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«Il fiume ha divorato i nostri sogni»

Reportage ◆ Viaggio in Bangladesh dove gli effetti del cambiamento climatico costringono milioni di persone ad abbandonare le loro case. La testimonianza di Mohammed Sumar che vive con la sua famiglia in una baraccopoli

della capitale Dacca

Francesca Mannocchi

Mohammed Sumar ha 30 anni, una moglie di 24 e un figlio di 7. Il bambino giace su un materasso, ha la febbre alta da giorni e Mohammed non ha soldi per comprargli le medicine. Da quando vive a Dacca, capitale del Bangladesh, lavora come guidatore di risciò. Quando va bene torna a casa con uno o due dollari al giorno, quando va male torna a mani vuote. Chiamare casa il luogo in cui vivono è improprio; casa per loro sono quattro pareti di lamiera in una baraccopoli sovraffollata. Una delle cinquemila in una città tentacolare che conta già più di venti milioni di persone. La popolazione continua ad aumentare ogni giorno, le organizzazioni umanitarie locali stimano dai mille ai duemila arrivi quotidiani in un flusso che non si ferma, e che ha come causa principalmente il cambiamento climatico. Ecco la ragione che ha fatto fuggire Mohammed e la sua famiglia dal sud del Paese, nella zona della costa del Bengala, dove vivevano di pesca e agricoltura prima che un ciclone spazzasse via tutto ciò che avevano.

Sebbene sia uno dei Paesi che contribuisce meno alle emissioni di gas serra (appena lo 0,5 per cento su scala mondiale), il Bangladesh è settimo nell’indice globale di rischio per i Paesi più colpiti dalle emissioni e si stima che entro il 2050 l’innalzamento del livello del mare sommergerà dal 10 al 17 per cento delle sue zone costiere, provocando lo sfollamento forzato di circa 20 milioni di persone (su un totale di 170 milioni circa). Secondo i dati del Governo di Dacca, ad oggi circa 40 milioni di persone vivono sotto la grave minaccia del cambiamento climatico in 19 distretti.

Ad oggi circa 40 milioni di persone vivono sotto la grave minaccia delle crescenti inondazioni in diciannove distretti

Data la sua conformazione – il Bangladesh è un delta attraversato da oltre 200 corsi d’acqua, ciascuno collegato ai fiumi Gange e Brahmaputra che scorrono dall’Himalaya e attraverso il subcontinente dell’Asia meridionale – il Paese è particolarmente esposto a disastri climatici sempre più frequenti. Le inondazioni, a cui le zone meridionali erano in parte abituate, sono sempre state una condizione con cui fare i conti per decine di milioni di agricoltori e pescatori che vivono sulle rive dei fiumi, alcune delle aree più densamente popolate della campagna del Bangladesh. Ma negli ultimi quindici anni la crisi climatica ha aumentato la gravità e l’assiduità dei fenomeni, con precipitazioni più irregolari e violente che causano più cicloni e inondazioni improvvise e rovinose.

Lo scorso anno il Bangladesh ha assistito a inondazioni come non si erano mai verificate, fenomeni che hanno provocato centinaia di morti e fatto scappare circa 7 milioni di persone. Gli scienziati prevedono che, se la tendenza continuerà così o peggiorerà, l’impatto si farà sempre più gravoso e le persone costrette alla fuga cresceranno in maniera esponenziale. Soprattutto perché l’innalzamento del livello del mare significa che le inondazioni di acqua salata stanno rendendo inutilizzabili terreni un tempo fertili.

«Il clima sta diventando più volatile, quindi stiamo assistendo a un intensificarsi delle migrazioni», ha detto Joyce Chen, economista della Ohio State University. «In passato abbiamo conosciuto migrazioni dovute a inondazioni annuali o all’erosione degli argini dei fiumi, ora assistiamo più comunemente all’intrusione di acqua salata che influisce a lungo termine sull’ambiente e quindi sui mezzi di sostentamento di intere comunità. Questo rende più difficile la coltivazione perché il terreno è alterato dall’acqua salina. In passato le persone potevano andare a lavorare in città per alcuni mesi mentre la terra era allagata e tornare quando l’alluvione si era ritirata. Ora non è più possibile. La gente si rende conto che non è possibile restare». Secondo il Center for Environmental and Geographic Information Services (CEGIS), circa 1800 ettari di terra saranno erosi dai fiumi in Bangladesh nel corso di quest’anno e almeno altre 10mila abitazioni scompariranno, distrutte dall’acqua. Come quella di Mohammed. Lui aveva un piccolo pezzo di terra dove viveva con i suoi quattro fratelli. La loro casa, nella quale erano cresciuti e dove avrebbero voluto crescere i loro figli, era molto vicina al fiume. L’ultimo ciclone ha portato via l’abitazione, la terra su cui sorgeva e la speranza di poterla ricostruire un’altra volta.

