Azione 50 del 7 dicembre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’azione ansiogena dei social media spiegata dalla psichiatria evoluzionista nel libro di Randolph M. Nesse

Ambiente e Benessere I trattamenti cosiddetti «antiandrogeni» usati nella terapia contro il tumore alla prostata potrebbero avere un effetto protettivo contro il Covid-19

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 7 dicembre 2020

Azione 50 Politica e Economia È troppo presto per liquidare Trump e il trumpismo

Cultura e Spettacoli Un’opera da non perdere, in libreria dopo anni di assenza: Il volo magico di Ugo Leonzio

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Covid-19, ingabbiati nella seconda ondata

Vincenzo Vicari, con la fretta di fermare il tempo

di Peter Schiesser

di Giovanni Medolago

Archivio storico della città di Lugano

Non ci siamo. La seconda ondata della pandemia non è sotto controllo, né in Svizzera né altrove. Forse ci immaginavamo che una volta raggiunta la cima automaticamente la curva avrebbe cominciato a ridiscendere, come era avvenuto in primavera. Invece scopriamo che lassù in cima, in assenza di un lockdown completo, si estende un lungo altipiano e non una ripida discesa. Il ministro della sanità Berset si è detto da una parte molto comprensivo che le persone vogliano festeggiare il Natale insieme e godersi le vacanze sulla neve, dall’altra molto preoccupato che questo accresca la curva dei contagi, quindi dei malati, dei ricoverati, dei decessi. In effetti, l’obiettivo del Consiglio federale di dimezzare il numero dei contagi ogni due settimane ha funzionato in principio, portandoli da 8000 a 4000 a livello nazionale, ma ora si resta sui 4000 al giorno, oltre i 200 in Ticino (che ha di nuovo il numero più alto di contagiati per 100mila abitanti in due settimane: giovedì scorso 889, con tempi di raddoppio di 37 giorni, davanti a sei cantoni svizzero-tedeschi, secondo la quotidiana statistica di tagesanzeiger.ch). Scrivo queste righe prima che il Consiglio federale annunci nuove misure valevoli fino a Natale (con la speranza di poter concedere qualcosa in più fra Natale e Capodanno), ma le indiscrezioni trapelate durante i giorni di consultazione presso i cantoni lasciano intendere che la vita sociale verrà ristretta ancor di più, che i cantoni saranno chiamati a inasprire le misure, in special modo quelli svizzero tedeschi, ora che quelli romandi fortemente toccati all’inizio della seconda ondata mostrano una diminuzione dei contagi. La paura delle autorità federali, evidentemente, è di ritrovarsi dopo le feste di fine anno con una situazione peggiore di quella avuta nella prima fase della seconda ondata, che in Svizzera è costata più vite della prima. L’esempio degli Stati Uniti è lo spauracchio per ogni paese occidentale: per Thanksgiving, il 24 novembre, si sono mosse masse di persone, che hanno ripopolato aeroporti e rimescolato il tessuto sociale, ed oggi si contano 200mila contagi al giorno, quando già 100mila qualche settimana fa rappresentavano un primato, e le autorità temono che il numero dei decessi salirà dagli attuali 270mila a 450mila a fine febbraio. E per loro, come per noi, il Natale è ancora di là da venire. Facile quindi prevedere un prossimo periodo di accresciute misure restrittive. Ma cosa è andato storto? Se osserviamo come la seconda ondata ha colpito ogni paese, ma in tempi e modi differenti, dobbiamo riconoscere che la Svizzera non è un buon esempio se paragoniamo numero di contagi e mortalità, molto migliore se osserviamo la tenuta delle strutture sanitarie. L’analisi finale andrà compiuta a pandemia terminata, ma una constatazione viene fatta fin d’ora: per bloccare sul nascere una nuova ondata, più che le misure prese conta il momento in cui le introduci. E ottobre per la Svizzera è stato un mese perso. Nonostante i contagi aumentassero velocemente (ma non ancora le ospedalizzazioni, non ancora i decessi) si è perso tempo. Questo vale sia per le autorità, sia per i singoli e i loro comportamenti. E il risultato è il prodotto di ciò che si decide dall’alto e ciò che si attua individualmente – è il prodotto della consapevolezza delle autorità politiche e personale dei cittadini. Ed ora eccoci qua, con un 2020 che fa sentire il suo peso fino agli sgoccioli, e di certo su qualche mese in più del prossimo anno. Ma poi ci saranno i vaccini. La Gran Bretagna è la prima nazione occidentale ad autorizzarne uno, quello della Pfizer (quello di Moderna attende l’autorizzazione), che però deve essere mantenuto a – 70 gradi centigradi. Le prime 800mila dosi stanno arrivando dal Belgio, in totale se ne attendono 40 milioni, sufficienti per 20 dei 67 milioni di abitanti, dopodiché arriveranno altri vaccini. L’obiettivo è di vaccinare il 70 per cento della popolazione per ottenere l’immunità di gregge. L’esempio della Gran Bretagna sarà fondamentale per capire quante persone sono disposte a vaccinarsi. Perché sarebbe un errore fatale pensare che una grande maggioranza voglia farlo. In Svizzera i primi sondaggi indicano una quota di poco superiore al 50 per cento. Ciò che pure gli esperti ritengono comprensibile, dato che si sa ancora poco del funzionamento e dell’efficacia dei nuovi vaccini di Pfizer e Moderna, come pure di loro eventuali controindicazioni, che potrebbero insorgere solo tempo dopo. Ci vorrà un’attenta osservazione di quanto avverrà nei prossimi mesi in Gran Bretagna e un’oculata campagna di informazione delle autorità. Non ci sarà obbligo di vaccinarsi, le autorità insistono a dirlo. Ma una pressione in favore di una vaccinazione verrà da un’altra parte: ci sono già prime compagnie aeree che annunciano di lasciar volare solo persone vaccinate contro il Coronavirus, in futuro, e altrettanto faranno numerosi altri attori economici. Sarà il prezzo della nostra libertà e della nostra vita sociale.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Società e Territorio Un mentore per amico Giovani: Pro Juventute avvia da gennaio il Progetto Mentoring anche nella regione Tre Valli e lancia un appello ai volontari pagina 8

Videogiochi Quest’anno sia Microsoft che Sony hanno immesso sul mercato la prossima generazione di console: Xbox Series X|S e PlayStation 5 pagina 8

Sulle rotaie A pochi giorni dall’entrata in servizio della galleria di base del Ceneri ripercorriamo la storia delle tante linee ferroviarie e tramviarie del Ticino pagina 10

Abbiamo buone ragioni per stare male Pubblicazioni Le ricerche di Randolph

M. Nesse che applica la psichiatria evoluzionista per spiegare l’azione ansiogena dei social media

Lorenzo De Carli Compito primario di Facebook, Google, Pinterest, Instagram e Twitter è quello di manipolarci a livello inconscio senza destare il minimo sospetto e di invogliarci a rimanere connessi attraverso algoritmi sempre più perfezionati. Per soddisfare questi due obbiettivi occorre aver accesso a due cose: una buona conoscenza di come funziona la nostra mente e un’enorme massa di dati. Gli sviluppatori che, in questi anni, hanno potuto disporre delle due cose hanno però aperto un vaso, dal quale è uscito un genio che non risponde più ai comandi di nessuno. Proprio perché le tecnologie della comunicazione hanno rapidamente cambiato le nostre vite, facendo toccar con mano quanto vera fosse l’intuizione di chi, già a metà degli anni Novanta, diceva che esse non sono uno strumento di cui noi facciamo uso bensì una sfera d’esperienza nello stesso tempo sensoriale e cognitiva amalgamata a quella del mondo tangibile in cui si muovono i nostri corpi, è utile prestare attenzione a quelle caratteristiche della nostra mente che ci distinguono in quanto specie e che, nello stesso tempo, ci rendono esposti agli effetti di seduzione dei social media. Caratteristiche che l’evoluzione ha selezionato perché dimostratesi efficienti per la diffusione della nostra specie ma che, in un mondo radicalmente diverso rispetto a quello nel quale quei tratti furono selezionati, compromettono oggi la nostra salute mentale. Tra quanti stanno studiando il funzionamento della mente dal punto di vista evoluzionista è Randolph M. Nesse, psichiatra, fondatore della medicina evoluzionistica assieme con il biologo George C. Williams. Buone ragioni per stare male (Bollati Boringhieri) è il libro che Nesse ha pubblicato per illustrare le applicazioni della psichiatria evoluzionista. Gli argomenti principali sono l’ansia, l’umore basso e la depressione – spesso invalidanti stati della mente che tuttavia originano da meccanismi selezionati dall’evoluzione perché utili in contesti esistenziali che,

nel frattempo, sono scomparsi; per poi arrivare ad argomenti come, per esempio, le molte forme di dipendenza che si avvantaggiano dei meccanismi di appagamento dopaminergico del nostro cervello per entrare stabilmente nelle nostre abitudini quotidiane. Sebbene l’uso dei social media sia solo uno degli ambiti presi in esame da Nesse, l’attenzione posta ad alcuni disturbi mentali scaturiti da tratti comportamentali che ci hanno favorito in passato in quanto specie ma che ora si manifestano essere «maladattamenti», mette in luce non solo le nuove fragilità alle quali siamo esposti ma approfondisce la conoscenza del modo in cui le tecnologie della comunicazione e social media in particolare si avvantaggiano delle caratteristiche della nostra mente per dar luogo sia a specifici stati emotivi, sia a forme di dipendenza basate sul sistema di ricompensa studiato dalle neuroscienze. Per esempio, «la selezione naturale – scrive Randolph M. Nesse – ha fatto in modo che l’opinione che gli altri hanno delle nostre risorse, delle nostre capacità e del nostro carattere siano una cosa a cui teniamo enormemente. L’essenza dell’autostima sta tutta qui». Se un tratto come la valutazione della nostra reputazione sociale è stato selezionato è perché esso è stato funzionale alla stabilità dei piccoli gruppi sociali ai quali abbiamo appartenuto per la maggior parte della nostra esistenza in quanto specie. Sebbene l’ansia sociale ne sia la conseguenza inevitabile, restando la nostra esperienza dentro i confini di quelle stesse piccole comunità, essa funziona un po’ come un rivelatore di fumo che ci dice di prestare attenzione alle circostanze. Se, invece, la comunità nella quale siamo immersi ha dimensioni enormi (attualmente gli utenti di Facebook sono 1,6 miliardi) l’ansia sociale può prendere il sopravvento, fino a costringerci a verificare in ogni momento sul nostro smartphone se l’ultimo nostro post o l’ultima nostra fotografia siano stati graditi oppure no. I social media, quindi, reiterano lo stimolo a verificare lo stato della nostra reputazione sociale e, nello stesso tem-

Se le comunità nelle quali siamo immersi sono enormi l’ansia sociale può prendere il sopravvento. (Marka)

po, ci spingono ad esporci per chiedere sempre nuove conferme sociali. Ciò che prima aveva un’occorrenza occasionale con conseguenze positive o negative circoscritte nel tempo, oggi è diventata una pratica ininterrotta, con l’effetto che l’ansia sociale diventa invalidante. Se per un verso, con Buone ragioni per stare male, Nesse ha prolungato nell’ambito psichiatrico riflessioni avviate in Perché ci ammaliamo, c’è un tema del tutto nuovo della psichiatria evoluzionistica denominato «inconscio adattativo» che l’autore ha approfondito. Perché non riusciamo ad accedere alle nostre motivazioni e alle nostre emozioni? – si chiede Nesse. Secondo il ricercatore questa caratteristica della mente è stata selezionata perché latrice di alcuni vantaggi. Per esempio, «la rimozione minimizza la perturbazione cognitiva», in questo modo ci permette

di figgere più saldamente l’attenzione senza il disturbo dell’intromissione di pensieri svianti. Inoltre, egli scrive, «ho il sospetto che una funzione importante della rimozione consista nell’escludere alcuni desideri dalla coscienza». Mentre, dunque, da Socrate in poi abbiamo coltivato la convinzione che conoscere sé stessi è buona cosa, Nesse osserva che la selezione ha modellato la nostra mente per avere un accesso limitato a noi stessi e in tal modo darci maggior equilibrio. Se la teoria dell’«inconscio adattativo» dovesse essere confermata, lo scenario recentemente manifestatosi della nostra ininterrotta interazione con una rete che non solo tiene traccia di tutto quanto facciamo e diciamo, ma che – grazie ad algoritmi sempre più efficaci – è in grado di accedere ai nostri desideri inconsci meglio di noi stessi,

si configurerebbe come uno scenario nient’affatto idoneo alla nostra mente, che sarebbe continuamente perturbata o dal ricordo di fatti che non potrebbero conoscere l’oblio dell’inconscio perché sempre conservati nell’indeterminata cloud, o dall’esposizione a desideri finora tenuti a bada sotto il livello della coscienza. Abbiamo buone ragioni per star male perché l’evoluzione ci ha dato in eredità una mente che in un mondo industrializzato fa scattare il campanello d’allarme dell’ansia molto più frequentemente di quanto non accadeva nell’ambiente che abbiamo conosciuto nella nostra storia evolutiva, ma la sofferenza psichica è destinata a crescere tanto più, quanto più saremo immersi in un mondo informazionale sviluppatosi sfruttando le vulnerabilità della nostra mente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Il favoloso impegno di Amélie Volontariato Laboratori sociali e di integrazione, valorizzazione degli spazi, centro

di socializzazione: l’operato dell’associazione Amélie riconosciuto anche a livello nazionale Stefania Hubmann Da comparto problematico caratterizzato dall’isolamento sociale a modello di integrazione applicabile anche ad altre realtà. La zona di Pregassona situata lungo il fiume e delimitata dalle vie Industria, Ceresio e Giuseppe Maggi sta vivendo una significativa trasformazione grazie all’azione di un piccolo gruppo di suoi abitanti. Accolta positivamente sia dalle autorità luganesi, sia dai residenti dei grandi palazzi che definiscono il settore, l’iniziativa è già riuscita ad ottenere due riconoscimenti nazionali. Il Laboratorio sociale e di integrazione dell’associazione Amélie è stato infatti finanziato in qualità di progetto pilota dalla Società svizzera di utilità pubblica e figura pure tra i dieci progetti nazionali premiati quest’anno da «engagement-locale», organizzazione volta a promuovere l’impegno di chi sul posto favorisce la coesione sociale puntando in particolare sul volontariato. All’origine di questa rinascita vi è innanzitutto la Commissione di quartiere di Pregassona di cui da alcuni anni è presidente Marco Imperadore. Occasioni di incontro quali l’annuale evento organizzato dalle associazioni locali (l’apprezzata Festa dei vicini luganese) e la festa dei bambini hanno dimostrato quanto la popolazione apprezzi la possibilità di trovarsi, conoscersi e interagire in un contesto conviviale. Assieme a Luca Campana e Ihsan Alpen, pure membri della citata commissione, Marco Imperadore ha però spinto oltre il suo impegno per cercare di ovviare alle problematiche di ghettizzazione e integrazione manifestatesi negli ultimi anni in un comparto dove vivono diverse migliaia di persone di provenienza diversificata. Dati più precisi al riguardo sono nel frattempo stati chiesti alla Città, in modo da conoscere meglio la realtà nella quale si sta operando. Da rilevare, che il quartiere di Pregassona nel

Lugano e la guida del buon vicinato Fra le molteplici iniziative della Città di Lugano a favore di uno sviluppo sociale sostenibile figura ora anche la guida del buon vicinato. «Con…vivere» mira con consigli e suggerimenti pratici a migliorare la qualità di vita dei cittadini partendo dalle relazioni di maggiore prossimità, ossia quelle con i vicini di casa. Aiuto vicendevole, gesti di cortesia e ospitalità contribuiscono a migliorare la reciproca conoscenza e a rafforzare un legame basilare per la comunità. La guida è disponibile nei Punto Città, può essere richiesta all’indirizzo email socialita@lugano.ch o scaricata dal sito www.lugano.ch/guida-buon-vicinato.

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La nuova area per i più piccoli del parco giochi di via Industria. (CdT - Zocchetti)

suo insieme sfiora i 10mila abitanti. Non essendo la commissione un ente adeguato dal punto di vista strutturale ed amministrativo per sviluppare un progetto di tale portata, i tre cittadini hanno fondato l’associazione Amélie – come la generosa protagonista del film Il favoloso mondo di Amélie Poulain – che ora coordina l’insieme delle iniziative, alcune già avviate, altre in fase di preparazione. Malgrado il noto palazzone ed altre grandi strutture residenziali, il comparto lungo il fiume offre ancora zone verdi da valorizzare e spazi interni sfruttabili per organizzare attività comuni. «Uno dei nostri primi obiettivi – spiega a nome dell’associazione Marco Imperadore – è stato quello di proporre, ancora come Commissione di quartiere, la ristrutturazione del parco giochi di via Industria. Il progetto, in avanzata fase procedurale, prevede due nuovi campi da calcio in sintetico, una nuova pavimentazione per il campo da basket, l’aggiunta di giochi per i più piccoli, così come un’area di sosta per gli adulti. Sempre all’esterno saranno destinati spazi agli orti condivisi e alla permacultura. Si offrirà così alla popolazione un luogo d’incontro informale riunendo più attività e più generazioni. Il cuore del progetto resta il centro di socializzazione, per il quale il primo edificio individuato non si è però rivelato idoneo per questioni di abitabilità. Da gennaio 2021 dovremmo comunque poter iniziare l’attività in una parte del capannone di via Ceresio». Attività che saranno organizzate facendo capo a enti e associazioni presenti sul territorio, già specializzati nei rispettivi compiti. Precisa l’intervistato: «Abbiamo inoltre ricevuto molti suggerimenti, dagli atelier per i bambini alla ginnastica, dalle letture ai corsi di informatica. In una prima fase pensiamo di concentrare gli sforzi su proposte strettamente legate all’integra-

zione sociale come i corsi di italiano per stranieri, le lezioni di economia domestica e gli appuntamenti per facilitare i nuovi residenti dal punto di vista pratico e amministrativo. Sono comunque già previste alcune altre attività più generiche fra le quali la ginnastica per gli anziani». Le idee non mancano, così come l’interesse da parte di volontari per permettere a questi servizi di essere operativi. «Valuteremo le candidature in funzione delle necessità, mentre per coordinare le proposte legate al centro di socializzazione cerchiamo un operatore socio-assistenziale a tempo parziale. Pure la gestione degli spazi esterni, penso in particolare agli orti e alla permacultura, avrà bisogno di un responsabile. Stiamo ancora valutando se puntare esclusivamente sul volontariato o ricorrere in parte a professionisti. In ogni caso tutti gli interessati a collaborare possono farsi avanti. Siamo infatti tuttora alla ricerca di volontari, spazi e sostegni finanziari». Tutti i progetti partono dalle esigenze della popolazione, dalle caratteristiche del luogo e dalle sue risorse. Ciò ne facilita l’implementazione e ne assicura il successo. Quale infatti finora il riscontro da parte degli abitanti? Risponde Marco Imperadore: «L’iniziativa è stata promossa da persone cresciute in questo quartiere o che vi risiedono da molti anni. La conoscenza della realtà territoriale e sociale assicura all’associazione Amélie un solido punto di partenza sul quale intervenire con iniziative complementari non solo fra loro, ma pure rispetto alle attività già consolidate. Abbiamo constatato personalmente il desiderio della gente di trovarsi e di partecipare ad eventi ricreativi come pure a forme di sostegno quale ad esempio l’aiuto allo studio che sta coinvolgendo un numero crescente di bambini». Rassicurazioni giungono anche dal fronte istituzionale con la Città di

Lugano che sostiene il progetto, consapevole dell’importanza di un tessuto sociale sano in un quartiere densamente popolato. L’aver proposto all’ente pubblico soluzioni valide dal punto di vista dell’integrazione sociale e poco dispendiose da quello finanziario ha sicuramente contribuito a far apprezzare questa iniziativa. Malgrado l’impegno volontario dei suoi promotori e di parte del personale che animerà le proposte, i contributi finanziari sono indispensabili per sviluppare il Laboratorio sociale e di integrazione. L’associazione Amélie è già riuscita a mobilitare tanti piccoli sponsor e auspica che altri possano seguire. Ancora una volta si procede dal basso, passo dopo passo, per costruire insieme migliori relazioni umane, elevando la qualità di vita del singolo all’interno di una comunità di comparto e di quartiere. I suggerimenti e i sostegni raccolti nel quartiere dai membri dell’associazione Amélie dimostrano che il medesimo è vivo e desideroso di scrollarsi di dosso la cattiva fama di una parte di esso. I premi finora ricevuti attestano la validità del progetto, offrendogli la possibilità di estendersi ad altre realtà analoghe, siano esse cantonali o nazionali. Idee e principi scaturiti a Pregassona possono quindi essere applicati anche altrove, tenendo conto delle specificità e delle risorse di ogni singola comunità. La collaborazione con le autorità nel riqualificare lo spazio pubblico, creando una rete di servizi a costi contenuti ma ad alto valore sociale, risulta essere la chiave giusta per aprire nuove prospettive nelle realtà urbane meno favorite. Per i promotori dell’associazione Amélie un successo inaspettato che funge da ulteriore stimolo nello sviluppo del progetto.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Notizie in breve Nuovi biglietti in palio per Leonardo in 3D a Lugano Si è aperta lo scorso 3 dicembre a Lugano la mostra «Da Vinci Experience» (davinciexperience.ch), che coinvolgerà fino al 21 febbraio un ampio pubblico esponendo in maniera multimediale i capolavori di uno dei massimi geni del Rinascimento. Organizzata negli spazi del Centro Esposizioni di Lugano, «Da Vinci Experience» offre un’immersione suggestiva nei grandi capolavori della pittura di Leonardo; dà poi la possibilità di vedere da vicino alcune straordinarie ricostruzioni in grandezza naturale di alcuni dei suoi progetti. Oltre a questo, un’apposita sezione con visori per la realtà virtuale permette di vivere un’esperienza speciale volando con alcune sue invenzioni e utilizzando il suo famoso carro armato. I lettori di «Azione» hanno la possibilità di ottenere delle coppie di biglietti gratuiti per la mostra, offerti dal Percento culturale di Migros Ticino che sostiene l’evento. Per partecipare al concorso seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi.

Forum elle: visita speciale al m.a.x. museo La sezione ticinese di Forum elle, organizzazione femminile di Migros, propone un appuntamento speciale «fuori programma», alle sue socie e ai propri amici e simpatizzanti, il prossimo lunedì 14 dicembre, ore 16.30. Si tratta di una visita al m.a.x. museo di Chiasso con presentazione da parte della Dr.ssa Nicoletta Ossanna Cavadini del prestigioso quadro del maestro fiammingo Peter Paul Rubens Madonna con Bambino, e della mostra su Alberto Giacometti La grafica al confine fra arte e pensiero. La visita delle sale museali si terrà a piccoli gruppi. Al termine, per coloro che lo desiderassero, ci sarà la possibilità di gustare un menu «...a pranzo con Giacometti» presso il Ristorante Alchimia. Maggiori dettagli online www.forum-elle.ch. Iscrizioni presso la segretaria Simona Guenzani (email: simona.guenzani@ forum-elle.ch; Tel. 091 923 82 02). Posti limitati!

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Flavia Leuenberger Ceppi

Idee e acquisti per la settimana

149 anni di passione per le prelibatezze

Attualità I Marrons Glacés della Sandro Vanini

Flavia Leuenberger Ceppi

di Rivera sono delle specialità imprescindibili delle festività natalizie

Il paté al gin Bisbino Novità Un antipasto in edizione limitata

per la tavola delle feste

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Una sapiente combinazione delle migliori materie prime di origine 100% ticinese dà vita a un prodotto unico nel suo genere: il paterino al gin Bisbino. Preparato con minuziosa cura dagli specialisti dell’azienda Terrani Carni di Sorengo, è un antipasto assolutamente da provare per stupire i propri ospiti. Gli ingredienti, provenienti dal nostro meraviglioso territorio, includono fegato di vitello e lardo di maiale, animali allevati in Ticino, burro del Caseificio dimostrativo del Gottardo di Airolo e, ciliegina sulla torta, un buon goccio di Gin Bisbino biologico della Val di Muggio, che regala al paté un sapore incomparabile. La famiglia Ter-

rani è attiva da oltre 120 anni nel commercio del bestiame e delle carni, specializzandosi poi nella lavorazione di quest’ultime. L’azienda, giunta oggi alla sesta generazione, si è da sempre distinta per la sua capacità di innovare, senza tuttavia perdere di vista la valorizzazione e promozione dei prodotti locali. Paterino di vitello ticinese al gin Bisbino 150 g Fr. 6.95 invece di 7.90 Offerta Hit fino al 14.12 In vendita nelle maggiori filiali Migros

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Puntualmente come ogni Natale, arrivano sugli scaffali dei negozi Migros i finissimi Marrons Glacés della Sandro Vanini nell’elegante confezione regalo, disponibile nelle tre varianti da 6, 12 e 18 pezzi. Queste specialità sono prodotte ancora oggi secondo la storica ricetta originale del 1871 di nonno Vittorio Vanini, che fu il primo produttore svizzero di Marrons Glacés dopo aver imparato il mestiere durante un soggiorno a Milano. Per produrli vengono utilizzate solo le

Filetto di pesce persico svizzero Novità Da questa settimana le filiali Migros con banco del pesce

propongono il filetto di persico fresco allevato in Svizzera in modo sostenibile

La richiesta di pesce fresco proveniente da fonti responsabili è in continua crescita presso i consumatori. Migros, rispondendo a questa esigenza, recentemente ha inaugurato un moderno impianto di acquacoltura a Birsfelden, nei pressi di Basilea, in cui vengono allevati coregoni e persici in modo sostenibile. Ed è proprio quest’ultima varietà di pesce ad essere stata introdotta per prima nei supermercati Migros con banco del pesce fresco, dove è disponibile sotto forma di filetto. Il persico è uno dei pesci d’acqua dolce più pregiati grazie alla sua carne bianca soda dal sapore delicato. È molto apprezzato servito con una panatura di pa-

stella di birra e accompagnato dalla classica salsa tartara, ma è ottimo anche arrostito con la pelle o alla mugnaia. Un allevamento pionieristico

L’impianto di allevamento ittico di Birsfelden è gestito dalla Micarna, impresa del gruppo Migros, e permetterà di produrre pesce in modo sostenibile tutto l’anno. La struttura è a circuito chiuso ed è stata concepita per non lasciare tracce nella natura, garantendo al contempo la salute e la vitalità dei pesci. Questo moderno sistema di acquacoltura permette di rinunciare completamente all’utilizzo di antibiotici.

migliori castagne, raccolte a mano e selezionate accuratamente secondo dimensione, colore e sapore. La lunga lavorazione artigianale prevede l’asportazione della buccia, la lenta cottura e la delicata canditura, procedimento che dura ben 7 giorni e trasforma le castagne in prelibati Marrons Glacés tramite un cosiddetto processo osmotico. Infine, prima di essere confezionato, ogni singolo marrone viene controllato a mano e glassato.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Idee e acquisti per la settimana

Solo il meglio per le feste

*Azione 20% su tutto l’assortimento Sélection

Attualità Con la marca Sélection, Migros offre prelibatezze di primissima qualità

e dal sapore unico. Ecco alcune idee per una tavola natalizia all’insegna del buongusto

Fino al 14.12 Nelle maggiori filiali

Il gelato alla panna si fonde con il distillato ticinese di vinacce di Merlot per un’esperienza di gusto unica. È prodotto con soli 5 ingredienti genuini, ossia panna, latte intero, zucchero, tuorlo d’uovo e grappa La Ticinella.

Una torta di pan di Spagna che manda in estasi con il suo cuore morbido e l’intenso profumo fresco di cioccolato e mandorle. Guarnita con zucchero a velo e pezzetti di finissimo cacao caramellato per una presentazione impeccabile.

Le eleganti pere Conference di produzione svizzera deliziano grandi e piccini grazie alla loro succosa dolcezza che si scioglie in bocca. Da gustare da sole al naturale oppure per accompagnare i nostri formaggi stagionati.

Il sapore particolarmente intenso di questo crudo ticinese è dato dalla stagionatura di ben 18 mesi in ambienti appositi. La carne proviene da suini alimentati con siero di latte, erbe aromatiche e orzo ed è lavorata secondo antiche tradizioni.

Un’autentica golosità che sorprende per il suo aroma equilibrato. È facile da preparare, basta riscaldare il formaggio nel caquelon strofinato di aglio e affinare con pepe, noce moscata o paprica. Da gustare con pane o pezzi di bretzel.

Questa specialità mette perfettamente d’accordo gli amanti del celebre formaggio fuso svizzero e i fanatici del pregiato tartufo. La raclette al tartufo estivo ha un gusto delicato e nocciolato e arricchisce con stile la vasta gamma di raclette Migros.

