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Il dolore per la guerra e la speranza nel futuro

Incontri ◆ L’artista ucraina Vira Shcherblyuk vive in Ticino da più di vent’anni, oggi si impegna per aiutare i suoi connazionali

Carlo Silini

«Un giorno avremo un mondo senza guerre, senza stupide guerre, per la precisione. Perché nessuna guerra è intelligente». Vira Shcherblyuk è partita vent’anni fa dall’Ucraina e da allora vive in Ticino. «Mi sento metà ucraina e metà svizzera, visto che metà della mia vita l’ho vissuta qui a Lugano», ci spiega, «e quando è cominciata l’aggressione russa mi sentivo, come dire?, in colpa per non poter fare niente per i miei connazionali». In realtà proprio niente non l’ha fatto, visto che poche settimane dopo l’avvio dell’«operazione speciale», come la definisce ipocritamente Putin, è andata al confine polacco a prendere due ragazze, figlie di un’amica, e le ha portate al salvo in Svizzera. «Sì, ma poi mi è venuto in mente che avrei potuto fare qualcosa d’altro, e di poterlo fare con l’arte. Credo che Dio mi abbia dato un solo talento, la pittura. Fin da piccola disegnavo dappertutto: sulle mani, sui tavoli, sulle porte col risultato che venivo punita. Mi dicevano che gli artisti sono tutti pazzi e poveri».

Ma, nel suo tempo libero, rilassandosi dopo il lavoro, Vira non ha mai smesso di dipingere (vedi il sito www. 25vira.art). E quando è scoppiata la guerra ha sentito l’impulso «di trovare i miei simili e di esprimere qualcosa sulla tela. In quei giorni mi era capitato di andare in giro con un nastro blu e azzurro nei capelli e un paio di persone mi hanno salutato riconoscendo i colori della bandiera ucraina. Mi son presa del tempo per dipingere e alla fine dell’anno scorso ho potuto esporre alcuni miei lavori dedicati all’Ucraina a New York. Ho poi posto una condizione per l’acquisto delle opere: che l’intero ricavato andasse al mio Paese. Ho potuto così inviare un aiuto concreto a varie associazioni di volontari a favore di famiglie povere e orfani, così come a una scuola speciale che ospita bambini con bisogni particolari».

Ora ci mostra la seconda copia di un quadro, piuttosto iconico, venduto a New York (vedi foto). Mostra una donna che piange. Da un occhio le colano tre gocce: una rossa, una azzurra e una gialla che vanno a formare un cuore coi colori della bandiera ucraina. «Ma il messaggio non è solo quello del dolore per la guerra; ho usato colori vivaci, in contro tendenza rispetto ai tanti quadri che usano tonalità cupe quando rappresentano la guerra e la morte. L’ho fatto perché so che gli ucraini stanno trasmettendo al mondo un’idea di unità e la decisione di difendere i bei valori della democrazia, del poter scegliere per me, per noi, il nostro destino. Pur nel dolore e nella violenza, espressa dalla lacrima di sangue, volevo trasmettere energia. C’è tantissima sofferenza che però si trasforma in questo blu-cielo e nel giallo del grano. Ce la faremo. Quello che gli ucraini difendono a me dà tanta energia. C’è il pianto, ma il futuro è brillante e colorato».

Meno intuitiva la lettura di un’altra tela. Ci sono quattro figure femminili circondate da due ali grigie all’esterno delle quali si vedono delle armi avvolte dentro nastri blu e gialli. «Mi sono ispirata a un’icona bizantina che aveva mia nonna e che rappresenta santa Sofia martire con le tre figlie Fede, Speranza e Carità. Sofia significa saggezza ed è la madre della speranza, della fede e dell’amore (carità). Solo la saggezza, oggi, può farci superare la guerra. La stupida guerra, appunto. Le ali sono quelle delle gru. È un omaggio al villaggio di mio padre dove c’era la statua di una gru. Ho immaginato le sue ali grigie che proteggevano Sofia e le sue figlie dall’aggressione delle armi, che restano fuori. Significa che la mia terra protegge sé stessa. E non solo: secondo me, con la sua battaglia, l’Ucraina oggi protegge tutta l’Europa. Io sogno un futuro senza muri tra Ucraina e Russia, spero che ci sarà una vittoria molto più grande, molto più profonda proprio perché basata sulla saggezza, l’amore, la speranza e la fede».

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Il viaggio iniziatico di Michel Foucault

Tra il filosofico e il dilettevole ◆ Una notte stellata nel deserto, e la giusta quantità di LSD, fanno da sfondo a un romanzo in cui finzione e realtà si confondono – California 1

Sebastiano Caroni

In una delle più autorevoli biografie del celebre filosofo e intellettuale francese Michel Foucault (1926-1984) realizzata da James Miller, e intitolata

The Passion of Michel Foucault (La passione di Michel Foucault), viene riportato un aneddoto decisamente pittoresco legato a un dibattito televisivo organizzato da un’emittente olandese nel 1971. Il dibattito ospitava Michel Foucault e il linguista americano Noam Chomsky, e ruotava attorno alla domanda «esiste una natura umana?», un tema che era sicuramente nelle corde di entrambi. Oggi, quell’incontro si può rivedere tranquillamente su YouTube, così come altri interventi pubblici del filosofo francese.

