Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Regolare il sonno e interrompere gli incubi: il progetto Tweak Dreams spiegato dal neuroscienziato Giulio Bernardi
Ambiente e Benessere Il 2021 sarà l’anno dell’agrifoglio, anche noto come alloro spinoso,una delle tipiche piante delle festività invernali
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 28 dicembre 2020
Azione 53 Politica e Economia L’attacco hacker ai danni degli Usa è secondo gli esperti opera dei russi. Ancora una volta
Cultura e Spettacoli In quest’anno che volge alla fine abbiamo trascorso molto tempo guardando dalla finestra
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Auguri per un anno ricco di speranza
Sorprese, speranze, aspettative di Peter Schiesser Un’anziana signora con un maglietta a fiori e foglie, una collana senza pretese, una gonna nera, il volto mascherato fino quasi a coprire gli occhi, e alle spalle l’acquario della sala comune della casa anziani, con pesci dorati e azzurri – azzurri come i guanti dell’infermiere che le sta iniettando la prima dose di vaccino anti-covid in Svizzera. La normalità, potremmo dire la banalità di questa immagine contiene qualcosa di straordinario: il risultato di un miracolo scientifico, ottenuto in breve tempo, frutto di uno sforzo mondiale di migliaia di ricercatori, tecnici, delle stesse case farmaceutiche, di molti Stati (e delle loro autorità mediche) per battere una pandemia che ha messo il ginocchio l’umanità. La sorpresa è grande, poiché solo pochi mesi fa le previsioni più ottimistiche indicavano l’arrivo di un vaccino non prima dell’estate (le più pessimistiche che non lo si trovasse mai), doppiamente grande, poiché i primi due vaccini autorizzati, della Pfizer/BioNtech e di Moderna, sembrano efficaci ad una percentuale che si aggira attorno il 95 per cento. Swissmedic ha infine contribuito a fare un bel regalo di Natale alla Svizzera omologando
quello della Pfizer/BioNtech a tempo di primato, la prima autorità nazionale a farlo in un processo ordinario, non di emergenza. La signora novantenne del canton Lucerna è diventata dal 23 dicembre 2020 l’icona svizzera di questo successo scientifico e sanitario. Ora si procederà a tappeto a vaccinare le persone nelle case anziani (quelle che lo vorranno), dove si conta una gran parte delle vittime della pandemia, poi di altre persone a rischio, fino ad arrivare entro l’estate a vaccinare chiunque lo voglia, in alcuni cantoni un po’ prima, in altri un po’ dopo, sorpresi dalla rapidità del processo finale di autorizzazione e delle consegne delle prime dosi. Questo, nelle previsioni; ma nei prossimi mesi occorrerà vedere se e quanto crescerà nella popolazione la propensione a farsi vaccinare. Se fra qualche mese dovessero sorgere gravi contro-indicazioni, la campagna subirebbe sicuramente un rallentamento, se invece dovessero presentarsi solo in modo blando in casi isolati e al contempo la curva dei contagi tornasse a scendere, la risposta complessiva della popolazione potrebbe essere buona. Chi lo sa: oggi vaccinarsi contro il coronavirus sembra un fatto straordinario, ma forse nei prossimi anni diventerà un atto normale.
Le aspettative riguardo il 2021 sono altissime: l’obiettivo è sconfiggere la pandemia, tornare alla normalità, far ripartire tutte le attività (anche culturali!), raccogliere i cocci e sanare le ferite nel tessuto economico e sociale, salvare fin da subito il maggior numero di vite umane, evitare sofferenze, porre fine all’ansia collettiva e al senso di incertezza e impotenza. Se un anno fa, ignari, ci stavamo incamminando verso un periodo buio, e al buio consegniamo il 2020, sul 2021 proiettiamo tutte le speranze di rivedere la luce cui eravamo abituati, anche se il ritorno ad una completa normalità potrebbe richiedere più tempo di quanto immaginiamo. Per ora si tratta ancora di resistere. Le lezioni da trarre da questa pandemia, a tutti i livelli della società, saranno più chiare una volta terminata. Oggi vi siamo troppo immersi per poterla valutare in un quadro più ampio. Ognuno ha dovuto e deve tuttora fare i conti con se stesso, con le proprie fragilità, l’incertezza, costretto a reinventarsi una quotidianità in tempi straordinari, scoprendo i limiti che possono essere imposti alla propria vita. La speranza è che serva da lezione a tutti, anche individualmente. Che ci insegni quanto è importante il prossimo, uno Stato funzionante e la libertà di cui godiamo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Società e Territorio Videogiochi Cyberpunk 2077: uscito da poco il gioco per adulti più atteso del 2020 ha una grafica mozzafiato, una colonna sonora favolosa, personaggi e storie interessanti, ma ha gravi problemi tecnici
Il desiderio dell’altrove Obbligati a rimanere stanziali e a vivere tempi dilatati secondo la psicologa Elena Scaffidi durante queste festività dovremmo prenderci cura dei legami affettivi pagine 8-9
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Sembra che per avere un sonno più riposante non ci debbano essere aree del cervello che rimangono troppo attive. (Marka)
Il sonno del futuro, senza incubi
Intervista Con il progetto Tweak Dreams si cerca di regolare il sonno e di interrompere gli incubi, per nottate
più riposanti. Ce ne parla il neuroscienziato Giulio Bernardi Stefania Prandi
L’intento sembra quasi fantascientifico: non solo regolare il sonno, per renderlo più profondo e soddisfacente, ma anche interrompere gli incubi, «dirigendo» i sogni verso scenari piacevoli. Il progetto Tweak Dreams è stato ideato dalla Scuola IMT di Lucca con riferimento all’ospedale universitario di Losanna e all’università del Wisconsin, tra i centri mondiali più importanti in materia di sonno e sogni. Giulio Bernardi, il neuroscienziato a capo di Tweak Dreams, spiega ad «Azione» il futuro del mondo onirico. Professor Bernardi, che cos’è il progetto Tweak Dreams?
È un progetto che mira a capire se possiamo modificare il sonno e i sogni in maniera controllata. Di fatto, contrariamente a quanto in genere si pensa, il cervello non è quasi mai completamente addormentato: mentre dormiamo, ci sono delle parti che si attivano e determinano ciò che accade nella nostra mente. Ad esempio, il fatto di sognare il volto di una persona amica succede perché si risvegliano alcune parti dedicate a elaborare e rappresentare i volti e le memorie collegate. Normalmente il rapporto tra risvegli e
sonno nel cervello è finemente regolato. In alcuni casi però, ci possono essere delle anomalie. Studi recenti indicano che esistono forme di insonnia particolari: succede che pur dormendo un numero sufficiente di ore, alcune parti del cervello rimangano più attive del normale, portando ad una sensazione di mancato riposo il giorno successivo. Vorremmo riuscire a correggere le anomalie di questo tipo. Qual è il legame del progetto con l’università di Losanna?
Io ho lavorato a Losanna per un anno con la dottoressa Francesca Siclari che da sempre si occupa dei sogni. E continueremo a interfacciarci sulle nostre scoperte sul sonno.
Che cosa conosciamo del cervello e delle sue funzioni durante il sonno?
È una bella domanda. Stiamo iniziando a conoscere qualcosa, ma c’è ancora tantissimo da scoprire. Il sonno, per un lungo periodo, è stato visto come uno stato inutile, di vulnerabilità e inerzia. Adesso risulta evidente come un’interpretazione del genere sia contro ogni logica evolutiva. Il sonno esiste in tutte le forme viventi che abbiamo studiato. È un momento fondamentale: mentre dormiamo le memorie del giorno appena trascorso vengono messe in ordine, rimodellate e rafforzate. Risulta quindi
indispensabile per l’apprendimento. Il sonno è anche importante per la salute del cervello, lo ripulisce da una serie di scorie, come la proteina beta-amiloide, che vengono prodotte e si accumulano mentre siamo svegli. Inoltre, dormire aiuta la regolazione di emozioni negative come la rabbia e la tristezza. Ce ne rendiamo conto anche a livello esperienziale. Quando andiamo a letto la sera con un certo stato d’animo negativo, la mattina, pur ricordandocene, ci sentiamo distaccati da quelle emozioni così fastidiose. Senza contare le conseguenze positive sull’organismo, come sul metabolismo. Che cosa succede quando non dormiamo abbastanza o abbiamo un sonno agitato?
Senza un giusto tempo di riposo non siamo in condizioni ottimali per apprendere e lavorare alla massima efficienza. Quando siamo svegli, se non siamo riposati, alcune parti del cervello si possono addormentare portandoci a essere disattenti e a fare degli errori. È un aspetto che peggiora col trascorrere delle ore di veglia, causando «addormentamenti» cerebrali sempre più numerosi. Una delle conseguenze, ad esempio, è l’aumento del rischio di incidenti mentre si è alla guida di un mezzo.
Quanto dovremmo dormire?
Ci sono linee guida che suggeriscono un tempo di otto ore, ma la verità è che dipende dalla persona. C’è chi ha bisogno di nove ore per sentirsi riposato e chi sta bene anche dopo sei ore. Per saperlo davvero dovremmo poterci alzare senza una sveglia e riposare senza disturbi per una settimana. I primi due o tre giorni serviranno per recuperare il sonno arretrato, perché dagli studi emerge che siamo quasi tutti in una condizione di sonno ridotto, mentre quelli successivi ci indicheranno il tempo giusto per noi. Quale sarebbe il sonno ideale?
Sembra che per avere un sonno più riposante non ci debbano essere aree del cervello che rimangono troppo «sveglie» e attive. Sappiamo che sognare troppo può compromettere la qualità del sonno, ma non conosciamo ancora quale numero di risvegli si possa considerare eccessivo. Non sappiamo nemmeno che funzione abbiano i sogni, se siano soltanto la manifestazione dei risvegli del cervello oppure se siano legati all’apprendimento. Secondo alcuni studi, i sogni sono dei «simulatori», ci trasportano cioè in un mondo simulato in cui siamo liberi di sbagliare, anche di morire, facendoci così apprendere comportamenti legati a situazioni specifiche.
Come si può gestire il sonno per renderlo più profondo e appagante?
Per migliorare il sonno, col nostro progetto vogliamo riaddormentare le parti del cervello che si risvegliano troppo. Useremo degli stimoli sensoriali, dei suoni brevi. Non vogliamo impiegare tecniche basate su stimoli magnetici o elettrici o che prevedano l’impiego di altri metodi invasivi. Pensando a un’applicazione a livello clinico ci sembra utile prevedere stimoli che siano facili da riprodurre con un’attrezzatura semplice e con un fastidio minimo per il paziente. E come si possono dirigere i sogni verso scenari piacevoli, evitando gli incubi?
Gli studi condotti fino ad ora hanno dimostrato che il contenuto dei nostri sogni cambia in base alle aree del cervello che si attivano. Quindi, stimolando certe aree e addormentandone altre, potremmo condizionare il tipo di sogni in atto. Potremmo, ad esempio, interrompere un incubo e farlo ripartire in maniera positiva. Non siamo ancora in grado di agire sul contenuto specifico anche se esistono laboratori che sono riusciti a riconoscere in parte il contenuto dei sogni. Non è stato possibile vedere la storia o gli eventi del sogno, ma solo ricostruirne alcuni elementi. È già qualcosa di fantascientifico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Oltre i confini di genere
Transgender La testimonianza di Simona che per anni ha sofferto di disforia di genere e che dopo la transizione
non è più in conflitto col proprio corpo. Ma la nostra società è pronta alle differenze? Ne parliamo con Chiara Spata, counselor psicosociale esperta in «linguaggi di genere» Guido Grilli «La disforia di genere ti sdoppia: La mia mente diceva: “io sono una donna” e lo specchio diceva un’altra cosa: “no, tu sei un uomo”. E io mi sentivo imprigionata in un corpo maschile. È brutto, perché ti rendi conto che da quella prigione non puoi scappare». Parlare di questo argomento non è facile. Ma Simona, 51 anni, luganese, funzionaria del Dipartimento del Territorio – «sono l’unica funzionaria pubblica cantonale della mia professione» (sorride) – riduce un tema ancora tabù a un granello di sabbia e offre la sua testimonia. La sua storia. Con coraggio. Parla dei suoi figli poco più che ventenni e della relazione con la sua ex moglie – «una relazione durata 36 anni. Mi ero messa in testa di invecchiare con lei. È quello che avrei desiderato ardentemente, purtroppo la malattia ce l’ha portata via. È per questo che dopo diversi mesi dalla sua morte ho deciso, mi sono detta: “adesso lo faccio”. I miei disagi risalgono a quarant’anni fa, disagi che si sono tramutati in consapevolezza e in sofferenza. Solo nell’ultimo anno la vita mi ha messo nella capacità di compiere il passo: ho preso la decisione il 1. dicembre di un anno fa e ho iniziato la cura ormonale il 28 gennaio di quest’anno». Quali sono state le reazioni? «Mi sono meravigliata io stessa di come sia andato tutto bene, sia a livello dei contatti personali, ma soprattutto professionali, specie dai miei superiori. Ho voluto che il mio cambiamento fosse divulgato a tutti i miei contatti professionali, che sono centinaia». Come è iniziato il suo percorso di transizione? «Anni fa, quando ero ancora un maschio, sono andata da uno psichiatra e ho svolto diverse sedute per cercare di risolvere il problema – che è una parola grossa – o almeno di capire la situazione. Ma non ho né risolto il problema né capito la situazione e così a un certo punto ho smesso, perché perdevo il mio tempo e le mie energie. Durante i miei quarant’anni trascorsi con la disforia di genere tenevo tutto dentro di me». Albergava dunque già in lei da anni questo desiderio di diventare Simona? «Sinceramente no. Quando io ero con mia moglie – e volevo quella relazione – non ho mai pensato di fare la transizione. A mia moglie avevo detto che avrei voluto essere una donna, che mi sentivo una donna e lei lo ha accettato, perché era un angelo. Alla società lo tenevo invece segreto». I suoi figli come hanno accolto la sua scelta? «Con i miei figli ho adottato una tecnica sul lungo periodo. In aprile ci siamo ritrovati a cena e ho detto loro, “stasera voglio farvi un discorso”. In sintesi ho detto loro: la mamma non c’è più e io mi trovo ora nella possibilità di realizzare un sogno nel cassetto. Però sappiate che qualsiasi cosa succeda il mio amore per voi non cambierà e io per voi ci sarò sempre. Ho iniziato con questo. Poi nelle settimane successive li ho regolarmente punzecchiati con questi argomenti. In luglio ho raccontato loro quel che mi stava succedendo e praticamente gli ho confermato quello che loro sapevano già. L’hanno presa bene. Certo, avrebbero preferito che io continuassi a fare il loro papà (sorride). Ora noi ridiamo e scherziamo della mia condizione». La chiamano ancora papà? «Sì. Io li riprendo spesso. Dico loro di chia-
marmi Simona o “mamma due”. Devo ancora trovare come identificarmi. Quando usciamo, però, dico loro: “mi raccomando, non chiamatemi papà”». Come è andata invece con i suoi amici? «Il mio coming out è piuttosto recente. Ci sono alcune persone alle quali l’ho detto che hanno risposto subito benissimo, altre che invece hanno bisogno di un po’ più di tempo». Come sta evolvendo la sua nuova vita sentimentale? «Ormai come neo-donna devo consolidare i miei rapporti sociali e anche un rapporto sentimentale che al momento non ho. Però io cerco un uomo. Sono eterosessuale. Da uomo guardavo le donne e da donna guardo gli uomini. Dovrò comunque trovare la persona giusta». Ora si sente una persona in pace con se stessa? «Io sono una persona migliore. Ritengo di essere sempre stata una bella persona, però devo ammettere che la mia disforia di genere mi innervosiva, ne risentiva il mio carattere. Non mi esprimevo al meglio. Adesso ho trovato una pace, una serenità perché non sono più in conflitto con il mio corpo. È uscito il meglio di me. Non so più cosa sia la rabbia, faccio le cose meglio, con più pazienza». Eppure, oggi il tema transgender appare ancora piuttosto un tabù. «Penso di sì, però penso anche che siamo nel 2020 e non deve più esserlo. Non bisogna avere paura del giudizio degli altri e sono orgogliosa della società ticinese, moderna e aperta», sorride Simona. Negli scorsi giorni il Consiglio Nazionale ha approvato il progetto, già accettato dal Consiglio degli Stati, che in futuro permetterà alle persone transgender e intersessuali di cambiare sesso nel registro di stato civile senza passare da un giudice. Le leggi si mettono al passo coi tempi, ma quanto è pronta la società alle differenze? Rivolgiamo la domanda a Chiara Spata, formatrice, counselor psicosociale, che dal 2004 si occupa di questioni di genere e lavora per la promozione e l’educazione dei diritti umani, battendosi per promuovere una società più inclusiva che rispetti il valore delle differenze. Organizza numerosi laboratori, il più recente dei quali in collaborazione con Amnesty International sui temi «migrazioni di genere» e «linguaggi di genere», con l’obiettivo – fra i tanti – di «stimolare pratiche riflessive che mettano in di-
Oggi le migrazioni di genere sono un tema che va affrontato con pratiche riflessive che mettano in discussione i nostri stereotipi. (Marka)
scussione i propri stereotipi e modelli, in modo da costruire un ricco bagaglio di consapevolezza e buone pratiche». «Se entriamo nello specifico nelle questioni di genere – evidenzia Chiara Spata – è importante distinguere i due concetti di sesso e di genere, che fino a non molto tempo fa sono stati sovrapposti. Il primo e fondamentale passaggio, che io in prima istanza comunico nel momento in cui facciamo questi laboratori, è quello della condivisione della “cassetta degli attrezzi”. Per costruire un discorso, dobbiamo evidentemente avere un codice comune, un lessico, una terminologia comuni, perché per entrare in questi temi ed educarci realmente alle differenze è necessario compiere un salto di para-
Una mostra indaga il concetto di genere Di fronte al tema del genere e del sesso nessuno resta indifferente. Ma in effetti qual è l’origine del genere? In cosa consiste? Cosa fa di noi un uomo o una donna? Come facciamo a vivere insieme e ad amarci? Sono queste le domande intorno alle quali si sviluppa l’esposizione «Geschlecht» in corso allo Stapferhaus di Lenzburg (AG). Il genere non è determinato dalla biologia, è un concetto molto più profondo e articolato, che non si può inquadrare in un mondo dipinto di rosa e azzurro. Allo Stapferhaus il visitatore avrà la possibilità di scoprire nuove prospettive, riflettere sull’identità di genere e partecipare al dibattito: «come vivere il genere e il sesso, oggi e domani?». La mostra, sostenuta dal Percento cul-
turale Migros, rimarrà chiusa fino al 21 gennaio a causa delle disposizioni anticovid, in seguito sarà visitabile fino al 31 ottobre 2021. Informazioni
www.stapferhaus.ch
digma. Per fare questo è anzitutto importante suddividere le due questioni: il sesso è quell’insieme di caratteristiche fisiologiche con le quali nasciamo, cioè l’aspetto biologico. Il genere, invece, corrisponde all’organizzazione sociale della differenza sessuale. Questo significa che i caratteri dell’essere uomo o donna non sono biologici, non sono fisiologici, non sono naturali ma vengono costruiti socialmente e culturalmente. Noi non nasciamo con il comportamento da donna o da uomo, quello lo impariamo». Solo negli ultimi anni si inizia a parlare di queste tematiche un po’ più liberamente e con una maggiore cognizione di causa. È d’accordo? «Sì, se ne parla finalmente anche al di fuori dai contesti di militanza. Le questioni di genere sono entrate nelle accademie oltre venti anni fa. Ricordo il primo libro letto sull’argomento della scrittrice Judith Butler, Corpi che contano. Un altro aspetto importante è che l’identità e il ruolo di genere sono due assunti diversi: l’identità è la percezione di sé; il ruolo ha invece a che fare con l’aspettativa, quello che ci viene richiesto dal nostro contesto sociale. Inevitabilmente questi due aspetti hanno delle sfumature, non sono netti così come le nostre culture intendono in qualche modo farli passare, per la necessità di mantenere un sistema socio-culturale ed economico. Sin da quando nasciamo, ci viene imposta la distinzione – colore rosa per bambina, blu per bambino – che sono delle convenzioni. Entriamo così in un sistema che ci sentiamo di dover rispettare. Nel momento in cui l’interiorità di una persona ha molte sfumature, e tra il bianco e il nero contempla un ventaglio di moltissimi colori, ecco che il nostro sistema sociale culturale ed economico
etero-normativo chiude quel ventaglio di colori che rappresentano la multiforme varietà dell’identità e affettività umane, limitandola a un bianco e nero». Chi sono dunque i transgender? «Il transgenderismo ha a che fare con l’attraversamento dei confini di genere. Sottolineo, di genere. È un passaggio evolutivo, quello di passare dalla parola transessuale alla parola transgender. Il concetto di genere è altro dal concetto di sesso. È molto importante capire che transgender vuol dire attraversare i confini dei generi, rompendo gli schemi eterosessuali che ci impongono di aderire a ruoli e aspettative imposti dal contesto culturale – che è innegabilmente un contesto patriarcale – e che prescrive delle ricette, delle regole sulle nostre identità e sui nostri corpi. Accanto al neologismo transgender, per eliminare i rapporti di forza nella nominazione, è stato integrato quello di cisgender, il quale indica un individuo il cui senso di identità personale corrisponde al sesso e al genere attribuito alla nascita». I suoi laboratori sull’educare alle differenze trattano anche il tema del pregiudizio, che a ben guardare alberga in tutti noi. «In me compresa. Abbiamo dei pregiudizi per forza, perché abitiamo in gruppo, siamo degli animali sociali: ogni gruppo crea delle credenze condivise, che al loro interno contemplano degli stereotipi. A volte noi ragioniamo – e purtroppo più gravemente agiamo – sostenuti da stereotipi che generano pregiudizi. Si parla troppo spesso di ciò che si ignora. Quando non si conosce, quel che si scatena è la paura. Se non ci educhiamo alle differenze commettiamo atti di violenza senza saperlo. E questo non possiamo permettercelo».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Zampone del Pin Tradizionale specialità della notte di San Silvestro, lo zampone con contorno di lenticchie e purè di patate è un piatto che arricchisce di gusto e sfiziosità la nostra tavola. Chi ama i sapori locali, può optare per l’ottimo zampone della Salumi del Pin di Mendrisio, disponibile alla Migros nella variante con carne suina svizzera oppure in quella nostrana con materie prime ticinesi. Parti magre, grasse nonché cotenne di maiale vengono ma-
Scamone di manzo
cinate e miscelate con Marsala e altri ingredienti di prima qualità, per poi essere insaccate nella caratteristica zampetta. Si procede quindi ad una lenta cottura in forni a vapore e alla pastorizzazione finale. La preparazione è semplice: immergere lo zampone del Pin nella propria busta per un’oretta in acqua calda, ma non in ebollizione. Infine, tagliare la confezione, eliminare il liquido di cottura, affettare e servire.
