprie. Al di là della predisposizione caratteriale, la componente culturale gioca un ruolo basilare nella relazione tra emozioni e moralità: l’educazione che si riceve in famiglia e a scuola dà il senso di «agency», cioè il sapere che si è responsabili di ciò che si fa, che le proprie azioni hanno delle conseguenze. Fondamentale in questo senso è l’empatia. Non è un’emozione «buonista», per usare un termine entrato in voga da qualche tempo, perché non poggia soltanto su un senso di altruismo. Ha in realtà solide basi opportunistiche perché come esseri umani abbiamo imparato dalla storia che non possiamo sopravvivere da soli. «L’empatia va ben oltre la semplice reattività affettiva, in quanto è in grado di influenzare la nostra capacità di interpretare gli altri, così come le strutture cognitive responsabili sia della comprensione sia del comportamento altrui». È un’emozione autoconsapevole: razionalmente riconosciamo quello che provano gli altri pur non provandolo e riusciamo a fare parte di una società, mettendo in atto strategie collaborative che speriamo possano esserci utili, nel momento del bisogno.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
La spesa facile e sicura
Attualità Ordina online su Smood.ch i tuoi acquisti alla Migros e fatteli consegnare in meno di un’ora
Fare la tua spesa Migros comodamente da casa e in tutta sicurezza ai tempi del Covid, ma non solo? Niente di più facile. A dimostrarlo è il successo riscontrato dal servizio di consegna a domicilio Smood.ch a poco più di un mese dal lancio, con l’incremento costante degli ordini da parte degli utenti ticinesi. Sul portale e sull’App di questo negozio virtuale ti aspettano ben oltre 6000 prodotti Migros dei settori alimentari e non alimentari al medesimo prezzo che puoi trovare in negozio. La scelta spazia dagli articoli bio ai prodotti freschi di frutta, verdura, carne, pesce e latticini; dai surgelati alla panetteria; dalle bibite al food fino ai prodotti per l’igiene e la salute. Nell’ampia selezione non mancano nemmeno diversi articoli regionali dei «Nostrani del Ticino», come pure le promozioni settimanali e le novità del momento. Come detto, la procedura d’ordinazione è facile e assolutamente intuitiva: è sufficiente collegarsi al sito Smood.ch o alla relativa App – scaricabile gratuitamente dagli store Apple o Google – e iscriversi. A questo punto puoi iniziare subito a fare la spesa. Una volta completato l’ordine, puoi effettuare il pagamento sicuro con le principali carte di credito e nel giro di un’ora – o quando vuoi tu – ti verrà consegnata. Sulla piattaforma hai anche la possibilità di creare delle liste della spesa per i prossimi ordini e approfittare di consigli per gli acquisti, ricette e altre idee. Prossimamente verrà anche introdotta la possibilità del ritiro in filiale. Infine, va da sé che la consegna a domicilio da parte dei driver Smood.ch avviene nel pieno rispetto delle norme di protezione e igiene anti-Covid, nella fattispecie indossando mascherina e guanti e con la possibilità di farsi lasciare la spesa davanti alla porta di casa.
Subito in tavola
Novità Le proposte invernali di gastronomia pronta ti aspettano
nelle maggiori filiali Migros Qualità, varietà e freschezza sono gli atout che caratterizzano le specialità pronte take away disponibili presso i nostri reparti gastronomia. Queste pietanze sono preparate quotidianamente in Ticino da abili mani con l’utilizzo di ingredienti attentamente selezionati, seguendo ricette classiche della tradizione. In pochi minuti sono
pronte in tavola, semplicemente riscaldandole nel forno, in padella o nel microonde. La scelta spazia dai primi ai secondi fino ai piatti unici e ti permette di comporre il menu secondo i tuoi gusti ed esigenze. L’ampia selezione annovera manicaretti a base di carne quali il classico brasato di manzo, le polpette di vitello con piselli, il
pollo alla cacciatora o lo sminuzzato di vitello. Chi predilige i piatti privi di carne può invece scegliere tra crespelle taleggio/carciofi, torta alle zucchine, polpette di patate e verza, torta pasqualina o involtini di verza. Risotto ai porcini e riso al salmone completano questa proposta gastronomica invernale.
Olio Evo in latta da 1 litro
Novità Un olio di qualità ad un prezzo
vantaggioso per la cucina di tutti i giorni
L’olio extra vergine di oliva non può mai mancare in cucina. Il nuovo olio Evo «Classico Marca Verde» nella latta da 1 litro è ideale per l’uso quotidiano, perché possiede un sapore delicato, fresco e fruttato. Soddisfa le esigenze più disparate in cucina, dalla cottura dei cibi all’utilizzo a crudo. Si tratta di un olio filtrato di categoria superiore di origine Europea ottenuto direttamente dalle olive e solo tramite procedimenti meccanici. Viene accuratamente selezionato e confezionato dalla Olearia del Chianti, azienda toscana che da oltre trent’anni ha fatto della produzione di olio di oliva di qualità il suo punto di forza.
Dal brasato di manzo accompagnato con una fumante polenta alla torta pasqualina: la scelta dei reparti gastronomia Migros è assolutamente irresistibile.
Olio Extra Vergine di Oliva latta da 1 litro Fr. 10.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
Per un po’ di spensieratezza Attualità Entra nello spirito di Halloween con i nostri articoli a tema
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7 Per molti bambini Halloween è ormai diventato un tradizionale appuntamento dell’autunno. Come vuole l’usanza, il 31 ottobre ci si traveste da fantasma, streghetta, diavoletto, vampiro… e, al motto di «dolcetto o scherzetto», si fa incetta di tante golosità. Altra simpatica attività famigliare da svolgere con i più piccoli è quella di intagliare una zucca per realizzare spiritose e spaventose facce da illuminare. Sia quel che sia, quest’anno festeggiare Halloween a casa non è mai stato così divertente con i nostri suggerimenti.
Per raccogliere tanti golosi dolcetti ci vuole il sacco giusto con un simpatico motivo. Deliziosi biscotti a forma di teschietto con base di pasta frolla e delizioso ripieno al cioccolato.
Impossibile resistere a questi dolci belli da vedere e buoni da mangiare con cuore di crema al cioccolato.
La zucca perfetta da intagliare per realizzare le faccine da paura più fantasiose e divertenti.
Un grande classico rivisitato con finissimo cioccolato e crema all’arancia sanguigna.
1
Biscotti di Halloween 200 g Fr. 3.80
3
Moretti di Halloween 160 g Fr. 4.90
5
Zucca da intagliare Fr. 4.70
4
MiniMorettidiHalloween200gFr.6.50
Libero sfogo alla creatività con l’aiuto di questo set composto da raschietto, coltellino, scavino e spatola.
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Cupcake di Halloween 170 g Fr. 4.80
Dolcetti in formato mini con ripieno di morbida mousse e guscio di cioccolato croccante firmato Villars.
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Set per intaglio zucche Fr. 8.95
7
Sacco riflettente Fr. 3.95
I costumi per bambini da diavoletto e streghetta sono solo alcuni dei diversi modelli disponibili.
8 Costumi Halloween diversi soggetti, a partire da Fr. 19.95
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Società e Territorio
Cambiano i direttori di tre testate
Media Alla fine dell’anno tre testate giornalistiche in Ticino cambieranno direttore, «Corriere del Ticino»
e «laRegione» hanno già nominato i successori, si attende la RSI Enrico Morresi È un caso straordinario, con ogni probabilità casuale: alla fine dell’anno tre testate giornalistiche in Ticino cambieranno direttore. Due dei nuovi titolari sono già stati nominati: Paride Pelli al «Corriere del Ticino» e Daniele Ritzer a «laRegione»; del terzo, alla Radiotelevisione, si attende la nomina da parte della Direzione generale della SSR. Sono designazioni importanti perché riguardano la cabina di comando di organi «classici» d’informazione: due testate fondate addirittura nell’Ottocento, della terza essendo superfluo additare l’importanza dopo la votazione federale del 2018. Di Fabio Pontiggia era nota la volontà, mai esplicitata ma neppure smentita, di uscire di carica prima dell’età della pensione («Azione» del 16 dicembre 2019). Giornalista esperto, a «Gazzetta Ticinese» dal 1983, al «Corriere» dal 1991, rientrato nel 2007 dopo un periodo come collaboratore personale della consigliera di Stato Marina Masoni, era direttore dal 2017. Liberale, ma non di partito, critico ma non negatore del moderno stato sociale, si è fatto apprezzare soprattutto per la chiarezza dell’argomentazione e la pertinenza delle conclusioni. Non so se apprezzasse le scelte grafiche e la svolta in chiave regionale di cui dirò tra poco: si è avuta, anzi, l’impressione che non fossero scelte sue. Molta influenza deve avere esercitato, invece, il suo successore: Paride Pelli, giornalista da una
ventina d’anni. Al quale va dato atto di aver sfruttato bene, come «direttore operativo», le possibilità di interazione con gli utenti offerte dalle moderne tecnologie. A me personalmente, cresciuto nei giornali di carta, dà emozione poter leggere il «Corriere» a mezzanotte sul laptop di casa, come altri lo possono sul proprio smartphone. Obiezioni mi sembra invece di poter muovere alla nuova grafica: per l’abuso di titoli e foto sproporzionatamente grandi in capo a notizie di media o piccola importanza e per la prima pagina concessa titoli e foto riferiti a cose locali anche di poca o media importanza. Càpiti quel che vuol capitare, il titolo principale a tre o quattro colonne è quasi sempre riservato alla scena ticinese. Sopravvalutazione delle realtà locali? Diniego o chiusura di fronte alla complessità del mondo? Sarà un bravo direttore, allora, Paride Pelli? Sarà capace di offrirci editoriali della stessa qualità delle buone firme, nazionali ed estere, che Pontiggia vi ha riunito? Rispondo che, al limite, questo non occorre: e penso a Giulio de Benedetti direttore della «Stampa» di Torino nel secondo dopoguerra, oppure a Vittore Frigerio direttore del «Corriere del Ticino» per tantissimi anni: gestori di collaboratori illustri, personalmente contenti di svolgere un ruolo – da questo punto di vista – meno da opinionista e più da garante. A Paride Pelli, comunque sia, i miei auguri. A «laRegione» è un altro par di
Il quotidiano «laRegione» stampato dalla rotativa del Centro Stampa Ticino SA di Muzzano, di proprietà del CdT. (Ti-Press)
maniche. Intanto, al direttore congedato mancano molto più di due anni al pensionamento e Matteo Caratti non ha mai accennato agli sperati ozi di un imminente buen retiro. Le poche ragioni avanzate dall’editore hanno a che fare con le solite lagne, del mondo mediatico che è cambiato e perciò e perciò. Del nuovo direttore, Daniele Ritzer, si sa che è da un paio d’anni al giornale come vicedirettore e che frequenta
il Corso di formazione per giornalisti, particolare maliziosamente sottolineato in un comunicato dell’associazione professionale. Auguri anche a lui. Quanto a Matteo Caratti, l’uscente, dirò che ha servito bene il giornale nei due decenni (dal 1999) in cui è stato direttore. Taglienti e spesso severi (qualche volta eccessivi) i suoi giudizi – e perciò si è fatto odiare da moltissimi – quasi mai però infondati. Inoltre, negli
ultimi anni, ha dimostrato una cresciuta capacità di riconoscere i retroterra culturali diversi dal suo – come il liberismo, o le religioni – lasciando molti spazi di libertà ai suoi redattori. «LaRegione» sceglie pure da tempo di «aprire» con un maxi-titolo di traverso alla prima pagina, riservato a eventi (o non-eventi) locali. Per questo si può dire che abbia anticipato i cambiamenti del «Corriere». Il giornale soffre di problemi di impaginazione meno gravi di quelli del giornale concorrente (ma i due si stampano nella stessa tipografia…). Qui, come là, la divisione in due quaderni non aiuta a mettere in sequenza le pagine secondo una gerarchia plausibile. Ma alla «Regione» la grafica è meno tumultuosa, la pagina ordinata, belle le foto… e lo scapricciato supplemento del venerdì piace di sicuro ai lettori per età convinti che il mondo sia nato con loro. Un’osservazione in margine. La «Dichiarazione dei doveri e dei diritti del giornalista», che la proprietà, sia del «Corriere del Ticino» sia de «laRegione», è tenuta rispettare in quanto i due giornali appartengono all’associazione nazionale degli editori e sono quindi partner del sistema-Consiglio-dellaStampa, chiede il rispetto del diritto di consultazione della redazione «in caso di cambiamenti importanti» (lett. d della Dichiarazione dei diritti). Non risulta che la norma sia stata applicata quando è stato annunciato il nome dei due nuovi direttori. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Storie dal mondo in via Magoria
Intercultura Scambi, incontri, progetti e chiacchierate alla biblioteca di Bellinzona gestita dalla Cooperativa Baobab Sara Rossi Guidicelli «Le storie sono un ingrediente essenziale per le nostre vite: ci prestano parole per dare forma ai nostri sentimenti e per descrivere il mondo che ci circonda»: Letizia Fontana è la responsabile della Biblioteca interculturale BiblioBaobab. Appena varcata la soglia sembra di entrare nel salotto di una persona che ama leggere: ci sono libri dappertutto e divani, tavoli, sedie, una luce calda e tutta la comodità per sentirsi a proprio agio. Letizia sorride e accoglie chi arriva: famiglie con bambini (l’angolo per i più piccoli è una stanzetta piena di cuscini), adulti in cerca di libri in altre lingue o su altri paesi, adolescenti che faticano a trovare pane per i loro denti e stranieri che hanno bisogno di sentirsi un po’ a casa, da qualche parte. La biblioteca si situa al primo piano di Via Magoria 10, a Bellinzona, vicino a Piazza Buffi; da anni già esisteva una biblioteca con libri in varie lingue, aperta tutti i giorni, che ha poi lasciato la sua collezione alla Cooperativa Baobab che l’ha rilevata alcuni mesi fa. «Lavoro per questa cooperativa da tre anni, in uno spazio di accoglienza che promuove la relazione tra persone. Ci sono psicologi, educatori e operatori sociali; io mi occupavo di intrattenere durante le lezioni i figli di chi segue il corso di lingua italiana. Un giorno li ho portati a visitare la biblioteca interculturale di Bellinzona e Fredy Conrad, il responsabile, mi ha detto che presto lui sarebbe andato in pensione e che volentieri l’avrebbe lasciata in mano a qualcun altro. Allora, con la nostra cooperativa abbiamo iniziato a pensarci seriamente. Ci piaceva molto l’idea di avere un luogo in centro città, da riempire di libri, che fungesse da spazio dove creare incontri culturali e dove le persone sanno che possono venire per bere un tè e respirare storie. E così ci siamo lanciati». Dopo un lungo lavoro di selezione e catalogazione dei libri (Letizia è archivista di formazione) e dopo una mancata inaugurazione in aprile, da giugno finalmente la Biblioteca interculturale BiblioBaobab è attiva. Attivissima. Aperta lunedì, mercoledì, venerdì e sabato mattina, offre dizionari, narrativa in albanese, russo, tigrino, turco, arabo, spagnolo, portoghese, farsi e un centinaio di altre lingue; ci
Letizia Fontana con giovanissimi utenti della BiblioBaobab. (S. Spinelli)
sono libri bilingue e romanzi o poesie in italiano di autori stranieri o su temi che riguardano l’altrove. «Vogliamo essere complementari alle altre biblioteche, quindi non abbiamo un’ampia scelta di narrativa inglese, francese e tedesca, mentre prediligiamo le lingue “più rare” da trovare, quelle parlate dalle comunità straniere presenti sul territorio», spiega la bibliotecaria. E poi ci sono i libri per bambini e quelli per adolescenti. In tutte le lingue. Attenzione però: per i bambini sotto i tre anni non si fa distinzione, cioè i libri sono tutti mescolati nei cassettoni a terra da cui possono pescare. «È bellissimo vedere come i piccoli sfogliano libri in alfabeti sconosciuti e i loro genitori si mettono a guardare le figure insieme anche se non ne capiscono le parole. Abbiamo anche tutta una sezione di libri senza parole, i cosiddetti silent books. Sono forse i migliori per creare relazione tra genitore e figlio, ma anche tra bambini fra loro: guardano e parlano, inventano, interpretano, domandano e raccontano. Come vogliono. Crediamo molto nel libro come propulsore di sogni condivisi, di tempo insieme, di conoscenza». Per conoscersi oltre che per conoscere. Per amarsi, oltre che per amare la lettura. C’è anche una parete quasi intera tutta per ragazzi; una categoria a volte
dimenticata, anche nelle biblioteche e le librerie. Qui, oltre ai libri nelle varie lingue parlate in Ticino, ci sono gli autori presentati al Festival Storie Controvento: per intenderci, un’ottima scelta di libri per ragazzi. Finendo il giro della biblioteca di Baobab, notiamo numerosi fumetti e una parete di dvd: la collezione del Circolo del Cinema di Bellinzona. «Penso che venire qui per ognuno ha un senso diverso: una ragazza non trovava libri per la sua età e in una biblioteca le avevano rifiutato Isabel Allende perché era troppo giovane: qui ha trovato ciò che cercava; una mamma eritrea ha riso fino alle lacrime perché le ho mostrato un libro con filastrocche del suo paese: non poteva credere di ritrovare un pezzetto della sua infanzia proprio qui in Via Magoria; o anche semplicemente in un giorno di pioggia, una persona qualunque può entrare da noi, con o senza bambini, e passare un momento piacevole». Gli utenti sono le persone che già conoscono e frequentano la Cooperativa Baobab, gli allievi delle scuole e molti altri che piano piano scoprono con il passaparola la nuova biblioteca. «Viene anche gente che pone domande alle quali cerchiamo di rispondere: per esempio uno viene per un libro e poi mi chiede dei corsi di italiano; oppure una persona arriva per pren-
dere un dvd e poi scopre che può portarsi a casa anche un fumetto; a volte li dirottiamo sugli altri servizi di Baobab e spesso ci facciamo semplicemente una chiacchierata», racconta Letizia Fontana. Alla fine le persone si affezionano al luogo, creano rete, intrecciano rapporti tra loro o con la cooperativa. Per genitori e bambini BiblioBaobab organizza vari progetti che mirano alla lettura, fin dalla più tenera infanzia. Si fanno serate a tema, letture ad alta voce, doposcuola per bambini e ragazzi, in cui anche i genitori possono venire per imparare qualcosa sulla scuola; anche durante il lockdown è diventato un posto importante per molte famiglie, in accordo con le scuole. «Spero ci saranno sempre più opportunità di scambio», afferma. «Vogliamo promuovere serate letterarie bilingue, collaborare con il Circolo del Cinema per i film stranieri, con i Festival di Babel e Storie Controvento, con le altre biblioteche e i centri interculturali di altri cantoni svizzeri. Cominciamo il 24 ottobre con l’associazione Hafez e Petrarca per una conferenza sulla letteratura che arriva dall’Iran». Forse l’aspetto più sorprendente è il valore dato a ogni libro e a ogni lingua. Immagino come deve essere staccarsi dalla propria casa, dalla propria patria e dalla propria lingua. Arrivare
in un luogo dove nessuno ti chiede di te, della tua cultura, dove pensi di doverti assimilare, dove anche se sei stato maestro di scuola adesso ti tocca fare un lavoro umile. E poi un giorno in qualche luogo pubblico trovi una parte di te; è come se le tue radici, che credevi rotte per sempre, avessero di nuovo accesso a un po’ d’acqua, a un po’ di terra e di nutrimento. È questo che significa trovare in quegli scaffali libri con le storie dei paesi lontani, libri di storia e di narrativa, che portano la tua cultura qui, dove credevi che solo tu dovessi cambiare. E poi quando qualcuno ti dice che hai diritto di parlare la tua lingua ai tuoi bambini, anzi, che è veramente una bella cosa e che non creerà confusione in tuo figlio, che l’italiano gli arriverà lo stesso, allora oltre alle radici ti rispunta anche una fogliolina. Si crede spesso che da immigrati bisogna parlare solo la lingua del posto, ma così si crescono figli senza radici né profondità, senza possibilità di parlare con i nonni e talvolta nemmeno con i genitori. «Dovevi vedere – mi racconta Letizia – quando abbiamo fatto una lettura nel parco della Biblioteca Cantonale; io mi ero sentita in imbarazzo a chiedere alle persone di leggere nella propria lingua senza dare loro una contropartita. Ma poi molte di loro mi hanno chiesto: lo possiamo rifare? Mi pare che questo sia un posto dove si mettono in valore competenze di persone che altrimenti restano nascoste». Ad esempio, insieme con un maestro di elementari nato e cresciuto in Turchia e che qui si sta riqualificando come educatore, Letizia ha ideato un progetto chiamato «Tesori di storie dal mondo» (e così scopro che tesori è anagramma di storie): creare piccoli libri con carta e forbici in cui scrivere e illustrare una canzoncina nella propria lingua, per dire che i libri non si devono per forza comprare, ma che si possono anche costruire. Magari insieme, cantando. Parlare di tutti i progetti che si diramano o che si dirameranno da BiblioBaobab e dalla Cooperativa Baobab non si può: sono troppi. Diciamo solo che in città ci sono anche quattro cabine telefoniche con alcune proposte di lettura e che quella in Piazza Governo si trasformerà presto in audio cabina, dove ascoltare storie nelle lingue delle comunità. E poi che tutti i servizi sono gratuiti e la gentilezza è lì di casa, tra i libri e la torre di Babele.
Il cinema come testimonianza
Anteprima Arriva in Ticino per una serie di proiezioni speciali il film Volunteer, pellicola premiata
in varie rassegne nazionali e che racconta l’esperienza di volontariato in aiuto ai profughi Le immagini iniziali sono mozzafiato, nel senso letterale del termine: un gommone sta avvicinandosi alla spiaggia dell’isola di Lesbo, stracarico di persone dagli occhi spaventati e stravolti ma con la gioia di aver avuto salva la vita ed essere riusciti ad approdare. Noi seguiamo il loro avvicinamento da una telecamera appesa al torace di un volontario che corre verso di loro dalla
spiaggia, avvicinandosi alla precaria imbarcazione. Lo sentiamo impartire istruzioni ai suoi colleghi, con il fiato corto per la lunga corsa. Poi inizia la fase dello sbarco. In un altro spezzone si vedono i volontari, immersi nell’acqua fino al torace, farsi affidare i bambini più piccoli e, dopo aver formato una catena umana, passarseli a vicenda, tenendoli solleva-
Ileana Heer Castelletti, volontaria ticinese.
ti sopra le onde, fino a depositarli sulla spiaggia sassosa. Il commento a quello che succede ci viene fatto in svizzero tedesco da Michael Räber, il primo dei molti intervistati che hanno raccontato ai registi Anna Thommen e Lorenz Nufer la loro esperienza di volontari svizzeri nei campi profughi aperti sull’isola greca, che, come sappiamo, è oggi una delle principali vie d’accesso all’Europa per molti fuggiaschi in cerca di speranza e di una nuova prospettiva di vita. La specificità e la forza del documentario Volunteer, (premiato in varie sedi quali il Film Festival di Zurigo e quello del Film e delle arti mediatiche di Basilea, nominato alle Giornate cinematografiche di Soletta e che sarà presentato ufficialmente allo Human Right Film Festival di Zurigo il prossimo dicembre) sta proprio nel voler descrivere la crisi umanitaria causata dai flussi migratori attraverso il punto di vista di alcuni volontari che, ognuno spinto dalle proprie motivazioni, si sono trovati catapultati
in una realtà inattesa, incredibile: inimmaginabile se osservata e giudicata dalle comode poltrone dei nostri salotti. E tra le storie dei vari volontari c’è anche quella di una ticinese, Ileana Heer Castelletti. «Anni fa, dopo aver visto alcune immagini di quanto stava succedendo in quella parte del mondo, ho deciso che non potevo stare con le mani in mano. Ho preso contatto con il gruppo di persone, coordinato da Räber, che da Zurigo si impegnava nel soccorso degli immigrati in Grecia e che cercava volontari per aiutarli. Mi sono rivolta a loro e ho detto “Eccomi, voglio dare una mano anch’io”. E sono partita» ci ha raccontato. E così, a poco più di settant’anni, Ileana si è trovata a vivere un’esperienza di grande impegno e coinvolgimento, che ha affrontato, come ci tiene a sottolineare, senza avere una specifica preparazione nel lavoro sociale, ma con tutta la carica di umanità e di calore che le dava la sua esperienza di mamma e di nonna.
Il film Volunteer arriva ora nelle sale ticinesi per un’anteprima che toccherà vari luoghi del nostro cantone. A queste proiezioni (patrocinate in parte da Amnesty International e dal Festival dei Diritti Umani) parteciperanno i registi Anna Thommen e Lorenz Nufer, il fondatore della ONG «Schwizerchrüz» Michael Räber e la stessa Ileana Heer Castelletti. In occasione delle varie presentazioni gli ospiti offriranno la loro personale esperienza e la metteranno a disposizione del pubblico per una riflessione comune. Per informazioni: www.volunteer-film.ch Le date delle proiezioni
Bellinzona, Cinema Forum, 25 ottobre 2020 alle 18.00. Lugano Massagno, al Cinema LUX 30 ottobre 2020 alle 20.00. Mendrisio, Cinema Mignon 31 ottobre 2020 alle 20.30. Acquarossa, Cinema Teatro Blenio 2 dicembre 2020 alle 19.00.
