Azione 47 del 16 novembre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Le donne faticano a rientrare nel mondo del lavoro dopo una pausa dedicata all’accudimento dei figli. Con la pandemia la situazione è peggiorata

Ambiente e Benessere Tra le tecniche diagnostiche del carcinoma prostatico, pure l’innovativa Fusion biopsy real time: una biopsia avveniristica che fonde le immagini della risonanza magnetica e quelle ecografiche

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 16 novembre 2020

Azione 47 Politica e Economia Lacune previdenziali sono frequenti fra le donne. Ma c’è modo di evitarle o limitarle

Cultura e Spettacoli Vale la pena di parlare di una mostra chiusa? Senza dubbio, specie se il focus è su Enzo Mari

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La volontà di unione L’America di Biden ostacolata dal trumpismo e la sete di normalità Non lo ammetterà mai, il suo ego non se lo può permettere, se vuole restare integro. Ma lo sa anche lui che ha perso, che: you’re fired. Come lo ha sempre saputo in passato quando i suoi deal si sono rivelati sfavorevoli, quando una sua società è fallita. Sa di non essere l’uomo di successo (economico) che vanta di essere, ma ha la straordinaria capacità occulta di convincere milioni di persone del contrario. Solo che adesso questo ostinato, puerile rifiuto di riconoscere la sconfitta, facendo credere a decine di milioni di cittadini che le elezioni sono state truccate e che gli è stata rubata la vittoria, è l’ultimo ma grave attacco al sistema democratico americano, che rende ancora più profondo il fossato fra gli oltre 72 milioni (attualmente oltre 9 milioni in più del 2016) che hanno votato Trump e i 77 che hanno scelto Biden. Le voci insistenti che voglia continuare a influire sulla politica nazionale, restando di fatto il leader dei repubblicani, magari sognando un secondo mandato nel 2024, non aiutano a credere che Joe Biden possa essere il presidente che riporta unione nella nazione. Anche perché il presidente non è l’unico ad essersi radicalizzato: è dai tempi di Obama alla Casa Bianca che, con la nascita del movimento ultraconservatore Tea Party nel 2009, il partito repubblicano ha vieppiù assunto posizioni contrarie ai principi democratici, rafforzatesi sotto Trump. Una ricerca dello svedese V-Dem Institute che misura l’aderenza ai principi democratici dei partiti con l’ausilio di 600 politologi in tutto il mondo, constata fra i repubblicani una crescente tendenza a demonizzare gli avversari, persino ad aizzare alla violenza, con una retorica che è più vicina a quella di partiti autoritari (come l’AKP di Erdogan in Turchia e Fidesz in Ungheria, si cita). Per ricreare unione devono volerlo entrambe le parti, e negli ultimi 10 anni questa volontà nei repubblicani non si è vista. Trump dovrà lasciare la Casa Bianca, ma il trumpismo non è finito. E forse l’eredità più tossica che lascia a tutto il mondo, poiché trova emuli in ogni dove, è l’arte della menzogna. Il termine fake news, paradossalmente lanciato da Trump contro i media che lo smascheravano, è entrato nel lessico mondiale. Gli alternative facts sono stati elevati a realtà equivalente, come se verità e menzogna fossero interscambiabili. Nella sua rappresentazione della realtà viene negata ogni evidenza e veicolata qualsiasi fandonia, anche la più incredibile (come questa sulle elezioni rubate; per la cronaca, nessuna denuncia avanzata dagli uomini di Trump è stata accolta in alcuno Stato americano). Trump può permettersi di mentire e smentirsi senza che ciò incrini la sua credibilità presso i suoi elettori. Se ad una democrazia serve un’educazione fondata sulla capacità di analisi e di critica della realtà, che cosa ci possiamo aspettare da chi si identifica in questo messia politico? Per quale motivo dovrebbero improvvisamente smettere di credere in Trump, come recuperarli ad una dialettica politica che non sia fatta di demonizzazione bensì di dialogo? Se poi ci mettiamo le frange più radicali dei democratici, altrettanto restìe a dialogare con i repubblicani, il quadro attuale della società civile e politica degli Stati Uniti non presenta tinte brillanti. Se sul piano interno lo spettro di Trump resterà presente, perlomeno su quello internazionale Biden potrà più facilmente dimostrare la volontà di restaurare l’ordinamento mondiale liberale, di assumere nuovamente il ruolo di guida (almeno politica) e di responsabilità che spettano alla prima potenza mondiale. L’agenda mondiale è fitta, i problemi innumerevoli, in quattro anni il mondo non è rimasto fermo, numerose potenze regionali si presentano più aggressive e determinate, il conflitto ideologico-egemonico con la Cina e in diverso modo con la Russia chiedono nuove risposte, la definizione di una strategia più chiara. Dove può agire positivamente, e Biden lo farà da subito, è nella lotta al riscaldamento globale, rientrando negli Accordi di Parigi sul clima del 2015. Che è anche il piano su Speciale Feste cui Obama e Xi Jinping si erano trovati, Idee e trucchi forgiando (sulla carta) un’alleanza che per un Natale 2020 doveva servire da faro, poi dissoltasi davvero magico con Trump. Si potrebbe ripartire da lì.

di Venturi, Rampini, Marino, Raineri, Nocioni

pagine 23-24-25-27

Keystone

di Peter Schiesser


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Società e Territorio Diritti dell’infanzia L’impegno della fondazione SOS Villaggi dei Bambini che in Ticino festeggia i 20 anni di attività

Videogiochi Super Mario sfreccia nel salotto di casa vostra su un go-kart che sfrutta la tecnologia della realtà aumentata pagina 7

I single al tempo della pandemia Chiusure e divieti: in questo periodo le possibilità di nuovi incontri per i single sono molto ridotte e c’è chi avverte l’esigenza di un cambiamento pagina 8

pagina 3 La «scala» non è uguale per tutti e rimanere nel mondo del lavoro dopo la maternità per molte donne è ancora troppo difficile, con la pandemia la situazione è peggiorata. (Keystone)

Due figlie e quattro lavori

Donne e lavoro Nel mondo lavorativo le mamme sono (ancora) sfavorite. Tre donne ci raccontano la loro esperienza Romina Borla Giovanna Grimaldi – 45 anni e due figlie adolescenti – si divide tra quattro lavori diversi. Un’attività in proprio e tre impieghi ottenuti nonostante le difficoltà dovute ad un mercato del lavoro incerto, che spesso non favorisce le donne. «Purtroppo le madri di bambini piccoli non sono le benvenute nel mondo del lavoro», osserva l’avvocata Nora Jardini Croci Torti, coordinatrice del Consultorio giuridico Donna&Lavoro di Massagno, confluito nell’associazione Equi-Lab – Laboratorio per la conciliabilità famiglia e lavoro (www. equi-lab.ch). «Molte al rientro della maternità vengono licenziate o messe in condizione di lasciare il posto perché, ad esempio, il datore nega loro il part-time o le trasferisce in sedi troppo distanti dal domicilio. Con la pandemia questa tendenza si è accentuata. Anche chi tenta di rientrare dopo una sosta più o meno lunga non ha vita facile: le mamme sono talvolta considerate inaffidabili e poco disposte ai sacrifici, il tempo parziale non è benvisto ecc. Inoltre al giorno d’oggi le attività, sempre più legate all’informatica, cambiano in fretta. Bisogna rimanere al passo coi tempi e le assenze prolungate in molti settori diventano un problema». Assenze che

oltretutto, sommate al part-time, finiscono per nuocere alle lavoratrici sul piano della previdenza professionale. Il consiglio dell’esperta è dunque quello di fare il possibile per mantenere l’impiego anche dopo la maternità, magari senza ridurre troppo la percentuale. Considerando anche il fatto che non tutte le unioni coniugali durano nel tempo e per le donne separate o divorziate il rischio di finire in povertà è ancora più elevato. «Il problema è che gli asili nido costano cifre esagerate», fa notare Barbara Grignoli, 44 anni e due gemelle di 11 anni. «Mio marito ed io non potevamo contare sui nonni quindi era l’unica soluzione, ma avrei dovuto investire più del mio stipendio per non vederle mai. Così ho deciso di rimanere a casa finché non hanno iniziato la scuola dell’infanzia». Anche Giovanna, di cui vi parlavamo all’inizio, ha fatto la stessa scelta. «Il mio datore di lavoro non mi ha agevolato e mi sembrava naturale lasciare. Credevo fosse giusto che una madre rimanesse con le figlie, anche per l’educazione ricevuta. Per diversi anni ho quindi fatto la mamma a tempo pieno». Poi lo choc: una diagnosi di tumore. «Le bimbe frequentavano l’asilo e mi sono ritrovata con troppo tempo libero e brutti pensieri da gestire. Così ho deciso di avviare una piccola attività che porto avan-

ti tuttora: creo e vendo oggetti di cucito che pubblicizzo sui social». In parallelo ha iniziato ad animare atelier per bambini e collaborare con il nostro giornale, in particolare occupandosi della rubrica «Crea con noi». In Ticino sono sempre di più le donne che – magari dopo diversi tentativi falliti di ritrovare lavoro – si mettono in proprio, sperimentando modi creativi di proporsi ai clienti e dimostrando ottime capacità imprenditoriali (su Facebook e Instagram se ne incontrano a bizzeffe). Però in molti casi queste attività non garantiscono loro uno stipendio sufficiente. Perciò tante finiscono per accumulare piccoli ingaggi nella speranza di un futuro migliore. In quel momento comunque per Giovanna il lavoro rappresentava soprattutto uno sfogo, una passione che la faceva sentire bene e le occupava la mente. Ma nel 2018 qualcosa è cambiato. «Mi sono separata – spiega – e quello che guadagnavo ha assunto un peso specifico più importante. Ho pensato ad una riqualifica ma mi sono scontrata col fatto che spesso le formazioni professionali sono a tempo pieno e la sede dei corsi è lontana da casa». Un bel problema per una mamma con due figlie in casa... Ma la fortuna e la sua determinazione hanno fatto in modo che trovasse impiego come dipendente di un centro

di attività per famiglie del Luganese e un altro come amministratrice regionale dei Corsi per adulti del Cantone. «Tante occupazioni a basse percentuali significano spesso più fatica», spiega la nostra interlocutrice. «Ci vuole flessibilità e talvolta bisogna fare dei salti mortali per riuscire a conciliarle con la vita famigliare. Ma le energie non mi mancano e amo quello che faccio. Resta il fatto che vivo nell’incertezza, il Coronavirus ha messo a rischio tutta una serie di attività. Non so cosa mi riserva il domani». È preoccupata per il futuro anche Anna Rossi, educatrice, che ha perso il lavoro nel 2016, quand’è nato suo figlio. «Mi sono in seguito iscritta in disoccupazione. Dopo qualche mese però ho rinunciato a quello che era un mio diritto, perché frustrata dai mille corsi inutili assegnatimi d’ufficio e piani occupazionali poco affini al mio percorso». Continuava a cercare la sua occasione che non arrivava. «Come mamma mi sono sentita discriminata. Vero, non ero più disponibile all’infinito come prima, ad esempio avevo degli orari da rispettare, ma per il resto ero la solita Anna». Uno dei casi per lei più eclatanti è stato quando si è proposta come animatrice per un’associazione che si occupa di doposcuola. «Non mi hanno assunta perché temevano che – con un bambino piccolo – avrei

potuto assentarmi ad esempio se si ammalava». Gli uomini questi problemi non li hanno, sottolinea. «Dopo la paternità sono considerati come prima. Non si sentono in colpa se lavorano tanto e al momento del colloquio nessuno si permette di chiedere loro se hanno o hanno intenzione di avere figli». Alla fine Anna è riuscita a trovare delle soluzioni adatte a lei: lavora come addetta alle vendite in un negozio specializzato e cameriera in un ristorante, sperando di non vivere un secondo lockdown. Ora qualche consiglio per chi vuole reinserirsi nel mercato del lavoro. «È necessario avere un progetto», osserva Sandra Killer, consulente di Equi-Lab per l’orientamento professionale. «In primo luogo bisogna riflettere su sé stesse e il proprio potenziale: le proprie abilità, la carriera desiderata, le possibilità offerte dalla formazione continua, la sicurezza finanziaria oltre la pensione, ecc. Questo può aiutare ad indirizzare le proprie energie nella direzione più adatta». Non ci si deve poi scoraggiare durante il cammino, continua l’intervistata. È importante trovare il modo per motivarsi costantemente, anche se non si ricevono riscontri o non arrivano feedback positivi. Sicure che, prima o poi, qualcosa di interessante apparirà all’orizzonte.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Dalla parte dei bambini

Infanzia Il 20 novembre è la Giornata internazionale per i Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. SOS Villaggi

dei Bambini promuove e difende i diritti dei minori per garantire loro un futuro autodeterminato

Fabio Dozio Nel mondo ci sono 152 milioni di bambini tra i cinque e i diciassette anni costretti a lavorare. Circa la metà di loro lavorano in condizioni pericolose e di sfruttamento. La povertà e la fragilità delle famiglie sono fra le cause principali che spingono i giovanissimi al lavoro. Negli ultimi anni il numero dei bambini sfruttati è diminuito, erano 264 milioni nel Duemila. L’Agenda delle Nazioni Unite per lo Sviluppo sostenibile intende porre fine alle forme peggiori di lavoro minorile entro il 2025. La pandemia Covid 19 rischia di allontanare questo obiettivo. «All’origine del lavoro minorile – afferma Erika Dittli, responsabile dei programmi di SOS Villaggi dei Bambini Svizzera – c’è sempre una famiglia disperata che lotta per la sopravvivenza». La situazione è aggravata dal fatto che durante la serrata globale molte ragazze e molti ragazzi hanno dovuto interrompere i propri studi e questa, avverte Dittli, «è l’anticamera del lavoro minorile».

La Fondazione si impegna a combattere il lavoro minorile, sostenere l’istruzione e aiutare le famiglie rese ancora più fragili dalla pandemia SOS Villaggi dei Bambini è l’ente assistenziale per l’infanzia più grande al mondo ed è attivo in 135 Paesi. La sede svizzera è stata fondata nel 1964. Il volume delle donazioni raccolte nel nostro paese ammonta a circa 20 milioni di franchi l’anno. In Ticino la Fondazione festeggia i 20 anni di attività. L’anno scorso sono stati raccolti quasi 800mila franchi e i donatori sono stati 17’792. In occasione dell’anniversario oggi lunedì 16 novembre alle 18.00 si terrà un evento online: https:// www.youtube.com/user/SOSKinderdorfSchweiz. «Tutto è iniziato nell’aprile 1949, – ci racconta Evelyn Heusser, responsabile per la Svizzera italiana – un gruppo di volontari vicini allo studente di medicina Hermann Gmeiner ha fondato il primo Villaggio dei Bambini SOS vicino a Innsbruck, in Austria. Con la loro idea, rivoluzionaria per l’epoca, diedero un impulso importante all’assistenza dei minori: orfani e orfani sociali, invece di essere accolti in centri di accoglienza anonimi, avrebbero potuto crescere in un ambiente protetto, nel calore di una nuova famiglia. Un’idea che ha trovato consenso in tutto il mondo. Oggi ci sono 572 villaggi dei bambini SOS in quattro continenti». L’attività di SOS Villaggi per Bambini si svolge soprattutto in Sudame-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

rica, Africa e Asia. Finora sono stati coinvolti quattro milioni di bambini e ragazzi nel programmi di aiuto: rafforzare le famiglie, favorire l’istruzione, promuovere la salute, agire contro emergenze e povertà sono i principali campi d’intervento. SOS Villaggi dei Bambini è attivo anche in Siria, paese dilaniato dalla guerra da anni. «Il primo passo importante, – afferma la psicologa Teresa Ngigi, responsabile dei «Child friendlyspaces» (Centri a misura dei bambini) in Siria – trovare sul posto persone competenti e volenterose e dare loro una formazione. Le persone che vivono sul posto conoscono la situazione e sono preparate ad affrontarla. Formiamo operatori sociali locali, rafforziamo le loro capacità di rispondere alle esigenze dei bambini e delle famiglie e aumentiamo così le nostre forze». Il lavoro minorile è una delle piaghe che colpisce l’infanzia nel mondo, ma non il solo. Al centro dell’operato di SOS Villaggi dei Bambini vi è il futuro dei più giovani e quindi i diritti dei bambini. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo è stata approvata il 20 novembre del 1989 a New York e da allora il 20 novembre si celebra la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La Convenzione è stata sottoscritta da quasi tutti i Paesi, dalla Svizzera nel 1997, ma questo non basta a garantire i diritti ai bambini. La realtà è ben diversa. «La Convenzione – ci spiega Claudia Arisi, Global Advocacy Advisor di SOS Villaggi dei Bambini – ha ispirato leggi e programmi che hanno migliorato le condizioni di vita di milioni di bambini, dimezzando i casi di mortalità sotto i cinque anni e riducendo all’8% il numero dei bambini nel mondo che non frequentano la scuola primaria. Tuttavia ogni anno, il 20 novembre, ci troviamo a parlare di un’agenda di diritti incompiuta. Basti pensare che i bambini e i ragazzi costituiscono un quarto della popolazione mondiale, la maggior parte vive in Paesi in via di sviluppo e solo un terzo di loro ha accesso a qualche servizio di protezione sociale». SOS Villaggi dei Bambini ha fra i suoi obiettivi quello di offrire «il calore di una casa per ogni bambino». La famiglia rimane il punto cruciale e dalle condizioni di questa discende la qualità di vita dei bambini. Se la famiglia non è in grado di accudire i propri figli è necessario offrire alternative. Perciò SOS Villaggi dei Bambini ha messo a punto le «Linee guida sull’accoglienza al di fuori della famiglia» con l’obiettivo di realizzare il diritto alla consapevolezza dei propri diritti, quando i bambini vivono al di fuori del nucleo famigliare d’origine. Inoltre è stato appena pubblicato l’opuscolo Hai diritto a cura e protezione. «500 giovani tra i 10 e i 18 anni di 23 Paesi – ci dice Claudia Arisi, che ha curato la pubblicazione – che Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Naomi vive nel villaggio dei bambini SOS di Jimma in Etiopia. (SOS Villaggi dei Bambini)

vivono o hanno vissuto in situazioni di grande disagio in famiglia, o di distacco dalla famiglia, ci hanno aiutato a ideare e illustrare il libretto. Ho trovato commovente come i più grandi avessero un occhio di riguardo per i più piccoli. Alcuni ragazzi hanno sottolineato come fosse ancora più importante che l’informazione venisse trasmessa ai più piccoli, perché certe cose prima le sai, prima puoi prendere in mano la tua vita da attore consapevole e difendere i tuoi diritti». La povertà rimane una piaga. Cosa è cambiato negli ultimi anni e che prospettive ci sono ora, per i bambini nel mondo, in seguito alla pandemia? Chiediamo a Claudia Arisi. «Negli ultimi decenni un miliardo di persone

sono uscite dalla povertà assoluta, ma la pandemia sta rallentando il passo del progresso. Un recente rapporto delle Nazioni Unite segnala che 71 milioni di persone torneranno sotto la soglia della povertà assoluta nel 2020, ed è il primo aumento dal 1998. Secondo il Programma alimentare mondiale, 130 milioni di persone in più faranno i conti con acuta insicurezza alimentare entro la fine di quest’anno. Per SOS Villaggi dei Bambini queste prospettive sono preoccupanti. La povertà non è solo monetaria, spesso si accompagna a un aumento dei livelli di stress, che in presenza di altri fattori di rischio legati al comportamento o alla salute dei genitori può portare a maltrattamento, incuria e infine allontanamento del

bambino dal nucleo famigliare. C’è urgente bisogno di aumentare i servizi di rafforzamento famigliare per prevenire l’allontanamento dei minorenni dalla famiglia di origine, e aumentare l’offerta di servizi di qualità per l’accoglienza dei bambini fuori dalla famiglia d’origine». Editha, una giovane accolta da SOS Villaggi dei Bambini nelle Filippine lancia l’appello: «È importante che tutti i bambini imparino quali sono i propri diritti. Questo li protegge e li tiene al sicuro. Se conosciamo i nostri diritti, possiamo lottare per loro».

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Idee e acquisti per la settimana

Un panettone medagliato

Novità La pasticceria-confetteria-panetteria Dolce Monaco di Losone ha vinto la medaglia d’argento

all’ultima edizione della Coppa del Mondo del Panettone. Una prelibatezza che trovate in vendita nei supermercati di Migros Ticino. Abbiamo parlato con il titolare, Marzio Monaco

PANETTONE MEDAGLIA D’ARGENTO COPPA DEL MONDO 2019/2021 CH-6616 LOSONE www.dolcemonaco.ch

Marzio Monaco, titolare della panetteria-pasticceria Dolce Monaco di Losone. (Ti-Press)

Signor Monaco, con il suo panettone tradizionale si è aggiudicato la medaglia d’argento all’ultima Coppa del Mondo del Panettone, che si è svolta lo scorso anno a Lugano. Come ha reagito all’annuncio del suo nome tra i vincitori?

Premetto che non me l’aspettavo. Ho provato un’infinità di emozioni e un sentimento di orgoglio per aver creato un prodotto di qualità apprezzato da una giuria presieduta nientemeno che dal grande pasticcere francese Gabriel Paillasson.

Ma come si produce un panettone così buono?

Flavia Leuenberger Ceppi

Da una parte con grande passione artigiana e impegno quotidiano da parte mia e dei miei nove validi collaboratori. Dall’altra con l’impiego di materie prime di alta qualità, in primis lievito madre fatto in casa, burro dell’alpe ticinese, frutta candita rigorosamente selezionata. Inoltre è importante rispettare i giusti tempi di lievitazione naturale dell’impasto, che durano non meno di due giorni. Il suo prodotto medagliato quest’anno è in vendita anche a Migros Ticino. Cosa si sente di dire alla clientela?

Di provarlo perché è semplicemente buono, genuino e frutto di una lavorazione artigianale curata fin nei minimi particolari. Non contiene né conservanti né coloranti ed è un prodotto del nostro territorio: acquistandolo si va-

lorizza e sostiene l’economia ticinese. Inoltre rappresenta un regalo sicuramente gradito da tutti, grazie anche alla bella confezione con cui è imballato il prodotto.

Nell’assortimento Migros delle festività vi sono anche altri prodotti di sua produzione?

Esatto. Da qualche anno produco per Migros anche il panettone al gianduja,

La stagione dei cachi Attualità Con l’arrivo dell’autunno torna questo

dolcissimo frutto dal colore vivace da gustare al cucchiaio Impossibile non notarlo anche alle nostre latitudini dove, con il suo bel colore arancio intenso, spicca tra i rami ormai spogli di molti giardini. Ma il caco non è solo bello da vedere e salutare, ma anche una delizia da gustare grazie alla sua polpa zuccherina che ricorda al contempo il sapore del melone, dell’albicocca e della vaniglia. Per apprezzarne appieno le sue proprietà, è bene che il caco venga consumato quando è ben maturo, altrimenti risulterebbe aspro

e allappante. Per accelerarne la maturazione, lo si può lasciare in un luogo fresco e al buio, oppure mettendolo vicino alle mele. Si consuma al naturale, con un cucchiaino, ma è ideale anche per la preparazione di mousse e confetture. Alcune varietà, come Persimon o Sharon, posseggono una polpa soda e si possono mangiare come se fossero una mela. Le macchie brune che possono comparire sulla buccia sono segno di un alto tenore di zuccheri.

Hit Cachi Italia 700 g Fr 3.40

un dolce originale a cui all’impasto aggiungo nocciole e zucchero tostati, nonché il torrone al pistacchio, una delicatezza che non può mancare a Natale.

Panettone Artigianale Dolce Monaco 500 g Fr. 20.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros


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Idee e acquisti per la settimana

Il festival delle ostriche

Attualità Questa settimana i pregiati molluschi sono protagonisti nei nostri reparti del pesce

Da sempre apprezzate come cibo sopraffino, le ostriche sono disponibili sul mercato in due tipologie: le piatte o tonde, le più pregiate per il loro delicato aroma (tra queste possiamo citare le «Marennes-Oléron» e le «Belon») e le ostriche allungate o concave dal sapore più salmastro. La Francia è considerata il paese delle ostriche, dove sulle coste dell’Atlantico si concentrano i principali allevamenti al mondo, soprattutto in Bretagna, nella regione della Nuova Aquitania e nei Paesi della Loira. Le ostriche si consumano soprattutto crude e vive, aperte solo al momento di gustarle. Hanno un posto di rilievo tra gli antipasti e la stagione ideale per gustarle va da settembre ad aprile. Per aprirle si utilizza l’apposito coltello apriostriche, facendo leva nella cer-

niera delle valve. Una volta eliminata la valva superiore e l’acqua in eccesso, le ostriche si appoggiano su un letto di ghiaccio tritato in un piatto fondo. Si servono accompagnate con delle fetti-

ne di limone, del pepe macinato di fresco e fette di pane imburrate. C’è chi le apprezza accompagnate da una salsina a base di aceto, scalogno tritato, sale e pepe. Alcuni le gustano anche con

l’aggiunta di qualche goccia di tabasco o ketchup, ma è meglio non abusarne per non coprire il sapore naturale dell’ostrica. Questa settimana presso i banchi del pesce e a libero servizio nel-

le maggiori filiali Migros, potrete trovare alcune pregiate varietà di ostriche francesi, disponibili in diversi calibri, ad un prezzo particolarmente vantaggioso.

Azione 20%

su tutte le ostriche dal 18 al 23 novembre

Buono a sapersi Le ostriche sono vendute in diversi calibri, dal 5 allo 0. Più il numero è piccolo, più l’ostrica sarà carnosa. Alimento leggero e povero di grassi, 100 g di ostriche contengono solo 60 calorie. Inoltre sono ricche di proteine e carboidrati complessi. Le ostriche contengono le vitamine C, B1, B2, D e sali minerali e oligoelementi quali ferro, fosforo, calcio e magnesio. Dopo l’acquisto, potete conservare le ostriche in frigorifero a 5-10 gradi fino a una settimana.