Lo scamone, uno dei tagli più pregiati del manzo insieme al filetto, si presta bene non solo per preparare un succoso roastbeef o delle saporite bistecche, ma è perfetto anche per la fondue bourguignonne. Alcuni consigli per un’ottima riuscita di questa stuzzicante specialità della cucina elvetica: tagliare la carne a cubetti di ca. 2-3 cm, poiché se troppo piccoli si seccherebbero e se troppo grandi non cuocerebbero
Portafortuna da regalare Attualità Simpatici omaggi per augurare un buon inizio
bene. Per persona calcolare ca. 250 g di carne. Come olio di cottura, utilizzare metà olio di cocco e metà olio di girasole. Immergendovi una piccola patata sbucciata si evitano gli schizzi bollenti d’olio. Non salare mai la carne prima della cottura altrimenti perderebbe i suoi preziosi succhi. Una volta cotti, accompagnare i bocconcini di scamone con delle salsine quali p. es. aglio, curry, cocktail o tartare.
Brindisi analcolico
di nuovo anno
Saranno molti coloro che vogliono lasciarsi alle spalle questo anno complicato e dare il benvenuto al 2021. Alcuni articoli sono considerati dei portafortuna per l’anno nuovo e rappresentano sicuramente un omaggio apprezzato. Tra questi possiamo citare il vaso a forma di maialino con una bellissima pianta fiorita o il quadrifoglio con la figura di spazzacamino, entrambi disponibili nei maggiori reparti fiori Migros. Secondo molte culture, il maiale è simbolo di fortuna, forza e abbondanza. Non è casuale il fatto che spesso i salvadanai abbiano la forma di un maialino. Anche gli spazzacamini sono ritenuti di buon auspicio. Nel Medioevo le case prendevano spesso fuoco a causa dei camini intasati. Gli spazzacamini si occupavano della loro manutenzione e, grazie al loro prezioso lavoro, riportavano felicità e benessere tra la gente. Il quadrifoglio, dal canto suo, nella tradizione irlandese, essendo una pianta rara da trovare, è sempre sta-
Perldor Classic 75 cl Fr. 4.80 Perldor Rosé 75 cl Fr. 4.80 Perldor Lychee 75 cl Fr. 5.10 Perldor Secco 75 cl Fr. 6.90 Kids Party 75 cl Fr. 3.90 L’assortimento completo è in vendita nelle maggiori filiali Migros
to considerato un emblema di buona fortuna. Secondo la leggenda, le quattro foglie rappresentano ognuna la speranza, la fede, l’amore e la buona sorte.
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Gli spumanti senz’alcol Perldor non possono certo mancare all’appuntamento con il brindisi di fine anno, visto che possono essere gustati da tutta la famiglia senza spiacevoli effetti collaterali. Perldor Classic e Perldor Rosé si caratterizzano per il loro intenso aroma di
uva matura. Chi preferisce i sapori esotici, sarà accontentato scegliendo Perldor ai litchi. Una variante meno dolce, a base di vino senz’alcol e succo d’uva, è invece Perldor Secco. Infine, ecco Kids Party, una bevanda con succo di mele e lamponi dedicata ai più piccoli.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Società e Territorio
Cyberpunk 2077, troppa ambizione? Videogiochi Il gioco (per adulti) più atteso del 2020 ha una grafica mozzafiato, una colonna sonora favolosa,
personaggi e storie interessanti, ma per ora lo si può godere solo con una console di ultima generazione
Davide Canavesi È dura, per uno studio di sviluppo, portare sulle spalle l’aspettativa di quasi tutti i giocatori del pianeta. Potrebbe sembrarvi un’iperbole ma non siamo molto lontani dalla verità: Cyberpunk 2077, l’ultima fatica dello studio polacco CD PROJEKT RED è senza ombra di dubbio il gioco più atteso del 2020. Non solo perché si tratta della nuova creatura dello stesso team autore della serie The Witcher ma anche per la partecipazione di Keanu Reeves, attore conosciutissimo per film come John Wick e Matrix. Annunciato per la prima volta nel 2012 e rimandato più volte, Cyberpunk 2077 è finalmente uscito su PC, Xbox One, PlayStation 4 e Google Stadia il 10 dicembre scorso. Peccato che una serie di fattori, come la pandemia di Covid-19, abbiano messo i bastoni tra le ruote all’attesissimo gioco di ruolo ambientato in un prossimo, distopico, futuro. Cyberpunk 2077 immerge il giocatore in Night City, una città fittizia che si trova sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in California. Il mondo è cambiato molto rispetto al 2020: l’America è caduta, il clima è cambiato e le mega corporazioni oramai detengono il potere. Anche le persone sono cambiate: ora è possibile modificare il proprio corpo con impianti cibernetici estremamente invasivi. Scambiare gli occhi, potenziare il cervello, sostituire la pelle del corpo… l’unico limite è quanto denaro abbiamo a disposizione. La società
di Night City è violenta, volgare, totalmente priva di compassione e amore, in cui soldi, fama, reputazione e sesso sono le tematiche preponderanti, per questo il gioco si rivolge a giocatori adulti ed è vietato ai minori di 18 anni (PEGI 18). È in questo mondo brutale e disilluso che faremo la conoscenza di V, il mercenario che impersoneremo. V ha un problema piuttosto grave da risolvere: per via di una serie di sfortunati eventi si ritrova con un chip molto particolare impiantato nel cervello. Non è il solito chip che permette di hackerare sistemi a distanza o di ottenere accesso all’alta società di Night City. Quello di V contiene un costrutto virtuale, una coscienza. Si tratta del fantasma digitale di Johnny Silverhand, interpretato da Keanu Reeves, un leggendario rocker e terrorista scomparso da decenni. Il costrutto sta lentamente sovrascrivendo la personalità di V, rischiando di farla scomparire del tutto. Una situazione disperata che, in realtà, è assai peggio di come ve l’abbiamo presentata ma non vogliamo rovinarvi il seguito. Starà quindi a noi, ovvio, fare delle scelte per tentare di risolvere il pasticcio in cui ci troviamo. Cyberpunk 2077 è un gioco di ruolo action. A partire dal sesso e dall’aspetto del nostro V, potremo scegliere ogni cosa. Potremo decidere se aiutare qualcuno o meno, se rubare, mentire ed uccidere o comportarci in modo più compassionevole. Potremo scegliere quali missioni fare, quali modifiche apportare al nostro corpo, quando parlare e quando stare in silenzio. A partire dal
Il gioco è ambientato a Night City, un mondo brutale. (2020 CD PROJEKT RED)
background di V (corporativo, ragazzo di strada o nomade) sino al decidere se vogliamo impiantarci delle lame affilatissime all’interno delle braccia. Queste scelte non cambieranno solamente il nostro approccio, se più discreto e fracassone, ma anche la fine della storia. Diverse scelte, diverse missioni, diversi stili di combattimento porteranno a diversi epiloghi. A nostra disposizione troveremo abilità da netrunner (hacker), abilità di combattimento, abilità da assassino silenzioso e via dicendo. Il giocatore ha la possibilità di sviluppare quei tratti che più si addicono al suo approccio e di combinarci armi bian-
che o da fuoco. Il gioco ne offre un gran numero, come fucili e pistole ma anche spade e armi smart in grado, per esempio, di colpire nemici nascosti dietro a ripari. Se invece la violenza fisica non fa per noi potremo sempre darci all’hacking dei cervelli altrui, ad esempio offuscando loro la vista. Cyberpunk 2077 ci offre un mondo vivo, pulsante, luminoso, sporco, brutale e magnifico. Se giocato su un computer molto potente o una console di nuova generazione, siamo di fronte alla miglior grafica sulla piazza a fine 2020. Passeggeremo tra le insegne al neon, grattacieli bagnati dalla pioggia,
bar fumosi e lande desertiche ai confini della metropoli. Godremo della favolosa colonna sonora, dell’ottimo doppiaggio italiano e dell’interpretazione dei suoi personaggi, sempre assai convincente e curata. Oppure, se sceglieremo di giocare su PlayStation 4 o Xbox One, ci ritroveremo di fronte a un gioco male ottimizzato e zeppo di bug anche gravi. Ebbene sì, Cyberpunk 2077 è stato pubblicato in uno stato, purtroppo, incompleto. Tanto da costringere Sony a ritirarlo dal suo negozio online a qualche giorno dal lancio e a rimborsare l’acquisto a tutti coloro che ne fanno richiesta. Semplicemente, il gioco funziona molto male sulle console di vecchia generazione. Anche su PC ci sono bug, va detto, ma non tali da bloccare la progressione della storia o da rendere l’esperienza insoddisfacente. Gli sviluppatori hanno già promesso che nelle prossime settimane e mesi usciranno aggiornamenti continui per stabilizzare e migliorare l’esperienza. Tuttavia, si tratta di un processo che potrebbe prendere parecchio tempo e la pandemia di coronavirus non aiuterà. Cyberpunk 2077 è un gioco che, al netto dei suoi gravi problemi tecnici, convince. Storie assai interessanti, personaggi stimolanti, grafica mozzafiato, musiche scelte con cura. Una volta risolti i problemi, saremo di fronte ad un capolavoro. Al momento però, a meno che non giochiamo su PC, Google Stadia o Xbox Series X, conviene aspettare che la qualità tecnica migliori. Un vero peccato… Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Società e Territorio
Stare in ascolto di noi stessi
Psicologia Obbligati a rimanere stanziali e ad assecondare tempi dilatati secondo la psicologa Elena Scaffidi
durante queste festività dovremmo prenderci cura dei legami Alessandra Ostini Sutto «Il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare», scriveva l’autore e giornalista italiano Tiziano Terzani, nel suo In Asia, una raccolta di articoli realizzati mentre faceva il corrispondente da questo continente. La citazione esprime bene il concetto del sostantivo Fernweh, il quale, allo stesso modo di altri termini della lingua tedesca non ha un’equivalente univoco in italiano, ma può essere tradotto con espressioni del tipo «nostalgia della lontananza».
Il desiderio dell’altrove, la voglia di vagabondare e la sana nostalgia di casa, in tedesco sono tre termini specifici, Fernweh, Wanderlust e Heimweh che oggi, alla luce della pandemia, analizziamo da altre prospettive Come tante parole tedesche, anche Fernweh è il risultato dell’unione di due parti che vanno a comporre un significato terzo, nel caso specifico l’aggettivo fern (lontano) e il sostantivo Weh (dolore). «Dolore per la lontananza» che non è però quella dalla propria casa, ma il suo opposto, la nostalgia dell’altrove,
Quest’anno ci affidiamo anche alla fantasia per intraprendere viaggi meravigliosi. (Pixabay)
che riflette il desiderio di abbandonare i luoghi della quotidianità, per aprirsi al mondo esterno e quindi ad esperienze nuove e sconosciute. Un desiderio che si scontra, da un po’ di tempo a questa parte, con i timo-
ri legati al Covid 19 e le norme in vigore per contenere la pandemia, fattori che hanno reso l’andare lontano più difficile e meno scontato. «Sicuramente il viaggio per mete lontane non rientra nei progetti realizzabili nel breve perio-
do – afferma Elena Scaffidi, psicologa clinica e psicoterapeuta psicoanalitica, che svolge la propria professione privatamente a Lugano – le festività natalizie stanno mettendo a dura prova la nostra capacità di accettare la costrizione di
non poterci spostare e, senza necessariamente pensarci in luoghi esotici, anche le riunioni allargate di famiglia e i brindisi con gli amici, che tradizionalmente contraddistinguono le ricorrenze di fine anno, devono essere limitati, se non evitati. Ciò richiede agli individui un grande sacrificio e genera in alcuni non poca frustrazione». La psicoterapeuta continua mettendo in evidenza il rovescio della medaglia, la possibilità cioè, essendo obbligati a rimanere stanziali e ad assecondare tempi e modi dilatati, di entrare nella dimensione, altrettanto affascinante, dello stare in ascolto di noi stessi, del lasciare emergere sentimenti ed emozioni che inconsciamente lasciamo al palo, affaccendati – e forse volutamente impegnati – in mille altre incombenze. «In questo strano Capodanno sarà allora importante prendersi cura dei legami, che possono addirittura rinsaldarsi nella lontananza. Far sentire la nostra vicinanza, il nostro affetto, la nostalgia fa bene alla relazione. Proviamo a riscoprire la bellezza di una lettera, che si nutre dell’attesa della risposta e consente di scrivere ciò che a parole non avremmo mai detto e alla fantasia di intraprendere un viaggio meraviglioso», aggiunge Elena Scaffidi. «Per quel che riguarda i viaggi “veri”, documentari di ottima qualità e collegamenti online consentono di ovviare in parte alla impossibilità di recarsi altrove, se ci si riferisce, appunto, ad un altrove geografico, anche se mancherà, certo, la sensazione del nostro corpo in un luogo Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio altro». Ma questa sensazione, la voglia cioè dell’altrove, connaturata al nostro essere, è vissuta da tutti allo stesso modo? «Essere in un luogo diverso dal nostro ambiente abituale è una sfida. Significa lasciare il certo per l’incerto, essere pronti ad accogliere l’imprevisto, a rientrare dal viaggio delusi rispetto alle aspettative. Significa comprendere chi è il compagno di viaggio ideale, non necessariamente il migliore amico che ci rassicura e sostiene nella quotidianità, significa essere guidati dalla curiosità della scoperta ed entrare in una dimensione onirica, che tanto assomiglia ad una piccola analisi personale. Nei momenti dove le sicurezze lasciano il posto al gusto della ricerca del nuovo e dell’inedito siamo veramente in viaggio e possiamo coglierne le opportunità di comprensione e sviluppo», spiega la psicoterapeuta, «non tutti però intendono il viaggio in questo modo. Per alcuni viaggiare significa tornare in un luogo conosciuto, che rimane uguale a sé stesso nonostante i destini del mondo, le vicissitudini personali, il Coronavirus: rassicura, conforta, dà la sensazione di non aver perso il controllo sugli eventi, e che tutto procede, tutto sommato, allo stesso modo». Non a caso il viaggio è probabilmente la metafora più efficace utilizzata per parlare del proprio percorso interiore, oltre che per rappresentare la narrazione della propria vita. «In letteratura innumerevoli sono gli esempi che hanno utilizzato il viaggio come veicolo per parlare della possibilità di comprendere sé stessi attraverso il confronto con altri luoghi, altri volti, altre usanze che sollecitano le nostre credenze e le nostre certezze ad emergere dalla stereotipia per entrare in contatto con i nostri vissuti interiori e permettere il costituirsi di un nuovo pensiero – commenta Elena Scaffidi – il viaggio è una ricerca che parte dal desiderio di sapere e che, strada facendo, si nutre della
La psicologa e psicoterapeuta Elena Scaffidi.