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Società e Territorio
Il dolce tesoro perduto
Pubblicazioni L’insolito viaggio di un architetto e di un designer alla riscoperta della millenaria civiltà del castagno
Jonas Marti Indovinello. Il padre è grande, la mamma è cattiva, il figlio è buono. Che cosa è? La soluzione: il padre grande è il maestoso castagno, la mamma cattiva è il riccio che punge, e il figlio buono è la dolce castagna. Ha il nome di un antico rompicapo dal sapore nostrano, Al padri grand grand la mama stría stría i fièi bui bui, il libro del luganese Giulio Parini e del malcantonese Federico Rella. Un’accoppiata decisamente insolita – due creativi e apprezzati professionisti, il primo designer, il secondo architetto – per compiere un viaggio etnografico alla ricerca della grande civiltà perduta del castagno, oggi scomparsa nelle nebbie della nostra vorace modernità. Prima hanno cominciato progettando e costruendo mobili in castagno, ma presto le assi di legno massiccio non sono più bastate e dalla materia prima sono passati direttamente alla creatura vivente. «C’è un sacco di roba dietro di noi che non può venire dimenticata», spiegano Giulio e Federico. Per oltre un anno hanno macinato chilometri e chilometri per i boschi della Svizzera italiana, dalla Mesolcina, alla Leventina, alla Riviera, fino al Malcantone e alla Bregaglia, incontrando uomini, donne e alberi. Aneddoti di grande suggestione, che stupiscono e commuovono allo stesso tempo. A San Vittore, per esempio, qualcuno racconta che le persone che passavano davanti al castagno si toglievano il cappello, per rispetto verso l’arbor. «L’Albero» come veniva semplicemente chiamato. Perché non c’era bisogno di aggiungere altro. Il castagno, l’albero per antonomasia. Invece le ragazze di Primadengo, sopra Faido, usavano le castagne come piccoli oracoli: dal modo in cui scoppiavano sulla brace capivano quale dei loro pretendenti dovessero frequentare. In Bregaglia, poi, una volta si diceva che da Castasegna a Soglio, passando per il castagneto di Brentan, se c’era un temporale non ti bagnavi, tanto numerosi erano i castagni. Che cosa ne sappiamo oggi delle castagne, noi, uomini della città diffusa e dei centri commerciali? Forse questo autunno faremo qualche passeggiata nei boschi, raccoglieremo un po’ di castagne e ne faremo pure una scorpacciata. Ma quel sacro legame che per secoli, fino a poco, pochissimo tempo fa, ha unito l’uomo al castagno ci sfuggirà.
«Non ce ne rendiamo conto», spiegano Giulio Parini e Federico Rella, «ma quando vediamo un vecchio castagno in un bosco, quel castagno vive perché per tutta la sua lunga esistenza è stato accudito dagli uomini. Un tempo la pianta era un membro della famiglia. Se non te ne prendevi cura, dopo un po’ si ammalava e moriva». L’uomo innestava, potava, concimava, eliminava le piante concorrenti. «Durante la nostra indagine, raccogliendo testimonianze, ci siamo resi conto di quanto fosse importante la relazione uomo-albero. Senza questa simbiosi oggi non ci sarebbero boschi di castagno e nemmeno castagne». Hanno seguito le castagne e si sono ritrovati in un altro territorio, in un mondo di altri tempi Giulio e Federico. Un mondo che ancora resiste nascosto nelle piccole storie, nell’animo di anziani a volte timidi che parlano con i castagni («ma non ad alta voce, nè»), in chi trova ogni giorno la propria libertà nell’attaccamento ai monti («non sei libero se non sei attaccato, capisci? Ai monti, io sono attaccato ai monti»), in chi continua a mangiare castagne due volte al giorno, come una medicina («qui non c’è l’Alzheimer, in questi paesi di castagne. Io penso che siano le castagne: contengono vitamina C, come il limone e le arance, uguale»). Perché, come il riso per l’Asia, come il mais per le popolazioni mesoamericane, come il grano per gli antichi Egizi bagnati dal Nilo, anche il Ticino ha avuto il suo fecondo Nilo, e sono i boschi di castagno che per secoli e secoli hanno donato la vita ai figli della terra. Qual-
La copertina del libro di Giulio Parini e Federico Rella. (www.castagno18.com)
Castagno secolare nel nucleo di Piughei sopra Malvaglia. (Ti-Press)
cuno dice addirittura che il legame tra le valli della Svizzera italiana e il castagno, che dura da quasi duemila anni, sia tra i più floridi e impressionanti su scala europea. E ancora una volta, tutto è dovuto all’uomo: il castagno arriva da molto lontano, dalla regione del Mar Nero e oltre, e – dicono le indagini sui pollini – sono i Romani ad aver portato e piantato i primi alberi. Per migliaia di anni il castagno è stato l’albero della vita, il pane dei poveri che ha salvato migliaia di persone dalla carestia. Anche se, dice una delle testimonianze contenute nel libro, «che è il pane okay, ma che è del povero no, perché chi aveva castagne era ricco, non povero». Si dice che gli eschimesi abbiano decine di parole per definire la parola neve. In Ticino ce ne sono decine per parlare di castagne. Per esempio, spiegano Giulio e Federico: «Per le castagne vuote, quelle che non si sono sviluppate al loro interno, abbiamo trovato ben 18 varianti dialettali diverse». Da babi a fafi, da zabiòta a bacher, da baregói a carfatul. Senza parlare delle tante denominazioni delle tante varietà di castagne. «Molti anziani che abbiamo incontrato riescono a riconoscerne almeno quattro tipi». Ma sono decine: c’è la pinca, la nera, la magréta e il torción, la piccola e dolce luvín, i verdanés, le ultime a cadere, utilizzate per fare castagne lesse.
Già nel 1981 Giovanni Bianconi scriveva che «il rapporto uomo-castagna si è oggi ridotto dal maronatt nel suo sgabuzzino al cliente che, intirizzito e intabarrato, se ne va col suo cartoccio di caldi marroni di Cuneo che hanno defenestrato le nostre castagne più piccole ma anche più gustose». Giulio Parini e Federico Rella, quaranta anni dopo, rincarano: «Che cosa è rimasto di quel mondo? Niente. Tutto è cambiato, la castagna oggi non serve più a vivere, e così purtroppo ha perso valore». Un giorno, durante uno dei pellegrinaggi tra i boschi di castagno, Giulio e Federico hanno incontrato una donna anziana. Giulio continuava a starnutire, e nessuno capiva che cosa stesse succedendo. «“È la polverina”, ci ha detto la signora. La polvere che c’è sulla coda della castagna, che può dare reazioni allergiche forti. Suo cognato, ci ha confidato, una volta è addirittura finito in ospedale». Un’altra volta Giulio e Federico hanno visto i demoni. «Ci hanno detto “andate su a vedere i demoni”, e non capivamo cosa fossero. Poi nel bosco immerso nella nebbia abbiamo visto questi tronchi di castagno, secchi e bitorzoluti, che uscivano dalla bruma, con figure spaventose. Erano loro i demoni». L’albero che dà vita, e che ne scandisce le tappe. Nei villaggi ticinesi suonavano addirittura le campane quan-
dell’infanzia hanno ancora tutta la passione per i mondi fantastici, come la mappa degli stadi immaginari (ai quali danno pure nomi veri: San Siro, Santiago Bernabeu, Maracanà...) che tracciano nei vari prati della periferia. Parallelamente a queste esplorazioni, si sviluppa però anche una loro indagine, perché non dimentichiamo che questo libro è un giallo, e che la casa editrice, Pelledoca, è specializzata in storie «di paura». Un’anziana donna è misteriosamente scomparsa, e Federico e Driss vorrebbero tanto essere gli eroi risolutori del caso. Che quell’inquietante villa proprio vicino al loro «Maracanà», nonché la strana donna che la abita e che furtivamente scava buche in giardino, abbiano qualcosa a che fare con il mistero? Un mistero che metterà alla prova i due giovani detective. Un’avventura a tinte gialle, ma anche, come dicevamo, una storia di crescita al maschile, alla ricerca di figure di riferimento – padri, insegnanti – a cui dare (o non dare) fiducia.
Letizia Iannaccone-Sonia Maria Luce Possentini, Il mio cane è come me, Terre di Mezzo. Da 4 anni Pur dando merito al testo di sapersi elegantemente contenere in incisiva sobrietà, va detto che la parte principale di questo albo sul rapporto cane-bambino è affidata alle illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini: il suo stile, così personale e immediatamente riconoscibile, anche in questo libro si caratterizza per l’uso sapiente della luce in immagini realistiche, ma con tratti energici di colore a rendere narrativa e più espressiva la realtà. Laddove in altri suoi lavori predominavano i bianchi e i neri, o una sorta di avvicinamento appena un po’ sfocato alla fotografia, qui sono i pastelli colorati a imprimere vitalità e dinamismo alla storia. Che poi, più che una storia, è un susseguirsi di emozioni legate alla vita di un bimbo e del suo cane, «una danza di amore incontenibile» come scrive la stessa Possentini in epigrafe, lasciando intuire che lei i cani li conosce bene. Non potrebbe essere
do, dopo il Giorno dei morti, si poteva andare a forghín, cioè si potevano raccogliere liberamente le castagne rimaste nelle selve, anche in quelle private. L’albero che dà vita, e che si insinua nei pertugi più profondi della mentalità e dello spirito, confondendosi con la spiritualità. Una leggenda racconta come un tempo nella Valle del Vedeggio le persone vivessero felici perché le castagne erano ricoperte da una scorza che si apriva semplicemente stringendola nella mano. Un giorno però il Diavolo chiuse le castagne in ricci impenetrabili, e il Signore intervenne benedicendo i frutti che da allora si aprono con una fenditura che riproduce il segno della croce. «A molte persone che abbiamo incontrato piace parlare delle castagne. Per molti è il ricordo di altri tempi, della loro infanzia. Ad altri invece le castagne escono dalle orecchie: ne hanno mangiate troppe…» È molto difficile oggi rendersene conto. Ma attorno a noi, proprio fuori casa, c’è una ricchezza inestimabile. In Ticino un bosco su cinque è un castagneto, e ogni castagno ci parla di noi. Quando questo autunno mangeremo uno dei suoi frutti, facciamo uno sforzo e proviamo a sentire, in quel sapore dolce e antico, l’immensa storia del nostro territorio.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Laura Orsolini, Villa Mannara, Pelledoca. Da 10 anni Potremmo dire che questa è una storia al maschile, perché i protagonisti sono due ragazzini – con il loro mondo fatto di giri in mountain bike, tiri al pallone, mappe immaginarie, pistole costruite con le mollette – ma soprattutto perché è il confronto con la figura paterna, cruciale nel racconto, a renderla tale. Federico il papà non ce l’ha più, sta ancora elaborandone il lutto mentre vive con la mamma e il suo compagno Giovanni, Maresciallo dei Carabinieri. Giovanni è un forte riferimento maschile, una figura solida, affettuosa, che maneggia con saggezza le armi, che combatte il crimine, e che sa anche fare un sacco di cose «da sballo», è bravo a sistemare le bici (o persino a «trasformarle» in scooter inserendo una bottiglietta di plastica tra il parafango e la ruota), tanto che Federico è spesso alle prese con un conflitto di lealtà, come se temesse, ammirando Giovanni, di tradire suo padre. Poi c’è Driss, di origini maroc-
chine, che conosce Federico il primo giorno di prima media e ne diventa l’amico inseparabile, nonché il compagno d’avventure. Ogni giorno, dopo i compiti, i ragazzi inforcano le loro bici e perlustrano i dintorni del paese, spingendosi anche un po’ oltre il consentito, ma questa voglia di provare, pur con tutti i patemi, a varcare il limite, è proprio un imperativo della preadolescenza. Federico e Driss stanno sul confine tra infanzia e adolescenza: se in quanto adolescenti si mettono alla prova tra coraggio e trasgressione,
altrimenti, guardando le espressioni e le posture dei protagonisti delle sue tavole. Il bambino e il cane comunicano tra loro intensamente, senza parole, l’empatia è tale che «a volte lui pensa di essere come me e io penso di essere come lui». Protezione, affetto, gioco, complicità, sostegno reciproco, fiducia, e tutto ciò che chi condivide la propria vita con un cane ben conosce. Così come si dovrà conoscere il dolore della perdita, ma il ciclo della vita continua, e quell’amore resterà per sempre, pur dando spazio ad altri bambini, altri cani.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Calico Jack, pirata Nel settembre dell’Anno del Signore 1720, il Governatore delle Bahamas Woodes Rogers decise di averne abbastanza e fece pubblicare un proclama col quale dichiarava che il Capitano Jack Rackham – noto in tutte le bettole dei Caraibi col nick di Calico Jack – e la sua ciurma erano pirati e come tali andavano trattati. A far perdere la pazienza al Governatore era stato il fatto che Rackham avesse tradito la fiducia che l’anno prima gli aveva garantito un Perdono Reale per le sue attività di pirata, perdono che aveva ricevuto da quello stesso Governatore che ora lo voleva morto. Calico Jack aveva iniziato la sua carriera come quartiermastro di Charles Vane, uno dei capitani più famosi di quella Repubblica dei Pirati, con base a Providence Island, che per almeno undici anni rappresentò la spina nel fianco della navigazione in quella parte del mondo. Nel 1718, a bordo del brigantino Ranger, Vane si era spinto
fino a New York dove il bottino era stato ghiotto e pure facile. Almeno fino a quando il Ranger andò a sbattere in una fregata francese il doppio del suo tonnellaggio. Vane comandò di darsela a gambe. Rackham, al contrario, si oppose aizzando la ciurma ad abbordare i francesi certi di un ricco bottino e di una nave che sarebbe stata invincibile. Hip-hip hurrah per l’intrepido quartiermastro: dei novantuno pirati a bordo solo quindici si schierarono col comandante. Con tutta probabilità del tutto ubriachi, i ribelli non si opposero però al Comandante che decise comunque di fuggire. Vane durò poco: il 24 novembre Rackham organizzò un’assemblea secondo la tradizione piratesca e fece mettere ai voti che Vane era un codardo e come tale veniva destituito dal comando. Salito dunque di grado, bontà sua Rackham assegnò la nave più piccola della flotta a Vane ed ai suoi diciannove fedelissimi – che
sparissero dalla circolazione e non si facessero mai più vedere. Dopo una partenza brillante che gli fece guadagnare bottino, fama e rispetto, Rackham – ora conosciuto col nome d’arte di Calico Jack – vide il vento cambiare direzione. Nel dicembre 1718, fattosi audace, catturò il mercantile Kingston carico di un bottino favoloso. Lo fece però in piena vista di Port Royal, dove i mercanti inferociti armarono una nave da guerra con l’incarico di farla finita. Dopo un epico inseguimento, il Kingston si trovò imbottigliato in una baia dell’isola di Los Pinos, al largo di Cuba. A Calico Jack non restò alternativa se non una poco gloriosa fuga fra i boschi: nave e cargo erano perduti, ma la fama di Rackham come l’imprendibile Primula Rossa dei Caraibi crebbe a dismisura. Poco tempo dopo, infatti, Calico ed i suoi erano intenti a rabberciare un piccolo brigantino che avevano catturato per rimettersi in business in un porto
cubano quando furono intercettati – e ancora imbottigliati – da una nave da guerra spagnola che aveva a traino un brigantino inglese catturato. Con uno stratagemma rimasto nella storia, nottetempo i pirati abbordarono in totale silenzio il brigantino e sfilarono quatti quatti sotto gli occhi degli spagnoli. Ma Calico Jack ormai ne aveva abbastanza di quella vita, e decise di approfittare del Perdono Reale. Tornato a Nassau, chiese udienza e si presentò con volto contrito al Governatore. Dette tutta la colpa al Capitano Vane: era lui il malvagio che aveva lo aveva costretto a diventare pirata assieme ai suoi uomini. Il Governatore Woodes Rogers odiava Vane, e finì per concedere il perdono reale. Per poi, subito dopo, pentirsene. I lettori fedeli dell’Altropologo certo ricorderanno come puntate e puntate orsono si sia raccontata la storia delle Piratesse, ed in particolare di Anne Bonny. Era questa, ironia della sorte, la moglie di James Bonny, marinaio al
servizio del Governatore, il quale la denunciò per adulterio quando scoprì che aveva una tresca con Calico Jack, pirata appena ravveduto e fresco di perdono. Il Governatore le comminò una buona dose di frustate (usava così) mentre il marito rifiutò sdegnoso i fitti dobloni che Calico – innamoratissimo – offriva come «divorzio per compravendita» – una formula al tempo in voga a quelle latitudini, preferendo evidentemente ai dobloni continuare a picchiarla per jus uxorio come sosteneva la signora. Per il resto della vicenda rimando agli Archivi, solo ricordando che i due innamorati scapparono in mare, dove per luna di miele ricominciarono, felici e contenti, a predare inermi pescatori e piccolo cabotaggio. Finirono, ovviamente, malamente. Il cadavere di Calico Jack sarebbe di lì a breve rimasto a marcire dentro una gabbia appesa all’ingresso di Port Royal. In bella vista su di un’isoletta sabbiosa nota ancor oggi come Rackham’s Cay, il Banco di Rackham.
dono gratuito che i bambini ricevono a Natale. Così facendo accogli solo la parte mentale di una richiesta di maternità che coinvolge tutto l’organismo nella misura in cui la mente è corporea e il corpo è pensante. Come cerco di mostrare nel mio ultimo libro L’ospite più atteso, non possiamo scindere l’unità corpo e mente senza impoverire la nostra identità, senza rinunciare alla gioia di «dare alla luce» utilizzando tutte le nostre potenzialità, le nostre risorse. È vero che nell’adozione non c’è coinvolgimento del corpo materno ma neppure sfruttamento di un’altra donna. Anzi, l’accoglienza di un bambino che si trova in stato di abbandono presuppone una solidarietà femminile che manca completamente nel ricorso di un utero «a nolo». Il tuo desiderio, non accettando rinunce e mediazioni, obbedisce all’onnipotenza dell’inconscio, alla pretesa infantile di volere tutto e subito. Ma non sei più bambina e il desiderio adulto, per essere morale, deve tener conto del senso di respon-
sabilità verso se stessi e verso gli altri. Innanzitutto non puoi ignorare che il tuo progetto coinvolge più persone: il bambino, il padre, la madre committente e la madre surrogata. Ognuno dei quali è soggetto di diritti e di doveri. Il bambino ha diritto di avere un padre e una madre, non due, di essere contenuto nel corpo della donna che lo ha desiderato e di passare dal grembo alle braccia materne senza viaggiare come un pacco postale. Difficile valutare il trauma che i nati per procura subiranno dall’essere abbandonati dalla donna che li ha contenuti per nove mesi e alla quale sono connessi da un attaccamento istintivo, non generico ma selettivo: ogni neonato vuole la sua mamma non una mamma. In questi mesi, per l’ennesima, nefasta conseguenza del Covid, migliaia di neonati, nati all’estero da utero in affitto, giacciono parcheggiati in strutture di accoglienza provvisoria in attesa che cessi il lockdown internazionale. Solo allora potranno essere portati a destinazione. Per l’Europa,
centro di questa situazione aberrante è l’Ucraina ma è ormai un business planetario. La prima vittima della gravidanza per altri è la madre surrogata, una donna povera e sola, anche se ufficialmente coniugata, costretta dall’indigenza a contenere, partorire e abbandonare creature – sino a cinque – che non saranno mai sue. Una pratica che, umiliando la dignità delle donne, le trasforma in anonimi strumenti di reddito, in cose acquistabili sul mercato delle merci. Siamo tutte noi a doverci responsabilizzare per sottrarre le più deboli a soprusi ancor più ingiusti della schiavitù. Come esorta Papa Francesco: restiamo umani! Un richiamo che non avremmo voluto sentire dopo secoli di civiltà.