Gelato Grappa La Ticinella 450 ml Fr. 5.55* invece di 6.95

Torta al cioccolato 420 g Fr. 6.85* invece di 8.60

Pere Conference svizzere al kg Fr. 3.90* invece di 4.90

Prosciutto crudo ticinese 18 mesi 100 g Fr. 9.70* invece di 12.20

Fondue alla birra 600 g Fr. 15.15* invece di 18.95

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Società e Territorio

Un ponte verso il mondo degli adulti Giovani Pro Juventute avvia da gennaio il Progetto Mentoring anche nella regione Tre Valli

e lancia un appello ai volontari che vorrebbero diventare mentori

Sara Rossi Guidicelli Da anni sento parlare con ammirazione di questo progetto di Pro Juventute, che unisce adolescenti e giovani adulti con figure più mature. Partito a Locarno nel 2008, è approdato nel Luganese, nel Mendrisiotto e poi a Bellinzona tre anni fa; ora si faceva sentire una necessità di allargare il campo d’azione anche alla regione Tre Valli e così da gennaio viene avviato il percorso di formazione e accompagnamento dei volontari mentori. Cosa è un mentore? Mentore è quella figura dell’Odissea di persona adulta che sta a fianco di Telemaco, figlio di Ulisse, nel difficile passaggio dall’infanzia alla maturità mentre suo papà è assente. Un mentore non indica la strada, bensì segue chi quella strada la sta percorrendo, a modo suo. In generale una ragazza o un ragazzo si sviluppa e trova il suo cammino anche grazie alla sua famiglia, al suo ambiente circostante, alla scuola, agli amici. Ma non per tutti le cose vanno lisce: ci sono giovani che devono fare tutto da soli, perché gli manca quella rete sociale intorno, oppure si trovano di fronte a un blocco totale e si sentono persi. Parliamo di persone tra i 15 e i 25 anni che sono esclusi da un progetto di formazione o da un percorso professionalizzante, che non si confrontano con un mondo di adulti in modo

costruttivo. «Il mentore è quel ponte che potrebbe collegarli al mondo dei grandi», dice Nadia Holenstein Notari, coordinatrice del Progetto Mentoring per la Svizzera italiana. Ci troviamo a metà novembre nella sala del Consiglio Comunale di Biasca, per una prima serata informativa: oltre a Nadia Holenstein Notari c’è Sabina Silvestri, la responsabile della nuova sede che sorgerà nel Borgo, accanto alla Scuola elementare, alla Bibliomedia e alla Ludoteca di Biasca. In quartiere vivo, di cultura e aggregazione. Avrebbero dovuto venire i mentori già attivi a Bellinzona e una ragazza «ex mentorata», cioè una giovane che ha partecipato al Progetto di Pro Juventute qualche anno fa, per raccontarci meglio di cosa si tratta; invece bisogna essere al massimo in cinque, quindi ci sono le due responsabili e tre persone interessate a diventare mentori. «Chiunque può entrare a far parte di questo progetto di volontariato», ci spiegano. «Chiunque può esserci per qualcuno. Non si tratta di fare l’educatore, né di sostituirsi al genitore. La formazione che impartiamo a tutti i mentori dà alcune regole, ma poi è un rapporto informale che deve instaurarsi, di conoscenza, amicizia, fiducia. Chiacchiere e accompagnamento. Ci si prefissa un obiettivo, per esempio trovare un lavoro, capire che tipo di ap-

prendistato o di scuola intraprendere, oppure regolarizzare alcune pratiche di vita, andare a vivere da soli e così via. Chiediamo ai mentori di incontrare almeno una volta a settimana il ragazzo, poi ogni rapporto è diverso; c’è chi si sente qualche volta anche al telefono, chi fa passeggiate insieme, chi si dà appuntamento all’ufficio collocamento per andare insieme allo sportello, chi si siede a un bar a scrivere il curriculum e fare due chiacchiere, chi tutte queste cose insieme...». È un volontariato impegnativo, sottolineano. «Non perché bisogna “sapere delle cose”, come detto non si tratta di fornire l’ennesimo sostegno professionale. Il Ticino è già ricco di ottimi servizi sociali, ma a volte quello che manca è proprio una persona che stia al tuo fianco quando hai diritto a usufruire di questi servizi. Andare da solo in un ufficio di collocamento o da un’assistente sociale, può essere faticoso e stressante, se non sei già solida tu come persona; ascoltare le informazioni date dall’orientatore professionale può dare adito a malintesi e risultare più scoraggiante che stimolante, se manchi completamente di autostima... questo ruolo di mentore non richiede solo tempo, ma anche energia per “restituire a qualcuno il gusto del viaggio”. Non potrebbe essere svolto da un professionista, solo da una “persona

Il rapporto con il mentore è informale e si basa sulla conoscenza e la fiducia. (Keystone)

comune”; qualcuno con un’occupazione lavorativa professionale o casalinga; ci sono mentori ingegneri, informatici, segretari, studenti e così via». Un aspetto fondamentale è: accettazione. Essere persone accettanti significa aiutare l’altro ad esprimere le proprie visioni, lasciargli lo spazio di essere chi è e chi vuole diventare. Senza giudizio, senza manipolazione, nemmeno la più benevola. «Con i figli a volte facciamo più fatica», sorride Nadia Holenstein Notari, «perché siamo più coinvolti emotivamente, ma con i mentorati dobbiamo proprio sforzarci di lasciar fare, purché non si mettano in pericolo loro stessi né mettano in pericolo qualcun altro». Il mentore ha uno, due, massimo tre mentorati e può anche incontrarli insieme se pensa che possa dare forza a ognuno di loro. Riceve un rimborso spese e può chiamare quando vuole le responsabili per consultarsi sull’andamento del progetto. In ogni caso, c’è un incontro mensile con il responsabile di sede, due sere al mese di formazione in cui fare il punto della situazione, raccontarsi, ricevere sostegno, ascolto e nozioni specifiche. Non c’è una durata specifica per il periodo di volontariato. Alla serata informativa ci mostrano un pezzo di un documentario della Rsi su Veronica, una ragazza che un giorno ha chiamato Pro Juventute e ha detto: «Mia mamma ha trovato questo numero. Tra me e lei però adesso c’è un muro. Io sono stata licenziata e non so cosa fare». Adesso Veronica ha ottenuto la licenza di quarta media (Pro Juventute offre un corso per recuperare la licenza della quarta media), ha un suo appartamento, è apprendista e vede il futuro bianco e non più nero. «Non pretendo di andare sulla luna: sto bene con me stessa e questo mi basta». «In sette anni di lavoro – dice Nadia Holenstein Notari – ho sempre visto ragazzi compiere piccoli o grandi passi in avanti grazie al Progetto Mentoring. Pochissimi sembrano essere rimasti sul posto, ma chi lo sa: noi siamo come gli orticoltori, prepariamo la terra, la giriamo per darle aria, scaviamo, lasciamo cadere dei semi... poi a volte le piante non crescono subito, o crescono da un’altra parte, difficile sapere perché...». Ci mostrano un’altra testimonian-

za, questa volta creata apposta per questa serata da una volontaria: è Giusy, mamma di due figli che da qualche anno è mentore. «Loro hanno bisogno di credere in un adulto, e anche noi abbiamo bisogno di ricordarci chi eravamo da adolescenti e di scoprire davvero come sono i giovani, senza temerli, né temere le loro difficoltà...». Da gennaio comincerà il Progetto Mentoring a Biasca. Prima i ragazzi delle Tre Valli si riferivano alla sede di Bellinzona. Una volontaria attiva c’è già; ora si tratta di trovare altre persone interessate a formarsi e a buttarsi, senza paura di sbagliare. Perché il nostro compito non è di dare un’immagine idealizzata dell’adulto, anzi. Gli adulti sono persone di carne e di sogni, di errori, emozioni e tentativi, come tutti, sempre. «Per noi la formazione è importante che sia arricchente per la persona che la segue», afferma Sabina Silvestri. «Si impara piano piano anche a conoscersi, nelle debolezze e nei punti forti, a prendere la giusta distanza e la giusta vicinanza. È normale e azzarderei giusto avere paura di portarsi a casa le sofferenze degli altri, di prendersi troppo a cuore le storie di chi sta male: ma poi si impara a gestire tutto questo. Davvero, succede a tutti noi, e poi con il tempo e l’esperienza si cresce anche da questo punto di vista». Per finire, ci lasciano una poesia, di Andrea Scarinci, mentore da vari anni a Bellinzona. Una poesia che si intitola Non dirlo. Aiutami. Ma non dirlo. Chiamami. Non risponderò. Ferma il vortice che mi scompiglia, dammi qualcosa da inseguire. Toccami ancora con le parole, dimmi quello che so già. Sommati al mio fardello e fatti odiare, anche tu. Gioca con me. O costringimi. Rimproverami. O convincimi. Ricoprimi di giudizi, ma, ti prego, aiutami. Informazioni

nadia.holenstein@projuventute.ch

L’inizio di una nuova generazione Videogiochi Xbox Series X|S e PlayStation 5 arrivano sul mercato svizzero Davide Canavesi Il 2020 è stato un anno che ha tenuto i videogiocatori di tutto il mondo col fiato sospeso e per una volta tanto non a causa della pandemia. Questo è stato, infatti, l’anno in cui sia Microsoft che Sony hanno immesso sul mercato la prossima generazione di console di videogiochi: Xbox Series X|S e PlayStation 5. Le due piattaforme concorrenti, nel bene o nel male, influenzeranno in modo massiccio lo sviluppo di giochi ed esperienze multimediali per la prima metà di questa decade. Scelte simili ma anche contrastanti che tentano di catturare la curiosità, l’immaginazione e la «fedeltà videoludica» di un sempre più nutrito gruppo di potenziali acquirenti. Sono parecchi ad interrogarsi su quale sia la piattaforma migliore, quale sarà la vincitrice di questa generazione e specialmente su quale delle due mettere sotto l’albero di Natale. PlayStation 5 è l’offerta di Sony. Esiste in due versioni, una dotata di lettore Blu-ray mentre l’altra ne è sprovvista. Si tratta di una differenza importante, non solo per il prezzo di vendita,

inferiore per il modello senza disco, ma anche per un eventuale futuro comportamento d’acquisto. La versione dotata di lettore ottico può leggere i giochi che già possediamo per PlayStation 4 e permetterà di acquistare giochi di seconda mano o in sconto nei negozi mentre, per la versione senza disco, l’unico modo di acquistare giochi è attraverso i servizi online di PlayStation. Quale che sia la scelta finale, PlayStation 5 propone diversi vantaggi rispetto al modello che l’ha preceduta. I caricamenti sono rapidissimi grazie all’utilizzo della tecnologia SSD per la memoria d’archiviazione. Graficamente si nota un netto passo avanti reso possibile non solo da una maggiore potenza del sistema ma anche dall’inclusione di capacità avanzate per quanto riguarda illuminazione e audio posizionale. Inoltre il nuovo controller offre ora grilletti che adattano la forza di tensione alle situazioni di gioco. La proposta di Microsoft è più complessa, dal momento che offre due console distinte: Xbox Series X e Xbox Series S. La prima è il modello di punta, dotata di maggiore potenza e di un lettore ottico, mentre la seconda

è esclusivamente digitale e meno potente. In questo caso non c’è solo una differenza di prezzo, anche piuttosto sostanziale, tra le due console, bensì anche un notevole scarto di prestazioni. Xbox Series X è stata creata per giocare con risoluzioni più elevate e con più immagini al secondo mentre Xbox Series S è pensata per risoluzioni più vicine al classico FullHD. Quello che accomuna le due macchine sono i giochi, compatibili tra loro. Microsoft ha puntato molto sulla libreria, offrendo retrocompatibilità con titoli di Xbox One, Xbox 360 e addirittura Xbox, oltre che offrendo un servizio in abbonamento, chiamato Game Pass, che permette di accedere ai propri giochi non solo sulle nuove console ma anche su PC. Una strategia che il capo divisione Phil Spencer non nasconde: per Xbox conta che i giocatori usino la loro piattaforma, sia essa PC o console. Le due nuove Xbox, come PlayStation 5, offrono un notevole passo avanti per quanto riguarda la resa grafica, arrivando perfino a migliorare titoli già usciti con risoluzioni maggiori e più fluidità. Nonostante le differenze in su-

Le nuove Xbox Series X e S.

perficie, le nuove PlayStation e Xbox offrono un’esperienza finale assai simile. Entrambe supportano risoluzioni 4K e 8K, entrambe dotate di dischi a stato solido, avanzate funzionalità online, lettori multimediali e possibilità di catturare e condividere immagini e clip di gioco. C’è differenza di potenza ma nulla di davvero sconcertante: le esperienze multipiattaforma (ovvero giochi che escono su entrambe) saranno verosimilmente equivalenti. Tuttavia, ci sono considerazioni importanti da fare nello scegliere una piattaforma o l’altra. La prima, probabilmente la più importante, sono i titoli esclusivi. Esistono giochi che sono legati a PlayStation o Xbox, a cui non possiamo giocare se non abbiamo accesso a una o l’altra console. Durante la scorsa generazione abbiamo visto parecchi titoli single player, con un forte accento su storia ed

esperienze personali, uscire su PlayStation 4. Xbox One ha ricevuto più esperienze multiplayer. Una tendenza che vedremo continuare anche in questa generazione, almeno nei primi anni. La seconda considerazione è il gioco online. A dipendenza di quale piattaforma possiedono i nostri amici (anche solo virtuali) la scelta cadrà piuttosto su una o l’altra piattaforma, col rischio di restare esclusi dalla nostra comunità virtuale se decidiamo di andare contro corrente. Quale che sia la console che metteremo sotto l’albero nel 2020, il futuro videoludico ci appare roseo. Mai come ora c’è stata un’esplosione di creatività e di uscite di nuovi giochi. Dalle serie più blasonate e famose alle piccole gemme indipendenti. Inoltre, coi tempi che corrono, restare in casa non è più visto così male: conviene approfittarne.


Aperture straordinarie Martedì 8.12 Domenica 13.12 Domenica 20.12 saranno aperti dalle ore 10 alle 18 i seguenti punti vendita MIGROS: Biasca – Arbedo-Castione – Bellinzona – Centro S. Antonino Riazzino – Locarno – Losone Do it + Garden – Taverne Taverne Do it + Garden – Pregassona – Lugano Parco Commerciale Grancia – Grancia Do it + Garden Centro Agno – Centro Shopping Serfontana

Domenica 27.12 saranno aperti dalle ore 10 alle 18: Biasca – Arbedo-Castione – Bellinzona – Centro S. Antonino Riazzino – Locarno – Taverne – Pregassona Lugano – Parco Commerciale Grancia – Centro Agno Centro Shopping Serfontana Giovedì 24 e 31.12 tutti i punti vendita chiuderanno alle ore 17


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Società e Territorio

Quando il Ticino si muoveva su rotaia Storia A pochi giorni dell’entrata in servizio della galleria di base del Ceneri lanciamo uno sguardo al passato

quando nel nostro cantone si contavano diverse linee ferroviarie e tramviarie

Rocco Bianchi In Ticino il prossimo treno dei desideri passerà verso metà dicembre quando, con l’entrata in servizio della galleria di base del Monte Ceneri, diverrà operativa la prima tappa di AlpTransit. Mentre i più ottimisti prevedono una rivoluzione per il trasporto pubblico pari a quella che avvenne nel 1882 dopo l’apertura della linea del San Gottardo e parlano già di «metro-Ticino», i realisti frenano, poiché diverse delle tessere che dovrebbero comporre questa futura rete, tra cui il tracciato a sud di Lugano, ancora mancano. In sovrappiù gli immancabili scettici ricordano non solo questo, ma anche la fine ingloriosa che fecero la maggior parte delle linee ferroviarie e tramviarie del bel tempo che fu. In effetti l’amore dei ticinesi per le rotaie, Gottardo a parte, non è mai sbocciato. Non sorprende quindi che negli anni 60, mentre nel resto della Svizzera la maggior parte degli amministratori in vista del pronosticato e poi avvenuto esponenziale aumento del traffico privato decise di rammodernare e potenziare i trasporti pubblici, il Ticino virò in direzione contraria. Cosicché solo due linee superarono gli anni del boom economico: la Centovallina e la Lugano-Ponte Tresa (FLPT). Tutte le altre scomparvero. E non furon poche. Arrivando da nord ad esempio già a Biasca si poteva cambiare e risalire la Valle di Blenio fino ad Acquarossa. La concessione, rilasciata nel 1899, a dir la verità prevedeva che la linea arrivasse fino ad Olivone. La seconda tratta non fu però mai realizzata; in compenso nel 1911 vide la luce la prima, che appunto collegava Biasca ad Acquarossa. Sopravvisse fino al 1973, quando fu sostituita da un servizio di autopostali. Autorità e popolazione tra il vecchio treno e le promesse, poi mantenute, di migliorie stradali ebbero pochi dubbi su cosa scegliere (sarebbe interessante sapere cosa ne pensano oggi). A Bellinzona i viaggiatori potevano inoltre risalire la Mesolcina fino a Mesocco. Anche in questo caso si trattò del primo tratto di una linea mai

Il tram a Mendrisio: la linea che da Chiasso portava a Riva San Vitale entrò in funzione nel 1910. La fotografia è tratta dal libro Curiosando nel passato del Sottoceneri di Diego Luraschi (Fontana Ed., 2006).

completata: il progetto prevedeva infatti di raggiungere Coira attraverso il San Bernardino, ma non se ne fece mai nulla. La prima e poi unica tratta venne comunque inaugurata nel 1907, e pure lei, seguendo un percorso simile a quello della sua «sorella» bleniese, sopravvisse fino al 1972 (la linea turistica tra Castione e Cama attiva dal 1995 al 2013 è pura aneddotica). Pure a lei fatale fu la strada (la cantonale del S. Bernardino prima, la N13 e il tunnel sotto il passo poi), nonché l’orientamento del Consiglio federale, contrario fin dai primi del ’900 alla realizzazione di una linea alternativa a quella del Gottardo. Aggiungeteci che il capolinea di Bellinzona non coincideva con la stazione FFS (malgrado i progetti non venne mai spostata), e capirete perché il destino di questa linea era segnato fin dall’inizio. Pure al sud del cantone i progetti non mancarono. Ad esempio dal 1910 si poteva viaggiare in tram da Chiasso fino a Riva San Vitale passando per i principali centri del Mendrisiotto. Malgrado la concorrenza del treno, la

linea conobbe un buon successo iniziale, anche grazie ai collegamenti con la rete di Como e la ferrovia del Monte Generoso. Fu tuttavia un fuoco di paglia: già nel 1948 fu soppressa la tratta tra Mendrisio e Riva; il resto seguì nel 1951. L’idea di sostituirla con un servizio di filobus non attecchì. Da Mendrisio si poteva inoltre raggiungere Stabio e da lì recarsi in Italia fino a Castellanza tramite la ferrovia della Valmorea, una linea in parte resuscitata con l’attuale Mendrisio-Malpensa. Inaugurata nel 1904, fu completata oltre vent’anni dopo, nel 1926. Per di più fu internazionale solo per altri due anni, ché nel 1928 Roma posò sui binari un cancello al confine e interruppe il collegamento. Da allora, anche se in Italia il servizio passeggeri chiuse nel 1952, tra Mendrisio e Stabio circolarono solo merci. Nel 1990 è iniziato un progetto di recupero a fini turistici ad opera del Club del San Gottardo e dell’associazione Amici della ferrovia Valmorea, progetto che continua tuttora.

Il centro delle reti ferroviarie e tramviarie ticinesi furono comunque i due poli turisti per eccellenza, Locarno e Lugano. Sembra incredibile a chi oggi si ritrova giornalmente intasato nel traffico del Luganese, ma una volta la regione era solcata dai binari: oltre alla già citata Lugano-Ponte Tresa vi erano infatti la Lugano-Tesserete, la Lugano-CadroDino/Sonvico e un’estesa rete cittadina di tram (8 km). Quest’ultima vide la luce nel 1896: tre linee collegavano il centro con Cassarate, Molino Nuovo e Paradiso. Visti i buoni risultati, fu ampliata fino a Castagnola a est e al cimitero a nord. Nel 1910 venne poi inaugurata una quarta linea, che andava dal centro a Besso passando per la stazione FFS. Nel 1959 però arrivarono i filobus, e tutto finì. All’epoca insomma c’era già quello che oggi si vorrebbe ricostruire a suon di milioni. Il men che si può dire è che gli amministratori di allora non brillarono in lungimiranza… Ai tram cittadini sopravvissero per

un decennio le due ferrovie. La Lugano-Cadro-Dino/Sonvico fu in attività dal 1911 al 1970. Fatale le fu in particolare la soppressione della tratta urbana nel 1965: chiamate a scegliere tra il potenziamento del trasporto privato e quello pubblico, le autorità cittadine ebbero pochi dubbi. Decorso simile ebbe la Lugano-Tesserete, attiva dal 1909 al 1967 (anche se fu ufficialmente soppressa nel 1970, le corse cessarono tre anni prima a causa del cedimento di un ponte). Come la sua sorella, sostituita da autobus. Oggi parte del suo percorso è diventato una ciclopista. A Locarno, prevedendo l’importanza che la ferrovia avrebbe assunto per lo sviluppo della regione, a fine ’800 l’allora sindaco Francesco Balli progettò addirittura tre ferrovie regionali, che sarebbero state collegate con le linee internazionali. Di queste una sopravvive ancora (la Locarno-Domodossola), una è scomparsa e l’ultima mai vide la luce. Quest’ultima doveva passare sulla sponda destra del lago e raggiungere Gravellona attraverso la Valmara, in modo da creare un ulteriore collegamento tra le linee del Gottardo e del Sempione. Si fosse completata la CoiraBellinzona, oggi si potrebbe viaggiare da est a ovest della Svizzera, non solo da nord a sud. Non un solo binario però venne posato. In compenso si realizzò una linea da Locarno fino a Bignasco, in Valle Maggia, per il turismo e per collegare le cave di granito ai trasporti internazionali. Fu detta appunto la Valmaggina, e operò dal 1907 al 1965. Fu la prima ferrovia a scartamento ridotto del Ticino e la prima elettrificata. Malgrado ciò, e malgrado l’opposizione della popolazione, anch’essa soccombette alla concorrenza della strada. A Locarno c’erano pure i tram, che invero non riscossero mai un grande successo. Fu in effetti costruita una sola linea, attiva dal 1908 al 1960. Al momento della sua massima espansione collegava la città con Muralto e Minusio a est e Solduno a ovest. Stranamente non raggiunse mai il centro turistico per eccellenza della regione, Ascona, che dunque ha avuto sul suo territorio un aeroporto ma mai una stazione. Insondabili misteri cantonticinesi. Annuncio pubblicitario

Per Roberto S. non è una novità: i suoi amici non gli sono vicini già da quattro anni.

Nome e immagine modificate a tutela della personalità

La Svizzera impara a mantenere la distanza minima.

Il coronavirus accresce la povertà in Svizzera. Con la sua donazione aiuta le persone in difficoltà. www.caritas.ch/covid19


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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Ridare respiro all’anima A tutti immagino sia capitato di sperimentare quella sana stanchezza del corpo che si prova dopo una lunga passeggiata nella natura o dopo una bella nuotata nel mare o al termine di una giornata di festa passata a cucinare per tutti. Una stanchezza cui sopraggiunge il riposo a offrire quelle benefiche interruzioni che scandiscono il tempo del vivere. Ma di un’altra stanchezza, di una stanchezza assai diversa ci parla oggi il tempo del nostro vivere. Un tempo in cui le interruzioni si fanno sempre più rarefatte o addirittura inesistenti, risucchiati come siamo dentro una mobilitazione permanente di gesti e pensieri, senza pause, senza discontinuità. In questo «tempo reale» che ha inghiottito le durate del tempo sono saltate alcune soglie del vivere e del suo senso. Smart work e Internet ci convocano dentro il flusso perpetuo di un agire senza confini e di un mercato senza orari. Viviamo nella più totale

ubiquità e in un continuo agitarsi. I tempi del lavorare si mescolano sempre più spesso con quelli del riposo e anche il tempo libero si trasforma facilmente in una specie di lavoro. Dobbiamo divertirci e così ci illudiamo di portare da un’altra parte i nostri giorni. E invece siamo sempre qui, nella simultaneità e nell’ubiquità senza interruzioni. Oggi si percepisce sempre più frequentemente una stanchezza cronica che si manifesta come fatica esistenziale, oggetto di ricerche mediche e psicologiche. Una fatica da gestire combattendo i disturbi del sonno o affidandosi ad integratori alimentari ormai assurti a mantra salvavita. Questa fatica si manifesta nel corpo ma viene da un malessere profondo che invade il nostro mondo interiore, il nostro sentimento di interiorità. È una stanchezza faticosa da accettare perché nasce nel giostrare inarrestabile dell’anima, sempre più prigioniera del bisogno di essere efficienti, performan-

ti, sempre all’altezza della situazione. Questo continuo agitarsi dentro i nostri giorni risponde al bisogno di obbedire a noi stessi, al nostro desiderio di esistere, di essere presenti sulla scena del mondo, prima ancora che al bisogno di obbedire alle pressanti richieste del grande mercato della vita. In questi interminabili giorni della pandemia questa stanchezza faticosa si è fatta ancor più dolorosa e ha assunto il volto triste di uno spaesamento sempre più padrone delle nostre vite. In questa situazione strana e straniante, che sembra non avere una fine, ci sentiamo tristi e stanchi negli strati più profondi delle nostre coscienze; stanchi di quella stanchezza, così ben raccontata da Fernando Pessoa, che non è pesante come la stanchezza del corpo ma riguarda la nostra intelligenza del mondo, ed è la più terribile: «un peso della consapevolezza del mondo, un’impossibilità di respirare con l’anima».

Ma è possibile ridare un respiro all’anima? È possibile scoprire, in questo nostro spaesamento, risorse inattese? Come dire: è possibile dare un altro significato alle parole? La domanda non è priva di senso perché le parole sono la casa in cui abitiamo, sono la nostra comune dimora da cui nasce il racconto della realtà e del nostro modo di stare al mondo. Cambiando le parole potremmo forse cambiare il mondo, o perlomeno la nostra percezione e il modo di abitarlo. Il dover «stare a casa», ad esempio, può raccontare un limite, un’interruzione, una perdita di legami, ma anche un incontro con la propria casa interiore, un’esperienza di intimità, sorgente di nuove consapevolezze e nuove aperture. La stessa cosa può accadere alle parole che raccontano la solitudine dello «stare soli», quella solitudine accolta e coltivata del sostare con sé stessi che può rovesciare il racconto doloroso del «sentirsi soli».

Proviamo allora a dare altre parole anche alla stanchezza. A riconoscerla innanzitutto come condizione costitutiva della nostra umanità, come lo sono anche la vulnerabilità e la finitudine: espressioni dell’umano da accogliere in noi come la potenza di un limite che sa donare senso al vivere. Proviamo ad abbracciare questa stanchezza, a sentirla parlare con la voce del corpo, troppo spesso inascoltata. Una voce che racconta finalmente la possibilità di un’interruzione, la possibilità di una sosta, e suggerisce il desiderio di contemplazione. L’etimo della parola «contemplazione» ci ricorda lo sguardo attento di chi osservava il volo degli uccelli in un orizzonte di cielo (templum) per trarne presagi. Contemplare: colorare di stupore la nostra stanchezza e, sporgendoci dalla finestra più intima, immaginare un futuro. Così, la fatica del presente può trasformarsi in un invito a prendersi cura della propria vita.

risaltare il bel rosso cinabro prevalente. Riprodotta dalla stessa ditta di Vienna creatrice dell’originale, grazie al desiderio di Rolf Schädeli e Nathalie Jeanrenaud – che dieci anni fa hanno preso in mano l’Odéon dandogli nuovo lustro mantenendo la sua innata eleganza – gioca un ruolo fondamentale. Kurt, coetaneo novantenne del locale che viene qui da una vita ogni giorno a bere il suo caffè e leggere i giornali, mi confessa perché ha incominciato a venirci: «la Carmen». Moglie «bella come un quadro» del patron spagnolo. Mi racconta poi di un cameriere speciale alto un metro e mezzo, sempre con il cravattino nero d’ordinanza, soprannominato Piccolo. È Alfredo Bertacchi, un ticinese emigrato nel 1948 che scrive poesie sui giocatori di morra. All’Odéon, tra l’altro, a quanto pare, si fermava spesso fino a non molto tempo fa, lo chauffeur di una Rolls-Royce che ordinava due bottiglie di champagne. Una per lui che si scolava seduto ai tavolini fuori, dove adesso ci sono un paio di fumatori e le coperte invernali, una

per i tergicristalli. Noto sul dorso dello schienale di una poltroncina, di fronte al tavolino riservato ai giornali, un interludio di zinco sul quale sono incisi i nomi di quotidiani vari, alcuni estinti, come «La Suisse». Non voglio battere il record di permanenza qui – diciassette ore e trentasei minuti, un quartetto di amici – ma non ci sono importanti motivi per andarmene. Ben frequentato anche di questi tempi, l’andirivieni è continuo ma vellutato. L’atmosfera si anima al crepuscolo quando appaiono coppiette con prosecchino, vecchietti con birrette. Una ricorrenza, qui, verso Natale, è la battaglia delle spagnolette. Ci si concentra per trovare, all’interno della spagnoletta, sulla faccia di una delle due metà, la testa microscopica di un Babbo Natale, San Giuseppe, o folletto. E al contempo, ci si lascia andare a lanciarsi addosso le spagnolette senza pietà. Una signora con un vestito a fiori, seduta in compagnia del suo kir, mi rivela che il suo barboncino soffre di disturbo affettivo stagionale. La cura, secondo lei, sono i canapé.