consapevolezza che il bello sta proprio nel viaggiare e che la meta, paradossalmente, non è poi così importante, perché continuamente modificabile e riprogrammabile, per riprendere un concetto caro a Tiziano Terzani». Un esempio su tutti è quello di Ulisse, che nell’Odissea ha fatto del suo lunghissimo viaggio il mezzo per esaudire la sua curiosità, tanto che Dante lo accusa di «vana curiositas». Numerosi sono pure i personaggi storici mossi dalla propensione per la scoperta che alimentano, da sempre, la fantasia dell’uomo: Cristoforo Colombo che sfidò la vastità degli oceani, Frederick Cook l’Artico, gli astronauti dell’Apollo XI la luna, per non fare che alcuni esempi. Tuttavia, anche l’esploratore più rude ha nel cuore un posto cui fare ritorno alla fine del viaggio. Riprendendo l’esempio del poema omerico, Ulisse, partito per una guerra in cui credeva poco, dopo ben dieci anni, compie un periplo del mondo conosciuto e sconosciuto mosso da una perenne nostalgia
per la sua Itaca. A questo sentimento corrisponde nella lingua di Goethe il sostantivo Heimweh, dove Heim significa casa (non semplicemente il posto in cui si vive, ma il luogo degli affetti) e Weh, di nuovo, dolore. Così, Heimweh richiama alla mente il dolore che si prova quando si è lontani dalla propria casa, dalla propria famiglia, dai propri cari, mentre il meno comune Fernweh è l’esatto contrario, la nostalgia di fondo per il viaggio, la scoperta, la ricerca. Una «voglia di andare» che era cara al romanticismo tedesco: la figura del viandante solitario, mosso non tanto dalla meta quale obiettivo, ma piuttosto dall’inseguimento di un richiamo, si ritrova, per esempio, nella letteratura, con gli scritti di Johann Wolfgang Goethe, nella musica, con opere come la Wanderer-Fantasie di Franz Schubert e nella pittura, ambito nel quale un’opera particolarmente rappresentativa di questo tema è il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Un’altra parola spesso accostata
a Fernweh, è Wanderlust. Comparso nell’alto tedesco medio e prestato alla lingua inglese, il termine significa «voglia di camminare, viaggiare, vagabondare». I due sostantivi sono usati spesso nell’ambito della promozione turistica e si ritrovano non di rado sui social network, dove il viaggio e l’avventura – e le foto che li documentano – sono tra le tematiche predominanti. In psicologia, invece, si parla della «sindrome di Wanderlust» – o «malattia del viaggiatore» – che si manifesta con un irrefrenabile desiderio di partire alla ricerca di nuovi posti da vedere e nuove culture da conoscere e sfogare così le proprie insoddisfazioni. «Credo poco agli inquadramenti diagnostici rigidi – commenta a riguardo Elena Scaffidi – la voglia di partire, di conoscere qualcosa di diverso e la curiosità verso nuove culture e nuovi incontri può svelare una curiosità per la vita e una propensione a mettersi alla prova. Per alcuni può significare invece un desiderio di fuga dalla propria realtà o addirittura costituire l’unico modo per non fermarsi, per non entrare in contatto con le proprie parti più intime, che ci permettono di riappropriarci di sentimenti ed emozioni che non riescono a trovare voce. Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di una sorta di compulsione che non consente di rallentare, per chi fatica a sostare nell’incertezza e nelle difficoltà». Le motivazioni che spingono un individuo a mettere in atto determinati comportamenti sono quindi molteplici e vanno di volta in volta analizzate nel loro contesto specifico. «Al di là del numero di sintomi che la nosologia vorrebbe attribuire alla sindrome di Wanderlust, credo sia più interessante chiedersi se questi sono diventati disfunzionali fino a pregiudicare i rapporti del “viaggiatore vagabondo” o impedirgli di vivere in modo sufficientemente soddisfacente», conclude la psicoterapeuta.
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Ambiente e Benessere L’immunità dalle erbe Anche la fitoterapia può venire in aiuto per rafforzare i sistemi immunitari contro i virus pagina 13
Snowfarming anti-disgelo I ghiacciai si stanno ritirando, ma nascono delle tecniche per contrastare la loro sparizione, anche in Svizzera
All’alba di mezzogiorno La luce del buio islandese in inverno mostra i suoi colori più intensi e caldi pagina 17
pagina 16
Foglie spinose come difesa simbolica Botanica La fondazione tedesca «Baum
des Jahres» ha stabilito che l’Albero dell’anno del 2021 sarà l’agrifoglio
Marco Martucci Con le sue foglie verdi lucenti e i suoi frutti rossi, l’agrifoglio è l’Albero dell’anno 2021. Lo ha eletto la fondazione tedesca «Baum des Jahres» che dal 1989 compie la sua scelta, accolta e condivisa pure in Svizzera da diversi attori della scena ambientale e forestale. Un bell’esempio di come gli alberi e la natura tutta non conoscano i confini fra le nazioni. L’agrifoglio è infatti noto e ben presente anche da noi. I tedeschi lo chiamano Stechpalme, che vuol dire palma pungente anche se con le palme non ha nulla da spartire. Non pochi, anche nella Svizzera tedesca, pensano che sia un albero esotico, sfuggito da qualche giardino, alla stregua delle palme della nostra regione. Ma l’agrifoglio è praticamente da sempre parte della flora europea. Chiamato anche «alloro spinoso», arbusto o albero alto fino a venti metri, l’agrifoglio è particolarmente bello e decorativo in inverno. Il suo nome scientifico, Ilex aquifolium, famiglia Aquifoliacee – datogli dal grande Linneo, lo svedese Carl von Linné, padre della sistematica e della nomenclatura dei viventi – indica la sua appartenenza al genere Ilex, per la vaga somiglianza con il leccio (Quercus ilex) e alla specie aquifolium per le sue foglie aguzze, acuminate sulle punte e ondulate spinose lungo il margine, coriacee, arma dissuasiva nei confronti degli animali che volessero cibarsene. Gli esemplari più vecchi, infatti, hanno foglie lisce sui rami più alti, irraggiungibili. La presenza di foglie con forme diverse sulla stessa pianta è chiamata eterofillía, tipica anche dell’edera. L’agrifoglio è verde tutto l’anno ma le sue foglie non sono sempre le stesse: semplicemente non cadono tutte insieme e vivono fino a tre anni. Fiorisce fra aprile e maggio con fiori bianchi, non vistosi e profumati, maschili e femminili su alberi diversi, agrifogli maschi che forniscono il
polline e agrifogli femmina. Solo questi producono frutti, della grandezza d’un pisello, inizialmente verdi, rossi a maturazione, gialli in alcune varietà. Rimangono a lungo sull’albero ed è perciò possibile vedere i frutti non ancora caduti insieme ai fiori. Mentre questi ultimi sono ricercati dagli insetti impollinatori, i frutti rappresentano un apprezzato nutrimento invernale per gli uccelli, come merlo e beccofrusone. Gli uccelli hanno una vista particolarmente sensibile al rosso e distinguono così i frutti acerbi da quelli maturi. I frutti dell’agrifoglio sono simili a bacche ma in realtà sono drupe, frutti a nócciolo e sono tossici per l’uomo. Molto decorativo anche nei giardini, l’agrifoglio esiste in numerose varietà coltivate ornamentali, con foglie e frutti di colori differenti. Il grande umanista, medico e botanico italiano del Cinquecento Pietro Andrea Mattioli, celebre per le sue bellissime tavole botaniche, segnalava già ai suoi tempi l’uso dei rami pungenti di agrifoglio per difendere le dispense dai roditori. Il nome popolare «pungitopo maggiore», in uno dei nostri dialetti «spungiaratt», è significativo. L’aggettivo «maggiore» lo distingue dal pungitopo minore, Ruscus aculeatus, sempreverde del sottobosco, con bacche rosse e ramoscelli simili a foglie, pungenti, appartenente alla famiglia botanica delle Asparagacee. Pungitopo, agrifoglio sono, insieme con la Rosa di Natale, l’abete, il vischio, tipiche piante delle feste di fine anno, rare apparizioni verdi nel bosco invernale spoglio. L’uso dell’agrifoglio risale a tempi precristiani. In Irlanda, ad esempio, si attaccavano rami di agrifoglio sulle porte delle case, per tener lontani i cattivi spiriti, durante le feste del solstizio d’inverno. L’usanza si mantenne anche dopo la cristianizzazione, adattandola alla nuova simbologia. A questo proposito è interessante il testo d’un noto canto popolare natalizio, un cosiddetto «Christmas Carol» inglese, The Holly and The Ivy (L’agrifo-
Agrifoglio in forma d’albero. (Marco Martucci)
glio e l’edera), su musica d’antica origine francese. Fra l’altro, il nome francese dell’agrifoglio, houx, ha la stessa radice di quello inglese. Le foglie pungenti evocano la corona di spine e il rosso dei frutti il sangue versato sulla Croce. Pensando a «holly» non può non venire in mente Hollywood, il quartiere di Los Angeles, capitale mondiale del cinema. È molto improbabile, se non impossibile, che il nome Hollywood, «bosco di agrifogli», abbia qualche nesso con la pianta. Negli Stati Uniti esiste una specie di agrifoglio, Ilex opaca, non presente però in California. Qui si trova un arbusto sempreverde con piccoli frutti rossi che maturano in autunnoinverno, noto come «California Holly» o «toyon», presente anche nei dintorni di Los Angeles. Un’altra delle tante versioni più o meno credibili sull’origine del nome Hollywood nasce da un fatto che sa-
rebbe accaduto nel 1886. In quell’anno, l’imprenditore Hobart Johnstone Whitley, «padre di Hollywood», avrebbe visto, sulla collina sopra Los Angeles, un cinese. Incuriosito, gli chiese cosa stesse facendo e quello gli rispose «I holly-wood», intendendo «I’m hauling wood», cioè «sto trasportando legna». Whitley ne fu ispirato. Fa un po’ sorridere, però chissà. Ma torniamo alla realtà con il nostro agrifoglio europeo. Fra gli usi del suo legno, troviamo nientemeno che un bastone appartenuto a Johann Wolfgang von Goethe e un altro a Franz Liszt. Per chi preferisse invece un po’ di fantasia, è di legno d’agrifoglio la bacchetta magica di Harry Potter. Trovare l’agrifoglio dalle nostre parti non è molto difficile. In Ticino lo possiamo incontrare nei boschi di faggio o di castagno, più abbondante nel Sottoceneri, come in Malcantone,
al Monte San Giorgio, sulle colline intorno a Lugano. Preferisce inverni miti ed estati non eccessivamente asciutte. All’interno del bosco assume portamento arbustivo. Rari esemplari isolati possono diventare veri e propri alberi. La sua diffusione sta aumentando un po’ dappertutto, in parte probabilmente per il cambiamento climatico, in parte anche per la sua protezione. Ricercatissimo e oggetto di raccolte più o meno selvagge, era stato inserito nella lista delle specie protette. Da qualche anno, in Ticino è di nuovo permesso raccoglierlo, come per le altre piante non protette, nella quantità che si può tenere in una mano. Altrove, in Germania e nei cantoni di Argovia e Sciaffusa, la raccolta è ancora vietata. Informazioni
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Ambiente e Benessere
Come aiutare il nostro sistema immunitario Fitoterapia Dall’Echinacea angustifolia all’Uncaria
Eliana Bernasconi In tempi spaventosi come quelli che viviamo, parlare di sistema immunitario mette in allarme, e di fatto l’argomento è da sempre stato importante. A volte anche un semplice raffreddore può essere la spia di un sistema immunitario indebolito dai tanti ben noti fattori: cattiva alimentazione, stress, inquinamento, sedentarietà e via elencando. Se il nostro sistema immunitario ha molti nemici, la Fitoterapia resta la nostra fedele alleata, e come sempre è nutrita la lista delle erbe che sostengono il nostro corpo sia per prevenire sia per lottare contro virus, batteri, infezioni. «Fra tutte le erbe» ci informa il nostro consulente fitoterapeuta Gabriele Peroni, «in scienza, coscienza ed esperienza, mi sento di dare il primo posto in assoluto a Echinacea angustifolia DC». Coltivata a scopo medicinale in Europa, Echinacea arriva a noi dai nativi americani. Cresce spontanea nelle praterie degli Stati Uniti (Texas, Georgia, Nebrasca, Pennsylvania), e le tribù pellerossa delle grandi pianure ne conoscevano la forza, tanto da impiegarla come rimedio supremo per le più diverse malattie. Si narra che nel XIX secolo in America i prestigiatori si bagnassero le mani nel succo di Echinacea per poterle immergere nell’acqua bollente; e all’inizio del Novecento, un pellerossa winnebago avrebbe utilizzato il succo per
Echinacea angustifolia. (Dy-e)
rendere il cavo orale insensibile al calore prima di mettersi in bocca un tizzone rovente durante uno spettacolo. Nel 1915, in Europa, un primo studio portò alla formulazione di un’ipotesi scientifica sulla sua attività immunostimolante, oggi, dopo 50 anni di ricerche e più di 350 lavori, queste sue proprietà sono state dimostrate in modo inequivocabile. Dell’Echinacea si impiegano le radici e le parti aeree. La sua attività immunostimolante complessiva sembra
dipendere dagli effetti combinati dei costituenti del suo ricco fitocomplesso, che agisce attraverso tre meccanismi, uno dei quali aumenta l’attività respiratoria. Per ottenere un effetto preventivo, si assume la tintura madre (30 gocce 2-3 volte al dì) per periodi anche prolungati, e in special modo a partire dall’inizio della stagione fredda. Ma non è l’unica pianta che produce effetti immunostimolanti. Ad esempio, esistono anche l’Uncaria, la Genziana, il Gelso, la Papaia, l’Astragalo.
L’Uncaria è una liana rampicante che cresce nelle foreste del Perù aggrappandosi ad altre piante grazie alle sue spine; usata dai curanderos, i guaritori del Sud America, potenzia lo scudo immunitario nell’infiammazione delle vie respiratorie, dell’apparato gastrointestinale e osteoarticolare. Tra i vari malanni invernali che aiuta a prevenire o alleviare con la sua azione immunomodulante vi è anche la sinusite (farne infusi o decotti ai primi sintomi di tosse, o assumere 30-40 gocce 2-3 volte al dì).
Per la medicina Ayurvedica, la più antica medicina nata in India, la malattia si produce perché corpo, spirito e anima non sono in equilibrio; per essa, nell’universo ci sono cinque elementi (etere, aria, fuoco, acqua e terra), cinque energie che ritroviamo nel corpo umano in tre umori chiamati Dosha: Vata, Pitta, Kapha. L’immunità, semplificando al massimo, non è qui vista solo come una semplice protezione contro batteri e virus, ma come una resistenza contro la perdita di equilibrio tra i tre Dosha, o energie del corpo umano e i Dhatu, i tessuti. In questo caso, sono infiniti gli ingredienti naturali che l’Ayurveda consiglia, tra combinazioni sinergiche di piante immunostimolanti, poi cibi, erbe, spezie…; miele e Zenzero, ad esempio, promuovono la forza del corpo e la digestione; una tisana può essere invece preparata con Elicriso, Eucalipto, Timo, Liquerizia, Chiodi di garofano, Cannella di Ceylon. E per disinfettare le nostre mani in modo dolce e naturale ecco una preziosa ricetta: mettere in 75 ml di alcool 25 ml ciascuno di olio essenziale di Eucalipto, Timo, Origano, Cannella (conservare in una bottiglietta). Bibliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fioterapia – Driope, Nuova Ipsa Ed. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Un leggendario piacere croccante
La loro croccantezza è unica e sostenibile: le fette di pane Wasa sono ottime con ogni tipo di accompagnamento e rimangono croccanti fino all’ultimo boccone. Anche l’azienda produttrice agisce in modo sostenibile: Wasa riduce drasticamente le emissioni di CO2 e investe nella protezione del clima
100 anni di Wasa e 100 per cento CO2 neutro* Nell’elaborazione dei suoi prodotti, da anni Wasa riduce le emissioni di CO2 – dal campo di coltivazione dei cereali fino agli scaffali dei negozi. Le emissioni residue vengono compensate tramite la promozione di progetti di protezione dell’ambiente a livello globale. In particolare Wasa sostiene il progetto «SaurIndia», che permette alle regioni rurali dell’India l’accesso all’energia solare, così come il progetto «Madre de Dios», che in Perù promuove la protezione della foresta pluviale. Nel 2019 Wasa è intervenuta anche contro il cambiamento climatico: con il motto «fette biscottate per un mondo più verde» e in collaborazione con la fondazione «Plant-for-thePlanet» sono stati messi a dimora oltre 8000 alberi in Messico, nella penisola dello Yucatán. La famiglia, uno stile di vita attivo e una società sempre più in armonia con la natura – questi i valori che da oltre un secolo caratterizzano il famoso marchio svedese: nel 2019 Wasa ha festeggiato il suo centesimo compleanno. * neutralità delle emissioni di CO2 secondo lo standard PAS 2060: 2014, raggiunta tramite le misure di risparmio di energia e di CO2 apportate da Wasa, così come attraverso la compensazione finanziaria di progetti certificati dal programma Verified Carbon Standard.
