Azione 52 del 21 dicembre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 21 dicembre 2020

Azione 52

Società e Territorio Giocare bene con i propri figli è importante per la loro felicità futura, Il caffè delle mamme si affida al metodo danese

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Ambiente e Benessere Il professor Mauro Manconi, caposervizio di Neurologia al Neurocentro della Svizzera italiana fa il punto della situazione sui progressi della Medicina del sonno

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Politica e Economia Dopo sedici anni, l’autunno prossimo finirà, salvo sorprese, il cancellierato di Angela Merkel

Peter Paul Rubens, Madonna con Bambino. Fino al 9 gennaio 2021 esposto nell’atrio del m.a.x museo, Chiasso. (Collezione Privata ticinese).

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Cultura e Spettacoli Neri Pozza ripropone il capolavoro-manifesto di Erich Maria Remarque

L’editore e la redazione di Azione augurano

Buon Natale

alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino pagina 39


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Speciale Natale

C’era una volta un pianoforte...

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Notte di Natale Lubecca: nella notte più magica dell’anno si compie un incantesimo musicale

Vinicio Capossela I pianoforti sapete sono creature domestiche. Hanno bisogno di un tetto. Non si possono sporgere dal balcone, pertanto hanno partecipato poco anche alle suonate dalle pertinenze urbane dei mesi scorsi. Però a camminare nelle strade vuote, così imbavagliati e mascherati, uscendo per un breve giro dalle proprie cucce, gli umani hanno talvolta uditi i loro suoni provenire misteriosamente da luoghi invisibili. Per la maggior parte però i pianoforti restano silenti come una specie in estinzione. Durante il periodo della segregazione domestica, i veri abitanti della città sono stati i senza tetto. In un mondo mascherato sembravano gli unici esseri umani rimasti. Di solito chi è solo se ne accorge a Natale, ma in questo anno il Natale ha fatto scoprire la solitudine anche alle case ben illuminate. Nella sera della vigilia, nel piazzale deserto davanti alla grande stazione monumentale dalla quale non partivano treni, attorno a un bidone, era un piccolo gruppo per il quale il bidone era il focolare domestico. Avevano trovato a terra una scatola di cerini di Santo Nicola, fiammiferi che una volta accesi hanno la facoltà di donare la facondia, che è la fecondità delle parole. Allora ognuno si mise a raccontare una storia. C’era Bottiglis, il peruviano che da anni stava sempre allo stesso angolo tra Scarlatti e Settembrini e nessuno aveva mai capito di cosa si occupasse in quell’angolo già dalle nove di mattina, con la sua sigaretta e la bottiglia di birra, sempre al fianco, e poi c’era il Messia, che girava a volte scalzo e a volte con le scarpe, e non si capiva dove le tenesse perché non aveva con sé alcun bagaglio mai. Non era mai appesantito da alcun ingombro, come invece era lo Slavo, dalla statura alta e dal naso pronunciato, sempre oberato di scatoloni e di grandi borse a trolley. «Molti bagagli molto onore» era il suo motto. E poi c’era il Salvatore che dell’incrocio aveva fatto la sua croce, e derideva i cittadini imbavagliati.

Non c’erano più passanti per la sua elemosina, ma ugualmente era restato al solito posto. Rideva. «Tutti a cuccia! Vi hanno messo la museruola, e ora, tutti a cuccia dovete stare!». Rideva con la sua solita causticità verso il sistema, la Polizia e lo Stato. Intorno passavano soltanto i ragazzi delle consegne della Globo in bicicletta. Erano in gran parte stranieri e assicuravano i pasti caldi serviti a casa ai residenti. E poi c’erano i tram. Correvano come sempre da un capo all’altro dell’oscurità. Correvano nel buio. La strada era libera per la loro corsa verso lo strike. Erano carrozze costruite nel 1928, ben accessoriate: la lampadina, i sedili di legno lucido, le vetrate incorniciate dalla zigrinatura per i finestrini. Restavano i tram a ricordare il vivere cittadino, una certa aristocrazia del passato. Il loro clacson come un campanello di albergo notturno, il fanale a monocolo sul muso. I tram così in sintonia con i pianoforti, con gli ombrelli e con i gemelli. Oggetti che hanno richiesto un certo ingegno per essere creati, perché non importa che siano solo pratici, devono essere anche belli. Devono ricordarci una certa civiltà del consorzio umano, una gentilezza non soltanto formale, ma di sostanza. Come richiamato dal tram, si avvicinò al bidone un signore intabarrato con un pianoforte sul carretto, un pianetto ambulante, di quelli fatti per portare le musiche nelle strade quando ancora non c’era la riproduzione sonora. La musica colta per strada giunge sempre inattesa. Una canzone può aprire voragini nel cuore, può riaprire le trincee di guerra o la nostalgia di un paese lontano o di un volto amato. La musica trovata per caso ha questa possibilità spesso preclusa nel grande inquinamento acustico. Il morbo che aveva colpito la città aveva la caratteristica di privare del gusto e dell’olfatto, ma aveva raddoppiato la sensibilità uditiva, pertanto si era tutti molto più sensibili alle note. Il signore iniziò a raccontare la storia di quel pianetto portativo, di come

era stato trovato in un magazzino di pianoforti abbandonati, dopo la guerra …«perché sapete, quando perdono casa i pianoforti, come noi, diventano orfani, e se ci si scorda di loro anche loro si scordano di noi». E così, con un accento un poco germanico il pianista ambulante iniziò il suo racconto. «Ah! Avreste potuto trovare anche lui in Lubecca. Lì c’è grande magazine di Cermania... lì costare poco... tutti vecchi e ammassati... pianoforte... stare... Vicino a un bosco, ad un canale. Lì dentro venivano stipati i vecchi pianoforti di tutta la Germania. Era freddo, come una tomba, e illuminato con lampade spettrali... i pianoforti giacevano esausti, nelle casse impolverate. Erano di marche innumerevoli, e di vari domicili... di Lipsia, di Dresda, di Berlino... Tutti orfani di case... ma tutti con un nome... Zimmermann... Kaps... Duysen... Bechstein. Pianoforti da birrai, da fumo di carbone... abbandonati. Piani a baionetta... piani con spinetta... piani di corvetta... marcette stinte di pianisti estinti... piani a rulli... e rotopiani... i formidabili prussiani. Ma... silenzio sui martelli... sull’avorio in scalinate, sui rulli a manovella, sui feltri impaludati... Silenzio sulle dentiere d’ebano... impilati... sui capodogli arenati... giacevano là come casse armoniche disinnescate... Però in una notte, in una umida notte di Natale, che come per rinvenire, per festeggiare ancora con un ultimo galà, un pianoforte Duysen, vecchio, sottile, snello... di quei damerini affabili... da monocolo, con ancora un certo smalto sulle tavole... Piano piano, ruotando le sue ruote da ballo, da gran pattinatore, avvicinò le gambe nere e sottili, da sera... a quelle più grosse, a colonne larghe, di una certa pianofortessa Blüthner! Aveva ella un’aria dignitosa, vedovile. Era di color castano, con lucide striature da pelliccia sul dorso, un poco stinto e unghie bianchissime d’avorio, percorse da belle venature... propriamente una signora, di quelle d’altri tempi, da salotto, romantica per certo... sognatrice. Quel Duysen, risvegliato, gli si fece più vicino e, come leggendole tra i feltri

un’antica malinconia nascosta, sbatté gli occhi di velluto e disse... “Signora, Fräulein... non stia a pensare... a quei notturni che non ha più... a quella sua casa, ai bei tappeti... andati anche loro, come noi. È la vita, sa! La guerra! Non stia più a pensare a quelle arie di Berlino... ai saloni austeri... a quei bei spigoli di melodia, alla sua voce ferma d’un tempo, e cristallina... S’è perduta, sa! E anche noi, ora qua... Tutti venduti, come siamo, all’incanto! Signora, Fräulein! Via... Padroni non ne abbiamo più, e case nemmeno... e se gli altri ancora si sono scordati di noi... scordiamoci anche noi di quel che è stato e ci tocchi anche a noi per una volta di ballare”. E così, sussurrando, alzò d’un tratto quella sua voce stonata e metallica e scordata, e rivolgendosi agli altri pianoforti, sonoramente li invitò: “Herr Kaps... via ci suoni col suo rullo una Berciosa! E voi con l’autopiano... col nastro americano! In piedi, forza sull’attenti! I verticali scapoli, obbedienti! Alla festa, forza, alla canzone! Via! Una melodia! Cantino le note a tre alla volta... ognuno come può... Attenti Eroici! O eleganti! E voi laggiù, caligginosi... Accendete le candele! Voi piani senza voce, stonati ubriachi... sfasciati, cani senza più padroni, non state così impalati, sull’attenti come maggiordomi! Forza, andiamo! Sull’aria di una musica involiamo!” Si mossero allora i rulli e le spinette e fu un groviglio... fu un naufragio, un fragore di sciampagna... di bicchieri infranti... che riempì il salone, e il Duysen la diresse... e alzarono in gran coda il coperchio a modo di vela, di trinchetto... come per prendere l’aria della musica... in mareggiata, i pianoforti! Ciondolavano all’impiedi, scompagnati, i verticali in frac... le mezzecode in tight... coi loro monocoli e malanni... e i vecchi gran marescialli oblunghi, che tossendo da dentro ai cassettoni presero a muoversi come granchi nel salone, pattinando tutti insieme, chi cantando, chi nuotando, chi ruotando. E fu a quello spettacolo allora, che la signora Blüthner commossa, piena di riconoscenza si abbandonò del tutto al legno di quel così intraprendente verticale... e una lacrima le discese tra le cerniere del coperchio... Il Duysen,

galantemente, gliele asciugò col panno verde, e dopo la invitò a danzare. “Signora Blüthner, le sussurrava, non stia più a pensare... sfiori i miei tasti, prenda i miei baci, se ci hanno venduti tutti all’incanto, ora all’incanto ceda il suo cuor...” Ed ella gli rispose “Herr Duysen, che galante la canzone... certo all’incanto, cedo il mio cuor...”» Ed ecco, come d’incanto anche lì vicino alla stazione, all’udire quella storia accompagnata dal suono di quel vecchio strumento ambulante, l’aria si riempì di echi. I suoni venivano dalle casse legnose dei pianoforti, in ogni cortile, per strada, dalle case... si aprirono le finestre e i pianoforti iniziarono a suonare, ognuno a modo suo. I suoni si spandevano e nessuno capiva bene da dove venissero. Erano i pianoforti da ogni angolo dove erano stati riposti che riprendevano voce: dai salotti, dai garage, dai magazzini abbandonati, dai sottoscala, dalle camerette dei bambini diventati grandi. Dagli ospedali cui erano stati donati, dagli atrii della stazione e dell’aeroporto dove pure erano stati collocati. Dalle birrerie chiuse e dai locali notturni, dai pianobar senza più clienti, dalle alcove senza più amanti, dai ristoranti... E allora tutti capirono quanto i pianoforti avessero reso migliore la nostra vita, e si affacciarono alle finestre, e piano piano un senso d’amore si sparse nella città in quella arida notte di Natale. Cessarono le delazioni, le accuse, le cose urlate per convenienza, le isterie, le malelingue, i sospetti, i complotti, i risentimenti. La gente si fece coraggio e si fece un poco più giusta. Come le quinte giuste che gli accordatori sempre cercano nell’artificio del sistema temperato, e tutti si temperarono un poco per potere suonare insieme e spartirsi la vita, assieme alla musica. Se qualcuno desiderasse dare seguito agl’incanti caposseliani, raccomandiamo di assicurarsi i biglietti per il concerto di Natale (costo 12 euro) su www.viniciocapossela.it


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Speciale Natale

Il Natale di Arturo

Racconto La magica notte di Natale di un bambino e del suo orsetto in un mondo che minaccia la sua vita

Silvia Vegetti Finzi Alle mie nipoti Francesca e Anna Greta Era il mattino della vigilia di Natale e Arturo, abbracciato all’orsetto Dodò, cercava nel dormiveglia d’immaginare la mattina dopo quando avrebbe trovato il trenino elettrico Rivarossi, con binari e stazioni, persino un passaggio a livello con semaforo, chiesto da tempo a Babbo Natale. All’improvviso lo ridestò la voce concitata della mamma che gli intimava: «Arturo, alzati dài, infila i pantaloni, metti il cappotto e il berretto, dammi un bacio e segui lo zio che ti porta in macchina a Belcolle dove ti aspettano Anna e Luigi, poi veniamo anche noi». Arturo conosceva da sempre quei due anziani contadini che, abitando non lontano dalla loro casa di campagna, svolgevano per la sua famiglia tante piccole incombenze. Non era ancora mezzogiorno quando, giunto a destinazione, si ritrovò nella cascina che tanto l’aveva affascinato negli anni precedenti ma dove poche volte era entrato. E ora, rannicchiato nella poltrona sfondata di Luigi, trovava finalmente il tempo e la concentrazione per chiedersi come mai era stato spedito in fretta e furia lontano da casa proprio la Vigilia di Natale. Dai discorsi dei grandi aveva capito che cercavano gli Ebrei per portarli via e molti stavano scappando. La notte prima aveva sentito risuonar per le scale ordini imperiosi, seguiti da un tramestio di passi e sbatter di porte ma, pensando a una festa, si era riaddormentato senza preoccuparsi. Ma adesso una cosa sola gli era chiara: domattina, al momento di aprire i regali, lui non ci sarebbe stato. La sua cameretta era ormai lontana e in un attimo tutto era cambiato.

e di Dodò, l’orsetto di peluche con cui ogni notte condivideva sonno e sogni. Come aveva potuto dimenticarlo a casa? Solo adesso che, come lui era rimasto solo, riusciva a immaginare il dolore che aveva procurato all’amico. Su tutto aleggiava il tempo sospeso della Vigilia: l’attesa di un personaggio tante volte immaginato eppure misterioso perché nessuno l’aveva mai incontrato. Passava di notte, quando tutti dormivano, depositando i regali che ciascuno desiderava. Lungo il portico, davanti a ogni uscio, erano già stati posti i canestri nei quali i bambini avrebbe trovato i loro doni. Certo non ci sarebbe stato il suo: Gesù Bambino non sapeva che lui fosse lì. Stava per abbandonarsi allo sconforto quando lo fece sussultare un improvviso richiamo. Balzò dalla poltrona e, puliti con la mano i vetri appannati, riuscì a scorgere in fondo al cortile una figura in cui riconobbe lo zingaro. Era giunto lassù la scorsa estate ma nessuno si aspettava di rivederlo d’inverno. Alto e magro, vestito di nero, con la fisarmonica a tracolla, l’uomo oltrepassò il portone trascinando alla cate-

na un gigantesco orso bruno, che poi era un’orsa. Subito i bambini, attratti dagli annunci gridati a gran voce, dallo sferragliar di catene e risuonar di campanelli, gli corsero incontro festosi. Senza occuparsi di loro, lo zingaro condusse quel barcollante bestione in mezzo al cortile dove, al suono della fisarmonica e con robuste strattonate al collare, l’avrebbe costretto a rizzarsi sulle gambe posteriori per improvvisare un goffo, dondolante balletto. In realtà quell’esibizione risultava stonata e inopportuna in confronto alla vibrante e malinconica musica tzigana, ma nessuno sembrava notarlo, tanto era mirabile ciò che stava accadendo. Terminato il breve spettacolo, dopo aver legato l’orso all’albero appena fuori dal cortile, lo zingaro passò di casa in casa chiedendo qualche moneta, cui il contadino più ospitale aggiunse un bicchier di vino rosso, in fondo era Natale. Tutti erano ormai rientrati quando si udì levarsi il grido allarmato del gitano: l’orso, spezzata la catena, era scappato senza lasciar traccia. Nell’eccitazione generale iniziò una ricerca

cui parteciparono tutti. A gruppi entrarono nella stalla, salirono sul fienile, frugarono nel granaio, si dispersero nell’orto e tra le vigne... ma invano. Chissà dove era andato? Arturo, che non si dava pace, cessò di rimpiangere il trenino elettrico anzi, se avesse potuto, l’avrebbe barattato volentieri per l’orsa. Lei sì che gli stava a cuore. Le indagini durarono tutto il pomeriggio, finché il buio della sera obbligò a sospenderle, tanto più che bisognava prepararsi per la Messa di mezzanotte. Anche Arturo si avviò con gli altri alla chiesa parrocchiale che si ergeva tra le basse case del paese. Mentre procedevano timorosi di veder sbucare una massa nera dagli alberi, il bambino pensava con tenerezza a quella povera bestia che, sola come lui, lontana da casa come lui, vagava spaventata nella notte. Invaso da un sentimento di compassione, si propose di ritrovarla ad ogni costo. Prima dell’alba sarebbe uscito a cercarla e di certo da qualche parte l’avrebbe scovata. Quando, poco dopo entrò in chiesa Arturo scorse, in una navata laterale, il presepe che veniva allestito ogni anno.

Guardandosi intorno con occhi resi più attenti dalla tensione, riuscì per la prima volta a cogliere la differenza tra la sua casa e la cascina. Le stanze dove vivevano le famiglie dei contadini si affacciavano, una dopo l’altra, sul portico che circondava il cortile e tutto si riduceva all’essenziale, non vi era niente di troppo. In confronto ai bambini che Arturo frequentava in città, i pochi che riusciva a scorgere dalla finestra erano magri, pallidi, vestiti poveramente. Per affrontare l’inverno non avevano che pesanti zoccoli di legno, una cuffia di lana grezza e un corto mantello di panno militare. Che cosa avrebbero ricevuto in dono l’indomani? Si chiedeva Arturo con curiosità. Sapeva che da quelle parti giungeva soltanto Gesù Bambino e che, non avendo né slitta né renne, i suoi doni si sarebbero limitati a qualche mandarino, un sacchetto di mandorle tostate, caramelle di zucchero e una stecca di torrone. Mentre si riscaldava con piacere al fuoco del camino, Arturo sentiva la mancanza del calore della mamma

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E ora, rannicchiato nella poltrona sfondata di Luigi, Arturo trovava finalmente il tempo e la concentrazione per chiedersi come mai era stato spedito in fretta e furia lontano da casa proprio la Vigilia di Natale

La scena era composta da una mangiatoia ricolma di fieno dinnanzi alla quale erano collocate due statue a misura d’uomo, la Madonna e San Giuseppe in adorazione di Gesù Bambino deposto su un mucchietto di paglia. Mentre, tra canti e profumi d’incenso, tutti gli sguardi erano puntati sull’Altare, Arturo, stanco e assonnato, dopo aver vagato con lo sguardo lungo la navata centrale, si soffermò a osservare la cappella laterale dove gli parve di scorgere, sulla paglia del presepe, una grossa ombra in movimento. Chi poteva essere? Non una statua di gesso... e se fosse stata proprio lei? Ma certo, non poteva che essere lei: l’orsa che tutti cercavano. Avrebbe voluto annunciarlo a gran voce ma, non trovando il coraggio di interrompere la cerimonia, decise di attendere e riflettere: se avessero conosciuto la sua scoperta, l’avrebbero considerato un eroe ma purtroppo l’orsa sarebbe stata riconsegnata al proprietario che, riallacciati catene e sonagli, l’avrebbe trascinata in giro per il mondo, ogni giorno più vecchia e più stanca. Che fare? Mentre i cori di Natale elevavano gli animi oppressi dagli eventi che stavano sconvolgendo il mondo, il più contento era senz’altro Arturo. Come sapeva solo lui, l’orsa era stata ritrovata, ma l’avventura non era terminata: doveva tornare alla sua terra, riunirsi alla sua famiglia e, col suo aiuto, ci sarebbe riuscita. Prima di uscire dalla chiesa lo sguardo indagatore di Arturo aveva scorto una porticina malandata che dava sul retro dell’altare maggiore. Poiché le ante scardinate erano soltanto accostate, sarebbe stato facile aprirle e rientrare. Secondo il suo piano, le cose sarebbero andate così: mentre tutti dormivano avrebbe portato via l’orsa dal Presepe senza restituirla a nessuno. Giunti a casa, Arturo attese che il giardiniere e la moglie si fossero addormentati e, senza far rumore, ritornò di nascosto in chiesa. Dire che non avesse paura sarebbe una clamorosa bugia: tremava per il freddo e per i pericoli sempre in agguato nella notte e nel bosco. Aperta la porticina, il bambino si avviò verso il presepe con il timore che la bestia, svegliata di soprassalto, gli balzasse addosso. Ma avvenne tutto il contrario: l’orsa l’accolse come se l’avesse atteso da sempre e, senza opporre resistenza, si lasciò accompagnare fuori, nel buio della notte. Arturo, dopo averle accarezzato più volte il groppone, si decise a lasciarla andare ma continuò a seguirla con lo sguardo finché la vide inoltrarsi nel bosco con passi decisi, ben diversi da quelli lenti e pesanti, trascinati dalla catena. Finalmente libera, finalmente felice, pensò il bambino richiudendo dietro di sé la porticina. Sentendosi soddisfatto, era già passata mezzanotte, Arturo rincasò correndo nella notte scura senza nessuna paura. Giunto ansimante sotto il portico, vide la schiera dei cestelli con i doni portati da Gesù Bambino tra i quali, chi l’avrebbe mai detto? C’era anche il suo. Che cosa poteva contenere? Non certo il trenino Rivarossi! Ma no! Con sua enorme sorpresa vi trovò proprio l’amato, invocato, orsetto Dodò. Con slancio lo strinse al petto e, rientrato in casa, s’infilò con lui sotto le coperte dove, stretti stretti, si sarebbero confidati le loro avventure. Ma prevalse la stanchezza e poco dopo, conclusa quella strana Vigilia di Natale, vissuta tra la luce e il buio, la veglia e il sogno, la tristezza e la gioia, Arturo si addormentò sereno: minacciato dalla realtà, protetto dalla fantasia.


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Idee e acquisti per la settimana

Azioni in festa!

Attualità Fino al 31 dicembre alla Migros vi aspettano prelibatezze culinarie per la tavola natalizia

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a prezzi veramente alla portata di tutti. Tra queste per esempio il formaggio Alpe Piora DOP 28 mesi e i racks d’agnello Solo lunedì 28 dicembre! fino ad esaurimento dello stock

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Azione Hit Alpe Piora DOP 28 mesi prodotto in Ticino per 100 g Fr. 4.40

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Alpe Piora DOP 28 mesi

Racks d’agnello Tenere, succose e saporite, le racks – note anche come costolette o carré d’agnello – sono un’idea sicuramente apprezzata per rendere il menu festivo un’irresistibile esperienza culinaria. Tanto più che anche la presentazione è una gioia per gli occhi. La carne di agnello, essendo già saporita di suo, non necessita inoltre di troppi condimenti: sale, pepe e un tri-

to di rosmarino e aglio sono più che sufficienti. Sfregate bene le racks intere con il condimento di cui sopra e rosolatele nell’olio per 4 minuti. Trasferite la carne su una teglia calda e continuate la cottura in forno a 80°C per ca. 45 minuti. Per ottenere una carne rosata al punto giusto la temperatura al cuore dovrebbe essere di ca. 55°C.

Sull’Alpe Piora, il più vasto alpeggio del Ticino situato in Alta Leventina, durante la stagione estiva gli esperti casari producono l’omonimo formaggio a denominazione di origine protetta (DOP). Il suo sapore e aroma inconfondibili sono il risultato di una lavorazione meticolosa del pregiato latte crudo derivante da mucche che brucano l’erba dei pascoli alpini situati tra i 2000 e 2300

metri. Dopo una prima stagionatura sull’Alpe di almeno 60 giorni, le forme vengono ulteriormente affinate per 26 mesi in speciali cantine a temperatura e umidità controllate. Durante questo periodo il Piora subisce profonde trasformazioni a opera di enzimi microbici che donano al prodotto finale tutta la complessità di aroma tipica dei formaggi a lunga stagionatura.

Carni pregiate per momenti speciali

Attualità Coloro che desiderano gustare qualcosa di esclusivo, ai banchi macelleria Migros hanno solo l’imbarazzo

della scelta

Il filetto alla Wellington e l’entrecôte di Wagyu per piatti di successo.

In occasione delle festività, le macellerie Migros con banco a servizio propongono, oltre ai più classici tagli di carne svizzera, anche alcune specialità esclusive. I nostri specialisti sono a vostra completa disposizione per consigli mirati sulla preparazione di piatti di sicuro successo. Vediamo quali sono i tagli nobili disponibili: Entrecôte di Wagyu: razza bovina di origini giapponesi che dona una carne dalla tenerezza e sapidità straordinarie grazie al suo alto grado di marmorizzazione. Per apprezzarne appieno il gusto unico si consiglia di cuocerla su una piastra molto calda con solo un filo d’olio, uno spicchio d’aglio, sale e pepe. Evitare qualsiasi marinatura.

Entrecôte di Alce: questa carne proviene principalmente dalla Svezia e deriva da animali selvatici. Il suo sapore pronunciato si presta a svariate cotture come griglia, padella o forno. Prima della cottura è consigliabile una marinatura di alcune ore con aceto ed erbe aromatiche.

Filetto di Bisonte: la carne di bisonte proviene da animali che vivono liberi nelle verdi praterie nordamericane. È una carne molto tenera e dal sapore delicato che si abbina bene al pepe verde. Ideale per la griglia o alla Wellington.

Entrecôte di Renna: la renna è allevata nel Nord Europa ed apprezzata per la sua carne molto saporita e morbida, simile alla nostra selvaggina. Anche le preparazioni sono affini a quelle della cacciagione, per esempio abbinando le carni alle bacche di bosco.

Filetto alla Wellington: uno dei filetti in crosta più succulenti grazie al suo cuore di tenero filetto di manzo avvolto in una farcia di funghi, prosciutto e pasta sfoglia. Noi ve lo proponiamo anche nella variante pronta sola da mettere in forno, da riservare online o presso la vostra macelleria Migros di fiducia.


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Idee e acquisti per la settimana

Clementine della Corsica

Novità Degli agrumi che beneficiano appieno della fertilità

della terra e del clima favorevole della bellissima isola francese nel mar Mediterraneo

Gamberi svizzeri

Attualità Un prodotto esclusivo per piatti

gustosi e creativi Forse non tutti sanno che uno dei prodotti faro della Corsica sono le clementine, che rappresentano altresì le uniche clementine coltivate in Francia. La «Plaine Orientale» dell’isola, nei pressi de «L’Ile de Beauté», è la principale zona di coltivazione dei piccoli agrumi, dove maturano naturalmente sull’albero e vengono rac-

colti a mano con le loro foglie. Dopo il raccolto non subiscono nessun trattamento. La «Fine de Corse» è la principale varietà e si contraddistingue per il suo sapore zuccherino e al contempo amabilmente acidulo. La coltivazione avviene nel rispetto dell’ambiente grazie a tecniche di produzione sostenibili. Infine, come ulteriore garanzia di

qualità, le clementine corse si fregiano del marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Azione 30% di sconto Clementine a foglia bio della Corsica 1 kg Fr. 4.80 invece di 6.90 Dal 21 al 27.12 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Compatti, sodi, polposi e delicatamente aromatici, i gamberi SwissShrimps sono un’autentica delizia per il palato, sia cotti, che fritti o grigliati. Sono allevati senza l’impiego di antibiotici a Rheinfelden in spaziose vasche di acqua salata scaldate tramite recupero di calore. La miscela di sale è composta principalmente da sale del Giura svizzero. Grazie all’elevato tenore di

ossigeno dell’acqua, i gamberi presentano una caratteristica lucentezza azzurrognola che conquista anche gli occhi. L’alimentazione è costituita da materie prime biologiche certificate. Gamberi freschi svizzeri 100 g Fr. 11.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros con banco del pesce

Pronti per la fondue chinoise? Gustose, cremose, senza conservanti e disponibili nel pratico piccolo formato, ideali per organizzare una chinoise in men che non si dica. I dip di Anna’s Best non possono mai mancare come scorta nel frigo di casa, soprattutto sotto le festività di fine anno.