che non producono automaticamente begli articoli. Da questo punto di vista, la scomparsa dei quotidiani di partito non fu una gran perdita. Oltretutto, avvilivano la professione sottopagando i redattori. Oggi, sono rimasti due quotidiani, che lottano per cavarsela. Ma anche oltre Gottardo tira la stessa aria: hanno chiuso testate importanti mentre altre hanno cambiato nome, impostazione e, soprattutto, aspetto. Il new look sta imponendo impaginazioni ariose, spazi bianchi, corpi tipografici più grandi, fotografie a colori e, negli ultimi tempi, disegni d’autore a tutta pagina. Come dire, il giornale si legge e si guarda. La tendenza alla piacevolezza visiva ha coinvolto quotidiani storici, NZZ compresa. In quanto ai contenuti, prevalgono inchieste, denunce, commenti, approfondimenti, temi da settimanale, affidati a specialisti e a firme internazionali. E si allarga lo spazio
concesso alle opinioni dei lettori, per tenerseli buoni. Si assiste a una competitività assillante: trovare il giusto equilibrio fra serietà e popolarità. Più che mai, il giornalista è messo alla prova. E vale sempre la definizione di Manlio Cancogni: «Non è uno storico né un filosofo, semplicemente un comunicatore, capace di esprimersi in maniera spedita e corretta». Semplicemente, si fa per dire: tanto più, quando la posta in gioco è alta, da ultima spiaggia. C’è, tuttavia, chi sul futuro del giornale continua a scommettere, con competenza, impegno finanziario e passione civile. Riecco alla ribalta editoriale, Carlo De Benedetti, ingegnere, già patron di «Repubblica», doppia nazionalità italiana e svizzera, domicilio nei Grigioni e di casa anche a Lugano. Una volta ancora rincorre il sogno del quotidiano ideale: specchio dei
tempi e guida morale. Ci riuscirà in un momento scombussolato e in un’Italia, dove la lettura non è uno sport dei più popolari? Lui ci prova. Il 15 settembre, è uscito «Domani», diretto da Stefano Feltri (nessuna parentela con il burbero Vittorio). E si presenta come esempio di giornalismo dell’ultima generazione, per aspetto e stile. Quindi, privilegiando il commento rispetto alla notizia, l’ironia rispetto all’aggressività, e valorizzando il linguaggio di foto e vignette. Tutto ciò, ovviamente, attraverso il filtro di un’ideologia riformista/ progressista, non sempre condivisibile. Ed è, del resto, un sintomo di vitalità: il giornale può, anzi deve far discutere. Da quest’esperienza sono esclusi i lettori in Ticino: «Domani» non arriva nelle nostre edicole ufficiali. Per procurarselo bisogna ricorrere al contrabbando, questa volta virtuoso, praticato da qualche outsider.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il corpo materno Cara Silvia, proprio pochi giorni fa ho compiuto i 40 anni di vita e i 12 di matrimonio e, dopo una bella festicciola in famiglia, mi sono svegliata con una voglia strana, ma forte e incontrollabile, di stringere tra le braccia un neonato. Non l’avevo mai provata prima: da bambina non ho giocato con le bambole, da ragazzina non mi sono mai immaginata mamma, da adulta ho pensato ad altro. Quando mi sono innamorata dell’uomo che ho sposato, ci bastavamo: per me la coppia era fatta di due e non avrei immaginato che un giorno mi sarebbe mancato il tre. So già che mi proporrai la fecondazione medicalmente assistita o l’adozione, ma a me non va bene né l’una né l’altra. L’idea di una gravidanza mi terrorizza, temo che il mio corpo, molto minuto, si deformi, che il parto mi laceri, che l’allattamento mi divori. Quello che desidero è un bambino da stringere tra le braccia e che assomigli a me e a mio marito, senza che per forza sia io a «fabbricarlo». Ti assicuro che saremo capaci di volergli bene, di
volere il suo bene. I mezzi economici non ci mancano e quelli affettivi neppure. Inutile accusarci di egoismo, narcisismo, consumismo e mille altri «ismi», siamo genitori come gli altri, con i nostri limiti e le nostre capacità. Spero tanto che saprai capirci. / Lidia Sì cara Lidia, ti capisco, anche se non so che cosa ti autorizzi a dire «noi», a parlare al plurale. Sei sicura che tuo marito, il futuro padre, condivida un progetto così intimo e personale? Il tuo desiderio, non a caso sopraggiunto il mattino, frutto probabilmente di un sogno, sorge dal corpo, un corpo potenzialmente generativo che improvvisamente esprime un desiderio vitale, quello di sopravvivere a se stesso di continuare a esistere nella catena delle generazioni, anche dopo la morte. Ma il desiderio inconscio non è razionale e, come vedi, veicola tutte le nostre contraddizioni, i «vorrei e non vorrei», di cui canta Zerlina nel Don Giovanni di Mozart. Tu vorresti ottenere il prodotto generativo senza generarlo, come un
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Il giornale, tradizione a rischio È un rischio che ci concerne da vicino. La diffusione capillare di giornali locali, regionali e nazionali è stata una prerogativa prettamente elvetica. Tanto da assicurare al nostro paese un primato mondiale, condiviso con il Regno Unito, e invidiato all’estero. In proposito, Indro Montanelli amava citare un tipico arredo di bar e ristoranti svizzeri: i bastoni, in cui erano infilati i quotidiani, appesi a una sorta di albero. E non mancava di precisare che quei giornali venivano letti, in un rispettoso silenzio. Ora, il verbo al passato è d’obbligo. Non che quel rito sia del tutto scomparso. Ma ha subito gli influssi irremissibili di un’epoca che ha tolto al giornale di carta la sua autorevole centralità. Nel giro di pochi decenni si è trovato ad affrontare la concorrenza della TV e, in un crescendo sbalorditivo, di smartphone, tablet, social. Cioè, forme d’informazione e d’intrattenimento in
tempo reale sul piano mondiale. Che questa sovrabbondanza di mezzi abbia migliorato le conoscenze e la cultura degli utenti è un interrogativo che lascio agli addetti ai lavori competenti: critici, educatori, psicologi, moralisti e via enumerando. Per questioni di età, origine familiare, esperienza lavorativa, mi toccano, invece, sentimentalmente, le conseguenze sul mondo della carta stampata, costretta a un’incessante ridimensionamento e destinata, chissà, a scomparire. Nella Svizzera, patria di tante testate e tanti lettori, gli effetti sono vistosi. Rivoluzionari, nel caso del Ticino, dove, ancora negli anni 60, uscivano sei quotidiani, quattro di partito, uno della curia e uno indipendente. Esserne abbonati o lettori rappresentava un dovere civico e un’appartenenza identitaria. Certo, sul piano qualitativo, non erano esempi di buon giornalismo. Le convinzioni ideologi-
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Ambiente e Benessere Non solo per il camposanto Gli ibridi di crisantemi e le varietà oggi in commercio sono moltissimi
Urban exploration Un’altra Milano fatta di muri diroccati, rogge antiche, e altre rovine architettoniche pagina 17
Omero, poeta conviviale Nell’Iliade e nell’Odissea, si trovano vari riferimenti ai modi di bere e ai vini di quei tempi lontani
La parte dei camion Le emissioni di CO2 differiscono molto a seconda del carico utile e delle distanze
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Come funziona il sistema immunitario Covid-19 Oggi protagonista involontario,
è il nostro scudo naturale alle aggressioni esterne e vanta memoria da elefante
Maria Grazia Buletti Per quanto indesiderato, il coronavirus è diventato parte della nostra realtà. Abbiamo cambiato abitudini di vita e il lockdown ci ha privati di libertà che pensavamo acquisite. In Svizzera circa 70mila persone si sono ammalate di Covid-19 e contiamo oltre 1800 morti. Abbiamo cominciato a usare termini specialistici propri di sanità e medicina. Epidemiologia, virologia, carica virale, tampone, sierologia, sistema immunitario e anticorpi sono lessico comune quotidiano, malgrado il loro significato non sia sempre davvero chiaro. Ci stiamo barcamenando fra lo stupore per un evento così inimmaginabile e le sue conseguenze; oscilliamo tra timori, incredulità (che per alcuni diventa negazione, o quasi, del virus) e le sue ripercussioni sanitarie, sociali ed economiche. Anche il nostro corpo reagisce come sa e come deve: «Il sistema immunitario reagisce al virus come sa fare e non ne nega certo l’esistenza», esordisce il professor Carlo Chizzolini, immunologo e ricercatore che incontriamo al Centre Medical Universitaire a Ginevra per capire cos’è il sistema immunitario, come funziona e quale sia il suo ruolo in questa faccenda. Dopo aver dedicato parecchi anni delle sue ricerche alla malaria, il professore si occupa da tempo delle malattie autoimmuni (quando il sistema immunitario reagisce contro l’organismo di cui fa parte). Conferma il suo approccio e il suo interesse dal profilo immunologico rispetto al coronavirus, ma non si tira indietro quando gli chiediamo un’analisi più generale della situazione che stiamo vivendo e, al pari del suo compagno di ricerca che è il sistema immunitario, dice di non comprendere chi nega o sminuisce la portata del virus: «Vale però la pena di riflettere sulle conseguenze tangibili di quanto stiamo vivendo: a causa dell’epidemia siamo pronti ad accettare le restrizioni, spesso molto pesanti, di libertà personali; e siamo pure pronti a installare programmi che permettono il nostro tracciamento. La realtà non sta nel negazionismo, ma nel prendere coscienza che dinanzi a questi assalti la nostra libertà individuale diminuisce. La riflessione? Se vogliamo preservare il più alto numero di persone, dobbiamo fare
i conti con un’eventuale limitazione della libertà individuale». Partiamo dal fatto che il sistema immunitario è estremamente complicato: «È fra i più complessi del nostro organismo (un po’ come il cervello); la sua assenza o suoi difetti importanti sono incompatibili con la vita e se ci mancassero delle sue componenti potremmo morire più o meno in fretta. La base della sua azione risiede proprio nel fatto che esso non funzioni in modo uniforme bensì con declinazioni individuali». Con il nostro interlocutore ci confrontiamo con qualche provocazione che ne conferma la complessità: «La parola immune deriva dal latino e significa “capacità di convivere con un pericolo senza esserne danneggiati”. D’altra parte: “L’immunologia è laddove l’intuizione muore”, il che è peccato perché dobbiamo davvero riuscire a capire come reagisce il sistema immunitario al coronavirus». Peraltro: «Anche la parola immunologia crea confusione: quando la usano gli immunologi, stanno dicendo che il sistema immunitario ha risposto a un patogeno, ad esempio, producendo anticorpi o radunando cellule difensive; quando altri usano questo termine, essi intendono (e sperano) di essere protetti e immuni dalle infezioni». Proviamo comunque ad addentrarci in quell’intricata rete di cellule e molecole che ci proteggono da pericoli virali e altri microbi, le cui componenti «si evocano, amplificano, irritano, si calmano e trasformano a vicenda»: «È il nostro scudo naturale alle aggressioni esterne senza il quale nessuno sopravvivrebbe a lungo. È un sistema di difesa del nostro organismo che riconosce con precisione segnali di pericolo. I suoi campanelli d’allarme gli permettono di intuire che sta arrivando qualcosa di pericoloso (virus, battere, altri agenti patogeni, le cellule dell’organismo che soffrono), innescandone l’azione». Da esso, oggi più che mai, ci aspettiamo una «risposta immunitaria», ma dobbiamo dapprima puntualizzare cosa sia l’immunità: «Attorno a noi ci sono tanti germi ma non siamo ammalati perché il nostro sistema immunitario ci permette di vivere in un ambiente pieno di microbi senza morire». Una risposta immunitaria, spiega il professore, non fornisce necessariamente una protezione e tutto dipende da quanto siano efficaci, numerosi e durevoli que-
Il professor Carlo Chizzolini, immunologo, incontrato al Centre Medical Universitaire. (Jorge Stamatio)
gli anticorpi e quelle cellule. Con le differenti reazioni al coronavirus abbiamo capito che non esiste una realtà uniforme per come ci si ammala, per chi si ammala, per chi trasmette la malattia a chi e via dicendo, e ogni osservazione non è automaticamente certezza o evidenza scientifica per la quale occorre percorrere una via più lunga e paziente: «Questo succede perché ciascuno di noi è diverso dall’altro dal punto di vista immunitario: ribadisco che di fronte all’enorme varietà possibile di patogeni, questa diversità permette di ottenere una “difesa di specie” che non è la difesa dell’individuo. Ciò significa che nell’evoluzione, il nostro sistema immunitario si è moltiplicato, diversificato e selezionato attraverso incontri successivi con diversi agenti patogeni e
questa diversità ci permette di affrontare come specie l’incontro con un nuovo patogeno come il coronavirus, ad esempio. Quindi, non tutti muoiono e non tutti sopravvivono, ma la maggior parte sopravvive». Ciò che ci pare un flagello nuovo, non lo è per il nostro sistema immunitario, meravigliosamente evoluto e funzionante proprio per affrontare situazioni come questa. In soldoni: disponiamo di un sistema di difesa programmato a combattere proprio questi «nemici»; lo fa con un interesse di sopravvivenza di specie più che individuale. Inoltre, ha da sempre le sue cartucce in canna ma pure qualche difetto che può emergere proprio in casi come quello che stiamo vivendo. Perciò non ci deve meravigliare l’osservazione dell’immunologo Carlos
Rodriguez-Gallengo quando parla degli anticorpi di alcuni malati di coronavirus che ne peggiorano l’infezione: «La presenza di anticorpi facilitatori non è una sorpresa né una rarità: da sempre mi occupo di malattie autoimmuni e so che questo può succedere quando il sistema immunitario non funziona a dovere, a prescindere dal coronavirus che oggi permette a questo dato di fatto di emergere». Il sistema immunitario sta solo facendo il suo regolare lavoro, come sa e come è programmato a fare, è la conclusione a cui giungiamo al termine del colloquio con l’immunologo. A prescindere dal coronavirus che in questo momento ha la sola responsabilità di essere l’agente patogeno con cui ci troviamo a fare i conti.
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Già dopo pochi chilometri al volante del VW Multivan 6.1, Elena Schneider non può nascondere la soddisfazione: «Il Multivan è davvero maneggevole e agile. La visuale a 360° è geniale, grazie alla seduta rialzata e ai numerosi finestrini». All’inizio la trentaseienne si sentiva in soggezione davanti al veicolo lungo quasi cinque metri, ora invece si compiace dell’ottima sensazione di guida. Insieme alla famiglia fantastica già da tempo sull’idea di comprare un’auto più grande che semplifichi la vita quotidiana dei quattro componenti. Ma, prima di fare il passo verso un’auto familiare più spaziosa, lei e il marito Nik hanno deciso di testare minuziosamente i l VW. «Per farlo, un giro di prova di 24 ore è l’ideale», afferma il padre. «I nostri figli pianificano da giorni tutte le attività che potremmo intraprendere». La valanga di idee (un’esperienza
girevoli e il tavolo da campeggio sono davvero pratici. Lo spazio di carico è enorme: non ho mai avuto così tanto posto per la spesa settimanale». Facile: il VW amico delle famiglie offre fino a 4300 litri di volume di carico. Dopo pranzo anche i due bambini, Emma e Noah, possono finalmente salire a bordo. Con tutta facilità il bambino di dieci anni apre la grande porta scorrevole.
E, grazie al sistema di infotainment con grande display alloggiato nel cockpit, la famiglia Schneider può scegliere comodamente dal bus VW il posto ideale per fare il picnic e partire per il giro in barca. Di rientro dal fiume Töss, Emma afferma: «Questo VW Multivan è bellissimo, mi ci potresti addirittura portare a scuola». E Noah aggiunge subito: «Sarebbe anche l’ideale come pulmino per l e partite di calcio: dentro ci starebbe la metà della mia squadra!»
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al parco avventura, una gita in barca con grigliata al fiume, una visita al castello medievale o una capatina allo zoo) non manca certo di creatività – proprio come il VW Multivan 6.1, pensato su misura per famiglie e coppie dinamiche. Tuttavia, i due genitori hanno prima voluto guidare il VW in situazioni quotidiane per poterlo confrontare direttamente con la loro auto attuale. «Nel pomeriggio però abbiamo preparato una sorpresa per i bambini», svela Nik. L’elegante tuttofare da sette o, su richiesta, addirittura otto posti ha subito colpito i due coniugi per la maneggevolezza, l’elevato comfort, l’equipaggiamento di sicurezza completo e i più moderni sistemi di assistenza alla guida. Elena aggiunge: «La versatilità degli interni è fantastica. I sedili comodamente spostabili grazie al sistema con guide, i sedili singoli La famiglia Schneider ha particpato ai TestDays. Ne è entusiasta e ora non vuole più rinunciare al comfort, allo spazio e alla sicurezza del Volkswagen Multivan 6.1.
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Ambiente e Benessere
Il sole in un fiore Anita Negretti Amati da Confucio e dai cinesi, i crisantemi sono da sempre considerati fiori simbolo di vita nei loro paesi di origine. Arrivati in Europa ormai da molti decenni, si pensa intorno alla metà del 1700, questi fiori prendono il loro nome da un’intuizione del botanico francese Joseph Pitton de Tournefort che unì i termini greci chrysos e anthemon cioè «fiore d’oro», probabilmente per via della corolla a forma di margherita dei primi antenati dei crisantemi che vengono oggi commercializzati.
Rustici e con scarse esigenze, i crisantemi sono anche facilissimi da moltiplicare per talea: bastano pochi interventi Moltissimi, infatti, sono gli ibridi e le varietà ad oggi in commercio. Sono tutti raggruppati sotto il nome di crisantemo da giardino o da orto, e sono utilizzati principalmente come piante in vaso con radici, anche se da qualche anno incominciamo a vedere sempre più composizioni di fiori recisi che contemplano l’uso di delicati e preziosi crisantemi. Si deve dare merito agli ibridatori inglesi e francesi di inizio 1800 se oggi vi è una così ampia moltitudine di que-
sti bei fiori in vendita: a fiore semplice oppure ricco di petali, con corolle gonfie, piatte, arruffate, con petali a punta, lisci, rivolti su loro stessi e con colori che vanno dal bianco puro al giallo, al rosso brillante fino ai rosa delicati e ai rossi mattone. Castigati nella veste di fiori da camposanto, si stanno finalmente sdoganando nelle aiuole, all’interno delle quali formano spesso macchie di colore proprio nei mesi più tristi dell’anno, dove il colore in giardino solitamente scarseggia. Rustici e con scarse esigenze, i crisantemi sono anche facilissimi da moltiplicare per talea: a metà aprile si possono prelevare alcuni rami lunghi una decina di centimetri e portanti due foglie; interrati per metà della loro lunghezza, le talee di crisantemo radicano velocemente in vasi con mescolata torba e sabbia e irrigati due volte alla settimana. Alti da 30 a 120 centimetri, i crisantemi fioriscono da agosto, per i più precoci, arrivando ai classici di settembre-ottobre fino ai tardivi di dicembre. Richiedono sole pieno e terreno fertile, ricco di sostanza organica, ben drenato. Vanno bagnati settimanalmente, specie se coltivati in vasche o in vasi, e concimati sia al momento dell’impianto sia in primavera e in autunno, utilizzando cornunghia e concimi granulari a lenta cessione. Personalmente acquisto i crisantemi in vaso che più mi piacciono in no-
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Mondoverde Grazie ai crisantemi si possono colorare i nostri giardini autunnali, con tinte calde e sgargianti
vembre, periodo di massima fioritura, li tengo bagnati e me li godo nel loro vaso fino a completa sfioritura. Poi, in pieno inverno li taglio bassi, a circa 5-10 centimetri da terra, tenendoli in un portico riparato dalle correnti e dalle intemperie, ma in pieno sole. A inizio primavera li trapianto in piena terra, bagnandoli per le prime settimane e
poi dimenticandomi di loro fino a inizio luglio. In completa autonomia, i miei crisantemi sviluppano nuovi rametti, si riempiono di foglie carnose e di boccioli fitti. A luglio mi prendo qualche minuto per effettuare su alcune di loro la sbocciolatura: levo alcuni boccioli la-
sciandone da uno a tre su ogni ramo. In questo modo li obbligo a produrre fiori grossi e ben compatti; se così non facessi, produrrebbero molti fiori ma piccoli, destino che riservo alle varietà di colore giallo, che disseminati nelle varie aiuole del giardino mi rallegrano come tanti piccoli soli in pieno autunno-inverno. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Urbex, terra dei pellegrini di rovine Reportage Una traversata di Milano tra cascine e fabbriche abbandonate
Valentina Scaglia, testo e foto Altolà, di qui non si passa! Fanno la guardia reticolati terrificanti, cartelli dissuasivi, cumuli di rifiuti, piante vigorose e incontrollate, edifici abbandonati. Chi supera a fatica questo confine si trova, letteralmente, nell’incognito, tra luoghi dimenticati, alieni immersi nel regolare tessuto della città: ex cantieri, muri diroccati, lembi di verde che qualcuno ha recintato (spesso abusivamente), relitti di aree industriali, paesaggi ferroviari. La metropoli è un mostro che divora sé stesso e lascia dentro di sé, semidigerite, alcune parti del suo corpo. Un tempo furono operosi stabilimenti, dense comunità in cui generazioni di persone vivevano, lavoravano, si amavano e crescevano figli. Oggi sono cumuli di pietre e mattoni e rottami. Nelle avventure di Urban exploration (Urbex) si sta sospesi tra l’orrido e il sublime. S’incontrano insediamenti di disperati nascosti tra le rovine, depositi di veicoli nascosti, sventramenti che celano macchinari. Oppure a volte, nel mezzo del degrado, si fanno scoperte sorprendenti: il mobilio di una stanza misteriosa, giocattoli impolverati lasciati da chissà chi, teneri rifugi per gatti abbandonati, talvolta anche isole di preziosa biodiversità cittadina, con tane di lepri, acque limpide, minuscoli orti coi frutti di fine estate.
Osservando Milano da un edificio abbandonato, una visione inedita della città che sembra emergere dalla foresta. Su www. azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
Spazi industriali dismessi alla Bovisa.
Pare che il primo esploratore dell’abbandono sia stato un certo Philippe Aspairt che nel 1793 si avventurò nelle tetre catacombe di Parigi e non tornò più. Ma la sua eredità è stata raccolta da un numero sorprendente di appassionati, organizzati in gruppi dedicati (come Urbex Squad e Ascosi Lasciti); attraverso la rete si scambiano informazioni e condividono esperienze. Come ci si prepara a queste immersioni nel vuoto? Un piccolo sopralluogo preventivo e poi dentro, con abiti vecchi, pile frontali, scarpe da montagna e guanti, come sub in immersione nell’ignoto, senza nulla prelevare se non foto. L’esplorazione urbana è praticabile quasi in ogni grande città e quindi anche a Milano, volendo fare l’esempio più facile e a portata di mano. Tempo fa, con pochi compagni, ho compiuto un’inedita traversata della metropoli toccando solo alcuni tra gli innumerevoli siti nascosti nelle pieghe del tessuto urbano. Luoghi che, è importante sottolineare, non vanno esplorati senza opportuna preparazione e il sostegno di persone esperte. Alla periferia nord-ovest, alle spalle del Campus del Politecnico della Bovisa, quartiere in vorticosa tra-
Nel ventre della balena. Enormi spazi industriali dove regna il silenzio, alla Bovisa.
sformazione, si apre La Goccia, area ex industriale: quarantadue ettari di superficie, una costellazione di edifici dismessi dal 1994, dominati dai giganteschi gasometri costruiti nel 1908 da Union de gaz. Nel frattempo, è cresciuto un parco spontaneo con duemila alberi: frassini, aceri e platani ormai monumentali. Quest’oasi è oggi il più importante caso di rewild in Italia, per questo un apposito comitato vorrebbe tutelarla opponendosi al piano di riqualificazione del Comune e al progetto di nuove costruzioni, che compor-
Binari in disuso alle spalle di Rogoredo.
terebbero il taglio di parte degli alberi d’alto fusto. Mentre ci addentriamo nel quartiere cessa ogni suono, solo le foglie frusciano sotto le scarpe. La torre con il logo dell’Azienda energetica municipale domina il profilo nord cittadino e chi riesce ad arrampicarsi in alto, a proprio rischio, sfidando scale pericolanti, si affaccia su una città che emerge oltre il mare verde come una conurbazione del sud-est asiatico. Nel denso sottobosco spuntano cartelli stradali, cabine telefoniche e le pompe di una stazione di
rifornimento. Sorpresa dopo sorpresa, ecco delle opere d’arte: sono una ventina, in legno, pietra e plastica, e formano un atelier misterioso, il Bosco di sculture, iniziativa controcorrente riservata ai pochi che vi arrivano sfidando i divieti. La traversata prosegue. Il pellegrino delle rovine avanza verso il centro città, gettando l’occhio nella distesa deserta dello Scalo Farini, lo scalo merci più grande della metropoli e uno dei maggiori in Italia: oltre seicentomila metri quadrati alle spalle dei grattacieli di Porta Nuova. Anche qui è stato proposto un importante piano di riqualificazione, con un bosco artificiale di nuovo impianto e una vasca di depurazione. Nell’attesa di questo brillante futuro però la zona è di difficile accesso, con edifici fatiscenti tra i fasci di binari abbandonati. Entrarci è un grosso rischio, perché lo Scalo è una città nella città, riservata a senzatetto, clochard e personaggi equivoci. Scendiamo verso sud, alle spalle della Darsena, in un’area ad alta densità abitativa dove si stanno recuperando parecchi edifici in abbandono, come quello del nuovo Ostello lungo il Naviglio grande. Ma uno tiene duro e si oppone tenacemente alla modernità: è la
Cascina Argelati, da anni solidamente recintata per impedire l’ingresso. È la cascina più vicina al Duomo e conserva anacronisticamente le stimmate del mondo campagnolo. A un passo dalla movida milanese scalinate fatiscenti portano in un labirinto di cubicoli umidi rivestiti di graffiti; intorno carcasse di auto e motorini. Seguendo il filo blu del Naviglio grande ecco San Cristoforo, quartiere travolto dai lavori del capolinea della Linea metropolitana 4. Poco oltre, piloni e trabeazioni attraversano il cielo, disegnando un’onirica struttura a gabbione. È un ex terminal merci chiuso tra il cantiere, il Naviglio e la viabilità stradale, frequentato da writer, senzatetto e satanisti, che riservano i piani più alti alle loro cupe rappresentazioni rituali. Una camminata verso est conduce poi lungo la linea del filobus n.90, in via Castelbarco. Qui sotto il ponte stradale della Circonvallazione emerge fresca e riposante un’antica via d’acqua, la Vettabbia, una sorta di relitto idrico della Milano romana. Un tempo forse era addirittura navigabile, oggi è una roggia che scorre pudicamente dietro condomini e piccole officine, sfiorando cortili privati e orti abusivi. La seguiamo scoprendo retrovie urbane, mentre il movimento e il traffico del centro lentamente svaniscono. Camminare lungo la Vettabbia non è facile – tra fili spinati, spine vere, muri cadenti e chiusure private – ma i più tenaci la ritrovano affiorare qua e là fino ad arrivare al Parco intitolato al suo nome, già ai margini sud-est di Milano. Qui abbandoniamo la via d’acqua al suo destino, diretta verso uno dei campi nomadi più grandi e affollati. Noi usciamo dalla città silenziosamente seguendo un binario abbandonato da Rogoredo – altra zona «calda» tra boschetti frequentati da pusher ed effervescenti trasformazioni edilizie – verso l’Abbazia di Chiaravalle. I binari, non più percorsi dai treni, lentamente svaniscono sotto il nuovo bosco e le piante di zucchine, «evase» da qualche orto nascosto nelle vicinanze.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Ambiente e Benessere
Il divin dono per Omero ed Esiodo
Scelto per voi
Vino nella storia Non solo intravisto nel girovagare dell’Odissea o decantato nei momenti
di convivialità, ma anche ben descritto e trattato saggiamente da un punto di vista agricolo Davide Comoli Il primo grande incontro tra il vino e la poesia, l’abbiamo trovato da adolescenti, quando studenti (poco vogliosi) frequentavamo il Collegio Don Bosco di Borgomanero. Lo studio dei due poemi omerici l’Iliade e l’Odissea, pur senza l’aiuto della divina bevanda, ci fece volare e sognare, segnando un po’ la via che avremmo intrapreso. Sembra che fosse stato Pisistrato, ateniese e uomo politico di grande cultura (600-528 a.C.), a suddividere entrambi i poemi in 24 canti, istituendo nella sua città una commissione di poeti e letterati per la raccolta e l’ordinamento dell’Iliade e dell’Odissea. Omero, è il poeta di un’arcaica convivialità. Sia nell’Iliade sia nell’Odissea, si possono individuare molti riferimenti ai modi di bere e ai vini di quei tempi molto lontani. Il vino scorre a fiumi fra i versi dei poemi omerici; intercalati dalle gesta di guerrieri, bevono Greci, ovvero Danai, Troiani e da genti di molti altri Paesi. Più che fondato quindi l’appellativo che il poeta latino Orazio volle attribuire all’aedo greco: «Vinosus Homerus». Raccontando delle città d’origine dei capi degli Achei, descrivendone i pregi, non trascura di segnalare tra questi la presenza di rigogliose viti, tracciando pure un quadro geografico della distribuzione dei vi-
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Circe che trasforma gli uomini di Ulisse in suini, dalle Metamorfosi di Ovidio. (The Elisha Whittelsey Collection)
gneti, ancora oggi abbastanza attuale e dal quale abbiamo tratto sicuro vantaggio nei nostri viaggi. «Arne dai molti grappoli d’uva… Istiea ricche di vigne… Epidauro ricca di vigneti…» sono solo alcune zone
descritte. Il poeta cita anche Pramno come uno dei luoghi famosi per il suo vino. Se ben ricordate, è proprio il vino di Pramno che Circe, la famosa maga, mescolandolo a droghe, offre ai compagni di Odisseo, o Ulisse che dir si
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voglia, prima di trasformarli in porci (Odissea X, 223-234). Il vino di Lemno viene dato agli Achei come premio per aver costruito in modo veloce un muro di difesa dagli attacchi troiani: «erano là a riva molte navi, venivano da Lemno con un carico di vino… le inviava Euneo» (Iliade VII, 467-471). E come si arguisce dalla traduzione di Vincenzo Monti (1754-1828) – la traduzione dell’Iliade e dell’Odissea fu senz’altro il suo capolavoro – il vino, almeno nel campo Acheo, dove più agevoli erano gli approvvigionamenti, veniva consumato in grande quantità. Vale la pena concederci anche una curiosità: Omero definì il vino di Euneo «amichevole dono», il testo greco dice chilia metra, ossia mille misure e Vincenzo Monti tradusse metra in sestieri. Noi volevamo sapere di più, con alcuni amici abbiamo consultato il vocabolario Greco-Italiano del Rocci, il quale citando proprio il VII libro dell’Iliade, dice che il metron greco è probabilmente da identificare con il sáton cartaginese, cioè circa 12 litri. Quindi, mille misure fanno se non sbagliamo 12mila litri o se preferite 120 ettolitri. Ecco il perché si dice: «una bevuta Omerica»! Nell’Odissea (V, 68-69), Omero narra la bellezza dell’isola di Ogigia, dove Odisseo visse sette anni con la ninfa Calipso, raccontando la sua rigogliosa vegetazione e sottolineando che «si stendeva vigorosa con i suoi tralci intorno alla grotta profonda la vite, tutta carica di grappoli». Da Omero a Esiodo, definito il poeta contadino: era nativo della Beozia e cronologicamente si situa subito dopo l’età dei poemi omerici. Le sue opere sono considerate altrettanto importanti. Vissuto tra l’VIII e il VII sec. a.C., fu autore fra l’altro delle Opere e Giorni, poema del lavoro georgico, costituito da 828 esametri. Nella sua opera non troviamo guerrieri né imprese belliche, ma le costellazioni, i contadini con i loro aratri, i segni della natura, vendemmie e mietiture. A proposito della viticoltura, il poeta riconosce nell’arco dell’anno cinque momenti riferibili alla vite e al vino: la potatura, la zappatura, la vendemmia, il vino nuovo e il momento nel quale il vino è migliore da bere. Fra queste fasi la potatura e la vendemmia risultano fondamentali. Per meglio istruire sul momento
Qualità, esclusività, innovazione in campo enologico e la grande passione per la viticoltura, è questo in sintesi il personaggio Giuliano Cormano. Con la moglie, Giuliano ha profuso il suo impegno non solo per il dono di Bacco, ma le persone che si recano nella sua Cantina possono pure spaziare su altre delizie culinarie come: olio, aceto balsamico, confetture e persino del cioccolato che la «maison» produce. La bassa resa in vigna su vecchi ceppi hanno permesso di produrre vini pluripremiati nei vari concorsi. Il «Carrara» che oggi vi proponiamo è prodotto con uve Merlot cento per cento, coltivate su di un appezzamento di 0,5 ettari in quel di Morbio Inferiore. I ceppi di Merlot vecchi di 35 anni, hanno regalato un vino che, dopo essere stato affinato per 12 mesi (metà barrique, metà inox), ci dona un rosso dove si fondono note di lamponi e frutti rossi, con sentori balsamici che maturando ci fanno avvertire quelle sfumature di sottobosco e tartufo bianco, le quali ci trasportano con la mente in un viaggio olfattivo mai dimenticato. Pulito e molto fine, lo consigliamo con un risotto alle animelle o con un filetto di manzo al pepe. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 29.–. migliore per eseguire queste operazioni, Esiodo utilizza segnali di diverso tipo per essere meglio compreso. Per la potatura, ad esempio, vengono indicati limiti temporali connessi a dati astronomici, al comportamento delle rondini, all’arrivo di una nuova stagione. La zappatura delle vigne deve essere eseguita in un tempo limite, determinato dal momento in cui la «porta-casa» (vale a dire la chiocciola) sale sugli alberi o dal momento in cui le Pleiadi risultano percettibili nella luce del crepuscolo (maggio). Il tempo della vendemmia, mostra la sua importanza nella serie di lavori agricoli e per il numero di riferimenti astronomici che ne permettono il calcolo; questi eventi corrispondono all’incirca alla metà di settembre e il poeta scrive: «Quando Orione e Sirio son giunti a mezzo del cielo e Arturo può esser visto da Aurora dalle dita di rosa, o Perse, allora tutti i grappoli cogli e portali a casa. Tienili al sole per dieci giorni e dieci notti, per cinque conservali all’ombra, al sesto versa nei vasi i doni di Dioniso giocondo». Oltre alle istruzioni sul periodo della vendemmia, Esiodo dà anche indicazioni su come trattare l’uva raccolta. Dopo la pigiatura e la fermentazione, il momento in cui è pronto il vino nuovo è a sua volta segno di altri avvenimenti, come l’arrivo del brutto tempo, la chiusura dell’anno agricolo e l’impossibilità di navigare. Vogliamo ricordare ai nostri lettori che una vendemmia fatta a settembre, quando l’uva era veramente «percocta», cioè molto matura, dava un vino ad alta gradazione alcolica e per questo forse fra gli antichi Greci non era consuetudine bere vino puro.