Wasa integrali con tapenade di pomodori secchi
Tritare grossolanamente 180 g di pomodori secchi sgocciolati e preparare la tapenade aggiungendo 1 cucchiaino di salsa sambal oelek, 1 cucchiaio di pinoli e un po’ di basilico tagliati col coltello. Spalmare sulle fette di pane croccante e guarnire con rucola e olive verdi.
Wasa Classic senza glutine con formaggio fresco
Spalmare le fette di pane croccante con crema di formaggio fresco morbido o di cottage cheese, e decorare con fettine di ravanello ed erba cipollina.
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Wasa al sesamo con hummus
Spalmare il pane croccante con l’hummus, aggiungere semi di melograno e di sesamo e irrorare con un po’ di olio di oliva. A piacere decorare con foglie di menta fresca.
Wasa integrale 260 g Fr. 1.90
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Tagliare una cipolla rossa ad anelli sottili e metterli in un vaso di vetro. Portare ad ebollizione 0,75 dl di acqua con 0,75 dl di aceto bianco, 2 cucchiaini di miele e 1 cucchiaino raso di sale. Versare sulle cipolle, fino a coprirle. Lasciar riposare almeno 1 ora. Spalmare il pane croccante con crema di formaggio al rafano, aggiungere salmone affumicato, le cipolle e condire con aneto.
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Ambiente e Benessere
In aiuto dei ghiacciai
Snowfarming A causa dei cambiamenti climatici, le nevi perenni si stanno ritirando a una velocità sempre maggiore.
Stefano Castelanelli Il rifugio Guide del Cervino da quasi 40 anni è un crocevia per tutti gli alpinisti che si avventurano a scalare il monte Breithorn; la sua cima di 4165 mslm fa parte della catena montuosa del Monte Rosa. L’edificio situato ai bordi del ghiacciaio del Plateau Rosa in Valle d’Aosta a 3480 m è stato costruito nel 1984 su suolo italiano. Negli ultimi 15 anni però il continuo scioglimento del ghiacciaio sta inesorabilmente avvicinando lo stabilimento alla Svizzera. Per il gerente del rifugio Lucio Trucco passare in Svizzera comporterebbe molti cambiamenti perché dovrebbe adeguarsi alle leggi elvetiche. Ciò significherebbe ad esempio cambiare l’arrangiamento della cucina o le prese elettriche, per non parlare delle tassazioni e dei permessi. Ma l’edificio di per sé non si è spostato. Quindi dovrebbe rimanere in Italia, oppure no? La questione è oggetto di discussione tra i due paesi confinanti. Tutto dipende dalla definizione di confine. «Sulle alpi – afferma Alain Wicht, preposto al confine della Svizzera presso l’Ufficio federale di topografia (Swisstopo) – il confine è definito principalmente dalla linea spartiacque, cioè dalla direzione verso cui scorre l’acqua ed essa segue anche le creste dei ghiacciai». Lo scioglimento dei ghiacciai, tuttavia, sposta la linea spartiacque. E cosa succede alla linea di confine? «Per seguire i cambiamenti naturali della linea spartiacque, è stato introdotto il concetto di “confini mobili” – dice Wicht: – la linea di confine si adatta ai cambiamenti naturali e segue la linea spartiacque». Nel 2008 Svizzera e Italia si sono accordate nel considerare la linea di confine che coincide con la cresta dei ghiacciai come un confine mobile. «Secondo l’attuale posizione della linea spartiacque, stabilita insieme agli italiani, i 2/3 del rifugio Guide del Cervino si trova in territorio svizzero. Purtroppo, gli italiani hanno poi cambiato parere – dice Wicht. – Tutti gli attori svizzeri coinvolti, cioè il comune di Zermatt, il Canton Vallese e la
Confederazione, sono d’accordo che il rifugio debba rimanere in Italia». Che fare quindi? «Per il momento, svizzeri e italiani non riescono ad accordarsi sull’attuale posizione della linea di confine naturale definita dalla linea spartiacque – dice Wicht. – Una soluzione sarebbe l’introduzione di un confine fisso con scambio di territori: i metri quadrati che la Svizzera perderebbe per permettere al rifugio di rimanere in Italia dovrebbe riceverli indietro altrove». Una soluzione questa che probabilmente renderebbe felice anche il gerente del rifugio Lucio Trucco. La discussione sui confini è solo una conseguenza dello scioglimento dei ghiacciai. «I ghiacciai si stanno riducendo a un ritmo sempre più rapido – dice Felix Keller, co-direttore del Centro di Glaciologia Applicata della Scuola Universitaria Professionale dei Grigioni – e questa non è nemmeno la notizia peggiore. Sì, perché i grandi ghiacciai reagiscono alle elevate temperature con un ritardo di circa 20 anni. Ciò significa che il grande ritiro dei ghiacciai deve ancora iniziare». Ma i ghiacciai ricoprono un ruolo centrale per la natura e l’uomo e il loro ritiro è un problema ambientale importante. «I ghiacciai non sono solo serbatoi che forniscono acqua ai fiumi nei periodi di siccità – dice Keller – ma sono anche una risorsa idrica essenziale per oltre 200 milioni di persone che dipendono direttamente dall’acqua dei ghiacciai per vivere. Soprattutto in Asia centrale (Himalaya) e in Sudamerica (Ande), la diminuzione delle masse glaciali sta causando scarsità d’approvvigionamento idrico». Come nella regione montuosa indiana del Ladakh, dove l’acqua dei ghiacciai viene utilizzata per le necessità quotidiane e per l’agricoltura. La regione si trova tra le catene montuose dell’Himalaya e del Karakorum, e soprattutto il territorio intorno al ghiacciaio del Siachen è strategicamente così importante, che viene conteso da anni da India e Pakistan. Tra il 1984 e il 2003, i due Stati confinanti hanno addirittura combattuto una guerra ad oltre
Waldsiedel
Ma cosa si può fare per rallentarne lo scioglimento?
6000 metri per il controllo del ghiacciaio. Dal 2003 è in vigore un cessate il fuoco. Il ghiacciaio appartiene all’India ed è costantemente protetto dall’esercito indiano. Conflitti bellici a parte, i ghiacciai hanno anche un’altra funzione particolarmente importante per la Svizzera. «I ghiacciai sono anche un’importante attrazione turistica» dice Keller. «Molti turisti, soprattutto asiatici o arabi, vengono nel nostro paese per ammirare i ghiacciai». Ma come si può fermare o perlomeno rallentare lo scioglimento dei ghiacciai? «Lo snowfarming è una tecnica per preservare la neve durante l’estate» dice Keller. «Non viene utilizzato solo per le stazioni sciistiche, ma anche per la conservazione dei ghiacciai». In pratica si tratta di compattare la neve caduta in inverno in una particolare area che poi viene ricoperta con dei teli geotessili (vedi fotografia). «Sul Diavolezza lo snowfarming viene praticato dal 2007 – dice Keller – con successo: lo spessore del ghiacciaio è aumentato di 10-15 metri ed è stato possibile creare un nuovo ghiacciaio». Lo snowfarming aiuta, ma da solo non risolve il problema dello scioglimento dei ghiacciai. «Lo snowfarming – continua Keller – ha un problema di scala: si può coprire solo
una superficie inferiore a un chilometro quadrato. Per aree più vaste lo sforzo è troppo grande. Inoltre, il movimento del ghiacciaio distruggerebbe la copertura». I numeri aiutano a capire i limiti dello snowfarming. «Il ghiacciaio del Morteratsch presso Pontresina è un ghiacciaio naturale e di grandi dimensioni. Conserva 1500 miliardi di litri d’acqua. Con lo snowfarming sull’adiacente Diavolezza si può immagazzinare fino a circa 1 miliardo di litri d’acqua. Una differenza significativa». Ma lo snowfarming non è l’unica misura per combattere lo scioglimento dei ghiacciai, un’altra soluzione si chiama ice stupa. «L’approccio è stato sviluppato nel Ladakh – dice Keller. – I contadini volevano conservare l’acqua caduta in inverno per l’irrigazione dei campi in primavera. Per questo motivo hanno iniziato in inverno a spruzzare l’acqua in eccesso verticalmente. Così facendo formano grandi torri di ghiaccio, le cosiddette ice stupa. L’acqua degli ice stupa che si scioglie in primavera viene poi utilizzata per l’irrigazione». Le torri di ghiaccio ricordano la forma degli stupa, i templi di preghiera buddisti, ed è così che è nato il nome. Nel 2016 anche a Pontresina sono stati costruiti degli ice stupa. Tuttavia, servono più come attrazione turistica e come
campagna di sensibilizzazione al problema dello scioglimento dei ghiacciai, che come veri e propri serbatoi d’acqua per l’agricoltura. Ma esiste anche un terzo approccio più innovativo e più promettente. «Se si coprono i ghiacciai con la neve si può rallentare o addirittura impedire il loro ritiro» dice Keller. «A questo proposito basta coprire la superficie di 1 km quadrato». Per produrre la neve si può usare l’acqua che si scioglie dai ghiacciai. Ma sui ghiacciai non c’è elettricità, e per questo «abbiamo sviluppato un metodo per produrre neve dall’acqua senza elettricità. Basta sfruttare un dislivello di 200 metri» spiega Keller. Un problema quindi sembra essere risolto, ma ce n’è un secondo: la quantità. «Per coprire una superficie di 1 km quadrato di neve, bisogna produrre 32mila tonnellate di neve al giorno. Una quantità enorme». I test di laboratorio sono stati però positivi. Nel corso di quest’anno è in programma la costruzione di un primo piccolo impianto pilota all’aperto presso la stazione alpina di Pontresina. Il progetto pionieristico svizzero viene seguito con interesse da tutto il mondo. E, di fatto, sarebbe la prima tecnologia che potrebbe seriamente fermare lo scioglimento dei ghiacciai. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Le luci nel buio dell’inverno islandese
Reportage A rischiarare le notti e i giorni del nord, in questa stagione oscura, sono i colori più intensi
che accompagnano verso il nuovo anno con un po’ di speranza Amanda Ronzoni, testo e foto Ho messo piede in Islanda la prima volta nel 2006. Era estate, le giornate lunghissime, l’aria odorava di timo selvatico. Ricordo i colori decisi: il nero e il rosso della lava, l’infinita gamma di verdi. Ci sono più verdi in Islanda che in qualsiasi altro paese che ho visitato (e non sono pochi). Fu amore a prima vista. Una folgorazione che mi ha portata al limite della dipendenza. Fisica e mentale. Da allora sono tornata non so più quante volte, in ogni mese dell’anno. E ogni volta ho provato lo stupore della prima. «Qui si trova pace, erba ed eterno, non c’è bisogno d’altro. So che non molti sarebbero d’accordo con me, la gente non ci vede altro che piattezza, aridità, eppure qui è bello comunque, in qualsiasi condizione atmosferica». Le parole sono di Jón Kalman Stefánsson, tratte dal suo romanzo Grande come l’universo. L’ho appena letto per nutrire la mia nostalgia in questo mondo senza viaggi, senza le ali degli aerei che ci fanno volare, trasformandoci in uccelli migratori, che tornano a casa appena cambia l’aria. Mille volte mi hanno chiesto se non sono stufa di partire per una crosta vulcanica sperduta in cima all’oceano Atlantico, che ha più pecore che cristiani, dove il tempo cambia ogni cinque minuti, in base al diktat dei venti polari, e dove, come dicono in tanti, «non c’è niente». A un certo punto, ho cominciato ad andarci anche in inverno, quando nelle giornate più corte ci sono quattro ore di luce. (Su www. azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica). «Dicembre è il mese più buio della terra», ci racconta sempre Jón Kalman Stefánsson. In questi giorni, mentre scrivo queste note, nei fiordi occidentali islandesi (66° parallelo) il sole sorge più o meno alle 11.19 e tramonta alle
15.23. Per noi che siamo a un passo dalla solarità del Mediterraneo, a essere disturbante non è tanto il fatto che venga buio presto, quanto che la luce sembri non arrivare mai.
Buio e luce, opposti che sembrano escludersi, ma che non esistono l’uno senza l’altra Ci si abitua a tutto, ma il mattino in cui ho assistito per la prima volta all’alba di mezzogiorno non lo dimenticherò mai. È innaturale, sinistro oserei dire, che il sole alle 9 non abbia neanche lanciato un timido raggio oltre l’orizzonte. E quando alle 9.30 è ancora buio pesto, si fa strada un presagio di catastrofe. Il mondo sta finendo e nessuno ci ha avvisato. Un’inquietudine simile a quella che ci troviamo a vivere in questi giorni sospesi. Eppure, in questo preciso momento, per Natale, non c’è altro posto
nel mondo dove vorrei essere di più. Non in una calda spiaggia delle Seychelles. Non tra le luci festanti e le strade cariche di gente e pacchetti di Parigi, Londra o New York. Neppure nel rassicurante abbraccio di un santuario shinto in Giappone. Non vorrei essere in nessun altro luogo perché tutto quel buio islandese fu una rivelazione. Alle nostre latitudini abbiamo quasi cancellato l’oscurità, ai limiti dell’inquinamento luminoso. Quando non ci sono lampadine e lampioni a guidare i nostri passi, ricorriamo alla torcia del cellulare per muoverci. Eppure, basta poco per riabituare gli occhi al buio e in quello dell’inverno islandese, diventano anche più sensibili. Come se imparassero a distinguere più sfumature. Il cielo, le montagne innevate, il mare si vestono di porpora, rosa di ogni tonalità e oro, pervinca, azzurri di cui non saprei neanche dire il nome. E la notte, il cielo diventa una verde milonga. Una volta ci si affidava alla posizione della Luna e delle stelle per navigare. Pensate che, nel 1593, Giovanni
Keplero, l’astronomo tedesco, matematico e scopritore delle leggi che sottendono al movimento dei pianeti, comincia a scrivere un breve racconto di fantascienza, il Somnium, perfezionato nel 1609, ma pubblicato postumo solo nel 1634 (Somnium, Sive Astronomia Lunaris Joannis Kepleri). Vi si narra di come appare la Terra vista dagli abitanti della Luna, mettendo in dubbio la sua immobilità (quindi il sistema geocentrico tolemaico), di fatto aprendo alla teoria copernicana eliocentrica. Argomento quanto mai scottante: sono anni, quelli, in cui l’inquisizione ha il rogo facile e pare proprio fu a causa delle bozze di questo racconto, circolate in modo non ufficiale, che la madre di Keplero venne accusata e processata per stregoneria. Cosa c’entra il Somnium con il buio, le luci e l’Islanda? Più di quanto immaginiate. Keplero scrive questo racconto per spiegare in modo semplice i complessi calcoli matematici e le teorie espresse nel suo celebre Astronomia Nova. La cosa curiosa è che sceglie come protagonista, suo alter ego,
Duracotus, un giovane islandese, che apprende i principi dell’osservazione astronomica dal danese Tycho Brahe (di cui Keplero fu assistente) e poi, grazie alle arti magiche della madre Fiolxhilde (alter ego della madre dell’astronomo), proprio dall’Islanda parte per un viaggio sulla Luna. All’epoca l’ultima Thule (com’è nota l’isola) era un punto ai margini delle mappe, le sue genti considerate rozze e ignoranti, ma intelligenti, solo segnate da un impietoso isolamento geografico. Nelle sue Note al Sogno, Keplero spiega: «in questa remota isola mi sono trovato un luogo di sonno e di sogno», in omaggio ai viaggi fantastici di celebri autori come Plutarco e Luciano di Samosata. La sua posizione, inoltre, gli appariva particolarmente felice per le sue lunghe notti «ininterrotte, certamente favorevoli all’amore per la scienza». Aggiungerei non solo per quella. «Le stelle le vedi soltanto al buio, così ti ricordi che il buio non può spegnere ogni luce» Jón Kalman Stefánsson, tratto da Grande come l’universo.