Anna’s Best Dip Cocktail 125 g Fr. 1.40

Anna’s Best Dip Aglio 125 g Fr. 1.40

Anna’s Best Dip Curry 125 g Fr. 1.40

Anna’s Best Dip Tartare 125 g Fr. 1.40


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Società e Territorio Editoria ticinese Nel suo nuovo libro Giuseppe Brenna censisce 267 alpi: un documento ricchissimo destinato a tenere viva la memoria geografica e storica della Valle Maggia e del suo patrimonio culturale

Orientarsi nella natura Il Gruppo Orientisti di Lugano e Dintorni ha creato alcuni percorsi nei nostri boschi per stimolanti passeggiate alla ricerca di indizi pagina 10

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Il potere del gioco

Il caffè delle mamme Giocare insegna

ai bambini fondamentali strategie di vita ma soprattutto rende felici, per questo è importante farlo con i propri figli: la ricetta arriva dalla Danimarca

Simona Ravizza Quando i bambini ci chiedono «Ti va di giocare con me?», in realtà ci stanno chiedendo: «Ti va di entrare in connessione con me?». È la convinzione della psicologa Jessica Joelle Alexander, già autrice del libro Il metodo danese per crescere bambini felici, bestseller internazionale tradotto in 28 Paesi, ora di nuovo in libreria con Il metodo danese per giocare con tuo figlio, scritto con Camilla Semlov, che da oltre 20 anni in Danimarca offre sostegno psicologico professionale alle famiglie (ed. Newton Compton editori, 2020). La vera sfida a Il caffè delle mamme è convincere le amiche (e anche mio marito) a credere davvero al potere del gioco. È l’attività più importante in cui un bambino può impegnarsi e, per tutti loro, una cosa seria. «Il gioco – ci ricorda Jessica Joelle Alexander – insegna alcune tra le più importanti strategie di vita: empatia, pensiero critico, capacità di negoziazione, autocontrollo e resilienza (ossia la capacità di rialzarsi, regolare le emozioni e gestire lo stress). Soprattutto giocare è importante per essere felici». Ci sono due parole chiave prese in prestito dalla lingua danese che possono farci da guida: hygge che vuol dire rilassarsi insieme e fællesskab che indica una comunità che fa le cose insieme. Qui di seguito una serie di consigli pratici ispirati proprio all’hygge e fællesskab: un metodo per giocare con i nostri bambini da sperimentare magari già durante le vacanze di Natale. Per rilassarci insieme innanzitutto dobbiamo cercare di scegliere un gioco o un’attività che piace fare anche a noi (quando possibile). «È difficile essere presente quando giochi ai dinosauri, se detesti giocare ai dinosauri – riflette Jessica Joelle Alexander –. È più facile divertirsi insieme quando anche tu puoi goderti il momento». Per giocare ai dinosauri, allora, per esempio possiamo trovare delle alternative più vicine alle nostre inclinazioni come costruire un habitat (un cuscino per le montagne, una coperta per le grotte o per un lago, le piante in soggiorno che fungono da alberi). È importante anche sintonizzarsi sull’umore dei bimbi per capire quale gioco è più adatto in quel preciso momento. Hanno bisogno di consumare

energie o di un po’ di tranquillità per giocare da soli? In inglese l’acronimo map (mirror, ask, play) ci indica poi un approccio che può esserci utile: descrivi, chiedi, gioca. «Descrivete quello che vedete (mirror): «Stai giocando con le macchinine. Sembra divertente». Chiedete di raccontare cosa stanno facendo (ask). Quindi giocate accanto a loro (play): basta prendere una macchinina e portarla in giro imitando il suono del motore». Sembra facile, anche se a Il caffè delle mamme ci sono sguardi perplessi. Da sapere che i giochi di ruolo favoriscono l’empatia: «È uno dei modi principali con cui i bambini provano a capire la vita – scrive Jessica Joelle Alexander –. Magari vestiranno i panni di una madre, di un padre, di un animale domestico, di un insegnante, di un dottore eccetera. Questa tipologia di gioco di finzione serve a elaborare e definire delle strategie per gestire situazioni come la condivisione, il prendersi cura delle persone, prestare aiuto e accettare aiuto dagli altri». Lotta e battaglie di cuscini: il gioco fisico è un’occasione divertente per condividere abbracci e coccole, fondamentali per i figli (e per noi). «Gli abbracci rilasciano ossitocina e rafforzano le sensazioni di fiducia e benessere, riducendo l’ansia. Non lesinateli! – è il consiglio dell’autrice –. Per molti bambini, la lotta serve a consumare energia. Fa ridere e riduce lo stress. Tutti gli animali “giocano” a fare la lotta. È uno dei modi più naturali per ridurre l’istinto di aggressività e la frequenza degli scatti d’ira. È bello anche mischiare il gioco della lotta con abbracci e coccole». L’arte è un mezzo potente per innescare il dialogo con i propri figli. «Quando vi mostrano un disegno, invece di valutarlo con frasi come “Ma è meraviglioso! Sei un’artista straordinario!”, provate a fare domande sulla loro esperienza e sul procedimento seguito: “Wow, a cosa pensavi mentre lo disegnavi?”, oppure “Perché hai scelto questi colori?”». Arrampicarsi, saltare, dondolare, correre: sui giochi pericolosi a Il caffè delle mamme c’è molto da discutere. La riflessione dell’autrice: «Spesso quando vediamo i nostri figli in alcune situazioni, ad esempio mentre si arrampicano o corrono, il nostro cervello inizia a calcolare il rischio che cadano e si fac-

Giocare bene insieme è il «mattoncino» alla base della felicità futura. (Marka)

ciano male e d’istinto gridiamo “Stai attento!” oppure “Fermati!”. Anziché dire “attento” o “no” d’istinto, chiedetevi come potete aiutare i vostri figli a sviluppare una maggiore consapevolezza dell’ambiente circostante e del loro corpo». Difficile, ma non impossibile! Creare qualcosa con le perline, fare un puzzle, giocare alle costruzioni sono, invece, tutte attività che servono a connetterci e in larga parte questo è dovuto all’aiuto del cosiddetto «terzo in comune», che indica quei momenti in cui ci si impegna insieme in un’attività che naturalmente facilita la comunicazione perché il focus è sulla terza azione in comune che stiamo svolgendo insieme, e non sull’atto del conversare in sé. Non dimentichiamoci, infine, il concetto fondamentale del fællesskab,

ossia della comunità che fa le cose insieme: «Che si tratti di andare al supermercato, preparare la cena, andare a nanna o fare le pulizie, le attività e la routine di tutti i giorni possono diventare occasioni, anziché ostacoli, per rafforzare il nostro legame di squadra e allenarci a essere i genitori che vogliamo essere». Piccoli trucchi per favorire la voglia di partecipare: fare la lista della spesa insieme per una ricetta o con gli articoli che servono è un modo per coinvolgerli prima di andare al supermercato; una volta lì possiamo far prendere ai nostri figli gli articoli sulla lista o mettere gli acquisti sul nastro; per la cena possiamo scegliere un piatto da cucinare insieme. Accendere delle candele o mettete su un po’ di musica può servire per creare un’atmosfera speciale anche

quando facciamo le pulizie. Dividere i calzini e i colori delle magliette, piuttosto che piegare gli asciugamani, può rendere divertente un bucato. «Non deve accadere ogni volta – ci tranquillizza Jessica Joelle Alexander –. Quello che conta è predisporsi nel giusto stato mentale». Non è la quantità, ma la qualità. Anche solo dedicare al gioco dieci o venti minuti al giorno in cui essere totalmente presenti, farà una differenza enorme. La Lego, il più grande produttore di giocattoli del mondo, è danese. Il nome deriva dall’incontro tra leg e godt, che significa «giocare bene». I danesi lo sanno da secoli: giocare bene è il mattoncino alla base della costruzione della felicità futura. Le famiglie che giocano insieme sono più felici di quelle che non lo fanno. Buon Natale!


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Regalare storie

Libri A Natale sotto l’albero non devono assolutamente mancare,

ecco alcune proposte dall’editoria per ragazzi

Letizia Bolzani Anche in un periodo complicato come questo, ci rimane la possibilità di andare altrove, in posti dove si sta bene, con una bella storia, magari da condividere con i bambini. E anche quest’anno l’editoria per l’infanzia ne ha proposte molte: ve ne segnaliamo alcune, perfette come strenne natalizie (e oltre). Il fatto che J.K. Rowling, dopo averci deliziato con la saga di Harry Potter, sia finalmente tornata ad offrirci un romanzo per ragazzi (L’Ickabog, Salani) è un effetto buono del lockdown. Aveva infatti cominciato a scrivere questa storia diversi anni fa, leggendone man mano i vari capitoli ai suoi figli, allora piccoli. Poi altri progetti, prevalentemente di libri per adulti, avevano preso il sopravvento e questa storia era finita in soffitta. È stato proprio il lockdown, e il desiderio di offrire qualcosa che potesse alleviarne il disagio ai bambini, a spingerla a tirar fuori l’Ickabog dalla soffitta, completarlo, riscriverlo in parte e pubblicarlo online a puntate, proponendo anche, ai giovani lettori, un concorso per illustrarlo. Ora esce il libro (con le illustrazioni dei bambini) ed è un gran bel libro, come ci si poteva aspettare da una scrittrice di classe quale Rowling rimane. Più giovane e meno nota ovviamente di J.K. Rowling, ma già in grado di non sbagliare un romanzo, facendosi apprezzare dai lettori e dalla critica (quest’anno, con Nebbia, ha vinto il Premio Strega Ragazzi e Ragazze), è Marta Palazzesi, di cui ora esce, sempre per Il Castoro, Mustang: un’avventura ambientata in Texas, nel 1850. Le piantagioni di cotone, i paesaggi sconfinati, gli schiavi, gli «indiani», i colpi di scena, i segreti. Su tutto dominano i Mustang, cavalli fieri e indomabili. E i tre ragazzi protagonisti, molto diversi tra loro, ma accomunati dal coraggio di lottare per un mondo più giusto, nel quale trovare la propria strada.

Quest’anno i libri sono doni ancora più preziosi perché solo con una bella storia si ha la possibilità di andare altrove Non è un romanzo, ma un libro di racconti, anzi di Storie della buonanotte per bambine ribelli, la fortunata serie di Elena Favilli, autrice e giornalista italiana residente a Los Angeles, fondatrice del gruppo editoriale Rebel Girls, che incoraggia le bambine a credere in se stesse, contro gli stereotipi di genere. Questo nuovo libro è dedicato alle 100 donne migranti che hanno cambiato il mondo, facendosi strada oltre i confini del proprio paese. Informatiche, chirurghe, musiciste, politiche, sportive, artiste, scrittrici e molto altro ancora, note e meno note, le cui vite potranno ispirare le giovani lettrici a esprimere i loro talenti. Il volume Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 donne migranti che hanno cambiato il mondo è edito da Mondadori e sostiene la campagna Save the Children per i bambini e le bambine siriane profughi in Giordania. Anche questo è un libro di racconti, ma tratto «dal» libro di racconti per

antonomasia: Le mille e una notte. Le storie più belle delle Mille e una notte (Lapis) sono quelle che Silvia Roncaglia seleziona e adatta nella sua versione per ragazzi della celebre raccolta di novelle orientali. Un adattamento intelligente, attento all’età del pubblico, al ritmo, allo sfrondamento di ridondanze, al linguaggio agile e comprensibile pur nell’eleganza e nel rispetto dello stile narrativo fiabesco. Apprezzabile anche la scelta di sottolineare il ruolo di Sherazade: non solo protagonista dell’espediente del racconto cornice, in cui la fanciulla narra ogni notte al Sultano una storia, per non morire, ma simbolo di quanto le storie, davvero, possano salvare la vita, nonché personale «omaggio di artigiana della parola scritta al potere di quella orale e la sfida,

spero riuscita, di far sentire nella scrittura il respiro della parola parlata». Sfida riuscita: il libro si presta all’ascolto di una voce che legge, ma è anche da gradire con gli occhi, grazie alle illustrazioni di Desideria Guicciardini. I miti sono sempre una fonte inesauribile per chi cerca racconti avvincenti, e l’editoria per ragazzi è ricca di proposte in questo senso. Recente è il volume di Maddalena Vaglio Tanet Il Cavolo di Troia (Rizzoli). No, non è un errore di stampa, di cavoli si tratta! Infatti il sottotitolo recita: «e altri miti sbagliati». Ad esempio, i Greci sgominarono i poveri Troiani (affamati dal lungo assedio) non grazie al trucco del cavallo, ma a quello di cavoli imbottiti di sonnifero. Divertente, a patto di conoscere già la versione tradizionale, come in tutte le parodie. Ad ogni modo, alla fine di ogni racconto è svelato «l’errore»; e comunque – direbbe Rodari – «sbagliando si inventa». Rebecca Gugger e Simon Röthlisberger sono una coppia di artisti svizzeri che vive a Thun. Il loro albo illustrato Ida e la balena volante (uscito in originale da NordSüd Verlag) viene ora pubblicato in italiano da una giovane e coraggiosa casa editrice palermitana: Glifo Edizioni. Il viaggio della piccola Ida e della balena è all’insegna del fantastico, così come surreale (ma perfettamente reale per un bambino) è tutta la storia, sin dall’entrata in scena della ragazzina che vive in totale autonomia in una casetta sull’albero. Una notte, Ida vedrà affacciarsi dalla finestra il gigantesco occhio di una balena (volante, appunto), che le porrà una semplice e «gentile» domanda: «Ti va di fare un viaggio con me oltre le stelle?». Sarà un viaggio in luoghi mai visti, che apriranno mente e cuore a

nuove domande: sulla «normalità», sul crescere, sulla solitudine, sul silenzio, sul conforto dell’amicizia. E sul potere che le storie hanno di farci percorrere strade non battute. Divertentissima, e tutta da leggere ad alta voce (perché qui il suono delle parole è davvero importante), è la storia de L’UnicorNO! (Emme Edizioni), di Marc-Uwe Kling, che è noto in Germania anche come attore e cantante satirico, illustrata da Astrid Henn. Va assolutamente menzionata in questo caso la traduttrice italiana, Costanza Piccoli, che ha saputo rendere con efficacia i giochi di parole di cui è intessuto il testo. L’UnicorNO è un adorabile unicornino scorbutico, insofferente a tutte le zuccherosità di fatine dorate e graziosi folletti che costituiscono la sua foresta, pardon «cuoresta», di cuori gentili e buoni, «dove splende sempre il sole, tutto è migliore/ non esistono dispiaceri e non c’è nemmeno un cacciatore». L’UnicorNO (NEINhorn nell’originale

tedesco) a tutto questo dice NO! No ai caramellosi balletti, no agli arcobaleni scintillanti, no alle mele rosa candite. Risoluto, dà un taglio al buonismo e se ne va per i fatti suoi. Incontrerà stravaganti compagni di viaggio con tic linguistici personalizzati (l’orsetto lavatorEH che dice sempre EH, il San BEHrnardo che dice sempre BEH, la principEHSI’na che dice sempre EH SI’...) e sarà bello andare a zonzo tutti insieme, scontrarsi ogni tanto, e qualche volta (non troppo spesso, beninteso) essere persino di buon umore! Prettamente natalizio è l’albo illustrato Che disastro di Natale! (Arka Edizioni), in cui le illustrazioni di Bimba Landmann valorizzano il testo di Sylvaine Nahag. A Babbo Natale non ne va dritta una: gli elfi hanno dipinto i camion dei pompieri di verde invece del canonico rosso, ben quattro renne hanno appena partorito e non possono certo lavorare, l’elefante Emilio, chiamato d’urgenza in sostituzione, non è molto esperto di volo e combina un sacco di guai. Babbo Natale è molto arrabbiato, ma basterà la riconoscenza di una bambina a rendere il suo Natale da disastroso a... perfetto!

È un Natale da cambiamento climatico quello che raccontano Elisa Binda e Mattia Perego in Natale Tropicale (Einaudi Ragazzi), con illustrazioni di Leandra La Rosa. In Lapponia, nel regno di Babbo Natale, ci sono problemi, e belli grossi: la neve si è sciolta, le casette degli elfi sono allagate, i regali rovinati... Quel che è peggio è che non solo il Natale, ma tutto il pianeta Terra è a rischio. Tre elfi intraprendenti partiranno per chiedere aiuto agli umani, ma saranno i bambini i più sensibili alle questioni ambientali. Un libro che racconta ai più piccoli le problematiche del riscaldamento globale, inserendole in un’avventura di Natale. Perché una bella storia può anche renderti più responsabile nei confronti della natura. Abbiamo presentato romanzi, racconti, albi illustrati, concludiamo con un graphic novel, genere sempre più presente nella letteratura giovanile di qualità. Doppio passo (Sinnos), scritto da Alice Keller e Veronica Truttero (già autrici dell’apprezzato Controcorrente), è dedicato a Lily Parr, prima icona del calcio femminile. La storia è ambientata al tempo della Prima Guerra Mondiale nei cortili operai di St. Helens, in Inghilterra, dove Lily è cresciuta. Ed è raccontata da Martin, ragazzino suo coetaneo, che a calcio, al contrario di lei, era proprio scarso. Martin è un personaggio di fantasia, però «sarebbe stato l’amico giusto» per Lily, come scrivono le autrici in postfazione. Un amico con cui condividere il coraggio di lottare contro ogni pregiudizio.


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Società e Territorio La straordinaria Grónda dal Amábil nella conca detritica del Corte di Cassinígn (1940 m circa) dell’Alpe Larécc, in territorio di Menzonio. Nella dimora primitiva ricavata sotto il gigantesco lastrone c’era l’essenziale: lo spazio angusto per due persone, un focolare, una rustica fornace per fabbricare il formaggio, una beola come spersüra (sgocciolatoio). (Giuseppe Brenna)

Vita sugli alpi

Valle Maggia Nel suo nuovo volume Giuseppe Brenna ne ha censiti 267: un mondo di storie,

luoghi e itinerari speciali

Elena Robert Certe meraviglie si rivelano a chi osa mettersi in cammino col sacco in spalla per andare a cercarle. Alla fine, superate fatica e difficoltà, sarà ampiamente ripagato. Persino Giuseppe Brenna – autore della Guida delle Alpi ticinesi e mesolcinesi – cui l’esperienza e l’allenamento certo non mancano e nemmeno la profonda conoscenza del territorio, non si stanca di stupirsi e commuoversi di fronte ai tantissimi segni lasciati in quota nei secoli dagli alpigiani sotto le cime delle montagne, in luoghi impensabili e ardui da raggiungere. E arriva a concludere che la lotta per la sopravvivenza doveva in sostanza equivalere ad un brutale «corpo a corpo» tra uomo e natura selvaggia. Per noi che saliamo sui monti

per diletto e scoperta, sono inimmaginabili le abilità alpinistiche, tecniche, le competenze nell’edilizia e nell’ingegneria, la forza e l’audacia di questi contadini d’altitudine. Motivati dalla necessità, loro ci andavano per lavoro e sfruttavano i luoghi fino all’ultimo filo d’erba, fino all’ultima goccia d’acqua. Con il nuovo libro Alpi della Valle Maggia (della Collana Sui sentieri dei padri, Edizioni Salvioni, 2020) Giuseppe Brenna rende omaggio all’ingegno dell’alpigiano di una regione che ama tantissimo e ne documenta l’opera monumentale su questa «terra grandiosa» per vastità, paesaggisticamente molto variata, impervia e selvaggia. Lunga linearmente una cinquantina di chilometri, è compresa tra 250 e 3000 metri di altitudine. Si estende su 569 chilo-

metri quadrati e rappresenta un quinto del territorio del Ticino anche se è abitata solo dal 2% della popolazione del Cantone. La ricerca è frutto di una meticolosa rivisitazione in solitaria dei suoi alpi, corti, medée, monti alti, mater (promontori affacciati sui dirupi) e luoghi speciali entrati tutti in questo ampio nuovo e aggiornato censimento. Piuttosto che le tragedie e l’emigrazione, l’autore preferisce evidenziare gli aspetti positivi della vita dei padri, con senso di gratitudine, rispetto e profonda comunione spirituale, accompagnandoci alla scoperta di scalinate, passaggi strategici nella roccia, scalini scavati sulle placconate, muri di tutti i tipi, sovende e canali per l’acqua, splüi e cascine. Qui la vita pastorale intensa di un tempo ha ceduto il passo all’ab-

Il paesaggio, risorsa per lo sviluppo Se non ci fosse una solida attività agricola, di allevamento e di alpicoltura che partecipa alla conservazione del paesaggio, in Valle Maggia turismo e economia avrebbero preso una svolta ben diversa da quella che fortunatamente conosciamo. «In questo distretto – osserva Loris Ferrari, capo Sezione agricoltura del Dipartimento finanze e economia – le superfici di alpeggi raggiungono 3580 ettari (ndr. UST 2013/2018) situando il comprensorio al terzo posto nel Cantone dopo Leventina (7766) e Blenio (6468). Gli spazi liberi si trovano più in quota che sul fondovalle e non sorprende l’usanza, almeno negli alpi più grandi come Bolla Froda, Campo La Torba e Grossalp, di importare durante l’estate un

numero rilevante di bovini dalla Svizzera interna, fatto che contribuisce a garantire continuità a questi luoghi aperti. La Valle Maggia presenta ancora un’importante economia alpestre per la presenza di alpeggi anche di grandi dimensioni e per la produzione di formaggio DOP che si può fare anche con il latte di capra. I greggi caprini continuano infatti a essere una peculiarità del suo territorio». «L’importanza economica degli alpeggi è innegabile per le aziende anche tenuto conto delle esigenze di approvvigionamento del foraggio e del benessere del bestiame» ci dice Marzio Coppini, presidente della Società agricola valmaggese e gestore dell’Alpe Sfii in alta Val Rovana. L’er-

ba rimane una risorsa fondamentale. Negli anni non sono mancate le fusioni di alpi. E capita che si sfrutti anche solo una parte della superficie utile disponibile. Nella Valle Maggia, di alpi caricati dove si produce il formaggio ne sono rimasti 11: Zarìa, Campo La Torba, Vacarisc con Mognòla, Brünesc, Bolla e Froda, Robièi, Grossalp, Magnello, Sfii, Nimi, Mergozzo. Quattro di questi producono formaggio DOP, gli altri formaggio d’alpe. In realtà sono molte più di 11 le superfici dove si portano gli animali, 43 nel 2019, pascolate da 463 vacche da latte, 661 altri bovini (nutrici, manze, tori, vitelli), 1268 capre munte, 589 altri caprini, 1137 ovini (compresi gli agnelli), 55 equini e 46 suini.

bandono e al degrado, nonostante non manchino esemplari isolati casi di manutenzione da parte di proprietari, società, volontari, cacciatori.

Nelle pagine di Giuseppe Brenna possiamo riscoprire le abilità alpinistiche, le competenze nell’edilizia, la forza e l’audacia degli alpigiani di un tempo Il lavoro di Brenna, animato da impegno e passione, è monumentale, un documento ricchissimo destinato a tenere viva la memoria geografica, storica della Valle Maggia, del suo immenso patrimonio culturale. L’autore è vicino ai settant’anni. Queste recenti ricognizioni, da lui effettuate con tempi più lunghi che in passato, gli hanno consentito di vivere emozioni diverse e persino scoprire posti e percorsi suggestivi nuovi. Il censimento concerne 267 alpi, corti e altri luoghi particolari illustrati con 667 fotografie. Per raggiungerli sono descritti 185 itinerari, anche molto lunghi, la maggior parte dei quali non su sentieri. Spesso, quando esistono, ci si accontenta di tracce e non di rado si devono superare tratti di difficoltà T6. E vi sono casi in cui l’accesso è possibile ora solo dall’alto. Nello studio non sono compresi gli Alpi di Val Bavona (25 in tutto, ma con corti e altri luoghi particolari si arriva facilmente a un centinaio) trattati in un precedente volume (Salvioni e Dadò, 2011) curato da Giuseppe Brenna con Luigi Martini. Né si può dimenticare,

sempre sulla Valle Bavona, l’altra sua opera Giuseppe Zan Zanini e la Valle di Foiòi (Salvioni, 2010) sull’impresa dell’ingegnoso alpigiano che realizzò nel 1833 un grandioso accesso per le vacche al suo alpe. Tra la trentina di libri che sono stati compagni di viaggio di Giuseppe Brenna in questa riscoperta della Valle Maggia hanno rivestito un’importanza fondamentale, anche per le storie e le testimonianze di alpigiani e anziani, gli Archivi dei nomi di luogo e il Repertorio toponomastico ticinese (diversi volumi di autori vari), le carte nazionali, comprese quelle storiche Siegfried e Dufour, il libro Alpi di Valmaggia (Società agricola valmaggese, 1971). Tutte fonti i cui contenuti sono ampiamente citati e integrati dall’autore con testimonianze di oggi. Il viaggio che ci propone Giuseppe Brenna comincia ad Avegno e finisce nelle estremità delle valli superiori e laterali della Valle Maggia. Gli alpi raggiunti e indagati nel libro meriterebbero di essere tutti visitati. A molti di essi sono legate storie che hanno dell’incredibile. Ne ricordiamo una per tutte. Sul territorio di Someo, in Val Busai (versante destro della Valle Maggia) a 8001000 m di altitudine l’autore è riuscito a individuare nella difficile parete del Sasso Tròlcia quella che poi ha battezzato «Via della Sposa», ossia la spaccatura inclinata nella roccia attraversata nel 1910 da una mamma coraggiosa col neonato in spalla, cinque giorni dopo il parto, per raggiungere e aiutare il marito boscaiolo che lavorava nel terrazzo soprastante della Pioda Neira. Ne parlò tutto il paese, riporta una fonte. Il passaggio chiave è raggiungibile da Someo in un’ora e mezza ed è consigliato solo ad esperti (T5).


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Società e Territorio

Passeggia nel bosco e trova gli indizi Gruppo Orientisti Nel luganese un nuovo stimolo per le nostre passeggiate con il «Progetto C.O. per tutti»

Loris Fedele Siamo in un periodo particolare, che sta durando da parecchio, qualcuno dice troppo. La pandemia Covid-19 con le necessarie limitazioni imposte alla popolazione ci ha cambiato la vita. Tuttavia è innegabile che nel Canton Ticino siamo più fortunati di altri, perché possediamo boschi e spazi aperti che ci hanno permesso di evadere, anche solo per un poco, dalle zone più urbanizzate. Sono stati in tanti quelli che hanno potuto riscoprire il piacere di una passeggiata nel bosco, di rivedere luoghi che avevano dimenticato oppure ai quali non avevamo prestato abbastanza attenzione, per pigrizia o altri motivi. Le passeggiate da soli oppure in famiglia, con bambini e ragazzi, sono state una gradita valvola di sfogo per tutti, pur adeguandosi sempre alle prescrizioni di evitare gli assembramenti e di mantenere le dovute distanze al di fuori del nucleo familiare. Però la cosa si sta prolungando parecchio, le strade o i sentie-

Bianco e arancione sono i colori per i punti di controllo delle gare di C.O.

ri che percorriamo diventano ripetitivi, subentra un po’ di noia. Per non parlare dei comportamenti dei ragazzi, la cui naturale vivacità ha dovuto giocoforza fare i conti con palestre chiuse e limitazioni varie in diversi ambiti sportivi. Il confinamento forzato ha messo in crisi parecchie società che, riflettendo su questo periodo particolare, provano a reinventarsi, a trovare soluzioni che possano dare nuovi stimoli a chi voglia accostarsi a una attività sportiva da praticare per tutto l’anno. È nata così l’iniziativa «Progetto C.O. per tutti». La corsa di orientamento (che per brevità solitamente è indicata pronunciando solo le iniziali, C.O.) è una disciplina sportiva che si pratica all’aperto e che mette in luce due capacità individuali: la corsa e l’orientamento. La corsa è connaturata col nostro essere, l’orientamento bisogna acquisirlo e coltivarlo. Tuttavia, se non si è in gara, si può lasciar perdere la corsa e, mantenendo l’orientamento, si può camminare più o meno velocemente seguendo un itinerario prefissato. Cosa ne dite di aggiungere uno stimolo supplementare alle vostre passeggiate? Si sono detti i responsabili del Gruppo Orientisti di Lugano e Dintorni (GOLD). Vi proponiamo alcuni itinerari da affrontare con in mano una cartina di corsa d’orientamento, con indicato un percorso facile e accessibile a tutti. In questo modo alla nostra ormai abituale passeggiata si può aggiungere un elemento che la renda più interessante e diversa. Vicino al laghetto d’Origlio forse qualcuno avrà già notato sul tronco di una

Con il QR code si ricevono le informazioni per l’itinerario.