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Ambiente e Benessere
Un cotechino per tutto l’anno Tutti noi abbiamo piatti che amiamo o che non amiamo. In genere, ma più di quanto si pensi, il motivo di amore o disamore non è dato dal sapore, ma attiene ad altre «cose» che sappiamo o che crediamo di sapere. Un esempio: molti dicono di non amare la trippa. Se chiedi però perché, la prima risposta che viene data è spesso la stessa per tutti: «È troppo grassa». Ciò che è falso come una moneta da tre franchi! In 100 g di trippa, infatti, ci sono solo 5 g di grassi, il che la rende una delle carni meno grasse in assoluto. Quando rispondi così, cadono tutti dalle nuvole, e quel punto nessuno riesce più a trovare una nuova spiegazione del perché non la ama. Il motivo è una prevenzione contro questo taglio, una sorta di pregiudizio nato non si sa come non si sa perché. Forse perché è stata stra-utilizzata per secoli, mentre gli altri tagli non erano alla portata economica, e quando il mondo è diventato più ricco è stata «dimenticata», come cosa vecchia: ma è solo una mia ipotesi tra tante altre possibili, e non essendo un antropologo la posso lanciare sul tavolo, ma non sono in grado di verificarla con adeguati approfondimenti. Veniamo però a me. Ho un rapporto di amore-odio per il cotechino – e il conflitto vale anche per i suoi tanti confratelli: lo zampone, il musetto, la salama da sugo e via elencando… Amore perché mi piace alla follia, dato che è buonissimo, tenero, saporito, col giusto – per me – rapporto magro con grasso e potrei aggiungere un centinaio di aggettivi elogiativi. Odio, ma per chi li produce: che lo fa solo d’inverno! Ma chi l’ha detto che non li si possono mangiare anche con un clima mite? Loro dicono che nelle altre stagioni non si vende, io dico: mettetelo a disposizione tutto l’anno in modo che noi che lo amiamo lo troviamo sempre e vedrete il risultato. Senza dimenticare una delle sue migliori virtù che me lo fa amare an-
che di più: regge la precottura e la lunga conservazione alla grande; certo la versione artigianale è il meglio, però quella industriale non delude (quasi…) mai. Ha comunque avuto una sfortuna terribile: per motivi ignoti è diventato un totem del cenone di Capodanno, accompagnato con lenticchie. E quindi il consumo si concentra sostanzialmente in un solo giorno l’anno, che per un prodotto, e per chi lo produce, è veramente una sfortuna terribile. Aggiungiamo pure che le lenticchie – lo so, scaramanticamente vogliono dire soldi in arrivo – non c’entrano, anzi, a dirla tutta andrebbe sempre ricordato che abbinare due proteine è una cosa che la buona cucina sconsiglia di fare: molto meglio accompagnarlo con il purè di patate, che lo rende un piatto nutrizionalmente equilibrato. (Detto questo, sia chiaro che anche io a Capodanno scelgo di mettere in piatto le lenticchie, non si sa mai…) Amo il cotechino fin da piccolo essendo uno dei pochi piatti che tutta la famiglia amava. Una volta lo cucinavo facendolo sobbollire in acqua coperto con un telo ben legato: una decina di anni fa però mi sono reso conto che poteva andare bene cuocerlo a vapore. Mi dotai allora di una vaporiera elettrica ovale (indispensabile soprattutto per lo zampone), di plastica, cinese, non costava niente, ma era per fare la prova, quindi ero convinto di doverla gettare in poco tempo. Il risultato fu esaltante e da allora così lo cucino: sempre con la stessa vaporiera, un po’ ammaccata ma che continua a fare il suo dovere. Due note. Viene prodotto in quasi tutto il nord Italia, ma anche in Toscana e Molise: però, chiedo scusa agli altri, quello di Modena ha una marcia in più. Nota bene. Sono abile e fortunato: un bravo fornitore, su ordinazione, li fa tutto l’anno, piccoli, da 200 g l’uno, buonissimi. W il cotechino tutto l’anno!
CSF (come si fa)
Carmelita Caruana
Allan Bay
Pixabay.com
Gastronomia Fortune e sfortune dell’innamoramento o disinnamoramento per un prodotto
Vediamo come si fa a gustare in modo meno canonico il cotechino, al di là delle stra-classiche versioni con lenticchie o con purè. Ragù di cotechino e noci, è perfetto sulla pasta all’uovo. Eliminate la pelle da un cotechino da 200 g e tritate la polpa. Tritate 1 costa sedano e 1 cipolla e fateli imbiondire in una casseruola con poco burro. Unite il cotechino e sfumate con ½ bicchiere di vino rosso, poi unite foglioline di
timo, poco concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua e cuocete per 15 minuti. Tritate grossolanamente i gherigli di noci e uniteli al sugo. Pepate e salate. Con salsa duxelles all’italiana (ingredienti per 4/6 persone). Mondate 500 g di funghi porcini, tritateli. In un tegame con burro e olio fate appassire 1 cipolla bianca tritata. Aggiungete i funghi e lasciate cuocere per 5 o poco più minuti a fuoco medio, finché non avranno buttato fuori la loro acqua, mescolando. Salate, pepate e unite prezzemolo, mescolate e usatela per nappare il cotechino. Con salsa bruna (per 4/6 persone). Tritate 1 carota, 1 cipolla bianca e 1 costa di sedano. Fate un mazzetto di gambi di prezzemolo, 1 rametto di rosmarino, 1 rametto di timo. In una casseruo-
la fate sciogliere 50 g di burro, unite le verdure e fatele dorare. Versate 50 g di farina a pioggia e mescolate fino a che il composto non assumerà un color nocciola. Unite 2 litri di brodo di carne a filo, sempre mescolando, poco concentrato di pomodoro stemperato in acqua e il mazzetto. Fate cuocere per 2 ore, fino a che non otterrete una salsa scura e densa che velerà il cucchiaio. Eliminate il mazzetto, frullate, salate e pepate. Con salsa di topinambur. Per 4/6 persone. Sciogliete in una casseruola 40 g di burro e rosolate 80 g di pancetta tritata per 5 minuti. Unite 400 g di topinambur tagliati a cubetti e 2 scalogni mondati e tagliati a dadini e cuocete per 10 minuti a fuoco dolcissimo, mescolando. Sfumate con 2 o più cucchiai di aceto, frullate e regolate di sale e di pepe.
Ballando coi gusti Oggi due antipasti freddi, abbastanza ricchi, da proporre ovviamente prima di un piatto forte di carne o di pesce.
Insalata con pasta, wurst e peperoni
Insalata composita
Ingredienti per 4 persone: 200 g di pasta a piacere · 2 peperoni · 1 wurst da circa 200 g · 100 g di emmental · lattuga · aceto a piacere · olio di oliva · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 4 carote · 4 zucchine · 100 g di piselli sgusciati · 100 g di
Cuocete la pasta in acqua salata, scolatela al dente e raffreddatela sotto l’acqua corrente, quindi scolatela, versatela in un’insalatiera e conditela con un filo di olio. Mondate i peperoni, eliminate i semi e tagliateli a listarelle. Tagliate il wurst a rondelle e tagliate l’emmental a cubetti. Unite tutti gli ingredienti alla pasta. Emulsionate l’aceto con sale, pepe e olio, quindi condite l’insalata. Mettete nei piatti foglie di lattuga, conditele come indicato sopra, mettere al centro l’insalata e servite.
fave sgusciate · 1 peperone · 2 melanzane · foglie di lattuga · olive nere denocciolate · semi di cumino · aglio · prezzemolo · limone · olio di oliva · sale. Tagliate a rondelle carote e zucchine e cuocetele, separatamente, in acqua bollente salata. Fate lo stesso, separatamente, con i piselli e le fave. Tagliate a striscioline il peperone e fatelo cuocere, a fuoco moderato, con un cucchiaio di olio. Tagliate a metà le melanzane, incidetele con tagli a griglia e cuocetele per circa 15 minuti nel forno a 200°. Ricavatene la polpa, tritatela e cuocetela per 10 minuti a fuoco moderato con un cucchiaio di olio, un pizzico di semi di cumino, un trito di aglio, prezzemolo e sale. Disponete delle foglie di lattuga in un piatto da portata e usatele come contenitori per le verdure e i legumi lessati, la crema di melanzane e le olive, tenendo tutto separato. Emulsionate succo di limone con olio, salate e unite prezzemolo tritato e cumino; condite con questo le verdure cotte e i legumi, quindi servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
Un tocco extra per ogni cucina Condire La salsa di soia Kikkoman è preparata in modo naturale ed esalta il gusto proprio degli ingredienti. È indicata per condire e aromatizzare. Conferisce alle pietanze più «Umami»: il termine giapponese che significa «delizioso» e «gustoso».
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Affinare Uno spruzzo di salsa di soia affina dip, salse, zuppe e marinate e regala loro quel tocco in più. Ideale anche su pasta, riso e verdure, non solo in piatti asiatici.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Ambiente e Benessere
Non solo auto, ma anche camion «verdi» Motori Le azioni per realizzare il trasporto stradale a impatto zero sul clima
richiedono un’ampia offensiva tecnologica
Mario Alberto Cucchi Ridurre del 60%, rispetto ai livelli del 1990, le emissioni comunitarie di CO2 entro il 2030. Questo il nuovo ambizioso obiettivo approvato a inizio mese dal Parlamento europeo. «Se l’europarlamento spinge per il 60%, ciò eserciterà pressioni sui capi di Stato affinché accettino almeno il 55% di riduzione», è l’auspicio di Pascal Canfin, presidente della Commissione e promotore dell’iniziativa.
Ed è così che Bosch propone eCityTruck: una soluzione di trasmissione per commerciali leggeri fino a 7,5 tonnellate Le azioni per realizzare il trasporto stradale a impatto zero sul clima richiedono un’ampia offensiva tecnologica. Non solo automobili, ma anche camion. I veicoli commerciali devono soddisfare un’ampia varietà di requisiti quando si tratta di soluzioni di propulsione. Le emissioni di CO2 differiscono notevolmente a seconda della situazione di guida, del carico utile e delle distanze percorse. Da una parte veicoli leggeri come i furgoni coprono generalmente distanze più brevi, ad esempio per le consegne di
prossimità nei centri urbani. Dall’altra i camion trasportano merci su lunghe distanze. Per soddisfare i requisiti dell’Unione Europea, le emissioni di CO2 devono essere ridotte drasticamente sia nei mezzi commerciali leggeri che negli autocarri pesanti entro il 2030. In aiuto arriva la Robert Bosch GmbH, azienda che fornisce tecnologie ai maggiori Costruttori. Forte dei 68’700 collaboratori impegnati nella ricerca e sviluppo, Bosch conta di svolgere un ruolo attivo nella realizzazione di trasporti a impatto zero per tutte le classi di veicoli. Allo studio una gamma di propulsori efficienti: dai motori a combustione, ai modelli elettrici a batteria, a quelli alimentati da celle a combustibile. Un esempio? Si chiama eCityTruck ed è una soluzione di trasmissione per commerciali leggeri fino a 7,5 tonnellate. Consente una guida a zero emissioni con un’autonomia che può raggiungere i 200 chilometri. Nel caso sia necessario andare oltre i confini cittadini, la soluzione si chiama eRegioTruck. Studiata per autocarri medi e pesanti (da 7,5 a 26 tonnellate), nonché per autobus urbani e a lunga percorrenza. Giocherà un ruolo fondamentale nel rendere il traffico regionale, entro un raggio di circa 250 chilometri, a impatto zero. In futuro come faranno i camion con un peso fino a 40 tonnellate a percorrere più di mille chilometri in modalità elettrica? La chiave sta nelle soluzioni di trasmissione eDistanceTruck, che
Giochi Cruciverba «Caro Carlo, il mondo sta rimanendo senza geni, Einstein è morto Beethoven pure…» Trova il resto della frase a cruciverba risolto leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: …1, 2, 3, 2, 5, 5, 4)
Proiezione virtuale di un parco veicoli pesanti elettrici. (Bosch Leuchtturm)
includono powertrain a celle a combustibile e unità ibride. Grazie al loro design compatto queste implementazioni tecnologiche sono facili da integrare nelle piattaforme dei veicoli esistenti. E le batterie? Bosch sta collaborando con la startup Powercell per iniziare
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
questo la multinazionale tedesca insieme al produttore cinese di motori Weichai Power è al lavoro per rendere più efficienti i propulsori a gasolio. I risultati si vedono già: sono stati i primi ad aumentare l’efficienza di un motore Diesel per veicoli commerciali fino al 50%.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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VERTICALI 1. Desta orrore 2. Nome maschile 3. Venne sostituito ad «ut» 4. Un anagramma di ria 5. Ulcerazione nella cavità orale 6. Ti ...seguono in cantina 7. Un minerale 8. Ripida, scoscesa 9. Barbare quelle del Carducci 10. A fin di bene... 12. Contrari ai dittonghi I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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6 15. Rivela ostacoli invisibili 17. Sono uguali nell’insieme 19. Reputazioni negative 20. Minorato negli arti 22. Preghiere recitate nove giorni 24. Popolani dell’antica Roma 27. Nome femminile 29. Due di coppe 30. Lo erano Sartre e Pirandello 31. Il nome di Stravinskij 33. Corrisponde a 100 metri quadrati 35. Audaci 37. Un anno a Parigi 38. Le iniziali di Goldoni 39. Sigla di notiziari TV Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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40. Servizio militare di leva 41. Epiteto di cortesia nelle lettere
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ORIZZONTALI 1. Un calciatore 7. Un tipo di illuminazione 11. Priva di forma 12. Misure lineari inglesi 13. 101 romani 14. Le iniziali della cantante Tatangelo 15. Roditori 16. Le spiegava l’Ippogrifo 18. Uccello acquatico 21. Bene a Parigi 23. Divide 24. Simbolo chimico del platino 25. Astro... al tramonto 26. Un segno del passato... 28. Si paga per un uso temporaneo 30. Hanno spesso la testa tra le nuvole 32. Produce... prodotti vari 33. Capitale europea 34. Rendono gelosa Elsa... 36. Le iniziali dell’attore Pitt 37. Stadio d’altri tempi 38. Pronome dimostrativo
la produzione su larga scala di stack (vale a dire «il nucleo della pila») di celle a combustibile nel 2022, per finalizzare il lancio del sistema completo nel 2023. Vietato dimenticare il diesel, che rappresenta ancora la soluzione più valida per i mezzi commerciali pesanti. Per
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Soluzione della settimana precedente
LO SAPEVI CHE… – La lingua più antica del mondo è: IL SANSCRITO. Ha le sue origini in: INDIA.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Politica e Economia Verso la Casa Bianca Le sorprese di ottobre continuano: i senior si stanno spostando a favore di Biden
Usa, la paura viene da dentro La vera minaccia terroristica per la sicurezza interna degli Stati Uniti sono in questo momento i suprematisti bianchi e l’estrema destra, secondo un recente rapporto dell’FBI pagina 29
Il giudice di Trump Chi è la giudice cattolica conservatrice Usa Amy Coney Barrett che determinerà l’orientamento politico della corte per decenni?
Quanta giustizia Il tentativo fallito di non rieleggere il giudice federale Ives Donzallaz riapre il dibattito sui legami fra politica e giustizia
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È scontro anche sul lockdown Spagna Che si tratti del conflitto tra
separatisti catalani e centralisti madrilegni o della battaglia tra favorevoli alla quarantena preventiva contro No mask, è sempre braccio di ferro tra governo e magistratura
Angela Nocioni In un periodo di rischio epidemico fuori controllo, come può fare un governo di un Paese democratico per tutelare il diritto alla salute di tutti senza calpestare i diritti individuali alla libertà di ciascuno? Come può un lockdown non diventare giocoforza una condizione di libertà vigilata? E se lo deve diventare per forza e pro tempore a causa di uno stato di necessità collettivo, chi vigila sulla sua applicazione non solo affinché sia efficace ma anche perché non travalichi i confini dello strettamente necessario e non dilaghi nel sorvegliare e punire? Domande che si rincorrono in Europa sull’orlo di una seconda ondata di strette normative per contrastare la diffusione del virus Covid-19. Domande preziose: non se le possono permettere tutti ovunque. In Cina non se le pongono, chi lo fa, lo fa a suo rischio e pericolo. Quindi non c’è da prendersela se nel Vecchio Continente ci si fa politicamente la guerra sul come e persino sul se contrastare con mezzi coercitivi la diffusione dei contagi da virus. La guerra è politica. E ci sono paesi in cui sta travolgendo i consueti rapporti di forza tra poteri istituzionali dello stato. Il caso spagnolo è, in questo senso, clamoroso. Inedito è lo scenario aperto dallo scontro tra esecutivo e magistratura che si sta combattendo lì all’ombra del terrore da pandemia. La guerra tra governo centrale e giudici, una guerra plateale fatta di grandi colpi di teatro e esibizioni d’orgoglio latino, ha trovato nel panico da emergenza Covid un palcoscenico perfetto dopo l’estenuante tiro alla fune fra Barcellona e Madrid: decreti esecutivi annullati da sentenze, arresti di deputati, i reparti antisommossa sempre sul punto d’essere spediti con uno scatto d’ira davanti ai tribunali. Quel che il governo di Pedro Sanchez fa, il Tribunale Supremo disfa. E Sanchez lo rimette in piedi e lo ripiazza in pista. Giocando al rilancio, alzando ogni volta la posta. Che si tratti dell’eterno conflitto tra separatisti catalani e centralisti madrilegni, del grande classico «popolari contro socialisti», o della più recente battaglia tra favorevoli alla quarantena
preventiva e No mask, sempre braccio di ferro tra governo e magistratura diventa. Il premier socialista Sanchez, con un Consiglio dei ministri straordinario, ha imposto lo stato d’allarme a Madrid in un gesto notevole d’esibizione muscolare. «Fascista», gli gridano da destra i nostalgici franchisti. «Anarchici disfattisti», rispondono ai vecchi fascisti i socialisti che con i gruppi anarchici in realtà brigano ogni tanto per tenere in piedi il governo. Lo stato d’allarme consente a Sanchez, per due settimane, di far rientrare dalla finestra il lockdown nella capitale e in otto distretti lì intorno dichiarato dal suo ministro della Salute di fronte all’emergenza epidemia a Madrid. Accogliendo un ricorso del Partito popolare (la destra al governo regionale della capitale in aperto conflitto con il governo centrale formato da socialisti, Podemos e partitini separatisti che all’occorrenza vanno in supporto al Psoe in cambio di puntuali concessioni) il Tribunale supremo ha annullato l’8 ottobre il lockdown previsto per decreto dal ministro della Salute spiegando in 26 pagine di sentenza che quel decreto «costituisce una interferenza nei diritti fondamentali senza il giusto sostegno legislativo». Tecnicamente imputa poi al governo d’aver usato la norma sbagliata, una norma del 2003 invece che la legge del 1986 sulle misure speciali per la salute pubblica. È stata quindi inizialmente abrogata dal Supremo, in nome della libertà individuale, ogni limitazione di movimento in entrata e in uscita da Madrid perché il governo non può intromettersi con questi mezzi nel sacrosanto diritto di ciascuno di decidere per sé. Non può nonostante l’epidemia corra nella capitale più che altrove. Il tasso di contagio in Spagna è il più alto d’Europa, soprattutto nella regione di Madrid. Nel territorio spagnolo non vige più da tempo lo stato d’emergenza. Durante i primi mesi dell’emergenza Covid per 45 giorni si è usata la legge speciale che consente di limitare i movimenti per decreto. Trattasi però di strumento di legge che ogni 15 giorni dev’essere rinnovato (cioè rivotato in Parlamento e approvato a maggioranza assoluta, 176 voti) altrimenti decade.
Il premier socialista Pedro Sanchez. (AFP)
Sanchez, però, conta solo su 155 voti sicuri sempre, gli altri se li deve andare a cercare volta per volta. Dopo due proroghe ai poteri emergenziali è stato invitato dalle opposizioni (anche dai separatisti catalani che un po’ gli danno corda, un po’ no) a inventarsi un’altra strada. Il problema per lui è che, se non vige lo stato d’emergenza, qualsiasi limitazione delle libertà fondamentali può essere censurata dal potere giudiziario. E il Tribunale supremo ha colto al balzo l’occasione per schiaffeggiare il premier socialista e ricordargli che se vuol governare col bastone deve comunque trovare «strumenti costituzionalmente consoni alla possibilità di limitare, centellinare, restringere o addirittura sospendere i diritti fondamentali dei cittadini». I giudici hanno avallato nei mesi scorsi, senza eccepire un bel nulla, altre pesanti restrizioni alla libertà di movimento decise dal governo locale di Madrid in mano alla stella in ascesa del Partito popolare, Isabel Diaz Ayuso. Abbondano quindi i sospetti pesanti di doppiopesismo. Ma i popolari negano di godere di protezione politica da parte della magistratura come corporazione nella loro legittima guerra al governo socialista. Dicono che il decreto del Ministero della salute aveva effetti su una zona geograficamente più ampia di quelle interessate dai loro provvedimenti locali e che quindi serviva una
legge del Parlamento per imporre il lockdown, non poteva bastare un decreto ministeriale. La destra classica sta tutta dalla parte delle rivendicazioni di libertà sbandierate dal Tribunale supremo. Dopo l’imposizione governativa di un nuovo stato d’allarme limitato a Madrid e a otto distretti, decisione che ricaccia all’angolo il Tribunale supremo, i toni sono diventati da scontro totale. Anche perché il protagonismo politico della Suprema corte s’è scatenato ben oltre il terreno della gestione dell’emergenza da pandemia. A fine settembre l’Alto Tribunale ha cacciato d’imperio il presidente del governo catalano, Quim Torra. Torra, separatista arrivato al governo per caso nel grande can can del tira e molla sulla secessione di Barcellona da Madrid (ma pur sempre presidente eletto), è stato cacciato dal governo per disobbedienza. Ha disobbedito infatti all’ordine di far rimuovere dai palazzi delle istituzioni catalane i fiocchi gialli simbolo di solidarietà con i leader separatisti catalani arrestati per essere insorti come capipopolo a guidare il tentativo di strappo di Barcellona da Madrid. Strappo avvenuto tutto contro la legge, utilizzando illegittimamente da un punto di visto giuridico lo strumento del referendum, dentro una battaglia dai toni isterici combattuta
con scaltrezza e con alte dosi di opportunismo e di irresponsabilità. Ma pur sempre una battaglia politica. L’inabilitazione a causa del gesto disobbediente era stata decisa dal massimo organo di giustizia della Catalogna. Torra era ricorso al Tribunale supremo che ha ratificato la decisione di farlo fuori. Comunque la si pensi riguardo alla eterna guerra tra Barcellona e Madrid e ai mezzi usati negli ultimi anni dai leader indipendentisti catalani per combatterla, difficile negare che il potere giudiziario e in particolare il Tribunale supremo si ritagli spazi di protagonismo politico assoluto e prenda decisioni che assai poco hanno di tecnico. In questo caso è stato il Tribunale supremo, cacciando Torra, a far indire le elezioni catalane del prossimo febbraio. Alle quali si arriverà in un tale terremoto di alleanze che la ricaduta di quella sentenza sulla politica nazionale sarà, comunque vada, gigantesca. Anche perché la crisi catalana è un grande blob in grado di divorare ogni ragionevolezza e ogni confronto possibile sui programmi. Il suo effetto politico concreto, finora, non è stato di riuscire a cavare un solo ragno dal buco nella spinosissima vicenda delle relazioni tra Barcellona e Madrid, ma mettere le ali in tutta la Spagna alla destra feroce e razzista del partitino Vox.