Delizia da gourmet

Attualità Il Lardo di Colonnata è un prodotto inimitabile

della tradizione toscana

Piccolo ma buono Non c’è Natale senza la dolcezza del panettone e il profumo di cannella nell’aria. La Jowa di S. Antonino ha messo insieme queste due tipicità delle feste di fine anno, creando una novità che ingolosirà proprio tutti: il panettoncino a forma di stella con cannella, arricchito con pezzettini di mela. È ideale per una colazione piena di gusto, come gradito piccolo dessert o da portare con sé per soddisfare la voglia di dolce durante la giornata. Grazie agli ingredienti di primissima qualità utilizzati, questo soffice mini panettone sembra fatto in casa. Correte ad assaggiarlo perché sarà disponibile solo per un periodo limitato.

È a Colonnata, piccola frazione del comune di Carrara, famosa per i suoi marmi, che nasce un prodotto di norcineria di assoluta unicità: l’omonimo lardo a indicazione geografica protetta (IGP). È ottenuto dalle parti grasse comprese tra la cotenna e la carne, le quali vengono massaggiate a lungo con un impasto a base di sale marino e aromi quali pepe,

rosmarino, aglio ed erbe. Le parti così ottenute, che devono essere di almeno cinque centimetri di spessore, sono in seguito poste a stagionare in vasche di marmo locale, dette «conche», per un periodo di almeno sei mesi. Visivamente il Lardo di Colonnata si presenta di un bel colore bianco, con sporadiche venature rosse di magro e bordi ricoperti di spezie. Al gu-

sto spicca per il suo aroma delicato, dolce e al contempo speziato. Si consuma così com’ è, tagliato a fette sottili, su crostini di pane tostato. Si abbina particolarmente bene alle caldarroste e al miele. Lardo di Colonnata al banco, 100 g Fr. 4.50 invece di 6.50 Azione 30% dal 17 al 23.11

Panettoncino stella alla cannella e mela 120 g Fr. 4.20 In vendita nelle maggiori filiali Migros


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Società e Territorio

Super Mario corre nel salotto di casa Videogiochi Mario Kart Live: Home Circuit sfrutta la tecnologia della realtà aumentata e... la nostra fantasia Davide Canavesi Ogni volta che mi accingo a selezionare il prossimo gioco da trattare su queste pagine, la scelta ricade spesso sui giochi di Nintendo. I criteri sono sempre i medesimi: deve essere un titolo interessante, possibilmente indirizzato ad un’ampia fetta di pubblico e deve avere del potenziale. Il gioco di cui parleremo in questo articolo, Mario Kart Live: Home Circuit tocca ogni singolo punto della mia lista di requisiti: interessante per il suo uso della realtà aumentata, decisamente adatto a grandi e piccini e ha il potenziale di stimolare la creatività di chi ci gioca. Mario Kart Live: Home Circuit è un nuovo capitolo della lunghissima serie di corse su go-kart nata nel 1992 che vede i personaggi dell’universo di Super Mario correre in diversi circuiti sempre colorati e sorprendenti. Una serie che ha saputo cavalcare l’onda del rinascimento videoludico post Atari ed arrivare fino ai giorni nostri passando da ogni singola console di Nintendo. Mario Kart Live però non si limita ad essere il solito gioco di go-kart ma prende una direzione nuova. Al posto di correre in mondi virtuali, questa volta saremo chiamati a correre nel mondo reale. Gli sviluppatori di questo nuovo gioco hanno preso spunto ed ispirazione da un’altra serie di giochi tutti particolari, quelli della serie Nintendo Labo, per creare qualcosa di nuovo. Nella confezione di Mario Kart Live non troveremo infatti il gioco da installare sulla console, quello va scaricato

Il giocatore ha il punto di vista del go-kart radiocomandato collegato wireless alla console. (2020 Nintendo of Europe)

gratuitamente dallo store della console. Troveremo invece un piccolo go-kart radiocomandato, sia in versione Mario che Luigi, da collegare alla nostra macchina da gioco via wireless. Nella confezione ci sono anche una serie di quattro porte in cartoncino e un paio di indicatori per le curve, di cui avremo bisogno. Una partita di Mario Kart Live è un affare, insomma, più complesso della media dei videogiochi. Il motivo è che i giocatori saranno chiamati a realizzare dei tracciati nella vita vera, sfruttando le quattro porte di cartoncino che troviamo nella scatola come checkpoint. Il procedimento ci vedrà appoggiare il go-kart a terra, posizionare i nostri checkpoint in giro per casa, disegnare il tracciato e poi correre. Il gameplay è un po’ diverso dal solito, visto che la te-

lecamera offre una visuale quasi in prima persona rispetto alla terza persona classica. Sullo schermo, sia in versione portatile che sulla TV, avremo il punto di vista del go-kart, il quale include una telecamera wireless che trasmette ciò che vede alla Nintendo Switch. Il gioco creerà autonomamente tutta una serie di elementi e personaggi sfruttando la tecnologia della realtà aumentata attorno al nostro go-kart fisico. Insomma, tramite questa tecnologia correremo in piste create dalla nostra fantasia, nel mondo reale, contro concorrenti virtuali. Oppure, se abbiamo il doppio di console e go-kart, potremo addirittura giocare con due go-kart fisici in questo mondo virtuale che però occupa uno spazio in quello reale. Sembra complicato ma in realtà è un processo assai semplice e divertente, in tipico stile

Nintendo. Una volta apprese le basi e fatto qualche giro di prova potremo infatti sbizzarrirci, creando tracciati che non solo coinvolgono il pavimento. Possiamo creare rampe e passaggi con del cartoncino, curve mozzafiato, passaggi segreti sotto il letto o tra le sedie della cucina. I limiti sono sostanzialmente solo due: la nostra fantasia e quanto spazio abbiamo a disposizione. Per sua natura infatti Mario Kart Live funziona meglio in spazi ampi in cui possiamo dare sfogo alla creatività. Un appartamento piccolino, con tanti tappeti e ostacoli alle porte è meno adatto, sebbene sia possibile divertirsi ugualmente. L’esperienza del gioco non è solamente riempire casa di checkpoint ed ostacoli. La parte software offre un buon senso di progressione, permet-

tendo al giocatore di affrontare diversi gran premi, sbloccare elementi cosmetici e potenziare il kart. Le gare inizieranno infatti con la classe 50cc ma a poco a poco progrediremo verso 100cc, 150cc e 200cc. A quest’ultimo livello scopriremo che la macchinina radiocomandata è sorprendentemente scattante e rapida e che serve una certa dose di abilità per arrivare alla fine di ogni corsa al primo posto. Non tutto è perfetto però in questo gioco. Per prima cosa, non è purtroppo praticabile creare tracciati che vanno in diverse stanze di casa. Il motivo è che il go-kart comincerà a perdere il segnale di collegamento con la console dopo una certa distanza, rendendo la guida difficoltosa o impossibile. Anche il riconoscimento degli elementi del mondo reale sono approssimativi e capiterà di vedere parti di tracciato che intersecano muri o altri ostacoli. Allo stesso modo i concorrenti in pista ignoreranno del tutto qualsiasi oggetto fisico, passando attraverso qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino. Per finire, il multigiocatore ha una grossa barriera finanziaria all’entrata, visto che servono due console e due copie del gioco complete. Tutto sommato però Mario Kart Live è un’idea stuzzicante e assai spassosa anche se la sua longevità (e praticità) non sono nemmeno lontanamente paragonabili ad un episodio classico della serie. Nonostante i suoi limiti è un gioco che potrà far impazzire chiunque sia un fan della serie e garantisce ore di spasso, derapate, incidenti e qualche spavento per il gatto di casa. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Società e Territorio

Pandemia, single più soli?

Relazioni Chiusure e divieti, luoghi di incontro limitati, feste e spettacoli aboliti: in questo periodo le possibilità

di nuovi incontri per i single si riducono drasticamente e c’è chi avverte l’esigenza di un cambiamento Guido Grilli Occorrerà escogitare sempre più nuove strategie per uscire dalla «solitudine sentimentale». C’era una volta la Movida e allora per i single era più facile trovare l’anima gemella. Ma che dire oggi? Dopo la prima ondata pandemica di marzo stiamo vivendo un autunno in una condizione di semi-lockdown dopo le disposizioni adottate dalle autorità alla luce della preoccupante crescita dei contagi. L’elenco delle restrizioni è lungo. Bar e ristoranti costretti a chiudere in anticipo. Negli spazi pubblici – luoghi di relazione sociale per eccellenza – si gira ormai perlopiù a volto mascherato. E per chi desidera rapire un nuovo cuore l’impresa si conferma ardua. Anche il lavoro a distanza, tornato in vigore in molte aziende, preclude il caffè socializzante e l’ambiente tra colleghi foriero talora di intese fatali. Bar e ristoranti rimangono certamente luoghi di «approfondimento» preziosi dopo un primo flirt. Resta il fatto che oggi il primo a chiederti il numero di cellulare è il cameriere, per il tracciamento. Quanto è cambiata la vita in questa nuova emergenza negli esercizi pubblici? Alessandro Mandelli, 45 anni, da 16 anni gerente del Bar ristorante Lungolago di Locarno, che della Movida faceva il suo fiore all’occhiello, è preoccupato per le nuove restrizioni decise da Berna. Da sempre luogo ideale per conoscere nuova gente e per godersi momenti leggeri, tra cocktail, musica e animazione, da pochi giorni il suo locale si ritrova catapultato – come tutti gli altri – a far rispettare regole prima inesistenti: nessuno al bancone, posti solo seduti al tavolo per un massimo di quattro persone e ingresso con mascherina. «Eravamo aperti fino all’una di notte, ora le 23 rappresenta davvero un limite. Il calo della clientela si fa sentire e le occasioni di incontro si riducono al lumicino». Per i single questa seconda ondata pandemica, tra chiusure, divieti per feste e raduni, appare decisamente una prova a ostacoli. Ma – risvolto della medaglia – è questo anche un tempo che potrebbe suggerire un cambio di marcia. «Se penso al primo dopo-lockdown alla fine della scorsa primavera, quando si è potuto finalmente uscire di casa, il desiderio di relazione da parte dei single è aumentato. Il terrore di rimanere nuovamente chiusi in casa, in so-

litudine, in molti ha fatto scattare una molla, si sono detti, “basta, ora voglio cambiare la mia vita e poter avere una relazione”. Molti hanno sperimentato quanto può essere brutta la solitudine. Finché uno affrontava la vita quotidiana, tra lavoro, impegni, sport, attività culturali e amicizie non si rendeva conto, ma poi il lockdown li ha messi a dura prova e allora molti di loro hanno avvertito l’esigenza di un cambiamento». È quanto ci spiega Isabella Apollonio, 48 anni, dell’agenzia per single Meeting, dalla sede di Lugano, dove è attiva da oltre vent’anni quale consulente nonché «Cupido».

«Anche a distanza si possono instaurare preziose relazioni, con la promessa, non appena possibile, di un incontro» Non è trascurabile – apprendiamo – il numero di coloro in cerca dell’anima gemella ad affidarsi a un’agenzia. Piuttosto che «chattare» o navigare in Internet in un mare di relazioni sconosciute, c’è chi vuole profili garantiti e certificati. Come funziona il vostro servizio? «La nostra agenzia si basa sulla selezione degli incontri. Siamo noi operatrici che andiamo a selezionare nella nostra banca dati i profili più affini e li mettiamo in contatto telefonico. Durante il periodo “normale” ognuno si organizzava il proprio incontro con aperitivi o caffè al bar, mentre durante il lockdown si è ricorsi agli incontri attraverso videochiamata». Come si svolge la consulenza? «Già telefonicamente ci assicuriamo che l’utente sia una persona libera legalmente ed economicamente indipendente. Una volta accertati questi requisiti di base, l’interessato viene convocato nei nostri uffici a un colloquio individuale, per una nostra conoscenza personale. In un colloquio di una-due ore vogliamo capire che tipo di persona è il single che ci contatta: le sue qualità, cosa pensa di aver sbagliato fino a quel momento nelle precedenti relazioni, chi spera di incontrare. Una volta creato il profilo gestiamo gli incontri, ai single viene affidato un coach, ossia un

L’isolamento forzato e solitudine: il lockdown mette a dura prova i single. (Marka)

“Cupido” che lo seguirà durante tutto il percorso. Solitamente l’iscritto sceglie il percorso della durata di 12 mesi, che contempla l’incontrare, rivalutare, familiarizzare. Abbiamo inoltre una chat interna per gli iscritti del club: i clienti hanno la possibilità di accedere autonomamente alla nostra banca dati e poter spontaneamente mettersi in contatto e organizzarsi un incontro. Si tratta di profili certificati, che abbiamo creato noi: è questo che noi garantiamo con la nostra agenzia». C’è però l’aspetto finanziario: chi si rivolge a voi deve pagare. A quanto ammonta la tariffa richiesta? «La qualità e la serietà, come pure la certezza dei profili, hanno un costo. Da un minimo di 2 mila fino anche a 5 mila franchi. Abbiamo delle quote fisse e dei percorsi personalizzati, che nascono in base al tipo di consulenza che si intende ricevere: il tempo messo a disposizione, gli obiettivi, le esigenze. Si fa un contratto dove noi assicuriamo l’accesso a una banca dati molto ampia – siamo sul mercato da una trentina di anni». Quanti sono i profili della vostra agenzia? «Abbiamo un turnover quo-

tidiano di clienti. Per esempio, solo in Ticino – siamo presenti a Lugano, Chiasso e Locarno – parliamo di migliaia di iscritti. Ma siamo attivi anche a Zurigo e in Italia». Quali sono le maggiori difficoltà per i single? «Oggi si ha sempre meno tempo, c’è molta diffidenza e paura. Di conseguenza chi ha voglia di concretizzare un incontro si affida a chi può garantirgli rapidità, qualità e serietà». Qual è il tasso di successo per chi si rivolge a voi? «Registriamo circa il 40% di successo». Chi sono i single che si rivolgono a voi? «Il o la single che viene in agenzia è una persona esigente, realizzata professionalmente, personalmente ed economicamente. Ha una cerchia di amicizie magari limitata e vuole andare oltre a queste opportunità. Spesso ha poco tempo a disposizione. Ed ecco che noi rappresentiamo un’occasione in più, ottimizziamo il tempo e la qualità». In Ticino esistono associazioni per chi è alla ricerca dell’anima gemella? «Esistono iniziative di cene per single. Di solito l’ingresso è libero e non selezionato e quindi non si ha mai la

Bella, indifferenti alle sofferenze del mondo, o è qualcosa di più profondo? Diventare un omo come si deve significa forse trovarne il senso profondo. Ma non abbiamo ancora detto una delle cose più importanti, e cioè che questo libro – che si rivolge agli adolescenti e agli adulti – è un graphic novel, realizzato da due maestri del genere, entrambi di fama internazionale. La storia è di Gipi (pseudonimo di Gian-Alfonso Pacinotti), illustratore, fumettista pluripremiato, regista cinematografico e televisivo, che qui però affida le illustrazioni a Luigi Critone, fumettista italiano amatissimo in Francia, dove vive e lavora. Sono illustrazioni molto belle, sin da quelle di apertura – un uomo a cavallo, un vecchio incappucciato, l’oscurità e la pioggia scrosciante – che trascinano subito il lettore dentro l’atmosfera medievale della storia. Ma sono soprattutto gli sguardi di ogni personaggio, così precisi nel delinearne guizzi del pensiero e stati d’animo, a suggellare con energia espressiva il racconto. Un libro che ha già suscitato

molto apprezzamento in Francia, dove è uscito da Casterman a gennaio, e che da pochi giorni l’editore Coconino ha pubblicato in Italia.

certezza in questi eventi di chi siano i partecipanti. Anche noi talora organizziamo cene ma esclusivamente per gli iscritti al nostro club, quindi offrendo la garanzia di profili seri, di chi ha veramente il desiderio di rimettersi in gioco. Gli incontri possono dar luogo a più esiti: da un’amicizia, a una convivenza, a un matrimonio, a una storia dove si decide di continuare ad abitare ognuno a casa propria». Come vede questo difficile periodo, che assomiglia sempre più a un secondo lockdown? «Questo, a prescindere, è un periodo duro per tutti. Dal canto nostro non bloccheremo comunque mai il nostro servizio ai clienti. Anche a distanza si possono instaurare preziose relazioni, con la promessa, non appena possibile, di un incontro. E magari, proprio per questa attesa, il desiderio di incontro si fa più forte». L’aver fiducia nell’altra/o appare maggiormente un ostacolo, dal momento che il lockdown sembra averci infragiliti. «Sì, un po’ sì, questo credo abbia influito in generale su tutti noi. Il Covid c’è, ma non è bene farsi condizionare troppo nelle relazioni».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Gipi & Luigi Critone, Aldobrando, Coconino Press. Da 13 anni Lascia la casa. Corri il mondo, dice al giovane Aldobrando il vecchio saggio che l’ha allevato. Un viaggio iniziatico non può che cominciare da una separazione. Lasciare la casa, le figure parentali, la sicurezza e cercare la propria strada nel mondo. Trovare se stessi, diventare grandi davvero. Fatene un omo come si deve, aveva detto al vecchio, molti anni prima, il padre di Aldobrando, affidandoglielo ancora bambino e avviandosi a morire per la giustizia. Questa narrazione corre nel solco della quête medievale, è l’avventura di formazione di un ragazzo che non avrebbe nulla per essere un eroe (è gracile, ha «due braccia che son zampe di merlo», è ingenuo, inesperto di mondo, non possiede nulla) ma alla fine lo diventa davvero, proprio come quegli umili personaggi (sull’archetipo del Sempliciotto) che popolano le fiabe e che partono per il loro viaggio di ricerca, affrontando le prove e sconfiggendo il Male. Provengono dal mondo del folktale anche gli altri personaggi

di questa storia: ci sono il Re meschino, i laidi consiglieri, la Principessa triste, l’Orco e la sua Bella, il saggio Mago che fa da padre e da maestro al giovane apprendista. Ma diversamente dalla fiaba, non c’è nettissima divisione tra Bene e Male: a parte Aldobrando, che incarna l’innocenza assoluta, negli altri albergano luci e ombre (anche se in percentuali variabili). E non manca, tra queste luci e ombre, il lampeggiare di qualche ironia, o sprazzo umoristico, persino sull’Amore, che pure resta un tema centrale nella storia. Cos’è l’amore, si chiede Aldobrando. Stare a scambiarsi effusioni con la propria

Raffaella Bolaffio, Olivia e Poldo, Libri a 4 zampe, Editrice Il Castoro. Da 0 a 3 anni Un libro che scodinzola, che muove il musino? Sì! Ma non pensate a complicati marchingegni, è invece un’idea semplicissima questa dell’illustratrice Raffaella Bolaffio per la nuova serie «Libri a 4 zampe» delle Edizioni Il Castoro: piccoli libri cartonati pieghevoli, tecnicamente «a leporello», ripiegati su se stessi a fisarmonica, e sagomati, perché cominciano con un muso e finiscono con una coda; e in mezzo c’è la storia. I libri stanno anche in piedi (o meglio sulle quattro zampette) e così testa e coda oscillano delicatamente. Volendo si possono anche muovere con decisione, ad esempio nel gioco del cucù (intramontabile evergreen dei più piccoli): dov’è la gattina Olivia... (e nascondo il muso dietro la prima

pagina)... cucù! Un libro da condividere con i propri cuccioli umani, come primissima lettura, inventando tanti modi per animarlo, e un libro da lasciare anche come giocattolo al bambino, che si divertirà a toccarlo, aprirlo, far muovere l’animale che rappresenta. Il cartone è robusto, non teme manine distruttrici. E le storie sono semplicissime, ma giuste per l’età target. Un personaggio, un piccolo problema, una soluzione. Olivia la gattina ha perso il suo topo di gomma, Poldo il cane si è tutto sporcato di fango. Tutto si risolve, com’è bella la vita da cuccioli. Olivia e Poldo sono i primi due titoli della serie.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Torquemada e il Niño de la Guardia Nel 1887 lo storico spagnolo Fidel Fita pubblicava il primo resoconto attendibile di un caso di infanticidio fino ad allora conosciuto solo attraverso leggende della tradizione. Portava così alla luce uno dei casi meglio documentati di processi condotti dall’Inquisizione Spagnola. I fatti: nel giugno del 1490, il sessantenne Benito Garcia, un ebreo di recente convertito, di professione cardatore, fu fermato ad Astorga, nella Provincia di León. Nel suo zaino fu ritrovata un’ostia consacrata – o così almeno secondo la confessione dello stesso Garcia al Vicario Generale del Vescovado di Astorga, Pedro de Villada, del 6 giugno 1490. Al termine dell’interrogatorio, all’accusato venne imputato il reato di aver rinnegato la sua conversione e di essere tornato alla religione dei suoi avi. Questo era avvenuto, nella deposizione di Garcia, ad istigazione di altri conversi rinnegati. Garcia

aveva anche fatto menzione di un certo Yucef Franco, calzolaio ebreo, che fu in seguito arrestato dall’Inquisizione. Con uno stratagemma, interrogato da un (falso) Rabbi che lui stesso aveva richiesto in assistenza spirituale sulle ragioni del suo arresto, Franco rispose di essere stato accusato dell’assassinio rituale di un bambino cristiano, anche se in una visita successiva dello stesso falso rabbino non fece più menzione del capo d’imputazione. Il 27 agosto 1490 il Grande Inquisitore Tomàs de Torquemada ordinò l’arresto e il trasferimento ad Avila di tutte le persone implicate nel caso ed incaricò tre giudici di sua fiducia di istruire il processo. Il processo contro Yucef Franco iniziò il 17 dicembre 1490. Egli fu accusato di aver persuaso al rinnegamento un buon numero di conversos e di aver partecipato alla crocifissione di un bambino cristiano in Venerdì Santo. Sembrerebbe che tanto Benito Garcia

quanto Yucef Franco avessero già «confessato» prima del processo producendo accuse contro altri in cambio della promessa di libertà – tattica standard con la quale l’Inquisizione raccoglieva «prove» delle accuse. Quando l’accusa di omicidio rituale fu letta in tribunale, uno scandalizzato Yucef Franco gridò che si trattava della peggiore menzogna mai pronunciata. Gli fu affidato un avvocato difensore il quale argomentò che le accuse fossero troppo vaghe, che mancavano date e nomi relativi all’evento – e che Yucef non poteva essere accusato di apostasia perché non si era mai convertito al cristianesimo. Rigettati gli argomenti della difesa il processo proseguì. Sottoposto di nuovo alla tortura, Franco sulle prime non fece che ribadire l’apostasia di Garcia, ma poi cominciò a confessare un caso di stregoneria avvenuto anni prima che avrebbe implicato l’uso di un’ostia consacrata ed il cuore di un

bambino cristiano (poi canonizzato con il nome di Niño de la Guardia) – dichiarazioni peraltro vaghe e contraddittorie, troppo deboli per garantirne la veridicità. Le ultime dichiarazioni estorte sotto tortura a Yucef Franco sono la ripetizione standard di credenze popolari diffuse al tempo in tutta Europa secondo le quali gli Ebrei usavano sacrificare un bambino cristiano per estrarne il sangue ai fini di confezionare certi biscotti per la festa del Pesach. Il processo in questione riveste una grande importanza antropologica in quanto vediamo confluire in un unico sistema d’accusa e di condanna i due grandi filoni lungo i quali operava l’Inquisizione Spagnola: la repressione dell’apostasia degli ebrei convertiti (a forza) e la repressione della stregoneria. Costituita nel 1478 per decreto di Papa Sisto IV su richiesta di Ferdinando ed Isabella di Castiglia con l’intento di espurgare dal suolo spagnolo l’influen-

te minoranza ebraica, l’Inquisizione presto si estese a coprire anche il reato di stregoneria, assimilata – al termine di un complesso percorso culturale e giuridico – ad eresia comportante l’adorazione del demonio. Il risultato di tale convergenza fu devastante. Fornì peraltro il materiale polemico per la rivoluzione culturale culminata poi nell’Illuminismo e nel Positivismo modernista contro i capisaldi del pregiudizio antisemita e delle credenze nella stregoneria. Per quanto ci riguarda oggi, nel luogo «Il Braciere del Prato» ad Avila, tre ebrei e sei conversos furono messi al rogo: era il 16 novembre 1491. Le ricchezze sequestrate agli ebrei furono devolute alla costruzione del convento domenicano di San Tommaso ad Avila. Qui, ancor oggi, viene conservata l’ostia in questione. Il cuore in questione invece – così si narra – sembra essere miracolosamente scomparso.

accettare. In proposito la risposta che Freud invia, nel 1935, a una madre che gli chiede di curare il disagio del figlio sono ancora attualissime: «l’omosessualità non è una malattia, né un vizio, né una degenerazione». E, come tale non va condannata e neppure curata. Eppure non possiamo negare e ignorare le difficoltà della sua compagna e, di conseguenza di lei e di suo figlio. Come sanno i miei lettori, difficilmente consiglio una psicoterapia ma in questo caso sarebbe opportuno che un ascolto maturo e competente riuscisse a sciogliere il groviglio di emozioni che vi unisce e separa. In una situazione di dialogo con un professionista competente e neutrale, lei e la sua compagna potreste esprimere le vostre emozioni e trovare parole adeguate, che non siano «peccato» o «malattia», per comprendere ciò che vi inquieta, senza etichettarlo. Da parte sua, anche Michele potrebbe aver bisogno di un sostegno psicologico

qualora fosse in difficoltà nell’accettare e vivere la sua identità. Non si tratta di cambiare orientamento sessuale ma di vincere l’omofobia che talora alberga dentro le vittime stesse. Il rigetto del diverso ci deriva dalla tradizione e si perpetua nel linguaggio, per cui è necessario assumere un atteggiamento critico nei confronti della nostra mentalità, del nostro modo di pensare, di parlare e di agire. Michele, quasi maggiorenne, potrebbe andare a vivere da solo conservando però con lei un rapporto filiale: la disponibilità dei genitori non deve mai venir meno: si è padri e madri per sempre. Può darsi che nel frattempo la sua compagna, che in questa emergenza si è dimostrata responsabile e generosa, cessi le ostilità e accetti il ragazzo per quello che è, senza ostinarsi a volerlo cambiare per renderlo conforme al suo ideale. La nostra identità sessuale è composta di tanti ingredienti: il corpo, le relazioni familiari, il contesto storico e sociale,

traumi eventuali e un ambito di segreto e di mistero che non si può mai, sino in fondo, sondare. Nessuno è completamente maschio o completamente femmina. Immagini un metro ove in una estremità si collochi la mascolinità, dall’altra la femminilità. Su questo continuum a ognuno corrisponde una tacca che indica la prevalenza dall’uno o dall’altro polo e, di conseguenza, il tipo di partner desiderato. Anche chi è eterosessuale conserva una componente di amore per lo stesso sesso che, una volta depurato dalle cariche erotiche, alimenta i rapporti di amicizia, di solidarietà e di cura per cui una forza amorosa neutra circola nelle vene di tutta la società.

numerosi «latinos», residenti nella città della Limmat. Nei suoi locali è scoppiato quel fatale focolaio d’infezione che doveva provocare il divieto concernente «i balli che implicano stretto contatto corporeo». Poi esteso a ogni tipo di danza, e, infine, alla chiusura generale dei luoghi d’incontro a titolo di svago. Proprio questa decisione ha scatenato un’incessante ondata di reazioni improntate non soltanto alla protesta, da parte dei diretti interessati, addetti ai lavori nel mondo dello spettacolo o ribelli per vocazione. I sipari calati e le platee vuote hanno fatto scandalo, nel senso positivo del termine. Mobilitando esponenti degli ambiti professionali e ideologici più diversi, accomunati da disorientamento e incredulità nei confronti di un provvedimento che spegne le luci della ribalta. E lo confermano i commenti comparsi sui giornali, in particolare sulla «NZZ», che certo non strizza l’occhio al ribellismo e al vittimismo degli eterni malcontenti. Ma, questa volta, da storica testata, registra

gli umori della città toccata sul vivo di un operante attivismo. I titoli parlano chiaro: «Lo svago ultimo a morire». «Prima la cultura, poi la gola», «Indispensabile divertirsi». E via dicendo. Pandemia a parte, viene alla luce un insospettato orgoglio cittadino, con cui rivendicare una prerogativa locale e addirittura nazionale, destinata, non da ultimo, a smentire un giudizio, o pregiudizio, che grava sulla fama della Svizzera: paese noioso. Dove «la gente è immersa nel torpore e nella monotonia», come scriveva il giornalista Carlo Rossella su «Panorama», raccontando la sua Zurigo, visitata negli anni 90. Anche l’urbanista milanese Stefano Boeri, commentando sul «Sole 24 Ore» la graduatoria della vivibilità urbana, che aveva premiato Ginevra e Berna, dichiarava: «Città dove io non potrei mai vivere», rischiando d’imbattersi in gente «noiosa, calcolatrice, egoista…». Proprio la noia sembra l’attributo più confacente alla realtà elvetica. Secondo una valutazione americana, persino il

nostro parlamento federale sarebbe il più noioso del mondo. C’è anche del vero in questi giudizi, per altro scontati. E, se hanno ragione gli zurighesi a vantare la vivacità, adesso sospesa, delle loro notti, corrono però il rischio di cedere alla tentazione di un patriottismo, che va di moda. «Siamo i più bravi» è il ritornello del momento, alludendo alla lotta contro il virus. Ora, se non lo siamo sul piano sanitario e scientifico, dove la Svizzera sembrava quotata, figurarsi su quello del divertimento o del cosiddetto ozio creativo. In altre parole, Zurigo non può competere con Montmartre, Carnaby Street, Time Square e neppure con la piazzetta di Capri o le ramblas di Barcellona, luoghi che assicurano una botta di vita, momentanea. Mentre con la noia, sinonimo di tranquillità, di silenzio, di solitudine si può convivere. Sempre che, come invece sta succedendo, non ci venga imposta alla stregua di una rinuncia. Utile e virtuosa?