pianta una fascia bianca con una striscia orizzontale arancione: sono i colori usati per i punti di controllo delle gare di orientamento. Sopra vi è scritto «C.O. per tutti» e al centro vi è un quadratino che porta qualcosa che soprattutto i giovani conoscono bene, un QR code. Puntando il vostro smartphone sul codice si ricevono le informazioni di base e una indicazione di indirizzo di posta elettronica al quale richiedere una cartina del percorso in formato PDF. Se non avete un collegamento internet sul

telefonino fate una fotografia al quadratino e arrivati a casa leggetelo sul vostro computer collegato alla rete. Posso darvi subito il collegamento per le informazioni di base http://www.gold-savosa. ch/co/perTutti/ Con un messaggio di posta elettronica riceverete subito la cartina del percorso con segnati i nove punti di controllo che dovrete trovare. Le cartine per la C.O. sono particolari: su di esse sono riportate, con segni convenzionali e simboli, tutte le principali caratteristi-

che del terreno. Sono segnati i sentieri, i corsi d’acqua, le colline grandi e piccole, le rocce e i massi più vistosi e che attirano l’attenzione, i ruderi, le case e così via. In sovraimpressione vengono segnati con un circolino i punti di controllo del cammino che dovete percorrere. Dovete seguire i numeri in sequenza ma potete scegliere liberamente l’itinerario da un punto all’altro. Tenete presente che in una gara si cercherà di fare il percorso più corto o più agevole. Tornando alle passeggiate C.O. proposte dal progetto, per aggiungere un elemento di gioco, a beneficio soprattutto dei giovani e giovanissimi, gli organizzatori hanno posto su ogni punto un indizio: è riportato in basso sulla fascia attaccata all’albero. Collezionando tutti gli indizi lungo la passeggiata, al termine si otterrà un piacevole rompicapo da risolvere: un «divertimento» in più. Sono già stati approntati i percorsi nelle zone dove potreste recarvi. Uno è il già ricordato giro del Lago d’Origlio: sono circa 3 km soprattutto su stradine. Poi c’è il giro del bosco di San Clemente, tra Tesserete e Comano, circa 5 km da percorrere sui sentieri e vicino a essi nello splendido bosco. Inoltre una passeggiata (ancora sui 5 km) è nel bosco tra Cademario e Arosio (lo conoscete il sentiero dei filosofi?). Completano il quadro altri due percorsi di circa 3 km: il giro della Collina di Porza e il giro della Collina di Breganzona, molto facili e alla portata di tutti, grandi e piccini. Se nelle vacanze di Natale siete a spasso coi vostri figli, perché non provare il diversivo di una passeggiata C.O.-vid free? Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Osservatori inattesi al mercatino di Natale Sto visitando il mercatino natalizio in Piazza della Riforma. È arrivato anche il mitico Barbarossa a diffondere, con il suo organetto, suoni delicati e discreti. Lugano ha voluto mantenere il suo rituale festivo che quest’anno assume un valore particolare. In effetti quella che mi accoglie è un’atmosfera diversa. Gli oggetti esposti sembrano lì per raccontare la storia di un altrove. Marmellata e miele, calzettoni e sciarpe, piccoli ninnoli artigianali, raccontano gesti e pensieri vissuti in solitudine nei mesi appena trascorsi. Oggetti finalmente esibiti a suggerirci un’inedita narrazione della vita. Oggetti che non si mostrano più come semplici «cose», merci da comperare, regalare, consumare. Si mostrano con un volto diverso, a evocare il profumo di una rinascita. Anche noi ci concediamo forse un po’ meno alle abitudini consumistiche. L’atmosfera sembra offrire altre ragioni al nostro essere lì: il piacere di condividere relazioni,

seppure un po’ aleatorie e sfuggenti. E così riemerge inatteso il valore del legame che sa rendere il dono un vero dono. Con queste gradevoli percezioni decido, per una volta, di trattenermi un po’ di più. Subito vengo attirata da una casetta in cui sta accadendo qualcosa di particolare. Tre signore stanno scegliendo la stessa, unica cuffia esposta. Un caldo berretto, assai originale. Tutte e tre sono fermamente intenzionate a comprarlo, proprio nello stesso momento. Grande impasse, ma alla fine saggia decisione: che sia l’artigiana, l’artefice del capo conteso, a decidere a chi assegnarlo. Comprensibile l’imbarazzo, che non le impedisce comunque di stare al gioco: «per scegliere a chi venderla, care signore, vorrei sapere per quale motivo la desiderate tanto». «Perché è il solo oggetto che mi fa sentire la bellezza nel cuore», esordisce la prima potenziale acquirente, «di cose

piacevoli, gradevoli alla vista, ne sono esposte tante, ma solo questo berretto fa risuonare in me il sentimento di una bella armonia». La seconda signora cambia registro. «Desidero regalare questa cuffia a una persona cara perché ciò che abbiamo di più importante, e di più delicato, è senza dubbio la testa e quindi è bene proteggerla. Inoltre, motivo non secondario, un bel copricapo può mettere in evidenza la nostra identità, non certo un paio di calzettoni!». Infine è l’ultima a prendere la parola: «desidero farmi un regalo e questa bella cuffia, tra le tante cose piacevoli in esposizione, mi sembra esprima il miglior rapporto tra qualità e prezzo. Quando desidero soddisfare un mio desiderio cerco di tener conto anche delle possibili conseguenze negative: spendere troppo, o peggio ancora, non essere soddisfatta». «Care signore, mi mettete in grande difficoltà. Le vostre riflessioni pescano nel profondo di sentimenti e pensieri

che si intrecciano tra loro e in ciascuno di noi». La scelta, quasi impossibile, avviene senza più parole: solo un timido sorriso rivolto a colei che si era espressa per prima. Strano personaggio questa artigiana. Mi piace immaginare che si chiami Diotima, proprio come quella figura sapienziale, unica donna ammessa da Platone al Simposio con Socrate e con i suoi commensali. Socrate ha passato la vita a interrogare l’animo dei suoi «allievi». A cercare, al di là delle azioni giuste e virtuose, al di là delle cose belle, il significato per cui queste cose sono davvero tali. Come non comprendere la pur difficile decisione di questa novella Diotima? In un mondo in cui si afferma tutto e il contrario di tutto ben venga la ricerca di un fondamento di verità, seppur provvisoria e sempre incerta. E ben venga pure il richiamo al sentimento della bellezza, in un mercato globale pieno di tanti begli oggetti, spesso però senza alcun

legame con il nostro mondo interiore. Alle loro spalle tre signori, in verità piuttosto strani e assai démodé, stanno seguendo con molta attenzione la vicenda. Il primo se ne sta incantato a contemplare il cielo stellato che appare improvvisamente in questo freddo imbrunire; e mentre contempla si chiede se ancora siamo capaci di sentire la bellezza dentro di noi, senza perderci in troppi scenari variopinti. Il secondo, pensoso più che mai, se ne sta ancora e sempre a dubitare sulla ragionevolezza dei comportamenti dei passanti. Il terzo, molto più easy, osserva il gran movimento con sguardo benevolo, come se volesse accoglierci tutti nel suo Giardino, per condividere con lui i nostri desideri cercando di evitare ricadute dolorose sempre possibili. Li avete riconosciuti? Sì, sono proprio loro gli osservatori inattesi: Kant, Cartesio ed Epicuro. La magia del Natale è anche questo.

in un boccone, approfondendo lo studio del meccanismo sottile del piacere provocato, un pomeriggio di metà dicembre mentre nevica. Ricordo ora la circolarità del posto, tipica di certi tearoom retrò in stile bomboniera capaci di smorzare il male di vivere. La neve fuori, all’angolo con Avenue des Alpes, accentua la fuga dal mondo. Colette, accanto, una psicologa habitué, legge con calma «Le Temps» divorando un opéra formato mignon. Theresa, austera cameriera piena di umanità nascosta, mi porta il secondo caffè che sorseggio assaggiando una mini-Stéphanie. Simile al macaron, è composta da due biscotti sablé al cioccolato farciti da ganache e ricoperti di glassa al cioccolato. Mistero fitto sul nome – non per via di Stéphanie di Monaco perché la specialità risale, dicono, agli anni cinquanta, e la cantante di Ouragan (1986) è del 1965 –, è un piccolo prodigio. Esiste anche in versione micro e in due taglie più grandi, come quelle in vetrina, cosparse da violette candite. Sotto le feste, sono tentato dallo stollen. Merita, ricetta di Dresda. Alle spalle sento un conti-

nuo viavai di clienti che entrano per le scatole di Giscard. Costano una fucilata ma una scatola in dispensa, se non vi salva la vita potrebbe, almeno, dare un significato alla giornata. «Cucù»: un’amica saluta così Colette. Metto alla prova l’éclair: piccola ma perfetta. Se non avessi smesso di fumare la pipa a ventidue anni, continuerei il pomeriggio andando su dal tabaccaio di Simenon. Al ventidue di Rue de Bourg c’è ancora il tabac Besson, dove negli ultimi quindici anni della sua vita si riforniva di tabacco per la pipa, il papà di Maigret, le cui ceneri sono state sparse sotto un cedro del Libano che non c’è più – assieme a quelle della figlia Marie-Jo morta suicida a venticinque anni – in Avenue des Figuiers dodici. Invece rimango rintanato qui nel tea-room demodé di Avenue Juste Olivier undici, studiando il legame tra inezie e destino. Tra l’altro, Juste Olivier (1807-1876), poeta incompreso e dimenticato, è l’autore di una monumentale opera sul Canton Vaud ed è considerato perfino, secondo l’autorevole professor Daniel Maggetti, l’inventore sconosciuto del Vaud.

posizioni di privilegio ed è spinto da interessi di grandi aziende digitali». In altre parole «la sorveglianza è un prodotto della nostra società, di cui siamo consapevoli, che ci porta dei vantaggi economico-sociali e che, addirittura, abbiamo adottato a nostro stile di vita». Pensiamo solo a queste lunghe reclusioni pandemiche e al nostro esponenziale utilizzo di internet o di dispositivi come videocamere, microfoni, o le varie piattaforme per conferenze online e lezioni a distanza. Vale allora la pena riflettere su un’altra abitudine accentuata dalla pandemia e cioè quella del pagamento elettronico che ha riacceso il dibattito sulla necessità di una società senza contanti. Se da un lato questa scelta ridurrebbe l’evasione fiscale, dall’altro ci toglierebbe la libertà di scelta, tutti i nostri movimenti sarebbero tracciabili, aumenterebbe il controllo dei governi sulle nostre vite e aumenterebbero le di-

seguaglianze sociali. Cosa fa chi non ha un conto in banca, chi non ha Internet o chi non ha dimestichezza con le tecnologie digitali? La società senza contante rientra in quella logica del capitalismo della sorveglianza di massa che mira a schedare gusti, idee, abitudini dei cittadini. Dobbiamo stare attenti. Penso a Babbo Natale. Di certo non ha un conto bancario e non sarebbe affatto contento se Google Map rivelasse la posizione della sua casa e della stalla delle sue renne. Ancor meno se invece di consegnare i pacchi volteggiando nei cieli dovesse collegarsi online con tutti i bambini e affidare la spedizione ai droni. Cosa direbbero i bimbi? Lo so, quest’anno è difficile per tutti preservare la magia del Natale e avere fiducia nel domani. Non possiamo che provarci continuando a lottare per ciò in cui crediamo. Nel mio caso la cultura e l’informazione di qualità. Buon Natale.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La chocolaterie-tea-room Wuthrich a Losanna Giovedì tre dicembre tutti i giornali danno la notizia della morte, a novantaquattro anni, dell’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Caramel et chocolat, le Giscard est immortel è il titolo, il giorno dopo, di un articolo su «Le Temps». Già in fase tea-room con un programma stabilito di perlustrazioni, la notizia-choc dell’esistenza di un tea-room a Losanna che da più di mezzo secolo produce un cioccolatino speciale chiamato da decenni Giscard in onore del presidente della repubblica francese dal 1974 al 1981 perché ne andava matto e ne ordinava una scatola a settimana, scombussola i miei piani. Parto appena posso. Wuthrich, il nome non mi è nuovo – a differenza di Giscard – e credo di esserci stato distrattamente un ventennio fa. L’indirizzo è avenue Juste Olivier undici: appena uscito dalla stazione m’incammino secondo l’itinerario memorizzato. Un pezzetto lungo avenue de la Gare, svolto giù per l’Avenue d’Ouchy dove a sinistra imbocco l’avenue Auguste Tissot che sbuca dove deve e vedo, dopo undici minuti, tra i fiocchi di neve, la scritta bianca in un bel corsivo

sulle tende verde scuro: Wuthrich. Le vetrine già dicono molto, o quantomeno mettono in mostra l’altra specialità della chocolaterie-tea-room Wuthrich (463 m): la Stéphanie. E anche i cake anglais guardano fuori bene. Dentro, centro subito con lo sguardo le scatole di Giscard ben allineate sugli scaffali. Avvolte, come pacchetti regalo, in carta rossa, blu, o argento (al latte, chocolat noir, misti); tutte con nastrino tricolore francese. Madame Kopp mi serve, su un piattino, due Giscard – uno al latte uno nero – con il quale mi dirigo nel tea-room semicircolare. Nove tavolini, sei dei quali posti lungo la circonferenza a tutto vetro, cuscini verde scuro, legno chiaro, tende a fiori, lampadario. Niente di eclatante ma di tutto rispetto, come dev’essere un tea-room desueto, con quel tocco letargico di atemporalità. Provo il Giscard, delirio. Caramello, ganache, cioccolato, e nougatine si fondono sinfonicamente in bocca. Creato negli anni sessanta da Jean Wuthrich, in origine, questo cioccolatino a forma cilindrica con il ripieno formato da un fondo di caramello liquido e ganache,

ricoperto da un tetto rotondo di nougatine, si chiamava Rigoletto. Ribattezzato Giscard, per omaggiare Valéry Giscard d’Estaing che nei primi anni settanta scopre per caso, entrando qui, questo cioccolatino e se ne innamora al punto da non poterne più fare a meno. L’opera in tre atti di Verdi, rimpiazzata, rimane però nell’aria. Volatilizzati i due Giscard, balzo a procurarmene un altro paio al volo. Al terzo Giscard capisco. Tutto in bocca in un colpo, senza timori, solo così esplode al meglio, adagio, lasciando a galla come relitti della goduria, le sottigliezze croccanti di nougatine. Tre giorni, rivela Egon Kopp – successore fedele di Jean Wutrich nel 1996 – ci vogliono per realizzare questo cioccolatino chiamato così, ufficialmente, dal primo dicembre 1993 con tanto di autorizzazione esclusiva scritta dell’illustre cliente di passaggio conquistato a vita. Il primo per il guscio cilindrico di cioccolato, al latte o nero, il secondo per il ripieno formato dal fondale di caramello e la ganache, il terzo per il coperchio di nougatine. Un’opera in tre atti che assaporo ancora,

La società connessa di Natascha Fioretti La sorveglianza, il cappuccino e Babbo Natale La volta scorsa ci eravamo lasciati con gli aspirapolvere intelligenti aspira informazioni. Ci siamo chiesti perché spesso accettiamo che altri raccolgano e trattino i nostri dati. David Lyon, professore di sociologia alla Queen’s University, tra i più autorevoli studiosi di sorveglianza al mondo, al riguardo ha la sua teoria e ne parla nel suo libro La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori (Luiss Press). Secondo il professore, se oggi ci arrendiamo volontariamente alla sorveglianza e al controllo è perché il capitalismo della sorveglianza ha generato una cultura della sorveglianza. Nel 2013 Baumann parlò di sorveglianza liquida dicendo che questo concetto ben descrive il regime di invisibilità in cui viviamo connotato dal flusso di dati, da agenzie di sorveglianza mutevoli che targetizzano e selezionano ognuno di noi. Se

eravamo abituati ad associare la parola sorveglianza ad ambiti militari o a regimi totalitari, oggi esiste una versione amabile che si diffonde in modi e vie inimmaginabili inserendosi perfettamente nella nostra modernità liquida. Non si palesa minacciosa, è invisibile, remota, si presenta sorridente come la schiuma del cappuccino. La modernità liquida è quella in cui vanno forte la mobilità e il nomadismo (sempre che ce lo si possa permettere) per cui più una cosa è piccola, leggera, veloce, compatibile con i dispositivi mobili più sale nella scala di valore della logica economica del capitalismo della sorveglianza. Un capitalismo come dice Shoshana Zuboff, sociologa e docente alla Harvard Business School, che si nutre dei nostri dati. Noi con la nostra esperienza umana siamo la materia grezza alla quale le grandi aziende tecnologiche attingono per ricavare enormi quantità e varietà

di dati da processare e trasformare in IA allo scopo di prevedere i nostri comportamenti. Prevederli ma anche modificarli perché siano più redditizi per loro. Alla stregua di miniere di diamanti siamo giacimenti di materia grezza da cui estrarre un enorme agglomerato di capitale umano da rielaborare secondo una logica del profitto orientata alla predizione e alla conformazione di comportamenti e abitudini. Non ci sorprende Lyon quando dice che l’era contemporanea è la prima nella storia dell’umanità in cui la sorveglianza è divenuta un tratto caratterizzante della società in cui viviamo. Lo spiegano bene Gabriele Balbi, professore associato dell’IMEG e Philip Di Salvo ricercatore post-doc presso lo stesso istituto dell’USI, nella prefazione al libro di Lyon evidenziando le conseguenze di un controllo sociale che «aiuta il potere politico a conservare le proprie


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Ambiente e Benessere Il mondo degli insetti Una complessa e mirabile organizzazione della vita racchiusa in dimensioni minime

«Turismo urbano illuminista» In attesa dell’atteso ritorno a una normalità, vale la pena tentare di rimetterci in contatto con il mondo pagina 17

Un Artusi in cucina A duecento anni dalla nascita del noto gastronomo italiano, vale la pena di riprendere in mano il suo ricettario

Bere fa bene... così-così Dal festivo vin brûlé bianco a chi dice che una birra al giorno toglie il diabete di torno

pagina 20

pagina 16 pagina 21

Apnea del sonno, che fare?

Neurologia L’approccio ortodontico

all’insegna della multidisciplinarietà

Maria Grazia Buletti La normale respirazione passa per il naso e, nel sonno, può capitare di russare. Ma russare non dipende dal fatto che il naso sia chiuso, come siamo portati a credere: «Russiamo in generale quando vi è un restringimento delle vie aeree e spesso capita anche a naso libero quando vi è un restringimento della faringe dietro la lingua», esordisce il professor Mauro Manconi, caposervizio di Neurologia al Neurocentro della Svizzera italiana e responsabile della Medicina del sonno presso lo stesso istituto. Non dobbiamo identificare il russamento con le apnee notturne perché russare è una cosa, le apnee sono altro: «Quando la via aerea è ristretta si russa, quando si chiude c’è l’apnea; dunque i russatori non sono necessariamente anche apnoici». Parliamo dell’apnea ostruttiva del sonno la cui sindrome (AOS) ha assunto una rilevanza clinica sempre più evidente, tanto che oggi l’approccio a questa patologia è decisamente multidisciplinare, essendo coinvolte specialità quali la neurologia, la pneumologia, la cardiologia, l’otorinolaringoiatria, la chirurgia maxillofacciale, l’odontoiatria e in particolare l’ortodonzia. Chiediamo di spiegarci perché si russa e si fanno apnee nel sonno: «Le apnee ostruttive del sonno sono anomalie della respirazione: episodi ripetuti di ostruzione reversibile, parziale o completa delle prime vie aeree (provocati da un eccessivo rilassamento dei tessuti molli) che si accompagnano alla riduzione di ossigeno nel sangue. Il passaggio dell’aria parzialmente ostacolato attraverso questi tessuti genera una vibrazione e quindi il russamento, che è il principale sintomo accompagnatorio». Nei bambini le cause possono essere molteplici: «Nell’età pediatrica (scuola infanzia o elementare) la principale causa potrebbe risiedere nell’ipertrofia delle tonsille e, più raramente, delle adenoidi; in tal caso, oggi si procede a una adenotonsillectomia totale che dovrebbe poter risolvere il problema». Nell’adulto il neurologo indica altre grosse ragioni, anche se le cause dice non siano così chiare: «Sovrappeso, obesità e retro o micro-gnazia (mandibola arretrata o piccola che porta al restringimento delle vie aeree): sono cause diverse convergenti nello stesso problema». Tutti conosciamo quanto sia fastidioso stare accanto a qualcuno che dorme russando, ma il russare prodot-

to dall’AOS ha delle conseguenze non sottovalutabili per la salute stessa della persona: «Il sonno diventa frammentato e superficiale per la necessità di correggere le apnee (ostruzione completa delle vie aeree superiori) e le ipopnee (ostruzione parziale), determinando uno sforzo respiratorio che a sua volta può incidere sulla frequenza cardiaca e sull’aumento dei valori della pressione arteriosa, sia sistemica sia polmonare», e di questi parziali risvegli, la persona spesso non è consapevole. «L’apnea non permette di raggiungere un sonno profondo ristoratore e causa sonnolenza diurna; fattori che influiscono molto sulla qualità di vita, destinati a evolvere verso quadri clinici più gravi». È il motivo per cui nella medicina del sonno (e in quella odontoiatrica del sonno) questo disturbo ha assunto particolare interesse: «Sia nell’adulto che nel bambino vi sarà una sensazione di sonno non ristoratore con un’eccessiva sonnolenza diurna per l’adulto e un’iperattività nel bambino, deficit cognitivi (disturbi di concentrazione e attenzione) e un aumentato rischio di incidenti stradali o professionali». Per la diagnosi: «Secondo la gravità della valutazione del quadro clinico si decide per un procedimento strumentale: la polisonnografia che consiste di diversi tipi di monitoraggio (adattato all’età del paziente ma preferibilmente da eseguire durante una notte al Centro del sonno, oppure poligrafia a domicilio), i cui tracciati devono sempre essere analizzati da un medico con esperienza in medicina del sonno». L’analisi porta a risultati specifici: «Di norma le apnee non sono transitorie, a meno che non siano conseguenza di problemi di obesità, e allora il procedere diviene multidisciplinare con i nutrizionisti e, al bisogno, la chirurgia bariatrica. Valutiamo un’apnea ostruttiva del sonno quando nell’adulto l’arresto del flusso aereo è maggiore di dieci secondi e il numero di questi eventi respiratori è superiore a cinque per ora di sonno, con sintomi patologici di disturbo. Se il numero di apnee supera le quindici all’ora, il paziente va curato anche se è asintomatico». La terapia può essere personalizzata: «Consiste nel contrastare il collasso delle vie aeree attraverso un sistema che eroga aria a pressione con una mascherina (CPAP), intervento da associare al controllo del peso corporeo». Nel quadro diagnostico si valuta anche la posizione del paziente durante le apnee: «Se si verificano quasi esclu-

Il professor Mauro Manconi, caposervizio di Neurologia al Neurocentro della Svizzera italiana e responsabile della Medicina del sonno presso lo stesso istituto. (Stefano Spinelli)

sivamente in posizione supina, l’uso di presidi specifici che ne ostacolano l’assunzione possono essere una valida alternativa; in casi selezionati si valuta l’intervento di chirurgia maxillo-facciale, più comunemente (se le condizioni anatomiche lo consentono e il paziente è collaborante), si può ricorrere a dispositivi ortodontici che avanzano la posizione della mandibola, aumentando lo spazio nelle vie aeree. Parliamo di dispositivi ortodontici che, su nostra indicazione, sono applicati dai dentisti e odontoiatri con l’intento di mantenere la pervietà delle vie aeree posteriori alla lingua, spostando avanti e/o mantenendo chiusa la bocca, aumentando così la dimensione occlusale verticale».

La medicina del sonno, relativamente nuova nello studio delle apnee ostruttive, collabora con dentisti e odontoiatri a loro volta formati per introdurre questa tecnica i cui risultati andranno monitorati dagli esperti dei disturbi del sonno attraverso un monitoraggio strumentale che ne segua l’evoluzione: «Oggi abbiamo orientato i dentisti e gli odontoiatri su questa tecnica e sulle linee guida internazionali, in modo che possano decidere in coscienza di procedere o di inviare il paziente a uno specialista più esperto nel settore». Certa è la collaborazione fra le parti, unitamente al fatto che gli odontoiatri, per via delle visite di controllo periodiche, hanno la possibilità di in-

tercettare precocemente i segni e sintomi dell’OSA: «Secondo le linee guida sono loro le sentinelle epidemiologiche, mentre la valutazione attraverso la polisonnografia, la proposta terapeutica e il monitoraggio strumentale nel tempo vanno concertati con gli specialisti della Medicina del sonno». Il trattamento odontoiatrico per i disturbi del sonno è dunque favorito dalla collaborazione e dalla multidisciplinarietà con gli specialisti dei disturbi del sonno, i quali si occupano di diagnosticare attraverso un’adeguata strumentazione la portata patologica, consigliando una terapia che, quando odontoiatrica, viene applicata dai colleghi dentisti e odontoiatri.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Ambiente e Benessere

Insetti: dal gigante al piccino

Donare un tronchetto della felicità

Entomologia La Natura è da ammirare soprattutto

Mondoverde Il miglior auspicio

nelle sue dimensioni più piccole, come diceva Linneo

di quest’anno è quello di poter augurare lunga vita

Anita Negretti

Muschi fontinali con comunità di tre specie di Ptiliidi; e Ptinella aptera lunga 0,7 millimetri. (Alessandro Focarile)

II più grande insetto coleottero finora conosciuto è un gigantesco cerambice longicorne dell’Amazzonia. Misura 16,5 centimetri di lunghezza, quanto un gattino, e il suo nome scientifico è Titanus giganteus. Nonostante le sue ragguardevoli e minacciose dimensioni è un pacifico succhiatore della linfa che scorre dagli alberi della selva tropicale. È munito di poderose mandibole che possono trattenere un peso di otto chilogrammi, e in grado di tranciare un dito umano, come potrebbe fare un castoro irritato. La larva di Titanus giganteus è un salsicciotto lungo circa 20 centimetri, ricco di grassi e proteine, una vera prelibatezza fritta, apprezzata dagli abitanti del luogo. Pare abbia il sapore dei gamberoni, ma è più tenero. Cosa mangia un essere così grassottello? Si ciba di legno marcescente «imbottito» con microscopici funghi. All’altro estremo delle dimensioni, entriamo nel regno della miniatura, e dei milligrammi. I più piccoli insetti coleotteri, attualmente conosciuti a livello mondiale, sono gli Ptiliidi, detti «piumati» a causa delle loro ali delicatamente sfrangiate con sottili piume. La loro statura varia da 0,25 a 1,4 millimetri. Sono quindi più piccoli del più grande Protozoo, un organismo primitivo e unicellulare. Come tutti i Coleotteri, gli Ptiliidi hanno una metamorfosi completa: dall’uovo alla larva, alla ninfa e all’adulto. E tutto questo fervore di vita si concretizza entro qualche decimo di millimetro! Nel loro corpo è racchiuso un completo, complesso e razionale organismo di vita grazie al quale sono svolte le facoltà della vista, del tatto e

dell’olfatto. Gli Ptiliidi hanno occhi composti ben sviluppati. Si spostano velocemente, si nutrono di spore dei funghi, delle felci e dei muschi, contribuendo alla loro diffusione. Sono parte del plancton aereo grazie alle loro ali delicate, che consentono loro di spostarsi a grandi distanze. Una specie, che popola gli ammassi spiaggiati della Poseidonia – un vegetale marino – ha una diffusione cosmopolita: dalle rive del Mediterraneo fino a quelle dell’Australia. Pur popolando spesso vaste aree geografiche, gli Ptiliidi vivono entro ambiti ecologici specializzati e ben definiti. Questi minuti esseri sono assenti negli ecosistemi prettamente montuosi, oltre i 1800 metri di quota. Essi popolano qualsiasi tipo di ammasso vegetale più o meno marcescente. Tipici esempi sono: 1. gli ammassi spiaggiati di Poseidonia – 2. lettiera di pioppi – 3. lettiera di querce e castagni; in questa biosede si possono rinvenire fino a 320 esemplari di Acrotrichis intermedia in 1 chilogrammo di lettiera. – 4. di faggi – 5. di ontani – 6. muschi fontinali presso le sorgenti (Philonotis) – 7. polipori e altri funghi macro e microscopici e muffe – 8. fieno marcescente – 9. ammassi di paglia indigerita (deiezioni di bovini) – 10. formicai – 11. sotto le cortecce delle conifere – 12. vegetazione palustre: cespi di canne (Phragmites) e di lische (Carex). Qualsiasi vegetale, dallo stelo d’erba all’albero di quaranta metri d’altezza, è costruito con una struttura di sostegno costituita di cellule colonnari di lignina e cellulosa. Le muffe e gli altri funghi hanno la funzione di frammentare e demolire queste fibre. Gli Ptiliidi hanno il compito di digerire e veicolare le spore fungine. Favo-

rendo in tal modo la loro dispersione nei differenti tipi e strati del grande mondo vegetale. Duecentoventi specie di Ptiliidi sono conosciute dell’Eurasia, il novanta per cento delle quali sono state descritte nel corso del 1800, a dimostrazione che i nostri predecessori entomologi avevano saputo utilizzare bene il microscopio, questa vera fabbrica di meraviglie. Nel 1841, l’Abate Oswald Heer (originario di Glarona) descriveva Pteryx suturalis (lungo appena 0,7 millimetri). Attualmente, la fauna elvetica annovera sessanta specie: dai muschi fontinali di Vergelletto, ai formicai del Lucomagno, dai pioppeti di Magadino, ai cariceti (terreni perlopiù paludosi) del Lago di Neuchâtel. È probabile che gli Ptiliidi siano parassitizzati dal più piccolo insetto attualmente conosciuto in Svizzera («Azione» 7 agosto 2017), una microscopica vespa parassita: lo scelionide Baeus castaneus (0,6 millimetri di lunghezza) che depone il suo unico uovo nell’uovo di altrettanto piccoli insetti. Da esso nascerà una vorace larva che si farà premura di divorare l’uovo parassitizzato, una fonte alimentare ricca di sostanze nutritive. Gli Ptiliidi posseggono gli stessi organi presenti nel gigantesco cerambice longicorne delle selve amazzoniche. Essi si spostano, volano, assumono e digeriscono cibo (le spore), respirano, si riproducono, grazie agli stessi organi preposti ad assolvere queste funzioni vitali. Vi sembra poco?

I «tronchetti» migliorano la qualità dell’aria e limitano l’inquinamento domestico, filtrando la formaldeide, lo xilene e il tricloroetilene Il fusto non cresce ma la pianta si sviluppa in altezza grazie al suo cespo di foglie e sono molto decorativi i vasi contenenti tre o quattro tronchi di diverse altezze. Durante l’estate, producono piccoli fiori bianco giallastri, raggruppati

Bibliografia

R.A. Crowson, The Classification of Coleoptera, Academic Press (London) 1984, 128 pp.