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Politica e Economia
Così il Covid entra in politica Verso la Casa Bianca I sondaggi a livello nazionale continuano a vedere il democratico Joe Biden
favorito in queste elezioni segnate dalla pandemia
Trump in comizio nell’Iowa. (AFP)
Federico Rampini «Voi non lo sapete, nessuno lo sa, ma anch’io sono un senior. Tutti dicono che siete vulnerabili, non lo siete affatto. Ma per questa cosa qui siete vulnerabili e lo sono anch’io». Nello spot televisivo Donald Trump scherza sulla propria età, per riconquistare il terreno perduto tra una fascia di elettori decisiva: gli over-65. Anche Joe Biden la butta sul personale: «Quanti di voi, come me, non hanno potuto abbracciare i nipotini negli ultimi sette mesi?» L’ultimo terreno di battaglia è proprio questo. La Casa Bianca sarà assegnata dai voti delle «pantere grigie»? Non sarebbe strano se l’arbitro della contesa fossero proprio i coetanei dei due rivali. Mai nella storia l’America aveva dovuto scegliere tra due candidati così attempati. Trump fu il più anziano presidente a prestare giuramento nel gennaio 2017 e oggi ha 74 anni. Biden gli toglierà il primato se dovesse batterlo: a gennaio del 2021 ne avrà compiuti 78. «Aprendo le frontiere all’immigrazione – dice Trump agli anziani – la sinistra dilapiderà le vostre pensioni e la vostra assistenza medica». «Questo presidente – accusa Biden – se ne infischia di voi. Siete irrilevanti, l’unico senior che a lui interessa è il senior Donald Trump». I sondaggi dicono che gli anziani stanno spostandosi in favore del candidato democratico. Di tutte le evoluzioni recenti questa è la più pericolosa per il presidente. A livello nazionale, nel 2016 Trump conquistò una maggioranza degli ultra-sessanticnquenni con sette punti di vantaggio su Hillary Clinton. Oggi la media dei sondaggi dà Biden in vantaggio in questa fascia demografica con cinque punti. La differenza può essere determinante per spostare da una casella all’altra il collegio elettorale di alcuni Stati-chiave. La Florida è, dopo il Maine, lo Stato Usa con la più alta percentuale di anziani. Anche qui, il loro voto fece pendere la bilancia in favore di Trump quattro anni fa,
mentre oggi Biden ha quattro punti in più dell’avversario tra i senior. A provocare questo spostamento sembra sia stato soprattutto il coronavirus. Proprio come dice Trump nel suo spot televisivo, gli over-65 sono una categoria a rischio, con una mortalità da Covid decisamente superiore ai più giovani. E non sono, a maggioranza, soddisfatti del modo in cui la pandemia è stata affrontata. Inoltre il Covid ha rimesso al centro dell’attenzione la riforma sanitaria. Anche se gli anziani hanno l’unico sistema sanitario nazionale e a gestione pubblica – il Medicare – tuttavia anche per loro una parte delle cure è a pagamento. La riforma detta Obamacare ha aumentato i rimborsi della prevenzione, Biden accusa Trump di voler smantellare anche quella conquista. Trump ha promesso che gli anziani avranno accesso alle stesse cure che gli vennero somministrate durante il suo breve ricovero all’ospedale militare Walter Reed; non è affatto chiaro come e quando potrebbe mantenere una simile promessa. In questi giorni ho visitato Milwaukee e dintorni, quel Midwest che potrebbe risultare nuovamente decisivo. Il Wisconsin quattro anni fa contribuì a mandare Trump alla Casa Bianca grazie a uno scarto di soli 22.748 voti su Hillary Clinton, meno dell’1%. E nessun sondaggio lo aveva previsto. Qui l’ago della bilancia sono i sobborghi di Milwaukee sul Lago Michigan. Oggi Joe Biden è in testa, con un margine che varia dai cinque ai sette punti: meno della media nazionale che gli dà un vantaggio a due cifre. «I nostri stanno tornando a casa», dice Biden in visita nel Wisconsin: si riferisce alla classe operaia bianca, che aveva votato per Barack Obama e per lui nel 2008 e nel 2012, poi preferì Trump. Che cosa gli ispira fiducia? Il Wisconsin torna a fare notizia per due pessime ragioni. È lo Stato con la più forte impennata di contagi in proporzione alla popolazione. Ed è di nuovo al centro di proteste per la questione razziale.
A fine agosto a Kenosha, 30 miglia più a Sud di Milwaukee, un agente bianco uccise l’afroamericano Jacob Blake. Seguirono scontri violenti, molti negozi (anche della comunità nera) vennero saccheggiati e incendiati. Biden venne qui a incontrare la famiglia di Blake; Trump venne a solidarizzare coi negozianti. Da quattro notti l’epicentro della tensione si è spostato a Wauwatosa, sobborgo di Milwaukee. Stavolta è un agente afroamericano ad aver ucciso un 17enne nero, Alvin Cole. Il giudice non ha voluto incriminare il poliziotto: «Agiva per legittima difesa, il ragazzo impugnava un’arma». Di nuovo scontri, arresti, coprifuoco, Guardia Nazionale in piazza. Che impatto può avere a tre settimane dal voto? Per capire dove sta andando il Wisconsin, gli amici Suzie e Fred mi organizzano delle assemblee formato «town hall» o focus group in casa loro, a Fox Point. Milwaukee è stata definita «la città più segregata d’America», e non lo è solo dal punto di vista razziale. I quartieri hanno selve di cartelli pro Biden o pro Trump, raramente si mescolano. Segregate sono le discussioni che abbiamo qui, una sera i repubblicani, un’altra i democratici, a immagine e somiglianza di una nazione lacerata, ormai tribale, dove ogni metà è spaventata all’idea della vittoria dell’altra. Anche quando le categorie socio-economiche si assomigliano: i miei intervistati sono ceto medio, insegnanti e avvocati, pensionati e imprenditori, 85% bianchi e 15% di colore, proprio come nel censimento del Wisconsin. Serata repubblicana, è una donna, Rory Burke a definire questa un’elezione «esistenziale». «Non si vota su un candidato – dice lei – ma su un’idea dell’America. I democratici rimettono in discussione la nostra identità, ciò che siamo». È l’idea di società multietnica portata all’estremo che le fa paura: il passato dei bianchi riletto in chiave criminale, tutto all’insegna del razzismo. Un’altra donna, Nora Barry, avvocatessa e madre di quattro figli, denuncia
una deriva radicale: «Sono di origini irlandesi, cattolica e democratica di famiglia. Mi sono convertita ai repubblicani perché sono loro a difendere operai e ceto medio. Il partito democratico è diventato socialista. Legge e ordine, li davamo per garantiti, e un tempo i poliziotti erano tutti democratici. Ora votano repubblicano anche loro, ci sarà una ragione: guardate cosa succede nelle nostre piazze». Suo marito John è convinto che la rimonta di Trump avverrà su questi temi: «Più dell’economia oggi tanti concittadini temono per l’ordine pubblico, per le loro proprietà minacciate. Anche il Coronavirus agisce in senso diverso da come si crede. Il nostro governatore, un democratico, impone delle restrizioni ingiuste, che portano alla rovina tanti locali pubblici. È un abuso di potere. È un ricorso a leggi d’emergenza che sfiorano l’autoritarismo. Voi europei forse ci siete abituati, noi no, è anti-americano». La serata democratica si apre all’insegna di un ottimismo inquieto, quasi angosciato. I sondaggi sono buoni al punto che si comincia a sentire parlare di un «landslide», una frana elettorale, un sisma a favore di Biden che potrebbe trascinare vittorie anche al Senato. Però Scott Hansen s’interroga sulle reazioni: «Sono preoccupato, Trump si rifiuta di promettere che in caso di sconfitta si farà da parte, non garantisce una transizione pacifica. Le milizie armate ci sono, la violenza è un rischio vero». Il mio focus group è fatto di gente istruita ma non per questo immune da dietrologie, teorie del complotto, angosce da cospirazione e scenari apocalittici. Chris Miskel, imprenditore afroamericano di successo, è convinto che «la comunità Black è galvanizzata da Kamala Harris» ma teme un rigurgito di paure tra i bianchi, più lo spettro della «soppressione di voti», i diritti elettorali ostacolati da intralci burocratici. Nancy Jefferson è «stupefatta che la destra abbia politicizzato le maschere e i lockdown, mentre ha sempre ac-
cettato le cinture di sicurezza e i limiti di velocità». In questi gruppi l’orrore verso il presidente è alle stelle, manca però l’entusiasmo per Biden. «Nessuno di noi – dice Doug Levi – può provare entusiasmo per Biden, un politico che calca le scene da mezzo secolo. Come diavolo abbiamo fatto a non trovare un quarantenne?» Un messaggio unisce le tribù repubblicane e democratiche del Wisconsin, ma non è lieto: «Queste sono elezioni dominate dalla paura». Le sorprese di ottobre continuano, la campagna elettorale è movimentata da colpi di scena senza tregua. Dopo il breve ricovero di Trump seguito dalla guarigione, il Coronavirus ha cancellato temporaneamente viaggi e comizi di Kamala Harris, la candidata vicepresidente di Biden. Due persone del suo staff sono positive. È una brutta sorpresa visto il ruolo della Harris nella campagna democratica: è il volto nuovo, donna, cinquantenne, di colore, in una gara dominata da anziani maschi bianchi. Lo stop a Kamala è stato bilanciato da notizie più favorevoli al duo democratico. La raccolta fondi continua a premiare Biden, che ha più risorse da spendere rispetto a Donald Trump nell’acquisto di spot televisivi. In alcuni Stati-chiave, in bilico fra repubblicani e democratici, Biden riesce quasi a «saturare» lo spazio televisivo con un rapporto che rasenta il due a uno sulle pubblicità per Trump. Inoltre i sondaggi continuano a vedere Biden favorito, in alcune indagini il suo vantaggio supera i dieci punti. Sembra essersi rafforzato dopo il primo duello tv, in cui la prestazione aggressiva di Trump lo ha penalizzato. Il tempo per recuperare e per organizzare una rimonta scarseggia per Trump, vista la natura speciale di questa elezione segnata dalla pandemia: all’inizio della settimana scorsa avevano già votato per corrispondenza 15 milioni di elettori. Ad ogni giorno che passa si assottiglia il numero di coloro che possono ancora essere convinti di cambiare parere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
Per una pelle levigata
È considerato un trattamento miracoloso per contrastare le rughe: vi sveliamo ciò che c’è da sapere sull’acido ialuronico
Da dove proviene?
L’acido ialuronico è uno dei componenti del nostro corpo. Il 50 per cento dell’acido ialuronico corporeo si trova nella pelle. Il suo ruolo consiste nel far sì che la cute riceva un’idratazione ottimale e rimanga elastica. L’acido ialuronico è inoltre un importante componente dei tessuti connettivi e svolge un ruolo rilevante nella proliferazione e nel rinnovamento cellulare. A cosa serve?
La pelle giovane è ricca di acido ialuronico. Lega l’acqua nell’epidermide e la fa apparire soda ed elastica. Purtroppo l’effetto non dura nel tempo: con l’aumentare dell’età il derma cambia e le cellule sono meno attive. A partire dai 30 anni, i depositi di acido ialuronico si svuotano, mentre l’epidermide ne produce meno. La conseguenza è la perdita di elasticità e la comparsa delle prime rughe. A partire dai 40 anni si possono formare rughe più profonde, perché la pelle generalmente trattiene meno idratazione. Si rilassa e perde ulteriore elasticità. È al più tardi a questo punto che risulta consigliabile intervenire con una crema per il viso contenente acido ialuronico. L’acido ialuronico aiuta anche ad attivare il rinnovamento cellulare e protegge la pelle dagli effetti nocivi dell’ambiente. Come agisce?
Foto: Yves Roth, styling: Mirjam Käser
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Politica e Economia
I guardiani della violenza Chi è Usa Un rapporto dell’Fbi indica nei suprematisti bianchi
e nelle milizie di estrema destra come i Wolverine Watchmen la maggiore minaccia terroristica nazionale
Amy Coney Barrett Corte suprema Cattolica conservatrice, è
stata scelta dal presidente dopo la morte della giudice progressista Ruth Baden Ginsburg Christian Rocca
Suprematista bianco durante una manifestazione «White lives matter» nel Tennessee.(AFP)
Daniele Raineri A settembre il direttore dell’Fbi, Christopher Wryle, ha avvertito mentre era in audizione al Congresso che la minaccia di sicurezza interna più grave in America viene dal terrorismo allevato in casa e che in questa categoria i più pericolosi sono i suprematisti bianchi. A ottobre il rapporto della Homeland Security, il ministero dell’Interno americano, ha messo nero su bianco lo stesso avvertimento: il pericolo «più probabile, più persistente e più letale» che abbiamo dentro i nostri confini è l’estrema destra che raccoglie e ispira molti individui che non vedono l’ora di passare alla lotta armata. Nel campo del terrorismo è un cambio di epoca. Il rischio jihadismo passa in seconda fila, la lotta all’estremismo di destra diventa la priorità. Gli americani, che amano le sigle, li chiamano DVE, Domestic Violent Extremists, e nel rapporto si nota che nel 2019 hanno fatto sedici attacchi e hanno ucciso quarantotto persone. Era dal 1995, l’anno del camion bomba contro l’edificio dell’Fbi a Oklahoma City, che gli estremisti di casa non facevano un numero così alto di vittime. E all’interno dei DVE il rapporto dice che ad aver commesso di gran lunga il numero maggiore di violenze sono i WSE. Un’altra sigla, questa volta per indicare i White Suprematist Extremists. Non che prima fossero un problema trascurabile. Negli anni passati, ha detto il direttore Wryle, «avevamo circa mille casi di terrorismo interno ogni anno. Ma quest’anno ne abbiamo avuti di più». È così dopo che l’America l’11 settembre 2001 si era scoperta vulnerabile alle infiltrazioni da fuori (i dirottatori erano tutti stranieri) e dopo che per vent’anni gli sforzi delle agenzie di sicurezza si sono concentrati sui gruppi dell’estremismo islamico, adesso c’è una nuova-vecchia urgenza. La settimana scorsa l’Fbi ha arrestato tredici persone che volevano rapire e processare – e molto probabilmente condannare a morte – Gretchen Whitmer, la governatrice democratica del Michigan. Durante la prima ondata della pandemia in primavera la governatrice si era distinta per il decisionismo, le misure severe e i discorsi convincenti. La cosa aveva attirato attenzioni positive ed è entrata nella lista delle donne che Joe Biden ha preso in considerazione per il ruolo di vicepresidente (poi però l’ha spuntata Kamala Harris) ma anche molte attenzioni negative. Ad aprile alcune proteste sotto le finestre del suo ufficio hanno preso una brutta piega, uomini armati sono arrivati fin davanti alla sua porta, la re-
torica da parte dei repubblicani e della destra contro la governatrice «tiranna» ha sfondato il livello di guardia. La Casa Bianca avrebbe potuto tentare di riportare la calma, invece il presidente Donald Trump scrisse su Twitter: Liberate il Michigan! Come se lo Stato del Michigan fosse sotto occupazione. In questo clima e proprio durante le proteste sugli scalini del palazzo della Whitmer si sono incontrati gli uomini di una milizia locale che poi sono diventati il nucleo che ha progettato il sequestro di persona. Si facevano chiamare Wolverine Watchmen, un nome che è tutto un programma. I wolverine sono i ghiottoni, quei mammiferi combattivi di piccola taglia che usano molto gli artigli. I watchmen sono i guardiani, quelli che vigilano affinché non accada qualcosa di brutto (la tirannia in America, in questo caso). Ma Wolverine è anche uno spietato e malinconico antieroe dei fumetti Marvel. E Wolverines si facevano chiamare i partigiani americani in un filmaccio degli anni Ottanta che si chiama Red Dawn e racconta un’ipotetica invasione sovietica negli Stati Uniti e che per alcuni è un cult-movie. Si capisce il contesto? Questi che giravano con il fucile semiautomatico e una bandana sul viso sotto le finestre della Whitmer si sentivano i custodi degli Stati Uniti contro l’occupazione dei «rossi», in questo caso incarnati dai democratici, e contro la deriva «tirannica» dello Stato. E il loro piano originale era molto più ambizioso del semplice sequestro di una governatrice. Intendevano dare l’assalto al palazzo il giorno prima delle elezioni con duecento uomini armati, prendere in ostaggio lei e altri in modo da traumatizzare il Paese e far scoppiare una guerra civile. Discutevano come respingere il probabile contrattacco della polizia. Contavano che il loro gesto, riproposto all’infinito da media e social media, avrebbe ispirato emuli in altri Stati. Poi però avevano dovuto ridimensionare il loro piano. Detto così suona come un cattivo sogno, a metà tra il club del soft air e l’indigestione. Eppure gli arrestati avevano già comprato esplosivi, un fucile di precisione, un visore notturno e un taser per stordire la donna, tutto materiale che vale migliaia di dollari e doveva servire alla realizzazione del raid. Prima di ridicolizzare le loro velleità eversive vale la pena ricordare che anche gli adolescenti arabi che diventano fanatici del Califfato si fanno chiamare «leoni» e «guerrieri della guerra santa». E poi, a dispetto della relativa inesperienza e ingenuità, diventano pericolosi sul serio. Abbiamo im-
parato da tempo a non sottovalutarli. L’arresto dei Wolverines è interessante perché è un caso di piano collettivo. Fino a oggi gli attacchi più violenti sono stati nella stragrande maggioranza opera di estremisti che hanno agito da soli. Vedi l’attacco nell’agosto 2019 ai grandi magazzini Walmart di El Paso, vicino al confine con il Messico, dove un ventunenne con un fucile semiautomatico uccise 23 persone come protesta contro la presenza di latinos negli Stati Uniti. Oppure l’arresto a febbraio di un ufficiale della Guardia costiera che stava accumulando armi in vista di una campagna di attacchi terroristici che avrebbe preso di mira, in nome del separatismo bianco, una lunga lista di politici e di giornalisti. L’uomo preparava anche attacchi di massa e si ispirava in modo esplicito a Anders Breivik, il norvegese che nel luglio 2011 uccise 77 persone – la maggior parte di loro ragazzi, sull’isola di Utoya. Il rapporto della Homeland Security nota un’altra cosa. A contribuire a questo aumento della pericolosità è senz’altro il clima politico. Gli esperti dicono che c’è polarizzazione, noi potremmo dire così: nell’era moderna gli Stati Uniti non sono mai stati così divisi dal punto di vista politico e non ci sono mai stati così tanti irriducibili, gente che pensa che se vincerà l’altro sarà la fine della nazione. Per questo ci si aspetta un possibile aumento delle violenze in questi mesi e nella prima parte del 2021. Due sono gli scenari che si preparano. Se vincesse il candidato democratico Joe Biden, molte fazioni armate reagirebbero male. Penserebbero della vittoria di Biden quello che pensavano della Whitmer: i «rossi» sono arrivati a portarci via le libertà, a prenderci le armi, a favorire le razze che noi disprezziamo. Se invece vincesse il candidato repubblicano Trump, ci potrebbe essere un effetto galvanizzante: il popolo è con noi, siamo legittimati dalla maggioranza del Paese, siamo solo un’avanguardia meno ipocrita. Questo non è per dire che i repubblicani americani e l’estrema destra sono la stessa cosa, ma sono tempi confusi e l’ala più a destra legge negli eventi quello che vuole leggere. Oppure tutto questo estremismo che sembra destinato a durare molti anni per una ragione o per l’altra comincia a sbollire e perde forza, i guerriglieri di casa si calmano, i più violenti sono intercettati in tempo, i social media – come stanno già facendo – li bloccano e gli tolgono visibilità e l’allarme rientra. È un’opzione desiderabile, ma in questo momento non è la più probabile.
La giudice Amy Coney Barrett influenzerà la giurisprudenza, la politica e la società americana per i prossimi decenni, ma la sua nomina alla Corte suprema degli Stati Uniti non è imputabile soltanto a Donald Trump, il quale ha fatto soltanto il suo mestiere di scegliere una giurista ultraconservatrice, peraltro in questo caso anche brava, qualificata e di buone maniere. La nomina a vita di Amy Coney Barrett, nata in Louisiana, giudice della Corte d’appello di Chicago, sette figli, va messa in carico anche alla citrullaggine di quella parte della sinistra e del mondo intellettuale liberal che quattro anni fa ha storto il naso di fronte alla candidatura presidenziale di Hillary Clinton, che spiegava che non c’era nessuna differenza tra i due sfidanti, che in alcuni casi si fidava più di Donald che di Hillary e che diffondeva analfabetismi chic sul neoliberismo dei democratici. In Europa, lo stesso principio in teoria di purezza ideologica, ma in realtà autolesionista, ha portato alla cancellazione delle esperienze di governo riformiste, come quella di Matteo Renzi, e alla catastrofe politica di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna e di Giuseppe Conte in Italia. Le elezioni hanno conseguenze e la conseguenza principale di aver punito il riformista ideologicamente più vicino per segnare un punto di principio, in nome di un massimalismo grottesco, in America è sintetizzabile in tre parole: Amy Coney Barrett. La controprova è questa: gli odiati Clinton, alla Corte Suprema avevano nominato Ruth Bader Ginsburg, la giudice costituzionale appena scomparsa, idolatrata dalla stessa sinistra radicale che quattro anni fa sdegnava Hillary considerandola di destra e che ora verrà sostituta da Barrett. È surreale lamentarsi adesso della giudice Barrett, dopo aver contribuito a eleggere Trump non andando a votare, preferendo la candidatura alternativa di Jill Stein (la prima scelta di Vladimir Putin per sabotare Hillary), spiegando che Donald era la colomba e Hillary il pericoloso falco o diffondendo scetticismo sull’affidabilità del clan Clinton. In un’epoca in cui dire bugie è diventato un pregio, i repubblicani di Trump accelerano i tempi e mostrano una bella faccia tosta a pretendere di nominare un giudice a vita a un mese dalle elezioni dopo che lo hanno impedito a Barack Obama cui sarebbe spettato sceglierlo dieci mesi prima del voto, dopo la morte del giudice Antonin Scalia. Ma al netto della cortesia costituzionale, che non è esattamente il suo forte, Trump ha tutto il diritto co-
La Barrett potrebbe spostare a destra l’orientamento della Corte. (Wikipedia)
stituzionale di nominare il giudice supremo ora che si è reso vacante uno dei nove posti. Nessuno sa come si comporterà Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, come ha provato a spiegare lei stessa durante le audizioni al Senato, incalzata dai rappresentanti del Partito democratico e in particolare da Kamala Harris, senatrice della California e candidata alla vicepresidenza di Joe Biden. Sappiamo soltanto che Amy Coney Barrett è una giurista «originalista», come il suo mentore Anthony Scalia, cioè che la sua filosofica giuridica si basa sul rispetto letterale del testo della Costituzione. Non è una questione di destra contro sinistra o di religiosi contro laici. Gli originalisti come Amy Coney Barrett credono che la Costituzione sia quella scritta e non altro, pensano cioè che non vada interpretata alla luce degli odierni sviluppi etico-sociali. Il testo costituzionale è, insomma, un documento legale e come tale vale per quello che dice, non per quello che non dice ma che un gruppo di giudici vorrebbe che dicesse. Secondo loro, la società non sempre «matura», come sostengono i seguaci di altre scuole giuridiche, talvolta anzi può «marcire», cioè regredire anziché progredire. Ecco perché secondo gli originalisti alla Coney Barrett è necessario attenersi al testo originale e non provare in nessun modo a tirarlo da una parte o dall’altra in base a mode passeggere o a cambiamenti di costume. Ma c’è qualcosa in più: gli originalisti credono che il compito dei giudici, anche dei giudici costituzionali, sia soltanto quello di applicare la legge, non di crearla. Il potere legislativo spetta alle assemblee statali e, nel caso in cui la Costituzione fosse ritenuta obsoleta, al Congresso di Washington e poi alla maggioranza degli Stati attraverso la procedura degli emendamenti costituzionali. Insomma, gli originalisti rigettano l’attivismo che impone ai magistrati di qualsiasi livello e grado il dovere di intervenire nella vita sociale per aumentare la protezione dei diritti dei cittadini. È probabile che la Barrett si comporterà così, ma la storia della Corte Suprema è ricca di giudici costituzionali che una volta entrati nella Corte hanno giudicato in modo diverso rispetto allo schieramento ideologico di partenza. Con la Barrett, saranno sei i giudici conservatori, tre dei quali nominati da Trump, rispetto ai tre liberal della Corte. Vedremo se la nuova maggioranza cambierà il corso dell’America sui finanziamenti alla politica, sulle politiche ambientali, sui diritti dei lavoratori e sull’aborto, ma invece di fasciarsi la testa sull’arroganza trumpiana gli oppositori di Barrett dovrebbero raddoppiare gli sforzi per eleggere Joe Biden il 3 novembre, smettendola di rumoreggiare sull’imperfetta aderenza ideologica del candidato democratico alle ultime mode. È vero che Joe Biden non scalda i cuori, che è anziano, che è moderato e che appare come un simpatico trombone vecchio stampo, «blowhard», dicono gli americani. Ma Biden con tutti i suoi problemi è uno dei pochi leader «normali» del mondo occidentale. E in questi tempi impazziti è proprio la normalità democratica, istituzionale e civile la cosa che manca di più di qua e di là dell’Atlantico, ma soprattutto nell’America del primo presidente antiamericano.