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Politica e Economia Proiezioni americane Per Joe Biden si avvicinano l’Inauguration Day e le sfide che lo attendono
Regno Unito fuori controllo Un fronte interno che più confuso non si può fra norme sanitarie e variante inglese del Covid. E un fronte esterno che vede lo scontro con la Francia sulla pesca nella Manica e sul trasporto merci
Disturbati e radicalizzati Il confine fra malattia mentale e radicalizzazione è labile, e i terroristi ne approfittano. Intervista a Mirjam Eser Davolio pagina 27
pagina 25
pagina 21 Il presidente russo Vladimir Putin durante l’annuale conferenza stampa. (AFP)
Sicurezza in crisi
Usa-Russia L’attacco hacker al governo americano (che secondo gli esperti è opera dei russi) potrebbe essere
la prima battaglia di una nuova guerra. Mosca nega, come nega le accuse di avvelenamento di Alexey Navalny Anna Zafesova Vladimir Putin è stato l’ultimo leader internazionale a mandare le sue congratulazioni per la vittoria a Joe Biden, quasi fuori tempo massimo, in un gesto che voleva essere uno sgarbo e che inaugura una stagione diplomatica di estrema tensione tra Mosca e Wasghington. La Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA), l’agenzia americana per la sicurezza informatica, ha rivelato pochi giorni fa un attacco di hacker senza precedenti per portata e durata, che il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato «chiaramente colpa dei russi». E anche se Donald Trump è apparso più scettico, ipotizzando un’interferenza anche della Cina, numerosi esperti statunitensi sono convinti che a infiltrarsi in decine di migliaia di computer degli Stati Uniti siano stati gli hacker dell’unità russa «Cozy Bear», che avevano già lasciato segni nelle invasioni precedenti del cyberspazio americano, e che sono legati all’SVR, lo spionaggio estero del Cremlino. Un attacco informatico che potrebbe rivelarsi senza precedenti per gravità: tra le reti colpite, quelle dei Ministeri del tesoro, dell’energia e del commercio degli Stati Uniti, e – forse il
bersaglio più inquietante – i laboratori nucleari di Los Alamos, che controllano l’arsenale atomico americano. Ma ci sono altri 18 mila enti e società infette, che potrebbero rivelarsi potenzialmente molte di più: «Ci vuole tempo per capire, mitigare gli effetti e identificare gli autori di attacchi di questa portata», ha spiegato alla Cbs Neil Walsh, esperto di cybersicurezza per l’Ufficio sulle droghe e la criminalità dell’Onu. Sembra che gli hacker russi abbiano usato tecnologie molto più sofisticate rispetto alle irruzioni nei server del partito democratico del 2016, il famigerato RussiaGate, e che il loro obiettivo sia stato raccogliere i dati più disparati. Inoltre, la breccia informatica è stata aperta in software molto diffusi, e potrebbe potenzialmente aver fatto propagare l’«infezione». Resta da capire se gli obiettivi del Cremlino, nell’ordinare questo ennesimo attacco informatico, fossero stati di colpire l’America, o soltanto di mostrare agli americani quanto siano vulnerabili. Anche il timing della rivelazione – l’attacco è iniziato a marzo, e potrebbe essere tuttora in corso, almeno in alcuni dei suoi frangenti – in concomitanza con il tormentato avvicendamento alla Casa Bianca – potrebbe essere un segnale. Certamente Mosca
si aspetta dalla presidenza Biden una recrudescenza di sanzioni e iniziative che il Cremlino qualificherebbe come «antirusse». L’amministrazione Trump non ha lanciato sanzioni sull’avvelenamento di Alexey Navalny, consegnando incredibilmente all’Europa il primato di sfidare Mosca su questo terreno, ma è molto probabile che Biden vorrà recuperare, anche perché la sua missione principale nei prossimi mesi sarà quella di mostrare che l’America sta tornando sugli scacchieri internazionali, riprendendo il suo ruolo di paladina delle libertà globali. La diplomazia russa perlomeno si sta preparando a tempi duri, anche se in realtà è con Donald Trump che i rapporti bilaterali sono «diventati pessimi come mai prima», come ha detto qualche mese fa il presidente russo. Trump però continuava a venire visto da molti attori della politica moscovita come un potenziale alleato imbrigliato però dal «deep state» di Washington, mentre Biden – che già nell’amministrazione di Barack Obama si era distinto come sostenitore della linea più dura nei confronti del Cremlino – viene ritenuto un nemico irriducibile. L’attacco degli hacker quindi potrebbe essere la prima battaglia di una
nuova guerra oppure un ammonimento di quello che Biden potrebbe trovarsi a dover combattere, una sorta di ricatto preventivo. Mosca ha dei dossier che richiedono una soluzione urgente con Washington: a febbraio scade l’ultimo dei trattati sugli armamenti strategici ancora in vigore, il New Start, e Trump ha rifiutato una proroga senza condizioni proposta in extremis da Putin alla vigilia delle elezioni. Questo significa che almeno in teoria tra un mese tutta la cornice del disarmo strategico che ha chiuso la Guerra fredda, con il sistema dei rispettivi controlli tra le due potenze nucleari, verrebbe archiviato, e il rinnovo dell’accordo potrebbe richiedere un lungo negoziato. I trattati sull’arsenale nucleare sono ormai da anni anche quell’unico momento in cui Mosca riesce a posizionarsi, almeno a livello di immagine, al pari degli Usa, obiettivo strategico di Putin che rivendica da sempre un «trattamento alla pari» dall’Occidente. Un trattamento che però il Cremlino non conta più di ottenere, almeno a giudicare da una nuova ondata di attacchi verbali lanciati Oltreoceano a fine anno. Nella sua conferenza stampa annuale Putin ha rivendicato la superiorità morale della sua Russia nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occiden-
te. Ma soprattutto non ha usato mezzi termini nell’affermare che il suo oppositore principale, Alexey Navalny, sia «legato ai servizi segreti americani». Le rivelazioni dell’inchiesta dei giornalisti di Bellingcat sull’avvelenamento di Navalny, organizzato da agenti del servizio segreto interno, Fsb, l’erede dell’ex Kgb, hanno messo in grande difficoltà il Cremlino. Un’indagine con nomi, cognomi e indirizzi degli agenti che hanno pedinato per anni l’oppositore principale di Putin, alla quale Navalny ha aggiunto il video di un’incredibile telefonata in cui, spacciandosi per un funzionario dell’intelligence, interroga uno dei suoi avvelenatori fino a costringerlo a confessare che l’agente tossico Novichok era stato spalmato nelle mutande dell’oppositore. Putin – senza smentire direttamente le rivelazioni – ha reagito dichiarando ufficialmente Navalny un agente degli Usa, il che rende più complicato il suo rientro in Russia dopo la conclusione delle cure in Germania. E Biden è avvertito: qualunque sua iniziativa per costringere Putin a rispettare la democrazia, e l’opposizione, verrà bollata come un’ingerenza della Cia, e quindi Mosca si sentirà anche giustificata a proseguire la guerra delle spie, e degli hacker.
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Politica e Economia
Il peso delle aspettative
Verso l’Inauguration Day Dal 20 gennaio il vero test per Joe Biden sarà la sua capacità di far emergere
una nuova classe dirigente democratica, anagraficamente e culturalmente giovane, e un’America nuova Quando Joe Biden salirà sul palco allestito per l’Inauguration Day il 20 gennaio, sotto la cupola del Campidoglio di Washington, il coronamento di mezzo secolo di carriera politica sarà per lui anche il remake di un film già visto. Più di un film, in verità. Quella scenografia, quella cerimonia, in quel luogo, sono un déjà-vu per il 78enne che si appresta a diventare il 46esimo presidente degli Stati Uniti. Da vicepresidente di Barack Obama, per due volte nel gennaio 2009 e nel gennaio 2013 ha partecipato come un comprimario alla stessa inaugurazione. Quella del 2009 aveva una triste analogia: anche allora come oggi la nuova presidenza democratica ereditava da un’Amministrazione repubblicana un’economia stremata da una tremenda recessione; nel 20082009 veniva definita «la crisi più grave dopo la Grande Depressione degli anni Trenta», un record che rischia di esserle sottratto proprio dal disastro del 2020. Biden penserà intensamente a quest’ironia della sorte: il destino sembra condannare i democratici come lui a «riparare» un meccanismo economico e sociale schiantato da uno shock sotto il governo altrui. Ma la sua memoria risale inevitabilmente più indietro nel tempo. Dopotutto, Biden iniziò a fare politica in un’epoca più vicina a quella dei presidenti Calvin Coolidge (1923-29) e Herbert Hoover (1930-33) che non al mondo del 2021. Ecco altri due presidenti repubblicani, Coolidge e Hoover, che lasciarono in eredità al democratico Franklin Roosevelt un’America devastata, impoverita e impaurita da una calamità economica. Biden dunque ripenserà al gennaio del 2009 – quando Obama stava per consegnargli la responsabilità di gestire il salvataggio dell’industria automobilistica americana – ma anche al marzo del 1933. Franklin Roosevelt s’insediò alla Casa Bianca a un’epoca in cui la transizione era ancora più lenta – incredibilmente, assurdamente protratta dall’Election Day di novembre fino a marzo – e pure lui ebbe rapporti tesi, cooperazione minima con il suo predecessore repubblicano. I paragoni con Roosevelt sono anche personali, intimi e dolorosi. FDR, il leader del New Deal, apparteneva a un mondo in cui la classe dirigente pagava di persona, mandava i figli a morire in guerra. Biden ha sofferto lo stesso destino tragico in tempi molto diversi, quando il patriottismo è sbeffeggiato dalla sinistra, e manipolato da una destra dove George W. Bush e Do-
AFP
Federico Rampini
nald Trump s’imboscarono come tanti privilegiati per non andare al fronte. La profondità storica darà a Biden una prospettiva inedita su questo Inauguration Day. Anomalo come lo è stata la figura di Trump e il quadriennio di governo nazional-populista; però meno anomalo di quanto si creda. Dall’alto dei suoi 78 anni, Biden ha la saggezza e le letture utili per ricordare che la storia degli Stati Uniti aveva conosciuto altre insurrezioni populiste (più spesso di sinistra); altri isolazionismi in politica estera. Chi si straccia le vesti oggi lamentando la polarizzazione, la lacerazione, la delegittimazione reciproca tra le due Americhe, o è in malafede o è troppo giovane. Biden no, lui ricorda di aver esordito in politica nell’America ferita dalla guerra del Vietnam, dall’esplosione di tensioni razziali, dai primi segnali di una de-industrializzazione che infieriva contro la classe operaia (all’epoca era la concorrenza giapponese a mettere in ginocchio il Midwest). I media hanno la memoria corta e sono sempre sull’orlo di una crisi isterica per tener su la loro audience, ma Biden ha lo sguardo che abbraccia i tempi lunghi. Sa anche di essere arrivato finalmente al traguardo di una vita – dopo due tentativi falliti malamente – sull’onda di una mezza vittoria o mezza sconfitta. Non c’è stata la riconquista del voto operaio, e questo pesa sul vecchio Joe che si sente vicino all’America delle fabbriche. Non gli è riuscita l’operazione per la quale lui si era sentito più adatto di Hillary nel 2016: ricostruire il legame storico tra il partito democratico e le classi lavoratrici. Se c’è una ragio-
ne per cui l’ombra di Trump aleggia su questo Inauguration Day, sono i numeri di Election Day. In percentuali Trump ha difeso bene le sue posizioni, in numeri assoluti ha conquistato 10 milioni di voti in più rispetto al 2016. Biden ha vinto alla grande tra i laureati. Ma Trump è andato perfino meglio che nel 2016 tra gli operai, ha conquistato consensi tra gli ispanici, tra gli afroamericani. Biden ha un vantaggio generazionale: è vaccinato dall’età e dai capelli bianchi contro il «politically correct» delle élite costiere, degli intellettuali radicali che liquidano 73 milioni di elettori trumpiani come dei cripto-fascisti o dei razzisti o degli «utili idioti che votano contro il proprio interesse». Biden sa che aver regalato alla destra la rappresentanza dei lavoratori – operai tradizionali o nuovo precariato, maschi bianchi o ex-immigrati per nulla attratti dalla sinistra «no-border» – è un errore strategico da affrontare con una lunga terapia. Ma non sa se avrà i mezzi per farlo. Dopo la pandemia, dopo la depressione economica, la terza ombra inquietante che si allungherà su di lui in questo Election Day sarà politica: il 46esimo presidente agguanta il potere esecutivo in condizioni precarie, con un capitale politico esiguo, margini di manovra ridotti, un’opposizione forte, una sinistra spaccata. È una vita che Biden sogna questo Inauguration Day, eppure non poteva immaginarselo in condizioni peggiori. Un pezzo del partito democratico non condivide quasi nulla delle promesse dell’ala sinistra: Green New Deal,
legalizzazione degli immigrati clandestini, forte aumento delle tasse sulle imprese. Lo stesso Biden si era convertito in modo tiepido all’agenda più radicale solo per tenere insieme il suo partito durante la gara della nomination, le primarie, e lo scontro con Trump. Negozierà compromessi con il centro politico – i moderati dei due partiti – per rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione. Pragmatismo rooseveltiano, stile New Deal ma senza riforme di quella audacia: Biden dovrà sperimentare tutto il possibile per uscire da un tunnel che è quello della pandemia+recessione. Al tempo stesso l’America ha bisogno di uscire da altri tunnel. Quello di una campagna elettorale isterica da ambo le parti, che ha lasciato rancori, voglia di vendette. Una campagna elettorale interminabile e sempre sul punto di ricominciare, quasi uno scenario da Groundhog Day (il film «Ricomincio da capo» con Bill Murray, del 1993). Fra meno di due anni arrivano le elezioni di mid-term, in cui sarà di nuovo in palio la maggioranza al Congresso. E se Trump conferma la sua candidatura per il 2024 possiamo già considerare iniziata la prossima campagna presidenziale. Mentre l’America cerca di uscire dal clima di «guerra civile a bassa intensità» che assorbe tanta parte delle sue energie, è costretta a prendere atto che il mondo non aspetta. Una parte del mondo è partita in una fuga in avanti, in ripresa dall’estate scorsa, e questa è la prima sfida che attende Biden: mentre lui duellava con Trump, la Cina si rafforzava come
portatrice di un’alternativa globale e sistemica. Una vasta area del pianeta, con la Cina al suo centro, e nei primi cerchi concentrici l’Estremo Oriente e il Sud-Est asiatico, ha «profittato» della pandemia per una fuga in avanti che distacca l’America. Per quanto Biden sia un atlantista legato alla vecchia Europa, la logica geostrategica è stringente: si occuperà molto dell’Asia-Pacifico, dove si gioca il futuro e dove l’America rischia di rappresentare il passato. Una parte delle energie del nuovo governo andranno a ridefinire una strategia di contenimento della Cina: senza liquidare frettolosamente l’arsenale trumpiano (dazi, embargo su certe tecnologie, sanzioni), ma cercando di unirvi l’attenzione ai diritti umani. Il rischio è di adagiarsi su una riposta «default», attingendo alla tradizione dell’establishment: con Biden è tornato al potere il vecchio establishment, ma furono le politiche di quella classe dirigente (trattati di libero scambio troppo favorevoli alle multinazionali e alla finanza) ad alimentare il trumpismo. Il vero test di Biden sarà la sua capacità di far emergere una nuova classe dirigente democratica, anagraficamente e culturalmente giovane. Lo aiuta il fatto che il capitalismo americano conserva risorse formidabili, «spiriti animali» capaci di alimentare la ripresa, se le politiche economiche non si mettono di traverso. L’insidia è che la crisi ha rafforzato in modo esponenziale Big Tech e Wall Street, due potentati economici che hanno avvelenato i valori della nazione e il suo codice etico. La rinascita dell’America sarà il tema dell’anno ma non basterà una rinascita della «vecchia» America, dello status quo ante. Perché è quello stesso capitalismo americano di cui Biden avrà bisogno per la ripresa, il vero colpevole dietro un allargamento ulteriore delle diseguaglianze, anche durante la pandemia. Tra aprile e settembre del 2020, 45 delle 50 maggiori aziende Usa hanno realizzato profitti. 27 su 50 hanno licenziato, per un totale di centomila posti di lavoro eliminati. Nello stesso periodo, tutte e 50 hanno versato dividendi agli azionisti. E non pochi: 240 miliardi di dollari di dividendi. Gli azionisti si sono arricchiti anche nella pandemia, mentre i lavoratori si sono impoveriti. Il paradosso è che questo establishment capitalistico da anni si sente più rappresentato dal partito di Biden. È una delle contraddizioni che il 46esimo presidente eredita. In questo Inauguration Day, con gli occhi del mondo intero puntati su di lui, sentirà il peso schiacciante delle aspettative. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Politica e Economia Una nebbia fitta avvolge il ponte di Westminster e la vita politica del Paese. (AFP)
Karima uccisa e gettata in un canale Canada L’attivista pakistana in esilio
si batteva per i diritti civili del Balochistan Francesca Marino
Isolati fino al malessere
GB Il Paese alle prese con la variante inglese del Covid vuole solo