Mokkie

Alessandro Focarile

Un’idea per un buon augurio dopo un anno travagliato dalla comparsa e persistenza del Coronavirus? Regalare una pianta verde, dall’aspetto sempre sano e rigoglioso, come Dracaena fragrans, conosciuta con il simpatico nome di Tronchetto della felicità grazie alla sua considerevole longevità. Appartenente alla famiglia delle Agavaceae, è originario delle foreste tropicali dell’Africa centrale, dove se viene lasciato indisturbato in natura raggiunge i dodici metri, mentre da noi in appartamento arriva solo ai due metri (che non sono comunque pochi) dopo parecchio tempo. Ha un alto valore estetico e ornamentale, si adatta alla vita in casa o in ufficio e non è per nulla difficile da coltivare. Si presenta con un fusto semi legnoso di forma cilindrica rivestito di corteccia color grigio-bruno. Dalla cima dei fusti nudi si sviluppano più ciuffi di foglie lunghe in media 40-50 cm, incurvate verso il basso, con variegature più o meno appariscenti.

in infiorescenze che durano per pochi giorni. Il vero punto forte di queste piante, però, è dato dalle foglie lucide e brillanti, specie se lavate mensilmente o nebulizzate per togliere la patina di polvere che le rende meno appariscenti. Tra le varietà più diffuse in commercio troviamo la «Massangeana», che è forse il tronchetto della felicità più venduto grazie alle larghe striature longitudinali che segnano le foglie dal color giallo oro, e «Lindenii» con fasce giallo limone ai margini delle foglie verdi. Un aspetto molto importante è il grande pregio di poter migliorare la qualità dell’aria che respiriamo e limitare l’inquinamento domestico, riuscendo a filtrare la formaldeide, lo xilene e il tricloroetilene, quindi possono essere le benvenute anche in ufficio, creandoci un angolino tropicale tra il PC e la scrivania. La Dracaena fragrans predilige luoghi con luce indiretta, e infatti non tollera i raggi di sole diretti perché causano il disseccamento delle foglie; al contrario, in stanze troppo buie, deperisce velocemente. Un buon consiglio per farla vegetare al meglio consiste, dove possibile, nel portarla in giardino o in terrazzo in zone schermate dal sole, per tutta l’estate: beneficerà di piogge e aria fresca, ritornando splendida in settembre, periodo ideale per poterla riportare in casa. È una pianta che ama temperature alte, tra i 22 e i 25 °C, non sopportando temperature al di sotto dei 15-17 gradi. Necessita di scarse irrigazioni ma costanti, specie in primavera e in estate, ma senza dimenticare di eliminare l’acqua in eccesso nei sottovasi, per evitare la formazione di marciumi radicali generati da funghi. Avendo un apparato radicale ridotto, i rinvasi sono molto rari per queste piante, mentre è opportuno rinnovare il terriccio superficiale ogni due anni con substrato fresco e concimato.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Ambiente e Benessere

Tempo di regali

Resistenza collettiva

di nanoturismo, mentre easyJet si reinventa con opere benefiche

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente Dall’iperturismo all’immobilità totale, auspicando un futuro

Bussole Inviti a

«Siamo Roberto Barbiero, climatologo e divulgatore scientifico, e Valentina Musmeci, scrittrice e fotografa. Ci conosciamo da diversi anni e la preoccupazione, che condividiamo, per gli effetti del riscaldamento globale ci ha spinto a denunciare quanto sta accadendo attraverso la narrazione di storie da tutto il mondo». Vista sulla Cattedrale di St. Paul di Londra dall’interno vuoto del palazzo Bloomberg. (The wub)

Claudio Visentin A Londra, il 17 e 18 dicembre, strane figure hanno suonato alle porte di alcune case, ma non erano gli elfi di Babbo Natale. Erano invece gli assistenti di volo easyJet, in uniforme di servizio e mascherina rossa, con il loro caratteristico carrello delle bevande e degli snack, quello che siamo abituati a veder scivolare tra le file dei sedili. L’iniziativa benefica, organizzata insieme a Deliveroo, è servita a ricordare il piacere di volare in un momento di forzata immobilità e al tempo stesso a tenere occupati gli equipaggi. Che contrasto! Un anno fa, in questi stessi giorni, si discuteva come limitare l’iperturismo (overtourism). Barcellona, con il suo sindaco Ada Colau, era alla testa delle città (Amsterdam, Copenaghen, Venezia) decise a difendere la qualità della vita dagli eccessi del turismo di massa (spinto proprio dalle compagnie low cost come easyJet). Oggi le rambla di Barcellona sono di nuovo riservate al passeggio cittadino, certo con qualche preoccupazione economica in più: tutti hanno scoperto di dipendere dal turismo, direttamente o indirettamente, e se il turismo di massa da un certo punto di vista impoveriva la città, l’arricchiva dall’altro. Più tempo libero e una migliore qualità della vita o una maggiore sicu-

rezza economica? Finché non cambieremo paradigma, il vecchio dilemma è sempre d’attualità, anche se l’epidemia ha avuto il merito di porre la questione con particolare chiarezza. Intanto, anche in un momento così particolare i bilanci di fine anno sono quasi un riflesso condizionato. In attesa di capire i tempi di somministrazione e l’efficacia del vaccino, la sensazione prevalente è che comunque un ritorno al passato puro e semplice sia impossibile. La crisi è stata troppo lunga e ha cambiato alcuni meccanismi fondamentali. Per fare solo un esempio le compagnie di crociera (trenta milioni di passeggeri nel 2019, ora trecento navi ferme e un miliardo di dollari di perdite al mese) pensano a navi più piccole, ma ci vorranno anni per costruirle. Intanto per rispettare le norme di distanziamento sociale i giganti del mare dovranno adattarsi a un uso diverso da quello pensato dai loro progettisti (e non sarà facile dal momento che un’occupazione ridotta non consente profitti). Anche gli aeroporti cercano di immaginare una nuova normalità; in questo caso le trasformazioni post Covid dovranno tener conto dell’emergenza climatica, probabilmente più seria dell’epidemia stessa. I piani di recupero dell’Unione europea hanno requisiti ambientali stringenti, impossibili da soddisfare nello scenario attuale.

Tutti questi cambiamenti, per quanto giganteschi, restano comunque esteriori. In forme spesso sotterranee nella forzata immobilità di questi mesi, ha preso corpo anche un ripensamento del nostro modo di viaggiare, facendo lievitare inquietudini già presenti. Negli anni Cinquanta, quando il turismo cominciò a cambiare scala aprendosi alle masse, gli intellettuali lanciarono subito un segnale d’allarme: il prevalere del consumo sull’esperienza stava trasformando il viaggio in un prodotto come tanti, snaturando il suo significato stesso di scoperta, incontro, trasformazione interiore. Ma poi il turismo ha continuato a crescere, incurante dei suoi detrattori, come sospinto da una forza inarrestabile. E in parte ha anche dimostrato di sapersi migliorare con proposte più raffinate del semplice turismo balneare. Anche per questo le critiche sono state presto archiviate come manifestazioni di snobismo (e un po’ naturalmente lo erano), la difesa di un privilegio riservato alle classi colte. L’epidemia è stato un brusco risveglio. Ci siamo chiesti: negli anni scorsi abbiamo viaggiato sulla superficie del mondo o sulla superficie delle cose? Siamo stati superficiali? Se il viaggio, come il Natale, è un Tempo di regali (titolo dello straordinario libro di viaggio di Patrick Leigh Fermor), noi quali doni abbiamo meritato? Forse, se crediamo che viaggiare

sia ancora possibile, nel senso più profondo del termine, dobbiamo imparare da capo la grammatica e la sintassi del viaggio, quasi fosse diventato per noi una lingua straniera. Prima di spingerci lontano, dobbiamo guardare con occhi diversi quello che abbiamo intorno. Due architetti di Lubiana, Aljoša Dekleva e Tina Gregorič, hanno coniato il termine nanoturismo per descrivere un viaggio a corto raggio, condiviso, dal basso verso l’alto. Sempre a Londra, dove abbiamo cominciato questo articolo, David Pearl ha fondato «La saggezza della strada» (Street Wisdom): volontari locali accompagnano i visitatori per le strade della capitale inglese, chiedendo loro di sintonizzare i sensi con il mondo che li circonda e di porsi una domanda sulla vita. Perché volare fino in India e cercare in un ashram la saggezza di un guru se questa è a disposizione ogni giorno, letteralmente all’angolo della strada? Pearl lo chiama turismo urbano illuminista: «Quando lo mettiamo in pratica, per prima cosa spostiamo la nostra attenzione dall’interno verso l’esterno, da noi stessi a quello che ci circonda; ponendo una domanda, ci sincronizziamo con il mondo, gli diamo significato e stabiliamo una connessione. È sorprendente scoprire che la saggezza e i maestri sono ovunque e quindi anche intorno a noi».

Una di queste storie l’avete letta proprio su queste pagine: Valentina Musmeci ha raccontato la difficile esistenza degli allevatori Navajo in Arizona, dopo anni di siccità. Ma ovunque volgano lo sguardo, gli autori trovano situazioni simili perché, se il turismo è tra i maggiori inquinatori, è anche vero che proprio viaggiando si comprendono meglio gli effetti del cambiamento climatico. Dalla Patagonia alla Finlandia, dall’Uganda al Messico, dal Libano alla Sicilia muta l’apparenza, non la sostanza della questione. Emissioni di gas serra, allevamento e agricoltura intensivi, deforestazione, cambio d’uso del suolo… almeno uno di questi problemi è sempre presente. Come scrive Luca Mercalli nella prefazione «il riscaldamento globale è spesso ritenuto un fenomeno astratto, lontano, che arriverà in un futuro non meglio precisato e riguarderà qualcun altro, quando non addirittura ignorato o negato a priori. Invece è già in atto e incide sulla vita di milioni di persone». Il Covid, nella sua tragedia, è stato anche una gigantesca distrazione da questo che rimane il problema principale del nostro tempo. E i protagonisti di questo libro – agricoltori, allevatori, attivisti, giornalisti, ricercatori, responsabili di ONG, tra loro molte donne – indicano anche una possibile via d’uscita in un rinnovato spirito di comunità e in forme di resistenza collettiva. / CV Bibliografia

Roberto Barbiero e Valentina Musmeci, Storie di clima. Testimonianze dal mondo sugli impatti dei cambiamenti climatici, Ediciclo, pagg. 208, € 18.–.

Libri per giocare e giochi da leggere sotto l’albero Editoria Nuovi consigli biblio-ludici Ennio Peres Il gioco enigmistico di Susanna

Nugnes (Valigie Rosse, pp. 116, € 15.40) Un autorevole e pratico manuale enigmistico che si pone l’obiettivo di risvegliare nel lettore una mente elastica e vivace. Ricco di esempi e di giochi da risolvere, il libro consente di compiere un coinvolgente percorso nel mondo dell’Enigmistica, mettendo in risalto le innumerevoli sfaccettature di questa affascinante Arte, dalla storia millenaria e dalle implicazioni creative e intriganti. L’autrice, figlia del celebre enigmista, Lilianaldo, insegna Letteratura Italiana all’Università di Pisa, dove ha creato un Laboratorio per anziani, denominato Le parole Giocattolo.

Roma enigmistica di Federico Mussano (MMC Edizioni, pp. 176, € 18.–) Un avvincente saggio che mostra come si è giocato con le parole (e come si gioca ancora), fin dai tempi antichi, a Roma, in forma popolare o erudita. L’autore (che si definisce: ingegnere per professione ed enigmista per passione) compie un lungo viaggio temporale, all’interno della Città Eterna, che parte dalla famosa iscrizione magica del cosiddetto quadrato Sator, passando per gli stemmi nobiliari del Medioevo e del Rinascimento, fino agli acrostici composti da papa Paolo VI e, più recentemente, da papa Francesco.

Numeralia di Maurizio Codogno

(Codice Edizioni, pp. 206, € 16.–) Un originale trattato sulla natura dei numeri. L’autore (che si definisce matematto divulgatore) ritiene che i numeri possiedano una loro vita anche al di fuori della Matematica e che, quindi, possano spingere a osservare il mondo con occhi diversi e, magari, ritornare alla Matematica attraverso una via più divertente di quella tradizionale scolastica. Il libro, tra l’altro, spiega perché Dante parla del numero 515 e Guareschi del numero 23; racconta di come i 99 Esercizi di stile di Queneau e Le mille e una notte siano due facce della stessa medaglia. Riporta le canzonette, di Paperino, Topolino e della Banda Bassotti, ma affronta anche numeri enormi come un googol.

La Matematica è un’Opera d’Arte di Giovanni Filocamo (Gribaudo, pp. 380, € 17.90) Un ponderoso saggio che analizza le più celebri opere d’arte, alla ricerca delle strutture matematiche che supportano tanta bellezza. L’autore (project manager di Matefitness – la palestra della Matematica) prende in considerazione, tra l’altro, i profili delle spirali etrusche, la sezione aurea utilizzata nei dipinti di Botticelli, i quadrati e i rettangoli di Mondrian, le ellissi dei ritratti femminili di Amedeo Modigliani, l’innovativa visione tridimensionale di Picasso, le linee di Joan Miró e le spezzate di Kandinskij. Il libro mostra di essere capace di parlare ai cultori della Matematica e agli estimatori dell’Arte,maancheaisemplicicuriosi.

Lo sport tradito

di Daniele Poto (Edizioni Gruppo Abele, pp. 208, € 14.–) Un nutrito dossier di episodi, nei quali lo sport è stato tradito e a vincere non è stato il migliore, ma chi ha imbrogliato di più. Il libro svolge un’analisi puntuale del lato oscuro della disciplina sportiva, dove storie di campi da gioco e di pedane si intrecciano con le stanze del potere e le aule giudiziarie. Ma compie anche una denuncia nei confronti di alcuni personaggi ambigui che danno lezioni di vita come opinionisti, affidandosi alla scarsa memoria dei tifosi. L’autore è impegnato da anni nell’associazione Libera, fondata da Don Luigi Ciotti, occupandosi di legalità, socialità, sport e gioco d’azzardo.


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Cosa rappresenta Candida? Da 70 anni Candida è l’innovativa linea di prodotti Migros per la cura e l’igiene orale, che i dentisti non possono che consigliare. I prodotti di alta qualità aiutano a prevenire i problemi dei denti e della bocca e offrono il dentifricio adatto per quasi tutte le esigenze e per tutta la famiglia. L’efficacia dei prodotti specificamente sviluppati è stata confermata da studi clinici o scientifici. Perché Candida propone quattro differenti dentifrici sbiancanti? Vogliamo permettere ai nostri consumatori di trovare il dentifricio sbiancante adatto a seconda delle differenti esigenze. Sia nel caso di denti sensibili, se si desidera un risultato immediato, con carbone attivo o dal potere sbiancante, noi abbiamo il dentifricio adatto. E grazie alla Candida White Optic InstaShine Pen è possibile ottenere in ogni momento un sorriso smagliante.

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Quali le differenze tra i dentifrici sbiancanti? La gamma Candida contempla quattro dentifrici sbiancanti, che sono stati sviluppati per poter soddisfare esigenze diverse. Candida White Diamond è particolarmente adatto per i denti e i colletti sensibili, in quanto ha un valore RDA basso. Il valore RDA indica il potere abrasivo sui denti. Grazie al basso valore RDA della polvere di diamante, questo dentifricio risulta delicato sui denti sensibili, pur avendo un effetto sbiancante.

Candida White Micro Crystals rimuove in modo delicato ma efficace la placca grazie alla presenza dei micro cristalli, restituendo ai denti un bianco smagliante. Candida White Black Pearls contiene nella sua formulazione capsule di carbone attivo che scoppiano mentre si spazzolano i denti, attivando in tal modo la loro azione pulente e rimuovendo con delicatezza le macchie colorate dai denti. Come è possibile che il dentifricio Candida White Diamond, con il

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Candida White Optic ha un impatto immediato e già dopo la prima applicazione i denti appaiono più bianchi. Un uso regolare potenzia sul lungo periodo l’effetto sbiancante dei denti.

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Olivia Arnold, Responsabile ricerca e sviluppo nei settori cosmesi naturale, cura del corpo e igiene orale per il Gruppo Mibelle, e Florence Fässler, product manager e key account manager Candida per la Svizzera.

suo basso valore RDA, possa rimuovere la placca e contribuisca a sbiancare i denti? La sostanza abrasiva contenuta nel dentifricio Candida White Diamond è la polvere di diamante. La granulometria della polvere di diamante può essere regolata in modo molto fine,

ciò che permette di pulire in modo ottimale e lucidare delicatamente i denti. Un meccanismo d’azione che assicura una pulizia delicata della superficie dei denti e il cui effetto sbiancante è misurabile. Questi risultati sono stati clinicamente testati e confermati.

I dentifrici sbiancanti di Candida possono essere utilizzati quotidianamente mattino e sera? Sì, tutti i dentifrici Candida posso senza esitazioni essere utilizzati due volte al giorno. Tuttavia, se i denti sono tendenzialmente sensibili, è consigliabile utilizzare Candida White Diamond.

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Ambiente e Benessere

Un filosofo ai fornelli

Gastronomia Ancora oggi, a distanza di 130 anni dalla sua pubblicazione, il ricettario La scienza in cucina e l’arte

Alessandro Zanoli Artusi nasce duecento anni or sono a Forlimpopoli, cittadina di Romagna che, come molte altre di quella regione, ospita con fierezza il proprio castello nella piazza principale. Ancora oggi, chi dalla piazza si guarda attorno scorge sulle case circostanti le immancabili lapidi a ricordo di Andrea Costa, di Aurelio Saffi e di altri celebri personaggi che hanno portato sulla scena politica italiana la forza e la tempra sanguigna di questa popolazione. Pellegrino Artusi invece, poco più in là, ha un intero palazzo per sé: anzi, un vero e proprio istituto. Nella Fondazione Casa Artusi (in via Andrea Costa, appunto) si conservano, insegnano e tramandano i segreti preziosi delle sue ricette. A due secoli dalla nascita, la sua figura è ancora vitale, preservata, curata e, verrebbe da dire, molto più viva di quella degli altri suoi illustri conterranei celebrati in effigie. Pellegrino Artusi a modo suo è stato certamente un personaggio storico. Volendo essere un po’ dissacranti e superficiali possiamo paragonarlo al Manzoni. Tanto questi aveva concepito la sua grande opera romanzesca come uno strumento letterario utile all’unificazione linguistica italiana, tanto il forlivese aveva pensato alla sua raccolta di ricette La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene come a un manuale pratico e salutifero, utile per fornire alla

popolazione italiana precetti igienicoalimentari moderni. L’accoglienza degli editori fu, all’inizio, diffidente. Il già ultrasettantenne autore dovette accollarsi personalmente le spese di pubblicazione per il suo volume, nel 1891. Cosa incredibile: si tratta di uno dei successi editoriali degli ultimi 130 anni, con milioni di copie vendute. «Vai a prendere l’Artusi che oggi cuciniamo i passatelli» mi diceva mia nonna. Il suo Artusi era una specie di malloppo di fogli ingialliti e stropicciati, sfuggiti dalla rilegatura e tenuti insieme da un elastico. Oltre a ciò, alle varie pagine disperse si erano aggiunti foglietti, annotazioni sul retro di qualche busta, persino santini e fiori secchi. L’Artusi di mia nonna era una sorta di tesoro di famiglia, in cui conservare il repertorio dei piatti che facevano la felicità dei suoi congiunti. Del resto, il volume dell’Artusi era il classico regalo di matrimonio, che le madri consegnavano alle proprie figlie come viatico il giorno delle nozze. La chiave di un matrimonio felice. In una certa porzione dell’Italia centrale, il lavoro del buon Pellegrino si è dunque trasformato per decenni nel punto di incontro dei desideri gastronomici, delle passioni e, perché no, anche delle discussioni. «Lo dice l’Artusi» era una difesa frequente in tema alimentare, una dichiarazione di ortodossia e un punto d’appoggio inattaccabile nei ragionamenti sul cibo.

Alessndro Zanoli

di mangiar bene del simpatico Pellegrino Artusi ci racconta la migliore cucina italiana

È vero che dalla sua, il compilatore poteva vantare una autorevolezza rara, fatta di precisione e di buon senso. L’ottimo italiano con cui le ricette sono state redatte era frutto di una ricerca espressiva non indifferente. «Diffidate

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dei libri che trattano di quest’arte: sono la maggior parte fallaci o incomprensibili, specialmente quelli italiani; meno peggio i francesi: al più, tanto dagli uni che dagli altri, potrete attingere qualche nozione utile quando l’arte la conoscete (…). Il miglior maestro è la pratica sotto un esercente capace; ma anche senza di esso, con una scorta simile a questa mia, mettendovi con molto impegno al lavoro, potrete, io spero, annaspar qualche cosa». Già dall’introduzione Artusi si rivela simpatico: sembra di leggere Pinocchio, o Le avventure di Ciuffettino, altri libri che mia nonna aveva nella sua piccolissima libreria. Ma il meglio stava nel modo in cui trattava le ricette. Lungi dall’essere semplici raccolte di istruzioni, molte di loro erano dei veri pezzi di bravura letteraria. Veniva voglia di leggere solo per gustarne (eh, sì) il sapore del racconto. La mia preferita è sempre stata quella del polpettone: «Signor polpettone, venite avanti, non vi peritate; voglio presentare anche voi ai miei lettori. Lo so che siete modesto e umile perché, veduta la vostra origine, vi sapete da meno di molti altri; ma fatevi coraggio e non dubitate che con qualche parola detta in vostro favore troverete qualcuno che vorrà assaggiarvi e che vi farà forse anche buon viso». Insomma, l’Artusi, con la sua bonomia ma anche con la sua precisione, in molte case è stato un membro della famiglia. Attento alle esigenze di tutti, nell’appendice del volume si trova addirittura il capitolo Cucina per gli stomachi deboli, in cui fornisce indicazioni dietetiche sui «cibi che a mio parere, più convengono ad uno stomaco fiacco e di non facile digestione». Oltre a questo, Artusi ha approntato per ogni mese dell’anno due menu speciali (di sette portate l’uno…) da utilizzare per imbandire la tavola dei giorni di festa «semplice». Per quelle «comandate», invece, ha annotato il menu più classico, quasi come una regola gastronomica che possa servire da promemoria e da fissazione della tradizione. Vale la pena qui, vista l’occasione delle Feste, riportare quelli specifici del periodo. Festa di Natale

Minestra in brodo: Cappelletti all’uso di Romagna N. 7. Principii: Crostini di fegatini di pollo N. 110. Lesso: Cappone, con uno Sformato di riso verde N. 245. Rifreddo: Pasticcio di lepre N. 372.

Arrosto: Gallina di Faraone N. 546, e uccelli. Dolci: panforte di Siena – Pane Certosino di Bologna – Gelato di mandorle tostate N. 759» Capodanno

Minestra in brodo: Composto dei Cappelletti di Romagna N. 7, senza sfoglia. Fritto: Cotolette imbottite N. 220. Umido: bue alla brace N. 298, con carote, o cotolette coi tartufi N. 312. Rifreddo: Pasticcio di cacciagione N. 370. Arrosto: Anatra domestica e Piccioni N. 528, con insalata. Dolci: Gateau à la noisette N. 564 – Dolce Torino N. 649 Da notare che il numero identificativo è quello d’ordine delle ricette stesse, a cui la massaia di turno doveva fare riferimento scartabellando l’indice del volume. Ma a che cucine, a che cuoche si rivolgeva l’Artusi? Qui sembra di individuare un altro tratto nell’originalità del manuale. L’arte in cucina sembra essere adatto alle famiglie di campagna e a quelle di città. E se le prime potevano trovare gli ingredienti direttamente nei loro poderi e nelle fattorie, la nuova piccola e media borghesia italiana, sul finire del 900, stava approfittando del benessere portato dall’onda dell’industrializzazione e della modernizzazione: poteva quindi permettersi capponi e lepri, anatre e piccioni per festeggiare come da programma. Leggendone i menu oggi ci rendiamo conto di come quel gusto fosse schietto e un po’ rustico; tutt’altro che vegano, tra l’altro. Il vocabolario e il rituale alimentare sono molto mutati: oggi nessuno indulgerebbe più in pranzi e cene da sette portate. Tipi di piatti come il «rifreddo» (preparazioni a base di carne da mangiare fredda) non sono più portate «obbligatorie». Ma tant’è: corretto e opportunamente tradotto secondo le attuali abitudini, un libro come quello di Artusi può sicuramente adattarsi ai nostri gusti e proporsi ai nostri palati, dopo 130 anni dalla sua pubblicazione. Pellegrino sarebbe contentissimo di saperlo, ma probabilmente lo immaginava: da buongustaio qual era ha saputo scegliere e selezionare le ricette migliori della sua epoca, che sono poi quelle della cucina di sempre. E perlomeno oggi il suo libro possiamo ancora apprezzarlo magari solo come lettura (detto tra noi: la ricetta dei passatelli, comunque, funziona…).


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Ambiente e Benessere

Una pinta contro il diabete?

La nutrizionista Non si può dire di no, ma nemmeno che sia un principio verificato e confermato;

sempre meglio limitare l’alcol, anche durante le feste Laura Botticelli Buongiorno Laura, è vero che la birra previene il diabete? / Enea Buongiorno Enea, la ringrazio per la domanda che potrebbe interessare molti lettori. Esistono diversi studi che confermano che la birra possa prevenire il diabete di tipo 2. Una ricerca spagnola del 2010, ad esempio, riporta che bere fino a una pinta (0,4 dl) di birra al giorno può ridurre il rischio di diabete di tipo 2, oltre a diminuire l’ipertensione e aiutare le persone a perdere peso.

Lo studio evidenzia che può aiutare a combattere il diabete un moderato apporto di birra combinato con l’esercizio fisico e una dieta mediterranea contenente pesce, frutta, verdura e olio d’oliva. Anche più recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista medica europea, Diabetologia, ha intervistato più di 70mila partecipanti danesi sulle loro abitudini di bere nel corso di cinque anni. Degli 859 uomini e delle 887 donne che hanno sviluppato il diabete in questo periodo – di tipo 1 o di tipo 2 – quelli che bevevano spesso sono emersi come i meno a rischio. Il rischio più basso di diabete è stato osservato a 14 bevande a set-

Migusto La ricetta della settimana

Pixabay.com

Anche se alcuni studi sembrano interessanti è meglio rimanere cauti e attenersi alla regola della moderazione

timana negli uomini e 9 bevande a settimana nelle donne. I ricercatori hanno concluso che bere moderato ma regolare potrebbe ridurre il rischio di diabete per una donna del 32% e il rischio per un uomo del 27%, rispetto

a quelli che bevono meno di una volta alla settimana. Sia per gli uomini sia per le donne, il vino ha dato una riduzione del rischio di oltre il 25% e la birra del 21%. Al contrario, gli spiriti chiari sembrano aumentare i rischi

Vin brûlé bianco Bevanda Ingredienti per 4 persone: 1 limone · 20 g di zenzero · 1 baccello di vaniglia · 1,5 dl di succo di mandarino · 1 anice stellato · 2 c di sciroppo d’agave o di miele di fiori liquido · 7 dl di vino bianco, ad esempio riesling · 5 cl di gin.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Dimezzate il limone e spremetene una metà. Tagliate lo zenzero a fettine sottili. Incidete il baccello di vaniglia per il lungo ed estraete i semini raschiandoli. Portate entrambi a ebollizione con lo zenzero, il succo di mandarino e di limone, l’anice stellato e lo sciroppo d’agave. 2. Aggiungete il vino e lasciate insaporire a fuoco basso per circa 5 minuti. 3. Tagliate l’altra metà del limone a fettine sottili e distribuitele nei bicchieri. 4. Filtrate il vin brûlé nei bicchieri con un colino a maglie fini e aggiungete il gin. 5. Servite subito. Preparazione: circa 10 minuti; riposo: circa 5 minuti. Per porzione: circa 0 g di proteine, 0 g di grassi, 19 g di carboidrati,

220 kcal/950 kJ.

delle donne di sviluppare il diabete dell’83%. Posso quindi rispondere di sì alla sua domanda? In alto i calici di birra? Mi dispiace, non posso dare una risposta affermativa ma neanche ne-

gativa. Chi lavora in ambito sanitario lo sa, «purtroppo» (o «per fortuna» a dipendenza delle situazioni) non siamo tutti uguali, quindi è sempre consigliato fare attenzione perché l’impatto sulla salute del consumo di alcol può variare da persona a persona e anche questi studi non dovrebbero essere presi come un «via libera» per il consumo (non per forza eccessivo) di alcol. Il rischio di diabete di tipo 2 è, infatti, complesso. Vi contribuiscono diversi fattori, tra cui la storia famigliare, l’origine etnica, l’età e il sovrappeso. Ribadisco pure che nello studio spagnolo era preso in considerazione anche il movimento e l’alimentazione sana, fattori che già da soli possono prevenire il diabete, l’ipertensione e contribuiscono a perdere peso. Quindi, per concludere, anche se questi studi sembrano interessanti è meglio rimanere cauti e attenersi alle linee guida generali sulla sana alimentazione che riporto: gli uomini sani non dovrebbero consumare più di due bicchieri di bevande alcoliche al giorno, mentre le donne sane non più di uno. Si raccomanda di astenersi dall’alcol almeno alcuni giorni alla settimana. Vi auguro delle Serene feste e… bevete alcolici con moderazione! Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


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Ambiente e Benessere

Il capitano vuole portare la sua nave in acque più tranquille Sport Dal prossimo 1. gennaio, il 58enne chiassese Fabio Corti, sarà il primo ticinese

a presiedere la Federazione svizzera di ginnastica Giancarlo Dionisio In queste ultime settimane si è parlato molto di ginnastica, soprattutto per le esternazioni di alcune giovane ragazze – insediate al Centro sportivo nazionale di Macolin – che hanno rivelato ai media di essere state vittime di mobbing, pressioni psicologiche, violenza verbale e a volte anche fisica. Fabio Corti, da tre anni membro del Direttivo della federazione nazionale, si rende conto del momento delicato per assumere il timone. Tuttavia, la sua decisione è presa. Si tratta di una scelta che risale a inizio 2019, quindi, in modo coerente, il futuro presidente, conferma la sfida nonostante le acque burrascose. Indipendentemente dai recenti sviluppi, sarà un compito molto impegnativo, pari a un onere lavorativo del 50 per cento, che porterà Corti spesso lontano da casa, durante i weekend. Con i suoi oltre 380mila affiliati, distribuiti in 3031 società, si tratta della più grande entità sportiva che troviamo su suolo elvetico. Conta 43 collaboratori di Back Office, 350 volontari a livello nazionale, 18 allenatori professionisti per l’élite, senza enumerare le migliaia di monitori e dirigenti locali. Con un budget globale di oltre 16 milioni, si tratta di una vera e propria azienda, che presenta complessità e criticità molto elevate.

