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Dalla frustrazione all’armonia il futuro del lavoro per i giovani

Precarietà e sfruttamento attanagliano gli under35. Dalla crisi, però, può scaturire un nuovo modo di intendere il lavoro e riequilibrare vita personale e lavorativa

«Ho studiato design per 3 anni, in un istituto privato, investendo diversi soldi e formandomi. Ora sono costretto ad accettare un contratto di lavoro con uno stipendio che sarà di 600 euro per 3 anni, significa una retribuzione oraria di 2,75 euro».

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Riccardo è un giovane lavoratore di 23 anni, alto, capelli e occhi scuri. Racconta la sua storia con lo sguardo tri- ste e la voce che si incrina a tratti per il dispiacere, a tratti per la rabbia.

«Sono sempre stato un ragazzo molto attivo, ho fatto volontariato, allenato bambini a pallavolo da quando avevo 17 anni. Il primo lavoro serio che ho trovato è stato quello di cameriere, che è un lavoro che non rifarei mai più perché sono stati nove mesi di tortura, non tanto per lo sforzo fisico, a me piace stare a contatto con le persone, ma per il carico mentale a cui sono stato sottoposto». Dopo una lunga ricerca, Riccardo riesce a trovare lavoro in un pub. compenso che percepisco». Quella di Riccardo non è una storia isolata, nelle sue stesse condizioni vivono migliaia di giovani. Secondo il rapporto Censis-Eudaimon sul Welfare aziendale, quasi 4 giovani lavoratori (tra gli under 35) su 10 hanno contratti a tempo determinato, collaborazioni o part-time non richiesti. Per le giovani, la percentuale aumenta: quasi 1 su 2 deve accettare forme contrattuali di questo genere. Lo stress e la frustrazione che ne derivano hanno effetti dannosi sulla salute mentale, come dimostra una ricerca condotta su 300 ragazzi di età compresa tra 15 e 34 anni secondo cui 4 giovani su 10 si sono rivolti a uno psicologo e almeno 2 stanno pensando di contattarlo. Anche Riccardo ne ha sentito il bisogno. «A me le situazioni che ho affrontato a livello lavorativo hanno causato tantissimo stress mentale e disturbi psicologici per i quali sto andando in terapia. I miei genitori sostengono che ai loro tempi gli psicologi non servivano, ma la loro realtà era diversa».

«All’inizio mi sono trovato bene, poi le cose sono cambiate. È stato assunto un ragazzo che si occupava della gestione dei camerieri e gli stavo antipatico.

Mi ha reso la vita difficile sperando che io mi dimettessi, ma ho tenuto duro fino a quando non è arrivata la pandemia».

Nella conferenza stampa dell'8 marzo 2020, il premier Giuseppe Conte annuncia che dal giorno successivo inizierà il lockdown. Riccardo, dopo i primi giorni, ritrova l’equilibrio e inizia a pensare a cosa ne sarà del suo lavoro quando le porte delle case inizieranno a riaprirsi e le strade e i locali a popolarsi di gente. Chiede ai suoi datori di lavoro se è il caso che si cerchi un nuovo lavoro, ma loro gli dicono di pazientare. Arriva giugno 2020, con la riapertura dei locali dopo i mesi di chiusura: «Non mi hanno più richiamato, li ho rivisti soltanto quando sono tornato per prendere dei soldi arretrati, che sono riuscito ad avere nonostante nell’ultimo periodo lavorassi a nero. Questa cosa l’ho scoperta da poco facendo richiesta del mio quadro lavorativo all’Inps. Questa vicenda mi ha veramente scosso perché comunque io ci tenevo a quel posto di lavoro, ero lì quando Conte ha annunciato che dal giorno dopo ci sarebbe stato il primo lockdown e le ultime persone che ho salutato sono stati loro con un grande abbraccio, mentre piangevamo per lo sbigottimento».