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’identità sessuale e il groviglio delle emozioni Cara Professoressa, le scrivo dal reparto dove sono ricoverato per Coronavirus. Il peggio è passato, sto meglio. Nel frattempo mio figlio Michele, di 17 anni, vive in casa da solo. La sua classe è stata messa in quarantena e, per ovvie ragioni, nessuno può andare a trovarlo. Ora le spiego meglio perché siamo a questo punto. Rimasto vedovo dieci anni fa con un bambino di sette anni, i miei genitori mi hanno dato una mano ad allevarlo perché io, per lavoro, torno tardi la sera e sono spesso lontano da casa. Michele è cresciuto bene finché, a 14 anni, è stato abbandonato anche dai nonni che, per motivi di salute, si sono ritirati in una Casa di cura. In qualche modo ce la siamo cavata e, due anni fa, ho trovato una compagna che mi ama e che avrebbe voluto venire a vivere con noi. Se non che, appena saputo che Michele è un «ragazzo che ama i ragazzi», si è messa in testa di «guarirlo» insistendo perché prenda appuntamento con

un famoso psichiatra che promette la «normalizzazione» di quelli che considera i «devianti». Com’era immaginabile, Michele si è ribellato e la convivenza è saltata. Per fortuna, durante il mio ricovero, la mia compagna si è sempre occupata del ragazzo lasciandogli i pasti fuori dalla porta e portandogli la biancheria pulita. Ma quello che mi preoccupa è che, finita l’emergenza, tutto tornerà come prima: le pretese di «guarire» Michele si faranno più pressanti e la ricomposizione familiare impossibile. Cosa posso fare? Mi aiuti, la prego. / Covid 19 Innanzitutto non s’immedesimi col Virus. Lei è una persona con una storia, una vita affettiva complessa, una famiglia conflittuale ma ricca di potenzialità. Il problema da affrontare consiste soprattutto nell’omosessualità di Michele, una disposizione sessuale che, circondata da pregiudizi millenari, è ancora difficile da comprendere e

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Se la Svizzera notturna chiude Effetto paradossale del Covid 19. Mentre discoteche, pianobar, cabaret, scuole di danza chiudono e teatri, cinema, sale da concerto sfoltiscono il pubblico sino all’inverosimile (in Ticino 50, o 5, o 30 spettatori, secondo i mutevoli umori delle autorità), si scopre un altro volto del Paese. Quello di una vitalità

Zurigo è tra le città europee con la più alta diffusione di club notturni. (Pixabay)

notturna, addirittura da primato. Che spetta a Zurigo: stando alle statistiche, sarebbe la metropoli europea con la più alta diffusione di club notturni, ben funzionanti e redditizi. Insomma, un bel cambiamento d’immagine nel giro di qualche decennio: da capitale della finanza, severa e stakanovista, a città che coltiva l’arte del divertimento in un’atmosfera rilassata, vagamente mediterranea. In verità, il fenomeno ha alle spalle una tradizione illustre, che risale al 1916, quando il Cabaret Voltaire diventò la culla delle avanguardie artistiche e politiche europee, fra cui il movimento Dada. Tempi lontani e irripetibili: il panorama della Zurigo notturna di oggi non riflette più i talenti di una creatività elitaria, bensì le proposte di un’industria dello svago rivolte al grande pubblico. Come dire, a una collettività sempre più composita, per origini, abitudini e culture. È indicativo, in proposito, il «caso Salsa», la scuola di danza sudamericana, frequentata da


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Ambiente e Benessere Una papamobile a idrogeno La Mirai che Toyota ha donato allo Stato Città del Vaticano rischia di rimanere in garage

Il giro di Taiwan in treno Si parla e si mangia cinese, ma è un’isola che si differenzia dalla Cina stereotipata e dunque riesce ancora a sorprendere pagina 15

La meccanica del ventre Al Musée de la main di Losanna una mostra dedicata all’apparato digerente dell’essere umano pagina 19

pagina 14

Gli abitanti del bosco Le foreste diversificate sono meglio preparate ai cambiamenti climatici

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Carcinoma prostatico, spesso sottovalutato Oncologia Oggi si praticano diagnosi

e terapie più accurate e innovative Maria Grazia Buletti Il tumore della prostata colpisce soprattutto dopo i 50 anni e il rischio aumenta con l’età. Secondo studi recenti, quasi tutti gli uomini di età superiore agli 80 anni presentano un piccolo focolaio di cancro alla prostata. «È un tumore con una storia naturale particolare: è molto frequente nell’anziano ma diagnosticato a 50 anni è notevolmente più aggressivo che a 80», afferma l’urologo-andrologo Paolo Broggini che conferma come quello prostatico sia il primo tumore nell’uomo (30% dei tumori maschili) e il 15% degli uomini ha il rischio di svilupparlo nel corso della vita. «Nell’uomo, è la terza causa di morte per tumore. Ciononostante, la sopravvivenza a cinque anni dopo una diagnosi precoce è buona (circa l’80%), ma dipende dall’età d’insorgenza». I circa 200-250 casi annui diagnosticati in Ticino sono forse un dato sottostimato: «Se un tempo i pazienti alla diagnosi avevano un’età media oltre i 70 anni, oggi la fascia d’età tra i 55 e 65 anni rappresenta il tasso di diagnosi maggiore, ossia il suo riscontro interessa maggiormente l’uomo di mezz’età». Infatti, l’uomo oggi è molto più attento che in passato nel recarsi dal medico, complici altri intenti che esulano dalla prevenzione ancora molto trascurata: «È un fatto culturale: l’uomo si informa di più, specie sul web. Dunque, va dall’urologo dove spesso giunge per altri motivi (difficoltà di erezione, eiaculazione precoce o un’urgenza minzionale). Qualora in tale occasione si diagnosticasse anche un tumore alla prostata, il contraccolpo subito dal paziente è grande e potrebbe comportare un drammatico rifiuto psicologico. Eppure, si tratta di un tumore che, individuato per tempo, ha una prognosi di guarigione del 100%». Vediamo quindi come si diagnostica: «Purtroppo il tumore prostatico provoca disturbi solo nelle fasi più avanzate e infauste; questa subdola sintomaticità tradisce perché impedisce all’uomo asintomatico di curarsene. Bisogna anzitutto considerare più visite di prevenzione urologica a cominciare dai 50 anni in su, permettendo di giungere alla diagnosi di tumore prostatico che si basa inizialmente sui risultati dell’esplorazione digito-

rettale e sugli esami di screening nel sangue». Questi ultimi prevedono la rilevazione dei livelli di antigene prostatico specifico (PSA): «Una proteina prodotta specificamente dalla ghiandola prostatica i cui valori alterati sono indice di neoplasia». Poi si procede con indagini diagnostiche mirate a determinare la portata e lo stadio tumorale: «Dopo una visita urologica sospetta e risultati di PSA alterato, si consiglia una risonanza magnetica (un tempo si faceva solo ecografia trans-rettale in cui i falsi positivi o negativi erano l’80%). Oggi noi disponiamo pure dell’innovativa Fusion biopsy real time: una biopsia prostatica avveniristica che fonde le immagini della risonanza magnetica a quelle ecografiche, utilizzando un ecografo di ultima generazione. Così è assicurata una precisione assoluta nella diagnosi dei noduli tumorali più piccoli, spesso non identificati dalle comuni ago-biopsie». Secondo lo stadio di tumore diagnosticato (localizzato, senza o con metastasi linfonodali od ossee), il paziente arriva alle cure oncologiche differenziate e individualizzate oggi estremamente all’avanguardia per presa a carico e farmacologia. Ce ne parla la professoressa Silke Sommer Gillessen, direttore medico e scientifico dell’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana (IOSI), specialista in tumori urogenitali: «Le terapie e la relativa prognosi sono subordinate allo stadio in cui il tumore è diagnosticato: tutto cambia se parliamo di un tumore localizzato (senza metastasi) dove la cura è radicale con prostatectomia o radioterapia, o se si tratta di una diagnosi che rivela anche metastasi ossee (localizzazione più frequente)». La professoressa Gillessen sottolinea l’importanza della diagnosi precoce che per la prostata non è così d’uso come per il seno: «È più complicato perché molti uomini hanno un tumore prostatico che non darà loro mai problemi». Inoltre: «L’aggressività del tumore è indipendente dall’età del paziente ed essere molto anziani non preserva dall’aggressività neoplastica». Ciò significa che tutti meritano una terapia adeguata, anche in tarda età: «Ogni stadio comporta il rischio di una recidiva, dunque dovrebbero sottoporsi al monitoraggio anche pazienti con un tumore a rischio basso».

La professoressa Silke Sommer Gillessen, direttore medico e scientifico dello IOSI, specialista in tumori urogenitali. (Stefano Spinelli)

Percorriamo velocemente le possibilità terapeutiche secondo il tipo di tumore diagnosticato e la sua stadiazione, a cominciare da quello localizzato e senza metastasi: «Per tumori davvero a basso rischio (inizialmente dal Canada hanno dimostrato che ve ne sono alcuni non così aggressivi da meritare un intervento radicale e radioterapia), si effettua una sorveglianza attiva e si pianifica l’intervento solo al bisogno. Se il rischio è moderato o alto, allora si procede alla radioterapia e terapia ormonale da 4 mesi a 3 anni, sempre a dipendenza del rischio. Il trattamento radicale è suffragato dall’idea di guarire il paziente e la combinazione delle due terapie (radioterapia e terapia ormonale) riduce notevolmente il numero di recidive». Infine, la professoressa parla della prostatectomia alla quale si può aggiungere la radioterapia «se il rischio

e lo stadio diagnosticato lo esigono, e se vi sono segni di rimanenza di tessuto». Non bisogna trascurare qualche problema che la presa in carico di questo tumore comporta: «La terapia ormonale fa abbassare il testosterone con conseguente abbassamento della libido e deterioramento di funzione erettile, (cosa che anche la radioterapia e la prostatectomia può causare, insieme ad altri disturbi), ma è generalmente transitorio dopo il termine della terapia ormonale». Dopo la prostatectomia, il PSA dovrebbe essere zero: «I pazienti devono sapere che se aumenta, bisogna discutere subito con gli specialisti per controllare, valutare e possibilmente pianificare una terapia che darà una seconda chance di guarigione». Più complicata la situazione di un tumore prostatico che ha già prodotto metastasi, malgrado le novità terapeu-

tiche confortanti anche in questo caso: «Non avremo una guarigione, ma disponiamo di trattamenti innovativi che prolungano la sopravvivenza e migliorano la qualità di vita, perché oggi siamo molto più avanzati di cinque anni or sono e abbiamo nuove combinazioni terapeutiche con altre terapie ormonali, chemio o radioterapia che migliorano la risposta dei pazienti monitorati». Un richiamo alla famigliarità: «Se qualcuno ha parenti di primo grado con tumore prostatico (padre, fratello) corre un rischio circa raddoppiato di svilupparlo a sua volta. Dunque, è importante uno screening urologico a partire dai 40-45 anni». E in merito alla farmacologia per la cura dei tumori prostatici, in un prossimo numero ne parleremo dettagliatamente per rapporto alla ricerca inerente la pandemia.


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Ambiente e Benessere

Un futuro tutto bianco

Motori Il parco veicoli dello Stato Città del Vaticano incensa la nuova auto del Papa

donatagli dalla Toyota: una Mirai a idrogeno Mario Alberto Cucchi SCV 1. Ovvero: Stato Città del Vaticano 1. Questa la targa sfoggiata dall’ultima arrivata: una Mirai tutta bianca. Mercoledì 7 ottobre è entrata una nuova auto nel garage del Papa. Donata dalla Casa Giapponese Toyota, è stata consegnata a Papa Francesco a Roma, nei pressi della Domus Sanctae Marthae, la sua residenza.

Unico neo? I punti di rifornimento: in Italia ne esiste uno soltanto e si trova a Bolzano, 650 km da Roma; e Mirai ha un’autonomia di «soli» 500 km Mirai è uno tra i modelli tecnologicamente più innovativi presenti oggi sul mercato: si tratta di una vettura alimentata a idrogeno. Dal tubo di scappamento emette solo acqua. Mirai, in giapponese significa futuro, è prodotta in serie dal 2014. Ciò nonostante, si tratta di un’auto scarsamente diffusa, soprattutto in Europa. Il motivo? Semplice. Vi sono pochissimi punti dove poter fare rifornimento. Pensate che per fare il pieno alla nuova auto del Papa dovranno recarsi sino a Bolzano dove si trova l’unica, per ora, stazione

di rifornimento di idrogeno in Italia. Considerando che Mirai ha un’autonomia di circa 500 chilometri e che per andare da Roma a Bolzano se ne devono percorrere 650, appare evidente che per fare il pieno dovrà essere trasportata. La vettura è uno dei due esemplari appositamente realizzati da Toyota Motor Corporation per gli spostamenti del Santo Padre in occasione del Suo Viaggio Apostolico a novembre dello scorso anno in Giappone, e precedentemente donati alla Conferenza Episcopale Giapponese. La nuova auto di Papa Francesco è stata completamente modificata rispetto la versione di serie. Lunga 5,1 metri, ha un’altezza di 2,7 metri incluso il tetto. Questo per far sì che il Santo Padre possa stare seduto, oppure anche in piedi. Alle spalle della sua poltrona sono previsti due strapuntini per gli ospiti e al di fuori dell’abitacolo, sopra il paraurti posteriore ci sono due pedane per le guardie del corpo. Non è invece prevista una blindatura. Insomma, deriva dall’auto di serie, ma non è proprio uguale. Toyota Mirai in versione standard è acquistabile in Svizzera a un prezzo di 89’900 franchi. Ma ha senso oggi comprare una vettura a idrogeno? Il «Corriere del Ticino» a fine agosto scriveva: «Entro quest’anno sull’asse San GalloGinevra saranno cinque i distributori di idrogeno aperti, un sesto seguirà a febbraio 2021. Per contro non ci sono

La «papamobile» Mirai; su www.azione.ch si trova una galleria fotografica.

piani ben definiti per implementare l’idrogeno sull’asse del San Gottardo». Ancora pochi, ma la crescita di stazioni di servizio dedicate potrebbe essere rapida. Come funziona un’auto a idrogeno? Partiamo proprio dal rifornimento. Decisamente veloce. Bastano non più di cinque minuti in tutto, incluse le procedure di sicurezza

necessarie. E poi? L’idrogeno viene inviato dal serbatoio alle celle (fuel cell) dove si combina con l’aria: l’incontro di idrogeno e ossigeno genera una corrente elettrica. Il solo prodotto di scarto è vapore acqueo. L’energia così prodotta serve a far funzionare un motore elettrico che consente il movimento al mezzo. Quindi alla fine Toyota Mirai

è un’elettrica che si alimenta con una fonte di energia inesauribile come l’idrogeno. Il vantaggio è quello di poter rifornire in tempi molto rapidi, mentre lo svantaggio attuale è quello di non poter fare il pieno dalla presa di corrente nel garage di casa. Oggi lo sa anche Papa Francesco. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

L’altra Cina Reportage Taiwan mette in discussione

molti stereotipi sui popoli cinesi

Marco Moretti, testo e foto Taiwan produce più della metà dei tablet e dei semiconduttori del mondo, in proporzione ha più industrie hi-tech di qualsiasi altro Stato: Acer, Asus, Htl, Foxconn, Quanta sono solo le più note. Il contrasto tra avvenirismo informatico e tradizione accompagna tutto il mio viaggio in questo Paese poco battuto dal turismo, dove diversi stereotipi su cultura e stile di vita cinesi sono messi in discussione. Nella capitale Taipei, in Dihua Street, sono rapito dai profumi di botteghe di medicina tradizionale cinese, negozi di funghi, zenzero candito e frutta secca, spacci di tè (Taiwan produce il pregiato Oolong). Nel tempio Xiahai City God ragazze in jeans e maglietta accendono incensi agli dèi per trovare l’amore o conservare il loro matrimonio. Su un lato del tempio c’è un ristorante vegetariano, uno dei tanti, dove ci si serve a buffet tra una ventina di piatti di verdura, sei varietà di tofu, riso, zuppa di miso e uova bollite nel tè. Inoltre, Taipei ospita la maggiore collezione d’arte antica cinese al National Palace Museum: dipinti, sculture, porcellane, ceramiche, giade, gioielli, arte calligrafica… mezzo milione di opere di tutte le dinastie cinesi, messe in salvo da Chiang Kai-shek prima della vittoria di Mao. Al padre della patria è dedicato il Chiang Kai-shek Memorial, dove i turisti s’affollano per assistere al cambio della guardia. Pochi minuti a piedi e l’atmosfera muta radicalmente tra Datong e Central Station, con shopping center, fast food, boutique, barbieri gay, centri d’arte contemporanea, ristoranti internazionali e caffetterie che vendono iced coffee e bubble tea a giovani trendy. Una corsa in metropolitana e mi ritrovo sotto il 101, il grattacielo simbolo del boom di Taiwan, dove i negozi espongono marchi di moda, gioielleria, tecnologia, gastronomia, arredamento. Aperto nel 2003 è stato per qualche anno l’edificio più alto del mondo (oltre cinquecento metri). In poche ore Taipei s’è rivelata un

melting pot di genti e culture. All’originaria etnia polinesiana si sono aggiunti quattro secoli fa i cinesi del Fujian, poi ancora sessant’anni di dominio giapponese e dal secondo dopoguerra una cascata di film, cibi, mode, stili di vita e valori americani: l’inglese è largamente parlato e compreso. È un Paese avanzato: per esempio, l’unico Stato asiatico dove sono legali i matrimoni omosessuali. Anche tra la folla di Taipei i taiwanesi non spingono, non sputano, sono gentili, salutano con l’inchino. Amano gli stranieri: appena mi fermo a consultare una cartina qualcuno mi offre aiuto. Ovunque scorgo pulizia, a cominciare dalla diffusa rete di immacolati e attrezzatissimi gabinetti pubblici gratuiti. Per molti aspetti sono agli antipodi di quella Cina che li considera una provincia ribelle e vorrebbe inglobarli. A tavola però tornano perfetti cinesi; anche qui mangiare è il maggiore divertimento. Lo scopro nei mercati notturni. A Shilin, il borgo più formicolante e malfamato di Taipei, le bancarelle vendono tofu puzzolente, frittate di ostriche, zuppe di calamari, gnocchi di carne, sanguinacci, uova di cent’anni fa, gelatine d’agrumi; ma ci sono anche gioco d’azzardo, bordelli e massaggi. Il territorio di Taiwan è più piccolo della Svizzera. Ma gli abitanti sono ben ventiquattro milioni, il secondo Paese del mondo per densità di popolazione dopo il Bangladesh. E tuttavia anche in spazi così ristretti non si rinuncia a una convinta politica ambientalista. Grazie ai treni ad alta velocità che disegnano il periplo dell’isola, raggiungo Hualien, la base per visitare le Gole di Taroko, il più noto parco nazionale. Il bus da Hualien percorre una stradina di montagna, tra tunnel e tornanti, costeggia le acque blu del Liwu e scarica i turisti in piazzole da cui s’ammirano canyon scavati dal fiume tra pareti di marmo. Le foreste intorno ospitano una straordinaria biodiversità (1,5 per cento delle specie viventi): farfalle giganti, cicale, innumerevoli uccelli, tra cui la

Tainan, vecchia casa cinese in legno.

Taipei, Chiang Kai-shek Memorial, cambio della guardia.

Taipei, 101 Bulding (su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica).

colorata gazza locale e le rondini che nidificano nelle grotte. Questo è il parco più accessibile dell’Alishan, la catena montuosa che copre due terzi dell’isola, dominata dal Monte di Giada (3952

metri). Proprio per il suo profilo, disegnato dalle numerose montagne, un tempo Taiwan era chiamata Formosa. La costa sud-est offre onde perfette da cavalcare su una tavola. Lo scopro a

Dulan, insegna di negozio.

Venditore ambulante all’entrata delle Gole di Taroko.

Dulan, piacevole cittadina frequentata da surfisti e da giovani backpacker che indugiano nei suoi ostelli. Poi il treno mi porta sulla costa ovest, a Tainan, ex capitale e più antica città dell’isola. Fu fondata dagli olandesi, che nel Seicento sostituirono i primi colonizzatori portoghesi e vi costruirono la base della loro Compagnia delle Indie orientali: visito l’Anping Fort, dove gli olandesi s’asserragliarono prima d’essere cacciati nel 1661 dai Ming in fuga dalla Cina conquistata dai Qing. Sono però le stradine attorno al tempio Grand Matsu a riportare il viaggiatore in un oriente poetico con antiche case in legno, spettacolari botteghe di tè, mercati che offrono assaggi gratuiti di piatti esotici, ristoranti dove gustare ricette inedite a base di anguilla rossa, crêpe di frutti di mare o grasso pesce latte. La città è disseminata di antichi templi; quello Confuciano è affacciato su un parco che ospita concerti, vicino al mercato dei fiori, pieno di orchidee, e al Great South Gate, porta della città d’epoca Qing. Nel seicentesco tempio di Dongyue – sincretismo tra tao, confucianesimo e buddismo – gli inservienti tirano pugni sulle schiene dei fedeli inginocchiati per scacciare il male dai loro corpi, poi i malcapitati si spostano in un’altra sala decorata con figure di spiriti torturati all’inferno e vomitano in bidoni il maligno. Magia e superstizione sposano fede e speranza. Alla stazione di Tainan, in attesa dell’espresso per tornare a Taipei, il binario è in subbuglio perché il treno è annunciato in ritardo di due minuti; ripartirà con un solo minuto di ritardo per arrivare nella capitale in orario, comunque uno scandalo nella precisa Taiwan. Un Paese rivelazione anche per chi, come me, ha trascorso anni viaggiando da un angolo all’altro dell’Asia.