Fabio Corti succede al lucernese Erwin Grossenbacher, che cede il timone dopo sei anni. È il primo ticinese della storia ad accedere a questa carica. In passato, il chiassese Arturo Gander aveva rappresentato il cantone in qualità di Presidente tecnico della Federazione Mondiale, nel cui direttivo, anni dopo, era entrato a far parte il luganese Jvan Weber. La consapevolezza che il mondo dello sport, e nella fattispecie quello della ginnastica, stia attraversando un periodo molto critico, è sempre più evidente. Fabio Corti dovrà giocare la carta della trasparenza. Non ci sarà più margine per ulteriori passi falsi, poiché, come egli stesso sostiene, stiamo vivendo un cambiamento radicale del sistema-sport. È aumentata anche la sensibilità nei confronti delle problematiche sollevate dalle ragazze della ritmica. Se ne è resa conto pure la consigliera federale Viola Amherd, titolare del Dipartimento della Difesa della Protezione della popolazione e dello Sport. È la prima donna a ricoprire questo ruolo, e il problema delle molestie e delle pressioni lo ha affrontato di petto. La ministra vallesana non ci sta. Ha subito dato una scossa. Nei giorni scorsi il Consiglio degli Stati ha approvato una mozione che chiede l’istituzione di un servizio di sostegno e di segnalazione indipendente per le vittime di abusi in ambito

Fabio Corti. (Ti-Press)

sportivo. Nel momento in cui scriviamo non sappiamo se anche il Consiglio Nazionale ha fatto sua la proposta. Dal canto suo, la direttrice del Dipartimento ritiene questo servizio indispensabile. Non sarà la panacea in grado di curare tutti i mali, ma grazie a una pronta segnalazione e a un rapido intervento, sarà possibile evitare situazioni deleterie come quelle narrate in una recente puntata di Temps Présent, magazine di approfondimento della Televisione Svizzera Romanda. L’agghiacciante documentario ha messo a nudo abusi perpetrati nell’ambito della ginnastica ritmica, del trampolino, altra disciplina che dipende dalla Federazione svizzera di ginnastica, ma anche nel mondo del calcio e dell’hockey su ghiaccio.

Intendiamoci, non ci sono paradisi o oasi di pace, in cui tutto fila nel migliore dei modi. Ovunque ci sarà sempre chi tende a sottrarsi dalle regole, sia quelle prettamente legate alla competizione, sia quelle etiche. Sarà tuttavia indispensabile che il mondo dello sport sappia dotarsi di strumenti per individuare e neutralizzare quelle che, si spera, possano essere solo delle mosche bianche. Servono regole, principi e persone. Deve e dovrà essere fondamentale il ruolo dei dirigenti. Sono loro a tracciare le linee programmatiche di una federazione o di un club sportivo. Loro, attraverso le strutture implementate, a monitorare il lavoro di chi opera sul campo. Nel documentario della RTS i diri-

genti della ginnastica nazionale si erano rifiutati di rilasciare dichiarazioni e, solo dopo lunga insistenza, il Direttore Ruedi Hediger aveva accettato di fare alcune precisazioni in forma scritta. In seguito, ha rassegnato le dimissioni, dopo 25 anni in seno alla Federazione, 12 dei quali come Direttore. Si è assunto la responsabilità di quanto è accaduto, e ha voluto lasciare spazio a chi si sentirà disposto a ripartire con nuovi presupposti. Tra coloro che dovranno riportare il sereno, ci sarà quindi anche il futuro presidente Fabio Corti. Salirà su una nave costretta ad affrontare un mare burrascoso, ma sarà animato dalla forza e dalla volontà di poter riuscire a dominare e a placare le onde. Sa come agire. Sa cosa fare. Per correttezza nei confronti del gruppo, non svela le sue strategie. Sarà questione di poche settimane. Sa pure che un altro compito fondamentale sarà quello di individuare le persone alle quali affidare alcuni ruoli-chiave, fra cui quello di Capo supremo dello sport d’élite. Si tratterà pure di ricostruire tutto il team delle allenatrici della ginnastica ritmica, a suo tempo licenziate in tronco dopo il drammatico outing delle ragazze. In attesa dei suoi programmi, e con l’auspicio di poter stilare in futuro bilanci positivi, non rimane che augurargli buon vento. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Politica e Economia Una festa senza fiocchi Natale-tregua o Natalelockdown? Il ricordo corre a un episodio di oltre un secolo fa, il 25 dicembre del 1914 pagina 27

Ajuste economico a Cuba Questo sarà l’ultimo Natale all’Avana con la convivenza tra la moneta del «Che» e i pesos convertibili in dollari che si possono usare solo a Cuba ma sono dollari a tutti gli effetti. pagina 29

Sulla lista nera Il ministero americano delle finanze rimette la Svizzera sulla lista nera dei paesi definiti «manipolatori di divise». Le conseguenze sono incerte

Un 2021 rampante L’economista capo della Banca Migros Christoph Sax è ottimista: l’economia crescerà con vigore

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Un amaro congedo

Germania Nel lungo periodo la Merkel sarà ricordata come la cancelliera che ha presieduto (non crediamo

con particolare entusiasmo) al rientro graduale della Germania nella storia

Lucio Caracciolo Dopo sedici anni, l’autunno prossimo finirà, salvo sorprese, il cancellierato di Angela Merkel. E con ciò «das Mädchen», «la bambina», come la chiamava con disprezzo l’artefice dell’unità tedesca, Helmut Kohl, ha conquistato un posto nella storia. Un bilancio di questo periodo è necessariamente provvisorio. Proviamo a sintetizzarlo. In questi anni la Germania ha rafforzato la sua collocazione al centro del sistema europeo. Per Bonn prima, per Berlino oggi, il blu giallostellato dell’Unione Europea è vestito necessario a difendere e avanzare i propri interessi. Nessun cancelliere tedesco vi rinuncerà spontaneamente. A differenza del suo secondo – in potenza – la Repubblica Francese, la Bundesrepublik unificata deve pagare ancora lo scotto della catastrofe hitleriana. Tre generazioni dopo il suicidio del dittatore nazista nel suo bunker berlinese, il passato non è ancora passato.

Chi non vuole bene alla Germania, o semplicemente vuole profittare del suo tallone d’Achille, fa leva su questo stigma. Comunque sufficientemente profondo in gran parte della classe dirigente germanica, specie la più avanti con gli anni, da provocare riflessi automatici di denegazione nazionale. Fino al clamoroso quanto rivelatore inciampo del capo dei Verdi e futuro possibile vicecancelliere in una coalizione con la famiglia CDU-CSU, Robert Habeck, arrivato a negare l’esistenza stessa di un popolo tedesco (le correzioni successive, ambigue, erano atto dovuto). Insomma l’europeismo di Merkel, indubbiamente sincero, molto deve anche all’impossibilità di definire una base condivisa per il culto della patria tedesca. L’Unione Europea al tempo di Merkel ha avuto un tono molto germanico. A cominciare dal nucleo centrale, l’Eurozona. Sulla scia di Kohl e di Schröder, Merkel ha usato l’euro come prolungamento del marco. Non come

sua negazione, tesi sviluppata dal germanofobo François Mitterrand, che intendeva punire con la cessione della Deutsche Mark, simbolo identitario prima che unità di conto, il vicino d’oltre Reno che aveva osato unificarsi e così consolidarsi potenza centrale in Europa. Si deve alla centralità economica, ad esempio, il formidabile surplus commerciale che la Germania vanta con il resto del mondo, inclusi i soci europei. Tale sbilancio, che viola le regole comunitarie, si è però spinto troppo oltre. Meccanismo che esporta merci e assorbe liquidità mentre sollecita il rigore (prima del virus), ha finito per drenare troppe risorse dal mercato europeo. Col doppio risultato di impoverire i clienti che i prodotti tedeschi dovrebbero acquistare e di costringere le istituzioni europee a decretare una moratoria a tempo indeterminato sulle regole di bilancio, ovvero di austerità, che la Germania battezzava dogma fino allo scorso inverno.

Sotto il profilo geopolitico, risse europee a parte, Merkel ha potuto sperimentare con mano l’inasprirsi delle relazioni con gli Stati Uniti, culminate nel clamoroso rifiuto di Trump di salutarla. Ma già prima, con l’amico Obama, le tensioni erano evidenti (Dieselgate, intercettazione del cellulare della cancelliera eccetera). Semplicemente, Washington non vuole che il suo principale satellite europeo coltivi grandiose idee di autonomia strategica, magari legandosi troppo a Russia (energia) e Cina (commercio e tecnologie). Ma nel lungo periodo Merkel sarà ricordata come la cancelliera che ha presieduto, non crediamo con particolare entusiasmo, al rientro graduale della Germania nella storia. Al ritorno al ragionare geopolitico. Alla lingua (controllata, quindi talvolta stridula) della potenza. Il prezzo da pagare, sul fronte interno, non è da poco. Lo schema partitico dei primi sessanta e più anni di Bundesrepublik, basato sui tre

pilastri CDU-CSU, SPD e FDP, è definitivamente saltato. Insieme ai Verdi, ormai seconda formazione politica, e alla Sinistra, ancora robusta all’Est, ha fatto irruzione sulla scena l’Alternativa per la Germania. Violando così la legge non scritta che non vuole nella democrazia tedesca una rappresentanza parlamentare a destra della CDU-CSU (e a sinistra della SPD). Il nazionalismo ha di nuovo un posto a tavola. L’emergenza virale sta infliggendo, in questi ultimi mesi della gestione Merkel, seri danni umani e d’immagine alla Germania, che pure nella prima fase del Covid-19 aveva reagito meglio di molti altri. Con le conseguenze culturali e politiche che sono sotto i nostri occhi, tra cui il diffondersi di culture del complotto e di teorie negazioniste (del vaccino, non solo dell’Olocausto). Non era questa la Germania da cui Merkel avrebbe voluto congedarsi al termine del suo storico mandato.


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Politica e Economia

Si spengono le luci, non il Natale

Anno indimenticabile Il mondo cristiano deve rassegnarsi a una sorta di 25 dicembre di guerra, in alcuni casi

con una piccola tregua momentanea simile a quella del 1914 Alfredo Venturi Natale-tregua o Natale-lockdown? Il ricordo corre a un episodio di oltre un secolo fa. È il 25 dicembre del 1914, primo inverno di guerra, quando fra le trincee del fronte occidentale esplode improvvisa e spontanea una fragile pace. I soldati francesi e tedeschi depongono momentaneamente le armi, escono dalle loro tane, cantano e brindano insieme, si scambiano doni. Weihnachtsfrieden la chiameranno da una parte, trêve de Noël dall’altra: ma poche ore dopo i nemici di sempre riprendono a spararsi addosso. Beh, non è la stessa cosa, non siamo in guerra, l’emergenza attuale è di tutt’altra natura e non divide ma accomuna, come un incubo sovranazionale, i Paesi d’Europa e del mondo. Inoltre la tregua in molti casi è parsa una concessione improponibile. Infatti i governi alle prese con il Covid-19, lacerati dal dilemma se parare in primo luogo le insidie del contagio o placare il crescente disagio popolare concedendo qualche libertà per l’occasione festiva, in qualche modo hanno dichiarato una tregua o almeno hanno pensato di farlo. Una tregua piccola o piccolissima a seconda dei casi, e proprio come quella del 1914 di brevissima durata. Perché l’emergenza sanitaria incombe, e dopo aver segnato questo terribile 2020 marchierà anche il nuovo anno imminente. Alcuni governi hanno fatto una precipitosa marcia indietro, dopo che lo shopping prenatalizio aveva dato luogo a pericolosi assembramenti mandando a quel paese ogni precauzione a cominciare dal distanziamento sociale. È stato così mancato, o almeno non centrato in pieno, l’obiettivo non certo secondario di dare un po’ di ossigeno al sistema commerciale depresso dalla pandemia, garantendo almeno in parte quel picco di consumi che tradizionalmente si raggiunge in prossimità del Natale. Un fenomeno sul quale si reggono molte imprese commerciali soprattutto di dimensioni medie o piccole. Il fatto è che un messaggio molto chiaro era giunto dagli Stati Uniti dove dopo il 26 novembre, giorno del Thanksgiving, gli affollamenti e gli

spostamenti tipici della tradizionale festività americana avevano prodotto una brusca impennata dei contagi, e questo proprio nel Paese che da sempre guida la triste graduatoria dei luoghi più duramente colpiti dalla pandemia. Il segnale giunto da oltre oceano è stato poi confermato in molte parti d’Europa dalla ressa commerciale dei giorni scorsi. Dunque meglio procedere con i piedi di piombo, meglio non esagerare con la tregua, meglio rinviarla a tempi migliori. L’obiettivo è di capitale importanza: si tratta di scongiurare la prospettiva inquietante della terza ondata. E così il mondo cristiano deve rassegnarsi a una sorta di Natale di guerra, in alcuni casi con una piccola tregua momentanea simile a quella del 1914. Quella che si prospetta è una inedita interpretazione spartana della festa sfolgorante di luci alla quale siamo abituati da sempre. Dovremo fare a meno di molte cose consacrate dall’abitudine. Saranno celebrazioni prevalentemente domestiche con meno luci, meno convitati attorno alla tavola imbandita, meno regali, meno allegria. Persino Babbo Natale, o Santa Claus che sia, quest’anno è meno indaffarato del solito, nonostante i chiassosi richiami pubblicitari che ce lo mostrano sulla sua slitta stracolma di doni. È triste che anche i bambini, già penalizzati dalle restrizioni scolastiche che hanno investito tanti di loro, debbano pagare il conto di questa festa così poco festosa. Eppure... Eppure si può forse vedere la cosa da un’angolazione totalmente diversa. Questo Natale dimesso e attenuato, non potrebbe forse far riscoprire i preziosi valori dell’intimità familiare? Al Natale dei consumi non potrebbe affiancarsi e sostituirsi un Natale dei sentimenti? Fuori da ogni retorica, non è certo cosa nuova una critica di fondo della ricorrenza festiva di fine dicembre, quella che la indica come una degenerazione consumistica, con tanti saluti ai suoi pretesi connotati spirituali. In fondo che cosa si festeggia il 25 dicembre? La nascita di Gesù o l’occasione ormai collaudata di una festa consacrata ai regali, agli eccessi, alle diete

In epoca pagana il 25 dicembre si festeggiava la nascita del Sol invictus, rappresentato in questa antica incisione. (Keystone)

ipercaloriche e iperalcoliche? Questa visione accompagna e integra la critica di fondo del Natale, quella che inchioda la festività alla sua origine chiaramente pagana. È noto che agli albori del cristianesimo esisteva già da tempo la grande festa del solstizio d’inverno, che del resto è presente anche in altre culture da un capo all’altro del pianeta. Si celebrava la fine delle tenebre, il trionfo del Sol invictus che finalmente cominciava a far crescere la luce, a trasportare gradualmente il mondo verso gli splendori della primavera. Da quel giorno in avanti il cielo cessava di oscurarsi e i suoi tempi di luce cominciavano ad allargarsi: era la fine fisica delle giornate sempre più corte e insieme la fine simbolica del terrore del buio e della morte. Il Natale s’innestò proprio su questa tradizione, si decise di collocare vicino al solstizio la data della nascita di Gesù. In modo da conciliare la nuova festa cristiana con l’antica tradizione pagana, inco-

raggiando così le conversioni dei tradizionalisti ancora legati al retaggio degli «dei falsi e bugiardi». Che in tutto questo ci sia qualcosa di incongruo è confermato da una semplice considerazione. La narrazione evangelica e il punto di vista tradizionale che ci viene puntualmente riproposto dal presepe ci parlano di una condizione meteorologica che difficilmente potrebbe definirsi invernale. I pastori chiamati a venerare il neonato conducono all’aperto le loro greggi, attività incompatibile con le giornate di dicembre, che sono fredde anche dalle parti di Betlemme. È dunque evidente che la nascita di Gesù dovrebbe collocarsi in un’altra stagione dell’anno. Insomma il Natale cristiano non corrisponde a un anniversario accuratamente misurato, è una ricorrenza simbolica fissata quel giorno per rispetto di altre culture in un’epoca di transizione. È ancora di origine pagana un’altra tradizione natalizia, tipica stavolta delle

civiltà nordiche, quella dell’albero impreziosito, e in qualche misura sacralizzato, dalle più varie decorazioni. Tutto questo naturalmente non incide se non marginalmente sulla percezione del Natale da parte dei popoli cristiani. La grande festa di fine anno ha per così dire acquisito una sua immagine ormai stereotipata nel sentire comune, e dunque le limitazioni indotte quest’anno dalla pandemia sono percepite esattamente come sacrifici individuali. Su questo punto l’opinione è divisa fra chi, la maggioranza, considera che le restrizioni sono imposte da circostanze oggettive, il diabolico propagarsi del morbo, e dunque vanno accettate con rassegnazione, e chi al contrario non crede che quelle misure siano in realtà necessarie e le subisce come un’immotivata limitazione di libertà. Nell’un caso come nell’altro si stempera la superstite poesia del Natale, questo Natale di guerra che certamente sarà molto difficile dimenticare.

Chiaroscuri di un papato Libri Fin dal giorno della sua elezione, papa Francesco si è presentato come un rivoluzionario in seno alla Chiesa,

ma sette anni dopo molte promesse sono andate deluse. Ne parla Massimo Franco nel suo L’Enigma Bergoglio

Tutto è cominciato la sera del 13 marzo 2013, quando il neoeletto papa Francesco saluta la folla con l’ormai storico «Fratelli e sorelle, buona sera». Niente latino, niente proclami solenni e, invece, le parole semplici, usate nei rapporti fra la gente comune, in una quotidianità da condividere, superando distanze e diversità. E lo lascia intendere, precisando con un tocco autoironico: «Sono un papa che viene dalla fine del mondo». Come dire, eccoci insieme sulla stessa barca. È con quell’esordio che Francesco rivela le doti di gran comunicatore, marchio inconfondibile del suo stile oratorio e del suo intuito psicologico. Una carta vincente per chi esercita il potere, e lui la gioca abilmente trovando le parole giuste, spesso argute, nelle più svariate situazioni. Sia rivolgendosi alla collettività mondiale, in momenti di tensione e minacce globali, sia accogliendo capi di Stato, re, divi, calciatori, artisti, scienziati, scrittori, sia stringendo le mani dei fedeli assiepati dietro le transenne. «Che fatica: fin quando ce la farà?» doveva

commentare, maliziosamente, il suo predecessore. Certo che, rispetto al riservato Benedetto XVI, il cambiamento è radicale, anzi spettacolare. La popolarità del nuovo pontefice contagia folle di pellegrini motivati, di turisti curiosi e, imprevedibilmente, ambienti prima di allora indifferenti se non ostili. Del resto, lui la coltiva

AFP

Luciana Caglio

consapevolmente, da interlocutore pronto ad ascoltare le voci di tutti, senza preclusioni di sorta: gay, divorziati, esponenti di altre religioni, islam compreso. Diventa così l’emblema di un cattolicesimo che, finalmente, abbatte barriere fisiche e morali, fa pulizia fra le sue mura e s’integra nella realtà contemporanea. Si tratta di una svolta, attesa dalla maggioranza dei credenti, e di cui Bergoglio sembra l’interprete affidabile. Nelle sue esternazioni, insiste sul bisogno di cambiamento e aperture: verso le donne, i migranti, i poveri, le vittime di soprusi, e via enumerando doveri d’ordine etico e civico, non ultimo il pagamento delle tasse. Tutto ciò in termini non calati dall’alto, bensì da conversazione amichevole, grazie alla simpatia. Fattore determinante nel successo e nell’idealizzazione del personaggio, ma a sua volta rischioso. Ora, da quella sera di marzo sono passati sette anni, durante i quali la figura di Francesco ha subito un ridimensionamento. Era risaputo che non piaceva a tutti, più amato a sinistra che a destra. Un giudizio però approssimativo, perché la realtà in cui si muo-

ve il papa è ben più complessa. Sono in campo non soltanto dogmi religiosi, scelte ideologiche e sociali, ma interessi finanziari e strategie diplomatiche di portata internazionale. Il Vaticano è, dal canto suo, uno Stato rappresentato da un pontefice super partes e, poi, gestito da ministri tutt’altro che imparziali. Ci si trova alle prese con luci e ombre, insomma virtù e vizi impliciti nella condizione umana, cui Francesco appartiene. Del resto è l’aspetto umano a rendercelo vicino. Uno con cui sentirsi in sintonia. Ma non sempre avviene. Da qui interrogativi anche imbarazzanti. S’intitola proprio L’enigma Bergoglio (edizioni Solferino) il libro in cui Massimo Franco, opinionista del «Corriere della Sera», affronta l’intricata complessità di un personaggio pienamente rappresentativo della nostra epoca. E lo fa con un esemplare scrupolo professionale, raccogliendo e paragonando dati, date, voci, opinioni documentabili. Se il termine non fosse irrealistico, si potrebbe parlare di oggettività. Di certo senza partito preso o intenti

sensazionalisti. Gli preme raccontare l’uomo degli slanci innovativi e delle contraddizioni: riforme incompiute, dal celibato dei preti al sacerdozio femminile. Fallita anche la scelta, in nome della frugalità, di abitare Casa Santa Marta, dove in definitiva si è creato una sorta di Vaticano alternativo. Discutibili, in politica, le aperture verso la Cina e il silenzio sui fatti di Hong Kong. Sconcertante, in ambito finanziario, l’acquisto del palazzo a Londra, pagato con gli oboli destinati ai poveri. Ancora più allarmante l’atteggiamento, non sempre limpido, del Vaticano nei confronti della pedofilia. Ma, come rileva Massimo Franco, tutto ciò conferma la solitudine di Bergoglio, malvisto dal clero conservatore ma anche da esponenti delle correnti filomarxiste. Le lacerazioni sono tali da delineare un possibile scisma? A questo punto interviene, però, secondo l’autore, la forza segreta e carismatica di Bergoglio. Com’è apparso nell’immagine che ha parlato al mondo intero. Solo, nella Piazza San Pietro, svuotata dalla pandemia, in cerca, come tutti, di una possibile risposta consolatoria.


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Natale senza «Che»

Revolución monetaria È la fine di un’era, un taglio netto con il passato. Dal 1. gennaio

sparisce la doppia moneta. Doveva servire a proteggere l’economia, ma non ha funzionato Angela Nocioni La banconota da tre pesos con la faccia del «Che» Guevara e il biglietto con stampate le palme rosse dei pesos convertibili in dollari, i Cuc. Questo sarà l’ultimo Natale per entrambi, l’ultimo Natale a doppia valuta a Cuba. I vecchi pesos socialisti, in realtà, non li vuole più nessuno da molto tempo. Soltanto i turisti come souvenir. Servono a prendere l’autobus e ad entrare al teatro di quartiere. Tutti vogliono da molti anni null’altro che «los verdes», «la moneda del enemigo», gli amatissimi dollari americani o il loro equivalente in Cuc, i «pesos» convertibili che non hanno corso legale fuori dall’isola.

Con l’entrata in vigore di un’unica moneta ci sarà una inevitabile inflazione e conseguente perdita di potere di acquisto I due biglietti, simbolo dell’economia socialista di facciata l’uno e del mercato reale l’altro, hanno finora amorevolmente convissuto nelle tasche dei cubani. Dal primo gennaio, sessantaduesimo anniversario dell’ingresso trionfante all’Avana di Fidel Castro, Camilo Cienfuegos ed Ernesto Guevara vittoriosi sull’esercito del dittatore Fulgencio Batista, entrerà in circolazione una moneta unica, unificazione delle due, il cui valore sarà equiparato a quello di quella più alta. Per l’ultima volta il rum di qualità che bagna le feste natalizie, non più proibite da quando la visita di Giovanni Paolo II liberò il culto cattolico dell’isola, potrà essere acquistato con gli attuali Cuc, insieme ai cartocci di mais in pesos nazionali. Dal primo gennaio anche il rum pessimo delle rivendite clandestine sotto i portici dell’Avana vecchia potrà essere comprato solo con moneta convertibile. Annunciata come ennesimo provvedimento rivoluzionario, la misura porta con sé la prima svalutazione dall’inizio della Rivoluzione, con annesso impatto sul potere d’acquisto. Si tratta di uno dei passi più difficili del lento e gradualissimo processo d’apertura economica avviato dal regime nel 2003. Allora, diciassette anni fa, aprire l’isola al turismo di massa e legalizzare alcuni lavoretti in proprio, decisione fortemente voluta da Raul Castro che la considerava (a ragione, s’è visto col senno del poi) l’unico modo per mantenere in piedi il socialismo politico tropicale, rese inevitabile la coesistenza delle due monete, con buona pace degli economisti socialisti ortodossi. Era impossibile aprire l’ingresso alle monete forti e impedirne l’utilizzo ai cubani. Da qui nasce l’invenzione dei Cuc, il peso convertibile. Che ormai, a isola spalancata e economia dollarizzata, è l’unica moneta realmente usata. Dal 2021 i cubani avranno un’unica moneta di scambio al valore di 24 pesos cubani per dollaro. I prodotti alimentari moltiplicheranno per ven-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Un cartello avverte che non si accettano Cuc in un negozio all’Havana. (AFP)

ti il loro valore. Per attutire l’impatto della novità e renderla sostenibile, i salari e le pensioni saranno aumentati rispettivamente del 450% e del 500%. Il che servirà a pochissimo perché le entrate in dollari delle singole persone, essendo affidate al mercato reale, rimarranno invariate. Dice Reina Valdes dal telefono della vicina di appartamento perché lei un telefono non ce l’ha: «Per la notte di Natale la festa chiede rum, verdura, yuca fritta e dolci. Compro tutto in dollari, solo il riso trovo in pesos cubani e non posso permettermi la cena del 24 già quest’anno, come farò il prossimo?». Reina è una maestra in pensione del Centro Habana, ex comunista delusa ma non rabbiosa, dice che i soldi statali le servono solo per le offerte «a los santos»: «Spero che mio figlio da Miami mi raddoppi le rimesse sennò non so con cosa comprare il poco che mi permetto ora». Lei non è cattolica, da afrocubana militante è devotissima di Yemanja, la dea dell’acqua della santeria nella religione sincretica dell’isola, ma il Natale lo festeggia lo stesso insieme alla famiglia del suo nuovo marito, Jaime, che nell’Avana del 2020 si definisce «cattolico progressista di sinistra». Dice Jaime: «il Natale per noi qui è stato una sfida così per lungo tempo, che anche ora, nonostante il divieto sia stato cancellato, celebrarlo regala un sapore d’orgoglio per essere finalmente usciti dal buio, come diciamo noi, dal closet». Il progressismo cattolico di sinistra è fatto all’Avana da piccole élites. «La Chiesa ufficiale qui è rimasta quella del periodo coloniale» dice lui. Nel secolo XIX entrano gli evangelici e ri-

spondono alla ricerca di una religione meno autoritaria rispetto a una Chiesa che appoggiava il regime coloniale. Ora gli evangelici hanno una partecipazione al culto domenicale che supera quella cattolica, anche i pentecostali e i carismatici hanno avuto una grande crescita. Molti sospettano che il regime abbia aiutato silenziosamente gli evangelici per usarli come contrappeso. Ciò nonostante i Castro hanno sempre mantenuto un doppio passo nel rapporto con la Chiesa cattolica. Mentre vietavano di festeggiare il Natale, coltivavano relazioni diplomatiche ad altissimo livello con il Vaticano. Il governo cubano rivoluzionario e il Vaticano hanno mantenuto rapporti sempre. Anche durante l’era dell’ateismo di Stato Cuba ha avuto fitte relazioni diplomatiche con il Vaticano. Con l’implosione dell’impero sovietico, all’Avana hanno deciso che era saggio, per evitare un’esplosione sociale, allentare la morsa dei divieti e riconoscere le religioni nella loro pluralità. Prima del ’59 i battezzati erano il 90%, ora sono tra il 35% e il 40%. La Chiesa cattolica cubana è tradizionalmente una delle più conservatrici e delle più romane al mondo. È anche per questo che la chiesa cattolica sta perdendo terreno sull’isola rispetto alle chiese protestanti ed evangeliche. La presenza a messa è sempre stata bassa, anche prima della rivoluzione lo era, solo donne e vecchi, a parte i collegi religiosi dove era obbligatoria. La religiosità è sopravvissuta alla campagna di formazione ateista diventata molto forte dopo il primo congresso del Pcc nel ’75 in cui l’ateismo divenne la posizione ufficiale. Si davano lezioni

di ateismo. Il manuale era sovietico, la docente che formava i dirigenti cubani pure. C’erano corsi universitari ai quali i credenti non erano ammessi, non si potevano abbracciare carriere letterarie, nemmeno psicologia. Filosofia poi, nemmeno a parlarne. I credenti erano obbligati a materie scientifiche e non potevano insegnare, furono esclusi dall’area di educazione, tranne poche eccezioni, fino agli anni Novanta. Con l’inizio del «periodo especial», ossia di emergenza economica, si ammette che persone con credo religioso possano entrare nel partito comunista. Racconta Marta Calvos, studiosa di santeria locale: «Quando sono usciti allo scoperto i cattolici insieme alla possibilità di non rintanarsi più per festeggiare il Natale, siamo stati felici anche noi che crediamo alla santeria, perché serviva a tutti uno sdoganamento ulteriore della libertà religiosa, non bastava la tolleranza di fatto. Negli anni Settanta e Ottanta non si poteva essere militare e religioso, ma poiché molti nelle forze armate sono neri e meticci, moltissimi militari praticavano la santeria. Si consacravano, andavano al tempio in orari in cui teoricamente la gente non avrebbe potuto vederli: le famose consulte dell’alba. Il babalawo (il sacerdote della santeria, n.d.r.) li esonerava dal vestirsi di bianco, come richiede la religione nel primo anno ai nuovi devoti. Loro andavano a consacrarsi e poi uscivano in divisa verde oliva, con l’arma alla cintura. La religione afrocubana è abituata a che il sacerdote faciliti l’ingresso e la permanenza dei fedeli. Gli orishash, le nostre divinità, giustificavano e chiudevano un occhio sulla doppia morale».