Purtroppo le irruzioni di acqua salata stanno rendendo inutilizzabili terreni un tempo fertili: la gente è disperata

Prima, racconta Mohammed, vedere le case danneggiate, ripararle con il fango e riparare gli argini era una consuetudine per tutti quelli che vivevano nel Sunderbans, la grande foresta di mangrovie nel sud, che protegge il Paese dagli effetti delle precipitazioni. Poi, negli ultimi dieci anni, i fenomeni erano diventati così violenti e costanti che le popolazioni locali ricostruivano le baracche danneggiate anche tre, quattro volte ogni anno. Alla fine, stremati, milioni di pescatori e contadini hanno ceduto e lasciato tutto per cercare riparo e altre fonti di sostentamento nelle zone urbane, già sovraffollate. «La vita è molto dura qui», dice Mohammed seduto sul letto della sua baracca. «Lavoro con il risciò ma non posso permettermi niente. Anche i miei genitori hanno perso la casa e nessuno di noi figli può permettersi di aiutarli. Pago 3000 taka (circa 30 dollari, ndr.) al mese per queste mura di lamiera; ci sono una stufa di fango e un bagno ogni trenta famiglie; l’elettricità è un problema, a volte stiamo giorni interi senza corrente, è tutto durissimo. In più non possiamo mandare a scuola i nostri figli perché non abbiamo nemmeno i soldi per i quaderni».

La condizione delle baraccopoli di Dacca sta via via peggiorando, a mano a mano che gli effetti della crisi climatica si fanno più evidenti. Le statistiche stimano che nelle 5 mila slums della città vivano già 4 milioni di persone, ma sono in molti a pensare che la cifra sia ampiamente sottostimata. Eskander Ali Mollah, presidente del Kalyanpur Slum Rehabilitation Unity Council, afferma: «Il 95% delle persone in questa baraccopoli della capitale proviene da diversi distretti costieri del Bangladesh. La gente è venuta qui dopo che la sua terra è stata inondata. La baraccopoli è stata edificata nel 1998, c’erano solo una manciata di case».

Prima di arrivare a Dacca, Mohammed racconta di aver vissuto giorni davvero difficili. Voleva fare di tutto pur di non lasciare casa sua, la sua terra e le sue origini, ma dopo l’ultima ondata di devastazione la sua famiglia aveva avuto problemi nell’approvvigionamento di cibo per quasi un mese. È stata la mancanza di cibo, prima della paura dell’acqua, a convincerlo a lasciare il poco che restava e diventare un altro numero tra milioni di sfollati. Quando pensa alla zona in cui è nato e cresciuto, Mohammed dice: «Ricordo che era tutto bellissimo, vasto. Poi il fiume ha divorato tutto lentamente ed è arrivato vicino casa nostra. Abbiamo visto i nostri progetti spegnersi e abbiamo capito che i desideri che avevamo non si sarebbero avverati. Abbiamo capito che non potevamo più avere nemmeno sogni».

Complessivamente, il numero di bengalesi sfollati a causa dell’impatto del cambiamento climatico potrebbe raggiungere i 13,3 milioni entro il 2050, rendendolo la principale ragione della migrazione interna del Paese, secondo la Banca Mondiale. Anche le Nazioni Unite sono allarmate dai numeri e dalle previsioni. Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, a marzo ha avvertito che il livello globale del mare è aumentato più rapidamente dal 1900 e l’inarrestabile innalzamento delle acque mette a rischio Paesi come Cina, India, Paesi Bassi e appunto il Bangladesh.

E mette in grave pericolo quasi 900 milioni di persone che vivono nelle zone costiere. In un cupo discorso alla prima riunione del Consiglio di sicurezza sulla minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale derivante dall’innalzamento delle acque, Guterres ha dichiarato che il livello del mare aumenterà in modo significativo anche se il riscaldamento globale sarà «miracolosamente» limitato a 1,5 gradi Celsius, l’inafferrabile obiettivo internazionale, e che aumenteranno, di conseguenza, gli spostamenti forzati delle popolazioni che subiscono gli effetti di questi fenomeni.

Mohammed in ogni caso non vuole perdere la fiducia nel futuro. Spera ancora di riuscire a proteggere la sua famiglia e poter mandare di nuovo suo figlio a scuola. Il sorriso che non perde mai diventa amaro solo di fronte a una domanda: chi sono i responsabili di questo scempio? Quando la sente guarda a terra, poi, col viso improvvisamente adombrato, dice: «Non lo so, ma so che non è nostra».

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