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Il Simposio Greco

Scelto per voi

Vino nella storia Un «bere insieme» senza strafare ma per discutere, cantare,

fare rituali e filosofeggiare Davide Comoli Gli antichi Greci avevano un profondo culto per il vino e proprio da questo culto nacque il rito del «simposio». Anche se – come già sappiamo – tra le righe dei poemi omerici si beveva dopo il pasto, fu infatti solo nel VI sec. a.C. che l’importanza di questo momento si accrebbe tanto da ritenere necessario creargli un nome in modo da definirlo con un termine particolare. «Simposio» è un lemma greco, si tratta di una parola attestata per la prima volta in testi di Focilide e Alceo e significa «bere insieme». Da qui ha preso forma e con il tempo si è evoluto il nostro modo d’intendere il vino come un momento di socialità. Nel symposion ci s’incontra per il piacere di stare insieme e parlare, par-

lare a ruota libera, di filosofia, arte, politica e scienza, dice un frammento di Focilide: «Giova fra il giro delle coppe, nel simposio starsene a bere e bere conversando». Senz’altro ci si concedeva anche un po’ di gossip, per rendere la conversazione più scoppiettante, ma era nella maggior parte dei casi un chiacchiericcio di classe o se preferite una raffinata maldicenza. Nel symposion non si beveva smodatamente, ma si sorseggiava il vino, e c’è una grande differenza, va detto, tra chi degusta il vino e chi semplicemente lo beve. Il bere vino puro era ritenuto dai Greci una usanza da barbari; nelle Leggi di Platone sta scritto: «Sciti e Traci bevono vino non annacquato e credono di far cosa bella versandoselo sulle vesti».

Cratere a campana con rappresentata una scena del simposio dipinta da Nicia: a un banchetto si divertono al gioco del còttabo (cioè del bicchiere vuoto) mentre una ragazza suona il flauto. Una ghirlanda appesa al muro. Corone di alloro sulle teste. (Dorieo)

Senòfane, nei suoi testi filosofici Intorno alla natura (delle cose) afferma che «Il vino richiede la sua parte di acqua e di conversazione». Non solo il vino puro, ma anche il vino mescolato in parte uguale con acqua, veniva già considerato ubriacante, cioè in grado di stordire. A seconda del tipo di vino o delle preferenze personali, l’acqua veniva riscaldata o raffreddata con la neve, oppure ancora si poteva per diluizione usare acqua di mare. L’acqua doveva essere prevalente, tant’è che si raccomandava una proporzione di tre parti d’acqua e una di vino, sebbene in un frammento di testo del poeta Anacreonte troviamo scritto: «Su portaci ragazzo, una grande coppa per berla in un fiato, presto versa dieci misure d’acqua, cinque di vino per penetrarsi senza oltraggio del furore di Dioniso…». Era quindi usanza fra i convitati eleggere un «simposiarca», cui spettava il compito di fungere da guida nel simposio, dirigendo il servizio del vino, stabilendo le proporzioni della miscela nei vari crateri e decidendo la quantità di vino che ogni convitato doveva bere ad ogni giro. Il symposion era un momento importante nella vita e nella società greca; lo testimonia l’incredibile quantità di manufatti in ceramica che ci sono pervenuti. Il «cratere» che poteva essere di varie forme, era l’oggetto più importante e normalmente troneggiava al centro della tavola, c’erano le olla e l’oinochoe nei quali si serviva il vino; l’olpe e la pelike usate come recipienti da tavola, l’hydria per l’acqua calda o fredda (di rado a temperatura ambiente), i pithos, usati per la conservazione del vino, senza contare i vari kyathos, skyphos, kylix, rhyton, kantharos e il curioso psykter usato per raffreddare la sacra bevanda. Sì, proprio sacra, perché oltre ad avere un profondo valore conviviale, il vino lo si utilizzava nei sacrifici agli dèi. Infatti, nulla veniva intrapreso senza un sacrificio di vino alle loro molteplici divinità. Agli inizi il symposion era fortemente legato a un rito religioso in onore del dio Dioniso, rito ricco di significati

per la vita sociale, una vera e propria cerimonia che avveniva dopo i pasti. Finito il convito serale, la sala veniva ripulita, i commensali si lavavano le mani e sulle mense venivano posti dolci dorati, frutta, miele, formaggi e il luogo veniva deliziato da musiche. I partecipanti avvolgevano le loro teste con una fascia di lana rossa e si ornavano con corone di mirto, e di fiori di edera, la pianta sacra a Dioniso. La poesia e le esecuzioni poetiche erano parte inscindibile dal simposio, così ne parla il poeta Senòfane (VI a.C.). «Il pavimento lustra, mani, tazze pulite. Uno ci pone in capo le ghirlande, un altro tende fiale di balsamo. Il cratere troneggia pieno di serenità. Altro vino promette di non tradirci mai, è in serbo nei boccali, sa di fiore. Ha ciascuno il suo pane biondo, la salda mensa è carica di cacio e miele denso. La casa è avvolta di festa e musica». Il poeta lirico Bacchilide (520450 a.C.) visse a lungo a Siracusa. Fu un grande rivale di Pindaro e dedicò i migliori carmi a Ierone, il tiranno della città sicula, nei quali auspicava per questo momento: «Non lusso di tappeti e ori, ma il canto e il vino dolce di Beozia». All’inizio del simposio tutti i partecipanti eseguivano insieme un canto corale in onore di Apollo: il peana; poi un ramo di mirto passava da mano in mano e chi lo riceveva intonava un canto ispirato a un particolare momento, a una stagione, a un avvenimento o a un sentimento. I partecipanti componevano dei carmi o ripetevano quelli già affermati, e l’accompagnamento musicale era strettamente connesso con i versi. Gli strumenti passavano, trasversalmente da un lato all’altro delle tavole, nelle mani di chi si accingeva a cantare. Il poeta faceva conoscere all’uditorio qualcosa di se stesso. Non più di grandi imprese del passato o di eroi, raccontava, ma di qualcosa del presente e di personale. La presenza della poesia era sentita come un elemento che distingueva il mondo greco da quello barbaro.

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Il Cardo Bianco è un vino prodotto con uve Chardonnay 70% e Merlot vinificate in bianco per il restante 30% dai Fratelli Meroni a Biasca. Qui nelle Valli di Blenio, Riviera e Leventina, la tradizione vitivinicola è radicata nella roccia dei terreni dal forte tenore di tessitura (granito, gneiss), che riducono la terra fine a disposizione delle radici, che con caparbietà simile a quella dei due produttori cercano di penetrare in profondità, alla ricerca delle sostanze nutritive. Siamo di fronte a una «viticoltura eroica di montagna», portata avanti da uomini forti che praticano quest’arte nel tempo libero dal lavoro. I grappoli in queste terre molto spesso si crogiolano al sole, penzolando da pergole sostenute da piloni di granito per evitare di diventare cibo per caprioli e tassi. Il Cardo Bianco si presenta con una veste giallo paglierino, con leggeri riflessi verdognoli, al naso si percepisce una gamma olfattiva giocata dall’intensità delle uve, frutta gialla e tropicale per lo Chardonnay, fiori gialli e mela per il bianco di Merlot: fresco di acidità, è piacevole da bere. Consigliato su un’insalata di mare, salmone affumicato e risotti, noi lo abbiamo provato con dei formaggi locali, gustati in uno di quei simpatici Grotti che si trovano nei villaggi sulle sponde del Brenno, dove cordialità e simpatia sono di casa. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 25.50. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Ogni occasione ha la propria tovaglia Non abbiamo mai parlato di tovaglia, facciamolo. Perché se è vero che conta il gusto, come s’è detto molte volte, d’altro canto, anche «gli occhi vogliono la loro parte» e il portare in tavola una pietanza di alto livello o una di quotidiano consumo, necessita anche una distinzione visiva non solo nella composizione della pietanza stessa, ma anche su dove il piatto sarà posato. Da qui l’importanza della tovaglia. La definizione è semplice: è un telo, con cui si copre la tavola prima di apparecchiarla per i pasti. Solo fra il 1400 e il 1500 l’uso entrò a far parte della vita quotidiana delle classi più agiate. E solo alla fine del 1700 le decorazioni elaborate e sontuose lasciarono il posto a tovaglie bianche, lisce, lunghe fino al pavimento. La scelta della tovaglia è legata all’occasione per cui la si usa. Per le cene formali la tovaglia deve essere classica e di colore neutro, bianco o ecrù. Nel caso di tavole particolarmente eleganti, in genere si usa la fiandra, un tessuto pregiato operato monocolore e prodotto con il lino. Originariamente solo bianca, la fiandra viene oggi prodotta anche in tonalità pastello (raramente in colori brillanti). Comunque, la quasi totalità delle tovaglie oggi sono di cotone. Molto valido è anche il «tessuto non tessuto», un prodotto industriale ottenuto utilizzando fibre disposte a strati o incrociate, unite insieme meccanicamente con adesivi o con processi termici: le fibre, sia naturali sia sintetiche, garantiscono idrorepellenza, resistenza a temperature anche elevate e morbidezza. In alternativa, sono molto usate anche le tovaglie antimacchia: prodotte in tessuto trattato con un finissaggio al silicone, non assorbono liquidi, prevenendo il formarsi di macchie; lavabili in lavatrice a 40 °C e dai colori resistenti, non si restringono, non necessitano di stiratura e sono ideali

anche come sottotovaglie; di contro, il trattamento cui sono sottoposte irrigidisce il tessuto, che assume un aspetto plasticato. Un’alternativa alla tovaglia è costituita dai cosiddetti set all’americana, piccole tovagliette individuali, rettangolari od ovali, di circa 30 x 45 centimetri, realizzate in diversi materiali (stoffa, paglia, bambù, plastica, sughero o carta), il cui utilizzo è però consigliato solo su un tavolo particolarmente bello e in abbinamento con il servizio di piatti. Più utilizzata in cucina o su tavoli all’aperto è la tela cerata, un tessuto ad «armatura tela» (la prima delle armature base dei tessuti, uguale sul diritto e sul rovescio) e riduzione fitta; impregnato per renderlo impermeabile, è realizzato in filati naturali (tra cui cotone, lino e canapa) le cui fibre siano in grado di assorbire i prodotti impermeabilizzanti (cera, catrame e olio di lino, ma anche gomma, silicone e altri prodotti chimici). La tovaglia di carta usa e getta, infine, è indicata solo per risolvere più comodamente i problemi di igiene nelle mense e nella ristorazione. Della stessa forma del piano del tavolo (sia essa rettangolare, quadrata o rotonda), la tovaglia deve però essere di dimensioni maggiori, in modo che i bordi ricadano ai lati di almeno 30 millimetri (arrivando fino al pavimento solo in occasioni particolarmente eleganti, quando si vuole suggerire un tono formale e austero). Sotto la tovaglia deve essere sempre posizionato il mollettone. Sempre pulita e ben stirata, deve essere stesa accuratamente, tenendo conto delle pieghe di stiratura e di eventuali ricami, stemmi o righe lavorate: bisogna disporla in modo che la piega centrale sia in corrispondenza del centro del tavolo ed esattamente in mezzo alle sue gambe, che la parte che ricade sia di egual misura su tutti i lati e che gli angoli della tovaglia si trovino in corrispondenza delle gambe del tavolo. Ovviamente, non è facile, ma…

CSF (come si fa)

Warburg

Allan Bay

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Gastronomia Tra le usanze della buona tavola c’è anche la scelta del modo di apparecchiare

Ho parlato tante volte di trippa, ma forse, se ho archiviato bene tutte le ricette pubblicate, non ancora di quella che amo di più fare, oggi: la trippa con le puntine. Perché questo abbinamento così eterodosso? Per il fatto che la trippa ha un solo difetto: non è ricca di «sapore» di suo, quindi da sempre prende il sapore degli altri ingredienti utilizzati. E tenuto conto che non la mangio tutti i giorni, quando la gusto

preferisco che sia ben saporita, soprattutto con tanti buoni grassi aggiunti. Sulla scelta dell’abbinamento è presto detto: di tutti i grassi animali, non al top ma fra i top cinque c’è quello delle puntine; ecco la ragione dell’abbinamento. Vediamo come si fa. Prendete 2 parti di trippa mista. Tagliatela a pezzi non troppo piccoli, diciamo di 4 x 2 cm, e sciacquatela bene. Portate al bollore abbondante acqua e sbollentate la trippa per 5 minuti – ma se la trippa è buona omettete questo passaggio. Scolatela, mettetela in una casseruola, e unite una parte di puntine di maiale, tagliate a tocchetti. A piacere aggiungete una manciatina di cotenne tagliate a julienne. Unite una parte, s’intende quindi dello stesso peso delle puntine, di verdure miste da minestrone; vanno benissimo quelle

surgelate, magari con dentro un po’ di legumi; prezzemolo a piacere e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua. Quindi coprite a filo di brodo vegetale o acqua. Portate al bollore, poi fatela sobbollire col coperchio che lascia uno spicchio per l’evaporazione, molto a lungo, anche 4 ore. Prima o poi, circa 2 ore da inizio cottura, vedrete che la carne delle puntine si sarà sciolta del tutto e gli ossi saranno belli puliti, comunque proseguite la cottura come piace a voi, unendo poca acqua calda se necessario. Regolate di sale e di pepe, lasciatela intiepidire un attimo e servitela, mettendo nel piatto gli ossi delle puntine, a mo’ di guarnizione. È un grande piattone unico. Chiunque ami la trippa si innamorerà all’istante di questa versione.

Ballando coi gusti Oggi due risotti, fatti con ingredienti surgelati: dei quali non si deve aver paura, spesso sono fin meglio di quelli freschi.

Risotto con fritto di mare

Risotto ai carciofi

Ingredienti per 4 persone: 320 g di riso da risotti · 400 g di misto mare, quello che più vi piace · brodo di pesce · prezzemolo · burro · olio di semi · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 320 g di riso da risotti · 6 carciofi surgelati · 1 cipolla · prezzemolo · brodo vegetale · formaggio grana · burro · sale e pepe.

Tostate il riso in una casseruola senza nulla aggiungere, versate un mestolo di brodo bollente, unite una manciata di prezzemolo e portate il riso a cottura. Alla fine, regolate di sale e di pepe, mantecate con 40 g di burro e fate riposare coperto per 2 minuti. Intanto, a tempo debito, friggete in olio bollente il misto mare nella maniera e per il tempo indicato sulla confezione. Scolatelo, passatelo su carta assorbente da cucina e spolverizzatelo di sale. Se invece dovete stufarlo, nulla cambia. Servite il riso nappato con il misto mare (o con il misto stufato).

Spezzettate e stufate per 10 minuti la cipolla. Cuocete i carciofi come e per il tempo indicato sulla confezione. Prendetene 1 terzo e frullateli con la cipolla. Tenete in caldo. Tostate il riso in una casseruola senza nulla aggiungere, versate un mestolo di brodo bollente, unite i carciofi frullati e poco prezzemolo e portate il riso a cottura. Alla fine, regolate di sale e di pepe, mantecate con 40 g di burro e 4 cucchiai di grana grattugiato e fate riposare coperto per 2 minuti. Servite il riso nappato con i carciofi divisi a metà o in 4 parti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Ambiente e Benessere

Un viaggio nella digestione umana Mostre Al Musée de la main di Losanna, la meccanica della pancia Marco Horat Oramai da anni il Musée de la main di Losanna dedica la sua attenzione all’essere umano da tutti i punti di vista, esplorando, attraverso mostre interattive, i sensi dall’olfatto al tatto, dalla vista all’udito al gusto. Con un approccio antropologico che interseca diversi campi: la società, la medicina, l’arte, la musica, i video, le scienze naturali e quelle umanistiche. Manger, la mécanique du ventre è organizzata in collaborazione con il Museo di storia naturale di Neuchâtel all’origine del progetto espositivo di quest’anno. Come sempre una mostra originale e un po’ provocatoria che non può lasciare indifferenti di fronte alle domande che pone: come fa una mela a trasformarsi in nuove cellule del nostro organismo? Quale percorso compie un boccone di cibo dal suo ingresso nella bocca all’eliminazione finale e con quali straordinarie trasformazioni? Come si nutre e di conseguenza come elimina i suoi escrementi un feto nel grembo materno? I batteri che vivono nell’intestino quale influenza hanno nella nostra vita fisica e morale? Con quali strategie gli esseri viventi affrontano la mancanza di acqua e di nutrimento? Un viaggio lungo il tubo digerente e le cavità annesse per capire i meccanismi fondamentali all’origine della vita stessa dell’essere umano e degli altri animali, dato che ogni organismo vivente è caratterizzato da particolarità anatomiche e funzionali relative al modo di nutrirsi e trasformare il cibo in energia vitale;

basti pensare al complesso sistema digerente dei ruminanti o a quanto sa fare lo stomaco degli uccelli utilizzando sassolini per macinare il cibo da digerire. Mangiare (vegetariani a parte) significa anche trasformare la carne dell’altro nella mia carne e per molti animali, uomo compreso, significa accettare il contrario, come succedeva con il cannibalismo rituale, dove le qualità del defunto passavano ai vivi attraverso il consumo di parti del suo corpo. Non si dice ad esempio che uno «ha cuore» o che «ha fegato»? E di un bambino non si sente ancora oggi dire (fortunatamente solo in senso figurato) «è tanto caro che lo mangerei»? Il percorso della mostra comporta un’immersione del visitatore nell’argomento attraverso postazioni audio e video, nonché le pareti delle varie sale che riproducono, ingrandendo i particolari anatomici, le pareti interne delle varie tappe del processo digestivo dall’esofago allo stomaco (considerato una specie di «sala d’attesa») ai tratti intestinali dove intervengono acidi, microorganismi, enzimi e batteri indispensabili per la nostra sopravvivenza. È lungo questo percorso in cui in definitiva avviene il miracolo della vita. Non si è naturalmente tralasciato il finale della storia e cioè il momento dell’evacuazione attraverso l’ano, con i suoni che la accompagnano, se non proprio un tabù, aspetto quanto meno delicato da proporre in un’esposizione; il capitolo finale è stato chiamato, non senza risvolti psicologici evidenti, «missione compiuta». Questo aspetto viene trattato con rigore scientifico ma al tem-

po stesso con un tocco di ironia in musica grazie a un trio neocastellano chiamato «Les Petits Chanteurs à la Gueule de bois». Lo sapevate ad esempio che gli escrementi umani, composti di acqua, batteri morti, fibre non digerite e altro ancora (comunque a disposizione di altri esseri viventi quali mosche e affini) sono stati divisi sulla Scala di Bristol in sette tipi morfologici, a seconda del tempo di permanenza all’interno dell’inte-

stino, rigorosamente presenti in un’apposita vetrina? Una curiosità per terminare: in mostra si può vedere il caffè oggi più caro al mondo, ancora prodotto in piccole quantità, tratto dagli escrementi di un tipo di civetta ghiotta di bacche della pianta della quale poi espelle, senza digerirlo, il nucleo. Lo avevano scoperto i nativi che lavoravano nelle piantagioni olandesi in Indonesia nel XVIII secolo, ai

quali era proibito portare a casa caffè per uso proprio. Come dire che fatta la legge trovato l’inganno! Dove e quando

Manger, la mécanique du ventre, Losanna, Musée de la main. Orari: ma-ve 12.00-18.00, sa-do 11.00-18.00; lu chiuso. Fino al 15 agosto 2021. museedelamain.ch Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Ambiente e Benessere

La forza del bosco Diversità forestale Percorsi didattici tra galli cedroni

Elia Stampanoni La campagna nazionale «Diversità forestale» dell’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam) invita a vivere la natura e a scoprire i nostri boschi. Con la collaborazione di enti e associazioni attivi sul territorio, anche in Ticino e nel Moesano sono stati creati dei percorsi, itineranti o permanenti, per andare alla ricerca degli abitanti del bosco (vedi articolo su «Azione 38» del 14 settembre 2020). Mentre alcuni sono stati spostati in altre località in vista del periodo invernale, altri diverranno un punto fisso e saranno inseriti tra le attrazioni della regione. Tra questi, i due percorsi mesolcinesi di Soazza e San Bernardino, promossi anche dall’Ufficio foreste e pericoli naturali regione Grigioni centrale e Moesano. Il primo, allestito in collaborazione con la Fondazione paesaggio Mont Grand e il comune di Soazza, si sviluppa nei pressi e nel mezzo dell’affascinante selva castanile. Il luogo di partenza è in località Rolet, raggiungibile a piedi (circa 20 minuti) risalendo dal paese la strada forestale e poi deviando a sinistra. Il tragitto, lungo il quale si possono cercare e scoprire i 14 abitanti della foresta, è di circa un chilometro e lo si percorre in 30-45 minuti (v. mappa interattiva disponibile online; il link in calce all’articolo). Avvistando le sagome in legno rappresentanti animali, piante e altre specie, ma anche scorgendo individui veri, la gita permette di apprezzare il bosco e le recuperate selve castanili di Soazza, come ci conferma Luca Plozza, ingegnere forestale regionale: «Le selve s’estendono

complessivamente su quasi 15 ettari, recuperate grazie a progetti elaborati a partire dal 1998 dal servizio forestale, il quale ha pure partecipato al finanziamento assieme al comune di Soazza e al Fondo svizzero per il paesaggio (Fsp)». L’arrivo dell’itinerario è in località Nosal, da dove rientrare a Soazza dopo la passeggiata. Anche a Soazza il percorso è l’occasione per proporre delle attività collaterali: «Quest’autunno, la Fondazione paesaggio Mont Grand e l’Ufficio foreste e pericoli naturali del Canton Grigioni offrono alle scuole interessate una visita guidata accompagnati da Gea Würsch, che si occupa d’educazione ambientale», aggiunge Plozza, pure segretario della fondazione. Il percorso del San Bernardino si sviluppa invece lungo un itinerario lineare che, partendo in zona Fornas, conduce il visitatore in località Du Lac, dopo circa un chilometro di saliscendi immersi in un soffice bosco di conifere (v. mappa online). È percorribile in 3045 minuti. Allestito grazie alla collaborazione dell’Ente turistico regionale del Moesano e del Comune di Mesocco (di cui San Bernardino è una delle 11 frazioni), l’itinerario permette di scoprire il «Bosch de la Valeten», sfruttando uno splendido sentiero, ricco di passerelle e ponti in legno, che lo percorre. La camminata, un’immersione totale nella natura, transita anche da un’intrigante rovina, nei cui pressi si nasconde la sagoma della lince: «Si tratta della vecchia captazione dell’acquedotto per l’albergo Dülagh, ora trasformato in residenza di vacanza», spiega Eros Savioni, forestale del comune di Mesocco. Lungo i percorsi, tra i vari abitanti raffigurati

Giochi Cruciverba Il dottore alla paziente: «Come si chiama?» – «Maria» – «Quanto pesa?» – «Settantacinque chili» – «Quanti anni ha?» – «Cinquantadue» – «Dica trentatré» … Trova cosa risponde la paziente risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 2, 7, 2, 3, 2, 5, 7) ORIZZONTALI 1. Prende in giro la vita... 6. Il famoso Gigio 9. Superficie circoscritta 10. Un liquore 11. Diva di Hollywood 12. Tuo a Parigi 13. I mariti meno miti 14. Mio a Berlino 15. Cambiare direzione 16. Con questo termina l’intestino retto 17. Percorsi di gara senza penalità 18. Iniziali dell’attore protagonista di Walker Texas Ranger 19. Avverbio di luogo 20. Il cibo cucinato 21. Un figlio di Giacobbe 22. Un Vittorio poeta 23. Vigore, forza 24. A fin di bene... 25. Mezzo greco... Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

sulle sagome in legno, c’è anche il gallo cedrone, una specie fortemente minacciata in Svizzera (e i cui effettivi sono in diminuzione in tutta Europa) di cui né in Mesolcina né in Ticino sono attualmente segnalati individui. La cartina di distribuzione elvetica della Stazione ornitologica di Sempach riporta la sua presenza «solo» nel Vaud occidentale, Oberland bernese, Svitto e nella Svizzera sud-orientale (San Gallo, Appenzello e Grigioni). I galli cedroni sono d’altronde degli animali esigenti, come si può scoprire approfondendo l’argomento sul sito www.diversità-forestale. ch: «Hanno bisogno del bosco per proteggersi, ma anche luoghi dove poter volare». I margini dei boschi, le radure o i terreni paludosi sono delle zone ideali, mentre la presenza dell’uomo può diventare un problema, in particolare in inverno se i galli cedroni sono costretti a scappare precipitosamente, consumando tanta energia da metterne in pericolo la sopravvivenza. I boschi diversificati hanno però un’altra importante prerogativa: sono meglio preparati ai mutamenti climatici. In Ticino i percorsi si trovano a Tesserete, Monteceneri, Lodano, Bellinzona, Monte Verità ad Ascona e Bioggio, con quest’ultime tre località che hanno ripreso in avvicinamento al periodo invernale quelli precedentemente posizionati a Faido, Cevio e sul Lucomagno (altri spostamenti sono previsti in vista della primavera). Alla pari degli altri allestiti nella Mesolcina e in tutta la Svizzera, i tracciati sono anche l’occasione per approfondire o comunque affrontare altre tematiche legate all’ambiente, alla natura e alle foreste. L’Ufam pre-

Elia Stampanoni

e alberi che si adattano ai cambiamenti climatici

senta per esempio gli effetti dei cambiamenti climatici sulle foreste, evidenziando la maggior capacità di un bosco diversificato a convivere con questi sviluppi. In Svizzera, indica il portale, ci sono 124 diversi tipi di bosco: da quelli d’alta montagna con tante conifere fino a quelli specializzati al clima caldo in Ticino. In futuro, con i mutamenti climatici che si ripercuotono anche sugli alberi, le tipologie esistenti sono destinate a modificarsi notevolmente. Lo stress provocato da estati sempre più calde e più secche, così come da inverni con sempre più pioggia anziché neve, determinano un innalzamento delle zone di vegetazione di 500-700 metri. A seconda della regione, sono diverse le specie che definiscono l’aspetto del bosco, dato che ogni pianta predilige un determinato clima e un terreno diverso. Secondo la scheda dell’Ufam, i boschi diversificati sono quindi più importanti che mai, dato che le differenti specie possono adattarsi meglio o peggio alle variazioni del clima. Saranno in particolare necessari più alberi capaci di resistere alla siccità e all’aumento delle temperature e, negli strati più bassi del nostro paese, l’acero di monte, il tiglio selvatico o la farnia hanno queste caratteristiche. Le monocolture sono invece molto vulnerabili e,

proprio a causa delle nuove condizioni climatiche, diventano di conseguenza più sensibili all’influsso di malattie o parassiti: l’abete rosso risulta per esempio spesso indebolito e facile «preda» del bostrico, un coleottero. Se per alcune specie il cambiamento climatico determina nuove opportunità, per altre potrà significare una diminuzione degli effettivi e, dato che molte delle conseguenze sono ancora incerte, è difficile prevedere quali specie vegetali, animali e fungine saranno più rare o più frequenti in futuro. Ma i boschi ben diversificati, conclude l’approfondimento, «sono più resistenti anche a fronte del mutamento delle condizioni climatiche». Una maggiore diversità garantisce di fatto che, nel caso alcune specie dovessero scomparire, altre possano «sostituirle», assumendo così anche gli importanti ruoli garantiti dagli alberi e dalle foreste: territorio di vita per molti animali e vegetali, protezione, fonte di materia prima, luogo di svago e molto altro ancora. Link utili

www.diversità-forestale.ch www.ti.ch/biodiversita-bosco (con mappe degli otto percorsi del Ticino e Moesano).

