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Viva gli orsi e i lupi, ma non sono dei peluche
Nello sgomento per casi come quello del runner ucciso di recente da un’orsa nel Trentino c’è qualcosa che fa a pugni con la realtà. La solidarietà con i suoi cari è sacra e doverosa, la retorica dello scandalo molto meno. Certo, sembra assurdo che un ragazzo di montagna affatto sprovveduto in materia di vita all’aperto e insidie alpine, possa venire tradito dalle stesse forze della natura con le quali conviveva da una vita. Ma, per quanto prestante, un uomo è un uomo e un orso è un orso. Se per qualche malaugurata circostanza il plantigrado lo assale, non sarà il suo rispetto per Madre Natura a salvarlo, ma la fuga (se possibile), il fucile (se ce l’ha) o, meglio ancora, lo spray anti orso (esiste!).
In stato di natura prevale la legge del più forte. Abbiamo dimenticato che gli orsi, i lupi e le altre specie animali non domestiche non sembrano una minaccia solo perché dove viviamo noi non vivono loro e viceversa. Mentalmente li abbiamo anestetizzati e umanizzati, li abbiamo resi creature innocue e simpatiche per il semplice fatto che non ce li troviamo mai davanti. Siamo come bambini: l’orso è parente del dolce Winnie the Pooh, il lupo dello squinternato Lupo Alberto, il leone di Alex, il felino vanitoso di Madagascar.
I nostri antenati avevano idee più chiare. In Cappuccetto rosso il lupo sbrana, democraticamente, nonna e nipote. E anche se oggi attribuiamo alla fiaba una morale simbolica (occhio ai malintenzionati – chessò: ai pedofili – che si travestono da persone per bene), nella civiltà rurale la storia poteva tranquillamente indicare che il pericolo non è solo metaforico e la bestia, se le schiacci la coda, può anche reagire da bestia. La crescita della popolazione di certe specie animali selvatiche ai margini dei conglomera- ti umani non rappresenta solo un successo della biodiversità, ma anche un potenziale pericolo per noi. Capiamo le ragioni di chi li difende, argomentando che aggrediscono raramente e solo se spaventati. Giusto dire che non hanno colpe, sbagliato che dobbiamo accettare come niente fosse qualche spiacevole «effetto collaterale» della loro proliferazione. Amiamo la natura e le sue creature splendide e selvagge. Se però vogliamo davvero rispettarle, non dobbiamo pensarle come se fossero dei peluche. Vero che le zecche (efficaci vettori di borreliosi) fanno più danni alla nostra salute rispetto a specie più spettacolari e massicce, ma sono oggettivamente assai più gestibili. Bene dare spazi a specie nobili e sontuose, ma in apposite riserve, separate dagli ambienti umani. Oppure, se le si lascia uscire da zone circoscritte, come in Trentino, bisogna procedere ad abbattimen- ti mirati e/o a trasferimenti in altri siti dove gli umani siano d’accordo di averli fuori casa e riescano a gestirli. Il discorso potrebbe estendersi anche ad altri selvatici, come i cinghiali o i lupi, un po’ meno insidiosi se li si incontra, ma potenzialmente problematici per i danni al bestiame e all’agricoltura.
Tifiamo convinti per la tutela dell’ambiente, delle specie rare e della biodiversità, ma non vorremmo che nell’ansia di proteggere tutti i viventi finissimo per rovesciare la scala delle priorità. Lo spirito dei tempi tende a dipingere l’uomo – in parte, va detto, a ragione! – come un parassita del pianeta che prosciuga le risorse naturali per bieco tornaconto, uccidendo piante e animali. Tuttavia, controllare le popolazioni selvatiche in eccesso, se necessario riducendone gli esemplari, ha come obiettivo l’equilibrio tra l’uomo e la natura e non il contrario.