Una grande comodità, non vi è dubbio, fanno tutto da soli. La fotocamera incorporata e la localizzazione simultanea non solo permettono all’aspirapolvere di aggirare gli ostacoli ma anche di mappare con accuratezza casa nostra e i nostri spazi. Per una maggiore precisione vi trascrivo le caratteristiche di uno di questi modelli in circolazione: «Raccoglie tutti i tipi di dati, dalle dimensioni della stanza e dalla posizione del mobile alle distanze tra i diversi oggetti collocati nella stanza, che potrebbero aiutare i dispositivi IoT (Intelligence of Things) di nuova generazione a costruire una vera e propria casa intelligente». Una notizia fantastica. Ma poi cosa succede con questi dati? Vengono forniti a terzi, molti utenti autorizzano la società di aspirapolvere a condividere i dati con fornitori di terze parti e consociate e su richieste governative. Non c’è poi da meravigliarsi se il negozio

di arredamenti della zona che sa perfettamente quali mobili – misura, tipologia e via dicendo – ci servono, ci bombarda con della pubblicità mirata. Se questo è il risultato dell’aspirapolvere pensate quanti dati sulla nostra vita quotidiana e privata possono andare a terze parti sconosciute nel momento in cui chiediamo ad Alexa che tempo fa fuori o il frigorifero intelligente che ci dice di comprare il latte e così via. Il punto è questo: perché dare il consenso alle aziende a trattare i nostri dati e a venderli o inoltrarli a terzi? Perché accettarlo come se fosse una cosa normale? Forse perché essere sorvegliati è diventata un’abitudine o è di moda? O forse perché non riflettiamo abbastanza sulle conseguenze o su cosa significa dare i nostri dati in mano ad altre persone, aziende di cui non conosciamo gli interessi e i fini? Pensateci, ci torneremo nella prossima puntata.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il café-bar Odéon a Biel o Bienne Aria di neve, odore di caldarroste, cielo lattiginoso. La giornata ideale per rifugiarsi all’Odéon. Due volte in un decennio ci sono stato, eppure ho ancora negli occhi, vivida, quest’oasi anni trenta di velluto rosso. Cinque minuti neanche, tutto dritto, lungo la Bahnhofstrasse o rue de la Gare. Il neon della scritta in corsivo, purtroppo, di primo pomeriggio, è ancora spento. Alla stessa maniera, sotto, sopra l’entrata, c’è scritto lo slogan: à l’Odéon tout est bon. Di sicuro, la terza volta, inebetito e indeciso sul tavolino a cui sedermi, il café-bar Odéon (433 m) a Biel o Bienne mi sembra ancora più bello. Considerato dall’Heimatschutz tra «i più bei caffè e tea room della Svizzera», ora, così su due piedi ai primi di dicembre, oserei quasi dire che per bellezza non teme rivali. Velluto rosso vermiglio, boiserie, tavolini in marmo nero venati di bianco, specchi, separé, lampade in ottone, e una carta da parati floreale sensazionale. Trovato il mio posto da dove posso lanciare uno sguardo d’insieme, questi ingredienti sono abbastanza imbattibili. Ordino un caffè tazza grande

stile detective Cooper di Twin Peaks. I cuscini di velluto rosso vermiglio noto anche come cinabro, sono agganciati, attraverso un cordoncino intrecciato in tinta che sbuca da un anello d’ottone, a un pomello delle poltroncine in legno. O delle panche, come questa dove siedo che arriva fino alle vetrate, sulla strada. Un bel legno bruno lucido, a tratti tipo radica. Si ritrova, oltre che nelle sedie, nel piede dei tavolini, nei separé, e nell’appendiabiti: capolavoro nascosto. Più chiaro, consunto dal tempo, appare il legno sui guizzanti posabraccio delle poltroncine. Come quello là, accanto al bancone di zinco, dove una signora legge un libro. Un signore, un tavolo più in là, beve un bianco. Nato nel 1930, il primo locale della Svizzera a essere iscritto nel registro di commercio come bar, omonimo del più famoso Odéon zurighese (1911), conta da sempre su una clientela fedele, abitudinaria fino all’ossessione. Fondato da José Monné, originario di Sant Andreu de la Barca, in Catalogna, il patron fino agli anni ottanta è il figlio, assieme alla moglie Carmen. Sorseggio

il caffè e osservo, senza tregua, in giro. Il posto scelto, centrale, fa angolo con il separé che delimita la parte più intima dell’Odéon biennese. Posso così tenere sotto mira tutta la prima parte, più luminosa, dove ci sono nove tavolini, sei dei quali occupati. Cinque grandi lampadari sferici – vetro opaco e ottone – appesi al soffitto, tre altre lampade sferiche che spiovono da archi in ottone cesellato a foglia, tre orchidee bianche. Al contempo, da qui, posso osservare, in parte, anche la zona più discreta che conta sette tavolini, di cui uno rotondo, qui a fianco, dove un papà tipo artista e la figlia con un pulloverone da rapper, bevono due coche. «Mi succede una volta all’anno» ha detto prima alla figlia, a proposito della cocacola. La carta da parati rapisce con tutti quei calici enormi di strani fiori sensuali stile foresta amazzonica e papaveri. Intonati ai cuscini, prolungano il rosso tutto intorno, ombreggiato a tratti, in tonalità più scarlatte che mi ricordano i melograni o il karkadé. Intramezzati, i ricami-fogliame di un verde pavone profondo su sfondo inchiostro, fanno

La società connessa di Natascha Fioretti Gli aspirapolvere smart e i nostri dati In questi giorni sto leggendo un libro dello storico inglese James Wyllie. Edito da UTET si intitola Naziste. Le mogli al vertice del Terzo Reich e apre per me uno sguardo inedito su Hitler e il suo ristretto gruppo di fedelissimi, Himmler, Goebbels, Goering e gli altri, i rapporti tra loro e le loro donne. Naturalmente ci racconta come erano queste donne, Magda Goebbels, per citarne una, che alla fine del conflitto fece avvelenare i suoi figli, e quanto fossero animate dalla competizione pur di entrare nelle grazie del Führer. Secondo il giornale inglese «Guardian» «James Wyllie racconta le storie delle mogli dei gerarchi costruendo un prisma inedito attraverso il quale guardare al periodo nazista». Se il tema vi interessa sapete cosa fare, il motivo invece per cui ho deciso di parlarvene è molto preciso e riguarda questo passaggio: «Il 12 marzo 1938 a poche ore dall’ingresso indisturbato delle

truppe tedesche in Austria, Himmler e Heydrich arrivarono a Vienna. Si stavano preparando da mesi. A loro disposizione avevano le informazioni raccolte sui potenziali oppositori al nazismo: ciò che restava della sinistra, cittadini prestigiosi che avrebbero potuto arrischiare una resistenza, intellettuali, scrittori e artisti con un curriculum sospetto. E poi notizie dettagliate sulla vasta comunità ebraica - concentrata a Vienna - e soprattutto sui componenti più ricchi dei loro giri d’affari. Sin da quando aveva formato l’unità di controspionaggio, Heydrich era stato in grado di comprendere il grande valore delle informazioni. Aveva cominciato quasi subito a compilare una raccolta di schede contrassegnate con colori diversi che contenevano dettagli precisi su alcuni individui di particolare interesse. Questo sistema di schedatura che Heydrich archiviava dentro alcuni scatoloni nel suo appar-

tamento di Monaco era cresciuto e ormai riguardava migliaia di persone. Quando lui e Himmler arrivarono nella capitale austriaca tutte le schede più importanti erano state selezionate e i due erano pronti per sfruttare tutto ciò che sapevano». Ho voluto riportare il testo originale perché ognuno di voi potesse fare le sue riflessioni, in ognuno di voi, queste parole e questi fatti richiameranno pensieri e sentimenti diversi. Nella mia testa hanno risuonato in particolare le parole «schedatura», «valore delle informazioni» e «archivio». Mi sono chiesta cosa sarebbe stato se i nazisti avessero potuto usufruire dei mezzi tecnologici e di informazione che abbiamo oggi. Di riflesso, ora che invece li abbiamo, ho pensato che dovremmo guardare alla storia e imparare a trattarli con cautela e attenzione. Ma forse è già troppo tardi e vi mostro perché. Iniziamo dagli aspirapolvere smart.


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Ambiente e Benessere Sembrava che, e invece... Il mondo dei viaggiatori resta fermo e in attesa di capire come risolvere, si naviga a vista

Una verde per il popolo Presentata la nuova ID.3, una Volkswagen totalmente elettrica, ovvero la nuova auto «green» per tutti pagina 17

Un addensante eclettico La gomma di Xantano si presta a sostituire più che bene sia l’amido di mais sia la fecola pagina 20

pagina 15

La musa d’Idra Sulle tracce di un bell’amore e della creazione artistica di Leonard Cohen in Grecia

pagina 21 Su 5237 pazienti sottoposti a una terapia di deprivazione androgenica solo 4 hanno contratto la malattia Covid-19 e nessuno è deceduto. (Pixabay.com)

Buone prospettive per la ricerca farmacologica

Covid-19 Un farmaco contro il tumore prostatico potrebbe essere uno scudo contro il Coronavirus

Maria Grazia Buletti I trattamenti cosiddetti «anti-androgeni» usati nella terapia contro il tumore alla prostata potrebbero avere un effetto protettivo contro Covid-19. È l’idea sulla quale poggia l’ipotesi di uno studio farmacologico che parte dal Veneto e si delinea in Ticino in un protocollo clinico di verifica che vede coinvolti più attori: i ricercatori dello Institute of Oncology Research (IOR) guidati da Andrea Alimonti, professore all’Istituto di ricerca in biomedicina (IRB), l’Università della Svizzera italiana (USI) e l’Istituto oncologico della Svizzera italiana (IOSI) grazie alla sua direttrice medica e scientifica Silke Gillessen Sommer. Ne parliamo con l’oncologo responsabile dello studio per lo IOSI Ricardo Pereira Mestre: «Circa 90 malati di Covid-19 ticinesi hanno la possibilità di assumere l’Enzalutamide, un farmaco generalmente ben tollerato che solitamente viene usato per arginare il tumore prostatico». Tutto, dicevamo, parte da studi che poggiano su un grande volume di dati sanitari del Veneto dove si è osservato un rischio minore di sviluppare l’infezione da Coronavirus per gli uomini sottoposti a questo tipo di terapia: «I dati pubblicati sulla rivista “Annals of Oncology” parlavano di 5273 pazienti con cancro alla

prostata sottoposti a una terapia di deprivazione androgenica (basata cioè su trattamenti che contrastano gli ormoni maschili e i loro effetti sullo sviluppo del tumore). Di questi 5237 pazienti solo 4 hanno contratto la malattia Covid-19 e nessuno è deceduto. D’altra parte, dei 37’161 malati di tumore prostatico non curati con questo farmaco, 114 hanno contratto l’infezione da nuovo Coronavirus e 18 sono morti». Interessante la deduzione cui ci porta il nostro interlocutore: «I pazienti con carcinoma prostatico sottoposti a terapie con questo farmaco mostrano un rischio significativamente ridotto di quattro volte di ammalarsi di Covid-19 rispetto ai pazienti con tumore alla prostata che non lo hanno ricevuto». Inoltre: «Rispetto ai pazienti con qualsiasi altro tipo di cancro, quelli con carcinoma prostatico trattati con questo farmaco hanno un rischio oltre cinque volte minore di sviluppare il Covid-19». Ora, considerando i presupposti di maggiore aggressività da parte del Coronavirus sugli uomini per rapporto alle donne, il dottor Pereira Mestre ci chiede di concentrarci dapprima sul meccanismo di moltiplicazione del Coronavirus: «Per il virus è fondamentale riuscire ad entrare nella cellula per potersi moltiplicare al suo interno, usandone le strutture. Ma per entrarvi, deve

usare per così dire due “porte d’entrata”, una delle quali fondamentale e controllata dal recettore degli androgeni (ndr: ormoni maschili su cui agisce per l’appunto il farmaco antitumorale)». L’ipotesi di ricerca si basa perciò sulla possibilità che il trattamento farmacologico (che agisce proprio sugli androgeni) sia quindi efficace nel bloccare proprio questa porta, fungendo come scudo della cellula per impedire al virus di entrarvi e di moltiplicarsi». Si dovrà dimostrare che questo farmaco riesce letteralmente a «chiudere la porta in faccia» al virus proprio quando si sta moltiplicando attivamente nell’organismo. «Vogliamo concentrare questa ricerca sulle persone più fragili, dunque più a rischio: maschi (perché con decorso più grave delle donne), età avanzata e malattie pregresse come diabete, ipertensione e via dicendo». Punto di partenza è pure il presupposto di maggiore efficacia del trattamento se effettuato all’inizio della malattia: «Vogliamo iniziare la cura appena il tampone risulta positivo, perché confidiamo in una sua maggiore efficacia proprio all’inizio della malattia, quando i sintomi sono minimi (si sa che possono aggravarsi tra il quinto e il decimo giorno, dopodiché potrebbe esserci il tracollo che esige l’ospedalizzazione), in modo tale – se l’ipo-

tesi viene verificata – da avere migliore decorso e migliore prognosi». Lo studio durerà circa un anno e i pazienti che vi si sottopongono sono: «Uomini che hanno più di 50 anni e sono a rischio (ndr: potrebbero sviluppare complicazioni da Covid-19) perché soffrono ad esempio di diabete o ipertensione». Essi ricevono una terapia promettente in un contesto controllato che li monitorizza costantemente: «Bisogna iniziare appena il tampone risulta positivo così che i pazienti possano restare a casa e non essere ospedalizzati. Disponiamo allora il monitoraggio costante dei parametri a domicilio (saturazione di ossigeno, pressione e temperatura) che avviene in remoto, con l’ausilio della telemedicina. Essi sono dunque collegati con il Cardiocentro, con il 144 pronti a intervenire a un eventuale aggravarsi della situazione. Curasuisse si occupa di andare a domicilio per gli esami del caso come elettrocardiogramma e prelievi di sangue». È un po’ come portare l’ospedale a casa: «Questo perché secondo noi la chiave potrebbe stare proprio nel bloccare la malattia nella sua fase iniziale, evitando così un decorso grave e tentando di anticipare la guarigione con il blocco degli effetti del virus». L’idea, concepita la primavera scorsa, è oggi

concreta: «Tra poco potremo avere i primi risultati indicativi intermedi». Si parte da una teoria scientifica, si utilizza un farmaco già in commercio, anche se per un’altra indicazione, e se si dimostrasse l’efficacia preliminare si potrà passare alla prossima tappa della sperimentazione su un numero più significativo di persone: «L’uso di questo farmaco per curare il Covid-19 sarà immaginabile solo fra uno o due anni, perché non si possono tralasciare le fasi della sperimentazione. Ora siamo alla fase due: farmaco già noto testato su nuova indicazione, poi passeremo alla fase tre che testerà l’efficacia su larga scala». Interessante la collaborazione dell’Ordine dei Medici del Canton Ticino: «È essenziale il rapporto di collaborazione dei ricercatori con il medico di famiglia, che è colui che mantiene il contatto diretto col paziente sia all’annuncio del caso sia durante il trattamento stesso». La direzione è quella di curare nell’ambito di uno studio che potrà sì essere lungo, ma permette di monitorare l’efficacia della cura stessa, conclude il dottor Pereira Mestre, ricordando ancora il sostegno della medicina di famiglia che: «Seppur in un momento di crisi, sa dare un “sostegno importante” anche nell’ambito della ricerca». Tutto a beneficio di una lotta comune contro il virus.


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Ambiente e Benessere

La normalità turistica è ancora lontana

Una storia fiorentina

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente L’atteso vaccino, quando sarà disponibile, non risolverà

tanto in fretta tutte le situazioni come molti del settore sperano

Qualche sera fa ho parlato a lungo su Zoom con Tony Wheeler, il più importante viaggiatore del nostro tempo. Una volta era quasi impossibile sapere dove si trovasse; anche nei momenti più complicati per la sua azienda (la celebre Lonely Planet, il numero uno tra gli editori di guide turistiche) Tony ha sempre passato sei mesi all’anno in viaggio. Adesso sta nella sua casa di Melbourne e aspetta tempi migliori, per conversare con lui basta adattarsi al fuso orario australiano (ma è facile: quando qui è sera, là è mattina e viceversa). Qualche ora dopo è la volta di Rolf Potts, uno dei più interessanti scrittori di viaggio americani. La sua opera prima, Vagabonding, ha venduto più di centomila copie e ha ispirato i nomadi digitali, i pionieri di quel lavoro a distanza ora imposto dalla pandemia. Anche Potts se ne sta nella sua piccola fattoria in Kansas, ma decisamente di umore migliore, avendo da poco sposato l’attrice Kristen Bush: l’amore al tempo del Covid-19. Questi due viaggiatori esprimono bene il senso d’attesa caratteristico di questa fase. Ma non tutti possono aspettare con pari tranquillità. Le grandi compagnie (aerei, navi da crociera, catene di alberghi) stanno esaurendo le riserve e sono in sofferenza acuta così come, all’altro estremo della scala sociale, milioni di lavoratori: cuochi, camerieri, personale delle pulizie ecc. In diversi Paesi il turismo è la principale fonte di reddito per buona parte della popolazione. A Bali, per fare solo un esempio, chi poteva è tornato nel villaggio d’origine per lavorare nei campi o nei mestieri tradizionali; ma non è facile dopo essersi abituati al bel mondo del turismo internazionale. Verso la metà di novembre l’annuncio di un possibile vaccino ha risollevato gli animi. Le azioni delle imprese turistiche sono risalite dopo aver sfiorato l’abisso, i Tour Operator han-

Pixabay.com

Claudio Visentin

no registrato le prime prenotazioni, anche per viaggi costosi, le ricerche in rete si sono moltiplicate. Ma si è capito presto che anche nella migliore delle ipotesi ci vorrà parecchio tempo per produrre e distribuire il vaccino; quindi l’idea di riprendere il cammino là dove si era interrotto alla fine del 2019 (ma sembra un secolo fa) pare poco probabile. La dottoressa Felicity Nicholson, specialista di medicina dei viaggi, ha dichiarato alla CNN: «Penso che sia solo una questione di tempo prima che le cose tornino alla normalità, ma di tempo ce ne vorrà molto». Anche quando il vaccino sarà disponibile, sarà distribuito prima alle persone più vulnerabili e ai lavoratori indispensabili (sanità, trasporti ecc.). Gli altri dovranno aspettare il loro turno, ben che vada l’estate 2021. E una volta vaccinati, non pensate di salire sul primo aereo che passa! Prima bisognerà trovare un sistema per provare la propria salute, un passaporto sanitario digitale per esempio. I Paesi asiatici sono decisamente avanti

in questo campo. In Cina la tradizionale settimana di viaggi (Golden Week), in occasione dell’anniversario della proclamazione della Repubblica popolare (1. ottobre), ha registrato numeri sorprendenti: circa seicentoquaranta milioni di viaggiatori, con una spesa di quasi settanta miliardi di dollari. Rispetto all’anno scorso, solo il 20% in meno, un’inezia con l’aria che tira. Il tracciamento su vasta scala sembra aver funzionato e ora la Cina preme per estendere su base globale il suo sistema basato su QR code, combinando big data e le informazioni fornite dagli stessi utenti. Come nei semafori, una luce verde sul proprio smartphone indica quando è possibile viaggiare, giallo e rosso sono invece indicatori di quarantena. Ma da noi questo modello non sembra facilmente imitabile perché implica un pesante controllo sociale delle libertà e della mobilità personale, forse incompatibile con uno Stato di diritto. Infatti, in un tweet il direttore dell’Osservatorio sui diritti umani Kenneth Roth ha espresso cautela: «L’iniziale preoccupazione per la salute

potrebbe facilmente diventare un cavallo di Troia per un più ampio monitoraggio e politiche di esclusione». In attesa di capire meglio, si naviga a vista. Letteralmente. Quando negli Usa i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno raccomandato dei viaggi di prova prima di togliere il divieto alle crociere, i volontari sono stati numerosi. La voglia di viaggiare del resto non è mai venuta meno, anzi. Per intanto però un primo tentativo di far ripartire le navi è finito malissimo. Il viaggio caraibico della SeaDream 1, con giornalisti al seguito, voleva dimostrare che con rigidi protocolli di sicurezza, incluso regolari test a bordo, si potrebbe andare in crociera anche durante la pandemia, ma qualcosa non ha funzionato. Un passeggero si è ammalato e la nave è stata costretta a tornare alle Barbados, dove sono stati testati tutti i passeggeri, scoprendo altri positivi. Fine della crociera e tutti a casa. Va un po’ meglio per gli aerei da quando a fine ottobre una importante ricerca della Harvard School of Public Health ha dimostrato che i rischi di trasmissione di Covid-19 durante i voli sono molto bassi, addirittura minori rispetto ad altre attività quotidiane come fare la spesa o uscire a cena. Questo perché i sistemi di ventilazione della cabina cambiano continuamente l’aria e rimuovono oltre il 99% delle particelle infette. Volare sì, ma dove? Resta il problema di una possibile quarantena all’arrivo o al ritorno; inoltre i governi reagiscono con nervosismo a ogni notizia inattesa. In Inghilterra, il 22 ottobre, le Canarie sono state aggiunte alla lista delle possibili mete e molti si sono precipitati a prenotare una vacanza a novembre. Ma subito le nuove regole del secondo lockdown hanno vietato tutti i viaggi non essenziali. Julia Lo Bue-Said, rappresentante degli agenti di viaggio, ha commentato laconica: «L’industria dei viaggi è stata messa in croce».

«I raggi sorprendono il busto alle spalle. Lasciano in ombra i lineamenti, ma sanno di carezza prima del sonno. Quindi mi raggiungono e così provano a cucire due destini. Il mio e quello dell’uomo che ora è enigma di pietra. Per tutti l’Indiano. C’è una ragione per cui sono qui. Questa ragione, il libro che forse scriverò. Questo tramonto, quasi una benedizione. Questa luce, sipario che si apre. C’è ancora posto, signori e signore. Questa è una storia fiorentina...». Il busto di un indiano, enigmatico e allusivo, nel Parco delle Cascine di Firenze sembra avere una storia da raccontare. Il nostro collaboratore Paolo Ciampi si è lasciato irretire da questa promessa e con pazienza ha preso a frugare nelle biblioteche e soprattutto in rete. La prima scoperta, in un giornale del lontano 1870, quando Firenze era, ancora per poco, capitale d’Italia: «Martedì mattina dopo breve malattia cessava di vivere in Firenze alla grande Locanda della Pace, ove aveva preso stanza col suo seguito, S.A.R. il Maragià di Kolhapur». Presto, del giovane maragià, morto poco più che ventenne, Ciampi scopre il nome: Rajaram. Salito al trono a soli 16 anni, sotto l’interessata protezione inglese, viaggia in Europa per completare la sua formazione e rendere omaggio alla regina Vittoria. Visita Parigi di passaggio e si trattiene lungamente a Londra, dove il Primo ministro Gladstone gli consiglia di sostare a Firenze sulla strada del ritorno. Ma proprio lì è atteso dall’appuntamento con la morte. Firenze aveva riservato agli stranieri il suo Cimitero degli inglesi, ma il seguito del maragià ottenne di bruciare il corpo secondo il rito indù, disperdendo le ceneri in Arno, domestica copia del Gange. Quattro anni dopo, la madre del maragià torna a Firenze e fa costruire un monumento alla Cascine, dove il corpo del figlio fu bruciato, al centro il busto che dà il via a questa storia. Il cerchio si chiude, lasciando pagine delicate sulla bellezza e la fragilità dell’esistenza, sul mistero di morire a vent’anni. / CV Bibliografia

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Ambiente e Benessere

Dipinte brughiere

Mondoverde Calluna: ovvero, arbusto da foraggio, per la produzione di scopette o pipe,

ma anche ornamento per colorare i giardini autunnali

anche l’operazione di aggiungere tutto intorno manciate di torba. Le bagnature dovranno essere frequenti ma non troppo abbondanti, mentre è opportuno concimare con un prodotto per acidofile a lenta cessione, così da garantirvi fioriture prolungate e colori intensi. Molte le varietà in commercio, come la Calluna vulgaris «Aphrodite» con corolle rosso carico; «Melanie» dai tanti fiorellini bianchi; o la più classica «Sesam» che fiorisce in lilla chiaro, tutte derivanti dal comune antenato, la Calluna vulgaris, molto presente in passato nei boschi e utilizzata per creare scope. In tutta la regione insubrica, infatti, la Calluna, chiamata per l’appunto brugo, scopetta, scopa meschina, ha rivestito un ruolo importante anche come foraggio per gli animali o come fonte combustibile; inoltre dal legno delle sue radici si ricavava importante materiale per la fabbricazione delle pipe. Se la Calluna ci accompagnerà da settembre fino all’arrivo del freddo, andando poi a sfiorire da dicembre in poi, un altro arbusto molto simile potrà continuare il gioco delle fioriture al suo posto. Sto parlando dell’Erica carnea, in fiore da febbraio fino alle ultime settimane di maggio. Appartenenti alla stessa famiglia, hanno esigenze simili e se coltivate insieme, si potrà ottenere un’abbondante fioritura che impreziosirà i vostri giardini.

Anita Negretti L’estate è finita da un po’ anche per quest’anno e gli allegri colori di Rudbeckie, Lagerstroemie e fioriture agostiane ci hanno salutato per fare spazio nei nostri giardini alle tinte tipiche dell’autunno, con i suoi colori caldi come gli arancioni delle capsule di alchechengio, i viola delle corolle degli astri e i gialli delle viole.

Coltivato e acquistato nei vivai in vaso, il piccolo brugo può essere messo in terra tutto l’anno Immancabili a inizio settembre sono state le prime fioriture dei brughi, piccoli arbusti rusticissimi, dal portamento molto compatto, sempreverdi e con innumerevoli fiorellini bianchi, rosa e rosso cupo che sono stati pronti a creare zone di interesse in vasche, ciotole o aiuole. Il genere Calluna, appartenente alla famiglia delle Ericaceae conta una sola specie, ed è quella di C. vulgaris, un arbusto che raggiunge a piena maturazione i 50-60 centimetri di altezza, e altrettanti centimetri in larghezza, con la sola esigenza di esser piantato in terreni acidi (pH 4,5-5) possibilmente in zone di ombra o mezz’ombra, anche

Calluna vulgaris Moulin Rouge. (Krzysztof Ziarnek)

se è in grado di resistere anche al sole. I suoi rami sottili, ma dalla consistenza legnosa, hanno un portamento prostrato, che crea cespugli con rami aghiformi molto compatti. Utilizzato accanto ad altre acido-

file come camelie, azalee, Skimmie o Pieris, questo arbusto viene valorizzato bene; lo stesso vale se lo si accosta a siepi di sempreverdi o singoli esemplari a fioritura invernale, come Hamamelis o calicanto.

Coltivato e acquistato nei vivai in vaso, il brugo può essere messo in terra tutto l’anno, sistemando preferibilmente sul fondo della buca un po’ di materiale drenante, essendo loro piante che mal sopportano i ristagni; bene sarà

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Ambiente e Benessere

Volkswagen presenta la nuova ID.3 Motori Appena nata, ma già nell’albo d’oro della Casa di Wolfsburg, è totalmente elettrica

Mario Alberto Cuccchi Volkswagen, la vettura tedesca per il popolo. L’auto pensata per la motorizzazione di massa. Decine i modelli progettati, costruiti e venduti sino a oggi. Tra questi, il mitico Maggiolino ormai entrato nella storia e la Golf di cui è stata svelata l’ottava generazione. Appena nata, ma già nell’albo d’oro della Casa di Wolfsburg è la nuova ID.3. I primi esemplari sono arrivati in queste settimane nelle concessionarie svizzere e il primo in assoluto è andato al rapper Stress. «Oggi per me si avvera un desiderio atteso da tempo. – spiega – La ID.3 mi consente di viaggiare a impatto zero, offrendomi al tempo stesso una mobilità illimitata». Proprio questa è la ragione che conferma la ID3 quale vettura di svolta. Basata sulla piattaforma MEB interamente dedicata alle auto elettriche è stata vista per la prima volta quattro anni fa al Salone dell’Auto di Parigi. Ha poi avuto una lunga gestazione che l’ha portata a nascere strategicamente in un mercato ormai davvero maturo per le auto green. «Per noi la ID.3 è una pietra miliare importante verso una mobilità a emissioni zero», afferma Christian Wiegel, responsabile del marchio Volkswagen Svizzera. Ecco allora che la provenienza dell’energia assume un’importanza rilevante. «Se alimentata con energia pulita, – spiega Stress – la mia nuova ID.3 in futuro potrà viaggiare rispet-

tando l’ambiente al 100%». E, infatti, Volkswagen si è impegnata a fondo, l’auto è a impatto zero lungo l’intera catena di produzione. Dalla messa a punto delle celle della batteria al montaggio, fino alla consegna al cliente. ID.3 viene costruita a Zwickau, dove si realizzano auto da oltre 100 anni. La fabbrica è stata interamente convertita alla produzione di auto elettriche, con investimenti per circa 1,2 miliardi di Euro. Nel 2021 Volkswagen stima che a Zwickau saranno costruite circa 300mila vetture elettriche. Intanto ID.3 è appena nata e già inizia a sfidare le concorrenti sul terreno dell’autonomia. Lunga 4 metri e 26 centimetri, in pratica come una Golf, ma più alta di 10 cm è caratterizzata da un muso cortissimo che ospita il compatto motore elettrico: con una sola ricarica, e con al volante l’hypermiler svizzero Felix Egolf, ha viaggiato per 531 chilometri: da Zwickau, in Germania, a Schaffhausen, in Svizzera, con un aumento del 26% rispetto all’autonomia dichiarata dalla Casa. Le varianti di modello oggi ordinabili, con prezzi a partire da 39’450 franchi svizzeri, hanno infatti una percorrenza massima stimata di 425 chilometri secondo lo standard WLTP ottenibili grazie a una batteria da 58 kWh. La trazione è posteriore e la potenza massima è di 150 kW ovvero 204 cavalli. Per scattare da ferma a 60 orari sono necessari solo 3,4 secondi grazie anche a una coppia massima di 310

La prima ID.3 completamente elettrica della Svizzera è andata al cantante rapper Stress.