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1

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10. Crea tante espressioni 11. Proprio della vecchiaia 12. Soprannominato il «Pupone» 13. Occulto, misterioso 14. Acciacco, guaio 15. Possono essere anche temperati... 17. Nome femminile 20. Lo era Ray Charles 21. Ha frutti simili alle more 23. Regione storica della Spagna 26. Simbolo del decagrammo 27. Le iniziali del giornalista e conduttore Sottile 28. Commissario Unico 29. Le iniziali dell’imitatrice Aureli

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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26. La minore delle isole Cicladi 27. Sport che al contrario è un’incognita 28. Gran disordine 30. Lo è l’astragalo 31. Paniere per biade VERTICALI 1. Una consonante 2. Luogo dove si è venuti al mondo 3. Il Paradiso delle Alpi 4. Possessivo inglese 5. Due vocali 6. Lenti, ottusi 7. Le iniziali della Vanoni 8. Spaventevole, disgustosa

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OLÉ! – Motivo per il quale i tori non sono disturbati dal suo colore del drappo: SONO DALTONICI – Li disturba: IL MUOVERSI DEL DRAPPO.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Politica e Economia Un mare di sfide In un’America che ha bocciato Trump, ma aiutato i repubblicani al Congresso, Biden prepara le prime mosse

Vice presidente plus Kamala Harris, figlia di padre giamaicano e madre indiana, viene vista come una sorta di presidente ombra

I latinos votano Trump Dalla crisi economica del 2008, il voto dei latinos si è spostato più a destra e premia i conservatori

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pagina 24 Secondo Henry Kissinger, Biden farà una politica estera moderata e consapevole. (AFP)

Scenari del dopo Trump

Stati Uniti I dossier caldi internazionali che riguardano la superpotenza americana cambieranno orientamento

dopo la nuova elezione presidenziale? Non necessariamente Alfredo Venturi Il presidente Joe Biden, dice Henry Kissinger in un’intervista di Mathias Döpfner del gruppo editoriale Axel Springer, farà una politica estera moderata e consapevole. Tuttavia, avverte il novantatreenne ex segretario di Stato che ebbe il premio Nobel per la pace dopo avere faticosamente ricomposto il pasticcio vietnamita, gli europei dovrebbero frenare il loro entusiasmo per la sconfitta di Donald Trump, perché sono tanti i problemi che restano sul tappeto nelle relazioni euro-americane. Tanti e complessi. Eppure basterebbero gli impegni del successore di Trump in materia di politiche ambientali a giustificare quell’entusiasmo. Biden non ha forse assicurato che fra i primi atti della sua nuova amministrazione ci sarà il ritorno degli Stati Uniti nel gruppo di paesi, in pratica l’intera comunità internazionale, che hanno aderito all’accordo di Parigi sul clima? Non ha inoltre promesso il ripristino delle misure di protezione ambientale a suo tempo promosse da Barack Obama e successivamente annullate da Trump? Infine non ha prospettato un

massiccio piano di investimenti nelle energie alternative, si parla addirittura di duemila miliardi di dollari, che porti gli USA al mitico obiettivo delle zero emissioni di carbonio nel 2050? E poi il successo di Biden significa che l’America esce finalmente dal neoisolazionismo voluto dal suo controverso predecessore, per esempio rilanciando le alleanze tradizionali a cominciare dalla Nato. È vero, ma proprio qui si annida uno dei contenziosi ai quali alludeva Kissinger: gli Stati Uniti vogliono certamente un’alleanza atlantica rilanciata e rinnovata, in grado di affrontare le nuove sfide che si prospettano, ma intendono anche ridiscuterne l’onere finanziario, che vorrebbero più equamente diviso fra gli alleati. Washington continuerà a premere per una più articolata suddivisione delle spese per la difesa. Premerà anche per frenare la propensione europea a non contrastare un attivismo cinese sulla scena mondiale che giudica sempre più pericoloso. C’è poi la complessa questione dei dazi. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha auspicato che l’avvento di Biden riapra le frontiere ai commerci transatlantici, abbattendo le barriere

doganali volute da Trump, e certamente questo accadrà: ma fino a che punto? Bisogna considerare che il nuovo presidente dovrà necessariamente fare i conti con un’agguerrita resistenza interna da parte repubblicana. Infatti la stessa giornata elettorale che lo ha proiettato alla Casa Bianca ha confermato un sostanziale equilibrio parlamentare. I democratici hanno perduto qualche voto alla Camera dei rappresentanti ma potrebbero pareggiare la partita al Senato, dove quattro seggi restano da assegnare. In questo caso diverrà decisivo il voto della vicepresidente Kamala Harris, che a norma di Costituzione guida la Camera alta. La nuova amministrazione sarà in ogni caso condizionata da stretti vincoli politici. Del resto gli ostacoli non vengono soltanto dall’opposizione repubblicana. Le grandi imprese tecnologiche della Silicon Valley, al centro della pressione europea perché onorino con un maggior carico fiscale le loro posizioni egemoniche, sono notoriamente amiche del partito democratico. È dunque prevedibile che almeno per lo specifico comparto dei colossi digitali Biden sarà indotto a non cedere alle richieste dell’Europa,

o quanto meno a negoziare soluzioni di compromesso. Altro contenzioso difficilmente solubile, chiunque sieda alla Casa Bianca, quello che contrappone Airbus e Boeing. In poche parole, certamente l’America di Biden sarà meno ostile all’Europa dell’America di Trump, e in qualche misura l’interscambio commerciale sarà destinato a riavvicinarsi alle dimensioni che aveva prima della discesa in campo dell’amministrazione uscente, ma altrettanto certamente il discorso degli interessi continuerà a prevalere su quello dei valori. L’Europa non si faccia dunque troppe illusioni. C’è un aspetto sul quale sicuramente la nuova presidenza americana avrà un’influenza visibile. Si tratta della Brexit, a proposito della quale il primo ministro britannico Boris Johnson dovrà rinunciare al supporto degli Stati Uniti, che gli era stato calorosamente offerto dal presidente Trump in chiave anti-europea, all’eventualità di un’uscita dall’Unione senza accordo. Con Biden alla presidenza degli Stati Uniti Johnson sarà dunque più motivato, praticamente obbligato, a cercare la difficile intesa con Bruxelles. Il problema è di strettissima urgenza e dunque la sua

soluzione dovrebbe precedere l’insediamento di Biden alla Casa Bianca: stiamo lavorando sodo, dice la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. E ancora: raddoppiamo gli sforzi per raggiungere l’intesa. I tempi sono strettissimi, l’intesa dovrebbe essere raggiunta al più tardi entro il mese. Basterà ad accelerarla l’imminenza del cambio della guardia a Washington? Ci si chiede infine, da questa parte dell’Atlantico, quale effetto potrà avere la transizione alla Casa Bianca su quei movimenti e correnti di pensiero che avevano nel presidente Trump il loro principale punto di riferimento. Per esempio il sovranismo, che nel nome delle autonomie nazionali batteva in breccia lo slancio sovranazionale dell’Unione. O i vari complottismi, che ispirandosi a vaghe visioni predicano l’avvento imminente, anche grazie a una pandemia ostinatamente negata, di un distopico «nuovo ordine mondiale». Come potranno costoro fare a meno di Trump, l’uomo idolatrato dai seguaci di QAnon, complottisti per eccellenza? Per ora si limitano a fare il tifo per la sua manovra improbabile e disperata, volta a ribaltare il risultato del voto.


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Politica e Economia

Vittoria a metà, sfide multiple

Presidenziali USA Joe Biden strappa la Casa Bianca a Trump, ma i democratici perdono terreno

al Congresso, dove decisiva sarà l’elezione suppletiva in Georgia per il Senato – Riuscirà il neo presidente a trovare intese bi-partisan? 7 novembre 2020, Joe Biden è proclamato president elect. (Keystone)

Federico Rampini La campagna elettorale americana ora si prolunga fino al 5 gennaio. Quel giorno si ri-vota in Georgia per assegnare due seggi al Senato. È l’ultima, tenua chance di Joe Biden di avere una maggioranza al Congresso, altrimenti la sua capacità di governare sarà molto limitata. Questo spiega perché quasi tutti i repubblicani fanno quadrato attorno a Donald Trump, difendono l’indifendibile, si rifiutano di riconoscere la vittoria di Biden e avallano la guerriglia legale: hanno bisogno di avere il presidente uscente dalla loro parte per vincere in Georgia. Il seguito di Trump nella base repubblicana è formidabile. Prendere le distanze da lui significa esporsi a vendette terribili. Può farlo un ex candidato alla Casa Bianca come Mitt Romney che non ha nulla da perdere, ma pochi altri.

Le prime grandi sfide saranno la battaglia contro la pandemia e la crisi economica, la lotta ai cambiamenti climatici Calato il polverone, un bilancio dell’elezione va fatto con grande attenzione ai numeri. Quelli finali arrivano dopo settimane. Spesso i primi titoli dei telegiornali erano sbagliati. Biden ha conquistato la Casa Bianca ma questa è l’unica buona notizia per i democratici. Tutto il resto è andato male. Non c’è stata l’avanzata dei democratici al Senato. Hanno perso seggi alla Camera. Hanno perso seggi in molti Parlamenti dei singoli Stati. Quel vasto rigetto della presidenza Trump che i media progressisti raccontavano da quattro anni, era una favola. Trump ha avuto 72 milioni di voti, molti più che nel 2016. Biden ha fatto ancora meglio, lo ha sorpassato di 5 milioni di voti ed è riuscito a strappargli di stretta misura

qualche Stato cruciale. Non è riuscito però a riconquistare in modo significativo la classe operaia, che a maggioranza ha votato ancora per Trump. Non ha riconquistato la Florida dove molti più ispanici hanno votato Trump rispetto al 2016. Le «élite costiere» hanno già pronte due spiegazioni. Gli operai votano Trump perché sono razzisti. Gli ispanici lo votano «contro il proprio interesse». Ci risiamo. Chi non la pensa come noi deve essere moralmente inferiore, portatore di difetti orribili, o idiota. Razzisti, gli operai metalmeccanici del Midwest? Per la verità votarono due volte per Barack Obama. Gli ispanici votano «contro i loro interessi»? Questa affermazione tradisce l’arroganza degli intellettuali. Siamo noi a conoscere i loro veri interessi? Loro sono troppo stupidi e ignoranti? In realtà chi ha origini cubane o venezuelane forse ha sviluppato una legittima diffidenza verso i piani socialisti di Alexandria Ocasio-Cortez. Chi venne dal Messico non simpatizza per una sinistra radicale «no-border» che vuole abbattere le frontiere: l’importanza di una frontiera la capisce chi la traversò per approdare a uno Stato di diritto, dove tribunali e polizia non sono venduti ai narcos. E come spiegare che un nero su cinque abbia votato Trump? Lo slogan «togliamo fondi alla polizia», urlato nei cortei di Black Lives Matter e adottato dai sindaci democratici di New York e Los Angeles, non convince il ceto medio afroamericano che vede aumentare la delinquenza ai propri danni. Un altro dato interessante viene dai referendum locali che in alcuni Stati affiancavano l’elezione presidenziale e legislativa. Ci sono Stati dove ha vinto Trump ma anche la liberalizzazione della marijuana o l’aumento del salario minimo o il diritto di voto per i pregiudicati, tutte riforme progressiste. Anche questo contraddice la caricatura di un’America trumpiana fatta di ignoranti razzisti e bigotti. Perfino nell’ultra-progressista California, che pure ha votato Biden, i repubblicani hanno

conquistato un seggio alla Camera, cosa che non accadeva da tempo. Covid e recessione occuperanno il 90% dell’attenzione e consumeranno il 90% del capitale politico di Joe Biden. Per il resto del mondo ci saranno gesti simbolici immediati come il rientro negli accordi di Parigi e nell’Organizzazione mondiale della sanità, e un giro di consultazioni con i maggiori alleati europei, il Giappone, la Corea del Sud. Per l’ala ambientalista del partito, a colpi di decreti verrà smontato in poche ore il «governo carbonico» di Donald Trump, cancellando gran parte della sua deregulation. Ai sindacati il presidente restituirà per decreto alcuni diritti cancellati nell’ultimo quadriennio, in particolare nel pubblico impiego. Qualche gesto di Biden fin dalla prima giornata nello Studio Ovale andrà a rassicurare le categorie di immigrati più colpiti, con la levata di discriminazioni, la sospensione delle minacce di espulsione, la fine del Muslim Ban (divieto d’ingresso da alcuni paesi islamici). Rialzerà la quota di profughi di guerra e perseguitati che l’America accoglie. Lancerà una nuova campagna nazionale per alleviare la piaga dei senzatetto, un esercito in aumento per effetto di pandemia e depressione economica. Contro il «razzismo sistemico» ci saranno nuove linee guida federali per il Dipartimento di giustizia e le polizie. Fermo restando che da qui al 20 gennaio Trump può ancora intervenire su tutti questi fronti con decreti esecutivi per creare ostacoli e intralci al successore, dal primo pomeriggio del 20 gennaio l’agenda Biden comincerà a materializzarsi con una raffica di decreti esecutivi, un iperattivismo pianificato nei minimi dettagli per rafforzare il segnale di svolta: verso la sua base elettorale e verso il resto del mondo, Europa in testa. Una parte di questi segnali saranno simbolici; i cambiamenti più profondi saranno anche i più difficili da realizzare. Con uno dei primi decreti il neopresidente costituirà una nuova task

force per la pandemia, sarà un’authority «che opera nel rispetto della scienza», ed anche con una responsabilità operativa precisa: coordinamento e vigilanza federale su tamponi e tracciamento. Inoltre ci sarà un «comandante capo della catena logistica e produttiva», per mettere efficienza e ordine nel settore degli apparecchi sanitari, forniture di emergenza agli ospedali, flussi di medicinali. Una vera e propria «economia di guerra» sotto la regia della Casa Bianca, che l’entourage di Biden paragona a quel che fece Franklin Roosevelt per sostenere la produzione bellica all’inizio della seconda guerra mondiale. Questa task force di alto livello sarà pronta a funzionare come infrastruttura e cabina di regìa non appena arriveranno i primi vaccini, per organizzarne la distribuzione nazionale a gran velocità, nel rispetto delle gerarchie di priorità (anzitutto al personale medico, ai soggetti a rischio, agli anziani). Biden vuole proiettare all’esterno l’immagine di una svolta rapida e radicale nell’approccio alla pandemia, ma al di là delle apparenze non tutto cambierà. Sul coronavirus il federalismo fa sì che molto dipende dai governatori, però la Casa Bianca può avere un utile ruolo di coordinamento. Biden deve stare attento a non mettersi subito in rotta di collisione con i governatori repubblicani e l’elettorato di Trump, per esempio con l’obbligo federale di mettere la maschera (di dubbia costituzionalità?). C’è il problema della sanità privata, che tuttavia ha dimostrato di non essere un ostacolo insormontabile: con opportuni accordi tra Stati, ospedali e assicurazioni, sulla base di nuovi finanziamenti già attivati da Trump le cure del Covid sono diventate in gran parte gratuite da diversi mesi. L’economia è il secondo terreno di guerra su cui Biden si gioca tutto. Per lui Covid e depressione economica sono una cosa sola: «Non usciamo dalla crisi se non abbiamo sconfitto la pandemia». Tuttavia non può esserci un prima e un dopo. 11 milioni di disoc-

cupati attendono risposte immediate. L’economia si sta già riprendendo sotto Trump: il terzo trimestre ha segnato un rimbalzo del Pil del +30%, il tasso di disoccupazione è già sceso al 7% dimezzandosi rispetto al picco massimo raggiunto all’inizio dell’estate. Il problema è la rete di protezione per i più deboli. Molti aiuti ai senza lavoro sono scaduti. Qui entriamo su quel terreno dove Biden deve sfoderare tutta la sua abilità e l’antica esperienza di un politico di lungo corso. Quando si tratta di politica di bilancio, nuove manovre di spesa pubblica, il Congresso è sovrano e il presidente può al massimo suggerire, proporre, mediare e stimolare. Urge trovare un accordo con i repubblicani al Senato, finché conservano la maggioranza. Questo rinvia agli equilibri politici molto precari usciti dalle urne. Ci sarà mai una «luna di miele» in cui questo presidente potrà contare su qualche appoggio bipartisan? I democratici, guidati dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, ancora prima delle elezioni avevano tentato di varare una maxi-manovra (la quarta) da duemila miliardi di dollari. Il Senato sotto la regìa del capogruppo repubblicano Mitch McConnell aveva bloccato quel piano. Per i repubblicani era troppo generoso di sussidi ai disoccupati e di trasferimenti agli Stati (sottinteso: a Stati come California e New York, governati dalla sinistra e prodighi di spese sociali). Qui si entra sull’altro terreno minato per Biden. Il 46esimo presidente si era meritato una fama di grande negoziatore, capace di cucire la tela di accordi con i repubblicani. In cuor suo è un moderato, un centrista. La sua storia indica che Biden è più a suo agio nei negoziati con l’ala ragionevole del Grand Old Party che con Alexandria OcasioCortez. Però il partito repubblicano è cambiato molto, e dovrà vedersela con l’influenza ingombrante di Trump. Inoltre Biden dovrà evitare che la «raffica dei decreti» delle prime ore funga da drappo rosso che eccita l’opposizione a fare un ostruzionismo a oltranza.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Politica e Economia Kamala Harris, figlia di padre giamaicano e madre indiana. (Keystone)

Una vittoria difficile da gestire Elezioni USA Per i democratici si tratta

ora di trovare un accordo tra le varie anime che convivono nel partito

Daniele Raineri

Il presidente ombra

Ritratto Per gli analisti il ruolo di Kamala Harris alla Casa Bianca

pare già oggi molto più di quello di una vice Francesca Marino «Sono la prima, ma non sarò certo l’ultima. Perché ogni bambina che stasera è davanti al televisore vede chiaramente che questo è il paese delle possibilità». Così, dando un seguito ideale al discorso fatto quattro anni fa da Hillary Clinton per accettare la sconfitta alle elezioni presidenziali, Kamala Harris, neo-eletta vice presidente degli Stati Uniti d’America, commentava la sua vittoria. Evocando le bimbe d’America che, per la prima volta, vedono concretizzarsi il sogno di una di loro. L’ormai consunto ma sempre vivo sogno americano in cui, proprio come in un film, una bambina con radici afro-americane e asiatiche figlia di immigranti può diventare vice presidente e un giorno anche, perché no, presidente. E poco importa, nella retorica di stampo holliwoodyano che accompagna (quasi) sempre l’elezione di un presidente americano che rompa uno qualunque dei molti e rigidi schemi di cui la società statunitense è provvista, che la favola della bimba di colore figlia di immigranti non sia del tutto reale. Poco importa che i genitori di Kamala siano arrivati in America non attraverso il deserto ma con un’ammissione all’università di Berkeley, che siano entrambi professionisti prestigiosi e che Harris abbia frequentato alcune tra le migliori scuole del paese. Il sogno americano ha le sue regole, e la realtà ha molto meno appeal della fantasia. Definita da Obama (costretto poi a rimangiarsi la dichiarazione perché «sessista») «il più bel procuratore distrettuale d’America» Harris è difatti sotto ogni aspetto un membro dell’estabilishment. Ha alle spalle una carriera politica di tutto rispetto e ha infranto uno dietro l’altro una lunga serie di soffitti di cristallo. È molto vicina agli Obama, era molto amica del figlio di Joe Biden e sua sorella Maya ha curato quattro anni fa la campagna presidenziale di Hillary Clinton. Figlia di un economista giamaicano e di una ricercatrice oncologica di Chennai, Kamala si è sempre definita «una nera americana». Ricor-

dandosi delle radici indiane, dicono a Delhi, soltanto nel momento in cui è stata scelta come vice di Biden e aveva bisogno del voto degli asiatici. Si era presentata alle primarie come candidata alla presidenza, ma la sua campagna elettorale è stata un fiasco: ritenuta non abbastanza progressista dalla sinistra estrema e troppo di sinistra dai moderati, sembrava non avere più speranze fino a che è stata «ripescata» da Biden. Una scelta strategica che ha pagato i suoi dividendi in termini di voti. Kamala aveva difatti tutte le carte in regola per fare da contraltare a Biden: è donna, di colore, con radici asiatiche. E le debolezze che avevano pesato nella sua campagna sono diventate in un diverso contesto altrettanti punti di forza. La Harris piace alla sinistra estrema (che invece ha votato Biden a denti stretti) perché è donna, per le sue posizioni in materia di aborto, per il contributo dato al movimento MeToo nel mettere alla gogna il senatore Kavanaugh e per il suo sostegno al movimento Black Lives Matter. Ma è gradita anche ai più moderati per i suoi contatti nel gotha del partito e per il sostegno dato, nei giorni da procuratore, alla polizia e ad alcuni tycoon nei guai, oltre che per la sua difesa strenua di legge e ordine. Al netto della retorica, però, e della sacrosanta celebrazione del fatto che una donna sia entrata per la prima volta alla Casa Bianca da vice-presidente, la vittoria della Harris crea non pochi problemi politici tra gli stessi democratici. Sono in molti a ritenere difatti che Biden, candidando Kamala, abbia firmato una specie di patto col diavolo. È stata Kamala difatti, e non Biden, a incassare sostegno e voti di quanti ritenevano Biden inaccettabile come candidato democratico. E cioè, i voti dei sostenitori di Bernie Sanders ed Elisabeth Warren, e i fan della cosidetta Squad, la squadra formata da quattro delle deputate più gettonate dai giovani democratici: Alessandra OcasioCortez, Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Ayanna Pressley. Che adesso reclamano, come si dice, la loro libbra di carne. Secondo molti analisti, Biden è

destinato difatti ad essere una specie di presidente-ombra manovrato da remoto dall’ala più estrema del suo partito. Un presidente anziano, di salute (si dice) precaria e destinato a essere sostituito quanto prima da Kamala. La Squad, via Twitter, a mezzo stampa e per lettera, ha già cominciato a fare pressione su Biden perché la sua squadra di governo sia composta da membri della sinistra estrema e perché vi trovino posto sia Sanders che la Warren: le cui istanze di giustizia sociale, di welfare e di green deal, portate avanti dalla Ocasio-Cortez, sono sacrosante e condivisibili da una vasta maggioranza. Meno condivisibili, e destinate a creare non poco scompiglio, sono invece le istanze di individui come Ilhan Omar. Una signora che ha pubblicamente definito l’11 settembre soltanto «qualcosa fatto da qualcuno», che nega di fatto l’esistenza di estremisti islamici gridando all’islamofobia di fronte a ogni critica; che è pesantemente compromessa con il presidente turco Erdogan e con la dirigenza del Qatar da cui ha preso varie mazzette e che porta avanti un’agenda di stampo islamista benedetta dai suddetti signori e dal Pakistan. O le istanze di Rashida Tlaib che, di orgini palestinesi, ha messo in chiaro, ad esempio, che non gradisce affatto l’Abraham Agreement, lo storico accordo di recente firmato tra Israele e alcuni Stati arabi con la benedizione dell’amministrazione Trump. Signore che criticano Obama per essere troppo moderato, se non peggio, tanto per capirsi. E se Biden, anziano e (dicono) malato ha giurato di essere il presidente di tutti, la Squad che sgomita alle spalle di Kamala non ha alcuna intenzione di fare sconti all’agenda, che definiscono «progressista e liberale», improntata alla forma più astrusa e deleteria di politically correct a oltranza. E rischiano, in un paese spaccato a metà dal risultato elettorale e da questioni ideologiche sempre più polarizzate ed estreme, di far pagare il «politically correct» agli elettori altrettanto caro della follia egocentrica e del delirio di onnipotenza di Donald Trump.