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Politica e Economia
Indipendenti ma non troppo
Giustizia e politica Il caso di un giudice del Tribunale federale, eletto nel 2008 su indicazione dell’UDC
ma che ora non ha voluto rieleggerlo, riapre la questione sull’indipendenza della giustizia dal potere politico Marzio Rigonalli Negli ultimi mesi ci sono stati alcuni episodi che hanno rivelato situazioni di malessere all’interno della giustizia in Svizzera. È stato il caso all’interno del tribunale penale federale, dove si sono intrecciate le accuse di mobbing, di sessismo e di spese eccessive. È stato il caso anche in seno al tribunale cantonale grigionese, dove è sorto il conflitto tra il presidente ed un suo collega giudice in merito ad una sentenza su un caso di eredità. Un conflitto che poi si è prolungato fino al tribunale federale e all’interno del parlamento cantonale, mettendo a dura prova il buon nome dell’istituzione giudiziaria cantonale. La vicenda che ha suscitato più clamore è però stata, senza dubbio, la rielezione dei giudici del Tribunale federale. Un po’ per il tentativo di condizionarla e di pilotarla, fatta da un partito politico, l’UDC; un po’ perché sono riemerse quelle criticità che caratterizzano i rapporti tra la politica e la giustizia, nel caso specifico tra il parlamento federale ed il tribunale federale.
All’UDC non erano piaciute due decisioni prese da Yves Donzallaz sugli accordi bilaterali e sul segreto bancario Che cosa è successo? Lo scorso 23 settembre, durante la sessione autunnale, l’assemblea federale è stata chiamata a rieleggere i giudici del tribunale federale. Una rielezione che si svolge ogni sei anni e che di solito avviene in tutta tranquillità. Questa volta non è stato così. Un mese prima dell’appuntamento, l’UDC ha cominciato a distanziarsi da uno dei giudici che doveva essere rieletto, il vallesano Yves Donzallaz, un giudice ch’essa stessa aveva proposto nel 2008. Lo accusò di non seguire la linea politica del partito. Le accuse sono poi sfociate nella decisione presa dal gruppo parlamentare dell’UDC di non rieleggere Donzallaz. Il primo partito svizzero non ha digerito due decisioni prese dal tribunale federale e alle quali aveva partecipato, con voto favorevole, anche Yves Donzallaz. La prima risale al 2015, quando venne deciso che l’accordo sulla libera circolazione delle persone con l’UE prevaleva sull’arti-
colo costituzionale «Contro l’immigrazione di massa». La seconda è più recente ed è del mese di giugno 2019, quando il tribunale decise di trasmettere alle autorità fiscali francesi i dati personali di 45’000 clienti di UBS. Il modo di agire dell’UDC è stato criticato in termini anche abbastanza violenti da tutti gli altri partiti politici. Si è parlato di una mancanza di rispetto delle istituzioni, di un attacco all’indipendenza della giustizia ed alla separazione dei poteri. E c’è stato anche chi ha voluto tracciare un parallelo con la Turchia, l’Ungheria e la Polonia, paesi nei quali la giustizia deve convivere con le pressioni del governo e ha dovuto rinunciare ad una parte della sua indipendenza. In segno di protesta, tre partiti di governo, il PS il PPD ed il PLR, hanno annullato il vertice sulla concordanza concordato con il quarto partito, l’UDC. Un vertice durante il quale si sarebbe dovuto discutere sui contenuti della formula magica del Consiglio federale, alla luce di quanto è successo alle ultime elezioni federali, con l’avanzata dei Verdi e la loro richiesta di far parte del governo. Alla fine, il tentativo dell’UDC di bloccare la rielezione di un giudice è fallito. Gli altri partiti hanno sostenuto Yves Donzallaz, che è stato rieletto con 177 voti, largamente al di sopra della maggioranza assoluta richiesta che era di 120. L’UDC si è dunque ritrovata isolata ed ha dovuto incassare la sconfitta. Il suo modo di agire ha però messo in evidenza alcuni punti dolenti nei rapporti tra il potere legislativo ed il potere giudiziario. Prima di essere nominato, un futuro giudice del Tribunale federale deve essere proposto da un partito politico, di cui di solito è membro. I partiti politici si suddividono il numero dei giudici del Tribunale federale secondo la loro forza elettorale. Il giudice contraccambia il favore di essere stato proposto versando al partito, annualmente, una parte del suo stipendio che è di circa 350’000 franchi. La somma versata varia secondo il partito. Per ogni giudice i Verdi incassano 20’000 franchi, i socialisti fino a 13’000, l’UDC 7000, il PPD 6000 ed il PLR 3000 franchi. Sono cifre importanti, che rappresentano un’entrata non trascurabile per le casse di almeno alcuni partiti, ma che sollevano interrogativi sull’indipendenza della giustizia e sulla fiducia che una simile situazione può riscuotere nella popolazione.
Yves Donzallaz è stato comunque riconfermato dal Parlamento al Tribunale federale con 177 voti. (Keystone)
Alcuni difensori di questo sistema obiettano che anche i membri del Consiglio federale, i membri degli esecutivi cantonali ed i parlamentari versano ai loro partiti una parte delle loro entrate. Le due situazioni, però, sono diverse. Attraverso la loro attività e le loro scelte, i politici hanno un legame molto stretto con i loro partiti. I giudici, invece, non intrattengono un simile legame, perché svolgono un’attività indipendente dai partiti, con risultati uguali per tutti i cittadini. Per non dover assistere ad una situazione analoga a quella vissuta lo scorso mese di settembre, sarebbe quindi opportuno aprire la porta alle riforme. Due sono le vie suscettibili di essere intraprese. La prima comporta dei correttivi all’attuale sistema. Per cancellare la rielezione, si potrebbe allungare il mandato del giudice, che oggi è di 6 anni, oppure prolungarlo addirittura fino al pensionamento. Un solo mandato potrebbe rafforzare l’indipendenza del giudice. E per rompere il legame tra i giudici ed i partiti politici, si potrebbe prevedere che il tribunale federale possa proporre all’assemblea
federale un numero definito di futuri giudici. Si aprirebbero così le porte del tribunale a giudici che non fanno parte di un partito politico e che verrebbero eletti soltanto sulla base di criteri di competenza e di idoneità. La seconda via percorribile è l’iniziativa popolare «Per la designazione dei giudici federali mediante sorteggio (Iniziativa sulla giustizia)». È stata depositata il 26 agosto 2019 con oltre 130’000 firme valide e chiede che i giudici del Tribunale federale siano designati mediante sorteggio. Una commissione peritale verrebbe istituita per decidere chi può partecipare al sorteggio e quali sono le caratteristiche che deve riunire. Il Consiglio federale ha respinto l’iniziativa, senza opporvi un controprogetto, perché ritiene che la designazione mediante sorteggio implica una decisione basata sul caso, e che ciò potrebbe pregiudicare la credibilità del tribunale e delle sue sentenze. È probabile che anche i partiti politici si schierino contro quest’iniziativa, visti i vantaggi finanziari che traggono dal sistema attuale. Alla fine spetterà comunque al popolo e ai cantoni pro-
nunciarsi sull’iniziativa e sulla riforma proposta. Nessuna delle due strade convince pienamente e forse sarà necessario intraprendere altre vie. Quello che è avvenuto nelle settimane che hanno preceduto l’ultima rielezione dei giudici federali non deve più succedere. Il disorientamento è stato ampio e, per restare a livello federale, ha ingrandito la perplessità che aveva già provocato il comportamento del procuratore generale della Confederazione, Michael Lauber. Anche la procura federale è nel mirino della critica e necessita di una riforma. L’assemblea federale ha ora l’opportunità di rivedere il modo di scelta dei giudici federali. Deve trovare un sistema che riduca le pressioni della politica, che renda inefficaci le prese di posizione pubbliche di singoli parlamentari e delle centrali dei partiti contro i giudici in carica, e che cancelli le loro minacce di conseguenze al momento della rielezione. L’indipendenza della giustizia e la sua credibilità sono valori fondamentali della nostra democrazia, valori che vanno difesi e possibilmente rafforzati in ogni circostanza. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Quando le scuole crescono Con un gruppo di compagni e compagne della Scuola Cantonale di Commercio, che festeggiavano gli ottanta anni, ho avuto l’occasione di visitare di recente il nuovo edificio di Supsi e Usi a Viganello. Siamo stati gentilmente accolti dal direttore Franco Gervasoni e abbiamo avuto l’occasione di essere introdotti nelle attività di ricerca del Dipartimento delle tecnologie innovative da parte del prof. Andrea Salvadè. Se le relazioni dei due ospitanti sono state accolte con molta simpatia da parte dei convenuti, non da ultimo perché una parte di loro dell’esperienza universitaria ticinese, e del divenire della Supsi in particolare, non sapeva nulla, la visita dell’edificio in via di completamento ha destato reazioni diverse penso soprattutto per via della sua dimensione. Non so se in Ticino esista un altro edificio scolastico di questa portata e anche ne-
gli altri Cantoni, con l’eccezione forse dei nuovi campi dell’università e del politecnico di Zurigo e del politecnico di Losanna, gli edifici così grandi devono essere rari. Io, poi, che ho avuto il piacere di essere il primo direttore della Supsi e, venti anni fa, ambivo a riunire tutti i dipartimenti e gli istituti di quella scuola in una sola localizzazione, sono restato abbastanza sbalordito nell’apprendere che quel demonio di edificio ospiterà per finire solo pochi programmi di insegnamento e solo una parte del personale della Supsi. Qualcuno mi suggeriva addirittura che nonostante le sue dimensioni il nuovo campus di Viganello poteva essere già considerato come appena sufficiente per i bisogni per i quali è stato costruito. Il problema naturalmente è dato dal fatto che, nei loro primi due decenni di vita, Supsi e Usi sono cresciute ad un ritmo molto
sostenuto che, penso, vada molto al di là di qualsiasi aspettativa formulata prima della loro creazione. La Supsi, per esempio, ha visto nel corso degli ultimi dieci anni, aumentare del 70-80% il numero degli studenti di bachelor e quello degli studenti di master. Questo significa che le iscrizioni alla Supsi aumentano annualmente di circa il 5%, un tasso che molto superiore a quello con il quale cresce la popolazione studentesca ticinese. Dovesse continuare a crescere a questo ritmo, tra dieci anni la Supsi si ritroverebbe con quasi 10’000 studenti. E con una richiesta di superfici per l’insegnamento e per la ricerca che difficilmente potrebbe essere esaudita nelle zone urbane del nostro Cantone. Non sorprenderà quindi apprendere che la questa università ha incluso la valorizzazione dei campus esistenti e di quelli nuovi (Viganello e
Mendrisio) tra i cinque orientamenti strategici di fondo della sua strategia. È tuttavia probabile che il ritmo di crescita della popolazione studentesca della Supsi (e anche quello degli studenti dell’Usi) tenda, in futuro, a diminuire. Non dimentichiamoci che il pubblico potenziale di studenti di queste scuole è formato, in primis, dai giovani e dalle giovani residenti in Ticino delle classi di età tra i 20 e i 29 anni. Se guardiamo le statistiche ci accorgiamo che questo potenziale è pari a circa 10’700 persone e, nel tempo, non tende ad aumentare. Tenuto conto di questi dati di base è facile prevedere che la popolazione studentesca di Supsi e Usi stia avvicinandosi al livello di saturazione. Questo significa che il numero degli studenti di queste università, in futuro, non potrà crescere che per l’afflusso di studenti da fuori Cantone, dal resto
della Svizzera come dal resto del mondo. Questa evoluzione non si riscontra solo in Ticino, ma anche nelle altre regioni di reclutamento delle Scuole universitarie professionali svizzere. Di conseguenza, già da qualche anno, è nata la concorrenza tra le singole sedi – particolarmente a livello di formazione di bachelor. La Supsi, per il momento, è protetta da questa concorrenza perché privilegia ancora l’italiano come lingua di insegnamento. Laddove però, per i motivi più diversi, la lingua di insegnamento dovesse diventare l’inglese, la concorrenza con le Scuole universitarie di oltre S. Gottardo diventerebbe inevitabile. Ricordiamo da ultimo che le nostre università potranno sempre risolvere eventuali colli di bottiglia logistici aumentando la quota dell’insegnamento dato per internet.
smo fosse stato solo un brutto errore: l’assenza di previsioni. Tutti dicono: dopo l’errore di allora, non diciamo più nulla, vedremo. Certo, vedremo: nel 2016 la stragrande maggioranza dei sondaggisti, analisti, commentatori, persino i passanti dicevano che la vittoria di Hillary era ma-te-ma-ti-ca. Nel 2020 di matematico non c’è più nulla, nemmeno la certezza di poter andare al seggio il 3 novembre vista la seconda ondata di coronavirus in corso, però una cosa si può dire: guardando i sondaggi oggi, un’istantanea che poi buttiamo subito per non creare strane attese, Joe Biden (foto) vince a valanga. La media dei sondaggi dà il candidato democratico oltre il 50 per cento: nella storia recente nessuno, nemmeno Bill Clinton nel 1992, era oltre questa soglia in questo momento della campagna elettorale. Le elezioni si vincono con i collegi elettorali ma ci sono davvero pochi scenari che, con un distacco da Trump che supera gli 8 punti percentuali e un consenso oltre
il 50 per cento, prevedono comunque una vittoria di Trump. In Michigan e in Nevada, Biden è tra il 52 e il 46 per cento, in Iowa, dove Trump vinse con nove punti di vantaggio, la corsa è 49 per cento alla pari. Tutti i dati indicano e già da un po’ di tempo che la vittoria di Biden è a valanga. Questo significa che tutte le discussioni istituzionalcostituzionali sul caos post voto – con i voti via posta ancora da contare, con il pareggio che dà la possibilità all’inquilino della Casa Bianca di orchestrare e pianificare il periodo di «interregno» prima della nomina ufficiale dei collegi elettorali, con il terrore di quel che viene chiamato «golpe democratico» – sono superflue. Non c’è caos, non c’è conflitto, non c’è Trump barricato dentro la Casa Bianca. C’è una vittoria senza dubbi. Ma fosse anche solo per scaramanzia, questa cosa la sussurriamo appena. La sindrome del 2016 prevale: nessuna previsione, e per favore svegliateci quando il trumpismo è finito.
ormai cronica crisi dell’editoria e del giornalismo, costellata da esperimenti e ristrutturazioni che quando non costano licenziamenti contribuiscono ad aumentare la falcidia dei posti di lavoro (e non solo per la rivoluzione digitale), molti giornalisti ormai da un decennio cercano alternative sulla rete del web. Poiché le varie le nicchie offerte da giornali online e riviste sono state inesorabilmente prosciugate da piattaforme digitali e applicazioni, ora si riscoprono le vecchie caselle di posta elettronica che, oltre a offrire un contatto diretto con i lettori, consentono anche un riparo dalle frecce avvelenate della moltitudine di hater e troller che la gratuità del web continua a generare inquinando tutto l’universo dell’informazione. Si sta insomma profilando un nuovo fenomeno mediatico che ricalca quella che nei paesi anglosassoni viene denominata «Stan culture», cioè «la forma più fedele e appassionata di fan – o lettore/lettrice digitale, in questo caso – disposta persino a pagare per seguire il suo beniamino». Nata come scappatoia
utilizzata da famosi personaggi dello spettacolo per sottrarsi ai milioni di follower che intasavano e avvelenavano i loro siti su facebook, twitter o altri social, questa tendenza si è estesa anche al mondo mediatico, per ora limitata a newsletter di redazioni e giornalisti determinati ad affrontare anche la frontiera (non solo psicologica) del chiedere soldi. In Italia c’è chi trova appoggi nelle strategie editoriali (come nel caso del nuovo quotidiano «Domani» del finanziere De Benedetti) e chi cavalca forme ibride (centrate su abbonamenti e oboli volontari di sostegno, come fanno ad esempio Il Post e, formidabile «singolista», il suo vice direttore Francesco Costa). Sono ancora casi rari, veri battistrada. Consentono però di sperare che grazie alla riscoperta della posta elettronica, oltre a proiettare spiragli di luce nel buio della crisi dell’editoria, il fenomeno delle newsletter riesca finalmente a incentivare abbonamenti e fidelizzazioni nell’editoria, a difendere un giornalismo senza condizionamenti pubblicitari o politici.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Non facciamo previsioni, per favore nulla di grave. Mettere Donald Trump tra parentesi significa dimenticare in fretta il pericolo corso, raddrizzare quel che era storto e ricominciare da dove ci si era salutati: con Barack Obama. La tentazione è grandissima ed è stata alimentata dall’ex presidente stesso che con i suoi interventi e la sua presenza (piuttosto ingombrante) ha costruito
AFP
Nel maggio del 2017, la rivista americana «New York» mise Hillary Clinton in copertina con una domanda: «Io me la cavo piuttosto bene, e voi?». Sono passati tre anni e mezzo e ancora non c’è una risposta: probabilmente Hillary non se la cavava bene, di certo il mondo liberal – e non solo – non si è più ripreso dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016. Nemmeno ora, nemmeno a pochi giorni dal nuovo voto – il 3 novembre. La cosiddetta sindrome del 2016, lo shock per la sconfitta in una partita che pareva vinta a tavolino, è ancora qui, molto forte, e presenta due sintomi chiari. Il primo è il desiderio di rimozione. Buona parte della campagna elettorale del Partito democratico è stata trainata da un’idea: mettere il trumpismo tra parentesi. Un’anomalia, una stortura frutto di una scelta irrazionale ma, per fortuna, emendabile in quattro anni, un fantasma da acchiappare e rimettere in soffitta ben sigillato: non è successo niente, un piccolo errore,
questa rimozione: possiamo tornare com’eravamo. Il futuro non c’è, ma il futuro è passato di moda. Non c’è nemmeno però – e questo potrebbe essere più grave – la volontà di capire, di comprendere perché c’è stato il trumpismo, che cosa resta di questa stagione spericolata e di continui conflitti, come si curano queste ferite. Nel 2016 e per molti mesi abbiamo letto molti saggi sociologici per capire chi fossero i trumpiani, come si era creata quella base e quella aspettativa, ci siamo avventurati in analisi sulla rabbia dell’uomo bianco e sull’accerchiamento dell’uomo bianco. Poi piano piano, complice lo stesso Trump che ha svilito e svuotato la presidenza degli Stati Uniti di ogni genere di autorevolezza e credibilità, ci siamo stufati: qui non c’è niente da capire, c’è solo da buttare fuori questo corpo estraneo. C’è anche un altro aspetto della sindrome del 2016, più pratico e di certo potenzialmente meno pericoloso della tentazione di fare come se il trumpi-
Zig-Zag di Ovidio Biffi La posta elettronica ci manda a dire Giornalisticamente vivo sempre più avviluppato nelle «newsletter» (uso il termine inglese perché in italiano corrisponde a «bollettino» o «opuscolo», denominazioni purtroppo obsolete per la moderna selezione che ogni newsletter può presentare). Come spiega Wikipedia, nata in forma cartacea, oggi la newsletter viene indirizzata prevalentemente tramite posta elettronica come aggiornamento periodico, inviato da singole persone, aziende, enti (pubblici o privati), associazioni o gruppi di lavoro, per ragguagliare un determinato target di utenti, clienti o membri su avvenimenti o situazioni in settori precisi dell’informazione, oppure su specifiche attività economiche o sociali. Per dire: c’è una newsletter della città di Lugano che ogni venerdì informa sui posti di lavoro vacanti; c’è quella che presenta le offerte settimanali e le novità di Migros; e così informano anche tantissime altre aziende. Le newsletter più note, e per questo soggette a pagamento, sono quelle inviate da istituti finanziari,
operatori professionisti o quotati analisti per guidare clienti e investitori sui mercati. Ma di recente si è intensificata anche l’offerta di singoli giornalisti che trattano temi specifici o conducono inchieste. Quest’ultimo tipo di offerta è indirizzato non solo a chi ha un interesse particolare (politica, economia ecc.), solitamente legato al mondo mediatico, ma può diventare strumento di selezione e di riepilogo anche per chi non può o non vuole passare ore davanti al pc o sui social cercando aggiornamenti o opinioni sui fatti del giorno: se sapete distinguere l’informazione dal marketing, cioè dalla pubblicità, e volete scartare quanto non rientra nella vostra cerchia di interessi, le newsletter possono diventare un mezzo sicuro per orientarsi sul mare di informazioni che sgorga dal web. Basta iscriversi o abbonarsi, magari tenendo presente l’opportunità di confrontare diversi pareri (oltre a quelle che sono le fonti e le voci che sorreggono la vostra visione, è utile contemplare e valutare anche quelle
che invece ne difendono o rappresentano altre) per avere un utile servizio a domicilio su come sta andando il mondo. Nel mio caso, ogni mattina, ancor prima di contattare le edizioni online dei giornali, il mio tempo di lettura inizia con una serie di «informatori» personali che trovo nella posta elettronica. Sono selezionati secondo i criteri citati in avvio, ma alla fine scatta comunque e sempre il solito «Attenti là fuori», l’avvertimento che nei telefilm polizieschi viene rivolto a chi inizia la giornata prima di partire in pattuglia. Anche una newsletter, come avvertono i dizionari, oltre che come forma di informazione, può essere sfruttata come mezzo di propaganda o di persuasione. Occorre pertanto tener presente che l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. E quello più temibile è costituito non tanto dalle «fake news», quanto dall’uso sofisticato o contorto che se ne può fare. La riscoperta delle newsletter in ambito giornalistico è probabilmente una emanazione del fenomeno ormai inflazionato dei blog. Complice la
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Cultura e Spettacoli Basilico valorizzato Presentato alla Polus di Balerna il ciclo di pitture civili del chiassese Carlo Basilico
Un prodigio per l’OSI Lo straordinario talento della pianista tredicenne Alexandra Dovgan, in scena a Lugano
Una scena vivace Si è chiusa anche la nuova edizione del FIT, con proposte di metateatro in linea con l’incertezza della nostra epoca pagina 45
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Il taccuino segreto di Pavese
Letteratura Pubblicati da Aragno gli appunti
del 1942-43
Pietro Montorfani Non si sa bene da che parte prenderlo questo «taccuino segreto» di Cesare Pavese, che segreto non è più dall’estate del 1990 quando Lorenzo Mondo, dopo un’attesa durata quarant’anni, si decise a rendere pubbliche quelle poche pagine molto scottanti sul quotidiano torinese «La Stampa». L’eco mediatica che ne era seguita, con gli interventi più o meno scioccati di amici e colleghi (Fernanda Pivano, Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi, Carlo Muscetta e molti altri), è ora ricostruita in un ricco volume curato da Francesca Belviso per l’editore Aragno, con contributi di Angelo d’Orsi e dello stesso Mondo, oltre naturalmente al testo integrale del taccuino (brevissimo) e a un piccolo apparato iconografico. Cesare Pavese è una delle personalità letterarie più misteriose e indecifrabili del Novecento italiano: poeta in età giovanile, poi soprattutto narratore e traduttore, vero motore della casa editrice Einaudi dei tempi d’oro (1930-50), per ragioni politiche e sentimentali è sempre stato al centro del dibattito, in vita e tanto più dopo la sua tragica e volontaria scomparsa, sigillata da un messaggio che invece di sedare gli animi non aveva fatto altro che esacerbarli: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». E di pettegolezzi invece negli ultimi decenni se ne sono fatti tanti, davvero troppi, al punto che persino questa operazione, molto documentata e filologicamente ineccepibile, avrebbe potuto rischiare di rientrare in quell’alveo, come l’ultimo tassello di uno scandaglio psicologico un po’ cinico, volto soltanto a suscitare scandalo. Per fortuna non è questo il caso. Sin dalla prima apparizione del Taccuino nell’estate del 1990 Natalia
Ginzburg, con la lucidità di pensiero che le era propria, aveva distinto nettamente i termini della questione: un vero amico quelle carte non le avrebbe mai pubblicate (lei quantomeno si sarebbe rifiutata), ma uno studioso serio sarebbe stato autorizzato a farlo, per desiderio di conoscenza e di completezza. L’importante era divulgarle con il garbo e il rispetto richiesti da quella materia incandescente: così ha fatto Lorenzo Mondo nel 1990 – nonostante l’esito un po’ infelice di quella polemica estiva − e così fa oggi Francesca Belviso, inserendo quel piccolo e raffazzonato diario del 1942-43 all’interno di una costellazione di letture europee (soprattutto Nietzsche) che ha il merito di allargare il quadro a un’intera biografia intellettuale, senza soffermarsi esclusivamente sulla materia politica. Pietra dello scandalo, allora come oggi, sono infatti le posizioni di Pavese nei confronti del fascismo e della sua cosiddetta «cultura», cui nel Taccuino si tende a guardare a tratti con benevolenza: «alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina... Il fascismo è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene» (25 ottobre 1942); «L’altra fu guerra dei popoli. Questa è la guerra delle personalità. Gli italiani di Mussolini, i tedeschi di Hitler, gli spagnoli di Franco. Si torna alla concezione epica». Come spiegare affermazioni così scandalose, sebbene siano state scritte per uso privato, da parte di un intellettuale che pure aveva subito il confino per il suo antifascismo giovanile, e che in seguito era stato osannato anche per aver fatto parte di un gruppo che incarnava l’essenza stessa dell’opposizione a Hitler e Mussolini? Nell’introduzione al volume, significativamente intitolata Ritratto in chiaroscuro, Francesca Belviso sviscera
Cesare Pavese in spiaggia a Varigotti, Anni 40. (Keystone)