NewtonMetro disponibile sin da subito. La velocità massima è autolimitata a 160 orari. Prossimamente arriverà una versione «Tour» con autonomia massima

di 550 chilometri ottenibili grazie a una batteria più potente con contenuto energetico netto di 77 kWh. In arrivo anche una versione «Pure», che sarà il modello di accesso all’intera gam-

ma, con un prezzo base di circa 32mila franchi e un’autonomia ridotta a 330 chilometri. Ogni automobilista potrà scegliere la ID.3 più adatta alle sue esigenze. Una vera Volkswagen. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Cos’è la gomma di xantano

Gastronomia Un additivo che aiuta tra l’altro a rendere più consistenti e morbidi i prodotti da forno

Una gentile lettrice, in una email «chiede scusa» e mi fa due domande. Cara amica, ma non deve chiedere scusa! Io cerco di interagire al meglio con chi mi legge, e se qualcuno mi fa delle domande non è per nulla un problema anzi mi arricchisce, quindi ben vengano, sempre. Ed ecco le risposte, condivise con tutti ovviamente. Lei mi chiede cosa sia lo xantano – xanthan gum in inglese. Lo Xanthomonas campestris è un piccolo microrganismo che per proteggersi dai predatori si costruisce un guscio «gommoso» costituito da catene di carboidrati. La gomma di xantano (E 415 è la sigla con cui è noto questo additivo naturale) si ricava dunque dalla triturazione e successiva liofilizzazione (cioè eliminazione dell’acqua) di questo rivestimento cellulare.

Un altro prodotto è il carbone di olive, ideale per insaporire carni, pesci, paste e risotti oltre che per dare un certo colore a molti piatti In cucina si presta a sostituire in maniera più che egregia l’amido di mais o la fecola trattandosi di un addensante veramente eclettico ed eccezionale. Può essere usato per ispessire salse, fondi di cottura, zuppe, creme dolci e salate (ma anche per produrre gelati). Si può inoltre aggiungere a qualsiasi preparazione senza correre il rischio di farle perdere il sapore originale. È solubile, sia a caldo sia a freddo, basta aggiungere pochi grammi di questo prodotto e mescolare per pochi istanti con un cucchiaino. Una particolarità rende interessante l’uso di questo additivo: la gomma di xantano aiuta a rendere più consistenti e morbidi i prodotti da forno favorendone

la lievitazione. Nei paesi anglosassoni questa caratteristica viene sfruttata per produrre alimenti adatti ai celiaci mescolando la gomma di xantano a farine prive di glutine. Ecco, per esempio, come preparare un impasto base per crostate e biscotti. Si mescolano in una terrina 200 g di farina di riso, 100 g di burro, 80/100 g di zucchero, 230 g di amido di mais, 70 g di fecola di patate e 8 g di gomma di xantano disciolto in un bicchiere di acqua o latte. Si procede poi come con una normale frolla aggiungendo ancora liquidi fino a ottenere un composto liscio e sodo. Per pane e pizza, basta invece aggiungere 1 cucchiaino di xantano per ogni tazza di farina, ovviamente senza glutine, e utilizzare lievito di birra. Dove si trova? Nei negozi specializzati per cuochi di certo, nei supermercati a Milano non l’ho mai trovato, in Svizzera non so. In mancanza, si trova online, senza problemi. La seconda domanda riguarda il carbone di olive. Disidratando le olive, in forno classico o meglio in quello a microonde, si ottiene una sorta di «carbone» che si sbriciola facilmente tra le dita, ed è ideale per insaporire carni, pesci, paste e risotti oltre che per dare un tocco di colore non-colore a qualsiasi piatto. Ottenere il carbone di olive è molto semplice. Non sempre si trova, ma è talmente facile da fare che questo non è un problema. Si può ottenere partendo da olive verdi o nere col nocciolo o denocciolate. Ecco come si fa col forno a microonde. Prendete 1 tazza colma di olive in salamoia o sottolio, lasciatele sgocciolare in un colino per 10 minuti, poi versatele in una ciotola di plastica per microonde. Mettete la ciotola nel forno e cuocete a 800 watt per circa 8-10 minuti. La cottura in microonde, oltre a eliminare l’acqua presente nelle olive, ne elimina anche l’olio che le impregna. Una volta disidratate, le olive si mantengono a lungo in un contenitore di plastica a chiusura ermetica.

CSF (come si fa)

Adrian Caron

Allan Bay

Pxhere.com

soprattutto quelli senza glutine

Vediamo come si fanno due ricette a base di tacchino. Una è semplicissima, mentre l’altra è lunga, faticosa e complessa, ma ambedue sono buone. Spezzatino di tacchino al curry (ingredienti per 4 persone). Infarinate 700 g di spezzatino di tacchino e fatelo colorire uniformemente in una casseruola con 4 cucchiai di olio o altrettanto in peso di burro. Quando sarà ben dorato, unite mezzo bicchiere di vino

bianco secco, fatelo evaporare, quindi unite un mestolo scarso di brodo in cui avrete sciolto 1-2 cucchiaini di curry e 16 cipolline, quelle che si glassano, quindi fate cuocere lo spezzatino coperto per 30’ circa, finché non risulta tenero. Regolate di sale e di pepe, cospargetelo di prezzemolo tritato e servitelo con riso pilaf o purè di patate. Mole poblano (per 8 persone). Per preparare questo piatto, tipico della tradizione gastronomica messicana, tagliate in 8 parti 1 tacchino da 3 kg. Scaldate in una casseruola, adatta a essere infornata, 4 cucchiai di olio, unite il tacchino e fatelo colorire uniformemente. Bagnate con 2 litri di acqua e mettete il coperchio. Infornate a 220° per 1 ora abbondante. Intanto sbollentate e sbucciate 1 kg di pomodori – altrimenti 600 g di polpapronta.

Metteteli in un mixer e unite 1 cipolla spezzettata, 4 spicchi di aglio, un pizzico di cannella, mezzo cucchiaino di semi di anice, 1 chiodo di garofano, 3 semi di coriandolo pestati, 3 peperoncini privati dei semi, 100 g di uvetta ammollata, 100 g di mandorle tostate leggermente e 50 g di arachidi (se manca qualcosa non importa…) e frullate. Trasferite la salsa in una casseruola e fatela insaporire per 2’, mescolando. Unite 100 g di cioccolato fondente grattugiato e 8 dl del liquido di cottura del tacchino. Fate cuocere la salsa a fuoco dolce per 15’, mescolando ogni tanto. Aggiungete il tacchino e proseguite la cottura per 15’, sempre a fiamma bassa. Tostate leggermente 4 cucchiai di semi di sesamo, distribuiteli sul tacchino, regolate di sale e servite subito.

Ballando coi gusti Oggi, due piatti a base di pesce, ambedue cotti interi al forno: una tecnica che ahimè sta scomparendo.

Mormora con i carciofi

Branzino al finocchio

Ingredienti per 4 persone: 1 mormora da circa 1 kg · 30 spicchi di carciofi decongelati · aglio · prezzemolo · origano · limone · vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 1 branzino da circa 1,5 kg · finocchio selvatico · aglio ·

Mondate bene, lavate e asciugate il pesce. Strofinatelo dentro e fuori con una miscela di sale e pepe. Tritate aglio e prezzemolo. Distribuite metà dei carciofi in una pirofila; condite con metà del trito di aromi, aggiungete origano, un filo di olio, sale e pepe, e mescolate. Mettete la mormora nella pirofila, copritela con i carciofi rimasti condendo con il trito restante, un filo di olio, sale e pepe. Irrorate con ½ bicchiere di vino e cuocete in forno a 180° per 30 minuti, bagnando di tanto in tanto il pesce con un po’ di fondo di cottura o vino.

vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.

Mondate il branzino eliminando le interiora; squamatelo, lavatelo e asciugatelo. Mettetelo a marinare per qualche ora in un’emulsione di olio e vino insaporiti con finocchio selvatico e uno spicchio di aglio tritato. Pennellate di olio una griglia meglio se di ghisa, scaldatela bene, mettete la fiamma al minimo, disponetevi sopra il branzino scolato, aggiungete altro finocchio selvatico e cuocete per 20 minuti o poco più, girandolo spesso e bagnandolo con la marinata se asciugasse troppo. Regolate di sale e di pepe.


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Idra, l’isola senza tempo

Ambiente e Benessere

Reportage Nell’arcipelago delle Saroniche, il luogo che fece da sfondo all’amore tra Leonard Cohen

e la sua musa Marianne Ihlen

Simona Dalla Valle, testo e foto Come una coperta spessa, il sole allo zenit avvolge il paesaggio in un abbraccio sonnacchioso. Due gatti dormono all’ombra di un muro e non c’è vento a spostare i rami dei pochi alberi, se non fosse per le onde innalzate di tanto in tanto dai taxi d’acqua sembrerebbe di osservare la fissità di un quadro. Il fascino seducente di Idra, paragonata a Capri o Portofino, può essere accomunato ad altre isole greche, ma la peculiarità dell’isola è l’assenza dei motori di auto e motociclette. Il villaggio chiamato semplicemente «porto di Idra», approdo di aliscafi e grosse navi da crociera, è il luogo più abitato. Qui a tratti si respira un’aria cosmopolita, scandita dal ritmico via-vai dei visitatori e dall’affollarsi dei ristoranti sul lungomare. Come in varie parti della Grecia, a Idra non vi sono spiagge di sabbia; al mare si arriva scendendo degli sconnessi gradini in pietra e a volte una scala cromata posta all’estremità di un pontile di cemento facilita l’ingresso in acqua. Infilando gli scalini che risalgono la collina ci si allontana dalle barche e dai turisti, e si finisce nei vicoli stretti tra le pareti delle case in pietra dove il silenzio ovattato è rotto solo dal frinire delle cicale. In lontananza gli zoccoli di un mulo che si trascina lento: bisogna spostarsi per fargli spazio, in groppa porta casse d’acqua o bagagli voluminosi. Tra questi viottoli c’è la casa un tempo appartenuta a Leonard Cohen, la affittò per un periodo a 14 dollari al mese e nel 1960 la acquistò grazie a un lascito di 1500 dollari da parte di una nonna scomparsa. Sul portone vi è ancora il battiporta in ottone a forma di mano. È facile pensare a un tempo «altro» in quest’isola che sembra non averne. Chiudendo gli occhi si riesce a immaginare la vita di Idra negli anni Sessanta, una terra selvaggia e seducente che attraeva un numero sempre più grande di artisti e pittori. Leonard Cohen giunse qui all’età di 26 anni, quasi per caso. Era un fred-

Vista del porto di Idra sotto il sole pomeridiano. (Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica)

do e piovoso giorno di marzo del 1960 quando un abbronzato impiegato della Bank of Greece di Londra gli disse sorridendo di essere appena rientrato dalla Grecia, dove la primavera era già iniziata. Cohen comprò un biglietto per Atene per il giorno seguente. La sua vita creativa si trovava in una fase cruciale; fino a quel momento aveva pubblicato un’unica raccolta di poesie, Let Us Compare Mythologies (1956) e aveva appena ricevuto la notizia che la raccolta successiva, The Spice-Box of Earth (1961), era stata accettata per la pubblicazione dalla casa editrice canadese McClelland & Stewart. La sua reputazione stava crescendo e ora, nella solitudine di Idra, Cohen progettava di lavorare al primo romanzo.

Accanto al porto, questo edificio un tempo era una taverna frequentata da Cohen.

Fu in questi primi mesi che l’uomo conobbe la sua musa, la norvegese Marianne Ihlen. La vita sull’isola non era semplice: l’elettricità era scarsa, non esisteva un vero e proprio impianto idraulico e i telefoni si contavano sulle dita di una mano, ma era possibile seguire uno stile di vita non convenzionale all’insegna della libertà, anche con scarse risorse economiche. L’artista canadese fu immediatamente travolto dall’isola: «Era come se tutti fossero giovani, belli e pieni di talento – coperti da una specie di polvere d’oro. Tutti avevano qualità speciali e uniche. Questo è, naturalmente, il sentimento della giovinezza, ma nella gloriosa cornice di Idra, tutte queste qualità erano amplificate». La venticinquenne Marianne era

sbarcata qui due anni prima insieme al marito, il romanziere Axel Jensen. Quando Jensen, poco dopo la nascita del loro primogenito Axel junior, lasciò l’isola per avere una relazione con un’altra donna, Cohen invitò Marianne a trasferirsi a casa sua. Fu l’inizio di una relazione che sarebbe durata circa sei anni e mezzo. Con lei e gli amici della comunità di artisti, Cohen si incontrava al Katsikas, un piccolo kafenio del porto che oggi si chiama Roloi, protetto dalla torre dell’orologio. La mattina presto si sedeva sulla terrazza al sole e scriveva alcune pagine del suo romanzo su una vecchia macchina da scrivere. La sera suonava la chitarra e cantava la ninna nanna al piccolo Alex. Dopo qualche mese, Marianne mandò il fi-

Muli da trasporto «parcheggiati» all’ingresso del porto di Idra.

glio in Norvegia a vivere con la nonna e si prese cura a tempo pieno dello scrittore, diventando a tutti gli effetti la sua musa. Le prime versioni del romanzo di Leonard furono rifiutate da svariati editori, e solo dopo diverse rielaborazioni l’opera fu pubblicata alla fine del 1963 con il nome The Favourite Game, un Bildungsroman autobiografico su un giovane che scopre la sua identità attraverso la scrittura. Seguirono altri lavori, mentre lo sguardo di Cohen iniziava a posarsi su nuove forme artistiche. Circa sei anni dopo l’arrivo a Idra, con la pubblicazione della terza raccolta di poesie Flowers for Hitler nel 1964 e del secondo romanzo Beautiful Losers nel 1966, decise di lasciarsi alle spalle la vita di scrittore e intraprendere una carriera di cantante. Questo fu il primo di molti allontanamenti tra i due, in seguito ai quali Marianne tornò a vivere in Norvegia dove si sposò e Leonard intraprese la carriera di cantante folk pubblicando il primo album, Songs of Leonard Cohen, il 27 dicembre 1967. Marianne non cessò di essere nei suoi ricordi e pochi giorni prima della morte della donna, a luglio del 2016, le scrisse: «Sono appena dietro di te, abbastanza vicino da prenderti la mano». Lui si spense pochi mesi dopo. E se non avesse incontrato quell’uomo abbronzato in una banca di Londra in quel marzo piovoso chissà se Leonard avrebbe comprato un biglietto aereo per prendere una nuova direzione, chissà se avrebbe incontrato una Marianne in un altro luogo di pace, solitudine e concentrazione. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Ambiente e Benessere

Fu vera gloria? Giancarlo Dionisio Poche ore dopo la morte del Pibe de Oro, sui social media appaiono anche gli strali di chi si scandalizza per la pletora di celebrazioni che ne ripercorrono le gesta. «Non vi vergognate? Stiamo vivendo periodi bui, in cui tanta brava gente se ne va in perfetta solitudine, e voi vi dannate nel santificare un calciatore che tutto può essere, fuorché un buon esempio per i giovani». Io non mi vergogno. E tanto meno le varie testate che gli hanno dedicato pagine e ore. La «Gazzetta dello sport», ad esempio, il 26 novembre apre con 23 pagine su di lui, prima di affrontare la sconfitta casalinga dell’Inter contro il Real Madrid, e il successo dell’Atalanta a Liverpool. Ci sarà pure una ragione! Ce ne sono tante. Ma quella primordiale è che Diego Armando Maradona è stato un uomo con un’anima. Un uomo vicino alla sua gente. Un calciatore che, con le sue magie, ha contribuito a dare fierezza e dignità a una Napoli vittima delle sue fragilità e degli altrui pregiudizi. Un cittadino che ha fatto delle scelte di campo. Ci si può tatuare l’effigie del Che anche solo perché fa «chic». Ma, se non si è convinti, non si rischia di compromettere la propria immagine pubblica, e le relative sponsorizzazioni, schierandosi dalla parte di coloro che hanno marciato sempre accanto alla gente, al popolo. Era amico di Fidel Castro, di tutti i leader argentini che hanno tentato di ridare dignità al derelitto paese sudamericano e dell’ex presidente venezuelano, Hugo Chavez. Di lui, Dieguito dirà che ha liberato il Sudamerica dalle sgrinfie degli USA, ridando ai suoi abi-

tanti l’orgoglio di essere latini e di camminare da soli. Maradona era nato povero, diventato molto ricco, ma rimasto sempre col cuore dalla parte dei poveri. «Mangiavamo e dormivamo in otto in una stanza». «Quello che mi hanno tolto nella mia carriera non mi interessa. Darei tutto quello che ho perché i miei vecchi potessero aprire quella porta». A Napoli gli dedicheranno lo stadio, ma, credo a giusta ragione, non sostituirà San Gennaro, anche se, quanto a numero di fedeli, siamo lì. Lo testimoniano le scene di delirio, seconde solo a quelle dei fan argentini davanti alla casa Rosada, che hanno costretto le autorità ad anticipare le esequie in forma più che privata. Non sarà santificato. Ha commesso degli errori. Diego era genialità, ma anche fragilità. La droga e l’alcol, che gli erano costati uno stop di quasi due anni. L’evasione fiscale, e non certo per bruscolini. Il caos familiare-sentimentale. L’efedrina, uno stimolante che gli sarebbe servito per perdere peso in vista dei Mondiali statunitensi del 1994. Ricordate il suo gol contro la Grecia, con la susseguente corsa verso una telecamera a bordo campo? Volle manifestare la sua gioia, ma anche la sua rabbia. Quell’immagine deformata dall’obiettivo fu il simbolo di una delle sue tante morti. Ma come il Napoleone cantato dal Manzoni nel 5 Maggio, El Pibe de Oro, risorgeva. Riappariva magro, tirato a lucido, pronto ad affrontare altre sfide, dopo aver sempre pagato il prezzo dei suoi errori. Non ha mai accampato scuse. Non ha mai riversato colpe e responsabilità su spalle altrui. Dote non comune. È fuori di dubbio che, passati lo

Antonio

Sport Il 25 novembre ci ha lasciati Diego Armando Maradona

sbigottimento e l’enfasi, di Maradona resterà, indelebile, soprattutto il ricordo di uno straordinario artista del pallone. Di un funambolo che, pur non avendo un fisico da incredibile Hulk, riusciva a

Giochi Cruciverba «Giovanni, bella la tua casa ma perché è tutta tonda?» «Perché tempo fa mia suocera ha detto: «Ci sarà un …» Trova il resto della frase leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate. (Frase: … 8, 3, 2, 5, 6, 4)

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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VERTICALI 1. Parte del corpo umano 2. Un famoso navigatore 3. Le separa la «L» 4. Intimidazioni 5. L’attore protagonista di Autunno a New York 6. Le figlie di Zeus 7. Le iniziali del noto Elkann 8. Una nota Sandrelli 10. Cornamusa I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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31. Un trampoliere 33. Erano dette «I cani di Zeus» 34. C’è anche quella di studio

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ORIZZONTALI 1. Parte interna di un oggetto 5. Gigante biblico 9. I propri... sono propri 10. Si raccolgono nel frutteto 11. Pronome personale 13. Se è apostrofato esiste... 14. Nera a Parigi 16. Articolo spagnolo 17. Lo sono il bruco e il girino 18. Hanno un «carattere» esplosivo... 19. Sotto il naso di tutti! 20. Alto come quello di cacio... 21. Un ripostiglio di tessuto 22. Gioia di mare 23. Un ruminante 24. È un anagramma di «rasta» 26. È una vera macchietta... 27. Regione storica dell’Asia Minore 28. Le iniziali dell’attore Lancaster 29. Sono uguali nel fidanzamento 30. I «capitoli» del Corano

stendere tutti. Spesso anche da solo. Ci vorrebbero volumi, non mezza pagina, per rievocare anche solo le highlights della sua inarrivabile carriera. Qualcuno ci ha provato. Su Diego sono stati

pubblicati decine di libri. Sono stati girati decine di film e di documentari. Nel 2008 ci si era messo anche un gigante del cinema come Emir Kusturica. Farei tuttavia un torto all’asso argentino, se non riaccendessi la memoria sulle due reti più emblematiche della storia del calcio. È il 22 giugno del 1986. All’Estadio Azteca di Città del Messico si affrontano Argentina e Inghilterra per i quarti di finale della Coppa del Mondo. Corre il 51° minuto, Diego avvia l’azione, tocca per Valdano che contraccambia con un pallonetto a centro area. Maradona legge il suggerimento, anticipa tutti e infila Shilton: 1 a 0. Non c’era il VAR. Gol valido, nonostante il sospetto fuori gioco del suo autore, e soprattutto nonostante il tocco malandrino con la mano. «È stata la mano de Dios», dirà Maradona. Per rendere onore a tutti i ragazzi che hanno perso la vita nella guerra anglo-argentina, con la quale i soldati di sua Maestà Elisabetta II soffiarono le Falkland/Malvinas all’Argentina. Quattro minuti più tardi El Pibe mette in scena tutta la sua forza, tutta la sua genialità e la sua classe. Si beve in dribbling tutta quanta l’Inghilterra, chiama Shilton all’uscita e lo trafigge. Sembra un videogame, ma è realtà. È il gol del secolo. Tutto il resto è contorno. Come la chiesa maradoniana, nata due anni più tardi, che conta 800mila adepti e che calcola gli anni a partire dalla nascita del suo Dio. Diego è quindi scomparso nell’anno 60 d.D. Lo piangono in molti. Fra questi anche un suo illustre connazionale, Papa Francesco. Di lui, un intenerito Diego Armando Maradona ebbe a dire: «È lui, il vero fuoriclasse».

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12. Altro nome del lago Sebino 15. Vive nei mari del nord 16. Un colore 17. Bieco, torvo 18. Ha un pestello per triturare 19. Costellazione dell’emisfero australe 20. Coscienziosi, diligenti 21. Lago etiopico 22. Concordia sociale 24. Regnante 25. L’impugnava D’Artagnan 27. Il terzo uomo 28. Si richiede con enfasi 30. Le iniziali di Pellico 32. Le iniziali di una Rodriguez della TV Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Soluzione della settimana precedente

VELOCE COME IL VENTO – L’animale più veloce del mondo è: IL FALCO PELLEGRINO.

L A D R E

U C A N D O L G E S I M

A C H I L L I A E F A T A R O D A P O P E V E S P R E S S E T T I R I O R A

L E I N R N E I O O L E I N M O

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


Articolo pubbliredazionale

Ma in inverno le mucche hanno freddo? Con Swissmilk all’azienda Tossa di Avers (GR)

In palio una settimana bianca per tutta la famiglia La regione Dents du Midi ha in serbo una vasta gamma di proposte per chi ama le vacanze in montagna. Perché non cogliere l’occasione di una settimana bianca in famiglia per scoprire di che cosa si tratta?

© Hôtel Etable

Per parteci pare: swissmilk .c h/ family

Domanda del concorso

Che cosa avviene alle forme di formaggio che stagionano in cantina? a) Vengono allineate in funzione delle fasi lunari b) Vengono rivoltate c) Vengono forate a distanze regolari

In inverno, quando i pascoli sono coperti da una fitta coltre di neve, le mucche hanno lasciato da tempo l’alpe per tornare a casa. Ma lì che cosa mangiano? E man mano che il clima si fa più rigido, hanno freddo anche loro? Per scoprirlo, ci siamo recati nell’azienda agricola della famiglia Höllrigl. Quassù ad Avers, a quasi 2’000 metri di quota, gli inverni sono lunghi. Iniziano in ottobre e durano fino a maggio. Le mucche di Simon e Sandra Höllrigl tornano dall’alpe in settembre, e tutto, qui nell’azienda agricola Tossa, è pronto per accoglierle. La famiglia, che conta anche le quattro figlie Tessa (9), Melina (6), Giulia (5) e Chiara (1), ha trascorso gran parte dell’estate a fare fieno sui prati, così che le 17 mucche da latte e i loro vitelli abbiano cibo sano a sufficienza anche in inverno. Le mucche dell’azienda Tossa vivono in un sistema a stabulazione libera. In altre parole, decidono da sole quando uscire all’aperto o quando starsene al coperto. «In generale, però, alle mucche il freddo non dispiace», spiega Simon. «Al contrario, sembrano apprezzare molto l’arietta fresca e i raggi di sole. Solo quando c’è troppo vento preferiscono il caldino della stalla». La famiglia Höllrigl trascorre molto tempo nella stalla con le sue mucche. Bisogna pulire le lettiere, distribuire il fieno, mungere – ma anche fare un po’ di coccole. Sì, perché ogni anno in inverno nascono i vitellini. I primi quattro o cinque giorni restano con le madri, per essere allattati. Poi devono abituarsi lentamente al biberon. «Dedichiamo loro moltissimo tempo», spiega Simon. Ma anche fuori dalla stalla c’è sempre da fare: c’è il negozietto per la vendita diretta, bisogna sgomberare la neve, poi c’è da spazzolare e rivoltare il formaggio che stagiona in cantina. Una cosa è certa: qui ad Avers non ci si annoia mai. L’articolo completo è pubblicato sull’ultimo numero della rivista Swissmilk Family e sul sito swissmilk.ch/family.

Il latte e i latticini svizzeri. Che forza!

Termine di partecipazione: 31 dicembre 2020

1° premio* Sette notti a Les Crosets, presso l’albergo L’Étable, con la sua incantevole architettura tradizionale. Dall’albergo, accesso diretto alle piste di sci del comprensorio Portes du Soleil e panorama imperdibile sull’imponente catena alpina dei Dents du Midi, l’emblema della regione. Compreso anche lo skipass per tutti i giorni e una selezione di prodotti del marchio «Saveurs Dents du Midi». Il prezzo equivale a una camera famigliare (due adulti e due bambini), prima colazione inclusa. 2° – 5° premio Reka-Check dal valore di 200.– fr. 6° – 10° premio Reka-Check dal valore di 100.– fr. 11° – 15° premio Reka-Check dal valore di 50.– fr. * Valido fino a fine aprile 2022. Estrazione a sorte secondo disponibilità.


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Politica e Economia Oms nella bufera L’Organizzazione mondiale della sanità in tutta questa tragedia del virus continua a fare magra figura. Controllata e manipolata dai cinesi, avrebbe coperto gli insabbiamenti del suo direttore aggiunto in Italia

In Iran la rete interna del Mossad L’agguato mortale allo scienziato iraniano, padre del programma nucleare del Paese, getta ombre inquietanti sul regime che non lo ha saputo proteggere dai sicari dell’intelligence israeliana

Dietro la crisi Hanno le stimmate della tragedia gli eventi di guerra che si sono susseguiti nelle ultime settimane in Tigrè, l’arida regione dell’Etiopia

Il prezzo della casa ideale Quale casa si può comprare con un milione di franchi? Un’inchiesta della «Handelszeitung»

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Che cosa resta di quel sogno?

Il Paese che verrà Nell’America profonda l’odio per Washington e le élite cavalcato da Trump continuerà a esistere

Lucio Caracciolo Trump continua a strepitare contro il voto rubato, e a forza di ripeterlo ci crederà davvero. Non ci credono però molti dei suoi collaboratori, che già riempiono i cartoni con cui riporteranno a casa oggetti e carte personali, in vista dell’ingresso dell’amministrazione Biden, dal 20 gennaio incaricata di guidare l’America. Troppo presto per liquidare Trump e il trumpismo. Il presidente spodestato già pensa a ricandidarsi nel 2024. Nel frattempo, preparerà il terreno rendendo la vita impossibile al successore, vedremo quanto seguito dal partito repubblicano, non tutto suo. Il trumpismo però non finisce qui. Perché il caso del presidente più peculiare della storia americana, che molti amano classificare folle, non è

casuale. Anzi. È riflesso di qualcosa di profondo che da tempo si muove nella pancia della nazione e che si è reso visibile a chi voglia davvero vederlo. Più che via pensosi saggi di politologia o di sociologia, lo spirito del tempo si legge dai romanzi, dai film, dall’arte in genere. C’è un testo fondamentale per capire il trumpismo, sotto forma di romanzo-realtà. Lo ha scritto, alla vigilia della discesa in campo di The Donald, un allora oscuro giovanotto della povera Rust Belt, l’ex cuore industriale dell’America, oggi epicentro dei terremoti politici e sociali che scuotono la nazione indispensabile. Si chiama J.D. Vance, ha appena scavallato i trent’anni e già è una celebrità. Grazie al suo Hillbilly Elegy, uscito nel 2016, tradotto in italiano come Elegia Americana (Garzanti 2020), appena virato in film

diffuso da Netflix, con Glenn Close in strepitosa forma. Qui si narra della vicenda dell’autore, rampollo di una impoverita nonfamiglia di origine irlandese-scozzese, popolazione che dal Settecento s’è installata nella vasta regione dei monti Appalachi. Cuore fiero e rude del Sogno Americano, ceppo preferito dalle Forze armate per l’inclinazione alla violenza e al sacrificio. Vance traccia la parabola delle classi medio-basse un tempo esemplari del Sogno Americano, ovvero dell’idea che a quelle latitudini tutti possano aspirare alla realizzazione di se stessi, nobilitando il proprio talento. Visione progressista della nazione a stelle e strisce, celebrata dai fondatori, ripresa dalla letteratura e dalla filmografia americana – il paradigma è il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (1925).