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Politica e Economia Fra i libri di A. Zanoli Dayton, 1995. La fine della guerra in Bosnia Erzegovina, l’inizio del nuovo caos. A cura di Silvio Ziliotto e Luca Leone, Infinito Editore, 2020. Questo volume corale contiene le testimonianze e le riflessioni di 26 personalità che esprimono, ognuna nel suo campo di attività e nell’ambito del proprio coinvolgimento personale, una serie di considerazioni sulla situazione attuale nella ex Jugoslavia a 25 anni dall’Accordo di Dayton. Fu quell’iniziativa diplomatica che poté raggiungere un impensabile cessate il fuoco e fermare una situazione bellica assolutamente caotica come quella che si era determinata nel conflitto in Bosnia. A Dayton, il mediatore americano Richard Holbrooke tra il 1. e il 21 novembre del 1995 riuscì a tenere le redini della discussione e condusse i leader delle tre regioni ex jugoslave in conflitto a una forma di accordo che fece tacere le armi: il serbo Slobodan Milošević, il croato Franjo Tuđman e il bosniaco Alija Izetbegović, costretti a stringersi la mano all’inizio della tornata di discussione, firmarono poi a Parigi quel «Protocollo» che garantisce ancora oggi la pace. Una pace durata 25 anni potrebbe essere considerata come cornice per una situazione ormai consolidata e stabilizzata, riconosciuta da tutte le parti in causa. Invece no: il vulcano balcanico non è per nulla spento. Spinte politiche di vario tipo si mostrano in ognuno degli schieramenti legati alle tre matrici etniche, base della struttura federale della Bosnia Erzegovina. «Va bene tutto, basta che non si spari» pare essere oggi l’atteggiamento generalizzato tra la popolazione, usa a sopportare tutte le difficoltà e le distorsioni date da un assetto nazionale complesso e frammentato. La Bosnia Erzegovina, formata dalla Repubblica serba di Bosnia e dalla Federazione di Bosnia Erzegovina (croato-bosniaca) è uno Stato di «circa 3,5 milioni di abitanti, ai quali vanno aggiunti circa 1,2 milioni di persone che compongono la diaspora bosniaca all’estero, su una superficie di 51’129 kmq, che possiede due entità, un distretto autonomo, 14 costituzioni, un governatorato internazionale, 14 governi, circa 200 ministri» (p. 19). Insomma un caos amministrativo in cui la corruzione e il clientelismo sono all’ordine del giorno, le riforme istituzionali praticamente impossibili e nella quale l’unica possibilità di salvezza, in particolare per le giovani generazioni, pare l’emigrazione. Il libro, curato da Luca Leone, giornalista, e Silvio Ziliotto, docente ed esperto di letteratura slava, offre, come detto, una panoramica di punti di vista che coinvolgono varie personalità (diplomatici, docenti universitari, giornalisti, intellettuali, scrittori, attivisti per i diritti umani), ognuna delle quali riflette sulla propria esperienza o dà una sua lettura agli effetti del processo di pace. Di particolare rilievo la presenza di Anthony Lake, già consigliere per la sicurezza dell’amministrazione Clinton, quella cioè che si era attivata per fermare la guerra in Jugoslavia, in parte con interventi militari ma anche con l’iniziativa stessa dell’Accordo di Dayton. La testimonianza di Lake ci permette quindi di avere un punto di vista da «dietro le quinte» di grande interesse. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Politica e Economia

«Tutto ruota attorno al vaccino»

Intervista Le Borse sono euforiche, le previsioni economiche sono

ottimistiche. Il 2021 dovrebbe essere l’anno della ripresa. Christoph Sax, economista capo della Banca Migros, ci spiega perché Benita Vogel Signor Sax, all’inizio dell’anno l’economia ha subito uno shock senza precedenti. Oggi siamo messi meglio del previsto: invece del 6% l’economia svizzera è calata soltanto del 3%. Come mai?

Il consumo privato ha contribuito molto. La quota di risparmio è effettivamente aumentata a causa dell’insicurezza occupazionale, ma la gente ha continuato a spendere soldi per accessori del computer, mobili, biciclette e ristrutturazioni. Il lavoro a tempo ridotto e i crediti transitori della Confederazione sono stati di grande sollievo. Dopo il lockdown c’è stata una corsa al recupero. È d’aiuto anche la struttura dell’economia svizzera. In che senso?

L’industria farmaceutica costituisce una parte significativa dell’economia elvetica e non è stata quasi colpita dalla pandemia. Parallelamente, qui da noi il turismo – particolarmente toccato dalle misure di protezione – ha un peso minore che nei paesi vicini. Inoltre l’economia cinese e di altre nazioni asiatiche sta andando di nuovo bene. Ciò supporta la congiuntura mondiale, di cui beneficia anche un paese esportatore come la Svizzera, che guadagna all’estero un franco su due.

Il continuo tira e molla sulle misure di protezione causa incertezza. Quali sono gli effetti delle ultime restrizioni del Consiglio federale?

Lo vedremo in primavera. Ipotizziamo un inverno difficile, soprattutto perché il turismo e la ristorazione soffriranno pesantemente. Comunque, da un punto di vista economico il corso liberale intrapreso dal governo in autunno ha funzionato bene. L’industria ha preso slancio e registra più ordinativi. Per gli ospedali, invece, questo corso si è rivelato un grosso dispendio. In primavera, comunque, l’atmosfera generale dovrebbe migliorare. Da dove viene questo ottimismo?

Tutto dipende dal vaccino. L’inizio della campagna di vaccinazione e le temperature più miti porteranno a un

allentamento delle misure di protezione in primavera. Entro il prossimo autunno le restrizioni dovrebbero essere attenuate fino al punto che potremo tornare a viaggiare liberamente. Per il prossimo anno, stimiamo una crescita di tre punti percentuali del prodotto interno lordo svizzero. Non c’è un clima un po’ troppo euforico? Non sappiamo ancora nulla sulla durata dell’efficacia e sugli effetti collaterali del vaccino.

Ci possono sempre essere battute d’arresto in fase di omologazione, a causa della durata dell’efficacia o degli effetti collaterali. Ma le probabilità che vada a buon fine sono alte, gli studi sul vaccino evidenziano risultati molto promettenti. L’ottimismo è giustificato. Tre fornitori – AstraZeneca, Moderna e Pfizer/Biontech – hanno già completato lo sviluppo dei loro vaccini e il prossimo anno ne produrranno fino a 5 miliardi di dosi con cui sarà possibile vaccinare 2,5 miliardi di persone. Nella prima metà del 2020 altri sei produttori concluderanno lo sviluppo dei loro potenziali vaccini, aumentando notevolmente la disponibilità di dosi. Ciò contribuirà ad assorbire eventuali battute d’arresto riguardanti altri farmaci. E se la gente non vorrà farsi vaccinare?

Capisco le riserve, specie perché i vaccini sono stati sviluppati in tempi molto rapidi. Tuttavia, presumo che la fiducia crescerà nel corso dell’anno. Chi va volentieri all’estero, potrà muoversi molto più tranquillamente. Per contenere notevolmente il virus, è sufficiente che una persona su due si faccia vaccinare. È importante soprattutto proteggere i gruppi a rischio e che gli ospedali vengano alleggeriti. Cosa succede se la strategia di vaccinazione fallisce?

Allora ci saranno altre ondate. L’economia tornerà in recessione, aumenteranno i fallimenti e la disoccupazione. Stimiamo che le probabilità di uno scenario del genere siano del 40%.

A quanto pare anche le borse si aspettano che il vaccino abbia molto successo. I corsi sono andati di

nuovo alle stelle. Sta per scoppiare la bolla?

Non dovrebbe succedere. L’anno prossimo gli utili societari si riprenderanno notevolmente. Ciò giustifica l’aumento dei titoli di borsa. Inoltre, stiamo vivendo una spinta tecnologica in molti settori. La digitalizzazione apre grandi opportunità. Ci sono molti modelli commerciali che aumentano la fruibilità per i clienti, come ad esempio tutti gli strumenti informatici per lavorare tramite Internet, la creazione in rete di valore aggiunto nell’industria oppure i prodotti innovativi del settore finanziario. Anche la medicina sta vivendo un’offensiva innovativa. Si tratta di progressi tecnologici che comportano salti di produttività, che creano crescita e prosperità. Di solito quando le borse salgono e l’economia va meglio, salgono anche i tassi d’interesse. Sarà così anche il prossimo anno?

Non prevediamo che i tassi crescano così in fretta. Le banche centrali continuano a pompare tanti soldi nell’economia, per prevenire una crisi economica e finanziaria. In Europa la politica monetaria espansiva proseguirà ben oltre il 2021. Inoltre, ci vorranno uno o due anni finché l’economia si riprenda completamente dalla pandemia in tutti i settori. Perciò, per il momento, non si prevede inflazione, un fattore che spesso porta con sé un aumento dei tassi d’interesse. Di conseguenza, i tassi ipotecari rimarranno stabili a un livello molto basso anche il prossimo anno.

Oltre alle banche centrali, anche gli Stati spendono soldi a piene mani per parare le conseguenze della pandemia. Non si stanno indebitando troppo?

Attualmente l’indebitamento globale sta crescendo notevolmente. In percentuale al prodotto interno lordo, i debiti pubblici delle nazioni industrializzate aumenteranno di circa 20 punti percentuali. Ma, grazie ai bassi tassi d’interesse, tali debiti sono facilmente sopportabili. Se in futuro gli interessi aumenteranno, la maggiore spesa per il debito restringerà il margine di mano-

Christoph Sax: «In Svizzera l’aumento del debito pubblico sarà sopportabile per le prossime generazioni». (Banca Migros)

vra finanziario degli Stati e il potenziale di crescita. Se gli investitori dovessero diventare molto più cauti nei confronti dei titoli di Stato di paesi con un forte debito pubblico come l’Italia, la Grecia o il Portogallo, la Banca centrale europea (BCE) non comprerebbe più grosse quantità delle loro obbligazioni. Se un giorno la BCE dovesse interrompere questi acquisti, tornerà a salire il nervosismo all’interno dei ministeri delle finanze e tra gli investitori. Come si comporterà il debito pubblico svizzero?

In Svizzera gli aiuti di Stato impatteranno meno profondamente sul debito pubblico, a condizione che la Confederazione non debba farsi carico con le sue garanzie di troppe insolvenze sui prestiti. Finora le misure della Confederazione hanno evitato molti fallimenti e una maggiore perdita di posti di lavoro. Tuttavia, esse non saranno più sufficienti se nel 2021 dovessero arrivare altre ondate pandemiche. Comunque sia, in Svizzera l’aumento del debito pubblico sarà sopportabile per le prossime generazioni. Grazie al freno all’indebitamento, il nostro paese si è dimostrato molto previdente in vista di questi anni di situazione straordinaria.

Dove si sentiranno maggiormente le conseguenze della crisi?

Nei paesi industrializzati il finanziamento dei sistemi pensionistici sarà ancora di più al centro dell’attenzione. Maggiore indebitamento, minor margine di manovra finanziario in combinazione con l’invecchiamento della popolazione, costituiscono una costellazione complicata.

E per quanto riguarda il benessere?

Molta ricchezza è andata distrutta. C’è da temere che in molte nazioni il divario del benessere si allargherà e la disparità sociale continuerà a crescere. Il rischio aumenta se ci saranno altre ondate pandemiche e salirà la disoccupazione. Quest’anno ha portato con sé molte cose negative, c’è stato anche qualcosa di positivo?

L’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. Il nuovo presidente rafforzerà le relazioni internazionali e farà aumentare la sicurezza della programmazione, garantendo maggiori investimenti. Il prossimo anno, il commercio mondiale di merci e materie prime si riprenderà, aiutando così i paesi emergenti. Biden, comunque, si opporrà alla crescente influenza globale della Cina con la stessa determinazione del suo predecessore.

La Svizzera accusata di manipolazione di divise

CH-USA I criteri americani sono raggiunti. Ma la decisione sulle eventuali conseguenze potrebbe essere politica Ignazio Bonoli Lo scorso anno ci eravamo rallegrati del fatto che il Ministero americano delle finanze avesse deciso di togliere la Svizzera dalla speciale lista di osservazione dei possibili manipolatori di divise («Azione 29» del 15.07.19). Esprimevamo però qualche dubbio che la Svizzera potesse rimanere a lungo fuori da questa lista. Questo perché la nostra bilancia commerciale presenta sempre forti eccedenze anche nei confronti degli Stati Uniti e perché la Banca Nazionale Svizzera (BNS) deve spesso intervenire per frenare gli eccessivi rialzi del franco. Proprio questi interventi non sono graditi alle autorità americane, per le quali le oscillazioni dei tassi di cambio dovrebbero essere lasciate al mercato, senza quegli interventi che, in modo scorretto, procurerebbero a chi li fa vantaggi concorrenziali. La sorveglianza americana di queste evoluzioni viene esplicitata in un rapporto semestrale dedicato alla politica valutaria

dei principali partner commerciali degli Stati Uniti. L’ultimo di questi rapporti è stato pubblicato il 16 dicembre e conferma l’inserimento della Svizzera nella lista dei «manipolatori di divise», che torna nella suddetta lista nera. Si può infatti constatare che da qualche tempo la Svizzera soddisfa tutti i criteri necessari per questo passo e per essere ufficialmente considerata un «manipolatore di divise». Finora nessun paese era catalogato in questa lista, dopo che gli Stati Uniti, nel 2015, avevano riveduto le basi legali per applicare questo concetto. La Svizzera è però sempre stata molto vicina ai limiti posti per la lista nera, soprattutto a causa della difesa del franco, che per gli americani provoca un vantaggio concorrenziale favorendo le esportazioni e quindi migliorando il saldo della bilancia commerciale. Va comunque detto che, pur avendo definito i criteri su basi matematiche, la loro applicazione è spesso politica. In pratica, anche chi soddisfa tutti i criteri di un «manipolatore di divise»

non viene automaticamente punito. L’interessato viene di regola sottoposto a un giudizio più approfondito. E già questo fatto potrebbe creare qualche disagio. Infatti, i mercati potrebbero reagire negativamente, anche senza sanzioni particolari. Per esempio i titoli di esportatori svizzeri – ma non solo – potrebbero subire qualche contraccolpo sulle borse americane. E si sa che un giudizio americano ha sempre molta importanza sui mercati, così come l’hanno per le divise anche gli interventi della BNS che, sotto la pressione americana, potrebbero diminuire. Le conseguenze di questa situazione potrebbero essere dapprima un certo rafforzamento del franco svizzero. Tuttavia, la BNS non ha nessun interesse a lasciare andare le cose fino a questo punto. Anzi, tenderebbe a frenare fin dall’inizio questa evoluzione con massicci interventi. In sostanza – a questo punto – i sospetti di «manipolazione» diventerebbero certezze e l’applicazione dei tre criteri per la lista nera automatica. Si rimprovera cioè

alla Svizzera una forte eccedenza della bilancia commerciale di almeno 20 miliardi di dollari con gli USA; un’eccedenza della bilancia dei pagamenti del 2% almeno del prodotto interno lordo; infine, un continuo intervento sui mercati finanziari per almeno il 2% del PIL, durante almeno sei degli ultimi dodici mesi. Gli Stati Uniti tendono ad applicare questi tre criteri senza tener conto delle particolarità di ogni paese. Così, per esempio, per il criterio dell’avanzo commerciale, la Svizzera supera il valore limite già dal 1915, mentre nell’ottobre 2020 superava già i 50 miliardi di dollari. Ma ciò era dovuto all’industria farmaceutica e soprattutto alla forte importazione di oro dalla Svizzera, a causa della pandemia da Covid. Per contro, l’avanzo nel commercio di beni viene praticamente compensato dal deficit nei servizi. Fatta astrazione delle forti importazioni di oro temporanee, la situazione dovrebbe normalizzarsi. Anche per quanto concerne la bilancia dei pagamenti, il saldo è

spesso dovuto al risparmio che va a finanziare investimenti all’estero. In Svizzera ciò provoca un’eccedenza che si aggira quasi sempre attorno al 10% del PIL. Restano gli effetti della politica della BNS contro l’eccessiva rivalutazione del franco. Il limite del 2% era già stato superato alla metà dell’anno, con acquisto di divise per 90 miliardi di franchi (12% del PIL). Anche gli USA, come anche il Fondo Monetario Internazionale, dovrebbero considerare questi interventi non come un’arma per il commercio estero, ma come pura politica monetaria. La forte domanda di franchi in caso di crisi (Bene rifugio) è volta a contrastare un forte ribasso dei prezzi all’importazione, che minaccia anche la stabilità interna dei prezzi. Finora la Svizzera è riuscita a far valere queste sue particolarità. Non è detto che ciò possa avvenire pure con la nuova amministrazione, anche se si spera che dovrebbe essere meno aggressiva di quella di Trump nei rapporti economici con l’estero.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Silvio Borner, il padre dei riformatori Una decina di giorni fa è morto, a 79 anni, il prof. Silvio Borner. Aveva insegnato per molti anni economia politica all’Università di Basilea, creandovi una vera e propria scuola di economisti che si occupavano, seguendo un approccio strettamente tradizionale, dei problemi di politica economica del nostro paese. Borner era diventato una personalità di livello nazionale, molto attiva soprattutto durante la lunga crisi economica degli anni Novanta, quando la Svizzera, dopo il rifiuto popolare di aderire allo Spazio economico europeo, stava cercando una via d’uscita dal calo di attività che quella decisione aveva creato. Con i suoi collaboratori Borner aveva analizzato i problemi che si ponevano alla nostra economia in pubblicazioni come Svizzera SA, dal caso speciale al caso da risanare? che

suscitarono un grande interesse. La sua analisi della situazione era piuttosto drammatica. I lettori che hanno qualche capello bianco si ricorderanno che l’economia svizzera si trovava, in quel periodo, in una situazione di forte stagnazione contraddistinta dai tassi di disoccupazione più elevati che la Svizzera avesse conosciuto dopo la crisi economica degli anni Trenta. In termini di crescita del Pil si trovava, in quegli anni, nel drappello di coda dei paesi europei. D’altra parte la spesa dello Stato, per numerose ragioni, non cessava di crescere tanto che, già allora, ci si chiedeva come in futuro si sarebbe potuto continuare a finanziare istituzioni indispensabili come le assicurazioni sociali. Per Borner e i suoi collaboratori la ricetta era chiara: anche in Svizzera occorreva più mercato e meno Stato. Essi

insistevano così perché, con adeguate riforme, si facesse maggior posto alla concorrenza. Da una parte dovevano sparire i cartelli che impedivano alla concorrenza di svilupparsi all’interno del paese. D’altra parte bisognava raggiungere con l’UE un accordo che consentisse alle aziende svizzere di continuare a svilupparsi a livello internazionale. Altrettanto importante del discorso sulla concorrenza era quello relativo alle privatizzazioni nel settore pubblico. Ovviamente l’attenzione si concentrava sulle regie federali come le PTT e le FFS, per non parlare delle aziende che producevano armi, ma i riformatori sostenevano anche la necessità di privatizzare servizi come l’educazione e la sanità essendo convinti che dalla privatizzazione non potevano nascere che benefici per tutti, produttori dei servizi

e utenti degli stessi. Borner si fece in quegli anni paladino di queste riforme con tenacia e caparbietà. Egli lasciava di frequente Basilea per predicare, in questa o quella riunione di associazione economica, o di partito, il suo credo riformatore. Né da meno era la sua attività pubblicistica in favore del suo programma. In quel relativamente breve periodo di predicazione della riforma neo-liberale, il prof. Borner non si limitò a pubblicare i risultati della sua ricerca sotto forma di libri e di articoli scientifici, ma prese anche posizione sui media pubblicando articoli e inviando contributi e lettere di lettore. Esauritasi alla fine del primo decennio del nuovo secolo, con l’arrivo della crisi finanziaria internazionale, l’ondata riformista neoliberale, Borner, ormai in pensione aveva trovato un nuovo terreno in cui

impegnarsi: la politica energetica. Egli combatteva ora contro l’abbandono del nucleare, una scelta che secondo lui non era motivata né, praticamente, poteva venir realizzata se non facendo sopportare costi elevati al contribuente. Come ricorda il prof. Aymo Brunetti, che fu per anni un suo stretto collaboratore, in un necrologio apparso sulla NZZ, Borner non fu solo un ricercatore impegnato nelle riforme tese a limitare l’intervento dello Stato e a favorire una maggiore concorrenza, ma fu anche un insegnante, apprezzato da generazioni di studenti, che si fece in quattro per promuovere le carriere di diversi suoi collaboratori. In particolare quelle universitarie. È certamente anche merito suo se oggi i suoi collaboratori occupano più di una cattedra universitaria importante nelle università svizzere e tedesche.

nibili dosi per tutti, è giusto che siano vaccinati prima medici e infermieri, che sono i più esposti al rischio di contrarre la malattia e pure di diffonderla. Hanno già pagato un prezzo altissimo. Le prime dosi spettano a loro. Dopo incomincia il dilemma: proteggere i più giovani, affinché possano andare a scuola, ed evitare di contagiare gli anziani? Oppure proteggere i più deboli, anziani e malati, che corrono il maggior pericolo di morire? Il governo italiano ha scelto quest’ultima soluzione. Non si dovrebbero però dimenticare le categorie che lavorano a contatto con il pubblico, dalle forze dell’ordine ai ferrovieri, dagli insegnanti ai cassieri dei supermercati: categorie reduci da un anno durissimo. Ma ecco che si affaccia il problema contrario: molti italiani il vaccino non lo vogliono proprio fare. I vaccini godono di cattiva fama; si pensi al calo delle immunizzazioni dal morbillo, che è costato all’Italia diversi focolai, richiami ufficiali e uno dei più bassi livelli di copertura in Europa. A mio avviso, il vaccino per il Covid dovrebbe essere obbligatorio; ma già sappiamo che non lo sarà. Del resto, non è facile imporlo per legge. Si potrebbe studiare una soluzione mista: obbligo

per gli italiani che lavorano a contatto con il pubblico; e incentivo per gli altri. Vuoi andare allo stadio, al cinema, a teatro? Devi avere il patentino da vaccinato. Vuoi prendere un aereo o un treno? Idem. Vuoi entrare in discoteca o al centro commerciale? Pure. In questo modo si salva la libertà di chi non intende vaccinarsi; ma non gli si concede la licenza di infettare gli altri. Purtroppo la fiducia è bassa, e la depressione avanza, così come l’uso di tranquillanti. La pandemia ha accelerato cose che stavano già accadendo e sarebbero accadute comunque: l’egemonia del commercio elettronico e del lavoro a distanza; la prevalenza della vita virtuale su quella reale. Purtroppo, tra queste cose c’è anche l’impoverimento dei rapporti umani, il degrado delle relazioni tra le persone. Non è un fenomeno nuovo. Risale almeno a vent’anni fa, quando noi europei abbiamo iniziato a svuotare i luoghi dove i nostri padri per secoli si erano conosciuti e riconosciuti, scontrati e riappacificati: le piazze, i centri storici, i borghi, le chiese, e poi le botteghe, gli stadi, i teatri, i cinema. La domenica abbiamo iniziato ad andare al centro commerciale o all’outlet, che diventava metafora della svendita: mercificazione

dei valori, rarefazione degli scambi tra gli esseri umani. A questo si aggiungeva il crollo della buona educazione, il dilagare di questa idea malsana per cui la cortesia – rivolgersi al prossimo con rispetto, non parlare a voce alta in treno o nei locali, non fumare in faccia a chi non fuma, rimproverare il figlio che si comporta male, non insultarsi al volante… – è considerata una forma di debolezza, un orpello spagnolesco di cui liberarsi. Poi è arrivato lo smartphone, trasformando quella che un tempo si chiamava Agorà (o Foro) in una piazza elettronica, dove tutti parlano, molti gridano, qualcuno insulta, e nessuno ascolta. La pandemia ha fatto il resto. Ha desertificato il cuore delle nostre città, e un po’ anche il nostro. Ha portato un carico di dolore, sospetto, paura, diffidenza. E ha impedito di incontrarsi, stringersi la mano, sorridersi, parlarsi occhi negli occhi, abbracciarsi. È entrato in crisi pure l’outlet; è il tempo di Amazon e dei social. L’augurio per il 2021 non è solo di liberarsi della pandemia; è anche di ritrovare il gusto di essere europei, e in particolare italiani o ticinesi; perché del nostro stile di vita fa parte anche la socialità, lo stare insieme.

vamente spolverati, priva di vita e di profondità storica. Può darsi che esageriamo. Lungo la linea curva del golfo qualche testimonianza del glorioso passato è rimasta: Santa Maria degli Angeli con gli affreschi di Bernardino Luini (Rinascimento) e Villa Ciani con il suo parco (Risorgimento). Ma occorre camminare lentamente e scrutare ogni anfratto per risalire a quelle sopravvivenze, ora assediate dai palazzi rimessi a nuovo. Ci soccorrono, in queste nostre estemporanee osservazioni, due pareri eccellenti. Il primo lo traiamo da uno dei più suggestivi libri pubblicati dall’editore Dadò nei primi anni Settanta: Occhi sul Ticino. Testo di Piero Bianconi e fotografie di Alberto Flammer. Diamo dunque la parola a Bianconi (scrittore, traduttore, storico dell’arte): «Siamo poveri di senso della storia, della tradizione, che vuole si

conservino testimonianze del passato, carte d’archivio e vecchi edifici come il ritratto dei genitori…». Il secondo giudizio è dell’architetto Mario Botta, e lo estraiamo da un bel volumetto pubblicato da Electa qualche mese fa, Il gesto sacro, curato da Beatrice Basile e Sergio Massironi: «credo che il luogo dove si è nati e cresciuti rivesta un ruolo importante in particolare oggi, dove la società globalizzata rende possibili rapporti immediati ma inevitabilmente superficiali. Il legame con la terra-madre non si riduce a un semplice riferimento geografico ma implica la connessione con un’entità più complessa che mi piace indicare come “territorio della memoria”. Esso rappresenta il palinsesto della storia della nostra civiltà, la complessità delle stratificazioni storiche leggibili nelle nostre città, i segni che, come suggeriva Louis Kahn, ci permettono

di interpretare “il passato come un amico”». Ebbene, questo territorio della memoria negli ultimi decenni si è via via arricciato come una foglia morta fino a naufragare nel mare dei laterizi. In molte zone del nostro cantone resistono solo le chiese, i campanili, le cappellette, gli oratori e i cimiteri, un’edilizia sacra incastonata, quasi rannicchiata, tra condomini e grandi magazzini. Tutto il resto è modernità o, semplicemente, regni dell’asfalto, corridoi di transito, svincoli e parcheggi. Torniamo dunque alla richiesta della nostra famiglia italiana, giunta a Lugano alla ricerca del centro storico. Interrogati, superiamo l’imbarazzo di cui sopra indicando semplicemente la via per raggiungere il «centro città». Per la storia bisognerà aspettare ancora qualche secolo.