che la Brexit si concluda per ripartire con una nuova vita Cristina Marconi «Ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere, la seconda è ottenerla». E per un Paese che da cinque anni va ripetendo di volere andare da solo, l’esperienza dell’isolamento perfetto, per quanto breve, è stata un piccolo assaggio di un futuro di cui tutto si può dire tranne che sia stato preparato con attenzione. Perché va bene la Brexit – a questo punto sono in pochi nel Paese a non sperare che avvenga il prima possibile per chiudere questo capitolo nero, comunque lo si guardi – ma cosa sono quelle code che si sono viste a Dover e in Francia, cos’è questa attesa estenuante di un accordo, con l’incertezza alle stelle per le povere imprese? E va bene che un annuncio sembrerebbe atteso per i prossimi giorni, ma era necessario passare attraverso un dicembre di fuoco e quattro anni di ottovolante? Anche se nessun Paese ha avuto una gestione perfetta del Covid, la confusione con cui è stata data la notizia della «variante inglese» non poteva non generare il panico nel mondo: Londra ormai non è più vista come un interlocutore affidabile e la frustrazione per questi anni di tiri mancini sembra essersi cristallizzata così, in una settimana di dicembre che doveva essere di festa ed è stata di apocalisse. Partiamo dal fronte interno: il premier Boris Johnson, dopo aver annunciato piani fin troppo rilassati per le feste – tre famiglie per cinque giorni, senza limiti di persone – ha dovuto smentire ancora una volta sé stesso dichiarando, sabato sera, che i contagi erano fuori controllo e che il Natale andava cancellato a Londra e nel sudest, travolto da questa nuova variante con troppe mutazioni per lasciarci dormire sonni tranquilli. Le mutazioni avvengono costantemente nei virus e il Regno Unito le segue con una attenzione maggiore che negli altri paesi, motivo per cui quest’ultima è stata scoperta lì, a metà settembre. Solo a metà dicembre è stata però associata al balzo dei casi in corso in alcune zone del Paese, dove lo scarso rispetto delle misure di distanziamento potrebbe aver svolto un ruolo di per sé importante. Più contagiosa, non necessariamente più letale, questa variante ha però il potere di mettere in ginocchio le terapie intensive e per questo il governo ha deciso di chiudere nuovamente tutto. Il programma di vaccinazioni è ormai in corso, mezzo milione di persone e passa ha ricevuto la prima dose e la variante inglese «molto probabilmente» non dovrebbe essere un problema da questo punto di vista, secondo
quanto spiegato dallo scienziato dietro al vaccino Pfizer/BioNTech, Ughur Sahin. Ci vorranno comunque almeno due settimane per vederci più chiaro sull’efficacia del vaccino sulla nuova variante. Poi c’è il fronte estero. Il presidente francese Emmanuel Macron e Boris Johnson sono i due principali duellanti in uno scontro che vede i pesci della Manica come oggetti contesi. Sebbene sia una parte piccolissima delle economie dei due paesi, la pesca ha una grande valenza simbolica e politica, e su quel punto si va litigando fino all’ultimo. Tanto che in molti, nel Regno Unito, hanno avuto la tentazione di vedere nel blocco dei camion di ritorno dalle isole britanniche una rappresaglia sulla Brexit, un tentativo di mostrare i muscoli e di far assaggiare a Londra la medicina amara dell’isolamento. Dopo qualche giorno di panico una soluzione si è trovata e il peggio è scongiurato, ma è stata l’Unione europea a far pressione sui paesi membri affinché riaprissero i collegamenti di emergenza con il Regno Unito, sia per i passeggeri europei – sono 40 in tutto i paesi che hanno interrotto gli arrivi dal Paese – che per gli approvvigionamenti. Un esito paradossale, visto che Boris Johnson, nella conferenza stampa di lunedì scorso, aveva detto che proprio grazie ai piani di emergenza messi a punto per il no deal la situazione era sotto controllo, con soli 170 camion in fila a Dover. Le televisioni parlavano di più di 580 veicoli bloccati, secondo una stima cauta. Intanto come tanti paesi di tutto il mondo, il Regno Unito vede cambiare i colori della sua cartina in base ai Tier, ossia ai livelli di misure prese. E da Santo Stefano in poi, l’allerta più alta si estenderà in altre zone oltre a Londra. Il problema è che tutto questo, in mancanza di un messaggio affidabile e chiaro da parte della politica, si è trasformato in una confusione frustrante, con strade e luoghi affollati di gente senza mascherina alternati a spazi svuotati da un’inevitabile fuga verso le seconde case. Le regole sembrano draconiane, ma nessuno le fa rispettare e al di là dell’invito da parte del ministro dell’Interno Priti Patel, ispirato a una curiosa interpretazione dello spirito natalizio, di denunciare i vicini se invitano qualcuno in casa la polizia stessa ha ammesso di non avere il potere di bussare alle porte, né tantomeno di introdursi nelle case per verificare la presenza di parenti o amici «intrusi». Tra l’altro il «Financial Times» ha scritto un pezzo spietato per svelare come Boris e la sua compagna Carrie
Symonds, vista come sempre più potente a Downing Street, abbiano diritto legalmente a un Natale sereno grazie a una piccola esenzione (involontaria?), molto poco pubblicizzata, per le famiglie che hanno un bambino di meno di un anno: possono festeggiare con un’altra famiglia. E Carrie e Boris hanno il piccolo Wilfred, nato ad aprile. Il Regno Unito della variante inglese non è allarmato come il resto del mondo crede: la vita continua come al solito, sempre più spenta e mesta, tra file al supermercato e un senso di rassegnazione irreale. Nessuno vuole protestare più del dovuto perché tutti, a questo punto, vogliono solo che la Brexit si concluda per poter iniziare un nuovo anno, una nuova vita. Boris è in bilico, ha dei ratings risibili – solo il 2,9% degli attivisti Tories ne approva l’operato – e le voci di una fronda per sostituirlo già a primavera si susseguono. Non si contano gli articoli feroci contro di lui, e l’uscita di scena del superconsigliere Dominic Cummings non sembra aver fatto altro che aggiungere confusione alla confusione, interrotta solo dalla settimana di gloria dell’inizio del programma di vaccinazione. La partita economica, per il governo, è anch’essa tutta in salita e in molti si chiedono se le scuole riapriranno a gennaio, permettendo il procedere più o meno sereno delle attività produttive. Che Johnson stia sacrificando il Natale per salvaguardare una vita che è andata avanti normalmente negli ultimi mesi? Per gli economisti, il nuovo lockdown di fatto rischia di pesare anche sul primo trimestre del 2021, mentre per il 2020 si aspettano un calo del pil del 10,6% su base annua. Le misure di furlough, ossia di cassaintegrazione, dureranno fino ad aprile, quando secondo le previsioni di Johnson la vita sarà tornata a una qualche forma di normalità. In molti, sentendogli pronunciare la parola «Pasqua» sono rimasti però più preoccupati che altro, visto che come oracolo fino ad ora si è mostrato debole e che la sua ostinata tendenza a fare promesse che non riesce a mantenere sta diventando preoccupante, come notato anche dalla stampa più amica. Si sapeva che la fine di questo periodo di transizione sarebbe stato difficile, ma quello che si sta verificando supera ogni immaginazione. La Scozia, sotto la leadership sicura di Nicola Sturgeon, sembra sempre più lontana e autonoma, così come le altre nazioni. La confusione è ai massimi, ma il Paese sa rimbalzare e ora forse sa che facendosi cadere in basso potrà trovare la spinta per risalire da questi anni di profonda crisi esistenziale.
Che cosa si può dire di una donna di appena 37 anni che è stata ammazzata? Che era stata per quasi dieci anni il capo della Baloch Students Organization, un gruppo che lotta per i diritti dei baloch e che in Pakistan, al contrario dei talebani e di altre organizzazioni terroristiche internazionali, è fuorilegge. Che era stata una studentessa di psicologia, e che si era ritrovata a essere il leader della BSO, prima donna in assoluto a ricoprire quel ruolo, quasi suo malgrado. Che aveva vissuto per quasi dieci anni da fuggiasca nel suo Paese fino a quando, nel 2015, era riuscita a scappare in Canada. Che all’arrivo in Canada si era strappata di dosso l’hijab che aveva dovuto indossare di forza per dieci anni perché essere velata la aiutava a confondersi tra la folla, e che aveva dichiarato: «Mi sento finalmente libera, e al sicuro». Si chiamava Karima Baloch, e nel 2016 la BBC l’aveva inserita tra le cento donne più «influenti e da cui trarre ispirazione» del mondo. Il suo corpo è stato ritrovato a Toronto dentro a un canale. Come se invece del civilissimo Canada fosse ancora il Balochistan, e il corpo fragile di Karima fosse uno dei tanti che ogni giorno si ritrovano gettati ai bordi delle strade con segni di tortura. Era scomparsa da due giorni, proprio come fosse il Balochistan e non Toronto, come fosse soltanto un altro delle migliaia di attivisti, giornalisti, dissidenti, uomini donne o bambini che siano, che scompaiono ogni anno nella martoriata provincia illegalmente occupata dal Pakistan. Le modalità della sua morte sono molto, troppo simili, a quelle della morte di un altro baloch, un giornalista investigativo rifugiatosi all’estero per sfuggire alle Death Squads comandate dall’ISI e dall’esercito pakistano: Sajid Hussain è stato ritrovato, dopo essere scomparso per quasi un mese, dentro a un fiume a Uppsala, Svezia, lo scorso marzo. La sua morte è ancora avvolta nel mistero. L’oltraggio manifestato da una serie di organizzazioni internazionali, invece, si è spento da tempo. E così accadrà per Karima. Gli investigatori investigheranno in direzioni sbagliate e guidate da quello stesso paese da cui Karima e Sajid erano scappati. Ma, come direbbe Shakespeare, «siamo venuti a seppellire Karima, non a lodarla». Perché Karima, lo sanno gli attivisti, i giornalisti ma anche i governi interessati, non sarà purtroppo l’ultima a morire. Molti dissidenti pakistani sono stati informati ufficialmente dalle intelligence dei governi dei paesi in cui si sono rifugiati, dell’esistenza, credibile e documentata, di complotti dei servizi segreti pakistani ai loro danni.
Sono in molti, e i loro nomi sono anche famosi o addirittura famosissimi, a vivere con la minaccia di un possibile, anzi probabile, attentato alla loro vita: non in Pakistan, ma in Francia, in Olanda, in Inghilterra, negli Stati Uniti. O in Svezia e in Canada. E non si tratta di fantapolitica. L’ex presidente ed ex-capo dell’esercito Musharraf ha dichiarato in un’intervista che ancora circola sui social media, che è perfettamente accettabile ammazzare «i traditori» all’estero. Aggiungendo che: «Lo fanno tutti». Specialmente, a quanto pare, da quando alle spalle degli assassini di Stato pakistano si trovano i servizi segreti cinesi, che regolarmente interrogano quelli che l’ISI preleva e che occupano, militarmente e commercialmente, il Balochistan con la scusa del China-Pakistan Economic Corridor. Il CPEC ha ulteriormente privato i Baloch di diritti e di fonti di sostentamento. Per «ragioni di sicurezza» il porto di Gwadar è stato fortificato e l’accesso a un’area di chilometri è proibito ai cittadini. Migliaia di pescatori hanno perso la loro unica fonte di sostentamento, migliaia di donne e bambini hanno perso accesso all’acqua potabile. Ma i governi occidentali tacciono. Tacciono perché Islamabad sta mettendo in atto un’altra delle strategie privilegiate di Pechino: lo shopping, a cari prezzi, di deputati europei, politici locali, giornalisti e membri di think-tank anche prestigiosi. Tacciono perché tutti, a cominciare dall’Italia, vendono armi al Pakistan anche quando è contrario sia alla Costituzione che alle norme europee. Tacciono perché il Pakistan ricatta, nemmeno tanto velatamente, il resto del mondo con la minaccia della bomba atomica che potrebbe finire in mano ai terroristi. Tacciono perché col Pakistan si sono, ci siamo, alleati per combattere quegli stessi terroristi creati, addestrati e gestiti dal Pakistan. Permettere però che dei rifugiati politici, a cui sono stati garantiti asilo e protezione, vengano impunemente ammazzati in un paese democratico, dare ascolto a rapporti truccati delle stesse intelligence dai cui abusi quei rifugiati cercavano di sfuggire, passa ogni limite di umana decenza e anche di miopia politica. Se la morte di Karima, come la morte di Sajid, rimane impunita, non sarà l’ultima. E prima o poi, a essere ammazzati nel centro di Londra o di New York, non saranno soltanto i rifugiati baloch ma anche gli attivisti occidentali, quei membri di Amnesty o di Reporters Sans Frontières che si battono perché i diritti umani e civili siano rispettati. La morte di Karima, la morte di Sajid e gli abusi del Pakistan non riguardano soltanto i baloch, ma tutti noi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Politica e Economia
Il confine tra radicalizzazione e disturbo psichico dove sta? Fondamentalismo islamico In settembre a Morges, in novembre a Lugano: due aggressioni all’arma bianca
considerate i primi attacchi di matrice jihadista in Svizzera. Ma si può parlare di atti terroristici quando a commetterli sono persone affette da un disturbo mentale? Intervista all’esperta di estremismo e radicalizzazione Mirjam Eser Davolio Ricordo che il terrorismo vuole proprio diffondere la paura nella popolazione, un obiettivo più facilmente perseguibile in un periodo di crisi. Più che la pandemia, a scatenare questa serie di attentati terroristici è stata la ripubblicazione delle caricature di Maometto. Molti musulmani la considerano una provocazione, un’offesa nei confronti del profeta che alcuni si sentono in obbligo di vendicare. Da allora si registra un’ondata di odio nei confronti della Francia e in generale dell’Occidente. Con le restrizioni e affermazioni a difesa della libertà di espressione e dei valori secolari, la Francia ha sottolineato che questi valori e diritti sono insindacabili.
Luca Beti Negli ultimi mesi, in Europa sono stati compiuti vari attentati terroristici. Tra questi rientrano probabilmente anche l’omicidio commesso in settembre a Morges, nel canton Vaud, e l’accoltellamento di novembre a Lugano. Stando al Servizio delle attività informative della Confederazione, sono i primi attacchi di matrice jihadista in Svizzera. Ambedue gli autori soffrono di problemi psichici. Nell’intervista, Mirjam Eser Davolio, esperta di estremismo e radicalizzazione, sostiene che la loro radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate piuttosto nel loro stato mentale che nell’opera di convincimento della propaganda jihadista in Internet.
Di fronte alla serie di attentati di matrice jihadista, i politici chiedono più repressione. Gli esperti come lei chiedono invece interventi di lotta alla radicalizzazione.
Con le aggressioni a Morges e Lugano, la Svizzera registra i primi attacchi di matrice islamica. Ciò la sorprende?
Ma siamo davvero sicuri che siano stati attacchi di matrice islamica? O si è trattato piuttosto di aggressioni commesse da persone affette da disturbi psichici? Secondo me, bisogna stare attenti nel definire subito un atto di violenza come un attentato terroristico. Il fatto che anche la Svizzera possa essere colpita da un attacco fondamentalista non mi sorprende. Magari per i media e per la gente è stata una sorpresa, ma non per chi si occupa di estremismo. Tutto l’Occidente è nel mirino dei jihadisti. Certo, gli Stati coinvolti in azioni militari nei Paesi arabi sono più a rischio. Ma di motivi per commettere un atto terroristico in Svizzera ce ne sono già stati in passato, per esempio quando si è votato contro l’edificazione dei minareti. Un voto che allora suscitò un’ondata di critiche nel mondo islamico, un episodio dimenticato con il passare del tempo. Ricordo inoltre che negli ultimi cinque anni, il numero di persone radicalizzate è rimasto più o meno stabile in Svizzera e quindi non si può nemmeno parlare di un ritorno di questo fenomeno. La serie di attacchi terroristici perpetrati in Europa negli ultimi mesi ci portano però a pensare che ci sia una certa recrudescenza. Anche se sconfitto militarmente, l’autoproclamato Stato islamico continua a diffondere la sua ideologia.
Sì, l’ideologia dell’ISIS è ancora ampiamente presente e diffusa, soprattutto nel darknet. La ripubblicazione in settembre delle vignette satiriche da parte del settimanale «Charlie Hebdo» ha riacceso il discorso dell’odio e ha dato nuovo vigore all’appello morale dello Stato islamico che chiede ai suoi simpatizzanti di vendicare questo atto blasfemo contro il profeta. L’ideologia dell’ISIS continua a esercitare una forte attrattiva sui giovani. Anche i meccanismi che portano alla violenza funzionano ancora molto bene.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938
Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
«Dal 2015 si è fatto molto ma non abbastanza nella lotta alla radicalizzazione, la prevenzione va migliorata». (Eser Davolio) Ma perché proprio ora? E perché Morges e Lugano?
Spetta al Ministero pubblico della Confederazione chiarire le ragioni e i moventi dei due attentatori, che ricordo psicologicamente labili. L’accoltellamento di Morges è avvenuto dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto e prima della serie di atti terroristici commessi in Europa. Per quanto riguarda l’aggressione di Lugano, al momento non si sa se la donna abbia agito in modo premeditato, se sia stata colta da un raptus omicida visto che si è procurata l’arma sul posto o se si tratti davvero di un attentato di matrice jihadista. Sia a Morges che a Lugano, gli attentatori hanno agito da soli. Si parla di lupi solitari, senza l’appoggio di una rete terroristica. È una strategia nuova?
Non direi. Negli anni scorsi, in altri Paesi ci sono già stati attacchi di singoli individui. Sono spesso persone marginalizzate, con problemi, che cercano nell’atto violento un’affermazione personale e una via d’uscita dal loro stato di sofferenza, dalla propria situazione di disagio. Visto che l’autoproclamato Stato islamico non riesce più a pianificare e organizzare attentati terroristici collegati tra di loro, rivendica per sé gli attacchi eseguiti ovunque nel mondo da singoli individui. Nella visione tradizionale dei jihadisti, la donna ha un solo compito, quello di procreare. La sorprende il fatto che a Lugano sia stata una donna a commettere questo atto terroristico?
No. In passato, molte giovani donne Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
hanno commesso atti terroristici. Inoltre, nell’autoproclamato Stato islamico anche le donne sono state istruite all’uso delle armi e hanno commesso attacchi suicidi. Il loro ruolo non era solo quello di provvedere alla prole. Per il caso specifico dell’aggressione in Ticino è difficile pensare che la donna abbia agito su mandato dell’ISIS. Ricordo che l’11 per cento delle persone radicalizzate in Svizzera sono donne e che a volte sono state proprio loro a spingere gli uomini a partire per la Siria o a commettere atti violenti. Le donne non vanno quindi solo viste come vittime bensì anche come protagoniste. Ha riscontrato delle analogie tra l’attacco di settembre a Morges e quello di novembre a Lugano?