La resa dei conti all’interno del partito democratico americano è cominciata lo stesso giorno della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali, sabato 7 novembre. Non è una metafora. Quel giorno Alexandria Ocasio-Cortez, il volto più famoso dell’ala più radicale dei democratici, ha dato un’intervista di quasi un’ora al «New York Times», il giornale americano più letto del pianeta, per segnalare che la tregua con i moderati era finita. Per mesi lei e gli altri che come lei presidiano le posizioni più a sinistra avevano fatto finta di non esistere e hanno tenuto la testa bassa per non spaventare gli elettori. Non si poteva rischiare di ripetere il 2016, quando secondo molti commentatori la lotta prolungata fra Hillary Clinton e il senatore Bernie Sanders – molto più a sinistra di lei – aveva favorito la vittoria a sorpresa di Donald Trump e così nel 2020 all’interno dei democratici era stato siglato un compromesso discreto: niente guerriglie fratricide almeno in campagna elettorale, altrimenti vince di nuovo il candidato degli altri. «Fool me once shame on you, fool me twice shame on me», è il detto americano: se mi freghi due volte di seguito allora è colpa mia. Non potevano permettersi un doppio mandato di Trump. Adesso che la possibilità del doppio mandato di Trump non esiste più, se non nella fantasia dei trumpiani, i democratici non hanno più motivo di trattenersi. E si vede. I moderati del partito rimproverano all’ala radicale l’atteggiamento controproducente, se non proprio suicida. Dicono che questo loro insistere su posizioni troppo estreme allontana gli elettori americani, che sono pragmatici, centristi e non vedono di buon occhio le novità. James Clyburn, il deputato afroamericano con più esperienza alla Camera, è furioso e dice: «Basta con gli slogan. Gli slogan uccidono le persone. Gli slogan distruggono i movimenti». Il suo bersaglio è «defund the police!», togliere i fondi alla polizia, che è una richiesta sentita molto spesso durante l’estate quando in tutto il paese molti americani sono scesi nelle strade per protestare contro la brutalità della polizia nei confronti degli afroamericani. Alcuni tra i manifestanti dicevano «Abolire la polizia», altri dicevano «togliere i fondi alla polizia», il sindaco democratico di Minneapolis fu cacciato dalla piazza perché si rifiutò di garantire che avrebbe tolto i fondi al dipartimento di polizia. Era diventato un test di purezza: se non acconsenti, allora vuol dire che non sei affidabile. Clyburn, che è afroamericano, dice che questo tipo di ricatti sono una

stupidaggine e che sono costati alcuni seggi al partito democratico, perché per quanto siano seducenti nelle piazze poi non funzionano con il grosso dell’elettorato – che vuole la polizia. «Quando chiedi a qualcuno: perché vuoi togliere i fondi alla polizia quello di solito risponde: non è quello che intendevo, adesso ti spiego meglio. Ma in politica il momento in cui devi spiegare meglio cosa intendevi è il momento in cui cominci a perdere», continua Clyburn. Del resto l’ala radicale del partito democratico deve fare i conti con la realtà: alle primarie si sono presentati candidati molto più giovani, arrabbiati e a sinistra di Joe Biden, ma si sono sfasciati contro l’indifferenza dell’elettorato democratico. Quello che funziona su Twitter e nelle piazze non funziona quando è il momento di contare i voti. E infatti Biden aveva buon gioco durante la campagna a rispondere che lui non era per nulla «socialista»: «Io sono quello che i socialisti li ha sconfitti», diceva. E anche così non è bastato perché molti latinos che in teoria non dovrebbero sopportare Trump lo hanno votato lo stesso pur di non votare «a sinistra». Dall’altra parte Ocasio-Cortez, che esercita un carisma irresistibile sui progressisti, il senatore Bernie Sanders, che controlla un pacchetto enorme di voti popolari, e gli altri dicono che i seggi persi dal partito non sono colpa delle idee, ma del modo sciatto e obsoleto di fare campagna elettorale dei democratici. «Se spendi duemila dollari su facebook durante la campagna invece che duecentomila», dice la giovane deputata, allora vuol dire che non hai capito nulla di come funziona adesso la politica e dare la colpa a noi è senza senso. L’ala radicale accusa gli altri di essere «corporate democrats», democratici che fanno gli interessi delle grandi aziende, e di non voler spaventare gli elettori trumpiani – e questo, dicono, è l’opposto di quello che gli americani ci hanno chiesto con il loro voto. Pensano a temi come la copertura sanitaria pubblica e universale e la trasformazione profonda dell’economia per rallentare il climate change. Il problema, per entrambe le fazioni dei democratici, è che le elezioni non si sono ancora chiuse. Il 5 gennaio ci saranno i ballottaggi per il Senato in Georgia e sono cruciali perché decideranno chi avrà la maggioranza. Se vincono i repubblicani, potranno ostacolare le leggi dell’Amministrazione Biden. Se vincono i democratici cadono tutti gli ostacoli: avranno allo stesso tempo il controllo della Casa Bianca e del Congresso. Ma se cominciano a litigare di nuovo quest’occasione nei prossimi due mesi potrebbe sfuggire loro dalle mani.

Alexandria Ocasio-Cortez, una delle voci più radicali tra i dem. (Keystone)


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Politica e Economia

«Trump, il candidato del proletariato»

Intervista Oltre agli operai bianchi, il presidente ha conquistato

anche l’appoggio in massa degli immigrati latinos, secondo l’analisi del professore statunitense Duran Barba

Angela Nocioni «Nella corsa alla Casa Bianca ha perso il candidato del proletariato. Donald Trump il miliardario questo era, non so se in Europa l’abbiate capito». L’analisi è di Duran Barba. Docente alla George Washington University, mago del marketing elettorale dai Caraibi alla Patagonia, Barba ha lavorato negli ultimi mesi per racimolare voti preziosi dei latinos negli Stati Uniti in favore di Biden. Senza riuscirci. Gli immigrati di origine latina hanno votato in massa per Donald Trump. Regalandogli punti percentuali in alcuni Swing States, innanzitutto in Florida. Ma esiste un voto latino liberal negli Stati Uniti o gli immigrati dal sud votano davvero quasi tutti a destra?

A parte il voto politicissimo dei cubani, dei venezuelani e in parte dei colombiani residenti in Florida, i latinos sparsi per gli States sono di destra secondo i canoni politici europei. Gli immigrati messicani tradizionalmente votano a destra. E i latinos residenti nella costa ovest e negli Stati centrali dell’America rurale sono iperconservatori. Non c’è modo di spostare il loro voto a sinistra. Trump dice ai latinos: siete brutti, sporchi, e pericolosi. E loro lo votano in massa. Perché?

Perché i suoi insulti fanno parte dello show, non offendono la sua base. Dieci, quindici anni fa, ancora una parte consistente dei latinos votava liberal, Bill Clinton lo votarono in moltissimi, ma con la crisi economica non più. Hanno paura di perdere quel che hanno e votano a destra.

Quindi la politica di Trump economicamente li ha beneficiati?

I piccoli imprenditori immigrati del sud ritengono di sì. E comunque la retorica antitasse fa presa su chi di loro ha piccole aziende di servizi, e molti ce l’hanno.

E la propaganda trumpiana sul muro con il Messico? Piace anche quella ai latinos?

La maggior parte di loro, specialmente quelli di seconda generazione, si sente statunitense, non ospite. O ama pensarsi tale, seppur con una identità fortemente legata alla comunità d’origine. E la crisi ha spazzato via ogni remora. I latinos non vogliono altri latinos tra i piedi. Hanno paura che gli portino via il lavoro. I latinos che vivono in California poi, un mondo in un’altra orbita ma dove c’è una forte componente immigrata asiatica, sono fortemente razzisti con gli asiatici. Solo chi ha bisogno di ricongiungimenti familiari è contrario al muro.

In Florida invece ha funzionato la favola che Biden fosse una minaccia socialista?

Quello è stato un voto super politico. I cubani e i venezuelani (ci sono centomila venezuelani in Florida) hanno un pensiero fisso: odiano la famiglia Castro e odiano Maduro. Non pensano ad altro in politica che a farla pagare a quelli che li hanno fatti scappare da casa loro. È bastato a Trump negli ultimi quindici giorni di campagna mitragliarli di stupidaggini sulle intenzioni dei dem di trasformare la Florida in un sistema socialista. Ma l’avrebbero votato comunque, sono tradizionalmente repubblicani i latinos della Florida. Il movimento Black Lives Matter ha avuto un impatto sulle elezioni?

No, perché i posti nei quali ha spostato percentuali di voto anche grosse erano comunque già saldamente in mano ai dem.

Statunitensi di origine latina dicono di essere stati oggetto di una campagna superficiale e grottesca da parte dem e da parte repubblicana. Dicono che i latinos sono considerati dalla propaganda rozzamente un insieme indistinto, come se fossero tutti rancheros messicani. Gli sono arrivate lettere ridicole da parte dei due candidati, con contenuti standardizzati e fatti male. A Biden che ha vinto per un soffio quei voti sarebbero serviti, avrà mica sbagliato qualcosa nella sua campagna?

Io credo di no, che non fosse possibile captare quei voti trumpiani. Trump è un candidato difficile da battere da sinistra perché è il candidato del proletariato. Esprime le esigenze di molti americani che sono stati protagonisti delle due prime rivoluzioni industriali, danneggiati dalla terza, che si oppongono rabbiosamente all’establishment. Le smargiassate bugiarde di Trump fanno parte di un reality che gli ha assicurato i voti di questa grande fascia sociale di espulsi dal mondo moderno. Non abbastanza voti da farlo vincere di nuovo, ma quasi. Quando lui decide di entrare in un tempio battista e subito dopo in una chiesa cattolica provocando la condanna dei vescovi delle due religioni fa un numero che funziona perché normalmente quando un candidato va in una chiesa cerca i voti di quei credenti e si mette prima d’accordo con le autorità ecclesiastiche. Ma non era questo che cercava Trump. Quello che Trump cercava era infastidire e scandalizzare la società beneducata, inclusi i vescovi. La stessa cosa è accaduta quando lui, omofobo, si è messo a ballare una musichetta considerata da alcuni un inno gay. Così come quando lui, costantemente sprezzante nei confronti degli afroamericani, si è fatto una foto con un guanto nero simbolo degli atleti delle Black Panthers. Comportamenti che divertono la sua base. Questa volta, come quattro anni fa, gli intellettuali, la maggior parte degli artisti, le università e i principali mezzi di comunicazione hanno combattuto contro Trump. Ma rappresentano i soggetti di successo di una modernità in ascesa, la stessa modernità e lo stesso successo che indispettisce moltissimi operai e uomini bianchi poco educati del rust belt, la cintura industriale decaduta con la deindustrializzazione, che si sentono minacciati personalmente dalla robotizzazione, dall’intelligenza artificiale e dalla globalizzazione. Pittsburgh, Milwaukee, Chicago, Gary, Cleveland, Buffalo, Detroit sono stati il centro dell’industria siderurgica. Le

Dopo la crisi del 2008, il voto dei latinos si è spostato più a destra. (Keystone)

conseguenze sociali e culturali della deindustrializzazione e del declino della manifattura che hanno convertito questo cinturone industriale in un luogo di fantasmi sono state enormi per molte persone: perdita della sicurezza di sé, deterioramento dell’educazione da offrire ai figli e sensazione di precarietà, di esclusione e di rabbia. Alcuni dei centri del boom delle manifatture sono collassati. Cleveland, Detroit, Buffalo e Pittsburgh hanno perso quasi 45% dei loro abitanti. Queste persone non sono riuscite a riciclarsi nelle industrie emergenti, non servono nella nanotecnologia, nella biotecnologia oppure nelle imprese che si sono sviluppate per esempio nell’ovest, in luoghi come la Silicon Valley con un livello di cultura media della popolazione ben più alto. Per questa ragione il discorso di Trump ha avuto una presa fortissima tra gli operai che non possono integrarsi nella terza rivoluzione industriale. I bianchi disoccupati poveri hanno permesso a Trump di fare un ottimo risultato nel 2016. Trump è stato il candidato del proletariato allora e lo è tornato ad essere il 3 novembre. Senza pagare pegno per aver dalla sua centomila uomini (centomila!) pesantemente armati convinti di poter imporre con la forza il loro delirio di White power. Facciamo due conti?

Nel 2016 Trump ha vinto grazie a loro, grazie a pochi voti che gli hanno dato i 55 delegati con cui è arrivato alla Casa

Bianca: nel Michigan per 47,5% contro 47,3%, in Pennsylvania per 48,58% a 47,86%, nel Wisconsin per 47,2% a 46,45%. Il 3 novembre si è ripetuto il quasi pareggio con piccoli cambiamenti che stavolta hanno dato la maggioranza a Biden: nel Michigan per 47,9 a 50,6. In Pennsylvania per 49,3 a 49,5, nel Wisconsin per 48,9 a 49,6. Crede che tenterà di impugnare il risultato o considera parte anche quell’uscita parte dello show?

Il suo esercito di avvocati è abituato a ricorrere nei tribunali e forse finirà per andare davvero alla Corte per tentare di annullare il conteggio dei voti postali, ma io credo che gli Stati Uniti possano contare su magistrati che si attengono ai codici e che non sono vincolati così fortemente a calcoli politici. Soprattutto io credo che nel partito repubblicano Trump non abbia più appoggi, non rappresenta i valori di quel partito. Così come non ha più grandi amici nell’establishment. Lui quando ha perso il potere ha perso tutto. Nessuno dei grandi dirigenti repubblicani, come nessuno dei grandi poteri statunitensi, lo accompagnerà in un’avventura giudiziaria. Il problema serio di Biden è che ora si trova ad essere presidente di un Paese diviso che deve riuscire nel miracolo di far sì che la quarta rivoluzione industriale ormai alle porte recuperi, dio sa come, quella massa di individui già sbattuti fuori dalla terza. Auguri... Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

«Chiedete la parità di salario»

Intervista Le donne ricevono fino al 10% in meno di pensione AVS e addirittura quasi il 50% in meno di rendita

di cassa pensione rispetto agli uomini. Jeannette Schaller, responsabile pianificazione finanziaria di Banca Migros, ne spiega i motivi e le contromisure per evitare o limitare una lacuna previdenziale

Benita Vogel

Rendita AVS uomo Rendita AVS donna fino a –10%

Talvolta le donne ricevono dall’AVS o dal secondo pilastro molte meno prestazioni degli uomini (v. scheda). Com’è possibile una cosa del genere al giorno d’oggi, nel 2020?

È stupefacente. In questo campo siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. Posso spiegarmelo solo con la lentezza del nostro sistema politico. D’altronde, c’è voluto molto tempo prima che la Svizzera introducesse il suffragio femminile e l’assicurazione maternità. Il nostro sistema previdenziale non è proprio concepito per le donne…

Rendita CP uomo Rendita CP donna quasi –50%

Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros.

Non c’era ancora bisogno che lo fosse, quando l’AVS fu introdotta oltre 70 anni fa. All’epoca l’uomo lavorava a tempo pieno e con un livello salariale relativamente alto. La donna restava a casa e dipendeva finanziariamente da lui. Oggi un sistema orientato su un’elevata attività lavorativa è inadeguato, quando non addirittura ostacolante. E non solo per via delle donne. Infatti, sempre più uomini lavorano a tempo parziale o come casalinghi e sono altrettanto svantaggiati.

gli assicurati con salari bassi. Un altro grande beneficio si avrebbe se, nel caso di più lavori a tempo parziale, la deduzione di coordinamento non fosse detratta da ogni singola attività parttime, ma dalla somma di tutte. Così facendo, gli interessati avrebbero la possibilità di essere inclusi in una cassa pensione. Avere un secondo pilastro è importante, perché con la sola AVS non si riesce a vivere, poiché copre soltanto una piccola parte del sostentamento.

Ci sono già stati adeguamenti per quanto riguarda l’AVS. Con lo splitting, oggi la donna riceve una propria rendita di vecchiaia. E con gli accrediti per compiti educativi viene calcolato un reddito fittizio per la cura dei figli, benché anche con esso non si raggiunga la rendita massima. Per migliorare realmente la condizione femminile o dei lavoratori part-time c’è bisogno di più opportunità per poter fare una carriera a tempo parziale, ma anche la volontà di continuare a svolgere mansioni di responsabilità con relativi orari di lavoro e livelli salariali. Comunque, secondo me c’è molto più bisogno di agire sul secondo pilastro.

Al momento le casse pensione sono collegate a un’attività lucrativa. Tuttavia, come per l’AVS, vi si potrebbe inserire un reddito fittizio per il lavoro svolto a casa. È tutta una questione di fattibilità finanziaria. Una soluzione del genere, però, potrebbe anche avere l’effetto che le donne non vogliano più lavorare. Preferirei quindi creare nuove possibilità di previdenza privata, come ad esempio che le donne possano versare importi maggiori nel terzo pilastro dopo essere tornate al lavoro al termine del congedo

Il lavoro parziale e i congedi parentali non dovrebbero più essere penalizzati. Le riforme sono davvero necessarie. Una leva importante è costituita dalla deduzione di coordinamento (v. a lato). Più è elevata, più il salario assicurato e la rendita sono ridotti. Il che ha effetti gravi soprattutto nel segmento dei salari bassi o dei lavoratori part-time.

Le rendite AVS percepite dalle donne sono tra il 5 e il 10% inferiori a quelle dei maschi. Le cause: lavoro parttime, congedi maternità, aspettativa di vita più elevata e disparità salariale. Che le differenze non siano maggiori è dovuto alla ridistribuzione tra redditi alti e bassi, agli accrediti educativi e allo splitting. Le rendite di cassa pensione delle donne sono molto più basse: mediamente qui il divario previdenziale si attesta

Come si può porre rimedio agli svantaggi per le donne?

Quali riforme della cassa pensione sarebbero auspicabili?

Si dovrebbe quindi abolire la deduzione di coordinamento?

È una possibilità. Sicuramente si dovrebbe ridurla sensibilmente per

Che ne pensa di una cassa pensione anche per le casalinghe e i casalinghi?

Per contrastare il divario pensionistico è fondamentale restare attive professionalmente e risparmiare per il secondo pilastro. (iStockphoto, zVg)

maternità. Sarebbe anche utile rendere più flessibile l’età pensionabile, in modo che le donne possano versare i contributi per lo stesso periodo degli uomini. Oggi, per il secondo e il terzo pilastro, l’età di pensionamento più bassa rappresenta uno svantaggio. Con ciò non voglio dire che le donne debbano lavorare fino a 70 anni, ma semplicemente che la durata va parificata. Cosa devono fare le donne per evitare le lacune previdenziali?

Ancora oggi, durante i colloqui di consulenza, sento spesso affermazioni del tipo: «Della previdenza si occupa mio marito. Mi fido di lui». Le interessate riducono il proprio tempo di lavoro o smettono completamente di lavorare senza essere coscienti delle conseguenze. Che diventano tragiche se non si fa

Pensioni femminili più basse: ecco perché a quasi il 50%. Le cause: redditi bassi, deduzione di coordinamento, età pensionabile inferiore a quella degli uomini (che si ripercuote positivamente sull’AVS). Le donne impiegate in settori con stipendi bassi sono svantaggiate, perché di norma in questo segmento salariale le casse pensione allineano i loro piani previdenziali molto vicino ai requisiti minimi della LPP e solo raramente contemplano prestazioni volontarie.

parte di alcuna cassa pensione. Cosa succede se un giorno si dovesse divorziare? Può diventare molto difficile dal punto di vista finanziario. In caso di divorzio, il coniuge riceve la metà degli averi di cassa pensione accantonati durante il matrimonio. Tuttavia, il reinserimento professionale e la conseguente costituzione di un’adeguata previdenza pensionistica, spesso non sono così facili. C’è quindi bisogno che le donne siano finalmente consapevoli e sappiano che una propria previdenza è importante. Purtroppo la consapevolezza da sola non basta.

No, ma acquisire le conoscenze necessarie o elaborare un piano finanziario con la banca, non fa mai male. Ad ogni madre consiglierei di rimanere attiva professionalmente il più a lungo possibile. Un’altra cosa importante: chiedere modelli di lavoro flessibili e posizioni di responsabilità e, soprattutto, parità di salario, affinché le perdite non siano troppo drastiche. Quando i figli sono più grandi, vale la pena aumentare il tempo di lavoro e incrementare o strutturare la previdenza in modo mirato, ad esempio riscattando quote di cassa pensione o costituendo un terzo pilastro.

Ma la previdenza privata è praticamente impossibile per le donne con un reddito basso. Lei cosa consiglia?

È certamente difficile. L’importante è mettere da parte qualcosa ogni volta che si può. Se non nel terzo pilastro, allora su un conto risparmio. Even-

tualmente si può risparmiare tramite il proprio partner, che potrebbe ricompensare volontariamente l’educazione dei figli e il lavoro domestico – benché una soluzione del genere potrebbe creare conflitti in caso di divorzio. A lungo termine, tutti devono effettuare risparmi supplementari. Il primo e il secondo pilastro, infatti, non bastano a coprire l’abituale livello di vita anche in età avanzata. Ci sono svantaggi anche per gli uomini nel sistema pensionistico?

Nel caso della rendita per i superstiti. Una vedova riceve una rendita anche dopo che i figli hanno raggiunto la maggiore età, mentre un vedovo non la percepisce più dopo il compimento del 18° anno dei figli. Anche questo è il risultato di una concezione obsoleta dei ruoli. (L’intervista integrale a Jeannette Schaller su www.azione.ch)

Deduzione di coordinamento Serve per determinare il salario assicurato presso la cassa pensione. Esso corrisponde ai 7/8 della rendita AVS massima, che attualmente è di 24’885 franchi l’anno, mentre dal 2021 sarà di 25’095 franchi. Questo importo viene detratto dallo stipendio base dell’assicurato. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Torneremo a risparmiare? Una volta gli svizzeri erano un popolo di risparmiatori. Poi col passare dei decenni sembra abbiano perso questa virtù. Gli economisti dicono che la riduzione del risparmio individuale è stata più che compensata, nel corso degli ultimi decenni, dall’aumento del risparmio collettivo, in particolare dall’aumento dei contributi che tutti noi versiamo per le nostre pensioni. Inoltre con la vecchiaia assicurata dai due pilastri dell’AVS e della previdenza professionale, per gli svizzeri l’incentivo a risparmiare era venuto meno. Ora sembra che ci si trovi, in materia di risparmio e di pensioni, a una svolta. E questo per almeno due motivi. In primo luogo perché l’invecchiamento della popolazione rende sempre più difficile il finanziamento delle pensioni da

parte della popolazione ancora attiva. È il problema, ormai noto a tutti, della continua diminuzione del rapporto tra persone che lavorano – e che pagano i contributi per la cassa pensione – e pensionati che, invece, la pensione se la godono. È evidente che se la quota dei pensionati nella popolazione aumenta, mentre quella della popolazione che lavora resta costante o tende a diminuire, il finanziamento delle pensioni diventa sempre più insicuro e difficile. A questa prima difficoltà, conosciuta già da più di tre decenni, se ne è venuta aggiungendo, nel corso degli ultimi anni, una seconda, rappresentata dalla forte diminuzione dei tassi di interesse. Con tassi di interesse vicini allo zero le casse pensioni non sono in grado di investire i loro capitali in modo da raccogliere i

fondi necessari al finanziamento delle rendite. Le difficoltà di finanziamento concernono oggi sia l’AVS, primo pilastro, sia il secondo pilastro del nostro sistema pensionistico, vale a dire la previdenza professionale. Se alle casse pensioni vengono a mancare i soldi vi sono solo due soluzioni. O chiedere allo Stato di aumentare i suoi contributi alle casse pensioni, o aumentare invece i premi che devono pagare gli assicurati (per esempio portando l’età del pensionamento a 66 o a 67 anni). Se queste misure non dovessero bastare occorrerà contenere le prestazioni. È a questo punto che il risparmio individuale torna ad essere importante. Se si dovesse scegliere la soluzione di una maggiore responsabilità individuale nel finanziamento delle pensioni è certo che gli

Svizzeri torneranno a risparmiare di più. A questo punto però si aprirà il dibattito sul senso che bisognerà dare ai primi due pilastri dell’attuale sistema pensionistico. Chi, come la maggioranza dei commentatori, chiede con insistenza che i futuri beneficiari delle pensioni siano chiamati maggiormente a finanziare parte delle stesse con il proprio risparmio dimentica, spesso, che le possibilità di risparmio di un’economia domestica sono strettamente dipendenti dal livello del suo reddito. Questo significa, in altre parole, che per un’economia domestica che gode di un reddito elevato è più facile risparmiare che per una che, invece, riceve un reddito appena superiore al minimo vitale. Se la quota del risparmio individuale nel finanziamento delle pensioni dovesse

diventare più importante di quanto già non sia è quindi evidente che l’ineguaglianza in materia di distribuzione del reddito aumenterebbe e questo soprattutto tra i pensionati. Torneremmo, in un certo senso, alla situazione che prevaleva prima che fossero introdotti l’AVS e il secondo pilastro. È evidente che le difficoltà di finanziamento alle quali sembra andare incontro il nostro sistema pensionistico richiedono che lo stesso sia riformato. Ma è altrettanto evidente che nessun piano di risanamento delle pensioni sarà approvato, a livello popolare, se non conterrà un meccanismo ridistributivo per l’onere addizionale che si vorrà far pesare sulle economie domestiche del nostro paese: su quelle delle persone attive e su quelle dei pensionati.

che al Senato decisero di appoggiare Trump e votare contro la messa in stato d’accusa: avevano la maggioranza e null’altro importò più. Questo è l’esempio più concreto della forza che i repubblicani hanno dato a Trump, ce ne sarebbero tanti altri, ma oggi la domanda è: perché continuano a sostenere un presidente che ha perso? Finora ha contato lo spirito di gruppo e il mantenimento del potere, ma adesso? Davvero i due seggi ancora da definire per il Senato in Georgia – quelli che potrebbero conservare la maggioranza dei repubblicani oppure dare ai democratici un pareggio – valgono la fedeltà a ogni costo? E poi per cosa, per sfregiare ancora di più il sistema democratico americano? Le risposte si accavallano e si elidono allo stesso tempo, perché in privato alcuni repubblicani si accorgono della follia finale, ma non si azzardano a farlo pubblicamente, perché per ora il leader è Trump e ha ancora un paio di mesi buoni per rappresaglie di ogni tipo. Questo imbarazzo e questa altalena è ben evidente se si accende la tv e ci si sintonizza su Fox News,

la tv trumpiana per eccellenza: l’80 per cento delle trasmissioni ripete la litania presidenziale, da #FakeBiden a «vinceremo», e racconta la rabbia dei 70 milioni di elettori che hanno votato Trump e ora si sentono defraudati. Naturalmente questo 80 per cento di copertura cosiddetta giornalistica alimenta l’idea del furto, dell’elezione rubata, dei democratici – partito, media, poteri forti – che avevano deciso che avrebbero cacciato Trump dalla Casa Bianca e lo hanno fatto indipendentemente dall’esito nelle urne. C’è un 20 per cento che dice: il presidente ha perso, e toglie la diretta quando lui ripete il contrario. Ancora poco per parlare della fine di un amore e di un’alleanza, anche perché dentro Fox News lo scontro è in corso da tempo e si sapeva che queste elezioni sarebbero state un regolamento di conti: cosa penserà il patriarca Rupert Murdoch? Non è dato saperlo. Ma finché le crepe sono piccine, finché i dissidenti che dicono a Trump: hai perso, sono pochi e sempre i soliti, l’alleanza continua. Perché? Perché potrebbe essere utile.