In&outlet di Aldo Cazzullo La socialità perduta grande sfida del 2021. In tutto il mondo, e in particolare in Italia. Il governo Conte, mai così debole, si gioca molto. La macchina amministrativa e sanitaria ha funzionato male durante l’emergenza e pure nella fase di distribuzione dei vaccini antinfluenzali; ora è chiamata a riscattarsi. È normale che di vaccini si discuta; anche se trovo immorali le persone che, avendo una responsabilità pubblica, nicchiano o addirittura annunciano che non si vaccineranno. Ed è normale anche che si stabiliscano delle priorità. Siccome all’inizio non saranno dispo-

AFP

Finalmente il vaccino. Per primo è partito il Regno Unito, bruciando le tappe, forse anche troppo. Poi hanno seguito gli Stati Uniti. L’Europa se l’è presa con calma; forse anche troppa calma. L’Ema, l’agenzia europea per il farmaco, non fa test di laboratorio, non conduce esperimenti sulla popolazione; esamina dati, cioè scartoffie elettroniche. Il sì al vaccino Pfizer appare scontato. Forse gli euroburocrati potevano decidersi prima. Comunque hanno accelerato i tempi, e con la fine dell’anno si incomincia. La campagna di vaccinazione sarà la

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Dove si va per il centro storico? Lugano, autosilo. Una famigliola italiana chiede un’informazione, vorrebbe visitare il centro storico. Esitazione, dubbio. Lugano ha un centro storico? Vale a dire un nucleo originario, con qualche resto romano o medievale, magari un segmento di cinta muraria sbocconcellato dal tempo e dall’incuria e poi acciottolati, portici, vicoli, piazzette, facciate scrostate? La domanda intriga e obbliga a riflettere sull’impianto urbanistico della città, a come si è sviluppato negli ultimi due secoli. Vengono in mente certe pagine di Mario Agliati o l’accurata ricostruzione, in un volume a più voci curato dal figlio Carlo, delle vicende che portarono, tra le due guerre, allo sventramento del quartiere Sassello. Sulle prime potremmo dire che l’agglomerato sul Ceresio non ami voltarsi indietro, contemplare il suo passato. Nel

secondo dopoguerra ha messo in atto un’operazione di chirurgia estetica che prosegue tuttora. Tutte le costruzioni signorili in stile neoclassico sono state rinnovate e riconvertite alle esigenze del funzionalismo. Per non dare l’impressione di sprezzare la modernità galoppante, ha messo mano alla cazzuola un po’ ovunque, senza lesinare sul cemento (v. Palacongressi). D’altronde proprio questo pretendeva la piazza finanziaria in vertiginosa espansione: l’occupazione degli spazi più pregiati e più rappresentativi. Piano piano gli abitanti del centro hanno dovuto far fagotto e cedere le loro dimore ai negozi di lusso, agli uffici e agli sportelli bancari. Destinazione: le periferie lungo il Cassarate e, per i più abbienti, le colline circostanti. È così sorta la Lugano dei nostri tempi: tirata a lucido, ordinata e azzimata ma, come certi salotti borghesi ossessi-


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Cultura e Spettacoli Letteratura e critica Letteratura come contrabbando: Peter von Matt a colloquio con Marcel Reich-Ranicki

Le serie SSR per la coesione Dopo Il prezzo della pace SSR propone Unità di crisi, importante produzione televisiva purtroppo poco pubblicizzata dalla RSI

AC/DC, fiat lux Un nuovo disco per una band storica: PWR/UP è come una luce in fondo al tunnel

Vivere d’arte A colloquio con Elena Buchmann, fondatrice, insieme al marito, dell’omonima galleria pagina 47

pagina 43

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pagina 45

Contro ogni guerra

Narrativa Neri Pozza ripubblica il capolavoro

di Remarque e vi accompagna le illustrazioni di Marco Cazzato

Luigi Forte Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque non fu solo un romanzo, ma uno sconvolgente manifesto contro la guerra, l’urlo straziante di un’intera generazione falcidiata sui campi di battaglia. Uscì dapprima a puntate tra novembre e dicembre del 1928 sul quotidiano liberale berlinese «Vossische Zeitung», poi in volume a gennaio e il successo non si fece attendere: fu un bestseller indiscusso che si lasciò dietro opere ben più significative come, ad esempio, Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. L’anno dopo il regista hollywoodiano Lewis Milestone ne trasse un film osannato ovunque tranne che nel paese dei nazisti che, più tardi, non esitarono a bruciare i libri dello scrittore e a privarlo della cittadinanza. Ma intanto il romanzo fu tradotto in 49 lingue raggiungendo nel corso dei decenni una tiratura di venti milioni di copie. In Italia lo pubblicò Mondadori già nel 1931 nella versione di Stefano Jacini ampiamente rivista ora da Wolfango della Croce per Neri Pozza che lo propone con splendide illustrazioni del torinese Marco Cazzato. A sentire il suo autore quel libro non era stato che un semplice esercizio letterario, un’esperienza facile e spontanea risolta in poche settimane. Difficile credergli, anche perché la Prima guerra mondiale lui l’aveva vissuta sulla propria pelle. Infatti, arruolato a diciotto anni, nel 1916, finì al fronte nelle Fiandre Occidentali. Gravemente ferito fece ritorno, dopo una lunga convalescenza, a Osnabrück, sua città natale, e fu congedato nel gennaio del 1919. Andò molto peggio ai personaggi del suo romanzo, tra cui un gruppo di studenti non ancora ventenni partiti come volontari per difendere l’onore della patria. «Gioventù di ferro» che di fronte al terrore della morte scopre il vuoto della retorica, la solitudine e l’impotenza. Sono già vecchi quei ragazzi prima

di affrontare la vita, perché sui campi di battaglia non c’è futuro ma solo un gorgo che assorbe e distrugge ogni resistenza, come confessa il protagonista Paul Bäumer. È lui che ci conduce in prima linea sotto la traiettoria del fuoco nemico o nelle trincee in compagnia di ratti affamati e di cimici petulanti, e ci fa conoscere gli amici vecchi e nuovi, i vari Kat, Kropp, Tjaden e altri ancora, soldati in giubbe logore che il destino accomuna e che talvolta, in buffe circostanze, come davanti a un’oca catturata e arrostita di nascosto, si sentono fratelli. Di fronte alla catastrofe si aprono spiragli di intensa commozione: basta un suono amico, le voci dei compagni, mentre di notte si è soli in una buca e intorno fischiano granate e l’angoscia toglie il respiro, perché un calore straordinario scorra di nuovo nelle vene. Quelle voci – confessa Paul – sono più che la mia vita, sono la cosa più fortificante e protettrice che vi sia. E forse anche il vero, sincero richiamo contro la brutalità e la barbarie che infuriano nell’inferno quotidiano evocato da Remarque con immagini incalzanti e brutali che feriscono ancora oggi. Trema la terra fra gemiti e vapori, e intanto si scivola su brandelli di carne umana e corpi senza più consistenza, mentre i feriti urlano e le reclute saltano fuori dalle trincee in preda al panico. Le immagini di Cazzato, che rendono particolarmente pregevole quest’edizione, ribaltano le parole in sensazioni fulminee, in un chiaroscuro lacerante, con disegni dai forti tratti espressionisti. Occhi disperati, tumuli e croci nere, paesaggi lugubri e opprimenti, case incendiate come fiaccole nella notte accompagnano la narrazione e consegnano al lettore un messaggio di terribile disfatta di fronte alla violenza del mondo. Ma quella scuola del terrore incide a fondo sull’anima di una gioventù abbandonata a sé stessa e al proprio tragico destino. Si diventa spietati, rozzi e vendicativi, ricorda

Erich Maria Remarque in una fotografia scattata a Porto Ronco, 1933-34. (Keystone)

Paul, che finirà per sentirsi un estraneo anche a casa propria nei pochi giorni di licenza, là dove tutto appare come un tempo, ma senza lo slancio della giovinezza confinato ormai solo in un «grumo di dolore». Tuttavia il suo cuore non si è irrigidito di fronte alle atrocità e alla follia: prova pietà per i prigionieri russi che mendicano un po’ di cibo, e sgomento per quei profughi francesi che camminano curvi in preda all’ansia e allo scoramento. E altre terribili immagini lo attendono durante il soggiorno in ospedale con l’amico Kropp a cui verrà amputata una gamba. Ora non ha più dubbi sul destino dei giovani: «Il nostro sapere della vita – confessa Paul – si limita alla morte». La guerra ha livellato ogni cosa: non ci sono più differenze di cultura e di educazione, quasi – sottolinea – «fossimo monete di vari paesi,

fuse poi nel medesimo crogiolo». Tutte con la stessa impronta e presto con lo stesso destino. Uno dopo l’altro gli amici scompaiono: Berger cade fulminato in una cortina di fuoco nel tentativo di salvare un cane, Müller è colpito al ventre da un razzo e così pure gli altri, compreso il suo grande amico Kat che muore mentre lui cerca di portarlo in salvo. È l’estate del 1918, la più sanguinosa, quando la natura sembra richiamare inutilmente alla vita fra mille suoni e colori. Pochi mesi dopo fu colpito anche Paul in una giornata calma e silenziosa in cui il bollettino del Comando Supremo annunciava «niente di nuovo sul fronte occidentale». Chi vide il giovane soldato riverso a terra disse che aveva un’espressione serena «quasi fosse contento di finire così». Al suo autore nel dopoguerra andò molto meglio: si trasferì in Svizzera nel

1931, poi negli Stati Uniti, dove ebbe una burrascosa relazione sentimentale con Marlene Dietrich. Più tardi, verso la fine degli anni Cinquanta sposò l’attrice hollywoodiana Paulette Goddard che gli fu accanto fino alla morte a Locarno nel 1970. La fama del suo primo romanzo lo seguì ovunque. Aveva saputo arrivare al cuore dei lettori trasformando la propria terribile esperienza in una narrazione di forte impatto emotivo che riassume l’atmosfera di un’intera epoca. Bibliografia

Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, illustrato da Marco Cazzato, traduzione di Stefano Jacini, aggiornamento e revisione di Wolfgango della Croce, Neri Pozza, p. 194, € 20.–.


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Cultura e Spettacoli

Scrittori contrabbandieri

Pubblicazioni Il «papa» della letteratura tedesco Marcel Reich-Ranicki amava essere letto

Peter von Matt e Marcel ReichRanicki durante una delle loro conversazioni. (F.A.Z. Daniel Pilar)

Natascha Fioretti «Non ho mai scritto di un libro che ho letto una sola volta. Non credo nemmeno che si possa fare. Non significa che si debba leggerlo due o tre volte, una e mezzo mi sembra un compromesso minimo accettabile. La prima volta un libro va letto dalla prima all’ultima riga, i capitoli o estratti importanti, una seconda». Marcel Reich-Ranicki, il critico letterario della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» (F.A.Z.), la cui fama ha superato di gran lunga quella dei libri e degli autori che per quindici anni ha recensito sulle pagine del quotidiano tedesco, leggeva sempre con una matita in mano. Poi, prima di pubblicarle, sottoponeva le sue critiche a due redattori del giornale per una rilettura. Quelle particolari addirittura a una terza persona di fiducia ed era grato per qualsiasi appunto, anche la segnalazione di una ripetizione. Der doppelte Boden. Ein Gespräch über Literatur und Kritik mit Peter von Matt, ci racconta un Marcel ReichRanicki inedito. Si tratta, va detto, di una riedizione che raccoglie la conversazione tra il germanista zurighese e il critico letterario avvenuta negli anni tra il 1986 e il 1991. Ad arricchirla rispetto alla prima edizione del 1992 uscita per l’editore zurighese Amman ci sono quattro saggi di Peter von Matt e una prefazione del curatore Thomas Anz. Il fil rouge che unisce le tre penne è certamente la «Frankfurter Allgemeine Zeitung»: Thomas Anz vi lavorò da redattore culturale del Feuilleton nei primi anni 80 e Peter von Matt fu invitato a scrivere sulle pagine del giornale dallo stesso direttore (mentre in Svizzera i suoi articoli non trovavano spazio). Quella della conversazione, invece, è una tradizione letteraria tedesca, basti pensare a quelle tra Eckermann e Goethe. Attraverso uno scambio diretto ed empatico si mettono in luce non soltanto competenze e talenti degli interlocutori ma si racconta, da un lato, il contesto sociale e culturale, si evidenziano le personalità letterarie dell’epoca, dall’altro si penetra la sfera più intima e umana dell’intervistato. Non fa eccezione Der doppelte Boden, un libro molto personale, un Tour

d’horizon attraverso la letteratura del nostro secolo, un diario di bordo letterario al tempo stesso stimolante e seducente, senza dubbi provocatorio. Per trasmettervi parte delle atmosfere e delle peculiarità del testo, parte dell’intensità dei dialoghi, abbiamo fatto qualche domanda a Peter von Matt. Il professore di letteratura tedesca a Zurigo, ricorda il luogo in cui le conversazioni presero forma, l’appartamento sulla Gustav-Freytag Strasse nel quartiere dei poeti a Francorforte. L’editore Amman seduto accanto con il suo registratore, la moglie Tosia sullo sfondo della stanza che – tra una sigaretta e l’altra – ascoltava in silenzio ma interveniva fulminea ogni qual volta a Marcel Reich-Ranicki sfuggivano un nome o un titolo.

Le conversazioni tra intellettuali sono parte di un’importante tradizione letteraria tedesca A proposito di titoli, Peter von Matt ci spiega il perché del doppiofondo (der doppelte Boden). «Marcel Reich-Ranicki non si interessava di letteratura triviale, per lui un testo doveva avere una sua emblematicità, una sua simbolicità altrimenti non era letteratura. Il direttore del Feuilleton paragonava lo scrittore a un contrabbandiere che nel doppiofondo della valigia nasconde molto di più di ciò che si coglie a prima vista». Il papa della letteratura era un’istituzione, le sue critiche erano molto temute perché quasi sempre fuori dal coro e capaci di sollevare accesi dibattiti. Sapeva cogliere negli autori finezze e profondità oscure ai suoi colleghi. Stroncò Il tamburo di latta di Günter Grass di cui criticò spesso e volentieri la prosa innalzandone invece la poesia, idem per Brecht di cui pure prediligeva la lirica mentre di Dürrenmatt apprezzava soltanto le opere teatrali, non rimase impresso dai suoi romanzi. «Era uno che sapeva fare il suo mestiere. Sapeva catturare e raccogliere le persone attorno ai suoi articoli e questo

accresceva l’invidia dei colleghi. Voleva essere letto». Nel libro si dice che la FAZ con le sue pagine culturali costituiva negli anni 70 e 80 un centro di potere della cultura e del sapere. Guardando al paesaggio mediatico svizzero e a un grande giornale come la «Neue Zürcher Zeitung», c’è ancora posto per la critica letteraria? «Dal mio punto di vista la NZZ ha compiuto un passo inquietante. Hanno praticamente eliminato la critica della letteratura tradizionalmente intesa. Di quando in quando si presenta un libro, si fanno un paio di commenti, si anticipa qualcosa ma nulla che ricordi la tradizione della critica letteraria di un tempo. In generale le pagine si sono molto assottigliate». Nelle loro conversazioni i due esperti toccano molti temi, si chiedono, ad esempio, se si possa parla di letteratura svizzera «No, abbiamo una letteratura in lingua tedesca – dice Ranicki – Non mi interessa minimamente se il libro che leggo è di un autore svizzero, austriaco, tedesco o della DDR». Si parla anche delle autrici svizzere, il critico tedesco dice che l’unica a comparire nella storia della letteratura elvetica è Silja Walter ma precisa «non penso che le scrittrici in passato non abbiano avuto visibilità perché sottovalutate. Piuttosto è vero che veniva loro negata la possibilità di studiare, di prendere parte alla vita intellettuale del paese perché dovevano occuparsi della famiglia. Ma quando hanno scritto e avevano talento come la poetessa tedesca Annette von Droste-Hülshoff non sono passate inosservate». Nel fare il suo mestiere si sa, era impietoso, passionale, tagliente, talvolta, persino perfido. A suo dire «chi ha il coraggio di molestare l’opinione pubblica con il suo prodotto letterario deve accettare che qualcuno valuti il suo lavoro» e a chi prendeva male le sue critiche consigliava di «non rompere lo specchio che gli mostrava le sue smorfie». Nei confronti di un nuovo libro reagiva con tutta la sua figura umana e cioè con la sua competenza ed esperienza, le sue vicissitudini, le sue preferenze, le sue debolezze e virtù. Per Marcel ReichRanicki l’apertura era un criterio fondamentale, l’apertura nell’accogliere nuove pubblicazioni, nell’ospitare sulle

sue pagine opinioni differenti dalla sua purché ben argomentate e nel far dialogare critici e studiosi della letteratura. Peter von Matt lo conobbe sul lavoro e nel privato. Per quanto riguarda il primo racconta di essere rimasto colpito nel vederlo all’opera: «Era un instancabile lavoratore che disdegnava qualsiasi forma di negligenza. Oltre al suo amore per la letteratura, lo contraddistingueva una professionalità nel senso più alto del termine. Ad amare sono capaci tutti ma a lavorare con la sua dedizione ci vuole una marcia in più». Se la direzione del Feuilleton lo aveva reso una personalità di riferimento nel mondo giornalistico e culturale a dargli la notorietà fu il programma letterario televisivo Das literarische Quartett, del quale lo stesso Peter von Matt è stato più volte ospite. «In televisione era un attore. Ricordo quando eravamo in studio. Poco prima che la trasmissione andasse in onda quest’uomo stava seduto sulla sedia totalmente inanimato e ricurvo su sé stesso come un sacco. Partita la diretta si trasformava. Si alzava, parlava, dibatteva senza sosta, litigava prima con Hellmuth Karasek, altro feuilletonista tedesco famoso, poi con il critico letterario Siegfrid Loeffler. Spenti i riflettori, si accasciava sulla sedia esausto e ammutoliva di nuovo». Com’era nel privato? «Se una persona gli piaceva e decideva che poteva fidarsi, era un brillante e cordiale intrattenitore, nulla a che vedere con il Ranicki mordace e chiassoso delle critiche letterarie. Naturalmente, in generale, era una persona molto diffidente, in verità non si fidava mai di nessuno e questo è comprensibile dato il suo passato. Certo si doveva sempre parlare di letteratura. Non potevi pensare, durante una passeggiata, di dire cose del tipo “laggiù c’è un bel fungo” oppure “ho visto un bel fiore”. Ti avrebbe preso per matto. Si doveva parlare di letteratura, altro per lui non esisteva». Bibliografia

Marcel Reich-Ranicki, Der doppelte Boden. Ein Gespräch über Literatur und Kritik mit Peter von Matt, Zurigo, Kampa Verlag, 2020.

Sciù Sciù e lo shopping compulsivo In scena Appena in

tempo per assistere a due riuscite produzioni

Giorgio Thoeni Verrà ricordata l’esemplare resistenza opposta fino all’ultimo da diverse compagnie indipendenti per la sopravvivenza nonostante la pandemia. Le ultime misure non hanno però lasciato scampo e ora tutto è nuovamente fermo. Sebbene avvolti da un clima di mestizia, abbiamo fatto in tempo ad assistere a un paio di debutti che meritavano di essere visti. Al Teatro Foce di Lugano ha esordito Sciù Sciù Broken – Becomes Beautiful, una nuova produzione del Collettivo Treppenwitz, uno spettacolo scritto, diretto e interpretato da Carla Valente con la co-regia di Simon Waldvogel assistito da Federica Carra e con la collaborazione artistica di Camilla Parini e Anahì Traversi. Come nel precedente L’amore ist nicht une chose for everybody (Loving kills), il disegno drammaturgico del Collettivo utilizza proiezioni, filmati, foto e musiche gestite dal palco che accompagnano l’azione teatrale in un racconto dalla duplice valenza di biografia e denuncia. Con le prime immagini vediamo la protagonista, avvolta in una tuta integrale, ricostruire un volto con ritagli di foto: un identikit simbolico della memoria narrata, contraddizioni e drammi della sua bella terra, fra Campania e Lazio, dove scorie radioattive di due impianti nucleari, ormai dismessi, hanno fatto disastri alterando geneticamente molte creature, Carla compresa. Nata con due dita in meno di una mano, in lei è maturata la donna ma anche la sensazione di una normalità negata. Ricordi che lasciano spazio a una presa di coscienza che lascia il posto a un’appassionata e rabbiosa invettiva dal contenuto coinvolgente, capace di commuovere e coinvolgere la sensibilità del pubblico, che ha tributato calorosi applausi alla bella prova di Carla Valente. Anche il Teatro Paravento di Locarno ha fatto in tempo a debuttare con Aggiungi al carrello, monologo scritto da Luisa Ferroni con la regia di

Rita Pelusio in Aggiungi al carrello, andato in scena al Paravento. (Thoeni)

Rita Pelusio, la collaborazione di Domenico Ferrari, i costumi e la scenografia di Deborah Erin Parini. È una sorta di instant-comedy sull’attualità degli acquisti online, pratica diffusa con i suoi risvolti spesso compulsivi e la graduale perdita di identità, come l’abbonamento alla frase del giorno a soli 2.95 che maschera il profondo bisogno di socialità: il terreno ideale per immedesimarsi in un’efficace e spassoso repertorio di situazioni paranoiche a partire dagli sforzi per sollecitare la consegna di un pacco. Un gioco fra estenuanti e inutili telefonate agli operatori sognando l’oggetto dei desideri per colmare il vuoto creato dalla solitudine. Applausi meritati per la Ferroni per un monologo ben recitato dal testo brillante e ben calibrato.


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Cultura e Spettacoli

La Svizzera umana

Serie TV Dopo Il prezzo della pace la SSR propone le sei puntate di Unità di crisi

Rete Due Verso

la «riduzione del parlato»

Nicola Mazzi Un progetto ambizioso, importante a livello finanziario e originale dal punto di vista tematico. Un lavoro che scava in un settore molto apprezzato a livello internazionale tanto da caratterizzare il nostro Paese: l’aiuto umanitario. Unità di crisi – la nuova serie tv di Jacob Berger prodotta dalla SSR – punta molto in alto. L’esercizio, diciamolo subito, è riuscito solo a metà. Ma arriviamoci per gradi.

Simona Sala

Le organizzazioni umanitarie svizzere al centro di una serie avvincente, seppure con qualche pecca L’idea iniziale, e cioè quella di costruire una serie su questo tema, come anticipato, è davvero interessante perché mette in luce un aspetto della Confederazione che sovente è sottovalutato, relativizzato o quanto meno dato per scontato. Il grande lavoro realizzato da organizzazioni come la Croce Rossa, un operato encomiabile, dev’essere valorizzato al meglio. Su questo primo aspetto bisogna dire che la fiction è davvero ben fatta, anche grazie a esperti del settore come Pierre Hazan, Jean François Berger et Jean Leclerc dai quali è partito il progetto. La ricostruzione del lavoro svolto a Ginevra e di quello sul campo (l’ambientazione è tra lo Yemen e l’Arabia Saudita) è convincente e le dinamiche tra i vari attori sul territorio sicuramente verosimile e realistica. Qualche problema in più viene evidenziato dallo sviluppo della serie – che conta sei puntate – e quindi a livello di sceneggiatura, che resta uno dei talloni d’Achille del cinema nazionale. Unità di crisi segue tre storie che si intrecciano e trovano sempre più collegamenti man mano che la serie avanza. La prima è quella di Suzanne Fontana (Isabelle Caillat brava e convincente nella parte, anche se forse troppo monocorde), una professoressa dell’Uni di Friborgo a cui viene offerta la direzione dell’HCIH (Alto Commissariato Internazionale Umanitario). La seconda

Filodiffusione di lusso e poche parole

André Dussollier e Isabelle Caillat, protagonisti di Unità di crisi. (SSR)

vicenda è quella di Guillaume Kessel (interpretato dall’esperto e solido André Dussollier), il capo ad interim dell’HCIH che deve trovare un sostituto al precedente responsabile morto sul campo. La terza storia coinvolge, invece, Adi Lipp (Jean-François Balmer) responsabile dell’organismo che controlla il calcio mondiale, il FFIO, una sorta di FIFA. Un personaggio, che all’inizio sembra separato dagli altri due ma che avrà un ruolo sempre più centrale. Tre filoni che si intersecano in modo naturale e con diversi e ben architettati colpi di scena. Ma, come sempre è nei dettagli che si nasconde il diavolo. In quei particolari che sembrano di poco conto ma che alla fine danno fastidio. Mi riferisco, ad esempio, a un ritmo narrativo un po’ ingessato e ad alcuni buchi di sceneggiatura che ti fanno dire: peccato. Per quanto riguarda il ritmo, anche in questo caso, il cinema nazionale dovrebbe fare un passo in avanti e sciogliere, in modo più naturalistico, dialoghi e scene. La

troppa costruzione sa di artefatto; la parola a un attore e poi la replica del secondo attore (senza quindi sovrapposizioni di voci e azioni) con un classico campo-controcampo è un modo scolastico di girare. Può funzionare solo se supportato da una regia precisa, da una padronanza di inquadrature e da dialoghi efficaci. Difetti presenti anche nella scrittura. Un esempio su tutti. La lotta per la direzione all’HCIH che coinvolge Suzanne e un’altra donna si risolve con un’ellissi. Lecito, per carità. Ma se costruisci narrativamente la scena mostrando le lotte intestine nel comitato dell’organismo e i vari giochi di potere che stanno dietro quella nomina, lo spettatore si aspetta una degna conclusione che qui è negata. Così come sparisce quasi completamente dalla serie l’antagonista, che all’inizio ha un ruolo importante. Alla fine, sappiamo solo che ha vinto Suzanne. Qualche piccolo fastidio lo danno anche le immagini «telefonate», quelle

costruite a tavolino e che fanno sentire l’odore della pubblicità istituzionale: gli studi della SSR, Palazzo federale e la sede dell’HCIH ritornano più volte. Detto di qualche piccola mancanza, è altrettanto corretto elencare altri pregi. Oltre all’idea di partenza, alla convincente ricostruzione di quel mondo e al buon lavoro degli attori (indovinati anche i coprotagonisti), segnalo lo sviluppo interessante della sottotrama thriller che coinvolge Kessel. Sicuramente la storia più riuscita e con un’evoluzione davvero interessante. Anche la descrizione del mondo arabo, in particolare del rapporto tra padre e figli, è una tematica disegnata bene. In definitiva Unità di crisi è una serie svizzera godibile e interessante, anche solo per il coraggio che ha dimostrato nel mettere in piedi uno sforzo produttivo importante, partendo da un’idea vincente e ben sviluppata. In onda sulla RSI il 13, il 20 e il 27 dicembre. Visibile anche sulla nuova piattaforma online PlaySuisse.

Per la cultura questa è stata l’ultima di una serie di batoste che sembrano inanellate a regola d’arte. Dopo la chiusura forzata della maggior parte dei luoghi aggregativi culturali a causa dell’emergenza sanitaria, seguita dalla definizione loro data, ossia di essere annoverabili fra le «cose minori», ecco infine la ciliegina sulla torta. La RSI annuncia un’imminente operazione di «riduzione del parlato» per Rete Due, che si trasformerà in un’emittente quasi prettamente musicale. Una filodiffusione di lusso, insomma. Rete Due diventerà un anonimo luogo quasi muto, senza il parlato (infelice parola, che ricorda un inconsistente chiacchiericcio) e cesserà di essere un mezzo di divulgazione culturale democratico, aperto al mondo, alla storia, al futuro. Perché mai dunque dare retta agli intellettuali, che si sono immediatamente mobilitati, o ai cittadini, che hanno raccolto 7000 firme in una manciata di giorni per salvare la loro (eh, sì, si tratta pur sempre di service publique) radio del cuore, quando si può sparpagliare secondo criteri imperscutabili quel parlato su altre reti e sul digitale? Maurizio Canetta ha affermato che «si tratterà di costruire con chi mi succederà». Ora sappiamo anche chi dovrà chinarsi su questo progetto, compiendo le scelte fondamentali per il futuro dell’emittente. Il nuovo direttore Mario Timbal, oltre ad essere giovane, proviene proprio da quel mondo culturale che di Rete Due ha fatto la sua casa. Come dimostra il suo curriculum, caratterizzato da un disinvolto e fortunato percorso tra diverse espressioni artistiche. Chissà allora che non si possa costruire qualcosa di più bello con chi prenderà le redini della RSI, che non si possa addirittura estenderla, Rete Due, rinfrescandola e arricchendola? Sarebbe una sorpresa, ma sarebbe anche una svolta, una conquista e una serena vittoria per tutti coloro che reclamano il diritto alla scoperta e alla conoscenza. Sarebbe un regalo di Natale, in un momento difficile come questo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 dicembre 2020 • N. 52

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Cultura e Spettacoli

Con gli AC/DC il rock è qui per salvarci

La musica delle ragazze

Cd Una rassegna natalizia di dischi

al femminile che mostrano una grande capacità e voglia di farsi ascoltare

Musica Il nuovo album Power Up è una luce in questi tempi bui

Fabrizio Coli In un anno maledetto come questo, Power Up degli AC/DC è un raggio di sole, una manna dal cielo, una ventata di ottimismo e di speranza. È cambiata la nostra vita, sono cambiate le nostre abitudini, i nostri contatti con gli altri: in questo terribile 2020 pandemico che ha inferto così tante ferite, qualcosa che non cambia ha un sapore speciale. E loro non cambiano, oh no che non cambiano. Con gli AC/DC non puoi confonderti e su di loro puoi contare. Ogni cosa che li riguarda è un marchio di fabbrica. Il logo con quel fulmine lì nel mezzo, stavolta tinto di un rosso al neon: un segnale riconoscibile a chilometri. Angus Young, ormai l’unico membro della prima ora, con la sua Gibson Sg a tracolla e la sua uniforme da – 65enne – scolaretto rimane un punto fermo, così come la voce di Brian Johnson, che è ancora quella di «qualcuno a cui è passato un camion su un piede» (definizione di Angus). Il sound: così immediato, diretto, viscerale è inconfondibile, quei quattro quarti elettrificati che ogni volta riescono a farci stare bene. Sono sempre uguali a se stessi gli AC/DC e questo ci tranquillizza. Power Up o PWR/Up come spesso lo scrivono loro: accensione. Si attacca la spina, si spinge l’interruttore e l’energia circola. Di nuovo. È il manifesto degli AC/DC proprio così come devono essere. Solidi come rocce in un mare burrascoso. Non c’è nulla di inaspettato o di diverso in questo album ed è tutto bellissimo, energetico e rinfrancante. No, non c’è nulla di inaspettato o di diverso in questo album. Tranne il fatto che questo album rischiava di non esserci. Erano sei anni che Angus e compagni non producevano nulla di nuovo, da Rock or Bust del 2014. Da allora a oggi, gli AC/DC hanno passato brutti momenti. La lista è lunga. I serissimi problemi di udito di Brian Johnson che nel 2016 hanno portato a un allontanamento dalla band che si temeva definitivo (con nientemeno che Axl Rose a prenderne il posto per finire il tour); i guai con la legge del batterista Phil Rudd, fra accuse di minacce di morte (poi ritirate) e una condanna per possesso di stupefacenti (scontata agli arresti domiciliari); il bassista Cliff Williams che sembrava serio quando dichiarava di volersene andare in pensione... Ma soprattutto, c’è stata la

Il carismatico Angus Joung, chitarrista degli AC/DC. (Keystone)

scomparsa di Malcolm Young nel 2017, a poca distanza da quella del fratello maggiore George, che della band fu produttore. Fondatore, anima e motore del gruppo insieme ad Angus, Mal era malato da tempo. Non aveva partecipato alle registrazioni di Rock or Bust, sostituito dal nipote Stevie Young. «Questo disco è per Mal». Suo fratello Angus è chiaro quando parla di Power Up. Così come lo spirito dello scomparso primo cantante Bon Scott pervadeva il capolavoro Back in Black nel 1980, quello di Malcolm Young vive in Power Up. Tutti i brani sono frutto di idee su cui lui e Angus stavano lavorando quando Malcolm era ancora in grado di farlo. Già il primo singolo, Shot in The Dark, uscito a ottobre anticipando di un mese l’arrivo dell’attesissimo nuovo lavoro, aveva fatto gridare «Urrà!», con quel riff in perfetto stile AC/DC, un po’ alla Stiff Upper Lip, quell’inimitabile heavy rock dall’anima blues e boogie ad alto voltaggio che rende impossibile non battere il tempo con il piede e quelle parti vocali pronte per essere cantate a pieni polmoni negli stadi pieni di tutto il mondo, che la band australiana riempie in un nanosecondo ogni volta che i biglietti dei suoi concerti vengono messi in vendita. È

così anche tutto il resto del disco, uscito per Columbia / Sony Music e subito balzato ai primi posti delle classifiche planetarie, Svizzera compresa: splendente compendio di quella che è un’autentica istituzione del rock che in 47 anni di carriera ha venduto qualcosa come 200 milioni di dischi. I coretti alla Thunderstruck che aprono l’album con Realize non lasciano scampo e da lì si è trascinati in una cavalcata in mezzo a tutto quello fa grande questo gruppo. Il suono brillante e nitido enfatizza ogni brano, dalla potenza controllata di Rejection, alla solidità di Witch’s Spell; dalla riflessiva Through the Mists of Time fino all’epicità di Money Shot o delle ombrose No Man’s Land e Systems Down dove si respira l’aria di For Those About to Rock. Tutte intrise di quella semplicità primordiale che le rende irresistibili. Johnson sembra rinato, Angus è l’inimitabile Angus. Si sente che questo disco era giusto, che andava fatto. Mal ne sarebbe fiero. Power Up è per lui. Ma è anche per tutti noi che ne abbiamo un disperato bisogno. È l’agognata, splendida normalità delle cose che conosciamo così come le conosciamo, un balsamo in questo mondo sottosopra: il rock’n’roll ancora una volta è qui per salvarci.