Che cosa resta oggi di quel sogno nei Monti Appalachi e più in genere nell’America profonda, l’enorme distesa territoriale che le carte elettorali hanno assegnato al rosso repubblicano, incastonato fra il blu democratico delle coste atlantica e pacifica, dove brillano tuttora, un poco fanées, le stelle New York e Los Angeles? Non molto. Pesa la deindustrializzazione, prodotto della globalizzazione, ovvero dello spostamento di gran parte della manifattura americana oltreoceano, specie nella Cina eretta ormai a rivale assoluto. Alla decadenza economica s’accompagna un senso di deprivazione e di tristezza. Sfilacciamento delle legature sociali, rabbia verso il governo federale, accusato di favorire le minoranze di colore, e verso l’intellettualità liberal, che quei bianchi sporchi brutti e cattivi guarda dal molto alto in basso.

Il racconto di Vance spiega come l’odio per Washington e per le élite di Wall Street, cavalcato fino a ieri con successo da un tycoon newyorkese, sia profondo, radicato, destinato a scatenare scontri e confusione nell’America in crisi d’identità. Il fossato che divide i Vance dalle élite è sempre più ampio, difficilmente colmabile. Scontro di culture. E di classi. Come potrà riflettersi questo sul modo in cui l’America si affaccerà al mondo, dopo Trump? Al di là del cambio di stile e d’intenzioni, garantito da Biden, la sostanza cambierà? O forse qualcuno penserà di scaricare l’elettricità che minaccia la coesione interna verso l’esterno, in avventure militari, magari contro la stessa Cina? Presto per dirlo. Ma la slavina avanza, e tornare indietro è impossibile.


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Politica e Economia

La Cina punta il dito contro l’Italia

Pandemia Secondo la propaganda di Pechino il Covid non sarebbe partito da Wuhan ma circolava già prima in altri

Francesca Marino Un rapporto dell’Oms sulla gestione «caotica, improvvisata e creativa» della pandemia in Italia che sparisce in meno di 24 ore. Un piano pandemico, sempre quello italiano, fermo al 2006 e arrivato a furia di copia e incolla fino al 2020. Il direttore generale aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra, che finisce nell’occhio del ciclone assieme al governo Conte e alla suddetta Oms. A portare alla ribalta le ultime miserie relative alla gestione della pandemia in Italia ci ha pensato la trasmissione televisiva Report, e non per la prima volta. Già in maggio, difatti, la trasmissione aveva denunciato l’arretratezza del piano pandemico italiano e la sparizione, dopo meno di 24 ore, del rapporto dell’Oms sulla gestione italiana della pandemia. Secondo i giornalisti della trasmissione televisiva, Guerra era stato direttamente responsabile, tra il 2014 e 2017, dell’aggiornamento del piano pandemico italiano e non aveva mosso un dito per aggiornarlo. Si sarebbe mosso invece, dopo la pubblicazione del dossier, per minacciare i suoi collaboratori, in particolare il coordinatore dei ricercatori dell’Oms Francesco Zambon. Imponendogli via email, con un linguaggio piuttosto colorito, di cambiare la data di aggiornamento del piano: dal 2006 al 2016. Secondo voci di corridoio Guerra, inviato da marzo a coordinare il ministro della Salute Roberto Speranza, avrebbe testualmente detto a Zambon: «O ritiri il dossier o ti faccio cacciare dall’Oms». Sempre secondo Report, la procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per falso ed epidemia colposa e avrebbe chiesto ai ricercatori di presentarsi per riferire come persone a conoscenza dei fatti. Ma l’Oms, a quanto pare, avrebbe dato il permesso di comparire davanti ai magistrati soltanto a uno dei convocati: Ranieri Guerra, guarda caso. D’altra parte l’Oms in tutta questa tragedia del virus di Wuhan, ha fatto e continua a fare una ben magra figura. Controllata e manipolata dai cinesi, costretta a mentire mentre la pandemia era già in corso, di fatto impotente nella gestione del Coronavirus, adotta, colpevolmente o meno, le strategie di copertura di Pechino avendo in mente non la salute di milioni di cittadini in tutto il mondo ma la gestione e la conservazio-

ne del potere. Quel potere che passa anche e soprattutto per la cosiddetta «Health Silk Road», che segue la stessa rotta geografica e geopolitica della New Silk Road e che di questa ha lo stesso obiettivo: connettere e unificare il resto del mondo all’ombra della bandiera cinese. Succede così che Xi Jinping, come sempre per bocca del suo tirapiedi preferito, il portavoce del ministero degli Esteri Liljian Zhao (il suo primo nome, Muhammad, è scomparso man mano che la sua carriera procedeva), ci riprovi. Il nostro ha difatti ancora una volta dato il via a una campagna di propaganda in grande stile di articoli diffamatori volti a manipolare i risultati di una ricerca condotta presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e guidata dal professor Giovanni Apolone. Lo studio di Apolone ha esaminato campioni di sangue alla ricerca degli anticorpi che vengono prodotti quando un paziente entra in contatto con il Coronavirus. I medici hanno trovato anticorpi nei campioni del 14% dei partecipanti, anticorpi che risalivano fino al settembre 2019 mentre il primo paziente italiano Covid-19 è stato rilevato il 21 febbraio. È bastato questo a mettere in moto Pechino. «Questo dimostra ancora una volta che rintracciare la fonte del virus è una complessa questione scientifica che dovrebbe essere lasciata agli scienziati», ha sentenziato Liljian Zhao. Aggiungendo che si tratta «di un processo in via di sviluppo che può coinvolgere più paesi». A dargli manforte la solita Oms, che ha ammesso la possibilità che il virus «circolasse silenziosamente altrove» prima di essere rilevato a Wuhan. Quella stessa Oms che, tanto per essere chiari, il 16 gennaio del 2020 mentre il Covid si diffondeva in Cina in maniera così esponenziale da rendere ormai impossibile negarne l’esistenza, continuava a sostenere in via ufficiale che il Coronavirus non era trasmissibile tra esseri umani. Per tornare allo studio di Apolone, in realtà questo non esclude, ma anzi rafforza, l’ipotesi che dati gli strettissimi legami commerciali tra Cina (e in particolare Wuhan) e Italia, sia stato proprio il silenzio delle autorità di Pechino a contribuire a diffondere il virus in Europa molti mesi prima che l’epidemia si diffondesse ufficialmente in Cina. Lo stesso Apoloni ha dichiarato

AFP

paesi. Intanto monta lo scandalo Italia-Oms sul piano pandemico italiano mai aggiornato dal 2006

in un’intervista: «Sappiamo che la Cina ha ritardato l’annuncio dell’epidemia di Covid, quindi non si sa quando è iniziata lì, e la Cina ha legami commerciali molto forti con il nord Italia». Ma il danno era ormai stato fatto, e la macchina cinese del fango gettato a mezzo stampa e social media era di nuovo in assetto di guerra. La notizia è stata prima diffusa dall’agenzia di stampa Xinhua e poi ampiamente commentata sul «South China Morning Post» di Hong Kong, mentre sui social media circolava questo post: «L’analisi delle acque reflue italiane ha mostrato la presenza del Coronavirus a Milano e Torino, facendo ancora una volta presumere che la fonte primaria del nuovo Coronavirus non è la Cina ma l’Italia. La Cina non ha avuto alcuna epidemia fino a gennaio 2020, mentre l’Italia ha rilevato la presenza del virus già dall’inizio di dicembre. E non soltanto l’Italia, ma anche la Francia e la Spagna. Il momento in cui hanno rilevato la presenza del virus nelle acque reflue, si colloca ben prima del momento in cui hanno avuto i loro primi pazienti. E questo spiega molti problemi». In realtà, l’unica cosa a essere spiegata è la disperata ostinazione con cui il

regime di Xi Jinping cerca di incolpare altri paesi del flagello che ha scatenato. Pechino ha prima cercato di incolpare della diffusione del virus gli Stati Uniti, denunciando senza alcuna prova che le truppe americane avrebbero portato il virus in Cina durante i Giochi Militari svoltisi a Wuhan nell’ottobre 2019. Poi ci ha provato con Francia e Spagna. E ad aprile il« Global Times», quotidiano notoriamente al servizi del governo cinese, aveva citato in modo scorretto e fuori dal contesto un altro medico italiano, il nefrologo Giuseppe Remuzzi. Secondo il «Global Times», Remuzzi (che è stato poi costretto a smentire ufficialmente in un’intervista data a «Il Foglio») aveva ventilato che il virus fosse in realtà nato in Italia data la presenza di alcuni casi di polmonite sospetta prima del gennaio 2020. La verità è che a novembre 2019 la Cina sapeva già della presenza del Coronavirus originato a Wuhan, ma Beijing era impegnata a fingere che tutto fosse normale, arrestando, ammazzando e mettendo a tacere in diversi modi medici e giornalisti mentre continuava a inviare migliaia di turisti e uomini d’affari in Italia e nel resto del mondo. E mentre il virus circolava, la Cina

baroni della droga in Svizzera e i capi dell’UCK. E veniamo a Joe Biden, cui è dedicato il libro di Branko Marcetic (Yesterday’s Man: the Case Against Joe Biden, Verso Books, 2020). Se separiamo le nostalgie patriottiche serbe dell’autore dai fatti che racconta troveremo notizie interessanti. Biden, racconta Marcetic, diventa la voce più energica tra quelle che chiedono il bombardamento della Serbia per salvare il Kosovo. Ma quando, nel marzo 1999, comincia la campagna dei bombardamenti NATO, emergono varie contraddizioni, tra le quali la morte sotto le bombe di 500 civili. Le altre contraddizioni le racconta Sergio Romano nella seconda edizione del suo Atlante delle crisi mondiali (Rizzoli, due edizioni, 2019) che riprende le tesi già espresse in La pace perduta (varie edizioni). Se l’UCK appoggia gli attacchi NATO, la Turchia appartiene di fatto alla coalizione antiserba e fornisce alla stessa NATO il contributo indispensabile delle proprie basi. Ma l’inizio dei bombardamenti coincide con un procedi-

mento penale turco a carico di Öcalan, capo del PPK curdo, la cui linea è analoga a quella di altre organizzazioni terroristiche: IRA, ETA e UCK. Come spiega Romano, finita la guerra fredda la NATO deve reinventarsi un ruolo, giustificare la propria esistenza trovandosi dei nemici (impedendo intanto che gli europei si uniscano militarmente rendendosi autonomi dagli Usa). Quindi, ciò che è condannabile a Belgrado è condonabile ad Ankara. I tre autori citati hanno opinioni politiche molto diverse tra loro, ma giungono alle stesse conclusioni. Primo: quando la NATO vince la guerra, il trend si rovescia; espulsioni ed epurazioni sono ora operate ai danni dei serbi. In particolare, Marcetic ritiene che Thaci abbia supervisionato «un brutale programma di rapimenti, omicidi e prelievo di organi». Nonostante ciò, nel 2010 Joe Biden lo definisce «il George Washington del Kosovo». Sempre in quel 2010, un rapporto del Consiglio d’Europa, riprendendo anche le affermazioni del procuratore ticinese Carla del Ponte, accusa il primo ministro (e poi presidente) ko-

spingeva l’Oms a mentire a suo favore e forzava qualche politico italiano a lanciare una campagna chiamata «abbraccia un cinese». In marzo, mentre la gente in Italia moriva come mosche, c’è stato un altro tipo di propaganda disgustosa quando l’ineffabile Zhao ha condiviso un video su Twitter con l’hashtag #grazieCina che mostrava gli «italiani» che avrebbero ringraziato la Cina per il loro aiuto, con l’inno cinese in sottofondo. Successivamente è iniziato un altro tipo di strategia. Pechino sembra ora sfruttare, difatti, il disastro economico che l’Italia sta affrontando a causa del virus cinese acquistando aziende italiane bisognose. Il numero di aziende italiane acquistate da entità cinesi è cresciuto di oltre venti volte negli ultimi dieci anni. L’Italia, prima di Covid-19, era la quinta destinazione in termini di numero di investimenti dalla Cina. Ora la percentuale è destinata ad aumentare. Mentre Beijing cerca di ripulire l’immagine del suo Paese cercando capri espiatori per far dimenticare al mondo una cosa fondamentale: che l’unico paese ad aver guadagnato dalla pandemia, al momento, è proprio la Cina. Il suo Pil, mentre tutto il mondo è in recessione, è cresciuto difatti del 4,2%.

Lo scorso 3 novembre si è chiusa la campagna presidenziale americana: due giorni dopo, il 5, suona un campanello d’allarme. Hashim Thaci (foto), presidente del Kosovo, si dimette, e il 6 viene arrestato all’Aja per crimini di guerra. I legami tra Thaci e il vincitore delle elezioni americane Joe Biden sono antichi, riportano alla memoria la dimenticata guerra del Kosovo. Su questi fatti ci sono tre libri cruciali. Il primo di questi saggi (Nationalism Today: Extreme Political Movements around the World, ABC-CLIO, 2020), getta luce sul preambolo di quella guerra. L’autore, Troy Burnett, ricorda che nel 1989 Slobodan Milosevic è eletto presidente della Serbia, che toglie l’autonomia alla regione del Kosovo chiudendo le scuole albanesi, frequentate dalla maggioranza della popolazione locale. Sempre nel 1989, il kosovaro Ramush Haradinaj (detto «Rambo») appare in Svizzera dove lavora come buttafuori di nightclub. «Rambo» si unisce all’UCK, esercito guerrigliero kosovaro, diventandone poi uno dei capi. Tra

AFP

Fra i libri di Paolo A. Dossena

i fondatori dell’UCK c’è Thaci (detto «Serpente»), anche lui apparso in Svizzera e sospettato d’essere coinvolto nel crimine organizzato (prostituzione e contrabbando). La grande maggioranza dei fondi dell’UCK proviene dalla Svizzera, dove oltre 1500 albanesi sono reclusi nelle prigioni federali o si trovano in stato d’accusa. C’è un legame tra i

sovaro Thaci d’essere un capo d’una rete criminale impegnata nel traffico di organi. Secondo punto su cui gli autori concordano: con le sue organizzazioni criminali il Kosovo è un alleato scomodo, per l’Occidente. Nel 2000 l’Interpol stima che gli albanesi del Kosovo abbiano il controllo del 40% del mercato europeo della droga. «Rambo» e «Serpente» sono accusati d’esserne profondamenti coinvolti. Romano spiega che nel 2008 il Kosovo dichiara l’indipendenza, ma «le condizioni di una reale indipendenza non esistevano, per via di un’economia legata in buona parte al contrabbando». Dopotutto, nel 2019 «Rambo» ha rassegnato le dimissioni da primo ministro del Kosovo per essere sentito come sospetto all’Aja, presso una corte sostenuta dall’Unione Europea e istituita nel 2015 per perseguire i crimini di guerra dell’UCK. Ma «Rambo» ha già subito due processi e se l’è cavata. Il 7 novembre, su Twitter, si è congratulato con Biden per la vittoria elettorale, augurandosi di continuare a lavorare con lui.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Politica e Economia

Iran, disfatta per la sicurezza

Agguato Mohsen Fakhrizadeh, il generale e scienziato considerato il padre del programma nucleare iraniano,

è stato ucciso «in modo imprevedibile». Per mano di sabotatori (interni?) che lavorano per l’intelligence israeliana Daniele Raineri In questi giorni in Iran è tutto un rimpallarsi di responsabilità tra le varie forze del regime, nessuna delle quali vuole ammettere la sconfitta subìta con l’uccisione per strada del generale e scienziato Mohsen Fakhrizadeh. Venerdì 27 novembre attorno alle due del pomeriggio un convoglio di sicurezza formato da alcune auto (i dettagli precisi non sono ancora usciti e forse non usciranno mai) stava scortando il generale a visitare i genitori della moglie, poco fuori Teheran. Lui era il capo dell’organizzazione segreta militare che si occupa anche della ricerca atomica dell’Iran e come tale da parecchi anni era considerato il probabile bersaglio di un’operazione dell’intelligence israeliana. Viveva sotto la protezione di una scorta, si spostava in incognito e mai sullo stesso percorso per due volte di seguito e aveva adottato le precauzioni di un latitante: niente foto, niente interviste, niente indirizzo, niente appuntamenti in pubblico. Quando nel 2016 il regime iraniano aveva premiato con una cerimonia i negoziatori del patto atomico con gli Stati Uniti anche lui aveva ricevuto una medaglia, ma subito dopo e in forma riservata – dentro a una stanza accanto al palco lontano da fotografi e telecamere. E tuttavia tutta questa cautela non ha funzionato, perché un gruppo di fuoco lo ha individuato, lo ha sorvegliato, ha ricevuto in anticipo la soffiata giusta sulla strada che avrebbe percorso e lo ha aspettato per ucciderlo su un tratto di strada fra i campi dove non c’erano testimoni. Gli uomini che facevano parte del gruppo di fuoco mandato a uccidere il generale Fakhrizadeh hanno fatto saltare in aria un’autobomba, una Nissan blu, per bloccare la sua auto e poi hanno cominciato una sparatoria violentissima con la sua scorta. Il tutto è durato pochi minuti. L’hanno trascinato fuori, l’hanno ucciso, hanno risparmiato la moglie che era seduta in macchina con lui e sono spariti nel nulla. Era uno degli uomini più protetti dell’Iran. Era a dieci minuti di macchina dalla capitale del Paese. È stato ucciso lo stesso in mezzo a una strada. E così l’apparato di sicurezza dell’Iran è entrato in fibrillazione, perché tutti hanno un’idea precisa su chi è stato, è uno dei segreti-che-chiunqueconosce del Medio Oriente, è stata l’intelligence israeliana, ma la cosa più urgente tra gli iraniani che contano è non prendersi la colpa del fallimento. Le fazioni che formano il regime sono

Il feretro del generale Fakhrizadeh nel santuario dell’Imam Reza a Mashhad. (AFP)

sempre pronte a sfruttare gli errori delle fazioni rivali e questa è stata un’umiliazione imperdonabile, capace di provocare cambiamenti importanti nei rapporti di forza interni. Le Guardie della rivoluzione che erano responsabili per la protezione del generale dopo avere parlato a caldo nelle prime ore di un gruppo di sicari e di un attacco terroristico suicida hanno cambiato d’improvviso versione: ora attraverso le loro agenzie di stampa accusano un non meglio precisato killer robot israeliano, che piazzato a bordo della Nissan blu avrebbe prima crivellato di proiettili il generale/scienziato e poi si sarebbe autodistrutto – ma l’esplosione non è stata abbastanza potente da impedire agli iraniani di trovare «armi israeliane» sul luogo dell’attacco o almeno così hanno dichiarato (come se il nemico non fosse in grado di procurarsi altre armi per un’operazione sotto copertura). Il sottinteso di questa versione è: non siamo colpevoli, non c’era nessuno quel giorno ad aspettare il convoglio di Fakhrizadeh, c’era soltanto un’auto vuota, come facevamo a sapere, non potevamo immaginare che da quell’auto sarebbe sbucata una mitragliatrice robot telecomandata a distanza. Se siamo colpevoli è soltanto di non avere previsto l’imprevedibile perfidia tecnologica dei nostri nemici. L’espediente non funziona. Cir-

colano vignette satiriche che deridono la versione delle Guardie della rivoluzione e persino altri pezzi del regime, come il ministero della Difesa e l’intelligence, criticano in pubblico la ricostruzione come un’invenzione penosa tirata fuori dal cappello a cilindro delle agenzie ufficiali per coprire la disfatta. Gli iraniani che non fanno parte dell’apparato di sicurezza, a maggior ragione, non abboccano. Sono assuefatti alle invenzioni della propaganda di Stato e ormai prendono i notiziari con umorismo cinico. Una caricatura che gira molto mostra un Transformer – quei robot capaci in pochi secondi di tramutarsi in veicoli a loro piacimento – che ammette l’assassinio del generale. L’impressione diffusa è che l’anno si stia chiudendo per l’Iran con un’altra disfatta sul piano della sicurezza, a concludere una lunga sequenza di rovesci. A gennaio c’era stata l’uccisione ordinata dall’Amministrazione Trump del generale Qassem Suleimani, capo del reparto delle Guardie della rivoluzione che si occupa delle operazioni speciali all’estero. Suleimani aveva uno status leggendario in Iran e la sua uccisione è stata un trauma nazionale. Per vendicarlo la Guida Suprema, Ali Khamenei, aveva ordinato una ritorsione blanda che aveva preso la forma di una ventina di missili balistici sparati contro le basi americane in Iraq – una mossa così prevedibile che alla

fine il numero delle vittime americane era stato: zero. Ma quella notte la tensione era così alta che una batteria missilistica vicino alla capitale Teheran aveva creduto di essere sotto attacco da parte degli americani e aveva lanciato due missili contro un’aereo di linea che era appena decollato dal vicino aeroporto internazionale. Centosettantasei vittime. Per tre giorni il regime aveva tentato di insabbiare il caso, ma poi aveva dovuto capitolare perché le prove dell’abbattimento erano schiaccianti e aveva ammesso il terribile errore. La ritorsione era diventata un autogol. Figurarsi l’umore degli iraniani, umiliati due volte in pochi giorni prima dall’Amministrazione Trump e poi dal governo. Durante l’estate è arrivata un’altra grave violazione della sicurezza di Stato: un gruppo di sabotatori aveva piazzato una bomba dentro un edificio di Natanz, il più grande centro nucleare dell’Iran, dove migliaia di centrifughe producono prezioso combustibile atomico. L’esplosione che ne è derivata ha fatto danni così gravi che era impossibile da smentire. Secondo gli esperti sentiti dal «New York Times», ha rallentato la produzione di almeno un anno. Non è ancora per nulla chiaro cosa è successo, ma di nuovo i sospetti cadono su Israele. Si capisce che c’è un clima di paranoia, ci si chiede da dove arrivino i sabotatori e i killer (forse interni al

Paese e non agenti israeliani infiltrati), si ipotizza che siano già scappati all’estero, magari attraverso il confine con l’Azerbaigian – che in questi anni è un po’ diventato quella che era Casablanca durante la Seconda guerra mondiale, un porto franco dove s’incrociano un po’ tutti: israeliani, iraniani, arabi. Oppure attraverso il confine con il Kurdistan. Oppure ancora che siano partiti via mare. E se fossero al sicuro, nascosti in qualche casa insospettabile di una città dell’Iran, a preparare la prossima operazione? La pressione, anche se da fuori non si vede, dev’essere altissima. Tutto questo però non deve far dimenticare il quadro generale. L’Iran ormai non ha più bisogno di singoli scienziati per arrivare alla costruzione della bomba atomica, negli anni ha costruito un sistema che sforna tecnici capaci e ormai possiede il know-how. Il giorno dopo la morte di Fakhrizadeh il capo dell’Organizzazione atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, ha detto che «è stato creato un sistema efficiente che è capace di andare avanti e raggiungere i suoi obiettivi senza intoppi». Il regime ha soltanto bisogno di abbastanza combustibile atomico e soprattutto di una decisione politica di andare avanti davvero, sapendo che la costruzione di un arsenale atomico, se diventasse una notizia pubblica, potrebbe portare alla guerra e forse alla fine dell’Iran khomeinista. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Politica e Economia

Il gigante ferito

Etiopia Lo scontro con gli indipendentisti del Tigray diventa sempre più preoccupante perché avviene

in una regione delicata e apre scenari di destabilizzazione profonda

Pietro Veronese Gli eventi che si sono susseguiti nelle ultime settimane in Tigrè, arida e montuosa regione settentrionale dell’Etiopia, hanno le stimmate della tragedia. Una guerra fratricida dichiarata di punto in bianco all’interno dei confini nazionali da un primo ministro insignito l’anno scorso, per colmo di amara ironia, del Nobel per la pace. Un numero imprecisato di persone – ma sicuramente nell’ordine delle decine di migliaia – che si è riversato oltre confine, in Sudan, per sfuggire ai bombardamenti e ai combattimenti. La conseguente crisi umanitaria, immediatamente innescatasi in campi profughi affidati alle Nazioni Unite, sovraffollati e malamente riforniti. I primi sintomi di una carestia generalizzata in tutto il nord dell’Etiopia. La prospettiva di un gigante dell’Africa ridotto a pezzi, divorato da un’autodistruzione inarrestabile. L’ipotesi di una «Jugoslavia africana», una guerra di dissoluzione della federazione etiopica, che ricorre con insistenza in questi giorni nelle analisi degli specialisti. Con i suoi 105 milioni di abitanti, la vastità del suo territorio, la sua storia millenaria, un’economia che nell’ultimo ventennio ha compiuto passi straordinari, l’Etiopia ha il rango indiscusso di potenza regionale, fattore di stabilità e di riferimento per l’intero Corno d’Africa. La possibilità che la crisi politicomilitare in corso possa internazionalizzarsi – già coinvolge Sudan e Eritrea – prospetta scenari raccapriccianti. Di sicuro le diplomazie europee sono molto preoccupate, ansiose se non altro di evitare l’abbattersi di uno tsunami di profughi sulle loro coste meridionali. Sorprende invece la distrazione delle opinioni pubbliche, tutte assorbite dall’emergenza Covid. In altri tempi la guerra civile etiopica avrebbe campeggiato sulle prime pagine. L’ascesa del primo ministro Abiy Ahmed, due anni e mezzo fa, ha segnato una svolta capitale. Il giovane leader ha fatto spirare immediatamente un vento di riforma, di apertura e rinnovamento. Il primo effetto è stato la pace con l’Eritrea, la quale ha risolto un conflitto bloccato da un quarto di secolo (da cui il Nobel). La nomina di Abiy ha significato tuttavia anche una rottura negli equilibri di potere al vertice della federazione etiopica, con la sconfitta politica del gruppo dirigente tigrino. Dall’inizio degli anni 90, quando aveva abbattuto con la sua trionfale marcia su Addis Abeba la dittatura di Menghistu,

Rifugiati etiopi in Sudan in coda per l’acqua. (AFP)

il Tigray People’s Liberation Front era rimasto arbitro delle sorti politiche del Paese. Ventisette anni dopo, nel breve e feroce scontro politico che ha portato alla scelta a sorpresa del poco più che quarantenne Abiy, si è ritrovato in minoranza, isolato e perdente. I suoi attuali leader sono apparsi d’un tratto uomini del passato. L’impetuoso rinnovamento demografico della nazione ha portato alla ribalta una nuova generazione. I vecchi del Tplf, nostalgici di un eroico passato guerrigliero, si sono ritirati a Macallè, dove potevano esercitare gli ampi poteri garantiti dall’autonomia regionale: dopotutto la riforma dello Stato in senso federale era stata opera loro. Sono passati all’opposizione e aspettavano la loro ora. Il momento è arrivato nella primavera 2020. I successi internazionali di Abiy Ahmed, il suo prestigio personale, il ruolo di mediatore in conflitti regionali come la crisi politica del Sudan e la guerra civile sud-sudanese, non sono stati accompagnati da analoghi successi all’interno dell’Etiopia. La sua appartenenza all’etnia Oromo, e i suoi sforzi di apertura democratica, hanno paradossalmente portato alla ribalta, anziché sopirla, la più annosa questione politica dell’Etiopia. Nel mosaico etnico di quel grande Paese, gli Oromo costituiscono

il gruppo più numeroso – un cittadino etiopico su tre appartiene a questa etnia – eppure sono sempre stati tenuti lontano dal potere. Sudditi ai tempi dell’impero, subalterni in quelli successivi, con l’avvento di Abiy gli Oromo hanno preso a rivendicare con veemenza maggiore autonomia e potere. Grandi manifestazioni nella capitale e nei capoluoghi regionali del centro-sud, scontri di piazza, repressione violenta, morti extra-giudiziali hanno creato un crescente clima di instabilità, sul quale si è innestata la pandemia di Covid, con i conseguenti provvedimenti di contenimento. La situazione ha spinto il primo ministro a rimandare – analogamente ad altri Paesi – le elezioni previste per agosto, le prime del suo mandato. Immediatamente, i dirigenti tigrini hanno condannato il provvedimento; in un crescente scontro verbale tra Macallè e Addis Abeba, le elezioni si sono svolte regolarmente in Tigrè il 9 settembre. Da quel momento, lo scontro armato è apparso inevitabile. Le due parti negano ciascuna la legittimità dell’altra. Il Tigrè ha dichiarato illegittimo il potere federale, perché non più eletto; e questo rifiuta di riconoscere il voto tigrino. I finanziamenti federali al bilancio regionale sono stati bloccati, sottoponendo di fatto il Tigrè a un

embargo economico. Dalle accuse si è passati agli insulti e il dialogo si è interrotto. Abiy Ahmed, che ha conseguito un dottorato di ricerca all’università di Addis Abeba con una tesi sulla mediazione dei conflitti, ha respinto con sdegno ogni offerta di mediazione internazionale. Considera il pronunciamento tigrino un principio di secessione, una minaccia intollerabile all’integrità dei confini etiopici. Dopo un ultimatum in piena regola e un’intimazione di resa, il 4 novembre le forze armate etiopiche sono entrate in Tigrè. Da quel giorno il nord dell’Etiopia è rimasto avvolto in una cortina di silenzio che lo imprigiona ancor oggi. I confini sono sigillati, i giornalisti interdetti, i collegamenti bloccati. Telefoni, email, internet sono tagliati. Nemmeno le organizzazioni umanitarie riescono a interloquire con il loro personale sul terreno. L’unica voce è quella dei profughi che raggiungono il Sudan con i loro racconti atterriti e traumatizzati. Secondo le Nazioni Unite, la sopravvivenza di 600mila persone in Tigrè dipendeva dagli aiuti alimentari prima del conflitto: in novembre, e ora in dicembre, le razioni non sono più arrivate a destinazione. Nella tarda serata di sabato 28 novembre Abiy Ahmed ha annunciato che Makallè era «sotto il controllo del-

le Forze di difesa nazionali». Quale sia stato il costo materiale e umano della conquista del capoluogo tigrino, lo sanno solo i civili rimasti intrappolati nell’abitato. Quel che è certo, per il momento, è che i dirigenti del Tplf sono sfuggiti alla cattura. Con ogni probabilità cercheranno di organizzare una resistenza. Salve di missili hanno colpito a nord la capitale dell’Eritrea, Asmara, e a sud Bahar Dar, capoluogo della regione degli Amara, in un evidente tentativo di estendere il conflitto. Le aspre montagne tigrine hanno costituito in passato un terreno leggendario per le gesta di lotta partigiana, contro l’invasore coloniale italiano come contro le divisioni di Menghistu. Ma non è detto che il mito si rinnovi ai danni di un regime democratico, il quale afferma di agire in base al dettato costituzionale. Se questo dovesse accadere, il pericolo per l’unità dell’Etiopia si farebbe mortale. Le frange più radicali della complessa galassia politica oromo potrebbero essere tentate di seguire l’esempio tigrino e prendere le armi. Addis Abeba si troverebbe a dover combattere su due fronti. In questi giorni, le Nazioni Unite, l’Unione Africana, altre organizzazioni regionali e internazionali sono al lavoro nel tentativo di sostenere il gigante ferito. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Politica e Economia

Un declino demografico e molti interrogativi

Analisi La popolazione in Ticino sta calando dal 2016, le cause sono: minori nascite anche fra gli stranieri, più giovani

Keystone

e anziani confederati che partono, meno stranieri che arrivano – Ma sui motivi sono possibili per ora solo delle ipotesi

Il declino demografico è invece arrivato

Ebbene sì. E i fattori sono molteplici. Abituati come eravamo a una conti-

Donne

85 80 75 70 65 60 55

Baby boom

50 45 40 35

Emigrazione dei giovani

30 25 20 15 10

Denatalità

5 0 4000

3000

2000

1000

0

1000

2000

3000

4000

1. Popolazione 2019 per età e origine (in verde gli stranieri).

2’000

1’000

1’000

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0

0

0

-1’000 -2’000

-1’000 -2’000

-1’000 -2’000

2-3-4. Variazione, in valori assoluti, della popolazione residente nel Canton Ticino negli anni 2011-2019.