Perché in questo modo la retorica antisistema non finisce con Trump (che il sistema non lo ha spezzato: lo ha semplicemente sostituito con un altro, il suo)e il suo tesoretto politico potrà essere sfruttato ancora. Perché nessuno sa che cosa voglia fare il presidente una volta uscito dalla Casa Bianca, e i trumpiani sono ovunque. Perché al Congresso e al Senato il Partito repubblicano non è andato male, la prossima sanzione elettorale – se ci sarà – sarà tra due anni, nel frattempo non si devono fare calcoli affrettati, bisogna trovare una risposta alla frustrazione per la sconfitta mentre si prendono le misure a Trump. Così si è imposto il trumpismo e si è consolidato in questi anni: considerando malato il sistema. Ed è appena ironico notare che anche i repubblicani che non sanno riconoscere quale sarà il momento giusto per scendere dal carro ora contano sul fatto che in realtà il sistema è molto sano, e saprà gestire le manie autocratiche del presidente che ha perso le elezioni – cosa che loro non sanno, non riescono, non vogliono fare.

recupera e ritwitta storie perlopiù dimenticate se non strane o sconosciute – risale addirittura al 1998 e riguarda anch’essa misteriosi segnali radio nella frequenza 1,4 GHz, della durata di pochi millisecondi. Venivano captati (quasi ogni giorno) dall’Osservatorio di Parkes, in Australia e gli scienziati si interrogavano da anni sulla natura di queste radiazioni che venivano chiamate «perytons», dal nome di una creatura mitologica immaginata dallo scrittore argentino Jorge Luís Borges, metà cervo e metà aquila. Gli studi accademici pubblicati, nel corso degli anni, dagli astrofisici australiani, ipotizzavano che i perytons fossero dovuti a una stella di neutroni prossima al collasso in un buco nero, in una lontana galassia. Non mancavano altre spiegazioni: eruzioni solari di tipo sconosciuto, fenomeni elettromagnetici dell’atmosfera e persino messaggi inviati da una civiltà aliena. Nel 2015, un giovane analista informatico appena giunto all’osservatorio di Parkes ebbe la pensata di rivedere

tutti i dati riguardanti i precedenti 17 anni e notò che i perytons venivano registrati prevalentemente nelle ore comprese fra le 12.30 e le 14.30. Incuriosito, provò a estendere le ricerche analizzando la banca dati delle fatture pagate dall’osservatorio negli ultimi 20 anni. Tra quelle del 1998 trovò anche la bolla di consegna di un forno a microonde per la mensa e fu piuttosto facile dimostrare che, aprendo l’elettrodomestico prima del termine della cottura, il flusso di radiazioni proveniente dal magnetron veniva bloccato dal sensore dello sportello con una frazione di secondo di ritardo. Quel che bastava a far registrare un «peryton» al sensibilissimo radiotelescopio, costato milioni per scrutare i messaggi dello spazio... Citare e usare questa curiosa storia per cercare di inficiare le novità scientifiche giunte di recente dallo spazio sarebbe irriverente oltre che pretestuoso. Tuttavia, visto che di mezzo ci sono sempre sperduti osservatori astronomici australiani, forse qualche verifica...

Affari Esteri di Paola Peduzzi La follia finale

AFP

Donald Trump non vuole riconoscere la vittoria del suo rivale e sfidante Joe Biden alle elezioni americane del 3 novembre. Non vuole. Tutti cercano di capire quale sia il suo obiettivo, ma per ora resta soltanto l’assenza di volontà – la fotografia di un momento atipico, un altro, della storia americana, con la speranza che sia l’ultimo.

La Casa Bianca ha fatto alcuni ricorsi negli Stati contesi, sta aspettando i riconteggi, ma un team di giornalisti del «New York Times» ha telefonato a tutti gli uffici elettorali di tutti gli Stati americani per verificare eventuali irregolarità o incongruenze – nelle macchine che contano e nei registri principalmente – e dopo una settimana di lavoro è giunto alla conclusione: non ci sono stati brogli. Trump non è dello stesso avviso, anzi, forse lo è: sa che non ci sono stati brogli, ma non importa. Il presidente degli Stati Uniti vuole che Biden sembri un impostore, un democratico che gli ha rubato il suo diritto legittimo a essere riconfermato per altri quattro anni, un ladro di elezioni: #FakeBiden. È pronto a tutto, Trump, pur di uscire come un martire da questa storia. Come già abbiamo capito in questi turbolenti anni, il presidente non sarebbe nulla se il suo partito, il Partito repubblicano, non lo sostenesse. Ricordate l’impeachment? I fatti non furono importanti perché contava soltanto la fedeltà dei repubblicani

Zig-Zag di Ovidio Biffi Onde radio, Voyager 2 e microonde Da non crederci: proprio mentre gli Stati Uniti e il mondo intero si interrogavano sui numeri del duello presidenziale fra Donald Trump e Joe Biden, c’era chi più che ai risultati degli scrutini prolungati in Nevada o in Pennsylvania era interessato a segnali che giungevano dallo spazio. Una prima conferma è giunta dalla rivista scientifica «Nature»: in tre diversi articoli confermava con la sua prestigiosa autorevolezza che vari telescopi sparsi nel mondo e diversi ricercatori in Canada, Cina, Stati Uniti e Australia avevano captato segnali radio provenienti dalla Via Lattea. Secondo i portavoce del team di astronomi impegnati nella rilevazione di questi ascolti, più che di segnali radio bisognerebbe parlare di esplosioni di energia, scientificamente già classificate in passato come «Fast radio burst» (Frb). In pratica sono lampi di onde radio di pochi millesimi di secondo che sinora erano arrivati solo da galassie lontane miliardi di anni luce e quindi impossibili da analizzare. Dal momento che, come am-

mettono gli stessi ricercatori, sui Frb non si sa ancora nulla, ora si spera che questo esempio verificatosi in un punto dell’universo relativamente vicino (il segnale captato proviene dalla Via Lattea, precisamente da una magnetar, vale a dire una stella di neutroni con un campo magnetico molto intenso), possa ora agevolare le ricerche. Due giorni dopo questo annuncio, ecco un secondo regalo «spaziale»: la Nasa ha reso noto che la sonda Voyager 2 lanciata nel 1977, uscita dal Sistema Solare due anni fa e ora in volo a più 18,8 miliardi di chilometri dalla Terra, ha dato ancora segni di vita rispondendo a una chiamata emessa da una antenna situata in Australia. Lo strumento fa parte del Deepspace Network, una rete di osservazione spaziale con cui la Nasa segue e guida veicoli spaziali che operano oltre la Luna, attualmente è in fase di potenziamento e grazie all’avvio di due nuovi trasmettitori è stato possibile riagganciare la Voyager 2. L’operazione non era stata decisa specificatamente per contat-

tare la sonda, ma solo in vista delle future missioni della Nasa. Inevitabile che anche questa notizia finisse nel deserto delle notizie «non Covid» e «non presidenziali Usa», nonostante sia risaputo che quello che l’universo ci rivela attraverso le ricerche di astronomi e astrofisici riguardi uno spazio temporale che tocca milioni e miliardi di anni luce e non «lampi di tempo» come risulta essere quasi tutta l’attualità. A rimescolare un po’ le carte (e a giustificare il mio «quasi») c’è però una terza notizia, non perfettamente databile, comunque emersa anch’essa nei momenti di grande incertezza sul voto delle presidenziali americane. Caterina Doglio, giornalista di TG1 della Rai che seguo su Twitter, ha proposto una curiosa storia a cui ho continuato a pensare mentre mi aggiornavo sui «lampi di onde radio» e sulla nuova antenna della Nasa, volendo verificare le notizie spaziali. La vicenda – riconducibile a un tweet di un sito web (@khamul2k12) che


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Cultura e Spettacoli Per una ciocca di capelli Ricorre quest’anno il 250esimo dalla nascita di Ludwig van Beethoven, intorno ai cui capelli sorse un vero culto pagina 35

Per un’arte corretta? L’arte è sempre più attenta ai temi sociali, e in seguito alla corrente di political correctness è messa spesso in discussione: quali saranno le conseguenze?

La pandemia un tempo Il nostro viaggio nelle pandemie dell’antichità questa volta ci porta tra le pagine di Tucidide

Nuovi villaggi Nel suo nuovo libro la scrittrice Milena Agus si confronta con il tema dei migranti

pagina 37

pagina 39

pagina 41 Enzo Mari in un’immagine di qualche anno fa. (Leonardo Cendamo)

Le visioni di Enzo Mari

Mostre A Milano un omaggio (temporaneamente interrotto) al grande designer italiano scomparso di recente Ada Cattaneo Coscienza critica del design italiano. Etica come fine del progetto. Valore politico della creatività. Queste le parole che ritornano quando si legge di Enzo Mari, fra i pareri dei colleghi e la valutazione degli storici, senza dimenticare che con i suoi oggetti ha vinto ben cinque Compassi d’oro, tra i quali uno alla carriera. Poi si aggiunge la sfera privata, che nella vita di Mari spesso si intreccia con quella professionale. O forse così pare a me, dato che ho cominciato a scoprirlo dai romanzi del figlio Michele («La specifica qualità del mio rapporto con lui è stata nel tempo un ammirato terrore»). Il suo Leggenda privata (aulica perifrasi del più modaiolo «autofiction») conduce nelle vicende della famiglia Mari tanto in profondità da essere doloroso. Ma è agli oggetti di Enzo Mari che si deve guardare, dove si ritrovano tutte le asperità del personaggio, che sono anzi la scintilla dell’invenzione. Quando scopro che la Triennale gli dedica una mostra monografica non vedo l’ora di visitarla e di raccontarne. È la prima grande esposizione che vedo da molto tempo e l’apertura è per il 17 ottobre. Ironia della sorte vuole che, mentre io ne scrivo, la mostra sia già chiusa a causa delle restrizioni date dalla situazione sanitaria. Ha senso allora parlare di una mostra chiusa? Il seguito degli eventi mi convince di sì. Il destino è bef-

fardo: Mari scompare il 19 ottobre e il giorno seguente uguale fine spetta a sua moglie, Lea Vergine, grande critica d’arte, curatrice e autrice del libro seminale sulla Body art. Personaggio affascinante fu anche la prima moglie – Iela Mari – con la quale ci fu un sodalizio creativo non comune, testimoniato dai progetti per l’infanzia che i due realizzarono insieme. Ancora oggi nelle biblioteche dei ragazzi si trova una sezione dedicata ai loro libri che furono – insieme a quelli più noti di Munari – fra i primi senza testo, solo illustrazioni, perfettamente accessibili anche ai bambini più piccoli. Un’idea che ancora fa scuola. Lui era nato a Novara nel 1932. Aveva studiato all’Accademia di Brera e in effetti per i primi anni della sua carriera si dedica all’arte visiva, realizzando opere nell’ambito dell’arte cinetica e prendendo parte alla storica mostra Arte programmata, voluta da Adriano Olivetti e curata proprio da Bruno Munari, la figura più simile a un maestro che Mari ebbe nel corso della sua vita. A partire dal 1956 comincia a occuparsi di disegno industriale, tenendo sempre bene in mente che si deve progettare per la gente comune. Del tutto estraneo al condizionamento del mercato, interessato invece ai bisogni reali, Mari non nasconde il suo orientamento politico, elencando tutti i modi secondo i quali un designer può partecipare alla lotta di classe. Fra tutti, è forse il concetto di «au-

toprogettazione» che meglio esemplifica il valore politico del suo progettare: «Nel 1974 pensai che se le persone si fossero esercitate a costruire con le proprie mani un tavolo, per esempio avrebbero potuto sceglierne meglio le ragioni fondanti». Pubblica quindi un opuscolo distribuito gratuitamente a chi ne fa richiesta per la realizzazione in tutta autonomia di alcuni mobili base – tavolo, sedia, libreria, … – con il solo utilizzo di assi di legno e chiodi facilmente reperibili a poco prezzo, partendo dal presupposto che chiunque sappia piantare un chiodo. Il designer nega quindi il suo ruolo commerciale, impegnandosi invece per l’emancipazione del consumatore. D’altronde nella Milano degli anni Cinquanta, fino ai primi anni Settanta, il rapporto tra design e politica era un elemento assodato, insito in quell’irripetibile fiorire di creatività. Fondamentali furono anche quegli industriali che si assunsero direttamente il rischio di progetti ambiziosi, come Artemide, Driade, Olivetti e Danese, a cui Mari fu fortemente legato. Ripercorrendo la sua produzione, scopriamo che c’è la sua mano dietro a una serie innumerevole di oggetti del quotidiano, dalla sedia impilabile «Delfina» al calendario perpetuo «Formosa», dai «16 animali» alle copertine di Adelphi e Bollati Boringhieri. L’esposizione alla Triennale di Milano è suddivisa secondo tre grandi li-

nee. Dapprima viene riproposta la mostra curata da Mari nel 2008 presso la GAM di Torino e dedicata interamente alla sua opera. Questo riallestimento ha il doppio valore di presentare il punto di vista dell’autore sulla sua produzione e di dare una panoramica sul suo approccio all’exhibition design, ambito non secondario del suo percorso: ogni aspetto è seguito da Mari personalmente, senza delegare alcunché, dalla progettazione delle teche e dei piedistalli alla redazione dei testi. Moltissimo spazio è dedicato alle prime produzioni artistiche di Mari, che offrono una chiave di lettura interessante al suo lavoro, già estraneo a qualsiasi tipo di «frin frin», («inconcludente e frivolo» nel milanese familiare del designer). L’arte cinetica rifletteva infatti sui temi della percezione visiva, in un settore quindi che aveva numerosi punti di contatto con il design. Sembra venire da questi anni la sua capacità di usare qualsiasi materiale alla stregua di un foglio di carta: vetro, ceramica, acciaio. A questa prima sezione, si aggiungono degli affondi tematici su suoi progetti specifici di disegno industriale, realizzati a partire dall’archivio di Mari. Tutto ciò che esso contiene è stato donato dall’autore alla Città di Milano, a patto però che i materiali siano consultabili liberamente solo fra 40 anni perché solo allora «una nuova generazione, non degradata come quella odierna, potrà farne un uso consapevo-

le e riprendere così in mano il significato profondo delle cose». Infine sono stati chiamati artisti contemporanei a realizzare un contributo – opere o testi – ispirato al lavoro di Mari. Egli è infatti sempre stato un autore molto seguito – apprezzato e al contempo temuto – dagli altri creativi, forse proprio per la sua radicalità. La curatela della mostra milanese a opera di Hans Ulrich Obrist, fra i nomi più noti ed attivi nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale, si esprime quindi anche in questo desiderio di attualizzare il lavoro di Mari tramite una riflessione da parte di artisti del presente. Peraltro Obrist è stato scelto come curatore proprio in forza del suo metodo diretto di interrogazione dell’autore tramite interviste, talvolta pubblicate o in altri casi utilizzate come materiale su cui fondare il lavoro curatoriale. Lo stesso vale per Enzo Mari, come testimoniano i video – riproposti in conclusione della mostra – dei dialoghi di Obrist con l’autore milanese, registrati dalla fine degli anni Novanta. Dove e quando

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 novembre 2020 • N. 47

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Cultura e Spettacoli

I capelli di Ludwig van

Anniversari Il 16 dicembre di 250 anni or sono nasceva a Bonn il grande compositore Ludwig van Beethoven,

morto 57 anni più tardi a Vienna

Giovanni Gavazzeni Nel pomeriggio del 26 marzo 1827 un violento temporale scatenò sulla città di Vienna tuoni, fulmini, grandine e nevischio. Nel suo ultimo appartamento nella Casa degli spagnoli neri, Ludwig van Beethoven rendeva l’anima. Alcuni commentatori interpretarono l’evento atmosferico come «una ribellione alla morte di tale eccelso spirito». Non fu un’esagerazione romantica: quella tempesta occorse, come confermano gli archivi metereologici della capitale asburgica. La liturgia della morte, delle esequie e della sepoltura di Beethoven sono oggetto della ricerca erudita di Artemio Focher (Ludwig van Beethoven – 26-29 marzo 1827, Lim, pp. 206), che documenta l’atto di nascita del mito-Beethoven. Incrociando documenti e testimonianze, si rivelano veritieri passi biografici, come quello ricordato da Anselm Hüttenbrenner, compositore amico di Schubert, presente al trapasso, che ricordava il morente agitare il pugno in sfida verso il cielo (una reazione compatibile con la devastante cirrosi epatica e le comorbilità, come usa dire in tempi pandemici, che affliggevano il grande artista). Lo stesso Hüttenbrenner, dopo aver chiuso gli occhi al morto, chiese alla cognata di Beethoven di tagliargli una ciocca di capelli «sacra memoria dell’ultima ora di Beethoven». Non fu il solo. Ci vorrebbe la penna di Gogol’ per

Il giovane Beethoven insieme a Mozart durante una visita a Vienna nel 1787 (quadro non firmato del 1870). (Keystone)

descrivere cosa successe ai capelli di Beethoven, rimasto praticamente calvo alla sepoltura. Sparsa la notizia della morte, amici, ammiratori e curiosi si riversarono a rendere omaggio alla salma, alcuni recidendo con le proprie mani, altri chiedendo il consenso ai familiari o al famulo Schindler, per ave-

re le ciocche-reliquie e farne dono agli amici più cari. Un musicista famoso, Ferdinand Hiller, li lasciò in eredità al figlio. Quei capelli furono battuti all’asta nel 1994 da Sotheby’s e ora sono conservati al centro beethoveniano di studi presso l’Università di San José in California. Furono utili per analisi del

dna di Beethoven che esclusero trattamenti palliativi oppiacei sul moribondo, ma confermarono la letale presenza del piombo. Le tre corone del classicismo musicale ebbero esequie differenti a Vienna: Mozart fu gettato in una fosse comune; Haydn, causa l’assedio dei francesi, fu

seguito da poche persone; per Beethoven i funerali furono imponenti, come non se ne vedevano da tempo: ventimila persone e centinaia di carrozze al seguito del feretro, l’orazione funebre stilata dal gran poeta Franz Grillparzer, e recitata fuori dal cimitero per burocratica opposizione curiale; i nudi Equali per ottoni trascritti per coro sulle parole del Miserere, due messe a suffragio con l’esecuzione del Requiem di Mozart (al quale diedero lustro volontario i cantanti dell’opera italiana) e di quello per voci miste di Cherubini. Non stupisce nel racconto dei tre giorni in cui una capitale si fermò in rispettoso omaggio, l’avidità del fratello Johann che mette a soqquadro la casa alla ricerca di otto lucrosi titoli di stato, né l’assenza del prediletto nipote Karl, l’erede universale, a cui quei titoli finirono, né le sterili polemiche giornalistiche contro un generoso invio di denaro inglese al malato (giunto post mortem), raccolto dal pianista Ignaz Moscheles, premiato, nemmeno a dirlo, con una ciocca taumaturgica di capelli. Anche alla luce delle analisi più rigorose, già al momento della morte, si comprese che un Uomo straordinario era entrato nell’immortalità. Scrisse Grillparzer, invitando al raccoglimento davanti alla tomba: «per questo sono sempre esistiti poeti ed eroi, cantori e illuminati di Dio: che verso di loro si volgano i miseri mortali in rovina, memori della loro origine, e della loro meta». Annuncio pubblicitario

Invito alla danza ma online

Concerto Il pianista Giuseppe Albanese

in streaming dal Cinema Teatro di Chiasso

Enrico Parola Avrebbe dovuto essere solista nel primo concerto di Beethoven, accompagnato dalla OSI in una serata-omaggio ad Arturo Benedetti Michelangeli. Il pianista reggino Giuseppe Albanese ci sarà, mancheranno però l’orchestra e il pubblico, nel rispetto delle norme antiCovid che hanno suggerito al direttore del teatro di regalare una diretta streaming. Un evento da non perdere, a testimonianza che la vita artistica non si spegne neppure in questi frangenti, ma anche per il talento e la personalità artistica dell’esecutore e per il programma: spettacolare, trascinante, ma non certo superficialmente frizzante. Invito alla danza è il brano che apre la locandina e che dà il titolo a tutto il concerto, nonché al disco che ha inciso per la Deutsche Grammophon. «L’idea di affrontare il repertorio legato alla danza ma solo suonato mi affascinava da sempre, ma c’è voluta mia figlia a farmela realizzare. Ha iniziato a seguire lezioni di danza classica fin da piccolissima; mentre la guardavo esercitarsi ho pensato che in fondo anche noi pianisti siamo ballerini perché qualunque idea possiamo avere, per tradurla in suono dobbiamo passare attraverso il nostro strumento muovendoci sulla tastiera e realizzando quindi una sorta di coreografia». Per impaginare il progetto Albanese si è ispirato al suo autore prediletto, Liszt (si è laureato anche in filosofia con una tesi sull’estetica delle Années de Pèrelinages del compositore magiaro): «Per anni ho suonato le sue trascrizioni da arie d’opera, da Lied, dalle sinfonie

di Beethoven, e così ho antologizzato brani tutti trascritti. L’invito alla danza di Weber è per pianoforte già nella forma originale, ma ho trovato la versione di Carl Tausig, un allievo di Liszt, che tra l’altro aggiunge oltre a vari virtuosismi una cadenza nel finale dove spesso il pubblico è portato ad applaudire prima della vera conclusione: grazie a questa interpolazione l’architettura musicale diventa più evidente e gli ascoltatori non sono tratti in inganno». Ormai celebre è la versione curata da Mikhail Pletnev della suite dallo Schiaccianoci di Ciajkovskij, «un cimento tecnico che talvolta è al limite dell’eseguibilità, ma che allo stesso tempo ha momenti di pura magia sonora». Un vero balletto è anche L’uccello di fuoco di Stravinskij, qui trascritto da Agosti, e Coppelia di Delibes, «di cui ho scoperto la superba trascrizione del valzer firmata da Ernst von Dohnanyi». Non sono stati creati come balletti né il Prélude à l’Aprèsmidi d’un faune di Debussy, «più volte coreografato, ad esempio dal grande Nijinskij, e qui trascritto da Leonard Borwirck», né La Valse di Ravel: «La versione per pianoforte doveva essere uno schizzo per preparare quelle orchestrale e per due pianoforti, e infatti spesso viene rimaneggiata; mi ha fatto piacere quando dei colleghi mi hanno detto che sentendomela suonare non hanno rimpianto le altre due versioni». Dove e quando

Giuseppe Albanese in concerto streaming, 24 novembre 2020 (ore 20.30); centroculturalechiasso.ch

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Cultura e Spettacoli

L’arte controllata

Pubblicazioni Nel lavoro della filosofa francese Carole Talon-Hugon alcune interessanti riflessioni sul ruolo

della morale e della political correctness nelle diverse forme d’arte Emanuela Burgazzoli Negli scorsi mesi abbiamo visto statue cadere e venire distrutte, monumenti imbrattati, film rimossi da piattaforme digitali, perché simboli o portatori di un passato razzista, schiavista o sessista. Segno che i conti con la memoria storica, ma soprattutto con i valori del nostro presente non li abbiamo fatti. Anche nel mondo dell’arte si moltiplicano gli episodi di rimozione e censura (o autocensura) in nome del politicamente corretto; basti ricordare la petizione – sull’onda del movimento #metoo – contro la Thérèse rêvant di Balthus al Moma di New York, o i poster contestati in occasione della mostra dedicata ai dipinti di Schiele a Vienna, fino all’annullamento di una mostra di Leonardo Shaun da parte del Museo d’arte contemporanea di Cleveland, perché denunciava la brutalità della polizia americana (qualche mese prima dell’uccisione di George Floyd). La direttrice del museo si è giustificata adducendo il rischio di «turbamento» di una città impreparata ad affrontare il trauma di queste esperienze di dolore. La svolta moralizzatrice dell’arte contemporanea è l’oggetto dell’utile saggio della filosofa francese Carole Talon-Hugon, Arte sotto controllo, uscito per le edizioni Johan e Levi di Milano. L’autrice enumera una serie di casi emblematici, osservando che la critica etica prende di mira non soltanto le opere in sé stesse (e qui si pone la delicata questione se e come giudicare

l’immoralità di un’opera d’arte) per il valore estetico conferito a contenuti giudicati «sconvenienti» oppure perché ritenute in grado di suscitare emozioni «corruttrici», o perché disdicevoli sono le circostanze in cui sono state create o perché infine vengono offuscate dalla cattiva condotta del loro autore (come è toccato a Roman Polanski o a Woody Allen). Oggi non sono infrequenti le accuse di «appropriazione culturale indebita» (un’attrice è legittimata a interpretare un ruolo di un transgender senza esserlo?).