Tempi difficili ma anche tempi propizi all’ascolto. Quindi fa piacere trovarsi sulla scrivania degli album interessanti, pieni di idee originali e accomunati dal desiderio di percorrere nuove strade creative. Una rassegna che è volutamente «di genere», proprio perché vuole mostrare la volontà di uscire dagli schemi un po’ machisti che a volte popolano il mondo musicale odierno. Un primo album che ci sembra interessante segnalare è quello dell’arpista romanda Julie Campiche. Attiva sulle scene internazionali ormai da tempo, lo scorso anno ha aggiunto un nuovo tassello alla sua produzione con un intenso e ambizioso Onkalo (Meta Records), disco in cui si mette alla testa di un quartetto «pronto a tutto» composto da Leo Fumagalli al sassofono, Manu Hagmann al basso e Clemens Kuratle alla batteria. L’arpa non è proprio uno strumento usuale in ambito jazz. Chi conosce la Campiche sa come il suo approccio allo strumento sia originale e necessariamente moderno. La cultura musicale dell’artista ginevrina è ben intrisa di fondamentali coltraniani e di libera improvvisazione, tanto da spiazzare l’ascoltatore. L’aspetto più interessante sta però nella personalissima impronta compositiva, molto eclettica: si ascolti ad esempio il primo brano Flash info, che colpisce per la sua struttura inusuale, asimmetrica e per questo piena di pathos. Disco intenso e molto «svizzero» nei suoi presupposti: la libertà esecutiva e il rigore di scrittura sono uniti dal gusto per la corposità del suono. Su un versante apparentemente più leggero e popolare troviamo il CD L’erba mata, del trio insubrico Nadia & Le due nel cappello. Nadia sta per Nadia Gabi, una delle colonne della musica popolar-intelligente, impegnativ-scan-

Un disco molto originale per Nadia Gabi, Sara Magon e Clara Zucchetti.

zonata del nostro cantone. Di lei ricordiamo i bei dischi registrati con i Veranda, anni fa, un esperimento di folk acustico libero e di gran gusto. In questa nuova prova discografica l’esperta musicista si affianca a due bravissime colleghe, appartenenti a una generazione diversa, non solo per dati anagrafici. Sara Magon (chitarra, ukulele, voce) e Clara Zucchetti (batteria, percussioni, voce) rappresentano alla perfezione le nuove generazioni di jazzisti/e, preparatissimi/e, eclettici/he, giocosi/e e anche iconoclasti/e, capaci, per dire, di affrontare il repertorio dei Weather Report con un ukulele e un flauto dolce. La somma di queste tre personalità musicali apparentemente eterogenee dà forma a un disco molto piacevole e originalissimo da inserire in una pseudo categoria, inventata e forse calzante, di «jazz-folk». Ma le etichette, come si sa, difficilmente centrano il bersaglio: quello che è importante ascoltando L’erba mata è cogliere l’ampiezza delle suggestioni proposte, che vanno dalla canzone popolare antica al root blues americano, dal folk dialettale alla ballata. Insomma una tavolozza di sorprese che merita una bella serata di ascolto e poi di rimanere a girare a lungo nel lettore CD dell’automobile. Chiudiamo la rassegna con un progetto sicuramente più ambizioso, per impatto sonoro e per ampiezza progettuale. Il disco Constellations della giovane Chiara Dubey è forse l’album più bello e sorprendente di questo 2020. Le dodici composizioni che contiene sono una descrizione musicale che la musicista, cantante e compositrice ticinese, ha dedicato ad altrettante costellazioni di fantasia. Frutto della sua formazione musicale all’Institute of Contemporary Music Performance di Londra, l’album si staglia per compiutezza e ampiezza di pensiero molto sopra i normali standard creativi e realizzativi a cui siamo abituati nel nostro cantone. Fosse anche soltanto per la sua orchestrazione ampia e sofisticata, per la partecipazione alla sua realizzazione di personalità d’esperienza (Jan Willem de With e Cristiano Nicolini come coproduttori, Daniel Dettwiler come tecnico del suono) Constellations è il disco che non ti aspetti, proveniente da un altro pianeta. Anzi, da un altra costellazione. La voce, in particolare, della Dubey è una bellissima sorpresa. / AZ Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

45 anni di passione per l’arte Incontri A colloquio con Elena Buchmann fondatrice della omonima Galleria Alessia Brughera Tutto incomincia nel 1975, quando Elena e Felix Buchmann decidono di aprire nella città di San Gallo uno spazio dedicato all’arte, distinguendosi fin da subito per le loro proposte d’avanguardia. La galleria, che si trasferisce nel 1983 a Basilea e nel 1998 nel nostro Cantone (e che dal 1995 ha una sede anche in Germania gestita dal figlio della coppia), diventa con gli anni un importante punto di riferimento nel mondo dell’arte, coinvolgendone alcune delle personalità più di spicco, spesso cresciute proprio con la storia stessa dello spazio espositivo. Ripercorriamo i momenti salienti della galleria conversando con Elena Buchmann, figura preziosa e sensibile nel panorama artistico contemporaneo, che, dopo la prematura scomparsa del marito nel 2008, continua con dedizione l’attività di gallerista attraverso mostre e progetti nati sempre da un profondo dialogo con gli artisti. Torniamo per un attimo a quarantacinque anni fa, a San Gallo. Cosa ha spinto lei e suo marito ad aprire una galleria?

Felix e io eravamo grandi appassionati d’arte. Al piano terra della casa d’epoca dove mio marito aveva un’agenzia di pubblicità e marketing si sono liberati alcuni locali che abbiamo deciso di affittare per esporre le opere degli autori che ci piacevano. Il nostro primo artista è stato lo svizzero Matias Spescha, che nel 1981, insieme a Dieter Roth, abbiamo anche portato alla Fiera di Basilea. In quegli anni avevamo infatti una predilezione per pittori e scultori elvetici ma eravamo altresì già molto attenti a quello che accadeva a livello europeo. Avevamo contatti con Paladino, ad esempio, e con Mario Merz, che tra l’altro veniva spesso a lavorare nel Domleschg, negli spazi dei castelli che avevamo messo a disposizione dei nostri artisti.

Seguendo le vicende della galleria arrivano poi gli anni basilesi...

i quarant’anni di presenza consecutiva a questo evento, che tra l’altro attua una selezione molto accurata dei partecipanti. Come riesce con la sua galleria a mantenere sempre un livello qualitativo così alto?

Proprio con una rassegna di Merz abbiamo aperto nel 1983 la sede espositiva di Basilea, in un magnifico spazio di fianco al museo d’arte contemporanea, accanto al Reno. Qui abbiamo coltivato e approfondito il rapporto con tanti artisti internazionali. Sono stati anni molto soddisfacenti anche perché Basilea era una città particolarmente vivace. La gente era curiosa e amava venire a visitare le nostre mostre.

Non è facile essere sempre all’altezza. Ogni anno le diverse commissioni di Art Basel vanno personalmente a visitare le gallerie che vorrebbero partecipare al fine di valutarne il livello. Mio marito tra l’altro faceva parte negli anni Novanta del comitato della fiera e si era adoperato molto per sollecitare una sua apertura verso le sculture di grandi dimensioni. Credo che per una galleria, in parallelo alla propria attività espositiva, sia molto importante lavorare con istituzioni museali a progetti di ampia portata. Da anni collaboro con i musei d’arte di San Gallo e di Coira, con il MASI, con il Museo Vela di Ligornetto, con la Fondazione Ghisla di Locarno, con il Kirchner Museum di Davos e con il Cabinet des dessin del Musée d’art et d’histoire di Ginevra, solo per citarne alcuni, e penso che questo sia sempre stato molto apprezzato.

Nel 1998, giunti in Canton Ticino, aprite un nuovo spazio espositivo nella splendida cornice della Collina d’Oro. Cosa vi ha portato qui?

Anche se i miei genitori vivevano a Lugano io non conoscevo molto bene il Ticino. Per noi era un territorio tutto da scoprire. Per caso abbiamo visto un’abitazione in vendita ad Agra e abbiamo deciso di acquistarla poiché aveva un ampio giardino dove avremmo potuto presentare sculture di grandi dimensioni. A Basilea, infatti, questo non era possibile. Ad Agra siamo riusciti addirittura a esporre un lavoro di Jannis Kounellis con il fuoco. Oltretutto, avvicinandoci all’Italia, abbiamo potuto approfondire i rapporti artistici con questo paese.

Quali sono i suoi progetti per il futuro, anche in considerazione di questi tempi non facili?

Oggi è lo spazio presente dal 2013 nel centro di Lugano a rappresentare il fulcro della sua attività...

Prima della chiusura della sede di Agra, quella di Lugano era stata concepita per essere una sorta di luogo di meditazione sull’arte. Qui presentavo soltanto un’opera alla volta così da concentrare su di essa tutta l’attenzione del visitatore. Era un modo per creare un dialogo ancor più stretto con l’autore. Oggi in questo spazio nel cuore della città di Lugano, proprio accanto a Palazzo Reali, allestisco mostre con più lavori di uno stesso artista. Per lei è sempre stato molto importante il dialogo con i suoi artisti, vero?

Per me il dialogo con gli artisti è fon-

La gallerista Elena Buchmann. (Donata Zanotti)

damentale. Cerco sempre di instaurare con loro un rapporto fecondo fatto di stimoli, di suggerimenti e di continui scambi di opinione. Nel 2008, ad esempio, ho motivato Tony Cragg a realizzare opere d’arte in vetro a Murano: promuovendo questa idea si è concretizzata la mostra organizzata a Ca’ Pesaro a Venezia. Più di recente, per l’esposizione attualmente allestita

Andrà tutto bene

creativa, tra Barocco e Street Art contemporanea

Suppongo che siano due i lavori emblematici dell’anno che sta per finire. Il primo è una Madonna con bambino, della bottega di Peter Paul Rubens, esposta in questi giorni al m.a.x. museo di Chiasso. Il secondo un murales della street artist Laika apparso in primavera a Roma e in questi giorni nei pressi del Rettorato dell’Alma Mater Studiorum di Bologna dove studiava Patrick Zaki, incarcerato da otto mesi in Egitto. Nel murales si vede Giu-

lio Regeni – atrocemente assassinato dopo il suo rapimento del 25 gennaio 2016 al Cairo e che vede indagati cinque agenti della National Security – che abbraccia Patrick dicendogli «Stavolta andrà tutto bene». Anche nella Madonna con bambino le figure sono due; in questo caso un’attenta signora elegantemente vestita con tanto di pizzo e trecce ai capelli la quale con la mano destra sorregge un imbambolato piccolino tutto nudo che cerca di muovere i primi passi. Ai piedi un panno bianco simbolo del sepolcro

Il graffito di Laika era apparso a Roma in febbraio nei pressi dell’Ambasciata egiziana. Misteriosamente cancellato, è riapparso in ottobre a Bologna. (Instagram)

Parliamo di Art Basel, la fiera d’arte più importante al mondo. Nel 2021 lei festeggerà un altro anniversario,

Un capolavoro rivede la luce a Chiasso

In copertina Una riflessione sull’attualità mediata dall’espressione

Gianluigi Bellei

nello spazio Buchmann di Lugano, mi sono confrontata con Alex Dorici esortandolo a presentare alcuni lavori che ne rivelano un aspetto sconosciuto, un inedito approdo al figurativismo lontano dalle geometrie che siamo abituati ad accostare all’artista.

Mi piace lasciarmi sorprendere dal momento. Molti dei miei progetti sono nati proprio dall’ispirazione che mi hanno regalato le circostanze, come ad esempio la rassegna Lugano mostra Bandiera realizzata nel 2015 sul lungolago cittadino per l’apertura del LAC o l’esposizione 14 Artisti Via Crucis – Madonna d’Ongero – Carona nel 2018. Questo periodo, in particolare, ci ha condotti verso un’esperienza del tutto nuova. Credo che sia fondamentale essere aperti al cambiamento perché, nonostante le difficoltà, spesso può avere anche risvolti positivi. Quello che mi auguro è che l’arte, come ha sempre fatto, continui a dischiudermi il suo mondo, rendendo la mia vita più intensa.

e del suo futuro. Anche in questo caso la donna si prende cura dell’infante e sembra dirgli: «Coraggio puoi farcela, andrà tutto bene». Protezione, affetto, sicurezza, empatia, amore; le due vicende portano in primo piano il terrore che incute il potere che, a distanza di duemila anni, semina morte e oppressione. Certo non si può rimanere indifferenti al pensiero che il procuratore di Siria Publio Quintilio Varo nel 4 avanti Cristo fece crocifiggere duemila giudei (la crocifissione veniva inflitta solo ai delinquenti non romani) e oggi al-Sisi, il mellifluo dittatore egiziano, ordina – impunemente e con il beneplacito dell’Occidente – migliaia di esecuzioni per i suoi oppositori. Poco è cambiato in questi secoli in una sorta di eterno ritorno nicciano che fa rabbrividire. Andrà tutto bene è il mantra che ci ripetiamo anche dall’inizio della pandemia per rassicurarci. Sappiamo che non è così; almeno non per tutti. Ora che il vaccino è arrivato, quasi sicuramente le popolazioni più povere non ne avranno accesso, acuendo così il divario fra i Paesi. In mezzo a tutto questo alcuni sostengono che la bellezza ci salverà. Ma non c’è bellezza nell’orrore della povertà e della miseria, e l’arte non può essere il trastullo e l’alibi contro i sensi di colpa dei nuovi edonisti.

Fino al 9 gennaio 2021 il m.a.x. museo di Chiasso offre gratuitamente la possibilità di ammirare un’opera prestigiosa che non è normalmente esposta al pubblico, poiché fa parte di una raccolta privata. Nell’atrio del museo è stata collocata in una postazione specifica una Madonna con bambino (1617-1618) di Peter Paul Rubens, uno dei massimi interpreti della pittura fiamminga del Seicento. L’iniziativa inaugura una serie di eventi analoghi che la direzione del museo chiassese intende proporre in futuro nei suoi spazi per divulgare presso un pubblico più amplio alcuni capolavori appartenenti a collezionisti della regione. Per ciò che riguarda questo particolare dipinto, esso faceva parte della collezione di Henry Ford II (Grosse Point, Detroit, Michigan USA), cioè della collezione privata di Henry Ford. In seguito la tela è passata, tramite acquisto diretto, alla Collezione degli editori Dino Fabbri; in tempi più recenti ad una collezione privata ticinese e infine alla Collezione privata ticinese di Michele Moser. Come ha spiegato la direttrice del m.a.x. museo, Nicoletta Ossanna Cavadini, Rubens all’inizio del 1600 aveva impiantato un’importante bottega ad Anversa, in cui poteva valersi dell’aiuto di ben 180 collaboratori. Analogamente a quanto succedeva ovunque in questo tipo di «industria artistica», il maestro si incaricava di definire il disegno iniziale del soggetto indicato dal committente. Del

bozzetto preparatorio veniva poi realizzato un esemplare in formato ridotto, che era in seguito sottoposto per l’approvazione ai committenti stessi. Una volta accettato il soggetto, il quadro definitivo veniva riportato sulla tela dalle dimensioni finali: il lavoro di realizzazione veniva lasciato per le grandi linee ai collaboratori mentre il maestro interveniva per precisare alcuni particolari e dettagli. Nel caso della Madonna esposta a Chiasso (a differenza di altre versioni, o varianti, che testimoniano la popolarità del soggetto) gli interventi di Rubens sarebbero collocati nelle sezioni principali del dipinto e la tela è quindi ritenuta autografa. L’esibizione di questa importante opera avviene in contemporanea con la mostra da noi già presentata (vedi «Azione 28» del 6/7/20) dedicata all’opera grafica di Aberto Giacometti, dal titolo Alberto Giacometti (1901-1966). Grafica al confine fra arte e pensiero, che rimarrà aperta fino al 10 gennaio 2021 (per info: www.centroculturalechiasso.ch). Da notare che il m.a.x. museo proporrà nelle prossime settimane allo Spazio Officina la mostra Le stanze dell’arte, rassegna che si prefigge di dare spazio a otto giovani talenti della Svizzera italiana nel campo delle arti visive e performative, in questo momento difficile per la cultura. L’esposizione potrà essere visitata fra il 18 dicembre 2020 e il 9 gennaio 2021; è curata da Antonio d’Avossa, e Nicoletta Ossanna Cavadini. / Red.


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Clementine foglia bio Corsica, imballate, 1 kg

25% 5.70

Panini ApĂŠro 2 x 240 g

invece di 7.60

Offerte valide solo dal 21.12 al 27.12.2020, ďŹ no a esaurimento dello stock


Pesce e frutti di mare

Un’ottima scelta per molti momenti «mmmmh»

22% 11.– invece di 14.25

Capesante M-Classic, MSC pesca, Atlantico occidentale, in conf. speciale, 240 g

IDEALE CON

conf. da 2

20% Salatini da aperitivo Gran Pavesi disponibili in diverse varietà e in confezioni multiple o speciali, per es. Le Sfoglie Classiche, 2 x 160 g, 4.60 invece di 5.80

conf. da 3

40% 5.– invece di 8.40

Sugo al basilico Agnesi 3 x 400 g


21% 13.–

invece di 16.50

Gamberetti tail-off bio cotti d'allevamento, Vietnam, in conf. speciale, 240 g

30% 12.70 invece di 18.20

Filetto di salmone senza pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, in confezione speciale, 380 g

conf. da 2

33% 8.95 invece di 13.40

Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC surgelati, 2 x 24 pezzi, 2 x 720 g

50% 9.95 invece di 19.95

Salmone affumicato, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 300 g

Offerte valide solo dal 21.12 al 27.12.2020, ďŹ no a esaurimento dello stock


Carne e salumi

Pezzi buoni per il pranzo delle feste

20% 1.60 invece di 2.05

25% 5.10 invece di 6.80

20% 1.50 invece di 1.90

Migros Ticino

33% 6.55 invece di 9.90

Filetto di manzo Australia, per 100 g, al banco a servizio

30% 1.60 invece di 2.30

Costolette di maiale Svizzera, per 100 g, in self-service

Arrosto spalla di maiale arrotolato TerraSuisse Svizzera, per 100 g, in self-service

15% 2.80 invece di 3.30

conf. da 2

Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g, in self-service

30% 1.90 invece di 2.75

EntrecĂ´te di manzo TerraSuisse

Prosciutto cotto TerraSuisse per 100 g

Svizzera, per 100 g, in self-service

Cotechini prodotti in Ticino, per 100 g, valido dal 22.12 al 31.12.2020, in self-service

25% 5.90 invece di 7.90

Mix per grill da tavola Grill mi mini salsicce, Svizzera, in conf. speciale, 16 pezzi, 320 g

40% 6.95 invece di 11.60

Prosciutto crudo dei Grigioni surchoix Svizzera, in conf. speciale, 153 g


Formaggi e latticini

Il gusto in tutte le forme Prodott o con la vanig lia migliore ne l cantone di Friburg o

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI La catena del freddo della fondue chinoise non deve mai essere interrotta. Quindi: trasportare la carne a casa in una borsa termica con elementi refrigeranti. Si consiglia di estrarre dal congelatore gli avvoltini di carne surgelati preferibilmente 30 minuti prima di consumarli. Rimuovere la pellicola protettiva poco prima di servire. a partire da 2 pezzi

20% Tutta la carne per fondue chinoise Finest surgelata, per es. manzo, 450 g, 24.– invece di 29.95

25% 6.30 invece di 8.40

Migros Ticino

Prosciutto crudo S. Daniele Italia, affettato in vaschetta da 100 g

–.10

di riduzione

conf. da 4

–.90

–.95

di riduzione

4.30 invece di 5.20

20% 1.95 invece di 2.45

20% 4.90 invece di 6.15

Dessert Tradition Crème

invece di 1.05

Tutti gli iogurt Nostrani prodotti in Ticino, per es. castégna (alla castagna), 180 g

vaniglia, caramello o cioccolato al latte, per es. alla vaniglia, 4 x 175 g

Sole del Ticino prodotto in Ticino, per 100 g, imballato

20% 1.95 invece di 2.45

Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» prodotta in Ticino, per 100 g

15% Mini Babybel

Grana Padano

retina da 15 x 22 g

per es. trancio, ca. 250 g, per 100 g, 1.85 invece di 2.20, confezionato

Offerte valide solo dal 21.12 al 27.12.2020, fino a esaurimento dello stock


Scorta

Squisitezze per prima e dopo Natale

a partire da 2 pezzi

20% conf. da 3

Tutta la pasta Garofalo non refrigerata e i sughi per la pasta Garofalo

20%

33% Ravioli Anna's Best ricotta e spinaci o mozzarella e pomodoro, per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g, 9.95 invece di 14.85

per es. fusilloni, 500 g, 2.35 invece di 2.90

Tutta la pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro bio (prodotti Alnatura e sfusi esclusi), per es. spaghettini integrali, 500 g, 1.50 invece di 1.90

g e tariano Sminuzzato v e quorn su base di

conf. da 2

20% Ketchup Heinz Tomato, Light o Hot Chili, per es. Tomato, 2 x 700 g, 4.45 invece di 5.60

30% 4.15 invece di 5.95

conf. da 2

20% Tutta la pasta fresca Garofalo per es. tortellini prosciutto crudo, 250 g

20%

Sminuzzato di quorn Cornatur o fettine di verdure e patate bio

Tutti i tipi di caffè istantaneo Nescafé per es. Gold De Luxe, in busta da 180 g, 8.80 invece di 11.–

per es. sminuzzato, 2 x 200 g, 7.80 invece di 9.80

urve dic a Misce la di ti sana aymone e menta di li con ze nzero, sc or za a partire da 2 pezzi

25%

20%

20%

Tutti i sofficini M-Classic

Tutti i tipi di conserve di frutta e di purea di mele a partire da 800 g

Tutti i tè e le tisane bio

surgelati, per es. al formaggio, 8 pezzi, 480 g, 3.90 invece di 5.20

per es. mezze pere Sun Queen, 825 g, 2.25 invece di 2.80

(prodotti Alnatura esclusi), per es. Yogi Tea zenzerolimone, 17 bustine, 3.75 invece di 4.70

Migros Ticino


Dolce e salato

20% Tutti i tipi di aceto e i condimenti Ponti e Giacobazzi per es. aceto balsamico di Modena Ponti, 500 ml, 3.60 invece di 4.50

a partire da 2 pezzi

20%

–.60 di riduzione

Tutti i cereali in chicchi, i legumi, la quinoa e il couscous bio

Tutti i biscotti Tradition per es. Cremisso, 175 g, 3.– invece di 3.60

(prodotti Alnatura esclusi), per es. quinoa bianca Fairtrade, aha!, 400 g, 3.95 invece di 4.95 a partire da 2 pezzi

de l le fe st e a c on o t a l e g a Tor t l l a no c c i o l a t o a o t a l e g i a b a s e d t e e r i pi e n o p r a l i n c r oc c a n

20% Tutte le salse Bon Chef per es. salsa alla cacciatora, in busta da 46 g, 1.30 invece di 1.60

t t i v e g e tali a r t s e d e le a a t ur a Con c hinino ne nze ro e l’aranc ia amar c ome lo z

20%

conf. da 4

20% 5.95 invece di 7.50

Tutto l'assortimento Perldor e Kids Party

20%

per es. Perldor Classic, 750 ml, 3.80 invece di 4.80

Fever-Tree

Tutto l'assortimento Glacetta

disponibili in diverse varietà, 4 x 200 ml, per es. Premium Indian Tonic Water

prodotti surgelati, per es. bûche noisettes, 700 ml, 5.65 invece di 7.10

conf. da 6

33%

20%

Passaia

Tutto l'assortimento Sarasay

6 x 1,5 l o 6 x 500 ml, per es. Classic, 6 x 1,5 l, 8.65 invece di 12.95

per es. succo d'arancia, Fairtrade, 1 l, 2.30 invece di 2.90 Offerte valide solo dal 21.12 al 27.12.2020, fino a esaurimento dello stock


Bellezza e cura del corpo

Perfettamente curati - dai molari alle unghie dei piedi

de lic ato in c aso te n e rm la o ic rt a P tt i se nsibili di de nti e c olle

conf. da 3

33% Dentifricio Candida o Dental Gum Candida per es. dentifricio Sensitive, 3 x 75 ml, 6.60 invece di 9.90

conf. da 2

25% 5.85

a partire da 2 pezzi

25% Dental Fluid Candida

Cura del viso e del corpo Garnier

per es. Parodin, 2 x 400 ml

(prodotti per la cura delle mani, deodoranti, confezioni da viaggio e multiple esclusi), per es. crema da giorno Ultra Lift, 50 ml, 10.50 invece di 14.–

invece di 7.80

conf. da 3

33% 6.95 invece di 10.50

25% Le Petit Marseillais per es. docciacrema ai ďŹ ori d’arancio, 3 x 250 ml

Hit 9.80

Spazzolino da denti Candida Sky Soft 6 pezzi

conf. da 2

25%

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura delle mani

Creme per le mani I am, Atrix, Neutrogena, Garnier o Le Petite Marseillais

(conf. multiple, conf. da viaggio e prodotti Bellena esclusi), per es. crema per le mani Express I am, 100 ml, 2.40 invece di 3.20

per es. balsamo per le mani e le unghie I am, 2 x 100 ml, 4.80 invece di 6.40


Varie

Di tutto un po’

20%

30% 14.55

a partire da 2 pezzi

50%

invece di 20.80

Tutti gli ammorbidenti e i profumi per il bucato Exelia per es. Golden Temptation, 1 l, 3.25 invece di 6.50

Hit 2.50

Hit 9.80

Tutto l'assortimento di alimenti per cani Asco e Oskar per es. Asco A'petito con manzo, 8 x 11 g, 1.55 invece di 1.95

Carta igienica Soft Deluxe, FSC 24 rotoli

Re gali di Natale topi al l'ult imo minut o: pe r da bibliote ca

20.–

di riduzione

Cesto impilabile A5

179.–

invece di 199.–

Kobo e-reader Libra H20 diverse settimane di autonomia della batteria, impermeabile, memoria da 8 GB, il pezzo

trasparente, con guarnizione antiscivolo marrone o blu, per es. marrone, il pezzo

Hit Contenitore pieghevole Keeeper disponibile in azzurro/grigio o bianco/ viola, con impugnature morbide, 32 litri, per es. bianco/viola, il pezzo

13.95

Bouquet di rose M-Classic, Fairtrade mazzo da 30, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. gialle, arancioni e rosse, il mazzo

Offerte valide solo dal 21.12 al 27.12.2020, fino a esaurimento dello stock


Montag Mittwoch 2.12. Da lunedì30.11. 21.12 — a mercoledì 23.12

conf. da 2

50%

40%

12.70

11.85

invece di 25.40

Fondue Moitié-Moitié 2 x 600 g

invece di 19.80

Tutte le capsule Delizio, 48 pezzi, UTZ per es. Lungo Crema

Giovedì 24.12*

a partire da 2 pezzi

40% Tutto l’assortimento Crème d’Or surgelato, per es. Vanille Bourbon, 1 l, 5.95 invece di 9.90

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Queste offerte jolly valgono solo nelle date indicate e in quantità usuali per una normale economia domestica, fino a esaurimento dello stock. *Le offerte sono valide anche la domenica o nei giorni festivi nelle filiali aperte la domenica o nei giorni festivi.

50% Salame Classico intero e paté festivo Rapelli in confezioni speciali, per es. salame Classico intero, Svizzera, per 100 g, 2.40 invece di 4.80

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