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Contro quel «cencio da Medioevo»

Prospettive ◆ In Iran le proteste continuano nonostante gli arresti arbitrari, le esecuzioni e le torture perpetrate dal regime

La polizia iraniana ha di recente annunciato che installerà in tutti i luoghi pubblici delle telecamere «intelligenti» per identificare le donne che vanno in giro a testa scoperta. Queste riceveranno poi un SMS che le avvertirà delle severe conseguenze a cui andranno incontro perseverando nel loro «indecente» comportamento. Verrebbe da parafrasare una battuta che circolava molti anni fa, durante la «war on terror», la guerra al terrorismo, di George W. Bush che si vantava di adoperare «smart bombs» (bombe intelligenti) così come gli iraniani si vantano delle «smart cameras»: quando le bombe sono più intelligenti del tuo presidente significa che c’è un problema.

Il problema, in Iran, per quanto surreale possa apparire, sono i capelli degli esseri umani di sesso femminile. Capelli che sono rapidamente diventati un simbolo di resistenza da quando l’anno scorso Mahsa Amini, una ragazza curda, è stata arrestata e poi picchiata a morte per poche ciocche di capelli che sfuggivano dal velo di ordinanza prescritto dalla legge, e definito dai poliziotti, dal Governo «uno dei fondamenti di civiltà della nazione iraniana». Parole ribadite di recente dal presidente Ebrahim Raisi, che considera il velo femminile «una necessità religiosa» e continua a mettere in atto misure repressive sempre più severe per contrastare le «pericolosissime» chiome in libertà di ragazze e signore. Dimostrando così di essere, quantomeno, molto meno «smart» delle telecamere di sorveglianza. Perché la repressione, fatti alla mano, non ha affatto dato i risultati sperati.

Nonostante le migliaia di persone arrestate, nonostante le esecuzioni, le botte, le torture in custodia, gli iraniani non hanno alcuna intenzione di smettere di protestare. Gli iraniani, tutti. Perché, al contrario di quello che succede in Afghanistan, pochi giorni dopo la morte di Mahsa a scendere in piazza per sostenere la protesta di madri, mogli e sorelle in Iran sono stati anche gli uomini. Che – al grido di «donna, vita, libertà» e «morte a Khamenei» – hanno protestato per giorni contro l’impiccagione di due dimostranti.

La polizia ha annunciato che installerà delle telecamere «intelligenti» per identificare le donne che girano a testa scoperta

Secondo HRANA (Human Rights Activists News Agency), ci sono almeno ventimila detenuti in relazione alle proteste, oltre cinquecento manifestanti sono stati ammazzati duranti gli scontri con la polizia, alcuni sono stati impiccati e un centinaio di lo- ro sarebbe stato condannato a morte. Una di questi ultimi si chiama Faezeh Barahooi e ha 25 anni. Colpevole, secondo la polizia iraniana, di avere guidato una dimostrazione studentesca all’Azad University di Zahedan –nella regione del Sistan/Baluchistan – dove la rivolta, come in altre zone dell’Iran, è rapidamente diventata, da protesta contro l’imposizione del velo, una rivolta a tutto campo contro il regime degli ayatollah. Forse Faezeh, arrestata lo scorso 3 ottobre, è già morta. O forse la uccideranno domani. Di lei non si sa più nulla. Come non si sa nulla, tranne che si trova in prigione dallo scorso 22 settembre, di Niloofar Hamedi, la prima giornalista a pubblicare le foto di Mahsa Amini. Nazila Maroofian, che aveva intervistato il padre di Mahsa, è an- che lei in prigione. Così come una ventina di altre sue colleghe. Secondo Reporter Sans Frontieres (RSF), il numero di giornaliste arrestate negli ultimi mesi è il più alto nella storia della Repubblica iraniana. Sempre secondo i rapporti di RSF e della Committee to Protect Journalists (CPJ), negli ultimi mesi sono stati arrestati un centinaio tra giornalisti e blogger; in più della metà dei casi si tratta di donne. Gli arresti avvengono, sempre secondo le stesse fonti, preferibilmente nel cuore della notte, a opera dell’intelligence, senza mandati d’arresto e senza nessuna garanzia legale. Le vittime scompaiono, vengono interrogate e poi rinchiuse in attesa di giudizio o condannate senza la presenza di un avvocato. Eppure le proteste continuano. Ma continua, soprattutto, la rivolta quotidiana delle iraniane che scelgono, pur sapendo di rischiare, di non coprirsi più i capelli in segno di protesta, nonostante le ritorsioni della polizia morale e nonostante i manifesti che invitano le donne a coprirsi e che campeggiano un po’ ovunque. E nonostante anche coloro che, all’estero come nell’area geopolitica, si barcamenano in dotte disquisizioni per giustificare l’ingiustificabile e difendere la dignità di quello che Oriana Fallaci definiva «cencio da Medioevo», facendolo passare per scelta culturale e religiosa da parte delle donne. Di quelle stesse donne che, in Iran, in Afghanistan come altrove, vengono incarcerate, torturate e ammazzate per aver scelto di non coprirsi il volto e i capelli.

Se l’hijab, il velo, è un simbolo politico, se, come sostengono alcuni, è stato un simbolo di appartenenza e di rivolta contro «l’occidentalizzazione» forzata imposta al Paese in passato, bisogna tanto più considerare un simbolo politico, e un simbolo forte, anche l’attuale rifiuto da parte delle iraniane di continuare a indossarlo. Un simbolo di rivolta contro un Governo dittatoriale che sopprime ogni libertà individuale in nome di un preteso precetto religioso, che fa della morale un’arma per colpire ogni legittima aspirazione dei suoi cittadini. Un simbolo di rivolta contro l’islamo-fascismo che considera le donne un male da estirpare e da tenere nascosto dentro le case o sotto un triste lenzuolo funebre spacciato per indumento. Contro uno Stato di polizia che si nutre soltanto di paura e che grazie alla paura continua a prosperare. Senza capire che, come sostiene un’attivista iraniana che per ovvi motivi vuole rimanere anonima: «Noi non abbiamo più paura. La rivolta continua e continuerà a dispetto delle leggi e della repressione. Perché, come dice il poeta (il greco Dinos Christianopoulos ndr.), hanno cercato di seppellirci, senza capire che, invece, eravamo semi».

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