Tutte le etichette assegnate all’arte rischiano di frantumarla e trasformarla in arte sociale L’altro aspetto interessante analizzato da Talon-Hugon è quello del «moralismo» che sembra appartenere all’arte stessa, in particolare a quella che dichiaratamente persegue fini sociali, schierata in molteplici cause; da quella ambientale, come per la star dei musei d’arte contemporanea Olafur Eliasson (anche se il trasporto di ghiaccio artico alla Tate è stato prontamente criticato…) a quella dei migranti, come nelle installazioni di Kader Attia e di Maurizio Cattelan, dalla lotta postcoloniale alla battaglia contro le discriminazioni sessuali o etniche. Non stupisce il fatto

che trovi sempre più spazio l’arte documentale, con opere che somigliano più a indagini storiche e sociologiche, in cui l’artista ricorre a video-testimonianze, archivi, grafici. E sempre più spesso le installazioni rimandano a un simbolismo che deve essere spiegato con specifiche «istruzioni per l’uso», testi che servono a disinnescare possibili controversie di natura morale. Il fatto è che – osserva la filosofa francese – se in passato l’arte era l’espressione di un’etica al servizio della causa universale dell’umanità (come la fratellanza per Tolstoj), oggi invece le cause si sono moltiplicate, tante quante sono le categorie di persone o le associazioni che rappresentano determinate minoranze. Ma il risultato di questa «ossessione per le differenze», con una critica censoria che è subito pronta a rilevare la natura offensiva o trasgressiva di certa arte, è che alla fine «promuove le comunità chiuse, l’intolleranza e il sospetto», constata Talon-Hugon. In una prospettiva storica il rapporto fra arte ed etica è antichissimo; finché il bello ha coinciso con il buono, la critica moralizzatrice ha attraversato i secoli da Platone a Schiller, prima della svolta formalista e dell’autonomia conquistata dall’arte per l’arte nell’Ottocento e prima della svolta trasgressiva delle Avanguardie storiche. Ma è vero anche che ormai l’arte ha da tempo integrato il brutto, l’osceno e il perturbante (si pensi alla body art più estrema). Ci si chiede se è giusto giudicare l’arte secondo parametri (quelli della

Shaun Leonardo, Autoritratto, Azua – Fall 1, 2009. (elcleonardo.com)

morale) esterni all’arte e anche se, così facendo, non si attribuiscano poteri all’arte (come quella contemporanea seguita da una cerchia ristretta di accoliti) che essa in realtà non possiede («L’arte non ha nessun potere sull’azione» ci ricorda Oscar Wilde nel suo Dorian Gray). Quale impatto invece hanno oggi i post dei più seguiti «influencer»? si chiede la filosofa. L’antidoto a questa nuova imperante ascesa del politicamente corretto non dovrebbe essere soltanto la rivendicazione della libertà d’espressione. Se esiste uno spazio legittimo nell’arte per un giudizio morale, non c’è invece spazio per un moralismo integralista. Oggi – avverte l’autrice – «c’è il for-

te rischio che la svolta moralizzatrice dell’arte contemporanea conduca a una balcanizzazione della cultura in cui l’arte, così come l’etica, hanno più da perdere che da guadagnare». E forse questa frammentazione dell’etica in etiche di categorie e questo sfaldarsi dell’arte in arte sociale – aggiungiamo noi – è anche il segnale di un cedimento nei confronti di rassicuranti e insidiose semplificazioni della realtà. Bibliografia

Carole Talon-Hugon, L’arte sotto controllo. Nuova agenda sociale e censure militanti, Monza, Johan&Levi editore, 2020

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Cultura e Spettacoli

Antiche pandemie Letteratura – 2 Tucidide e la peste di Atene (parte I) Elio Marinoni È allo storico ateniese Tucidide che si deve la più antica, più dettagliata e più rigorosa descrizione di una pestilenza in un testo in prosa: l’epidemia di peste che scoppiò ad Atene nella tarda primavera o all’inizio dell’estate del 430 a.C., nel secondo anno della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Tucidide, che ci ha lasciato negli otto libri delle sue Storie la narrazione dei primi venti anni di quel conflitto (431-411), dedica alla peste di Atene un’ampia sezione del secondo libro (II, 47,3 – II, 53). Riporto dunque il racconto tucidideo nella bella traduzione italiana di Ezio Savino. «II. 47.3. [I Peloponnesii e i loro alleati] Si trovavano in Attica da non molti giorni, quando prese a serpeggiare in Atene l’epidemia: anche in precedenti circostanze s’era diffusa la voce, ora qui ora là, che l’epidemia fosse esplosa, a Lemno, per esempio, e in altre località. Ma nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. 4. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero da ogni tentativo e giacquero, sopraffatti dal male. 48.1. A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia, al di là

dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del Re. 2. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per prima la gente del Pireo. Sicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, inquinando le cisterne d’acqua piovana con veleno: si era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, irrefrenabile. 3. Ora, chiunque, esperto o profano di scienza medica, può esprimere quanto ha appreso e pensa sull’epidemia: dove si possa verosimilmente individuare il focolaio infettivo originario e quali fattori siano sufficienti a far degenerare con così grave e funesta cadenza la situazione. Per parte mia, esporrò gli aspetti in cui si manifestava, enumerandone i segni caratteristici, il cui studio riuscirà utile, nel caso in cui il flagello infierisca in futuro, a riconoscerlo in qualche modo, confrontando i sintomi precedentemente appurati. La mia relazione si fonda su personali esperienze». L’autore sottolinea (47.4) la novità del morbo e l’impotenza della medicina e di ogni altra «scienza o arte umana» (anthropeía téchne) di fronte ad esso: l’espressione ricorda da vicino i vv. 170-171 dell’Edipo re di Sofocle, e non è escluso che tra i due testi ci sia un legame di interdipendenza. L’epidemia si diffonde dapprima nella zona del porto di Atene. I Peloponnesi, cioè gl’invasori, sono accusati di esserne gli «untori» (48, 2). Tucidide ritiene che la descrizione del quadro sintomatologico, compiuta conformemente al metodo ippocratico, possa tornare utile in futuro. È la stessa

idea di utilità per l’avvenire che l’autore applica all’intero lavoro storiografico, concepito come un «possesso per sempre» (ktêma eis aeí). Il capitolo si chiude con uno dei rarissimi riferimenti autobiografici delle Storie tucididee (48.3). «49.1. Quell’anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se qualcuno aveva contratto in precedenza un morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente infermità. 2. Gli altri, senza motivo visibile, all’improvviso, mentre fino a quell’attimo erano perfettamente sani, erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi. All’interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. 3. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: sternuto e raucedine. In breve il male calava nel petto con violenti attacchi di tosse. Penetrava e si fissava poi nello stomaco: da qui nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. 4. In più casi, l’infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all’interno spasimi tremendi (...). 5. Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell’ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti, per quanto leggeri, di veli: solo nudo pote-

Michiel Sweerts, La peste in una città antica, 1652. (Wikipedia)

va resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro famigliari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o eccessivo produceva il medesimo effetto. 6. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea (...). 7. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si irradiava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. 8. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la

facoltà di usare questi organi, alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi, riacquistata appena la salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e dei suoi. 50.1. Il carattere di questo male trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibavano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, oppure morivano, dopo averne mangiato». La descrizione dei sintomi, annunciata da Tucidide alla fine del capitolo 48, occupa l’intero cap. 49 e rivela l’influsso, molto forte in questa sezione ma presente anche altrove nella sua opera, del metodo ippocratico. Particolarmente interessanti l’accenno alle patologie pregresse, che facilitavano l’insorgenza della pestilenza (49,1; cfr. anche 51.1) e quello alla possibilità di danni permanenti nei sopravvissuti al morbo (49,7-8). Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Per un tempo diverso

Narrativa Nel suo ultimo romanzo la scrittrice italiana Milena Agus racconta sfide e dubbi legati

all’arrivo dei migranti in un piccolo paese del Sud

Laura Marzi Ci sono autrici e autori con cui si ha la sensazione di essere in confidenza, come se ci fosse non solo ammirazione per i loro testi, ma una sorta di compatibilità di carattere, basata solo sulla lettura certo, ma non per questo meno evidente, meno forte. L’autrice sarda Milena Agus è una di quelle scrittrici con cui è abbastanza facile instaurare questa relazione di desiderio letterario, perché nella sua produzione, tutta edita da Nottetempo, non ha dato delusioni alle sue lettrici e ai suoi lettori, raccontando storie in cui la realtà scintilla, come se fosse magica e la lingua è tanto semplice quanto precisa. Il suo ultimo romanzo Un tempo gentile non sfugge a questa combinazione stilistica né all’approccio giocoso che contraddistingue lo sguardo di Agus, ma questa cifra dell’autrice che tanto piacere dà nella lettura colpisce particolarmente in questo romanzo, perché il tema che sceglie di raccontare qui è anche una delle questioni più complesse e dolorose della nostra contemporaneità: i migranti. Donne, uomini e bambini di cui non conosciamo con precisione il numero arrivano in un paesino del Campidano, a sud della Sardegna, dalla Siria e dall’Africa, dopo essere sopravvissuti all’attraversamento del Mediterraneo su imbarcazioni gestite da trafficanti di esseri umani e avere vissuto in diversi campi profughi: «si gettarono nelle strade del nostro paesino e fu chiaro

per tutti noi che aver stirato le lenzuola, reso brillanti i pavimenti, strofinato le pentole e i rubinetti fino a farli diventare luccicanti era stato inutile». A raccontare l’arrivo e la permanenza dei migranti è una donna di cui sappiamo solo che, come scrive Agus, è una delle «vecchieggianti». Tutta la storia della permanenza dei migranti, che nel corso del romanzo vengono sempre nominati «gli invasori», è raccontata da «la voce narrante», che fa parte del «coro delle paesane». All’inizio istintivamente anche loro si sentono minacciate dall’arrivo di queste persone straniere e diverse, che alterano irrimediabilmente il ritmo delle loro esistenze. Ciò che le spingerà invece molto velocemente a recarsi al «rudere» dove è stato permesso ai migranti e ai volontari di accamparsi, sarà semplice curiosità, o la noia. Le paesane non hanno più molto da fare, se non lustrare le case e i panni: i figli se ne sono andati e non tornano mai al paese, neanche per le feste comandate. Non ci sono bambini, non c’è lavoro, non ci sono nuove storie, da conoscere e raccontare, su cui fare pettegolezzi o grandi riflessioni. «Gli invasori» riportano la vita nel loro paese: senza nessuna retorica, finanche senza alcun riferimento politico le «vecchieggianti» iniziano ad aiutare i migranti, a conoscerli e si contrappongono così a quella parte del paese che non accetterà mai la loro presenza. Con un approccio che potrebbe

La copertina del libro di Milena Agus.

sembrare fiabesco o almeno parecchio edulcorato, Agus racconta invece della realtà di molti paesini sparsi su tutto il territorio italiano, non solo nel sud dove i borghi abbandonati sono davvero tantissimi. Luoghi in cui abitano ormai per lo più persone anziane, posti in cui

l’emigrazione ha lasciato vuote intere strade, case, che solo a volte vengono riaperte in estate. E non a caso molti dei migranti non vogliono restare in quel paesino semiabbandonato così lontano dall’Europa che sognano, per cui hanno rischiato la vita.

Allora, più che alla fiaba, Un tempo gentile può essere associato alla favola, che invece propone sempre un insegnamento. O forse ancora più precisamente a un testo del teatro greco, come lasciano pensare i cori di paesane e paesani, di nere e neri, protagonisti nel romanzo. Un testo che può essere letto come una tragedia, se ci soffermiamo sulle vite degli «invasori». Per esempio su quella di Said Amal, ingegnere, che è dovuto fuggire dalla Siria perché perseguitato come oppositore politico e che il meglio che può immaginarsi per il suo futuro è riuscire ad aprire una friggitoria di falafel. O su quello che è successo a Tessy sul barcone con cui è approdata in Italia, sul figlio che nasce dalla violenza di uomini sconosciuti. Oppure Un tempo gentile può essere una commedia in cui «le vecchieggianti» riprendono a fare sogni erotici suggestionate da storie d’amore che nascono, dal ritorno della vita, molto semplicemente. Sta alle lettrici e ai lettori decidere poi se sia più tragico dover abbandonare la propria patria o vivere in un posto abbandonato da tutti, anche dai propri figli. Agus mette semplicemente in scena la beffa del mondo, mostrando come potrebbe essere facile unire queste due tragedie e trasformarle, almeno per un po’, in un Un tempo gentile. Bibliografia

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Quella meravigliosa Cooperativa «Un metro di libri!», esclama con il suo vocione Cesare Zavattini, «Chiederemo alle cooperative edilizie di prevedere per ogni appartamento uno scaffale di un metro!». Zavattini è un vulcano di idee che però gli vengono solo se deambula. Va avanti e indietro per il salotto della sua casa romana, in via sant’Angela Merici. I presenti parlano a voce alta per allinearsi al volume della sua e Cesare (70 anni) si raccomanda: «Parliamo piano, di là c’è mia mamma che dorme». Riprende a spiegare: «Per ogni nuova casa ci sarà nel muro una nicchia per metterci un metro di libri e a riempire quel metro ci penseremo noi». Quel «noi» indica la Cooperativa Scrittori, casa editrice nata nel ’72 dalla costola romana del Gruppo ’63, come reazione alla prima grande concentrazione editoriale, con la Rizzoli che acquisiva marchi in difficoltà e dai libri si allargava ai periodici, alle cartiere, alle librerie, al cinema, fino ad arrivare nel 1974 al «Corriere della Sera». La ideò Luigi Ma-

lerba. Letta la notizia sull’«Espresso», dissi ad Angelo Guglielmi, uno dei promotori, che mi sarebbe piaciuto essere della partita e lui mi portò con sé a una delle prime riunioni a casa Malerba, in via di Tor Millina, a due passi da piazza Navona. Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Walter Pedullà, Paolo Mauri, erano i più assidui; completava la squadra Nico Garrone, segretario. In un esercito di generali, io ero l’unico sergente, felice e sconosciuto; scrivevo e riscrivevo i comunicati stampa e andavo alla posta a spedire i lunghi telegrammi che Zavattini mi dettava al telefono. Tornando a quel metro da riempire di libri, approvata l’idea, cominciò il gioco di cosa metterci e cosa escludere. Disco verde per la Costituzione italiana e per una grammatica di base, il progetto si arenò sulla Bibbia: un editore laico e progressista deve avere nel suo catalogo, per essere completo, una Bibbia? Altro tema rovente: per rappresentare la narrativa italiana del

Novecento serviva un racconto lungo o un romanzo breve. In una pausa della discussione azzardai il nome di Carlo Cassola: per me Il taglio del bosco è un capolavoro. Zavattini oppose un rifiuto netto, senza appello: «Cassola no! Non se ne parla!». La volta successiva, arrivato prima degli altri a casa di Cesare, gli chiesi il favore di spiegarmi le ragioni del suo veto. Mi disse che anni prima, non potendo essere presente a un convegno di scrittori e cineasti, aveva inviato un telegramma. Cassola, presidente di turno, aveva aperto la sessione dicendo: «Abbiamo qui un telegramma di Zavattini, ma siccome è molto lungo lo diamo per letto e lo alleghiamo agli atti». Cassola proscritto per reato di leso telegramma! Nell’arco di quattro o cinque anni la Cooperativa Scrittori ha pubblicato tra gli altri libri di Alberto Arbasino, Furio Colombo (Iper Television), Umberto Eco (Il Superuomo di massa), Elvio Fachinelli, Francesco Leonetti. Un libro di poesie di Antonio

Porta doveva intitolarsi Utopia del nomade e uscì con il titolo Week-end. La grafica, affidata al grande Giuseppe Trevisani era di una rigorosa e accattivante bellezza. Trevisani ideò per le copertine una gabbia di color mattone, come quella disegnata da Bruno Munari per Einaudi, rossa per i Saggi, blu per la collana scientifica, viola per gli studi etnografici, verde per la cultura storica. A due terzi la pagina è tagliata da una sbarra orizzontale; il logo è una «C» grande e spessa dentro la quale è annidata una «S» come un tuorlo dentro un uovo. La prima uscita fu un’impresa ciclopica: la pubblicazione, su proposta di Valerio Riva, del testo integrale della relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia. Tre volumi, in edizione reprint, per tremila pagine, corredate da tre introduzioni e dall’indice dei nomi, venduta al prezzo di costo, 12’500 lire. Dalla prefazione: «Le tremila pagine della relazione dovrebbero essere di do-

minio pubblico perché pubblicate negli atti parlamentari; in effetti ne sono state stampate copie in numero così limitato da non essere nemmeno sufficienti per i soli deputati e senatori, né si trovano in alcuna biblioteca al di fuori del Parlamento». Fu un gesto insieme legalitario ed eversivo, come dovrebbe sempre essere l’editoria militante. L’opera uscì nel maggio del 1973; dovevamo presentarla in anteprima a Rimini, al congresso della Lega delle Cooperative, ma il libro non era pronto, c’era solo il menabò con le pagine bianche, così portammo quello. Toccava a me, al sergente, l’onore e l’onere di percorrere il lungo corridoio centrale dell’immensa platea tenendo in braccio quei tre volumi che del libro avevano solo la copertina e consegnarli al presidente con la raccomandazione: «Mi raccomando, non li apra». La sussurrai, ma il microfono era aperto e la mia voce si diffuse in tutta la sala. La Cooperativa Scrittori è stata chiusa nel 1979.

i libri del tempo di Kafka, i libri che andavano allora, ristampati, premiati, pubblicizzati, che si regalavano perché erano di moda, i relativi autori in quegli anni erano celebri, lodati, saranno stati contenti della notorietà, si pavoneggiavano, se andavano in albergo a Cortina venivano riconosciuti, qualcuno si sarà anche gonfiato di vanità. Ebbene, chi se li ricorda più questi nomi? Nino Salvaneschi, Maurizio Dekobra, Pietro Casu (che nel 1927 era alla quarta edizione della su Notte sarda), Giuseppe Fanciulli, Michele Saponaro (quarta edizione di Nostra madre, Mondadori 1921), Girolamo Rovetta, Salvator Gotta (tra i più prolifici e rinomati), Jo’ Di Benigno, Bruno Corra, Federico Nardelli (il cui Nicewò, 1923, era nella collana Bemporad con Pirandello); cito alla rinfusa perché nello scaffale sono alla rinfusa. Ho provato a leggerli; dopo due pagine piantavo lì, solo parole gonfiate, in quello stile che ha avuto successo per un anno, due anni, e adesso non si sop-

porta più, anzi fa ridere, come i baffoni a manubrio, i favoriti e tutte le mode fugaci che durano poco; e diventano ridicolaggini. L’ingiustizia non è che questi signori siano emersi e abbiano per un po’ galleggiato, è normale in tantissimi campi, che la gloria sia una bolla che sale e poi scoppia, era solo aria. L’ingiustizia è per Kafka, e ormai non si può più rimediare, anche se i libri sono i pezzi della sua anima che continuano a vivere. Ma anche questa è una frase consolatoria, lui essere vivente e senziente che ha distillato dalla sua anima quei capolavori, che ci ha beneficato, lui non l’ha mai saputo di averli fatti i capolavori, cioè un po’ lo sospettava, ma cosa gli abbiamo dato in cambio? Neanche un’auto con l’autista, una bella casa e una bella moglie; anche se sulla moglie sarebbe stato restio; e anche la casa, chissà, a sentir lui dalle lettere a Felice, avrebbe preferito abitare in cantina per essere isolato e nel silenzio. L’auto? Mah, non sembra che per le auto

fosse molto appassionato. Almeno però una residenza per scrittori, con una borsa di studio, dove? a Praga? a Berlino? Per la verità da Praga a un certo punto è scappato, e a Berlino c’è andato. Cosa gli si poteva dare? Soldi? Non era così tanto interessato. Il premio Nobel? Quasi sempre il Nobel in letteratura va alla persona sbagliata, la Svezia vuole accontentare a turno un po’ tutti; Kafka col Nobel si sarebbe sentito sotto processo. Dunque? Dunque Kafka alla fine forse ha avuto la vita che è stata la vita di Kafka, niente di più, niente di meno. Se uno è destinato a gonfiarsi come un pallone, che lo si lasci gonfio; Kafka a questo non era portato. È un’ingiustizia? No, devo ricredermi. Ognuno fa esattamente la vita che gli è toccata, e nel caso di Kafka è strettamente legata alle sue opere. Dunque sì, lo vorrei ringraziare, ma (come nel racconto del digiunatore) non poteva far altro che quello che ha fatto. E se per caso mi sente, glielo dico qui: grazie!

non si toglie di mezzo continuando a reclamare la vittoria potrebbe oltrepassare il limite dell’equilibrio psichico tollerabile e sconfinare nel delirio di onnipotenza e in definitiva nella follia, a tal punto da richiedere l’intervento delle forze armate o quello dell’ambulanza. Sono tutti campi semantici e comportamentali limitrofi se si pensa a certe personalità disturbate che si ritrovano incredibilmente all’apice del potere e non accettano di venirne destituiti con le buone maniere. Ci sono casi, analizzati da Tramma, in cui è particolarmente «poroso» il limite tra maleducazione e trasgressione: prendete la Merda d’artista di Piero Manzoni, la famosa scatoletta contenente 30 grammi di escrementi e assurta a capolavoro di arte concettuale; oppure L.O.V.E. (acronimo di libertà, odio, vendetta, eternità), la scultura in marmo di Maurizio Cattelan, nota come «Il Dito», che consiste in un enorme dito medio di quasi cinque metri e che è collocata al centro di Piazza degli

Affari a Milano. Ci sono casi in cui è invece «poroso» il confine tra maleducazione e illegalità: cioè quando, oltre a infrangere la morale o il costume, il comportamento individuale viola le norme della legge. Il fenomeno impressionante è che questi limiti vengono oltrepassati spesso e volentieri dalle personalità pubbliche che tradizionalmente dovrebbero incarnare l’esempio massimo di buona educazione intesa nel senso comune di civiltà. Ecco il presidente degli Stati Uniti (1) che si vanta di circolare senza mascherina in tempi di pandemia, come se agitasse fieramente davanti a milioni di cittadini la sua merda d’artista. Ecco lo stesso presidente (-1) infischiarsene delle regole fiscali ed evadere le tasse senza il minimo senso della vergogna, e senza vergogna rivelare di aver aperto un conto corrente in Cina, che considera il paese più ostile agli interessi americani. Qualcosa del genere è già accaduto in Italia con un tale che ai tempi chiamavano il Cavaliere (2––): governante anche

lui, che si mostrava al mondo facendo le corna in un consesso internazionale, che esibiva la propria trasgressione erotica proprio mentre difendeva la sacralità della famiglia, che collezionava in allegria le accuse più svariate: dall’evasione fiscale alla corruzione di magistrati, alla prostituzione minorile, al concorso esterno in associazione mafiosa eccetera. E che adesso qualcuno vorrebbe candidato alla Presidenza della Repubblica. Massimo Fini, che è un giornalista paradossale e anarcoide (spesso 6–, raramente 2), ha dichiarato il suo favore verso la candidatura di Berlusconi al Quirinale: «non si sa se sia intelligente o meno, ai posteri l’ardua sentenza, ma è certamente furbo, furbissimo, astuto, astutissimo. Berlusconi è un bizzarro incrocio fra l’italiano di Machiavelli (“il fine giustifica i mezzi”) e quello del Guicciardini che punta sul “particulare”, ognun per sé e Dio per tutti». Rappresenta al meglio il peggio. Dunque, sia Presidente! La maleducazione (in senso lato) di Stato (1).

Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni L’ingiustizia del mondo Kafka, forse il più grande scrittore del Novecento, è morto di tubercolosi nell’agosto del 1924 senza che nessuno dei suoi meravigliosi romanzi fosse stato pubblicato. E anche dei suoi tanti racconti solo pochissimi erano stati stampati. Se non ci fosse stato l’amico Max Brod i manoscritti non si sarebbero di sicuro salvati, e noi saremmo senza questo tesoro inesauribile che il suo genio ha voluto donarci. Ma il fatto è che Kafka è morto e nessuno gli ha detto grazie, anzi nessuno gli ha fatto onore, o gli ha mandato una delegazione internazionale in rappresentanza dell’umanità beneficata. Ma neanche un premio, oggi che se ne danno tanti, da portargli però quando ancora era in vita. È morto sereno, a quanto sembra; ha salutato il medico e se n’è andato senza recriminazioni. Aveva corretto le bozze di un libricino di quattro racconti, Un artista del digiuno (Ein Hungerkünstler), ma non ha fatto in tempo a vederlo stampato; neppure questa piccola estrema

soddisfazione. Certo i suoi romanzi erano rimasti incompiuti, America e Il processo entrambi con una larga lacuna, e Il castello senza finale. Qualunque editore gli avrebbe detto: prima finiscili! Anche se l’incompiutezza fa parte oggi del loro fascino; e anche se la soddisfazione per i veri scrittori sta nello scrivere, nell’essere tutti presi dal libro che cresce e diventa un’epoca bella della loro vita, che giustifica l’essere venuti al mondo. Però neanche un grazie? Visto che i ringraziamenti a posteriori lui non li può sentire, i convegni, le tante edizioni, le celebrazioni, le tesi di laurea e gli studi su, nonché le magliette con la sua foto vendute a Praga nelle bancarelle assieme ai souvenir, del che certamente si vergognerebbe, questo meglio non l’abbia visto, non aveva la faccia tosta che hanno i leader politici. Questa è l’ingiustizia del mondo. Poi guardo i libri che ho in una casa di campagna, libri degli anni 20, degli anni 30, comprati dalle mie prozie, da mio nonno e mio bisnonno, erano

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Lezioni di maleducazione civica Che un editore senta l’esigenza di pubblicare un libro intitolato Sulla maleducazione è indubbiamente quel che si dice un sintomo. L’editore è un editore serio come Cortina, l’autore è Sergio Tramma, un pedagogista dell’Università Bicocca di Milano, che si presenta come uno studioso dei nessi tra educazione e contemporaneità. La domanda, molto attuale, su cui si regge il saggio (5+) è: la maleducazione è mancanza di buona educazione o cattiva educazione intenzionale? La risposta tende nettamente verso la seconda ipotesi: la maleducazione non è più manifestazione di un limite subculturale innocente e inconsapevole, ma è sempre più spesso un’espressione volontaria, un comportamento ritenuto legittimo da chi lo pratica e persino prestigioso. L’aspetto più interessante è questo: ciò che un tempo consideravamo un comportamento normale o normalmente beneducato, per esempio fumare in compagnia al chiuso, è uscito dai codici non solo della legge (per quanto concerne i luoghi pubblici)

ma anche della buona educazione (nei luoghi privati). Insomma, si stanno sviluppando maleducazioni di tipo nuovo, specie in ambito ecologico. Chi si rivolge sgarbatamente a un insegnante o a un anziano può anche (ma non sempre) essere considerato un maleducato (inteso in senso tradizionale-umanistico), ma lo è ancora di più chi getta un mozzicone di sigaretta dall’auto o non fa la raccolta differenziata. Chi non rispondeva a una lettera era un maleducato, oggi chi non risponde a una mail è una persona molto impegnata. Il ministro che spara una parolaccia in un dibattito è un gran simpaticone, modello di comportamento. Istituiremo a scuola un’ora di Maleducazione civica? Perché no. Cambiano i codici e le coordinate di comportamento. Un governante che non accetta la sconfitta elettorale e non porge la mano all’avversario può essere considerato un duro arrogante o un autocrate incapace di cogliere e accettare il senso più banale della democrazia. Ma è anche, indubbiamente, un cafone e se


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