2019

2’000

2018

2’000

2017

3’000

2016

3’000

2015

3’000

2014

4’000

2013

4’000

2019

4’000

2018

5’000

2017

5’000

2016

5’000

2015

6’000

2014

6’000

2013

6’000

Variazione totale della popolazione

2012

Variazione della popolazione straniera

2011

Variazione della popolazione svizzera

2012

Da decenni, in Ticino, i decessi superano largamente le nascite (figura 5). Il saldo naturale è quindi sempre più negativo e negli ultimi anni la tendenza si è accentuata. A contribuire a questo calo sono sostanzialmente gli svizzeri, con un saldo naturale fortemente negativo (–4433 unità per gli anni 20112019). Non basta più il saldo naturale positivo, ma sempre più risicato, degli stranieri (+1780 unità) a compensare il calo degli svizzeri, per cui il saldo naturale complessivo nel decennio considerato è stato pari a –2653 unità. Esaurito l’effetto di struttura del baby boom, cioè dei nati negli anni 1963-74, con la conseguente ripercussione sulla nascite circa un ventennio più tardi (1993-2000), il calo della natalità che caratterizza tutte le fasce di età delle donne in età di procreazione,

Uomini

90

2011

Molti decessi rispetto ai lieti eventi

95

2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019

Nel 2015 l’Archivio storico ticinese pubblicava una nostra analisi sulla demografia cantonale negli ultimi trent’anni1. In alcuni paragrafi conclusivi traspariva un certo personale pessimismo. Ne riportiamo un paio: «Se l’immigrazione ha evitato al Ticino un declino demografico, nel contempo ha creato le premesse per un possibile declino economico. È probabilmente questo l’aspetto più rilevante che scaturisce dall’analisi della demografia cantonale dell’ultimo trentennio, e cioè quello di un Ticino meno competitivo, rispetto al resto della Svizzera, di quanto non lo fosse qualche decennio fa. (...) Il trentennio trascorso ha sicuramente portato molto benessere, anni di vita in più per tutti, la democratizzazione degli studi, l’emancipazione della donna, condizioni abitative molto buone. Le componenti di questa trasformazione hanno però sensibilmente modificato determinati equilibri economici, sociali, territoriali, politici, di non facile gestione già attualmente e, ancor più, se si pensa alle generazioni future». Queste considerazioni, fondate sui dati fino al 2013, erano molto personali. Si basavano essenzialmente sull’analisi della piramide della popolazione (vedi figura 1 aggiornata al 2019), cioè sugli squilibri intergenerazionali già evidenti, e sul saldo negativo, in particolare verso altri cantoni, dei flussi migratori dei residenti svizzeri in Ticino in età tra i 20 e i 39 anni. Di questi ultimi si parlerà poi, anche se in modo ipotetico, di fuga dei cervelli. Disponendo ora, a sei anni di distanza, di dati aggiornati al 2019, abbiamo voluto approfondire l’analisi, tenendo conto, ed è per questo che ci teniamo a farlo, che i dati si fermano alla vigilia della pandemia e che il vero bilancio andrà fatto tra qualche anno.

nua crescita della popolazione cantonale, c’è un senso di smarrimento di fronte a questo rovesciamento di tendenza. Non sono mancati i segnali di preoccupazione da parte di certi ambienti, in particolare economici. Come già di dominio pubblico, la popolazione complessiva del cantone è diminuita per il terzo anno consecutivo. I residenti sono passati dalle 354’375 unità del 2016, alle 351’491 unità nel 2019, una diminuzione di 2884 unità, pari a un calo dell’8,1 per mille. La diminuzione è dovuta solo in piccola parte alla popolazione svizzera residente nel nostro cantone (vedi figura 2), ma è sostanzialmente imputabile alla popolazione straniera, calata (vedi figura 3), nello stesso periodo, di 2689 unità (–27,0 per mille) pari al 93,2% della diminuzione totale. Da segnalare che, rispetto ai due cali precedenti, quello del 2019 è sensibilmente più importante, in particolare per la popolazione straniera. Per la prima volta inoltre diminuisce anche la popolazione svizzera, quasi stessimo assistendo a una crisi demografica generale. Ma vediamo quali sono i fattori all’origine di questa nuova tendenza.

Anni

Elio Venturelli, già direttore Ustat


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Politica e Economia

Saldo naturale 1’000

0

-1’000

5. Nascite, decessi e saldo naturale dal 1960 al 2019.

6’000

80’000

5’000

70’000 60’000

4’000

50’000

3’000

40’000

2’000

30’000

1’000

2019

10’000 0

-2'000

-800

-800

-1000

-1000

Saldo internazionale 20-39 Saldo intercantonale 20-39

2017

-600

2013

-600

2009

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2005

-400

2001

-200

1997

-200

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0

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0

2017

200

2013

200

2009

400

2005

400

2001

600

1997

600

1985

7. Frontalieri in Ticino dal 1956 al 2020.

1981

6. Saldo internazionale stranieri (arrivi meno partenze).

1956 1960 1964 1968 1972 1976 1980 1984 1988 1992 1996 2000 2004 2008 2012 2016

2018

2017

2016

2015

2014

-1’000

2013

0

20’000

1993

Ovunque, non solo in Ticino, la formazione, accademica e non, non è più sufficiente. I giovani migrano per migliorare le proprie competenze. Il risultato di questi flussi, da un paio di decenni è però negativo per il nostro cantone (figura 8). In questi ultimi anni è dunque proseguito, oltretutto accentuandosi, l’esodo verso altri cantoni o all’estero di giovani (20-39 anni) residenti svizzeri in Ticino. Dal 2001 al 2019 il saldo, cioè l’eccedenza delle partenze sugli arrivi è stato pari a –7664 unità, –888 unità solo nel 2019. La situazione è stata oggetto di una recente interrogazione. Nella sua risposta (del 2 settembre 2020/n. 4429) il Consiglio di Stato, pur fornendo un dettagliato elenco di tutte le molteplici e importanti iniziative volte a rendere il nostro cantone sempre più competitivo, non ha fornito una risposta a questo interrogativo. Lo stesso Ustat (Ufficio cantonale di statistica), malgrado i numerosi e interessanti approfondimenti effettuati2 , sottolinea i limiti dell’attuale statistica pubblica nel chiarire la situazione.

L’aggiornamento del nostro studio del 2015, con i dati fino al 2019, ha messo in evidenza diverse novità. ■ Innanzitutto il declino demografico, che le serie statistiche precedenti sembravano escludere, si è invece verificato. Dopo il 2016 la popolazione del cantone ha iniziato a diminuire. Al di là delle componenti demografiche che hanno contribuito a questo «declino», unico nel suo genere tra i cantoni svizzeri, ad eccezione di Neuchâtel, possiamo chiederci se sia un bene o un male che la popolazione diminuisca? C’è chi vede nella crescita demografica una condizione indispensabile per la crescita del Pil e chi è a favore di una decrescita sostenibile, tenuto conto dei limiti territoriali, delle esigenze ambientali, ecc. Come si situa il nostro cantone di fronte a questa diatriba? ■ Il calo della popolazione è dovuto essenzialmente a due fattori: la drastica diminuzione degli arrivi di manodopera estera (con permesso di dimora), che si contrappone al continuo aumento del numero di frontalieri, contrariamente a quanto avvenuto nelle crisi precedenti. Ciò solleva almeno due interrogativi: – prima della pandemia l’economia ticinese era forse già in crisi e cercava di sopravvivere sostituendo residenti con manodopera a basso costo? – Oppure, scenario opposto, lo sviluppo tecnologico ha permesso a numerose aziende di ridurre la manodopera e passare a una produzione ad alto valore aggiunto? Ma come spiegare allora l’aumento dei frontalieri? ■ Il calo dello popolazione è però dovuto in larga misura anche all’emigrazione dei giovani, già in atto da tempo, in particolare oltre Gottardo, ma anche all’estero. A questo si aggiunge la diminuzione/azzeramento dell’apporto dei «confederati», a partire dal 2015. ■ Un’altra novità riguarda l’emigrazione recente dal Ticino, sia di residenti svizzeri che stranieri di una certa età,

Decessi

2’000

1989

Sempre più marcato l’esodo dei giovani dal Ticino

Riassumendo

Baby boom

3’000

2012

Non è la prima volta che l’immigrazione di manodopera cala bruscamente in Ticino. Generalmente la diminuzione corrisponde a una crisi economica, che si riflette, oltre che sul numero di dimoranti, anche sugli effettivi dei frontalieri, come si può leggere nel grafico (figura 7). Il recente crollo dell’immigrazione non ha però, questa volta, provocato un calo dei frontalieri. Come mai? Rimanendo positivi possiamo ipotizzare che l’economia ticinese si stia modernizzando e, grazie alla tecnologia, necessiti di meno manodopera qualificata e ricorra ai frontalieri per le mansioni a basso valore aggiunto. Si potrebbe anche supporre che l’economia ticinese sia in difficoltà e le aziende sostituiscano i dimoranti con i frontalieri perché meno cari. O ancora che alcuni rami economici siano in crisi e riducano gli effettivi; altri invece si sviluppano (a basso valore aggiunto?) grazie al precariato e ai frontalieri. Siamo però sempre nel campo delle ipotesi perché manchiamo di informazioni pertinenti ed esaustive. La statistica ufficiale non ci permette di documentare l’andamento della nostra economia, per questo particolare settore, malgrado esista un registro delle aziende e che ogni assunzione di personale dimorante o frontaliero va autorizzata sulla base di precise indicazioni.

Ricaduta sulle nascite dei figli del baby boom

Nati vivi

4’000

2011

Come mai calano gli arrivi internazionali di stranieri?

5’000

1985

Da sempre i flussi migratori da e verso il Ticino sono stati determinanti nell’andamento della demografia cantonale. La componente più importante è costituita dagli arrivi internazionali di stranieri, sostanzialmente dall’Italia. Essa ha rappresentato il motore della crescita demografica del dopoguerra. Dopo il 2013 la forte crescita degli arrivi di stranieri dall’estero si è però bruscamente interrotta (figura 6). La diminuzione ha caratterizzato tutte le classi di età, ma in particolare quella potenzialmente attiva (20-39 anni).

I dati recenti mostrano come, all’esodo dei giovani dal cantone si aggiunge ora anche quello relativo ai residenti in età più avanzata (40 anni e più). Per quanto riguarda i residenti svizzeri (figura 9), il saldo di questi flussi a favore del Ticino da sempre positivo, pensiamo in particolare ai cosiddetti «confederati» attirati dal sole del Ticino (Sonnenstube), è costantemente diminuito, per azzerarsi nel 2015. Stupisce questo recente cambiamento di tendenza. C’è chi3 attribuisce questo esodo pre-pandemico (visto che attualmente il Ticino è un cantone rifugio per le vacanze per molti residenti d’oltre Gottardo), agli acciacchi dell’età, al bisogno di ricongiungersi con figli e nipoti e anche alle difficoltà di integrazione legate alla lingua. In effetti l’analisi più dettagliata dei flussi mette in evidenza che è in particolare l’aumento delle partenze di persone in età avanzata, che rientrano probabilmente nel loro cantone d’origine, la causa principale di questa flessione del saldo, più che la diminuzione degli arrivi. Il flusso verso il Ticino è infatti rimasto pressoché costante per tutte le fasce d’età oltre i 40 anni. Gli stessi dati (vedi sempre figura 9), oltre all’annullamento dei flussi oltre Gottardo, quantificano la tendenza recente di numerosi svizzeri residenti nel nostro cantone, a trasferirsi all’estero, probabilmente dove la qualità di vita è buona e il costo della vita è inferiore (pensiamo al Portogallo, alla Spagna, alla Thailandia, ai Caraibi). Le partenze sono state superiori agli arrivi di 728 unità negli ultimi 5 anni. A questo si aggiungono i probabili rientri in patria, negli ultimi anni, di stranieri residenti nel nostro cantone, una volta in pensione. Dal 2017, questo esodo ha riguardato 1214 unità. Non si tratta ancora di flussi importanti, ma rivelatori che qualcosa sta cambiando. Il Ticino non sembra più essere lo stesso Ticino di qualche anno fa.

1981

Il rompicapo delle migrazioni

Un Ticino meno interessante anche per gli anziani

19 60 19 63 19 66 19 69 19 72 19 75 19 78 19 81 19 84 19 87 19 90 19 93 19 96 19 99 20 02 20 05 20 08 20 11 20 14 20 17

provoca un conseguente calo delle nascite che, dalle 2949 del 2011 (se vogliamo considerare il recente periodo) è passato alle 2294 unità (–22,2%) nel 2019. È difficilmente ipotizzabile un cambiamento di tendenza per i prossimi decenni. Sul fronte dei decessi è fortunatamente proseguito anche in questi ultimi anni il calo del tasso di mortalità per tutte le classi di età. Oggigiorno circa il 70% dei decessi avviene dopo gli 80 anni. Ciononostante, considerato il forte invecchiamento della popolazione, il numero di decessi è aumentato anche in questi ultimi anni, tendenza che caratterizzerà anche gli anni futuri, che vedranno un saldo naturale inevitabilmente negativo.

Saldo internazionale 40 e + Saldo intercantonale 40 e +

8. Saldo migratorio degli svizzeri di 20-39 anni, 1981-2019; 9. Saldo migratorio degli svizzeri di 40 e + anni, 1981-2019. (Non disponendo ancora della ripartizione tra saldo intercantonale e internazionale per il 2019, la linea blu corrisponde al saldo totale).

verso l’estero, probabilmente alla ricerca di condizioni di vita più abbordabili a livello di costo della vita. In questa situazione pre-pandemica troviamo quindi un Ticino difficile da capire. Se gli interrogativi sono molti è perché non disponiamo di informazioni sufficienti e sistemiche. Malgrado l’esistenza di numerose banche dati sia sulle aziende, sia sulla popolazione, non sembra possibile determinare le tendenze di fondo dell’economia cantonale se non in termini di Pil, di esportazioni o di disoccupati, tutti indicatori parziali di una realtà ben più complessa. Senza una migliore conoscenza della situazione sarà più difficile valutare le conseguenze sulle attività

economiche causate dalla pandemia in atto. Come faranno i responsabili politici a districarsi nel labirinto delle interpretazioni settoriali, magari in contraddizione tra loro, e decidere con cognizione di causa? Note

1. Elio Venturelli, Vivere sempre più a lungo in una società in via di estinzione, Trent’anni di demografia in Ticino, Archivio Storico Ticinese 157, giugno 2015. 2.Su questo aspetto è stata fatta nel 2017 una mozione di Matteo Pronzini intitolata: salari giovani: necessario un approfondimento per capire se effettivamente i giovani emigrano. Recentemente è pure stata inoltrata un’interrogazione al Consiglio

di Stato: Esodo delle giovani e dei giovani ticinesi: come contrastarlo? (3 febbraio 2020 / 24.20). Un approfondimento sulle migrazioni è pure stato fatto in precedenza dall’Ustat: Francesco Giudici, Matteo Borioli, Danilo Bruno, Migrazioni: focus sulle partenze dal Ticino, Dati statistiche e società, no. 1 giugno 2018. Segnaliamo pure l’analisi: Dalle scuole universitarie svizzere al mondo del lavoro, Ufficio di statistica, Università della Svizzera italiana, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, © Ufficio di statistica 2020. 3. Vedi Lisbeth Eller Van Ligten, «Ticino retour», presso la Gisler 1843 AG di Altdorf.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Politica e Economia

Che casa trovo con un milione?

Mercato immobiliare La domanda di case e appartamenti in proprietà è sempre sostenuta e i prezzi salgono.

C’è un certo spostamento in periferia, ma restano molte differenze fra le regioni

Ignazio Bonoli Attualmente, in Svizzera, nonostante le incertezze economiche, la pandemia e i prezzi degli immobili, si registra ancora una buona domanda di case monofamiliari. Spesso il fenomeno è accompagnato da una migrazione dalle città verso le periferie e verso le campagne. Ovviamente ciò è dovuto in parte ai costi del vivere in città e alla crescente ricerca di spazi liberi, sia all’interno delle case plurifamiliari, sia all’esterno: aria migliore, spazi verdi, panorami e via dicendo.

La casa tipo che esce dall’indagine della «Handelszeitung» è monofamiliare, con 2 bagni, 140 mq, 10 anni Ovviamente anche il prezzo gioca un ruolo importante. La situazione del mercato immobiliare, di questi tempi, è abbastanza strana. Infatti, nonostante un’offerta ancora in crescita, la domanda ristagna e i prezzi non tendono a diminuire. Due sono i motivi principali di questa situazione: i costi della costruzione restano molto elevati (compresi anche gli oneri dovuti a tasse e contributi pubblici) e il denaro a disposizione a tassi poco sopra lo zero è abbondante, mentre le possibilità di investimenti alternativi non sono per nulla attraenti. Stranamente però, come si diceva, persiste una certa domanda di case unifamiliari. Per una valutazione della situazione mediante una formula nuova, la «Handelszeitung» ha presentato un’indagine, a livello svizzero, basando l’inchiesta sul denaro a disposizione. È stato perciò chiesto, con un milione di franchi a disposizione, quanti metri quadrati di abitazione si possono ottenere.

Nel Giura con un milione di franchi si trovano case da 150 fino a 210 metri quadrati. (Keystone)

Premesso che oggi, per designare una persona molto ricca, si usa il termine di «milionario», si constata che però questo non vale più per chi vuole acquisire una casa d’abitazione. Le domande che si pongono sono quindi: si può trovare una casa come si deve con un milione di franchi, e dove? Le risposte dell’indagine si basano sui dati forniti dall’agenzia immobiliare Iazi di Zurigo. La casa tipo in questo caso è un’abitazione monofamiliare, indipendente, con 140 mq di superficie, di 10 anni d’età, ben costruita, con due sale da bagno. Su questo modello si è calcolato, per tutti i comuni, il numero di

metri quadrati abitativi che si possono ottenere per un milione di franchi. È stata posta anche un’alternativa con una casa di 110 metri quadrati, di cinque anni, ben costruita e ben tenuta. Anche in questo caso si è calcolato un prezzo immaginario e da questo prezzo si è dedotto il numero di metri quadrati che si possono ottenere con un milione di franchi. L’indagine non crea grandi sorprese. Conferma però le grandi diversità fra città e campagne, fra cantoni e cantoni e fra regioni e regioni. Per esempio, se nel Giura con un milione di franchi si possono comprare perfino due case del tipo citato, a Zurigo

se ne può comprare solo mezza. In sostanza si conferma che il prezzo di una casa dipende molto dal luogo in cui si trova. A Zurigo, Zugo e Ginevra 1 milione basta appena per una casa di 70 metri quadrati, Ma vi sono parecchie altre regioni in cui i prezzi sono elevati. Per esempio, lungo le rive del lago di Zurigo o del Lemano, a Basilea, Berna e Lucerna. Ma anche in alcuni comuni dell’Alta Engadina un milione basta per meno di 100 metri quadrati di una casa monofamiliare. Le condizioni cambiano per molte zone dell’Altopiano. Qui per un milione si possono avere 160 mq e anche più in una casa monofamiliare. È so-

prattutto nell’arco giurassiano che si trovano le case a miglior mercato. La situazione è analoga per gli appartamenti in comproprietà. Nei centri e nelle località fortemente marcate dal turismo, un milione basta per meno di 90 mq o perfino per meno di 60 mq. In certe zone dell’Altopiano, delle Alpi e del Giura la cifra potrebbe bastare per 150, 180 o perfino 210 mq. In questo caso Ginevra è la città più cara, seguita da Zurigo, Losanna, Basilea e Lucerna. In Ticino, le zone con abitazioni care (cioè un milione per meno di 60 metri quadrati) si concentrano attorno alla città di Lugano e, in minima parte, anche di Locarno-Ascona. Nella maggior parte del territorio si trovano case fra i 120 e i 180 mq. Eccezioni (fino a 180 – 210 mq) sono reperibili nelle valli e in zone discoste. Nella classifica dei cantoni con il maggior numero di inserzioni pubblicitarie per case monofamiliari a meno di un milione, il Ticino è al quarto posto, con 1491 case. Berna ne ha 4557 e Zugo soltanto 6. Gli esperti del settore constatano che negli ultimi vent’anni il prezzo delle case in proprietà è costantemente aumentato. Nei centri, la domanda è sostenuta da chi lavora nelle città, ma in genere anche dagli aspetti fiscali. Per esempio, nel canton Neuchâtel il prezzo medio basso del metro quadrato dell’abitazione è dovuto anche al peso maggiore delle imposte. La diffusione della pandemia da Covid ha favorito il lavoro a domicilio e un certo spostamento anche delle domande di case verso la periferia. Si valuta un aumento di circa il 30%, rispetto al 2019. Gli esperti pensano che la tendenza proseguirà e anche nelle città, dove si potrebbe notare un ritorno, dopo il virus, di coloro che se ne erano allontanati. Anche se il costo del denaro (delle ipoteche) resterà basso, è probabile che il fenomeno provocherà una diminuzione delle superfici abitabili per famiglia.