la questione da ogni possibile punto di vista (fin troppo), mettendo innanzitutto in rapporto le pagine del Taccuino con quelle coeve del diario maggiore, reso noto poco dopo la sua morte. Se Il mestiere di vivere è infatti una sorta di diario da tavolino, scritto con calma e continuità tra il 1935 e il 1950 con l’intenzione consapevole di produrre un’autobiografia intellettuale, il Taccuino del 1942-43 non è altro che un quadernetto da tasca per appunti da prendere al volo, senza grandi filtri né controllo. Le tematiche politiche, quasi del tutto assenti nel Mestiere di vivere, risaltano per contrasto nel piccolo Taccuino, come se l’autore avesse voluto confinarle alla fugacità di un momento non degno di ulteriori sviluppi, come in un discorso racchiuso tra sé e sé, e neanche particolarmente brillante: «Il fascismo non solo ha dato l’unità all’Italia, ma ora tende a dargliela repubbli-
cana – contro l’opinione che in Italia la repubblica siano le repubbliche. Naturale che incontri resistenza e sembri lacerarne la coscienza. Ma è il male della crescita». Il freddo esercizio dell’intelligenza storica, sulla scia della lezione di Vico, ha quale esito considerazioni generali che lette oggi risaltano per il loro cinismo, e che certo soltanto Pavese avrebbe potuto scrivere in quel modo, mentre i fatti ancora avvenivano. Il cuore della questione, alla fin fine, è proprio questo: l’estraneità e diversità di Pavese rispetto al gruppo al quale è stato spesso forzatamente assimilato, soltanto per biasimarne poi lo scarso interesse per la politica e l’umoralità della sua posizione morale. Spirito libero e fieramente indipendente, sopravvissuto al fascismo e alla guerra ma non a sé stesso, nel confronto con un campione di purezza e abnegazione come Leone Ginzburg (per citare un unico caso, e il più significativo) è ine-
vitabile che il tormentatissimo Pavese finisca sempre per uscire perdente. Ma quel confronto, a ottant’anni dai fatti, ha ancora ragione d’essere? Il libro di Francesca Belviso sembra dire implicitamente di no: a Cesare va dato solo ed esclusivamente quanto era di Cesare, senza eccessive forzature che hanno a che fare con il mito di Pavese così come lo abbiamo costruito nella seconda metà del Novecento, più che con la sua reale persona, da cui dipendono in ultima analisi le responsabilità sulla sua opera intellettuale e letteraria. Ne avevamo fatto una statua, fragilissima, e ora ci accaniamo contro di essa armati di un minuscolo bloc notes. Bibliografia
Cesare Pavese, Il taccuino segreto. A cura di Francesca Belviso. Nino Aragno Editore, 2020.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Cultura e Spettacoli
Basilico, prezioso testimone
Arte Recentemente è stato presentato il ciclo di dipinti dell’artista chiassese Carlo Basilico
realizzato per la Polus di Balerna
Quei sette (anzi, otto) sul banco degli imputati Netflix Un capitolo
di storia statunitense
Elena Robert La lettura del lavoro di Carlo Basilico (1895-1966) si è arricchita di un interessante tassello interpretativo che amplifica ed eleva la valenza artistica della produzione del pittore, decoratore, designer e progettista chiassese. Concerne il ciclo di opere da lui realizzato tra il 1942 e il 1945 per la Polus di Balerna, oggetto nell’autunno 2019 di uno studio dello storico dell’arte Claudio Guarda, uscito su «Ticino Management» del dicembre-gennaio scorso. Recentemente è stato presentato nell’ex manifattura di tabacchi, in quello che un tempo fu il refettorio delle sigaraie: un ampio suggestivo spazio pensato per la pausa pranzo, la ricreazione e la socializzazione, inaugurato con diversi intrattenimenti per le maestranze tra cui la proiezione di un film comico il 5 ottobre 1946, quando la ditta, nata nel 1912, dava lavoro a oltre 200 operai, perlopiù donne. Il ciclo di dipinti di Basilico fu concepito all’inizio degli anni Quaranta per questa sala. Nel frattempo la Polus è diventata un centro polifunzionale: dell’ex refettorio, rinnovato e ribattezzato Sala Carlo Basilico, sono stati valorizzati i contenuti storico-culturali. Lo spazio accoglie dodici graffiti monocromi raffiguranti scorci della regione attraversati da sprazzi di modernità (la ferrovia Mendrisio-Stabio e l’ardito ponte di Castel San Pietro), e tre imponenti splendide tempere su tavola, di cui esistono i bozzetti: La lavorazione della pianta del tabacco nella corte di una masseria, La lavorazione dei sigari nella fabbrica e la Festa nazionale del Primo Agosto che vede un popolo fiero riunito la sera sulla piazza di un paese in un paesaggio montano. Nella sala c’è anche La coltivazione del tabacco che viene invece sviluppata su nove pannelli mobili realizzati per le esposizioni. Nel percorso artistico di Basilico l’insieme di questi dipinti si caratteriz-
Nicola Falcinella
Carlo Basilico, Festa nazionale del Primo Agosto, 1942-1945. (Cppyright Polus SA Balerna)
za come un unicum per stile e contenuti. Il critico Guarda non esita a definirla «una pagina dimenticata di pittura civile», «un intervento di grande valore storico per rapporto agli anni in cui fu eseguito» che sviluppa temi storici, sociali, culturali e ideologici «palesemente destinati a una funzione pubblica» ancora oggi di grande attualità. In assenza di precisi riscontri negli archivi della società, l’autore dello studio, forte della sua esperienza, si è ancorato a un’attenta osservazione delle opere e delle loro interrelazioni, fino a giungere a individuare una complessità di significati e messaggi rimasta finora perlopiù inesplorata: l’identità di un popolo e di un Ticino in transizione, oscillante tra l’attaccamento alle tradizioni, le spinte innovative e un’innegabile incipiente modernizzazione economica. Il contesto è un dibattito intellettuale, politico e artistico (Pietro Chiesa, Rosetta Leins e altri) allora molto sentito, volto da una parte alla salvaguardia delle peculiarità regionali di fronte alla percezione di «tedeschizzazione» del Cantone, dall’altra, soprattutto in quegli anni drammatici della guerra, alla necessità dell’adesione convinta alla «difesa spi-
rituale» del Paese, diventato oggetto di mire espansionistiche. «In queste opere – fa presente il critico d’arte – Basilico indica che i nostri valori come la famiglia, l’educazione, la fede, la solidarietà e le nostre tradizioni sono imprescindibili, che anche la fabbrica porta nuove prospettive di vita, che c’è un futuro e che siamo noi a doverlo costruire, inoltre che il popolo ticinese è di cultura italiana, intende confermare questo principio ed essere riconosciuto come tale ma vuole per scelta appartenere alla Svizzera». Per Claudio Guarda «non ci fu in Ticino artista che seppe dare risposte così efficaci e chiare come quelle evidenziate dal ciclo della Polus». Insomma, si direbbe proprio che la comunicazione di Basilico sia «passata». Era rivolta a chi lavorava in fabbrica, alla società civile e a chi entrava in relazione con la Polus, si pensi per esempio agli alti ufficiali dell’esercito rappresentanti la Confederazione, ospitati non di rado nel presidio militare insediatosi all’interno della ditta negli anni più critici. Nell’avveduta imprenditorialità della Polus e nel ruolo della committenza, rappresentata dal Consiglio di
amministrazione e dall’allora direttore Hans Staub, uniti alla sensibilità e all’abilità dell’artista, sta la chiave della riuscita di questo unicum. Vi si riflette in pieno il clima dell’epoca anche per gli aspetti stilistici. La nuova messa a fuoco interpretativa del ciclo della Polus di Carlo Basilico va contestualizzata nella ri-scoperta dell’opera dell’artista avviata con la prima antologica del 1998 al Cinema Teatro e nella sede chiassese della Società di Banca Svizzera, curata da Nicoletta Ossanna Cavadini, storica dell’architettura e dell’arte, direttrice del m.a.x. museo, in cui furono catalogate le opere fino ad allora identificate ed esposti almeno 130 lavori, tra i quali le due grandi tempere sulla lavorazione della pianta e dei sigari. Con il restauro e la riapertura nel 2001 del Cinema Teatro da parte del Comune di Chiasso si sono valorizzati di Basilico la decorazione del soffitto, dell’atrio, del foyer e il murale all’esterno. La mostra più recente del 2019, curata da Claudio Guarda e dedicata dalla Pinacoteca Züst di Rancate, verteva invece sulla pittura «privata» dell’artista, realizzata nel tempo libero.
Public Arp
Mostre Le opere pubbliche fanno oggi parte della quotidianità: le troviamo nelle università,
nelle stazioni, vicino alle chiese; Jean Arp ebbe un ruolo di spicco in questo processo Ada Cattaneo Cosa si intende con il concetto di arte pubblica? Per prima cosa, significa parlare di opere collocate in uno spazio accessibile a tutti, senza bisogno di pagare il biglietto d’entrata a un museo o di varcare la soglia di una galleria. Ma questo non basta. Oggi, affinché un’opera possa dirsi «pubblica», si auspica che essa sia sviluppata in qualche misura con il coinvolgimento della collettività, secondo la definizione inglese di «community based art». Allora va da sé che le opere siano anche sviluppate espressamente per il contesto in cui verranno collocate, per durare nel tempo. Oggi è per noi consueto incontrare opere di questo tipo nello spazio pubblico: per le strade, nel cortile di una scuola, di fronte a un edificio occupato da uffici. Eppure questa presenza non era così scontata prima del Secondo dopoguerra. Facevano certo eccezione i monumenti con qualche valenza politica o commemorativa. Ma quella è un’altra categoria, peraltro molto discussa dalla semiotica dell’arte, ma per la quale poco importava il parere della collettività. Fu nel periodo della ricostruzione a seguito del Secondo conflitto mondiale che architetti ed artisti cominciarono a interrogarsi su come fosse possibile rendere l’arte contemporanea alla portata di tutti. Il coinvolgi-
Jean Arp, Colonne à éléments interchangeables, 1961 – Scuola arti applicate, Basilea. (R. Pellegrini)
mento del pubblico nella progettazione sarebbe stata una conquista successiva, i cui primi tentativi risalgono solo agli anni Sessanta. Ma già dagli anni Quaranta la necessità di ristabilire il contatto con il fruitore – o forse di stabilirlo davvero per la prima volta – era una delle premure di architetti come Le Corbusier e di artisti come Matisse. Come potevano queste due categorie insieme avvicinare il cittadino comune alla creazione artistica? La riflessione nasceva anche dalla natura stessa
dell’architettura moderna che, avendo levato ogni artificio decorativo dagli edifici, si trovava ora a dover loro restituire una componente di emotività. Ecco allora il senso per artisti e architetti di provare a lavorare in maniera congiunta già al momento della progettazione, ancor più quando si tratti di luoghi con destinazione pubblica. Jean Arp fu tra quegli artisti che per primi e con una considerevole frequenza vennero invitati a intervenire sulle nuove architetture pubbliche. Certamente influì il fatto che egli era un artista di consolidata reputazione internazionale, sancita ancor più dal Premio per la scultura alla Biennale di Venezia del 1954. Ma forse fu anche per la natura limpida – non banale, né semplice – della sua arte. Arp, inoltre, era favorevole a un percorso creativo collettivo, paragonabile a quello delle maestranze medievali, e contrario invece all’egocentrismo tipico del genio artistico rinascimentale. Collaborava volentieri con altri autori e non era riluttante a mettere in discussione i suoi lavori per meglio adattarli al contesto. Un aspetto quanto mai pregevole in un grande artista. Alla Fondazione Arp di Solduno, fino all’8 novembre, viene raccontato in sette capitoli, corrispondenti ad altrettanti edifici, il lavoro di Jean Arp per le architetture pubbliche in Svizzera e all’estero. Le tipologie sono preva-
lentemente quelle dell’edilizia scolastica e dei luoghi di culto. Per chi si recasse nel Canton Basilea, qui si delinea un interessante percorso di visita sulle tracce di Arp, con due interventi presso chiese cattoliche, dove fu invitato dagli architetti Hermann e Hans-Peter Baur, a lui legati da un rapporto di sincera amicizia, e quello alla Scuola di arti applicate. Grande capitolo anche quello delle opere realizzate presso le università, da Harvard a Bonn, fino a San Gallo. In mostra sono presentati i casi di Caracas, presso l’edificio disegnato dall’architetto modernista Carlos Raúl Villanueva, e della splendida scia di nuvole che ancora oggi si trova sulla facciata dell’auditorio del politecnico di Braunschweig. Del tutto a sé per genesi e per qualità è il grande cantiere dell’Unesco a Parigi, progettato addirittura da Marcel Breuer con Pier Luigi Nervi. Qui il coinvolgimento degli artisti – Mirò, Calder, Noguchi, oltre ad Arp – è un segno fortissimo, che vuole essere esemplare, per convincere che la sintesi delle arti era davvero la via giusta. Dove e quando
Public Arp. Jean Arp. Arte e architettura in dialogo. Fondazione Marguerite Arp, Locarno-Solduno. Orari: do 14.00-18-00. Fino all’8 novembre 2020. fondazionearp.ch
È su Netflix, dopo un rapidissimo passaggio nelle sale di pochi Paesi, Il processo ai Chicago 7 – The Trial of the Chicago 7 di Aaron Sorkin, seconda regia dello sceneggiatore di The West Wing, The Social Network e Steve Jobs. Non è un caso che il film arrivi a pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, trattando un discusso caso politico del passato, ma volendo parlare molto dell’oggi. Il prologo della pellicola vede il discorso del presidente Johnson che annuncia l’aumento di truppe in Vietnam, con la conseguente escalation militare. Nel 1968 Johnson non si presentò nella corsa alla Casa Bianca e diverse organizzazioni contro la guerra organizzarono proteste a Chicago in occasione della Convention democratica, perché giudicavano il candidato democratico Hubert Humphrey non troppo diverso da Richard Nixon rispetto alla guerra in corso. Le manifestazioni sfociarono in scontri con la polizia per i quali, mesi dopo, la neoinsediata amministrazione repubblicana accusò i capi della contestazione e li portò davanti alla corte. Nel 1969 si celebrò così il dibattimento che è al centro dell’opera di Sorkin: definito il contesto nel quale il nuovo procuratore generale Mitchell affida ai suoi il compito di imbastire gli addebiti, lo sceneggiatore e regista si concentra su quanto accadde in tribunale. I sette sul banco degli imputati erano in realtà otto, comprendendo anche Bobby Seale, il leader delle Pantere nere cui sono legate le scene più forti e che diventa protagonista nella parte centrale del film. Seale era l’unico in stato di detenzione, a causa di un’altra imputazione per omicidio, mentre gli altri erano stati scarcerati su cauzione, e protestava la propria estraneità essendosi trattenuto in città per poche ore. Al centro c’è il giudice Hoffman, decisionista e pasticcione (sbaglia continuamente i nomi), che parteggia apertamente per l’accusa ed è sempre pronto a invocare l’oltraggio alla corte contro tutti gli interventi. Davanti a lui stanno gli imputati, i più caratterizzati sono l’istrionico hippy Abbie Hoffman e il kennediano Tom Hayden che diventerà deputato. I personaggi sono affidati ad attori molto noti: Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton (è l’ex procuratore generale Clark che deporrà a favore degli imputati), Frank Langella (il giudice) e Mark Rylance. Gli interpreti carismatici tendono a mangiarsi un film fatto soprattutto di dialoghi brillanti e ben scritti, nello stile di Sorkin, ma diseguale: i flashback delle proteste, che mischiano immagini di repertorio e scene ricostruite, si rivelano invece un po’ deboli. Una pellicola sull’utilizzo della giustizia a fini di ingiustizia e sul tradimento dei valori democratici americani, corretto ma non forte come vorrebbe essere.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Cultura e Spettacoli
Alexandra Dovgan, talento e maturità
PROPRIO IL MIO STILE.
Musica La giovane pianista russa si esibirà
al LAC di Lugano Enrico Parola
È considerata uno dei talenti più prodigiosi comparsi sulla ribalta mondiale del concertismo. Su uno strumento, il pianoforte, che proprio nelle ultime dieci stagioni ha fatto conoscere al pubblico interpreti strepitosi come Daniil Trifonov o Alexander Malofeev. Eppure Alexandra Dovgan ha spostato ulteriormente l’asticella sia in senso cronologico sia a livello artistico. Perché non si era mai vista un’undicenne suonare in pubblico con una profondità, un senso della poesia e una finezza di tocco come questa ragazzina russa; qualità che sono ben altra cosa rispetto alla perfezione tecnica di tanti giovani rampanti, e che hanno colpito innanzitutto la giuria della «Grand Piano Competition» di Mosca (città dove è nata nel 2007 e dove, a cinque anni, è stata ammessa al Conservatorio Centrale), che nel 2018, quando appunto Alexandra aveva undici anni, le assegnò il primo premio.
Alexandra Dovgan riesce a incantare grazie a talento, profondità e grande maturità Le sue performance fecero il giro del mondo musicale e catalizzarono immediatamente le attenzioni di alcuni grandi artisti. Innanzitutto di un pianista straordinario quale è Valery Sokolov, oltre, ancora, all’altro Valery, Gergiev, che l’ha chiamata più volte al Mariinskij e l’ha portata in varie tournée. Prima dei suoi recital, Sokolov per un paio di stagioni l’ha fatta esibire (all’inizio quasi imponendola a teatri e istituzioni concertistiche, poi, quando gli echi del suo talento hanno iniziato a rintoccare nel mondo musicale classico, erano gli stessi imprenditori a sincerarsi che accanto al grande maestro ci fosse il giovanissimo prodigio) per venti, trenta minuti. E Gergiev aveva stupito tutti quando, prima di concertare Iolanda di Ciajkovskij a Berlino, aveva imposto come «preludio pianistico» proprio una breve recital della Dovgan. Inutile dire che anche nella capitale della musica tedesca la pianista abbia riscosso applausi entusiastici. Lei, davanti a tutto ciò e guardando non solo alla luminosa carriera che l’attende ma a quanto fatto finora, non si scompone. Non è però freddezza moscovita, ma esperienza: «Quando chiesi di essere ammessa così piccola al Conservatorio della mia città, dovetti sostenere un esame molto difficile: mi controllarono le mani, misero alla prova il mio senso del ritmo e l’intonazione, mi fecero riconoscere delle note. Erano in quindici in giuria, ma la persona che più mi aveva messo in soggezione era la segreta-
ria, volto e modi severissimi». Sorride ripensando a quei momenti, così come agli albori del suo contatto con la musica: «Neanche me li ricordo perché ero troppo piccola, ma me li ha svelati papà: c’erano sere in cui non riuscivo a dormire e per calmarmi e farmi addormentare mi facevano sentire le Variazioni Goldberg di Bach interpretate da Glenn Gould». Che è oggi uno dei suoi miti di riferimento, assieme a Sokolov e Sviatoslav Richter. «Ma un mio idolo è anche Maya Plisetskaya, una ballerina; ho la sbarra in casa, appena posso mi esercito». Ora ha anche un bel pianoforte a coda, diverso da quello su cui iniziò a muovere le dita: «Leggevo Yamaha e mi inorgoglivo che avessimo uno strumento di una marca così famosa; poi una volta guardai meglio e mi accorsi che era un adesivo, in realtà era un Rönisch». Tra Sokolov e Gould, quando deve affrontare un brano non sceglie nessuno: «Non ascolto registrazioni, non voglio farmi influenzare, voglio suonare come capisco e sento». Chissà come sentirà il Concerto K 488 di Mozart, in cui sarà solista a fine ottobre con l’Orchestra della Svizzera Italiana diretta da François Leleux. A Lugano aveva già regalato un breve cammeo lo scorso anno, quando Etienne Reymond la invitò per un recital che impreziosisse il lancio della nuova stagione di Lugano Musica. Stavolta però gli appassionati luganesi potranno finalmente ammirare Dovgan nel concerto, probabilmente assieme al K 466, più amato ed eseguito tra tutti i 27 di Mozart. Una pagina luminosa, guizzante di vita e di ritmo nel primo e nel terzo movimento, ma capace nel tempo lento di schiudere un’oasi di nostalgica, profondissima riflessione. Quasi una sorta di ritratto in note di Dovgan, teenager vitalissima e allo stesso tempo musicista dalla maturità sbalorditiva. Vibrante di luce e di energia è anche la quarta sinfonia Italiana di Mendelssohn, il cui titolo si rifà programmaticamente alle impressioni che il compositore amburghese ricevette dal suo viaggio in Italia (viaggio che per gli artisti europei rappresentava un percorso di formazione quasi obbligato: si pensi a Goethe, ma ancora, cinquant’anni dopo, a Ciajkovskij). Eppure il Saltarello finale ricorda come anche le espressioni folcloristiche e popolari (qui una danza del Sud) colpissero i nordici che visitavano le ragioni meridionali. E un omaggio all’Italia musicale meno nota, quella sinfonica, è la deliziosa Piccola musica notturna di Dallapiccola che apre il programma.
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Alexandra Dovgan è nata nel 2007 a Mosca. (YouTube)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Consiglio
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 ottobre 2020 • N. 43
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Da qualche tempo sulla mia pelle compaiono delle pustole rosse e pruriginose, apparentemente senza alcun motivo. Talvolta il mattino, a volte nel bel mezzo della giornata. Non vedo alcuna connessione con l’alimentazione e con l’ambiente. Ma ultimamente ho l’impressione che le irritazioni cutanee si manifestino sempre quando indosso un capo appena lavato. È possibile che sia la reazione a un detersivo? Saluti, Annika
Cara Annika, forse soffri davvero di un’allergia ai detersivi oppure la tua pelle è semplicemente sensibile. Prova i due nuovi detersivi contrassegnati con il logo aha! della linea Migros Plus. Sono particolarmente adatti per le pelli sensibili e, come tutti i detergenti liquidi che riportano l’etichetta Oeco Power, sono al 99% biodegradabili e privi di sbiancanti ottici, agenti sbiancanti, microplastiche, coloranti e ingredienti di origine animale. Se il prurito non scompare dovresti però consultare il medico.
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Cultura e Spettacoli
Cosa è «teatro»?
In scena Lungo le strade della tecnologia alla ricerca di nuovi modelli teatrali
Giorgio Thoeni Ormai sono anni che le rassegne d’arte hanno abbandonato la fedeltà assoluta al genere che ha caratterizzato gli inizi. L’offerta, pur limitata che sia, deve poter allargare gli orizzonti, anche a rischio di sconfinare per scoprire nuove tendenze, nuovi paradigmi. Presupposti da tener presente al
momento di archiviare la 29esima edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT) considerando il periodo che stiamo attraversando, le difficoltà cui siamo confrontati e, soprattutto, i rapporti col pubblico, apparentemente ormai compromessi. È l’aria che è filtrata attraverso le mascherine obbligatorie durante il FIT che quest’anno ha dato spazio a nuove
Simon Senn, autore di Be Arielle F. (Mathilda Olmi)
liturgie e a spettacoli che con il teatro, inteso in senso stretto, hanno avuto poco a che vedere, anche se molto da raccontare. Come dal profilo tecnologico, alla ricerca di una drammaturgia che racconti attraverso l’elaborazione di immagini filmate e suoni campionati: la via della creatività della scena contemporanea. Questa volta in senso lato. Ci sembra chiaro che ormai sotto la voce drammaturgia sia lecito attendersi di tutto, non solo quanto pertiene alla scena. Il che non deve però essere frainteso come un alibi, un passepartout per legittimare qualunque cosa. Talvolta ne abbiamo avuto la sensazione. Come con Pleasant Island dove, fatto salva l’originalità dello sviluppo, i belgi Silke Huysman e Hannes Dereere hanno ripercorso il loro reportage giornalistico registrando interviste sullo sfruttamento di una piccola isola del Pacifico. Di ottima fattura realizzativa, ma fuori contesto. Ciò nonostante la scelta editoriale di questa edizione del FIT, Le lacrime del mondo, è stata in gran parte rispettata nella sua centralità, in un clima di essere e non essere, di metafora sulla morte, di visibile e invisibile, di memoria, di cancellazione, di oblio. Temi che hanno percorso le proposte che ci siamo lasciati alle spalle e sulle quali, anche quest’anno, dovrebbero nascere nuove pagine per gli Sguardi sul contemporaneo dei Quaderni del FIT. Serate a sala piena anche per gli spettacoli che hanno siglato la seconda e ultima settimana e ottima frequentazione anche per eventi che hanno accompagnato il Festival. Come Dance the Distance, della compagnia Aiep di Claudio Prati e Ariella Vidach, un progetto sui nuovi dispositivi per la creazione coreografica in uno spazio di realtà virtuale aumentata con tanto di avatar che accompagna lo spettatore in un’originale formula di fruizione. O come Binaural views of Switzerland l’installazione audiovisiva di Alan Alpenfelt che ripercorre il viaggio com-
piuto tra il 1863 e il 1865 del fotografo William England nel nostro Paese, dove le sue immagini si sovrappongono a istantanee del presente nel punto esatto d’osservazione creando un tessuto di cambiamenti climatici, ambientali, turistici, industriali lungo un’avvincente serie di contasti. Alla leggerezza compositiva ci hanno pensato i romandi François Gremaud e Victor Lenoble con Partition(s), una sorta di divertente conferenza o corrispondenza-chat fra due artisti alla ricerca di un modello di partitura musicale oltre il modello tradizionale. Anche in questo caso a far da padroni i due protagonisti seduti dietro un tavolo e i loro laptop a simulare il dialogo, letto e proiettato su uno schermo. Dulcis in fundo va notata la notevole originalità e spettacolarità di due proposte, un’ideale e attesa quadratura del cerchio fra tecnologia e dimensione teatrale. Dapprima con Be Arielle F. dell’ideografico e artista visivo ginevrino Simon Senn, che ha sorpreso per la sua capacità di rimanere in bilico fra realtà e finzione con una performance che ha ricevuto numerosi premi e che ricostruisce l’avventura digitale nel ricreare un avatar modellato sul corpo nudo di una donna reale, Adele appunto. Un’avventura che permette di abitarne virtualmente le fattezze, ma anche di trasferirle su altri. L’artista racconta, simula, riflette e agisce in diretta sulla trasformazione fino a un collegamento video reale con la sua modella. E infine con The History of Korean Western Theater, applaudita performance del sud coreano Jaha Koo. Come nel caso di Cuckoo, in scena lo scorso anno al FIT, ritroviamo la sua rabbia politica e… un cuociriso come alter ego con cui Jaha reagisce al processo di americanizzazione che ha fagocitato la tradizione teatrale coreana. Passato e presente rivendicano la dimensione intima e familiare anche grazie al maxi origami di una rana con cui valorizzare l’eredità e la speranza. Un ulteriore esempio di come declinare l’inventiva tecnologica con l’urgenza teatrale.