Prima di tutto le vittime sembrano casuali, scelte a caso in un luogo affollato. A Nizza, invece, l’attentatore era entrato in una chiesa per accoltellare dei credenti cattolici. Anche se hanno storie individuali diverse, stando alle informazioni rese note dalla stampa la donna a Lugano e l’uomo a Morges presentano delle somiglianze. Ambedue soffrono di disturbi psichici, hanno una tendenza ad isolarsi e difficoltà a rapportarsi con gli altri. Si sono costruiti una loro ideologia nella quale si sono rinchiusi, rifiutando qualsiasi aiuto e influsso esterno. La loro radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate piuttosto nel loro stato mentale che nell’opera di convincimento della propaganda jihadista in Internet. Ma in questi due casi, si può parlare di atti terroristici? Dov’è la linea di demarcazione tra radicalizzazione e disturbo mentale? Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Beh, è difficile determinare dov’è questo confine. Si sa che le malattie psichiche come la schizofrenia possono portare una persona alla violenza. Ci si deve chiedere però se senza l’ideologia jihadista i due aggressori si sarebbero armati di coltello per colpire in maniera indiscriminata dei perfetti sconosciuti. L’ideologia sa strumentalizzare queste persone psichicamente labili, trasformandole in specie di eroi. Nei due casi avvenuti in Svizzera, sembra sia stato un atto estremo non premeditato. Queste sono interpretazioni personali che devono essere confermate dai rapporti degli psichiatri forensi che si occupano dei due casi. È importante quindi non parlare subito di attacco terroristico, ma di andare con i piedi di piombo per non fare del sensazionalismo, soprattutto se queste aggressioni sono state compiute da persone squilibrate. Ciò significa che l’ideologia jihadista esercita un’attrattiva particolare sulle persone affette da un disturbo mentale?
Ogni società ha una certa percentuale di persone con problemi mentali, quindi la propaganda jihadista punta anche su di loro. Ricordo che parecchie persone recatesi nei territori occupati dall’autoproclamato Stato islamico avevano problemi mentali. L’ISIS lo sapeva. E visto che non erano molto affidabili e non erano ottimi combattenti, venivano mandati in prima linea, usati come carne da macello o impiegati in attentati suicidi. L’ISIS li strumentalizzava e li strumentalizza tutt’ora.
La situazione di crisi attuale può fungere da fattore scatenante per questi individui mentalmente instabili? Tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
La repressione non basta. Dobbiamo continuare a fare prevenzione per individuare subito le persone che si stanno radicalizzando perché in seguito è difficile intervenire con successo. Chi si radicalizza si chiude in una specie di bolla e si isola da amici, parenti e familiari. Negli ultimi anni si registra in Svizzera un leggero calo delle segnalazioni ai servizi di consulenza, enti creati a partire dal 2015 in varie città e cantoni. Insegnanti, genitori, assistenti in ambito socioculturale e sociale hanno abbassato un po’ la guardia. Invece sarebbe importante rivolgersi a questi esperti per verificare se si stia davvero assistendo a una radicalizzazione.
In un’intervista, la procuratrice della Confederazione, Juliette Noto, afferma che in Svizzera esiste un terreno fertile per la radicalizzazione. Condivide questa opinione?
La Svizzera non si differenzia molto da altri Paesi europei, come ha evidenziato una nostra ricerca. La percentuale di persone radicalizzate in proporzione alla popolazione e al numero di musulmani nella Confederazione è simile a quella registrata in Germania ed è inferiore alla quota rilevata in Austria, Francia o Gran Bretagna, ma è superiore a quella in Italia. Il fatto di non aver subito degli attentati in passato ci ha dato l’illusione di vivere in una sorta di isola felice, ci ha fatto credere che il fenomeno non ci concernesse o che non fosse più attuale. Si è fatto abbastanza nella lotta alla radicalizzazione?
Dal 2015 in poi si è fatto molto, ma non abbastanza. In molti cantoni, l’informazione agli insegnanti, agli assistenti sociali o, in questo caso specifico, al personale di cliniche psichiatriche è ancora insufficiente. Solo conoscendo bene il fenomeno dell’estremismo si è in grado di individuare le dinamiche pericolose e intervenire in maniera adeguata e tempestiva. Si tratta di un lavoro di prevenzione che richiede il coinvolgimento di diversi professionisti e che va migliorato. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Cultura e Spettacoli L’Albertone nazionale Cent’anni or sono nasceva Alberto Sordi, uno dei più grandi comici d’Italia
Nella poesia di Montorfani È uscita per i tipi di Aragno L’ombra del mondo, una raccolta poetica di Pietro Montorfani pagina 31
La forza del sesso debole Scarlett Johansson ha pubblicamente chiesto il rilascio di alcuni prigionieri nelle carceri egiziane, tra cui Zaki pagina 35
pagina 30
Al di là di quella finestra
In futuro Il nostro tempo incerto visto
attraverso la finestra fotografata dalla giovane polacca Weronika Maria Izdebska
Simona Sala Un giorno giunse qualcosa alla finestra. Il lavoro si arrestò ed io alzai lo sguardo. I colori ardevano. Tutto si voltò. La terra ed io balzammo l’una contro l’altro. (Faccia a faccia, Tomas Tranströmer) Un giorno del 2021 forse qualcosa balzerà davvero alla finestra, e noi interromperemo allora il nostro lavoro, qualunque cosa staremo facendo, e alzeremo lo sguardo. I colori arderanno certamente, perché avremo ricevuto l’agognato segnale, il permesso di un definitivo ritorno alla vita, così come l’avevamo conosciuta bene o male fino al febbraio del 2020. Come narra il poeta svedese Nobel per la letteratura 2015 Tomas Tranströmer (1931-2015) nella meravigliosa strofa dalla poesia Faccia a faccia, potremo balzare contro la Terra, e tornare a essere parte di quel Paesaggio che quest’anno, mai come ora ci manca in tutte le sue forme, poiché ne siamo stati esclusi. Quando siamo stati dapprima lambiti, poi travolti dalla prima ondata, un pezzetto dopo l’altro abbiamo ceduto tutte le nostre libertà, incontrandoci sempre meno (abdicando al nostro istinto di animali sociali), smettendo di viaggiare (calpestando la voglia e la gioia della scoperta), di andare al ristorante (rinunciando alla convivialità e alla possibilità di plasmare le nostre idee nel confronto vis-à-vis), di fare sport (sentendoci un po’ meno vivi), forse disimparando addirittura a sognare. Abbiamo dovuto lasciare andare un numero sempre più grande di cose, fino a esserci ritrovati chiusi in casa, dietro a una finestra. E non tutti hanno esattamente la fortuna di James Stewart nel capolavoro di Hitchcock La finestra sul cortile, dove è il vicinato a provvedere a un gustoso intrattenimento. Eppure, sentendoci soli anche se accomunati al destino del resto del
mondo, abbiamo vissuto il nostro primo lockdown, convinti che dall’altra parte del tunnel, alla fine del più grande sacrificio mai compiuto in contemporanea dall’umanità, sia da chi si è potuto ritirare in casa, sia da chi ha dovuto lavorare in prima linea, vi fosse una luce certa. Era solo un abbaglio, ora lo sappiamo, anche se la macchina dei vaccini ha cominciato a scaldare i motori un po’ ovunque. E per colpa di quell’abbaglio, forse comprensibile davanti a una cosa più grande di noi, per di più invisibile, ci ritroviamo ancora qui – in questi giorni normalmente dedicati alla festa e all’incontro – nel calore più o meno solitario delle nostre case, invischiati in giornate che a volte faticano a passare, seguite da notti insonni e colme d’ansia; e quando non fissiamo i nostri schermi luminosi, guardiamo senza più vederli i paesaggi ormai scandagliati che si trovano dall’altra parte della finestra. Quest’anno il nostro mondo si è fatto più silenzioso e più minuscolo, è meno abitato e più solitario. Il tempo trascorso in casa ci ha resi diversi. Gli anfratti delle nostre dimore non ci sono mai stati così familiari, indoviniamo i rumori dei vicini di casa, prevediamo gli scricchiolii del parquet e riconosciamo i cambiamenti di luce; forse alcuni di noi hanno perfino imparato a determinare con una certa precisione la temperatura, o a prevedere il tempo che verrà. La finestra è diventata il nostro occhio aperto sul mondo, ma anche ciò che separa le nostre prigioni domestiche, che sono l’hic et nunc, l’Heim, da tutto quello che sta fuori, al di là del vetro. La giovane fotografa e regista polacca Weronika Izdebska da qualche tempo vive in Islanda, e proprio a Reykjavik ha immortalato in modo quasi iconico questa dicotomia con Heim, «casa», fotografia che potrebbe assurgere a emblema di questo lungo 2020 finalmente agli sgoccioli.
Weronika Maria Izdebska, Heim, Reykjavik 2020. (Weronika Maria Izdebska)
L’Islanda (vedi anche l’articolo di Amanda Ronzoni a pag. 17) è luogo d’acqua, terra ruvida e luce magnetica permeate da un senso di magia: tutto questo lo sono anche le foto di Weronika Izdebska. L’essere umano, quando fuggevole e quasi etereo si manifesta nella natura, è ridotto a misteriosa comparsa. In un mix letterario-estetico, nelle sue fotografie Izdebska suggerisce storie di un mondo che si perpetua, dove la natura selvaggia eppur delicata sembra esercitare una specie di ius primae noctis sul diritto all’esistenza. I suoi paesaggi, così come i volti azzurrati e velati nello sguardo e nell’espressione, risultano spesso freddi, eterei, indefiniti, eppure allo stesso tempo riescono a essere precisi, e nostalgici e sono bastanti a sé stessi. In Heim, invece (cosa insolita per
Izdebska) troviamo anche il calore di un interno, con un davanzale illuminato da una luce quasi struggente di provenienza non meglio precisata. L’illuminazione calda regala un riverbero dorato alla fila di piante e piccoli cactus, che come in una fiaba surreale, si affacciano sul placido mare illuminato dalla luna. Siamo noi, quelle piante, il corpo immobile e lo sguardo imprigionato dalla distesa piatta che sembra ormai il nostro futuro. La pazienza imparata forzatamente nel corso di quest’anno la dovremo portare ancora per qualche tempo; molti dovranno inoltre sostenere anche il fardello di un lutto non condiviso, della perdita di un pezzo di vita, o dell’onere di avere dovuto cancellare qualsiasi progettualità dalla propria esistenza. Eppure, a guardare questa
fotografia, si ha quasi l’impressione benefica che riusciremo a venirne fuori, che ce la faremo, riappropriandoci dello spazio, e anche del tempo, che ci appartenevano. Succederà anche a noi ciò che diceva Pablo Neruda in Abbiamo perso anche questo tramonto: «Ho visto dalla mia finestra/la festa del ponente sui monti lontani.// A volte, come una moneta / mi si accendeva un pezzo di sole tra le mani». Informazioni
Online Weronika Maria Izdebska si presenta con il nome di Ovors («Other Voices Other RoomS). I suoi lavori si possono vedere su www.ovors.com o sul profilo Instagram (@Ovors)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Cultura e Spettacoli
Alberto Sordi, l’attore che reinventò gli italiani
Anniversari Cento anni or sono nasceva Alberto Sordi, l’Albertone che ha fatto morire dal ridere il suo pubblico,
e che purtroppo non ha potuto essere omaggiato a dovere
Blanche Greco Il suo primo costume di scena, si fa per dire, fu quello del chierichetto e, indossata la cotta bianca, immaginava che i fedeli in preghiera fossero il suo pubblico, e come lo stesso Alberto Sordi raccontò in un’intervista: «Quella fantasia mi elettrizzava e io, che ero nato esibizionista, agitavo l’incensiere, strapazzavo il campanello, facevo piroette, recitavo le giaculatorie e mi rispondevo in latino maccheronico, cantavo a voce altissima finché, tra i risolini di quella “platea”, il prete mi arrivava alle spalle e volavano scappellotti. Avevo sei anni, ma nella chiesa di Santa Maria in Trastevere e nel quartiere, tutti sapevano che volevo fare l’attore». Alberto Sordi era nato il quindici giugno 1920, e se quest’anno non ci fosse stato il Covid a rovinare tutto, Roma si sarebbe preparata a festeggiare il suo cittadino illustre, quasi un santo patrono per i romani ai quali Alberto ha lasciato tutto. In venticinquemila si erano già prenotati per visitare le Mostre a lui dedicate, soprattutto quella nella bella villa con affaccio sulle Terme di Caracalla che era stata il suo rifugio e che, tutta restaurata, doveva mostrare il Sordi privato tra foto, opere d’arte e cimeli dei suoi film. «Albè», come lo apostrofavano da ragazzino nei vicoli di Trastevere dove giocava e una volta quasi morì investito da un’auto; «Albertone»,
come lo chiamavano i giornalisti per quella dimensione esagerata che avevano i suoi personaggi dall’ego simile a un pozzo colmo di doti, difetti e desideri; Alberto Sordi, attore, sceneggiatore, regista, ha rappresentato la vitalità, la voglia di protagonismo degli anni 50, 60, 70, una smania che travalicava Roma e la romanità per abbracciare il sogno di ogni italiano che, finita la guerra, ambiva a entrare spedito negli anni del boom economico. Sordi cominciò a «passo di danza» nelle compagnie di avanspettacolo, come quella «Riccioli-Primavera» dove entrò diciassettenne dal fisico robusto e i modi compassati da «ragazzone di buona famiglia» inculcatigli dalla mamma maestra e dal padre professore d’orchestra. Nanda Primavera, attrice e soubrette intuì le sue doti e lo volle come «Stilé» ossia ballerino con «il frac, la giacca bianca e il bolero di lamé» e come Alberto ricordava: «Io non li avevo, ma prima che ci ripensasse, corsi a noleggiarli». Anni dopo lui volle Nanda Primavera nel ruolo di sua madre in diversi film, a cominciare da Il Prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste. Ma fu Vittorio De Sica che lo ascoltava tutti i giovedì alla radio che, conquistato dalla voce duttile e pastosa di Sordi, lo fece entrare da protagonista nel cinema con Mamma Mia, che impressione! film ispirato ai racconti ironici e dissacranti dei suoi famosi per-
sonaggi radiofonici: Mario Pio, I Compagnucci della parrocchietta, il Conte Claro. Quel film fu un fiasco, come anche quello dopo: Lo sceicco bianco di Federico Fellini, ma Sordi, che si divideva tra il mestiere di doppiatore (era la voce di Oliver Hardy, Robert Mitchum, Anthony Quinn), di cantante lirico, di attore teatrale e comparsa cinematografica, sentiva che sarebbe diventato un «divo» del cinema, così con quel «suo faccione un po’ lunare, con i suoi occhi tondi, sbiaditi» – come lo raccontava Fellini – si rimise in fila per il cast dei Vitelloni e Federico, il suo amico degli anni difficili e dei «sobri» pasti in latteria, alla fine lo prese, malgrado l’ostilità di tutto l’ambiente cinematografico, e gli cucì addosso il personaggio di «Alberto» dalla storica battuta: «Lavoratoriiii...» lanciata con un gestaccio e una pernacchia che anche alla Mostra del Cinema di Venezia, dove il film fu premiato, fece venire giù il cinema dal gran ridere. E così, quella sua comicità che secondo Fellini «pochissimi capivano perché aveva qualcosa di folle, non era ironica, né sentimentale, ma grottesca con un fondo di sgradevolezza che non piaceva», alla fine fece breccia nell’immaginario popolare e non solo, e arrivarono altri film di successo e, grazie anche a registi famosi come Zampa, Risi, Monicelli, Scola, Loy, Comencini, il suo faccione diventò la «maschera» degli italiani che guardandolo riuscivano a
Due leggende: Alberto Sordi e Franca Valeri ne Il vedovo (1959). (Keystone)
ridere delle loro passioni inconfessabili, delle viltà, delle riuscite e delle sconfitte. Ma com’era il Sordi privato? «Uno spasso» ricorda Emi De Sica, sempre pronto a ideare scherzi con Vittorio, suo grande amico e complice. «Un uomo corteggiato dalle donne» diceva Sordi di sé sornione, alludendo alle ballerine dei suoi primi spettacoli, al fatto di non avere moglie bensì due sorelle-ancelle: Aurelia e Savina con le quali visse dal 1958 nella magnifica villa delle Terme di Caracalla che aveva «soffiato» a Vittorio De Sica mettendo a repentaglio la loro amicizia. Era il suo sogno da «divo»
che si avverava, con tanto di piscina, cinema, camerino e persino un cavallo meccanico sul quale sfidava gli ospiti delle sue ambite serate dove c’era tutto il cinema italiano. «Un vero stakanovista» dicevano di lui a Cinecittà: aveva girato quasi duecento film in sessant’anni di carriera, era riuscito persino a interpretarne undici in tre mesi. Quando non girava, studiava per il «suo pubblico» nuove storie e personaggi. Così non si stupì nessuno che l’epitaffio sulla sua tomba al cimitero monumentale del Verano fosse «Signor Marchese è l’ora!», una battuta de Il Marchese del Grillo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Cultura e Spettacoli
Nuovi territori interiori
Poesia Nella sua nuova raccolta poetica il ticinese Pietro Montorfani ci invita a compiere
un viaggio dentro di noi e nella nostra storia, presente e passata
Addio al 2020 con OSI, Ion Marin e Argerich Musica La pianista
Guido Monti La nuova raccolta di poesie di Pietro Montorfani, L’ombra del mondo, uscita per Aragno, (pp. 98, euro 12) con prefazione di Marco Vitale, si è sedimentata come le scritture serie dovrebbero, in molti anni, tanto che talune delle pagine del nuovo libro hanno visto precedente pubblicazione in riviste come Atelier, Gradiva e in quest’ultima compare tra l’altro l’importante intervento sul poeta, di Giancarlo Pontiggia. Ebbene questi versi, a leggerli, sembrano fatti d’aria o di quelle cose leggere ed eteree come le foglie; e difatti sospesi sulla pagina volteggiano, si riprendono come dentro un turbine e il lettore rimane nel mezzo, quasi incantato, a vedere dove queste parole quasi diafane portino. E il titolo, L’ombra del mondo, che riprende il verso di una memorabile poesia di Fortini, Al poco lume del 1950, ci dice molto; è già lì dentro il senso del libro: dare testimonianza non certo di una pesanteur novecentesca ma anzi di quella tempra interna a ogni vero poeta, molata contro le avversità e che sa sempre invece aprirsi alla luce e, in mancanza, a un suo residuo. Ed ecco che dall’alto di un cielo azzurro e profondo, quello svizzero, come appeso sopra un quadro di maestose cime, ci giungono le parole di Montorfani scarnificate all’essenziale, dense di una simbologia mai astratta; sembrano volteggiare appunto per poi posarsi su un’orografia possente fatta di foreste, terrazzi erbosi posseduti quasi da quei «sovrumani silenzi» ottocenteschi: «Terrazzo alpino aperto / su una valle chiara: / l’Austria di là, la Svizzera / oltre un castello di nubi. / Guarda è un invito, una fiaba / – dopo anni – divenuta reale, / …». Ma queste parole, nel loro risvolto trasmettono, come torcendosi, repentini cambi di sonorità, entrano nell’uomo, nella sua alta e trabordante progressione tecnologica; sentiamo, leggendone gli sferragli, le scie dei treni, che rodono il ventre dei valichi, per obbedire a quella sete di movimento consustanziale all’uomo. E vengono tratteggiandosi in queste residenze mobili, affetti famigliari
Pietro Montorfani è autore della raccolta poetica L’ombra del mondo. (Igor Grbesic)
appena accennati, che talvolta stridono e si mischiano nel verso con certe disperazioni fatte di quella piaga del contemporaneo: le migrazioni: «Attraversare la highlands senza nome / superato il più stretto / corridoio d’Europa nel cui / buio si muore / dopo tanta piana per chi / suona la cornamusa nella stiva / del San Gottardo per chi / stride». Ma la parola dal buio delle gallerie torna su nel cielo, svolazza ancora e costeggia altre antropologie e orografie; già, perché Montorfani dalla loro continua auscultazione ricava il movimento della storia dell’uomo, che è storia dello spirito di hegeliana memoria e che continuamente si invera nella prassi edificando architetture e ideologie molteplici, protese però forse verso le altezze dell’utopia: «… / oltre i ponti,
e gli archi, / dei viadotti ferroviari, / ruotano l’occhio di Sauron / le torrisorelle di Stalin». E i territori che spaziano da nord a sud da est a ovest della Svizzera, si fissano nella pagina attraverso continue regressioni e progressioni temporali, così come i popoli che li abitano con le loro vite, fatte di minimi eventi, feroci conflitti, che riportano sempre a un senso di precarietà dell’esistere sottesa e inquietante; eccoci per esempio proiettati nel pieno rinascimento ad Arbedo, cittadina ticinese: «L’uccello vero lascia quello finto / sulle pareti di San Paolo. / Svolazza… / lungo la piana già resa vermiglia / dagli uomini del Carmagnola, / quando la morte era un volto tra i tanti / la vita un soffio». E così gli altri segni, i primi, quelli primordiali incisi nelle grotte di Lascaux,
quasi riavvolgono testimoni, l’inizio e l’avanzare nei lenti millenni del sogno dell’uomo: «Europa di foreste e misurate / parole,… /di cacciatori silenziosi. / …». Dunque, si srotola continuamente nella pagina la terra accartocciata degli alti massici centrali o distesa nelle lunghe praterie del Nord, e continua ad apparire nel suo vario tratteggio storiografico, sempre vivificato dalla lingua di Montorfani. E talvolta, procedono nel libro paralleli, eventi temporalmente lontani, ma poi, come uscendo dal loro spazio-tempo, si intersecano in un punto di tangenza, e in quel momento ecco esservi un cortocircuito che deflagra nella psiche del lettore, e un senso profondo si muove nella pagina e fa muovere: «Entra nel tempo, esce / dai meandri della storia / la vecchia Trabant passata per caso / dal posto di blocco, / davanti agli occhi vacui dei turisti / falso ridenti sopra il memoriale». L’Europa delle sorti progressive, l’Europa come luogo di comunità costituite da tanti piccoli nuclei iniziali, l’Europa di un territorio specifico, che è anche quello di una memoria dalla quale si parte per sperimentare vite altre; ecco cosa custodiscono questi versi che, sempre pacati, rappresi, ci spalancano di converso l’abbagliante e feroce mistero del vivere. Da quel recinto protetto, dove vagano le ricordanze degli affetti lontani e dove i frulli degli uccelli riportano alle carezze sperdute delle relazioni più intime, Pietro Montorfani parte e sempre partirà per dar testimonianza della sua visione dell’esistere che è cammino, spostamento, conoscenza enigmatica continuamente sperimentata nel mondo, nei suoi battiti inconoscibili: «“Papà vieni a fare l’arbitro!” // Dal vecchio cancello in ferro battuto / filtra una luce non strana, autunnale. / Illumina i capelli delle bimbe / … // Oltre il muretto a secco del giardino / la savana infinita dei campi / moltiplica il suo giallo a perdifiato / (Rosate, Barate, Noviglio) / fino al Re Leone».