Nondimeno, quando lessi la biografia di Miller non fu tanto l’occorrenza di quell’incontro a colpirmi, ma un dettaglio apparentemente trascurabile. Pare che quando gli sponsor televisivi chiesero a Foucault come preferisse essere retribuito per il suo intervento, il filosofo domandò una tavoletta di hashish quale legittimo compenso. Quella insolita richiesta contribuì, ai miei occhi, a rendere particolarmente memorabile il di- battito: tant’è vero che, come riporta Miller, anche a distanza di anni l’espressione Chomsky’s hash (l’hashish di Chomsky) continuava a designare, per via metonimica, quell’incontro per molti versi unico e irripetibile.

È altresì probabile che se quel dibattito non avesse riunito due fra i maggiori intellettuali dell’epoca, un simile dettaglio sarebbe finito nel dimenticatoio. Ma, in qualche modo, la posta in gioco simbolica di quel confronto gli diede rilevanza, tanto che anche Miller si sentì in dovere di metterlo in evidenza. Del resto, spesso sono proprio i dettagli pittoreschi, incongrui, e forse anche un po’ bizzarri, a rendere i personaggi unici e riconoscibili, a distinguerli dalla moltitudine e a dare un colore particolare alle loro storie. A volte i dettagli, e gli aneddoti, possono diventare delle vere e proprie storie. E con le storie, si sa, si possono anche fare dei libri.

Di recente, per esempio, è uscita la traduzione italiana di un libro che riguarda proprio Michel Foucault e che racconta, in forma romanzata, un momento particolare della vita del filosofo. Siamo nel 1975, e Fou- cault parte per un soggiorno in California dove tiene diverse lezioni in alcune delle principali università della zona. Durante la sua permanenza in California, Michel accoglie l’invito a trascorrere alcuni giorni in compagnia di un professore universitario di nome Simeon Wade e del suo compagno. Insieme intraprendono un’escursione nel deserto californiano che li porta fino alla Death Valley. Qui, con l’aiuto di una modica quantità di acido lisergico, il filosofo vive un’esperienza che per molti versi ridefinirà la sua visione del mondo. E a raccontarla sarà proprio Simeon Wade. Come illustra la quarta di copertina del libro in maniera piuttosto intrigante, Foucault in California «è il racconto dell’“esperienza più importante” della vita di Michel Foucault, narrato da chi lo ha guidato lungo una notte che molti pensavano leggenda e invece è stata una rivoluzione personale. Un viaggio nelle profondità di sé stessi che ha cambiato per sempre il pensatore francese, tanto da spingerlo a riscrivere il suo capolavoro Storia delle sessualità». Come mai – viene da chiederci – questa storia, scritta negli anni immediatamente successivi a un’esperienza iniziatica tanto determinante, non era ancora stata pubblicata? A spiegarlo ci pensa Heather Dundas, l’autrice della prefazione nonché colei che, incontrando personalmente Wade, con pazienza e perseveranza ha recuperato il manoscritto e l’ha fatto pubblicare nel 2022. Racconta la Dundas che all’inizio i dubbi sulla veridicità del resoconto erano davvero tanti, nonostante il fatto che David Macey, altro importante biografo del filosofo e autore di The Lives of Michel Foucault, ricordava che una volta Foucault parlò di «una serata indimenticabile sotto LSD, preparato in dosi controllate, durante una notte nel deserto con della musica deliziosa, persone splendide e una bottiglia di chartreuse». Ma poi la cosa finiva lì, Macey non approfondiva la questione, lasciandola cadere. Inoltre, sia lui sia James Miller menzionano solo en passant, senza accordarle alcun peso, l’amicizia fra Wade e Foucault.

Per nostra fortuna, dopo alcuni incontri con la Dudas, è stato proprio Wade a riesumare vecchie lettere e foto che lo ritraevano in compagnia di

Foucault, ridando così slancio all’autenticità del racconto. Sciolti i dubbi iniziali anche il lettore, ormai rassicurato, dopo la prefazione della Dundas può finalmente abbandonarsi alla complicità di una narrazione dove finzione e realtà si intrecciano e si sovrappongono.

Se il viaggio nel deserto rimane saldamente il fulcro del racconto, i momenti che lo precedono e lo seguono costituiscono un’interessante cornice che ci regala uno spaccato della società, del mondo accademico, e della controcultura dell’epoca. Come sintetizza sempre il commento sulla quarta di copertina: «Tra sedute di yoga, riflessioni sulla natura umana, confessioni e visioni, Foucault in California è romanzo on the road, dialogo filosofico e racconto di formazione queer. Un viaggio vertiginoso e stravagante, che dimostra come per giungere alla Verità si possono prendere le strade più varie. E talvolta allucinanti».

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