Un nuovo gigante commerciale La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy

La Cina è la potenza economica trainante 35% 30% 25% 20% 15% 10% 5% 0% Blocco commerciale RCEP

Cina

Giappone

Quota del PIL mondiale

della Cina dai mercati dell’America del Nord. Con il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda, anche importanti Stati, tradizionalmente alleati degli Stati Uniti, si avvicineranno ancora di più alla Repubblica popolare. Dal punto di vista economico, in futuro

2019

Paesi ASEAN

Corea del Sud

Previsioni del FMI per il 2025

l’accordo RCEP dovrebbe rendere più efficienti le economie del Nord e del Sud-Est asiatico e unire i loro punti di forza in settori quali la tecnologia, la produzione e le risorse. All’interno della zona di libero scambio, l’intenzione è di abolire circa il 90% dei dazi doganali,

Australia

Nuova Zelanda Fonte: FMI

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Malgrado la pandemia del Coronavirus e la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, a metà novembre 15 Paesi dell’Asia-Pacifico hanno raggiunto il cosiddetto accordo di libero scambio RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership). Con 2,2 miliardi di persone, il blocco commerciale rappresenta circa il 30% della popolazione e della produzione mondiali; il RCEP è quindi il più grande accordo di libero scambio del mondo. Anche se l’accordo deve ancora essere ratificato dagli Stati membri, questo viene già considerato una grande conquista. Infatti, oltre all’Australia, alla Nuova Zelanda e ai dieci Paesi dell’Asia sudorientale, con la Cina, il Giappone e la Corea del Sud la partnership riunisce le tre maggiori economie dell’Asia nordorientale, le cui relazioni sono storicamente gravate da tensioni politiche. Spicca invece l’assenza degli Stati Uniti e dell’India. Nell’attuale guerra commerciale, l’accordo di libero scambio rappresenta un importante successo per il governo cinese in termini di politica estera. Piuttosto che isolata, come auspicato dagli Stati Uniti, Pechino assume un ruolo di primo piano nella regione dell’Asia-Pacifico. Inoltre, il RCEP riduce la dipendenza

di unificare le norme commerciali e di semplificare quindi le catene di approvvigionamento. Si stima che l’accordo di libero scambio nel 2030 potrebbe apportare circa 209 miliardi di dollari al reddito mondiale e 500 miliardi di dollari al commercio mondiale.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Cultura, tra importanza economica e problemi Come i nostri lettori sanno, la pandemia del Coronavirus non ha colpito allo stesso modo tutti i settori economici. Tra i rami più colpiti, oltre al turismo e alla gastronomia, ci sono le attività culturali. I lettori lo sanno per esperienza diretta. Quest’anno son venuti loro a mancare gli spettacoli teatrali, i concerti (di ogni tipo), le mostre in istituzioni grandi e piccole, i molti festival che, di solito, animavano i finesettimana dalla primavera all’autunno, e chi più ne ha più ne metta. Per il momento non è stato pubblicato ancora nessun bilancio della stagione culturale. Non saremmo però sorpresi di apprendere che, in pratica, più dei 3/4 delle manifestazioni culturali, che si sarebbero dovute svolgere con la partecipazione del pubblico, sono state cancellate, rimandate o svolte con limitazioni di accesso, oppure solo con l’intervento del digitale. A perderci sono stati un po’ tutti: dal

pubblico, in particolare da quello degli abbonati, che ha dovuto rinunciare alle serate programmate e magari rimetterci in buona parte la cifra sborsata in anticipo per i biglietti, agli organizzatori che, naturalmente, non sono riusciti a far quadrare i loro conti. È certo tuttavia che a sopportare la quota maggiore dei costi della pandemia sono stati gli artisti stessi che non hanno potuto prodursi per i diversi divieti che si sono succeduti nel corso degli ultimi otto mesi. Non si tratta di poche persone. Come ha infatti messo in evidenza un rapporto, pubblicato di recente dall’Ufficio federale di statistica, nel 2018, nel nostro paese, la produzione culturale interessava 63’000 aziende che occupavano circa 300’000 persone. Per non creare confusioni è importante precisare che queste aziende e questi occupati costituivano, in parte, il settore della cultura e, in parte, si trovavano in altri rami di attività dell’economia

del nostro paese. Se prendiamo come termine di riferimento l’occupazione, possiamo affermare che circa l’80% degli addetti erano occupati in attività del settore culturale mentre il restante 20% svolgeva attività culturali fuori da questo settore. Che le cose stiano così è ovviamente da far risalire alla definizione di attività culturali che, nel caso della statistica federale, è relativamente larga, comprendendo anche – per fare solo qualche esempio – l’architettura e la pubblicità. Osserviamo che, sia dal profilo del numero delle aziende, sia da quello degli occupati, si tratta di cifre importanti. Anche qui, per fare un solo esempio, ricordiamo che il settore bancario occupava, sempre nel 2018, appena poco più di 100’000 persone. In altre parole in Svizzera, oggi, ci sono tre occupati in attività culturali per un bancario. È un rapporto che certo creerà qualche sorpresa anche presso gli addetti

ai lavori che potrebbero leggerci. Il settore culturale in più è un settore moderno: praticamente è uno dei componenti del cosiddetto quaternario, ossia del complesso di attività che si è venuto sviluppando, con la deindustrializzazione, il continuo crescere di importanza degli agglomerati urbani e l’aumento della quota di occupati con formazione al livello terziario (università, politecnici, accademie e scuole universitarie professionali). Qui terminano però i commenti positivi. Perché, nonostante la sua importanza come datore di lavoro, il settore culturale ha relativamente poco peso in materia di valore aggiunto. Le cifre dell’Ufficio federale ci dicono infatti che mentre le aziende del settore rappresentano il 10,5% del totale delle aziende della nostra economia e gli occupati il 6,3%, il contributo del settore al valore aggiunto nazionale è solo del 2,1%. I problemi del settore sono dunque

quelli di tutti i rami ad alta intensità di lavoro: la produttività è troppo bassa. Lo riscontra anche il rapporto dell’Ufficio federale. Sicuramente sono molti i fattori che spiegano perché il contributo del settore al valore aggiunto è così basso. Dal rapporto dell’Ufficio federale di statistica possiamo rilevarne alcuni. In primo luogo le attività culturali occupano una maggioranza di donne (51%), che sono meno retribuite che gli uomini (con differenze che, a seconda dei rami, possono andare fino al 23%) e, in secondo luogo, le attività culturali non sono, di regola, attività a tempo pieno, il che, naturalmente, viene a diminuire ulteriormente il contributo che gli occupati delle stesse possono dare al PIL nazionale. Il terzo fattore è quello che si è manifestato in particolare quest’anno: il risultato economico di queste attività dipende, molto più di quello di altre, dalla presenza del pubblico.

essendo mezza giamaicana «ovviamente» da ragazza aveva fumato marijuana; lui si risentì, la accusò di aver usato uno stereotipo razzista sui giamaicani, fece intendere che Kamala usava le proprie origini come uno stratagemma per eludere una questione che poteva diventare imbarazzante. Sia chiaro: questo non toglie nulla alla freschezza e all’interesse della personalità della prima donna a diventare presidente degli Stati Uniti d’America. Ma aiuta a evitare una retorica che è sempre nemica della verità. Anche perché – ricorda Rampini - esiste pure il razzismo di chi ha bollato sia Kamala Harris sia Barack Obama come «mezzi neri»: quasi l’origine mista li rendesse sospetti e incapaci di assumere le posizioni politiche radicali che una parte della sinistra americana si attenderebbe da loro. I cantieri della storia è il racconto delle grandi ripartenze nella vicenda umana, in particolare (ma non solo) nel Novecento. Il New Deal con cui Franklyn Delano Roosevelt portò l’America fuori dalla grande depressione è un precedente così potente, che oggi lo stesso termine viene riproposto da chiunque

intenda lanciare riforme progressiste ed espansive; non a caso si parla di Green New Deal. Lo stesso accade per il Piano Marshall, invocato di continuo quando si vuole auspicare un intervento coraggioso dopo una catastrofe; anche se – come spiega bene l’autore – il Piano Marshall, quello vero, fu molto più piccolo di come lo pensiamo, e nello stesso tempo molto più intelligente. Dalle macerie della Seconda guerra mondiale rinasce non solo la Germania, ma la stessa Francia; che fatica a rinunciare all’impero coloniale, ma nonostante la lunga serie di rese – dalla tragica primavera del 1940 all’assedio di Dien Bien Phu – è protagonista della costruzione europea. «Il primo dei cantieri asiatici che preparano la nuova centralità dell’Oriente è in Giappone – ricorda Rampini -: un caso, unico nella storia, di nation-building riuscito grazie a una dura occupazione militare». Della Cina, dove ha vissuto a lungo, Rampini racconta il riscatto dopo la Rivoluzione culturale – «di fatto una guerra civile» – e dopo il massacro di piazza Tienanmen («un colpo di Stato militare contro una parte di popolazione inerme»).

Tuttavia, prima della rinascita, viene la caduta. Il prototipo di ogni decadenza è il crollo dell’Impero romano; e da qui il libro prende avvio. Da sempre gli Stati Uniti d’America guardano all’antica Roma come all’archetipo del loro stesso impero. E quindi dovrebbero stare – loro, ma anche noi europei – molto attenti al fenomeno che accompagnò e in parte causò il declino e la caduta di Roma: la fuga dallo Stato, il rifiuto di partecipare alla vita pubblica, la perdita di interesse per la politica, l’infedeltà fiscale, e anche il rigetto dei doveri militari. Ricostruzione non è sinonimo di rinascita; ad esempio, quella tentata dopo la guerra civile americana fallì; il Sud rimase più povero del Nord, e gli ex schiavi neri non vennero inseriti nella vita pubblica, non poterono votare né essere eletti, furono tenuti ai margini. E le tensioni di oggi ci ricordano che la questione razziale negli Stati Uniti non è certo risolta. I cantieri della storia possono produrre il riscatto; ma non è detto. Tutto dipende, come sempre, da noi. È questa la lezione del bellissimo libro di Federico Rampini.

San Gottardo a gigante buono e a genio protettore della neutralità del paese. Ma in quest’operazione, nota come «difesa spirituale» (braccio culturale della mobilitazione in armi), gli intellettuali d’indirizzo elvetista poterono far leva su un’eredità plurisecolare, che affondava le sue radici nel Settecento, il secolo delle spedizioni alpinistiche e delle indagini naturalistiche, dalla botanica alla mineralogia. Nel secondo dopoguerra, il paesaggio mentale formatosi nel clima dell’assedio bellico è stato sottoposto a profonda revisione, come il lettore potrà verificare scorrendo i saggi che il coordinatore del Laboratorio di storia delle Alpi, Luigi Lorenzetti, ha raccolto nel volume Clio nelle Alpi, appena pubblicato dall’editore Dadò. Tuttavia non è mai scomparso del tutto, e anzi riaffiora con regolarità sia nelle narrazioni patriottiche delle formazioni nazional-populiste (evidentemente consapevoli del fascino che il

mito alpino tuttora esercita nell’immaginario collettivo), sia nelle campagne per la difesa delle Alpi dal traffico e dalla cementificazione promosse dalla sinistra ecologista. La catena alpina è così diventata crocevia di ideali e interessi, sorretti da movimenti spesso estranei alle comunità montane, eppure influenti e capaci di segnarne il destino (v. insediamenti destinati al jet set internazionale, residenze secondarie, gestione dei predatori, innevamento artificiale, elettrodotti eccetera). Osservare le terre alte dal basso, ossia dai centri urbani congestionati e frenetici, non è come abitarle quotidianamente, affrontare stagione dopo stagione le attività agresti con le loro asprezze. Entrare in una cabinovia superequipaggiati non è come alzarsi alle prime luci dell’alba per governare le bestie. Se vogliamo che la montagna continui a vivere occorre riorientare lo sguardo, e cercare, in primo luogo, di favorirne il ripopolamento.

La rigenerazione del substrato demografico è condizione indispensabile per il successo di ogni iniziativa. Purtroppo l’esodo rurale e l’invecchiamento degli autoctoni ha privato i villaggi di risorse preziose, sia nell’imprenditoria, sia nella manutenzione dei beni comuni. Il Ticino non è ancora un’agglomerazione unica e continua, una macchia d’olio in espansione, come si è soliti dire e rappresentare in multicolori cartografie: è tuttora, in buona parte, valle, bosco, pascoli, piccoli nuclei aggrappati ai versanti che si animano solo nei mesi estivi. Considerare questa parte del cantone solo come un provvidenziale ricetto per sottrarsi alla «malitia temporum» ricalca una mentalità neo-coloniale: vuol dire ignorarne le esigenze vitali, i bisogni di coloro che, fra mille difficoltà, non intendono cedere al richiamo della pianura. È compito della politica non dimenticare questo Ticino rimasto ai margini eppure determinato a resistere.

In&outlet di Aldo Cazzullo Le lezioni della storia (e di Rampini) Il bello dei libri di Federico Rampini è che a leggerli si impara sempre qualcosa. Non si è confortati in quel che già si pensa, non ci si sente ripetere quel che già si sa; si scoprono cose nuove; e magari si apprende che quel che si sapeva, o si credeva di sapere, è in realtà falso. Facciamo un solo esempio, tratto dall’ultimo saggio di Rampini, I cantieri della storia, appena pubblicato in Mondadori e di cui «Azione» ha anticipato molte parti in una serie pubblicata nell’estate. In tutto il mondo c’è molto interesse attorno a Kamala Harris, e anche qualche equivoco. Il

fatto di avere un padre giamaicano e una madre indiana ne fa oggettivamente una figura nuova nel panorama politico americano, a lungo dominato da maschi bianchi anglosassoni protestanti. Però la nuova vicepresidente non è figlia dei ceti popolari, non è simbolo di un prodigioso riscatto sociale. La madre, Shyamala Gopalan, viene da una famiglia di bramini, al vertice del sistema indiano delle caste. I genitori (i nonni di Kamala) la mandarono a studiare all’università di Berkeley, in California, una delle più prestigiose del mondo. Come ricorda Rampini, tra i 50 mila immigrati in America che vengono dalla casta nobiliare dei bramini del Tamil Nadu, i cosiddetti «tambram», ci sono due premi Nobel, il capo di Google Sundar Pichai, l’ex chief executive della Pepsi Cola Indra Nooyi. Insomma, non sono immigrati con la valigia di cartone, né migranti scesi dalle barche; sono l’élite della globalizzazione, con grandi meriti e grandi opportunità. Il padre della Harris è invece un economista importante, che non va molto d’accordo con la figlia. I due hanno pure litigato qualche anno fa, quando lei disse che

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La montagna disincantata Fuga dalla città. Incalzati dalla pandemia, molti raggiungono le baite che dopo il tramonto della civiltà contadina sono state trasformate in seconde case, confortevoli e riscaldate. Nella loro corsa i cittadini riscoprono la montagna intesa come rifugio dai guasti prodotti dalla società urbana. Facebook rigurgita di pascoli, vette, sentieri, laghetti, scorci incantevoli, e di sempre più stremate lingue di ghiaccio. Luca Mercalli, climatologo ben noto anche da noi, ha pubblicato da Einaudi un volume emblematico: Salire in montagna. Sottotitolo: «prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale». Per dire che solo la montagna potrà salvarci se sapremo accoglierla e rispettarla. Reto Roedel, scrittore e critico letterario retico oggi dimenticato (1898-1991), collocava nelle Alpi la sorgente morale da cui traeva energia il popolo svizzero: «Dalla montagna venne la nostra forza. Nella montagna ci ritroviamo. Eh sì, perché

possono essersi trasformate le case degli uomini, moltiplicate le strade, qualche foresta può avere ceduto ad altre colture, ma se leviamo lo sguardo in alto, siamo certi di posarlo esattamente sugli stessi profili che furono diletti ai nostri babbi e ai nostri nonni. [...] Nella montagna troviamo e foggiamo la continuità della nostra storia». Roedel scrisse queste righe per un ciclo di conferenze tenute in Italia nel dicembre del 1938, in piena epoca fascista. In quell’occasione l’autore non voleva, e né poteva, muovere accuse al regime mussoliniano; a lui importava mettere in luce e dipanare i fili di questo retaggio iconico, di questo viscerale attaccamento alle Alpi: tradizione che poteva contare su pensatori illustri, dal von Haller a Rousseau, da Scheuchzer a De Saussure. Proprio in quegli anni, con la fondazione della Pro Helvetia e, in campo militare, con il perfezionamento del ridotto alpino, le autorità federali elevavano il


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Cultura e Spettacoli L’esordio di Matt Convince il nuovo lavoro di Matt Berninger, frontman dei The National pagina 39

Il teatro non si ferma Grazie alla lodevole Zona 30 il Teatro Sociale ha saputo mettere in scena proposte interessanti nonostante la pandemia

Nuovo cinema elvetico Dimitri Stapfer, reduce dal successo de Il prezzo della pace è la nuova stella Made in CH

Vincenzo Vicari, com’era In occasione della grande retrospettiva di Vicari abbiamo incontrato il nipote Francesco

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Un ritratto di Ugo Leonzio realizzato da Ledwina Costantini.

Il viaggio interiore

Pubblicazioni Grazie a Il Saggiatore ritorna in libreria Il volo magico di Ugo Leonzio Daniele Bernardi Svanita dal panorama dominante della cultura italiana, la singolare figura di Ugo Leonzio (Milano, 1941-2019) non è nuova in Canton Ticino, dove il settore prosa della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana ha lungamente intessuto un rapporto di vivace collaborazione con l’autore-regista scomparso lo scorso anno. Infatti, nel tempo Leonzio ha consegnato agli ascoltatori di Rete Due numerosi e originalissimi radiodrammi che vedono fra i protagonisti scrittori che vanno da Shakespeare a Virginia Woolf, personaggi quali Alan Turing e Giulio Einaudi, opere monumentali come Il libro dei morti tibetano, di cui fu curatore per Einaudi nel 1996. Ecco che ora, grazie a un’iniziativa dell’editore Il Saggiatore, torna invece nelle librerie un testo che, assieme agli irreperibili romanzi La norma, Tre sogni, Il cielo e la terra, è parte significativa di un percorso sviluppatosi attraverso la pratica della letteratura, della scena (Leonzio frequentò l’Accademia

del Piccolo Teatro, allestì più spettacoli e fu drammaturgo-sceneggiatore vantando collaborazioni con Giorgio Strehler, Gianfranco Varetto e Claude Chabrol) e della meditazione intellettuale-spirituale. Parliamo di Il volo magico, storia generale delle droghe, indagine pionieristica sull’argomento data alle stampe da un brillante ventinovenne per i tipi di Sugar nel 1969. Successivamente ripubblicata presso Einaudi – editore col quale Leonzio lavorò personalmente – e poi fuori catalogo sino a oggi, quest’opera contiene «una sbalorditiva conoscenza della materia da quasi tutte le prospettive possibili» e, per quanto in alcuni passaggi possa forse risultare datata all’occhio dello specialista aggiornato, rappresenta un vero e proprio imprescindibile «viaggio» nelle pratiche che conducono ai notturni territori dell’interiorità. Uscito in anni in cui, in seguito al diffondersi della cultura dell’LSD per mezzo del dottor Timothy Leary, l’OMS stava per decretare l’assoluto

divieto di utilizzo dell’acido lisergico e di altre sostanze, al suo primo apparire Il volo magico si poneva l’intento di «togliere argomenti a chi (...) liquida la questione delle droghe con un’unica, piatta lettura». Centro dell’indagine, con le sostanze, sono perciò gli antichi riti che, dall’alba dell’uomo, accompagnano l’assunzione del «cibo degli dei» così come i successivi usi da parte di artisti-sperimentatori e di ricercatori scientifici. Suddivisa in sezioni dedicate, ciascuna, a una specifica sostanza (o a tipologie di sostanze) di cui è puntigliosamente descritta l’origine e la storia, con un’ampia porzione dedicata agli allucinogeni di vario genere (dal peyotl all’LSD-25, appunto) e costellata di brani di testi sacri, l’opera chiama ripetutamente in causa alcune straordinarie voci della letteratura a testimoniare di quanto avviene quando le blakeiane «porte della percezione» si spalancano. È così che il lettore, accompagnato da Leonzio in un percorso fra fumi di magiche misture, si imbatte nelle

descrizioni della canapa indiana di François Rabelais, in resoconti sull’hascisc di Théophile Gautier e Charles Baudelaire, nelle confessioni dei «mangiatori d’oppio» Thomas De Quincey e Jean Cocteau, nelle trascrizioni sotto mescalina di Henri Michaux, nei dolorosi racconti di Antonin Artaud e nelle lucide considerazioni del «supertossicomane» William S. Burroughs. Ma lungi dal voler essere una facile mitizzazione che canti le lodi della droga, Il volo magico apre le porte anche a quelli che si sono rivelati essere gli usi terapeutico-sperimentali di sostanze considerate fuori legge. Ad esempio, sezioni come LSD in psicoterapia trovano oggi conferma in quanto sostiene Agnese Codignola nella sua prefazione al volume: «Oggi le proprietà terapeutiche di LSD e psilocibina sono state dimostrate da diversi gruppi di ricercatori sperimentali e clinici in paesi quali gli Stati Uniti, l’Olanda, la Svizzera, la Gran Bretagna e l’Australia e in patologie quali lo stress post traumatico (...), le dipendenze da tabacco e alcol, la

cefalea a grappolo (detta da suicidio), la depressione intrattabile dei malati terminali e diversi altri tipi di depressione». La ripubblicazione di Il volo magico è quindi un prezioso evento da diversi punti di vista: da un lato rappresenta il ritorno editoriale di un autore pressoché dimenticato di cui ci si augura venga ulteriormente valorizzato il lascito, dall’altro suggerisce la presenza in ambito scientifico di una sorta di «Rinascimento psichedelico» le cui pratiche appaiono rivoluzionarie ai nostri occhi (sull’argomento, si consiglia tra l’altro la visione del bellissimo The Substance, documentario-intervista di Martin Witz del 2011 in cui lo svizzero Albert Hofmann – scopritore dell’LSD nel 1947 – all’età di cento anni racconta di sé e del proprio incredibile «viaggio»). Bibliografia

Ugo Leonzio, Il volo magico, Milano, Saggiatore, 2020.


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Cultura e Spettacoli

Un futuro di meraviglie

Musica Matt Berninger, frontman dei The National, ammalia fans e critici con un esordio

solista malinconico quanto autentico, ammantato di una vulnerabilità quasi dolorosa Benedicta Froelich Negli ultimi mesi, chiunque segua da vicino la scena musicale angloamericana ha avuto modo di notare come il recente lockdown pandemico abbia incoraggiato parecchi artisti a tentare nuovi esperimenti creativi, certo favoriti dalla reclusione forzata; e una delle sorprese più gradite di questo difficile periodo è senz’altro costituito dall’inaspettato esordio solista di Matt Berninger, frontman della formazione statunitense dei The National. Un esordio tanto più sorprendente in quanto il 49enne Berninger si potrebbe, in effetti, definire come molto lontano dalla stereotipata immagine da «rockstar» a cui il pubblico internazionale è abituato; e del resto, non è un caso che, prima di convertirsi anima e corpo alla musica, l’allampanato e occhialuto nativo di Cincinnati abbia lavorato come pubblicitario. Eppure, oggi, questo Serpentine Prison, prodotto nientemeno che da un «mostro sacro» dell’R&B quale Booker T, ci conferma come, al di là delle palesi tendenze da outsider, Berninger si possa definire uno dei migliori artisti della scena americana odierna. Non solo: l’album dimostra, nel miglior modo possibile, come l’impronta di Matt sia da sempre a dir poco cruciale nella cifra stilistica dei The National; basta infatti un primo ascolto al singolo di lancio dell’album (la struggente title track) per rendersi conto di come l’eterea, quasi ipnotica malinconia tipica della band di Cincinnati sia ormai parte integrante dell’immaginario personale del suo cantante. Soprattutto, l’amarezza congenita del songwriting di Berninger, popolato da suggestioni di respiro introspettivo e spesso nichilista, convive con rinfrancanti momenti di sofferta autoironia – come accade nel videoclip di One More Second, il quale

Matt Berninger durante un concerto nel 2019. (Keystone)

vede un serissimo Matt impegnato in un ballo improvvisato in totale solitudine, caratterizzato da mosse quantomeno improbabili; proprio come ci si immagina siano usi fare gli infelici personaggi di mezza età che popolano i brani dei The National. E quando il video giunge alla fine, mostrandoci il primo piano di un uomo accaldato quanto visibilmente angosciato, pare quasi di ritrovare, nel suo sguardo smarrito, tutta l’angoscia esistenziale espressa dall’intero repertorio della band. Ecco quindi che anche la timida reticenza di Matt – quell’aplomb da allampanato professore universitario, vagamente sociopatico, che l’artista ama ostentare – diviene una sorta di metafora, quasi la ricerca di un senso nell’eterna lotta impari contro la vita,

evidente nella palpabile ansia della voce narrante: «concedimi ancora un po’ di tempo, concedimi appena un avvertimento; Baby, starò bene / non appena capirò dove sto andando». Di fatto, l’intero album passa da una gemma all’altra: se una ballata lenta e avvolgente come Walking on a String, cantata in coppia con Phoebe Bridges, si inserisce a pieno diritto nel novero dei migliori brani intimisti del recente cantautorato USA, pezzi come Collar of Your Shirt – straziante riflessione sull’ostinazione a negare l’estraniamento di una persona amata, in cui le dolenti note del violino ammantano la confessione dell’io narrante di una disperazione evidente quanto trattenuta – dimostrano come la forza di Matt stia proprio nelle sfumature:

perché è l’assoluta mancanza di enfasi a costituire forse la caratteristica più apprezzabile di quest’album. Proprio come l’intera discografia dei The National ci ha abituati a una forma di songwriting scevra da qualsiasi autocompiacimento o facile scappatoia retorica, Matt mantiene la medesima integrità artistica anche in solitaria, bilanciando con rara maestria l’intensità dei sentimenti nei quali sceglie di volta in volta di immergersi – e restituendoli all’ascoltatore in una forma ulteriormente valorizzata e amplificata dall’interpretazione a tratti quasi dimessa, e da un sapiente quanto efficace sottotono emotivo. Così, un pezzo come il nichilista e struggente All For Nothing («ancora una volta, è stato tutto per niente») sembra uscire direttamente dal capolavoro Trouble Will Find Me, pubblicato dai The National nel 2013; proprio come avviene con lo struggente Take Me Out of Town e, soprattutto, con Loved So Little, forse il brano più amaro dell’intero disco – «perché è dura, essere amati così poco». Certo, rispetto al lavoro dei The National, quest’album mostra uno spirito per certi versi meno sperimentale (soprattutto se si pensa agli ultimi due dischi della formazione), e maggiormente intimista, improntato al cantautorato più melodico; eppure, la potenza di Serpentine Prison sta nel fatto di riuscire a coniugare sapientemente tali caratteristiche, senza tuttavia mai scadere nella facile «pesantezza» da molti associata alle tematiche predilette da Matt. Così, l’intima, inconfessabile vulnerabilità che trasuda da ogni brano del CD diviene l’elemento senz’altro più prezioso dell’intera equazione, facendo dell’esordio solista di Berninger un piccolo capolavoro – una gemma nascosta che, per nostra fortuna, sembra prefigurare altre meraviglie a venire.

Il suono felliniano

Colonne sonore Nessuno riuscì a creare una simbiosi tra immagini e musica

al pari di Nino Rota, con cui Federico Fellini lavorò per tutta la vita Carlo Piccardi L’immaginario nutrito dai film di Fellini, di cui quest’anno ricorrono i cent’anni dalla nascita, è un patrimonio universale popolato di fotogrammi risalenti ai canonici momenti delle sue indimenticabili realizzazioni. Immagini ovviamente, ma anche suoni. Anzi spesso è lì che l’immaginario felliniano rivela le sue vere radici, quelle che affondano nel mondo dei saltimbanchi, quelli di ogni tempo e quelli del suo tempo, dell’avanspettacolo, di una marginalità che, nel rifiuto delle regole sociali, diventa simbolo della ricerca dell’assoluto, di una verità non incarnabile nel mondo dell’ovvio. Ed è un’immagine soprattutto sonora nel modo in cui le note di fanfare clownesche si intrufolano con procedimento associativo a rovesciare la normalità nel suo contrario, senza che l’impianto immaginifico subisca modifica, a significare la presenza costante di un mondo alternativo. È quindi importante riconoscere l’apporto di colui che ha concretamente tradotto in suoni (nei suoni specifici dell’opera felliniana) tale immaginario, quel Nino Rota il quale dal 1952 si assunse l’incarico (fino alla morte di Rota avvenuta nel 1979) di contrappuntare di musica tutti i film di Fellini, fissando già nella fantasiosa ouverture de Lo sceicco bianco la

Federico Fellini in un’immagine scattata a Zurigo nel 1977. (Keystone)

cifra espressiva relativa al risvolto circense delle vicende che il regista faceva sfilare sullo schermo. In occasione della scomparsa dell’amico, il grande regista così ricordava il loro primo incontro: «Quando sono andato a casa sua la prima volta, mi ha presentato subito la mamma e poi il pianoforte, al quale si è seduto suonicchiando un motivo che già aveva preparato. Era il tema di Lo sceicco bianco. Questo prima ancora che io confusamente gli dicessi che desideravo avere la sua musica, se aveva tempo e voglia di farla. Quel motivo struggente che suo-

nava Nino andava già benissimo […] E da quella prima nota, da quella prima frase, la cosa è continuata con un flusso inarrestabile, al punto che mi sembra sempre che sia lo stesso film: non ho la sensazione di aver fatto tanti film» («Il messaggero», 13 aprile 1979). Il circo, al cui mondo Fellini dedicò un intero film (I clown) non solo forniva diretta ispirazione ma anche il materiale musicale. Sappiamo che Fellini sul set usava dirigere gli attori al ritmo di musichette, fra le quali la Marcia dei gladiatori di Fucik era diventata un luogo comune. Toccava poi a Rota elaborare una variante specifica di tale topos della musica circense. Sebbene vi fosse un caso (ne La dolce vita) in cui la celebre marcia di Fucik rimase tale e quale nella colonna sonora (perché così volle Rota stesso), il musicista felliniano mise a punto un suo stile inconfondibile culminato nella marcia di Otto e mezzo, che formalizza la sguaiatezza in tratti geometrici, ma che soprattutto introduce in una musica che sgambetta atleticamente una vena di nostalgia, quel rovescio di umanità complice con cui Fellini guarda al mondo del circo come a un mondo perduto. È la nostalgia che a livello più struggente troviamo nella melodia della tromba di Gelsomina in La strada, nell’improvviso ribaltamento del discorso in tonalità minore che si ac-

comuna ad altri procedimenti (l’impiego palese dell’abusato accordo di settima diminuita ad esempio) nello sfaccettare la linearità dell’ovvio. A chi conosce l’opera di Nino Rota sottratta alla tutela felliniana – quel Cappello di paglia di Firenze che andrebbe ascritto fra i capolavori del teatro musicale novecentesco – apparirà chiara la matrice della sua musica, che è quella rossiniana, di una scrittura d’azione, ridotta a nervi scoperti e a muscoli in tensione, a volte addirittura marionettistica (raccogliendo il filone della commedia dell’arte). Nell’universo felliniano tale ispirazione di Rota introduce nel fisico pulsare del presente una venatura di passato, l’azione del ricordo, quasi sempre nostalgico, sfacciatamente melodico, di italianità dichiarata, organica, delle radici, là dove tragedia e commedia si confondono. Lo testimoniò lo stesso Fellini: «In Amarcord, nella sequenza dello struscio, si introducono con funzione evocativa, vecchi motivi propri della canzone americana degli anni Trenta da Siboney a Stormy Weather, da La Cucaracha a Abat-jour. In questa sequenza Nino li ha sfumati, amalgamati, trasformati, innestati nei suoi motivi originali con un’operazione di straordinaria abilità professionale, che provoca nello spettatore un impatto di magico risucchio nel mondo dei ricordi».

Le due vite di Tiziano Ferro ora in un film Documentari

Tufarulo ci presenta un ritratto inedito Nicola Mazzi

Il documentario su Tiziano Ferro, targato Amazon Prime, inizia con una preghiera di un gruppo di persone che subito dopo scopriamo essere alcolisti anonimi. Tra di loro c’è anche il protagonista. Eccoci, quindi, senza tanto tergiversare davanti al primo problema del cantante: la dipendenza dall’alcol. E poi, lungo i 75 minuti seguenti, ne scopriamo anche altri, come il difficile rapporto con il proprio peso e quello con la celebrità. Tre nuclei centrali attorno ai quali ruota il bel film di Beppe Tufarulo, autore che arriva da MTV e dal settore dei video commerciali. Ferro è la storia di un uomo che si mette a nudo con grande coraggio. Tolti i vestiti del personaggio pubblico scopriamo i suoi sentimenti più profondi e i pensieri più reconditi. Lo facciamo ripercorrendo la sua vita ed entrando nella sua casa, nella sua intimità. Una sorta di Citizen Kane, con tutti i distinguo del caso quando si parla di un’opera immensa come quella di Orson Welles. Ma la struttura me lo ha ricordato. Il cartello del «no-trespassing», violato dalla macchina da presa per farci accedere nella camera da letto di un Kane morente è qui rappresentato dal silenzio iniziale di Tiziano Ferro. Al contrario dei suoi compagni di sventura, che dicono il proprio nome e ammettono

La locandina del documentario proposto da Amazon Prime.

il problema con l’alcol, lui non lo fa. In un primo momento sembra quindi non farti accedere al suo mondo, ma poi si apre e si racconta; dall’inizio alla fine e così si svela ai nostri occhi come un nuovo Kane. Non serve essere fan del cantante di Latina per apprezzare questa storia: è necessaria solo l’umana curiosità che ti fa oltrepassare quel primo silenzio e scoprire i suoi vizi e le sue virtù. Il racconto è affidato soprattutto alla sua voce off che descrive gli stati d’animo di un particolare momento, intervallato da interviste al suo manager e ai componenti della famiglia. Il film è girato bene e coinvolge lo spettatore per la sua autenticità e – oltre che per i temi trattati – anche grazie ai filmini girati in casa che si fondono in modo naturale con la regia di Tufarulo. Proprio la casa è un altro elemento importante della narrazione. È infatti la tipica abitazione americana (Ferro vive a Los Angeles) che non si differenzia dalle altre del quartiere ed è testimonianza di una vita normale, comune, dove nessuno lo conosce. Una vita che gli permette di andare tra le file del supermercato a far la spesa passando inosservato. La casa normale su due piani che si contrappone, anche simbolicamente, alle finestrone di Milano su Piazza Duomo e a quella sulla Stazione Centrale dove lo vediamo guardare la città dall’alto. Due vite: quella da persona normale e quella da star. Proprio come Charles Foster Kane: proprietario della slitta Rosebud e ricco magnate.