argentina per l’atteso concerto di fine anno
La grande pianista argentina Martha Argerich chiude idealmente a Lugano le celebrazioni per i 250 anni dalla nascita di Beethoven, in un concerto con l’OSI e Ion Marin dal LAC, in videostreaming e diretta radiofonica RSI. Il Concerto di San Silvestro al LAC, ormai divenuto una tradizione attesissima nel calendario dell’Orchestra della Svizzera italiana, saluta l’anno che si chiude e raccoglie le speranze per l’arrivo del 2021 con una serata straordinaria, giovedì 31 dicembre 2020 alle ore 18.30 dal LAC di Lugano. Il pubblico non potrà brindare in sala con gli artisti come nelle precedenti occasioni, ma potrà seguire il concerto in videostreaming su www.osi.swiss o rsi. ch/live-streaming, oppure in diretta radiofonica sulle onde di RSI Rete Due, grazie a un’importante collaborazione con la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana. La pianista argentina, una delle massime concertiste dei nostri tempi, condivide con l’Orchestra della Svizzera italiana e la città di Lugano un rapporto privilegiato. A Lugano, infatti, Martha Argerich torna volentieri a suonare appena le è possibile. E l’affetto è ricambiato: non si possono dimenticare le quindici edizioni del festival Progetto Martha Argerich (2002-2017), con cui l’artista ha trasformato Lugano in una vera e propria ribalta internazionale. Già solista del Concerto di San Silvestro edizione 2018 insieme all’exmarito Charles Dutoit, Martha Arge-
Bibliografia
Pietro Montorfani, L’ombra del mondo, Torino, Aragno Editore, 2020.
Una nuova rabbia
Graphic novel L’ormai leggendario Zerocalcare per Natale ha dato alle stampe addirittura
due nuove opere, dissacranti e sagge
Yari Bernasconi È difficile essere il fumettista Zerocalcare. Chi lo seguiva ai tempi lontani del blog e dell’uscita autoprodotta de La profezia dell’armadillo (2011, poi Bao Publishing, come per tutti gli altri libri), chi lo ha scoperto al Premio Strega, chi lo ha seguito fra Turchia e Siria nell’impegnato reportage a fumetti Kobane Calling (2015), chi ha guardato gli illuminanti video animati di Rebibbia quarantine durante l’ultimo confinamento, chi lo ha recentemente ritrovato sulla copertina de «L’Espresso» presentato come «L’ultimo intellettuale»… Ebbene, sembrano avere tutti qualcosa da rimproverare al fumettista romano: troppo mediatizzato, troppo prolifico, troppo riservato, troppo commerciale, troppo politico, troppo troppo troppo. Rimproveri per lo più spazzati via dallo stesso Zerocalcare, che – facendo certo i salti mortali – non si è mai veramente lasciato cullare dal successo e neppure si è abbandona-
to alle transitorie incoronazioni, ma a testa bassa ha continuato e continua il suo percorso espressivo.
Irriverenza e dolcezza, sensibilità e ironia: Zerocalcare è tutto ciò.
La pianista argentina Martha Argerich ha un rapporto speciale con Lugano.
Sono due i suoi libri usciti negli ultimi tempi: al corposo romanzo a fumetti Scheletri si è da poco aggiunto l’occasionale A Babbo morto. Una storia di Natale. Se quest’ultimo è una breve – ancorché provocatoria e irruente – decostruzione del mito natalizio contemporaneo attraverso le derive consumistiche di una società violenta e disumana, Scheletri è un’ulteriore, notevole tappa della ricerca stilistica intorno al racconto quotidiano e spicciolo di sé. Alla grande cautela con cui, nei primi lavori, si tratteggiavano i personaggi che non fossero parte integrante del suo ristretto cerchio degli affetti, Zerocalcare ha infatti da tempo lasciato spazio ad altre individualità. Grande protagonista di questo romanzo, dunque, ambientato negli anni universitari dell’io «disegnante» (che finge di andare all’università per non deludere la madre, ma si limita a stazionare sulla metropolitana attendendo sera), è Arloc, ragazzo di poco più giovane, che con la sua fame, la sua impulsività
e i suoi dolori privati si prende la scena. Il romanzo è un «thriller atipico» (Andrea Fiamma), ma accanto all’ambientazione grigia e soffocante di alcuni scorci, al contesto di violenza e droga di certi quartieri, il libro è soprattutto un pretesto per riflettere sulla difficoltà di trovare non tanto il proprio posto nel mondo, quanto un briciolo di senso e di stabilità personale. E se l’ironia e i riferimenti pop che hanno dato la celebrità a Zerocalcare continuano a fare capolino fra le pagine, è un altro aspetto a risultare preponderante, come dimostra del resto anche A Babbo morto: una nuova e complessa forma di rabbia. Un’aggressività sempre meno limata, nel disegno come nella scrittura, che spesso cavalca una matura rassegnazione: «[…] certe cose non si imparano. O ce l’hai, o te senti così tutta la vita. E non esiste sensazione più mortificante al mondo». In barba al successo, all’età adulta e a tutti i luoghi comuni: anche quando ti sembra di avercela fatta, nulla è mai veramente raggiunto.
rich quest’anno sarà accompagnata dall’Orchestra della Svizzera italiana in uno dei suoi concerti prediletti, il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven, sotto la guida del direttore d’orchestra romeno Ion Marin, suggellando così la conclusione delle celebrazioni per il 250esimo anniversario della nascita del compositore tedesco. Nella seconda parte del programma, spazio a una perla del repertorio romantico, la leggiadra Sinfonia in si bemolle maggiore di Franz Schubert. Una pagina imbevuta dell’ammirazione che il diciannovenne compositore nutriva per la musica di W.A. Mozart, morto un quarto di secolo prima. / Red. Informazioni
www.osi.swiss o alessandra.zumthor @osi.swiss Il concerto, realizzato nell’ambito dei Concerti RSI, è offerto in videostreaming su www.osi.swiss rsi.ch/livestreaming e in diretta radiofonica su RSI Rete Due.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Idee e acquisti per la settimana
Benvenuti nel 2021
Quest’anno la notte di San Silvestro non si festeggerà con grandi party, ma solo tra una piccola cerchia di persone per brindare e dare il benvenuto al 2021 come si conviene. La Migros offre tutto quello che occorre per il cambio dell’anno e i giorni a seguire. Con il proposito che ci prenderemo a cuore la nostra salute, facendo molto esercizio fisico e mangiando in modo equilibrato – e naturalmente mettendolo in pratica
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Idee e acquisti per la settimana
Per il bar di casa
In questo anno particolare il bar lo organizziamo tra le quattro mura di casa. Chi vuole seguire le tendenze, fa una bella scorta di bevande senz’alcol del marchio Apéritiv. La Ginger Beer pura con estratti di zenzero e peperoncino è solitamente un drink super rinfrescante, ma riscaldata e miscelata con altre bevande potrebbe fare concorrenza al vin brûlé (vedi variante «Hot»). La Tonic Water Zero senza zucchero è perfetta per miscelare bevande fresche fruttate (vedi variante «Cool»). Questo vale ovviamente anche per la Ginger Ale, che sorprende con la sua nota di zenzero. Sperimentare è assolutamente d’obbligo!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 dicembre 2020 • N. 53
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Cultura e Spettacoli
Che forza, il sesso debole!
Arte&politica L’attrice statunitense Scarlett Johansson è solamente l’ultima di una lunga serie di attrici che con
grande coraggio si sono schierate contro scelte politiche per loro non condivisibili
Giovanni Medolago Ha suscitato vasta eco e soprattutto ha – quasi – raggiunto il suo scopo l’appello di Scarlett Johansson: un video su YouTube di tre minuti diffuso urbi&orbi nei giorni scorsi, dove lancia un duro atto d’accusa contro Al Sisi, generale che dopo il golpe del 2013 dirige con pugno duro l’Egitto. Obiettivo quasi raggiunto, poiché la Johansson chiedeva esplicitamente, con la liberazione di tutti gli attivisti, anche il rilascio di Patrick Zaki, il giovane egiziano studente all’Università di Bologna in galera dal febbraio scorso con l’accusa di propaganda sovversiva. Mentre i genitori di Giulio Regeni, altro giovane studente caduto vittima del paranoico pugno di ferro egizio, aspettano da anni verità e giustizia, ecco che Al Sisi – sin qui sordo a tutte le richieste/proteste italiane sul «caso Regeni» – sorprende tutti liberando ipso facto tre di quelli che Scarlett definisce «innocenti che hanno passato la vita a lottare contro l’ingiustizia e ora si trovano dietro le sbarre. Un governo davvero democratico – tuona la star – celebrerebbe questi uomini anziché imprigionarli: sono i migliori tra noi». Per Patrick Zaki, tuttavia, niente da fare: dopo quella che Maria Ricci sul «Corriere della Sera» la scorsa settimana ha definito «la sesta udienza-farsa», il giudice sentenzia che di libertà non se ne parla, almeno sino al 2021. Lo stesso giudice, lunedì 7 dicembre, ha addirittura allungato la carcerazione «preventiva» di Zaki di altri 45 giorni. Poi si ve-
drà: stando a Amnesty International il ragazzo rischia 25 anni di galera… La Johansson continua l’ormai secolare tradizione di star del cinema che non hanno avuto timore alcuno nel prendere una posizione politica precisa, sia pro o contro il potere. La prima fu forse Mary Pickford (1892-1979): già fondatrice dell’importante United Artist con tre maschietti del calibro di Charlie Chaplin, David W. Griffith e Douglas Fairbanks, la «fidanzatina d’America» (in realtà era canadese) si mobilitò dopo l’entrata in guerra degli USA nel 1917. Tenne un discorso a Wall Street davanti a 50mila persone per mettere all’asta uno dei suoi riccioli, aggiudicato per 15mila dollari – dell’epoca! – e subito girati alla Marina Militare. Negli Anni 30, con l’approssimarsi della nuova bufera, Brigitte Helm seppe dire di no a Göbbels, ma come il suo mentore Fritz Lang – che la volle doppia protagonista nel capolavoro Metropolis quando era solo una segretaria negli studi berlinesi dell’UFA – dovette pagare la sua scelta con l’esilio; non tornò mai più in Germania e morì ad Ascona nel 1966. Chi seppe dire di no al baffetto austriaco in persona, che la corteggiò a lungo, fu Marlène Dietrich. Hitler la definì poi una traditrice quando l’Angelo azzurro intraprese varie tournée d’intrattenimento per le truppe Alleate, creando con Lili Marleen un inno al pacifismo. Va pure ricordata (eccome!) anche Hedy Lamarr, celebre soprat-
Scarlett Johansson nel suo statement politico su YouTube. (YouTube)
tutto per il primo nudo integrale della Storia del Cinema (Estasi, 1933). Cercò due volte di sfuggire al marito (amico personale di Mussolini) e quando ci riuscì approdò a Hollywood a soli 18 anni. Laureata in ingegneria a Vienna e oppositrice del regime nazista, sviluppò un sistema di guida a distanza per siluri: fu snobbata dalla Marina statunitense. Poi, solo pochi anni fa, si scoprì che la Lamarr fu la prima a realizzare un sistema usato oggi nelle reti wireless e immediatamente, nel 2014, fu inserita nel National Inventors Hall of Fame statunitense per il suo brevetto.
Non possiamo dimenticare Katharine Hepburn: Babbo urologo tra i primi a parlare del pericolo delle malattie veneree, argomento allora concretamente tabù e mamma suffragetta che osava propagandare la contraccezione e il controllo delle nascite, non poteva che crescere ribelle. Espulsa dal College poiché sorpresa a fumare in camera, diede scandalo quando fu tra le prime a indossare i pantaloni e soprattutto per la sua lunga relazione con Spencer Tracy, sposato, irlandese e cattolico «osservante». La Hepburn si schierò sempre in campo democra-
tico, e ciò non le impedì di mettersi in bacheca ben quattro Oscar quale miglior protagonista, record ancora oggi ineguagliato. Last but not least, ecco Jane Fonda. La visita in Vietnam e il suo dichiarato appoggio alla causa dei Vietcong le valsero il soprannome di «Hanoi Jane». Rischiò l’ostracismo di Hollywood, che paradossalmente proprio nel tormentato 1972 – quando in TV Walter Cronkite aggiornava quotidianamente sul numero dei giovani yankees caduti, con cifre vieppiù agghiaccianti – le tributò il primo Oscar (Una squillo per l’Ispettore Klute). Altrettanto paradossalmente, Hanoi Jane vinse la sua seconda statuetta con Tornando a casa, drammatico racconto di un reduce incapace di superare il trauma post Vietnam. Profeta della ginnastica aerobica (autentico boom social/mediatico negli Anni 80), si dice che influenzò a favore dei liberals la CNN, creatura dell’allora suo marito Ted Turner. A 83 anni il suo spirito battagliero l’ha portata a schierarsi decisamente per la causa ambientalista: lo scorso anno è stata arrestata per ben quattro volte dopo essersi ripetutamente rifiutata di lasciare la scalinata del Campidoglio al termine di una manifestazione. Certo abbiamo dimenticato qualche altra star (ad esempio Liz Taylor, che si batté contro Reagan, negazionista riguardo all’AIDS), ma ci è piaciuto ricordare il coraggio e la forza del cosiddetto sesso debole, che debole non è. Annuncio pubblicitario
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