4 giorni di lavoro al posto dei consueti 5 a retribuzione invariata. L’università di Cambridge in collaborazione con il Boston College ha condotto uno studio che ha coinvolto 61 aziende e 2900 lavoratori che l’hanno sperimentata. Dai risultati è emerso che molti dipendenti sono meno stressati, dormono meglio e trovano più facile bilanciare il lavoro e le responsabilità domestiche. Inoltre, il numero di giorni di malattia è diminuito di circa due terzi e il 57% in meno di personale ha lasciato le aziende partecipanti rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Tuttavia, in Italia la questione è più complessa a causa della presenza di contratti nazionali di riferimento basati sull'orario di lavoro che richiedono una rinegoziazione con le parti sociali per poter ridurre le ore lavorative a parità di stipendio.

Al termine di una lunga ricerca intervallata da lavoretti saltuari, Riccardo viene a conoscenza del fatto che un ufficio di design sta cercando un professionista da inserire nel team. Ha una laurea in design e crede sia arrivata l’occasione che aspettava. «Mi hanno offerto 400 euro al mese e ho accettato perché non vivo più a casa dei miei genitori e dovevo mantenermi in qualche modo. A gennaio 2023 sarebbe dovuto partire il contratto ma ancora non è avvenuto, probabilmente riuscirò a firmarlo a giugno. Credo che i giovani vadano ascoltati, non sfruttati. Quando i clienti vengono in studio io mi rendo conto che ascoltano più me che i miei colleghi che hanno oltre 40 anni. Noi giovani siamo la testimonianza del cambiamento che sta avvenendo, ma i manager non se ne rendono conto» racconta frustrato, e prosegue: «I miei datori di lavoro mi dicono: “Il tempo passa in fretta”. Io però vorrei tornare a casa soddisfatto non solo per il lavoro che faccio, ma anche per il

Del gap generazionale che si crea quando l’argomento di conversazione è il lavoro parla anche Alessandra Ciabuschi, psicologa specializzata in stress managment. «“I giovani non vogliono fare la gavetta” o “sono pigri” sono espressioni che evidenziano l’incapacità di comunicare tra generazioni. Parlano linguaggi diversi, anche perché gli italiani, insieme ai giapponesi, sono i più resistenti a modificare i propri schemi mentali. Questo vale anche quando si parla di aziende. Il gap di integrazione tra generazioni, in Italia, è più negativo anche di quello di genere». Ciò che i giovani rivendicano, racconta Ciabuschi, è «un giusto compenso e l’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Prima di loro a richiedercelo però è stata l’Oms, ponendolo come uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 e dichiarando che, se non si interviene sulla questione, i danni anche economici derivanti da stress e ansia sarebbero insostenibili».

Secondo la dottoressa l’evento che ha segnato il giro di boa è stato la pandemia: «Il Covid ci ha fatto vedere una cosa che tutti sappiamo, ma a cui non pensiamo mai: possiamo morire. Questo ha ristabilito la scala delle priorità. Non siamo più disposti a lavorare soltanto, anche perché i dati, da più parti, dimostrano che lavorare di meno non riduce i fatturati, ma anzi aumenta la produttività e il benessere».

Vanno in questo senso le sperimentazioni sul miglioramento del welfare aziendale e sul ribilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. Ultima in ordine di tempo quella della settimana corta:

«La settimana di 4 giorni, nei paesi che l’hanno adottata, ha dato risultati più che soddisfacenti. Ma se scegliamo di sperimentarla anche in Italia lo dobbiamo fare nell’ottica di una riduzione effettiva del carico di lavoro, non come accade in alcune aziende che hanno fatto lavorare i dipendenti 12 ore al giorno», commenta Ciabuschi.

Siamo in una situazione generale di crisi, nel senso etimologico del termine, che prepara il terreno alla costruzione di un nuovo modello di rapporti sociali e lavorativi. «Il cambiamento è una costante della storia umana. Chi crede che dopo lo squilibrio causato dalla pandemia si possa tornare alla “normalità”, è destinato a soffrire doppiamente. Non solo ha vissuto la destabilizzazione dello tsunami che si schianta addosso, ma non è neppure capace di tenere ciò che l’onda ha lasciato intatto e ricostruire le cose» conclude Ciabuschi. ■

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