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Foto: Christian Schnur

Già al termine della scuola media Ulrike Pfreundt sapeva che avrebbe studiato biologia. «Natura e ambiente mi interessavano molto e volevo sapere tutto sul funzionamento della vita», ci racconta la biologa marina, che fino alla scorsa estate era attiva come ricercatrice presso il Politecnico di Zurigo. Quando nel 2006 iniziò a fare immersioni, i suoi studi si concentrarono sugli oceani. Nella facoltà da lei scelta il rapporto tra i sessi era relativamente equilibrato. «Ma era un’eccezione. E proprio per questo all’università si sentiva spesso dire: andiamo alle feste dei biologi, lì almeno ci sono anche donne»! Non ritiene di essere stata svantaggiata a causa del suo sesso, anche se i metodi di lavoro e le strutture delle scienze naturali risultavano fortemente improntate al «maschile». «Sarebbe stato bello poter contare su più cooperazione e comunicazione, anziché dover sgomitare». Ma il suo lavoro l’appassiona. «Si può contribuire ad acquisire nuove conoscenze che un giorno potrebbero risultare utili per aiutare il pianeta. Si mettono in pratica le proprie idee, si lavora in modo molto indipendente e spesso ci si occupa di cose che mai nessuno ha fatto prima». Quest’anno Pfreundt ha deciso di lasciare l’ETH e di fondare una propria organizzazione, RRReefs. «Voglio contribuire ad aiutare gli oceani in modo più diretto». Dal 1995 negli oceani è morto oltre il 50 percento dei coralli. RRReefs utilizza uno speciale processo di stampa in 3D per ricostruire le strutture della barriera corallina e riportarla così in vita. L’obiettivo consiste nel ricostruire intere coste in pochi anni. «L’unico modo per fare davvero qualcosa a favore degli oceani è ricostruire centinaia di chilometri di barriera corallina». Informazioni e crowdfunding su rrreefs.com


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Cultura e Spettacoli

ZONA 30, teatro di qualità a velocità ridotta

In scena Al Teatro Sociale di Bellinzona un’iniziativa encomiabile pensata per permettere

alla cultura di andare avanti

Giorgio Thoeni Con il ricordo di Friedrich Dürrenmatt, a trent’anni dalla morte e a cento dalla nascita, si è conclusa a Bellinzona la fulminea rassegna ZONA 30, titolo che allude alle limitazioni parafrasando il temuto limite di velocità, una serie di spettacoli che il Teatro

Sociale ha prodotto per non lasciare a bocca asciutta il suo pubblico forzatamente ridotto. Una messa in campo dal sapore rossocrociato che, grazie a una costante affluenza ai doppi appuntamenti giornalieri, ha fatto capire – se ancora fosse necessario – quanto è indispensabile l’investimento nella cultura anche in momenti difficili come

quelli che stiamo attraversando. Un messaggio accolto con entusiasmo dagli artisti che hanno accettato di condividere progetti musicali e teatrali con una platea ridotta. Dopo l’exploit iniziale di Cristina Zamboni, le attrici Margherita Saltamacchia e Anahì Traversi hanno proposto due testi dello scrittore svizzero da loro elaborati e messi in scena: il radiodramma Colloquio notturno con un uomo disprezzato e il racconto breve Il Minotauro. In entrambi i casi va loro riconosciuto, oltre a due brillanti performance, di essere spesso riuscite a farci dimenticare la presenza dei leggii animando la scena con spostamenti, tagli di luce, pochi ma essenziali elementi scenografici che hanno dato slancio e sorpresa ai due appuntamenti, ottimi esempi percorribili per delle letture sceniche. Se nel primo emergeva principalmente la maestria della voce, nel secondo l’interpretazione era accompagnata dalle atmosfere create da Ali Salvioni. Applausi convinti e meritati. Esercizi di stile per un’icona kitsch e trasgressiva

Anahì Traversi e Margherita Saltamacchia in un omaggio a Dürrenmatt.

La rassegna ZONA 30 ha avuto anche il merito di proporre Klaus Nomi Projekt, una creazione di Pierre Lepori. Lo spettacolo, più volte rinviato a causa della

pandemia, finalmente ha potuto premiare lo scrittore, poeta e giornalista ticinese anche di fronte al suo pubblico. Ormai romando d’elezione a tutti gli effetti, Lepori è riuscito a sublimare il suo entusiastico amore per il teatro e la musica attraverso l’omaggio a un personaggio eclettico e ricco di significati. Con la sua straordinaria personalità marziana, seppur nella breve vita (è morto di AIDS a 39 anni) il bavarese Klaus Sperber ha incarnato molteplici aspetti della sua trasgressiva dimensione artistica dalla vocazione culturale senza pregiudizi e con una dedizione musicale che lo ha traghettato dalla Lirica più classica (celebre la sua versione controtenorile di The Cold Song di Henri Purcell) al Pop di David Bowie o al Synth-Pop dei Kraftwerk. Una ghiotta occasione per raccontarne tutti i risvolti attraverso un testo dall’esuberanza kitsch, frammista a fascinazione gaddiana e velate eco testoriane per eccentrici giochi semantici in cui il linguaggio di Lepori diventa un elaborato esercizio di stile dove il suono delle parole rincorre l’azione teatrale. Una prova impegnativa per le colorate venature espressive di Cédric Leproust accompagnato dalla fisarmonica e dagli effetti di Marc Berman salutati dal pubblico con calorosi applausi.

Un calendario dell’Avvento in musica Concerti Un regalo

speciale: ottima musica fino a Natale

Anche OSI, Barocchisti e Coro RSI, come la maggior parte dei protagonisti culturali del cantone, della nazione, e in fondo, di gran parte del mondo, si trovano penalizzati duramente a causa delle restrizioni resesi necessarie dall’emergenza sanitaria. È per questo e al fine di mantenere vivo l’indispensabile dialogo con il pubblico, che l’Orchestra della Svizzera italiana, I Barocchisti e il Coro RSI, insieme alla RSI, hanno collaborato per dare vita al Calendario dell’Avvento «Tanti mondi, un Natale». 24 video musicali (protagonisti sono diversi ensembles) prodotti dalla RSI e proposti quotidianamente, per un’iniziativa di grande valore cominciata il primo dicembre, e che si concluderà, come ogni calendario dell’Avvento che si rispetti, la Vigilia di Natale. Le ideali caselline si potranno «aprire» cliccando su www.osi.swiss e rsi.ch/ musica, oppure ascoltando Rete Due tutti i giorni alle ore 07.15 in Verde Aurora (replica lu-ve alle 16.35). Le finestre sono inoltre fruibili su youtube RSI, mentre il prossimo 20 dicembre, grazie alla trasmissione televisiva Paganini (LA 1, domenica, 10.30) si potrà ulteriormente apprezzare una selezione di questa speciale produzione natalizia. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Festa consentita

Durante il periodo natalizio potremo festeggiare. Tuttavia, alcuni cibi a volte risultano essere un po’ pesanti. Questi prodotti aiutano la digestione e la funzione intestinale. In questo modo potremo dedicarci facilmente anche nel nuovo anno a una dieta equilibrata e a uno stile di vita sano con sufficiente esercizio fisico

Il lassativo è efficace e ben tollerato. Risolve la stitichezza in modo delicato. Lassativo stick Sanactiv 10 bustine monodose Fr. 6.20

Le capsule Probifidus contentono batteri acidolattici per l’intestino. Dosaggio consigliato: 1-2 capsule al giorno. Probifidus Sanactiv 20 capsule Fr. 9.95

L’amaro di carciofi Salus è un estratto liquido, derivato dalle foglie di carciofo e da diverse erbe amare. Assunto dopo i pasti, le sostanze amare aiutano la digestione. Amaro di carciofi Salus 250 ml Fr. 17.90

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Cultura e Spettacoli

La passione secondo Dimitri Incontri A colloquio con l’attore svizzero Dimitri Stapfer, nuova stella del cinema svizzero

e fra i protagonisti della serie televisiva Il prezzo della pace

molto importante, infatti impersono un allenatore di nuoto.

Simona Sala Classe 1988, è già stato Romeo, un punk arrabbiato, il cacciatore di nazisti Egon Leutenegger, un ragazzo disabile, un giovane allenatore di nuoto omosessuale. Dimitri Stapfer è la nuova stella nel firmamento attoriale elvetico, dove proprio in tempi recenti ha brillato nel piccolo gioiello della televisione svizzera Il prezzo della pace.

Ci parli allora di Beyto (regia di Gitta Gsell), il suo nuovo film, presentato allo Zurich Film Festival, in cui si tematizza la relazione tra un giovane allenatore di nuoto e il figlio di immigrati turchi Beyto.

Beyto mi sta molto a cuore perché ci sono ancora troppi stereotipi verso gli omosessuali, anche se nel film per me al centro vi è soprattutto l’amore tra due esseri umani. In questa storia ci si innamora, ma l’unione è osteggiata dall’ambiente circostante, un po’ come accade in Romeo e Giulietta. Credo sia un film importante per il suo statement politico e sociale, poi, ovviamente c’è anche un gioco con i luoghi comuni e con i cliché, poiché non tutti i turchi sono così, come d’altra parte non tutti gli svizzeri sono aperti come appaiono nel film. L’aspetto più importante è che i protagonisti sono costretti a confrontarsi con la propria idea di verità, e ciò li porta a contemplare anche l’idea del compromesso. Spero che anche gli spettatori riescano a vedere determinati parallelismi tra la propria storia e quella del film, e siano dunque portati a riflettere. Anche se da noi le vedute sono aperte, non dobbiamo mai abbassare la guardia. Basti pensare a un paese come la Polonia, dove un discorso di questo tipo sarebbe del tutto impensabile.

Ne Il prezzo della pace ha un ruolo duro, sofferto, poi guardando alla sua biografia si scopre un carattere che la porta, apparentemente, a non temere nulla. Dove finisce l’attore e dove inizia il Dimitri privato?

Cerco di mettere sempre il massimo dell’impegno in tutto ciò che faccio. Prima di affrontare un ruolo, dunque, mi informo sulla regia e sul personaggio. Se da una parte ho una certa rappresentazione di base del ruolo che devo interpretare, dall’altra ci deve essere un’apertura che contempli visioni nuove e inattese. Come si è preparato per il ruolo di Egon ne Il prezzo della pace?

Com’è la situazione della parità dei diritti LGBT all’interno del mondo della recitazione?

© Garrick J. Lauterbach

In questo caso c’era una back story molto importante, che mi portavo sempre appresso. Mi riferisco ai trascorsi di Egon al confine ticinese, che sono ciò che lo turba. Per il ruolo di Egon ho lavorato tanto con il cuore, perché trovo che egli abbia grandi sentimenti: da una parte cerca di difendersi, dall’altra cova una sorta violenza derivante dal periodo al confine. Io però non ho vissuto in prima persona quel periodo, per cui ho dovuto lavorare su più livelli: mi sono così guardato i documenti dell’epoca, gli atti del pubblico ministero, le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, entrando in contatto anche con il linguaggio. Mi sono poi documentato in famiglia, un mio bisnonno che amava leggermi le fiabe quando ero piccolo, ad esempio, aveva prestato 1000 giorni di servizio, e un altro nonno stanziato a Basilea mi ha saputo raccontare molte cose riguardo al periodo storico. A quel punto finzione e realtà cominciano a mescolarsi, e come attore io ho bisogno di questa apertura, voglio che il testo mi passi attraverso, rivelandomi delle visioni. Anche i costumi sono stati un fattore importante: i mantelli pesanti degli uomini, le scarpe delle donne sono indumenti che conferiscono un determinato passo, e di conseguenza una certa fisicità.

Il prezzo della pace è stato un progetto importante per lei?

È stata un’operazione importante, attraverso la quale si è cercato di raggiungere tutte e quattro le aree politiche, geografiche e linguistiche della Svizzera, perché in fondo questa storia appartiene a tutti, al nostro Paese. Il regista Michael Schaerer ha fatto un lavoro straordinario e la storia, grazie alla bravura di Petra Volpe, era quella giusta.

Finite le riprese è riuscito ad abbandonare con facilità il ruolo di Egon?

Quando mi porto appresso qualcosa, lo faccio in modo consapevole, ma sono anche convinto che ruoli come questo continuino a lavorare a livello inconscio, senza che io me ne renda conto. Cerco di non farmi mai distruggere da un ruolo, anche perché per me la recitazione è un lavoro bellissimo che mi appaga. Come attore in fondo si lavora sempre a qualcosa, si deve rimanere aperti e capire ciò che succede nella società circostante. Dopo una pausa di due settimane, ho cominciato le riprese di Beyto, per il quale la preparazione fisica è stata

Vi è una certa stigmatizzazione, nel senso che molti miei colleghi omosessuali possono dirsi contenti se hanno modo di recitare una parte che non sia quella dell’omosessuale. Io ho recitato in moltissimi ruoli, sia nei panni dell’eterosessuale sia in quelli dell’omosessuale, nessuno mi ha mai fatto domande sulla mia sessualità. Per gli omosessuali non è esattamente così. Le cose per fortuna stanno cambiando, e una maggiore consapevolezza riguardo ai possibili orientamenti sessuali ci permette di comprenderne tutte le sfaccettature. Dobbiamo fare attenzione però, sono infatti convinto che dando troppe etichette ai vari orientamenti si creano dei confini, e attraverso i confini c’è sempre un’esclusione. Aspetto dunque il momento in cui si potrà essere semplicemente un essere umano.

Qual è la sua relazione con il cinema svizzero? Negli ultimi anni sembrano succedere cose davvero

molto interessanti, pensiamo a Non tutte le sciagure vengono dal cielo, L’ordine divino o Vite rubate…

Ci sono molti registi, volti e attori nuovi che portano nuove visioni, e questo mi rende felicissimo. Sono convinto che le cose miglioreranno ancora di più, e che anche i registi più rodati sapranno prendere spunto da questi slanci.

Quali sono i punti di riferimento? Lei si muove in fondo tra due mondi per alcuni versi vicini ma per altri a sé stanti come quello del cinema e quello del teatro…

Io sono cresciuto all’interno del teatro, dapprima al Circo Chnopf, poi facendo parte del Giovane Teatro di Soletta. A 16 anni ho recitato per la prima volta al Theater Neumarkt di Zurigo, perché per me è sempre stato chiaro che avrei fatto carriera teatrale. Nel 2013 ho poi fatto Left Foot Right Foot (regia Germinal Roaux, ndr) con cui l’anno dopo ho vinto il Schweizer Filmpreis per il miglior interprete non protagonista. È così che ho messo piede nel cinema. E lei cosa preferisce? Cinema o teatro?

Le mie esperienze nel teatro rappresentano un tesoro inestimabile. Nel teatro per preparare una parte spesso hai solo otto settimane di tempo, e devono bastare per le prove, per la caratterizzazione del personaggio, per uno scambio con la regia e i colleghi, ma anche per sbagliare, fare errori e scoprire la direzione in cui si sta andando e ciò che si vuole fare. Ogni rappresentazione è l’occasione per instaurare una relazione con il pubblico. Se si è fortunati, si crea un momento magico in cui la fantasia dell’attore combacia perfettamente con quella dello spettatore, e insieme si può aprire un nuovo cosmo. Nel cinema è molto diverso perché sei solo con la telecamera, e se non funziona è game over. La cosa interessante del cinema è il fatto che la vicinanza della telecamera permetta di giocare con le espressioni, dando grande profondità ai ruoli. Teatro e cinema sono in qualche modo in simbiosi per me: il teatro mi aiuta nel cinema, e viceversa.

Prossimi progetti?

Al momento sto lavorando a Romeo e Giulietta che andrà in scena, Covid permettendo, allo Stadttheater di Soletta il 22 gennaio, poi al Theater Casino di Winterthur vi sarà Grab them by the Penis, pièce ispirata all’espressione Grab them by the Pussy di Trump, qui rivisitata da Yvonne Eisenring. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Idee e acquisti per la settimana

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Durante l’Avvento avremo di tanto in tanto qualche visita di parenti e amici. Ovviamente ci teniamo a che l’appartamento sia sempre igienicamente pulito – soprattutto nei locali più sensibili come il bagno. Cosa posso usare per mantenere tutto pulito, senza dover passare troppo tempo a pulire dopo ogni visita? Saluti Anton

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 7 dicembre 2020 • N. 50

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Cultura e Spettacoli Vincenzo Vicari, Operaie imballano sigarette presso la fabbrica Orienta di Lugano, 1937. (Archivio storico della città di Lugano)

Fantastiche lande sospese

Fotografia/2 La finlandese Piritta

Martikainen a Casa Pessina di Ligornetto Gian Franco Ragno

Omaggio a Vicari

Fotografia/1 A colloquio con Francesco Vicari, nipote di Vincenzo,

il pionieristico fotografo che immortalò il Canton Ticino

Giovanni Medolago È in corso un doveroso omaggio a Vincenzo Vicari, il fotografo per eccellenza della Svizzera italiana. Sotto il titolo Il Ticino che cambia si propongono diverse mostre che cercano di riassumere l’attività di Vicari, protrattasi dal 1930 al 1987. Oltre mezzo secolo, con un patrimonio di oltre 300mila scatti (!) che Damiano Robbiani – collaboratore dell’Archivio storico della città di Lugano – ha cercato appunto di riassumere in una serie di esposizioni sparse per il Ticino. Osservatore attivissimo del suo tempo, attraverso migliaia di immagini Vicari ci ha lasciato una testimonianza unica su avvenimenti all’epoca d’attualità, spaziando volentieri tra quelle che sono state le sue principali passioni, accanto ovviamente alla fotografia: il calcio, la pesca e il volo, del quale approfittò per innumerevoli riprese dall’alto che oggi possiamo tranquillamente definire pionieristiche. Abbiamo voluto parlare del fotografo con suo nipote Francesco Vicari, già altissimo ufficiale del nostro esercito (raggiunse il prestigioso grado di Divisionario), il quale ebbe modo di seguire da vicino il lavoro di Zio Vincenzo. «Il suo affetto per me nacque probabilmente da un evento tragico: la scomparsa di suo fratello Francesco – per questo mi fu imposto lo stesso nome –, vittima giovanissima di un incidente motociclistico». Le prime volte che Francesco seguì lo Zio Vincenzo fu al Campo Marzio, dove giocava allora il Football Club Lugano, a due passi da Casa Vicari in Viale Cattaneo: «Aveva così premura per me che mi sistemava dietro una porta. Sctà chì, di volt da mia ciapà na quei balunada, si raccomandava mentre lui scendeva a bordo campo per cogliere il più vicino possibile la partita. Prima di arrivare alla cassa, mi metteva in mano qualche apparecchiatura, così passavo anch’io come addetto stampa! Avevo dieci anni quando il Lugano vinse il campionato e potete immaginare il mio entusiasmo. Ma dopo la partita c’era sempre un gran lavoro da svolgere. Ricordo che – per fare il più in fretta possibile – dovevo passare il phön sui tanti negativi appesi con le mollette, i provini dai quali poi Zio Vincenzo sceglieva i migliori per essere sviluppati». Ma perché tanta fretta?

Diciamo che la velocità era nel suo DNA. Sulla sua auto raggiunsi per la prima volta i 100 km orari, sulla Cantonale perché allora non c’era l’autostrada e per fortuna non c’erano ancora nemmeno i radar! Mario Agliati ricor-

da (ne I primi 85 anni, n.d.r.) che sulla macchina guidata da Vincenzo per raggiungere un convegno di giornalisti a Varese si andava così forte che Aldo Patocchi gli intimò più volte Va pian Vicari, che gh’u a cà trii fiöö! Per tornare alla sua domanda, va aggiunto che Zio Vincenzo collaborava con «Tipp», rivista sportiva stampata a Zurigo. Per fare in modo che le foto giungessero in tempo utile per «uscire» già il lunedì, correvamo alla stazione e affidavamo le foto al macchinista dell’ultimo treno in partenza verso Zurigo, dove all’Hauptbahnhof lo attendeva un fattorino del «Tipp», il quale a sua volta galoppava poi verso la redazione. Fu felice quando un suo scatto di Sergio Bernasconi detto Cirèla – uno degli artefici della vittoria in campionato – che salta il portiere avversario in uscita, elegantemente e col dovuto fair play, finì in prima pagina. Un attimo movimentatissimo epperò fermato da un click!

Feci da cavia per testare un nuovo apparecchio che Zio Vincenzo aveva appena acquistato e che prometteva appunto immagini nitidissime anche riprendendo il movimento. Mi fece saltare una ventina di volte da uno sgabello per capire come utilizzare la sua nuova macchina fotografica. Per fortuna non mi feci male! Sembra che Vicari avesse sempre una fretta tremenda…

Davvero, però ciò non impediva a Zio Vincenzo di svolgere sempre al meglio il suo lavoro. Quando veniva chiamato a documentare un matrimonio, lui assisteva alla cerimonia. Poi, quando gli invitati si godevano il ricevimento, correva in laboratorio e prima ancora che finissero i bagordi, gli sposini avevano già tra le mani un album bell’e fatto!

Vincenzo fu un pioniere anche per quel che riguarda i cosiddetti filmini, le prime immagini in movimento a disposizione del pubblico…

Non credo che ne fosse entusiasta, ma colse le potenzialità commerciali del nuovi 16 mm. Ne acquistò un tot in diversi negozi dei suoi colleghi ticinesi, pagandoli poco perché nessuno li voleva. Realizzò delle riprese a Lugano e, la sera, seguitò a proiettare il filmino fuori dal suo negozio fino a quando la polizia lo invitò ad arretrare lo schermo, poiché la ressa di spettatori divenne tale da rischiare di intralciare la circolazione!

Accanto al talento, dunque, Vincenzo Vicari aveva anche un certo fiuto riguardo gli affari...

Certo, del suo lavoro doveva pur vivere e mantenere la famiglia. Per

lui, tuttavia, accanto al rispetto per il committente, restava sacro il principio di realizzare una bella foto. Non credo si ponesse il quesito foto artistica: a lui bastava solo la domanda l’è bèla o no? E scartava senza remissione quelle che non rispondevano a tale requisito.

Abbiamo ricordato la sua grande passione per il volo…

Ebbe la fortuna di volare con molti assi dell’aviazione nostrana. Accompagnò tra gli altri Monzeglio e Bucci sui loro Piper. Ricordava l’ebbrezza dell’aria, perché per realizzare foto e filmati doveva gioco forza sporgersi dal finestrino. Rischiò più volte la vita: doveva essere sul volo della Squadriglia ticinese del Comandante Bacilieri quando un ordine gli impose di aspettare la squadriglia al rientro a Dübendorf, dove doveva atterrare e dove purtroppo non giunse mai perché si schiantò sul Muotatal. Fu una tragedia ancora nel cuore dei ticinesi più anziani.

Tornato a terra, dedicò un lavoro particolare al quartiere del Sassello.

Come si evince facilmente dal nome, Piritta Martikainen (1978) è un’artista di origine nordica, più precisamente finlandese, residente da molti anni in Ticino, dove ha già largamente esposto i suoi lavori, con qualche incursione in prestigiose occasioni all’estero. Tra le mostre più significative ricordiamo la personale tenutasi nel 2003 all’Ala Est del Museo Cantonale d’Arte di Lugano – allora lo spazio dedicato ai giovani artisti, e più in generale alle più interessanti nuove proposte locali, accanto alle vicine esposizioni di carattere internazionale dell’istituzione regionale oggi entrata a far parte della nuova realtà del Museo d’Arte della Svizzera italiana (MASI). Onnipresente nel suo paese d’origine, l’acqua è l’elemento più raffigurato ed evocato dall’artista, e lo è sempre più marcatamente negli ultimi lavori. È dunque riconducibile a ciò l’intitolazione del più recente progetto, esposto a Ligornetto per la prima volta, Vedelle («all’acqua» in italiano), accompagnato da uno scritto di Elio Schenini, che già aveva seguito l’esposizione del 2003, e curato da Barbara Paltenghi Malacrida. L’acqua funge da materia che si presta, con le sue trasparenze e i suoi riflessi, a produrre simmetrie rovesciate che confondono la percezione, e ciò aiuta l’autrice a scardinare le gabbie spazio-temporali della realtà: un bosco diventa uno sfondo – una sorta di tappeto – dove sembrano poggiarsi una corona di ninfee, un gioco di riflessi còlto attraverso un vetro offre l’impressione di un quadro neoimpressionista costituito da macchie di luce. Al tempo stesso, l’acqua è capace di prendere forme e stati mutevoli – diventa ghiaccio oppure si modella sulle pietre in configurazioni con energia perentoria.

Altra caratteristica fondamentale del lavoro dell’artista, in continuità con le prove precedenti, sono gli attenti cromatismi: colori tenui, delicati quasi trasparenti, tendenti alla monocromia. La presenza di ampi spazi vuoti conferisce inoltre alle fotografie una consistenza leggera, fluttuante nello spazio. In breve, si tratta non di riprese naturalistiche bensì di un insieme di frammenti, di ricordi non ancora archiviati, impressioni visive che – volutamente o meno – riemergono, apparentemente staccate tra di loro, ma legate da un filo narrativo sottile, oltre che dall’elemento comune dato dall’acqua: le poche figure umane presenti, infatti, ne sono immerse e non risultano riconoscibili, avvolte sotto le crespature della superficie che ne confondono i tratti somatici. Sia per quanto riguarda le immagini fisse sia per quelle in movimento, nei quattro video in mostra, è comunque la natura lo scenario privilegiato della narrazione dell’autrice. Qui vige la possibilità di un partecipe e silenzioso dibattito interiore, qui si può svolgere – sembra questo il suggerimento dei passaggi in dissolvenza in un video tra terra e un giovane bosco di betulle – la messa in scena di un racconto fantastico tratto dell’infanzia oppure una più matura ricomposizione di pensieri e sensazioni. Concludendo, grazie a un programma ben calibrato, e soprattutto grazie alla continuità delle attente proposte monografiche – anche con quest’ultima esposizione di Piritta Martikainen – possiamo confermare che Casa Pessina di Ligornetto sia una delle vetrine principali della fotografia ticinese contemporanea. Dove e quando

Piritta Martikainen – Vedelle, Casa Pessina, Ligornetto. Orari: sa e do 14.00-16.00. Fino al 13 dicembre 2020.

Credo che fosse affezionato a quelle stradine e a quei viottoli. Non fu certo entusiasta della decisione di abbattere quello che era il quartiere più popolare della sua città.

Dobbiamo ancora parlare della pesca, altra passione di Zio Vincenzo.

Ho due aneddoti da raccontare, sebbene distanti dalla fotografia. Il primo risale a un’uscita al lago Tremorgio che Zio Vincenzo intraprese quando ancora non c’era la comoda funivia con mio papà Guido, che per la verità non amava molto ami e lenze. Vincenzo invece aveva già messo nel cestello alcune trote, quando disse al mio papà vöri nà là in funt al lag, sctà chiì e specium. L’attesa si protrasse tuttavia così a lungo che mio padre, colto dai morsi della fame, mise su un’improvvisata griglia le trotelle e al suo ritorno Vincenzo dovette accontentarsi del loro aroma fuligginoso! Il secondo risale a quando Zio Vincenzo acquistò un marchingegno elettrico che, una volta immerso nell’acqua, attirava i pesci per una pesca davvero miracolosa. Purtroppo ebbe l’idea di portare con sé in quell’uscita in barca un alto funzionario di polizia. Risultato? In poche settimane quel marchingegno divenne vietato! Dove e quando

Vincenzo Vicari Fotografo. Il Ticino che cambia. Lugano, MASI, Palazzo Reali. Orari: ma-me-ve 10.00-17.00; gio 10.00-20.00; sa-do e festivi 10.0018.00; lu chiuso. Fino al 10 gennaio 2021. masilugano.ch.

Le immagini oniriche e quasi eteree in mostra a Ligornetto richiamano i paesaggi del Nord. (Piritta Martikainen)


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