Per una geomatica dello sguardo
Fotografia Alla ConsArc di Chiasso in mostra i lavori dell’artigiano-artista veneto
Giancarlo Dell’Antonia Giovanni Medolago È molto probabile che la mostra attualmente in corso alla chiassese Galleria ConsArc sarebbe piaciuta a Charles Baudelaire. Il poeta dei Fleurs du mal odiava la fotografia, incurante delle proprie contraddizioni: mentre lanciava strali contro Daguerre e Nicéphore Niépce («La società immonda si riversò – come un solo Narciso – a contemplare la propria immagine volgare sulla lastra») fortissimamente volle un suo ritratto firmato Nadar. Il buon Charles si poneva la questione dell’«esattezza» della fotografia – equivoco che tuttora persiste! – e al contempo la bollava come «nemica della capacità umana di immaginazione». Al nuovo «medium» che allora muoveva i primi passi proprio in Francia, Baudelaire lasciava un unico spiraglio: «La fotografia può essere funzionale solo alla documentazione e alla catalogazione, alla memoria e alla scienza». Proprio l’uso della fotografia prediletto da Giancarlo Dell’Antonia, grafico artigiano artista fotografo veneto (classe 1956), il quale da qualche tempo concentra la sua ricerca sulla geomatica, una nuova tecnica di rilevamento e di trattamento informatico dei dati relativi alla Terra, al paesaggio e all’ambiente. Geomatica è un concetto/voca-
bolo nato nell’università di Laval, nel Canada francofono, appena una quarantina d’anni fa, in seguito alla precisa cognizione che le crescenti potenzialità offerte dal calcolo elettronico stavano rivoluzionando le scienze del rilevamento e della rappresentazione; e che l’uso del disegno computerizzato, vale a dire della video-grafica, era compatibile con il trattamento di una quantità di dati fino a quel momento impensabili. Dell’Antonia è forse stato il primo a occuparsi di una «geomatica dello sguardo», cui è giunto con un personalissimo procedimento che all’artigianato affianca la tecnica digitale. Su una tavola di legno, spalma un acrilico che sovente ricorda quello caratteristico di tante costruzioni; sulla tavola viene quindi stampata la fotografia che sarà poi ritoccata, vuoi con delle macchie di colore che ricoprono parte dell’immagine, vuoi con una sottile grafite che spazia liberamente sull’immagine stessa. Talvolta «proseguendo» gli spioventi di un tetto, talaltra disegnando linee dalla prospettiva incerta, come del resto sono definite parecchie delle opere esposte alla ConsArc (sotto l’intrigante titolo Mentre cammino si spostano i luoghi). Sono «linee del costruito che non si limitano a definire i profili degli edifici e dei loro particolari, come in un funzionale
Giancarlo Dell’Antonia, Paesaggio scollegato / VV18, 2020, dittico. (Scatto 2020 GDA|Archivio, [processo digitale, grafite su tavola])
disegno d’architettura, ma si prolungano nell’aria, generando morfologie che includono il vuoto come un elemento visivamente percepibile» (R. Caldura). Il particolare di un balcone, un anonimo palazzo così come le torri della Banca del Gottardo, grazie «all’intuizione artistica perseguita da Dell’Antonia (…), portano il nostro sguardo lontano, con il potere di cui siamo dotati, senza bisogno di connessioni internet o Gps, sem-
plicemente grazie all’immaginazione» (Paolo Bistrot). Alla faccia di Baudelaire, verrebbe d’aggiungere! Dove e quando
Mentre cammino si spostano i luoghi. Fotografie di Giancarlo Dell’Antonia, Chiasso, Galleria Cons Arc. Orari: me-ve 10.00-12.00; 15.00-18.00. Fino al 24 ottobre 2020.
Le più belle miniature della Svizzera Mostre Manoscritti
religiosi a San Gallo fino all’11 novembre Il tempo di pandemia costringe a rivedere i piani di vacanze e visite a manifestazioni all’estero. E allora perché non rivolgersi a opportunità offerte sul nostro territorio? Una delle possibilità la offre una delle più belle ed antiche biblioteche del mondo, quella dell’Abbazia di San Gallo. Qui, fino al prossimo 8 novembre, è possibile ammirare un’esposizione assolutamente unica e che si collega a un impegno letteralmente certosino: la digitalizzazione dei più preziosi manoscritti miniati che fanno parte del nostro patrimonio nazionale. L’esposizione è stata organizzata infatti anche con lo scopo di dare visibilità a questa importante iniziativa scientifica, cioè il lavoro di scansione di antichi manoscritti pubblicato nel sito di e-codices (www.e-codices.unifr. ch/it/). La Biblioteca abbaziale mette quindi in mostra diverse gemme che fanno parte delle proprie collezioni e numerosi prestiti di valore provenienti dalle altre biblioteche che partecipano al progetto. Abbiamo chiesto a Marina Bernasconi Reusser, ricercatrice ticinese che è una dei curatori della mostra, di spiegarci cosa rende speciale questo appuntemento: «La mostra in corso presso la biblioteca abbaziale di S. Gallo» ci ha detto «presenta una scelta di capolavori dell’arte miniaturistica svizzera che spaziano dal IX al XV secolo, alcuni dei quali non sono mai stati presentati al pubblico». Come ci spiega la curatrice, l’intento è anche quello di far conoscere a un pubblico più ampio il lavoro di recupero e di messa a disposizione tramite le tecnologie digitali di un ricchissimo patrimonio: «L’esposizione celebra i 15 anni del progetto e-codices, la piattaforma svizzera per la digitalizzazione e presentazione online dei manoscritti medievali conservati in Svizzera. Se nelle vetrine è possibile vedere solo una pagina aperta per ogni manoscritto, in e-codices è possibile sfogliare “virtualmente” questi capolavori, la cui consultazione è solitamente riservata agli specialisti, ed avvicinare in questo modo questo prezioso ma nascosto patrimonio, al grande pubblico». Le ambizioni iniziali degli organizzatori erano più ampie e coinvolgevano anche altri istituti a livello nazionale ma l’emergenza provocata dalla pandemia di Covid li ha costretti a rivedere i loro piani: «Era prevista inizialmente anche una seconda parte della mostra, nella quale si era pensato di esporre ottanta codici a contenuto profano. Vista la situazione attuale, questa mostra, che si terrà a Cologny presso la Fondazione Martin Bodmer, è stata posticipata al 2022». Informazioni: www. stiftsbezirk.ch/it/esposizioni-attuali/ biblioteca-abbaziale. Dove e quando
Sala barocca della Biblioteca abbaziale di San Gallo, fino all’8 novembre. Orari: lu-do 10.00 – 17.00. Info e prenotazioni visite guidate: tours@stibi.ch, tel.+41 71 227 34 16.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Da Alfieri a Paolo Conte Nel programma del recente Festival del Cinema di Venezia un posto d’onore è stato riservato al documentario dedicato a Paolo Conte. La notizia solleva una folata di ricordi che risalgono a settanta anni or sono. L’astigiano più famoso nel mondo adesso è Paolo: quando noi eravamo ragazzi era Vittorio Alfieri, per gli amici il Trageda. Paolo è nato il 6 gennaio 1937, mentre Alfieri festeggiava gli anni dieci giorni dopo, il 16. Il Trageda era morto a Firenze nel lontano 1803 ma ad Asti continuavano a festeggiare il suo compleanno e a quella data – ogni anno – ci portavano incolonnati per due al teatro Alfieri, per assistere alla recita di una sua tragedia (ne ha scritte 17). I nostri insegnanti giuravano che era diversa da quella dell’anno prima ma a noi sembrava sempre la stessa vedendo gli attori col peplo e le gambone pelose infilate nei calzari. Inchiodati sul palcoscenico, martellavano quei versi impossibili, dove cinque battute potevano stare in un solo endecasillabo. Paolo
batteva il tempo agli attori picchiando il righello contro la sbarra metallica del loggione e qualcuno di noi a teatro poi c’è tornato e c’è rimasto. Fin da ragazzo Paolo era un leader naturale e indiscusso e io strisciavo per essere ammesso nel gruppo dei suoi amici. Avendo saputo che stava organizzando una squadra di calcio, gli avevo giurato che sapevo giocare a pallone. Non era vero. Calciavo – male – solo col piede sinistro e quando mi arrivava un pallone sul destro lo stoppavo e, prima di calciarlo, ruotavo di 180 gradi. Paolo urlava di rabbia e mi cacciava in porta, dove nessuno voleva stare. Morivo dalla paura di non essere all’altezza; la vista di un avversario con il pallone tra i piedi che correva verso la mia porta mi procurava violenti movimenti intestinali. Se l’avversario se n’accorgeva ero salvo, perché piombava a terra piegato in due dalle risate. Toccava al capitano dell’altra squadra urlare di rabbia. Per togliermi dal campo di gioco Paolo s’inventò che c’era bisogno di uno
che scrivesse la cronaca delle partite. La segretaria dello studio notarile del padre di Paolo me le batteva a macchina. Nessun giornale le ospitava, stavano incollate per qualche giorno in alto a destra contro la vetrina del bar Cocchi (in piazza Alfieri!) il locale frequentato dagli sportivi. Non dimenticavo mai di firmarle con nome e cognome. È nata lì la mia vocazione, dal momento che l’unica cosa che sapevo fare era scrivere. Ho fatto follie per entrare a far parte del primo complessino jazz messo su da Paolo, la «Asti New Orleans Jazz Band»: come non sapevo giocare a pallone così ignoravo tutto della musica. Un giorno tutta la band è piombata in casa mia: abbiamo deciso che devi suonare la cornetta. Avevano visto nella vetrina di un negozio di strumenti musicali (in corso Alfieri!) una tromba di seconda mano, un vero affare nel quale avrei dovuto investire la paghetta di un anno che mi sarei fatto anticipare dai miei genitori. In corteo siamo andati al
negozio, mi hanno messo in mano lo strumento e io l’ho impugnato come avevo visto fare da Louis Armstrong nelle foto sulle copertine dei dischi e ho incominciato a soffiarci dentro. Niente. Non usciva niente. Mi incitavano, mi battevano amichevoli colpi sulle spalle, il negoziante mi mostrava la sua bocca atteggiata a culo di gallina. Niente da fare: ripiegammo sulla batteria ma quanto a comprarla era fuori discussione. La «Asti New Orleans Jazz Band» si esibiva – gratis – nelle sale da ballo dei vari circoli quando l’orchestra titolare si concedeva un quarto d’ora di riposo. Aspettavamo pazienti il nostro turno, stando in piedi, la schiena contro il muro, così i camerieri non potevano pretendere da noi la consumazione. Ogni tanti balli il direttore di sala prendeva in mano il microfono e annunciava: «Dama a scegliere!» Da quel momento erano le donne a prendere l’iniziativa: se era lecito che una dama invitata da un cavaliere
a ballare rispondesse «no grazie», a ruoli invertiti era impensabile che il cavaliere si rifiutasse. Così noi eravamo costretti a fissare la punta delle nostre scarpe per non incrociare lo sguardo di qualche befana ed essere obbligati dal galateo a farla ballare. Quando finalmente arrivava il nostro turno il batterista dell’orchestra mi affidava il suo strumento con mille raccomandazioni e mi permetteva di utilizzare solo le spazzole. Dopo due esibizioni il gruppo decise all’unanimità che c’era assoluta necessità di avere qualcuno che scrivesse i comunicati stampa mentre della batteria si poteva fare benissimo a meno, anzi il sound del complesso sarebbe migliorato. Io dissi: «Posso fare entrambe le cose, scrivere i comunicati stampa e suonare la batteria». «E le fotografie? Chi le fa le fotografie? Come fai a scattare le foto mentre suoni la batteria?». Ho ritrovato quelle vecchie foto in bianco e nero: seduto alla batteria c’è Giorgio, il fratello di Paolo.
chiama internet. Uno accende il telefonino, ed ecco le notizie che appaiono: In centro a Milano sfilano i Vip. Va beh, uno tira via. Nuova rissa al Grande Fratello … maledetti! uno pensa. Billionaire, Micheluzzo ricoverato d’urgenza. Ma chi è? perché me lo vengono a dire? maledetti, che Dio vi fulmini, il Billionaire, Micheluzzo, il ricoverato d’urgenza. È facile dire: ma che t’importa? passa oltre. Sì, passo oltre, però il demonio è subdolo, e soffia le sue parole in modo da suscitare una piccola, insana curiosità: Cesare Pavese e la sua lettera a Mussolini. Uno si ferma, perché all’amo c’è sempre l’esca adatta a te, il diavolo è astuto, multiforme. Pavese? con Mussolini? è un attimo, apro, e sono cazzate, o peggio ancora che cazzate, stupidaggini, chiacchiere vuote, idiozie. Si tatua il nome dell’ex sul lato B… Come curare l’onicomicosi… Prosciutto crudo o prosciutto cotto, quale fa meno male? Passo oltre, ma magari in certi momenti di debolezza
uno si ferma, legge, e poi stramaledice internet e le sue trappole; il prosciutto si chiude, ma uno è già avvelenato, non dal prosciutto, che di per sé è innocente, ma dalle cazzate sotto forma d’informazione per la salute. Il demonio però non demorde: Ricetta di pasta alla genovese, ingredienti, preparazione e consigli. Non m’interessa? ecco allora il bollettino del Covid. No? neanche questo? Allora: Preso uno squalo di 150 chili. No? Pierluigi Diaco scoppia il putiferio… Coccole sul letto con l’ex velino… Continua il flirt tra Petrelli e Gregoraci. Se ci fosse qui l’eremita gli verrebbe da bestemmiare, ma viene da bestemmiare anche a me e da lanciare il telefonino dalla finestra. Lady Diana la toccante verità… Lady Diana la toccante verità? Quando arriva lady Diana sto sempre male, perdo le forze, è una specie di corda che mi si offre per impiccarmi, lady Diana no! il diavolo lo sa e la usa; e uno ha un rigurgito contro lady Diana e tutti i reali vivi od estinti, e quindi per
inerzia contro i vaccini, le Galapagos, i Suv, il meteo di settembre che prelude alle clamorose novità dell’autunno. Basterebbe non farci caso, lo so, ma sono loro che s’infiltrano: Elettra Lamborghini e la vertiginosa scollatura. Non ne so niente di questa signora, però anche il monaco prestava l’orecchio a una voce di donna venire dal deserto, prestava l’orecchio ed era già schiacciato nei bassi pensieri, bassi non perché sono erotici, ma perché sono stupidi, riducono il numero dei neuroni, avviano già alla demenza senile. Il demonio regna su internet, che è come un quadro di Bosch, disseminato di mostriciattoli, che oggi sono le tette rifatte, le labbra gonfie, il milionario con l’attricetta, le lozioni contro il diradamento, gli inestetismi della cellulite… Niente da fare! non basta più un segno di croce per farli svanire. Fra un po’ la connessione obbligata ce l’avrai sottopelle e sarai sempre nel vortice diabolico delle fesserie.
aveva pronunciato quella frase suscitando aspre polemiche nell’imminenza di un suo soggiorno a Locarno, dove era annunciato quale ospite del Festival del film. Eco, con la consueta ironia (5+), dovette precisare: 1. che non era farina del suo sacco ma si trattava di una citazione, 2. che l’orologio a cucù è di origine bavarese e non elvetica, 3. che la frase nel film tratto dall’omonimo romanzo di Graham Greene veniva pronunciata non da Welles ma dal personaggio che Welles interpretava, il criminale Harry Lime, persona poco attendibile, 4. che sono innumerevoli le grandi geniali figure della cultura svizzera, da Pestalozzi a Frisch, da Piaget a Orelli (senza precisare se alludeva a Giovanni o a Giorgio o a tutt’e due, o magari a Johann Caspar), da Amiel a Filippini (probabilmente il suo amico Enrico), 5. che in definitiva non esiste un reato di citazione… La risposta a quest’ultimo punto sarebbe ovvia: certo non sei responsabile del pensiero di qualcun altro, ammesso
che non usi la citazione per farla tua ma per prenderne le distanze o per discuterla. Ebbene, Vargas Llosa non solo non ne prende le distanze, ma rincara la dose aggiungendo che gli svizzeri in realtà «hanno prodotto anche la fondue, un piatto sprovvisto di immaginazione ma decoroso e probabilmente nutriente» (5+ alla fondue!). E non finisce qui: «Fatta eccezione per Guglielmo Tell che, oltretutto, non è mai esistito e dovette essere inventato, dubito che ci sia mai stato un altro svizzero che abbia perpetrato quel sistematico rifiuto della realtà che è la più diffusa abitudine latinoamericana». Seguono i nomi di Borges, García Márquez, Neruda, Paz eccetera. Il passaggio è banale, addirittura infantile: da una parte creatività artistica e minimo sviluppo sociale (fame, arretratezza, disoccupazione, diseguaglianze, violenza); dall’altra una popolazione «piccola e sbadigliante» nel paese più ricco del mondo, «con i più alti livelli di qualità di vita». Che delusione, il mio
caro Vargas Llosa. Quanta grossolanità: dunque non conosce Giacometti e Klee, Rousseau e Dürrenmatt, Walser e Glauser, de Rougemont e Starobinski? E neanche immagina che non è tutt’oro quel che luccica nelle banche elvetiche e che in Ticino c’è un discreto tasso di disoccupazione? Che delusione. Peggio che sorprendere il proprio idolo con le dita nel naso! Caldamente consigliato al mio idolo Vargas Llosa di leggere su «Internazionale» del 20 agosto scorso (ma disponibile liberamente online) un magnifico reportage dello scrittore e giornalista Christian Raimo (5½) nel villaggio italo-svizzero di Rimini: una scuola per l’infanzia, letteralmente inventata nel 1945 dalla trentenne zurighese Margherita Zoebeli (6), visionaria della pedagogia che con un altro svizzero, l’architetto Felix Schwarz, rifiutò la realtà della diseguaglianza e della povertà prodotta dalla guerra e dal fascismo per promuovere creatività e insieme sviluppo sociale.
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Il demonio d’oggi Il demonio non è solo quella cosa arcaica, un po’ caprone, un po’ satiro, un po’ distinto signore impomatato e in frac. Il demonio si adatta ai tempi, alle mode e alle località geografiche. Quando appariva agli antichi eremiti dei primi secoli dopo Cristo, poteva essere qualunque cosa, pur che portasse alla distrazione. L’eremita era in preghiera, in stato di ascesi, in connessione con gli enti celesti, ed ecco il vagito di un bimbo che lo distoglieva, buttava un occhio fuori dalla capanna perché il vagito era disperato; invece era il demonio che scompariva in una nuvoletta di fumo, ma l’eremita intanto era sceso dalla sua spirituale elevatezza, si era distratto. Il demonio poteva essere un carro che passava con molto fracasso su un acciottolato inesistente, tra le grida del conducente e i fischi per spronare il cavallo, l’eremita correva al finestrino, e non c’era più niente, solo qualche foglia che turbinando ricadeva. Oppure era la voce invitante di una bella donna;
o un asino caduto per terra col carico e il ragazzetto che si disperava; a volte passava un branco di onagri scalcianti; tutte cose materiali e terrene che toglievano l’eremita dalle sue meditazioni. Poi tutto svaniva, e restava solo una iena uggiolante che si allontanava. Oggi, al giorno d’oggi, appare ancora il demonio? Sì. Ma si è molto rimodernato. Tanto che uno non pensa sia il demonio ma sia solo informazione. E non c’è bisogno di essere un eremita, il demonio è sparso ovunque e signoreggia, in forme inaspettate che affliggono la mente e la spezzano. Cos’è oggi il demonio? È il signore che in treno telefona ad alta voce, mentre il povero viaggiatore lì accanto guarda passare il paesaggio in uno stato di bellissima e delicata malinconia. Il signore al telefono non lo sa, ma è il demonio che lo usa, per guastare uno stato d’animo che galleggiava in regioni elevate. Ce ne sono tante di moderne incarnazioni del diavolo; la più subdola e invasiva si
Voti d’aria di Paolo Di Stefano La trappola del luogo comune È caduto anche lui nel tranello del luogo comune e ne sono francamente deluso. Uno dei miei scrittori preferiti (6), così imprevedibile e fantasioso, così fine nel raccontare le emozioni e i sentimenti dei suoi personaggi nel tempo, così straordinariamente acuto, complesso e sfumato, rigoroso e ironico. È proprio vero che non bisogna mai meravigliarsi di nulla nella vita. E Mario Vargas Llosa mi ha deluso (3). In Sciabole e utopie, una raccolta di saggi politici e filosofici appena pubblicata da LiberLibri, ci sono pagine molto suggestive (non sono in grado di dire quanto attendibili) sul suo «continente inquieto», il Sudamerica, la cui colpa, secondo lo scrittore peruviano, è quella di rifiutare la realtà per tentare di sostituirla con la finzione: «negare l’esistenza vissuta in nome di un’altra, inventata, affermare la superiorità del sogno sulla vita oggettiva…». Tutto questo ha generato i santi e gli eroi, oltre che grandiose e stravaganti figure scientifiche e artistiche. Ma bisogna porsi un limite, dice Vargas
Llosa: se il rifiuto della realtà contamina la politica e la vita sociale, allora il risultato è «quella catastrofe nella quale sono sfociati tutti i tentativi utopici nella storia del mondo». Se la sfida all’impossibile ha prodotto capolavori come Don Chisciotte e Guerra e pace, la Cappella Sistina e il Don Giovanni di Mozart, voler modellare la società senza tener conto delle circostanze concrete e dell’hic et nunc della storia può generare (ha generato) disastri colossali. E fin qui d’accordo. Ma poi? È il confronto tra America Latina e «la bovina e quieta» Svizzera che lascia interdetti. Vargas Llosa riprende il famoso pensiero di Orson Welles, contenuto ne Il terzo uomo, secondo cui in Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre, carneficine e terrore ma vennero fuori Leonardo da Vinci, Michelangelo e il Rinascimento; in Svizzera, viceversa, cinquecento anni di quieto vivere e di pace produssero solo l’orologio a cucù. Già Umberto Eco, nel lontano 1985
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Cura del viso e del corpo Garnier (prodotti per la cura delle mani, deodoranti, confezioni da viaggio e multiple esclusi), per es. crema da giorno Ultra Lift, 50 ml, 10.50 invece di 14.–
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Tutti i detergenti e i detersivi Migros Plus per es. ricarica di aceto detergente, 1 l, 2.40 invece di 2.95
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Salviettine detergenti umide Soft
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Rose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 10, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. rosse, il mazzo
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33% Cestelli o detergenti per WC Hygo per es. detergente Maximum Power Gel, 3 x 750 ml, 7.90 invece di 11.85
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Camicia da uomo business in flanella leggera a maniche lunghe John Adams In diversi colori e taglie, per es. petrolio, tg. M = 38/40, il pezzo, il pezzo
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Se nella stagione della raclette non ne puoi più del formaggio, opta per la pizza o per le crêpe. Le mini pizza si preparano in tutta facilità sulla paletta per raclette. Per le crêpe serve una piastra speciale con rivestimento antiaderente, per esempio quella inclusa nell'apparecchio multifunzione Mio Star.
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Potenza di riscaldamento regolabile, livelli di temperatura, 1100 W, il pezzo, in vendita solo nelle maggiori filiali
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Fornello per grill e raclette Mio Star 8 Basic 1100
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Pantofole per bambini
Tutto l’assortimento Sanactiv
disponibili in rosa e giallo, n. 20–27, per es. rosa, n. 20, il paio
per es. spray nasale all’acqua di mare con mentolo, 20 ml, 4.20 invece di 5.60, offerta valida dal 22.10 al 25.10.2020
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Salmone dell'Atlantico affumicato, ASC d'allevamento, Norvegia, in confezione speciale, 300 g
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Crocchette di rösti M-Classic Delicious surgelate, 2 x 600 g
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Comfort, Sensitive e Recycling, in conf. speciali, per es. Sensitive, FSC, 24 rotoli, 11.75 invece di 19.60