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Venerdì 20 dicembre 2013, ore 07:00 Londra

Lo svegliarono le campane. Il motivo del Big Ben. No, non può essere il Big Ben, pensò Greg Giuliani. Non se ho capito bene dove sono. Troppo distante. Aveva un cerchio alla testa. Non era forte, ma era lì, come un promemoria. Si chiese che ora fosse. Il suo volo era dal City alle dieci e cinquantacinque. Tirò fuori il braccio dal piumino. L’aria era fredda sulla pelle nuda. Come al solito, pensò. Questi inglesi non si sprecano mai sul riscaldamento, non importa quanto siano upper class. Guardò il suo orologio. Aveva appena segnato le otto, ora italiana. Aveva tempo, grazie a Dio. Odiava dover fare di corsa, la mattina. Si riaccoccolò nel piumino. Era fresco, piacevole, rassicurante. Chissà perché, non si trovano piumini così da noi, pensò. In Inghilterra; in Scandinavia; anche in Austria; ma non da noi. Ripensò alla sera prima. I Christmas Carols a Canterbury. Gli erano sempre piaciuti. Ogni anno Ludovisi & Soci lo mandava lì in rappresentanza di tutto lo studio. Non solo perché era l’unico socio perfettamente bilingue, ma anche perché era lui che aveva


ispirato l’alleanza con Lyndons e aveva convinto tutti gli altri a siglarla, e poi che l’aveva coltivata, anno dopo anno. Era roba sua. E se falliva – questo era il messaggio subliminale – erano cazzi suoi. Però Lyndons era un altro mondo. Dove, in Italia, avresti potuto vedere soci e collaboratori che cantavano insieme in un coro? E che cantavano canti religiosi? In Italia, guai ad ammettere che oltre alle dieci ore in studio c’è altro nella vita. Eppure proprio questa, che gli italiani pensavano essere la loro forza, era la loro maggiore debolezza. E poi, dopo Canterbury, Mosimann’s. Era lì che, ogni anno, Lyndons teneva la cena di Natale: una vecchia chiesa sconsacrata, nel lussuoso quartiere di Belgravia, rilevata verso la fine degli anni Ottanta da un geniale chef svizzero, il quale in poco tempo ne aveva fatto uno dei ristoranti preferiti da Lady Diana e, di conseguenza, uno dei più chic di tutta l’Inghilterra. Questo grazie anche alla configurazione del tutto unica dell’edificio, articolato su più livelli che ospitavano numerose sale ciascuna arredata in uno stile diverso, sette delle quali potevano essere riservate per cene private, e tra le quali v’era anche la sala di private dining più intima al mondo, la celebre Montblanc Room, per sole due persone. Giuliani rivedeva ancora tutto come se fosse lì. I soci, disposti a tavoli di dieci, nella Garrard Room, dal nome del famoso marchio di gioielleria inglese: la stanza più alta di tutte, proprio dentro la cupola della vecchia chiesa, un esagono di settanta metri quadrati con le pareti ricoperte di seta scura e uno spettacolare caminetto ricoperto da un mosaico di argento. Gli associates, o, meglio, gli associates più senior, si ritrovavano al Balcony Bar, la sala più grande del locale, con la sua balaustra lignea ottagonale affacciata sul piano di sotto. Granchio del Dorset, risotto ai funghi, filetto di agnello in


crosta di senape; e per dessert, la cosa più semplice eppure più difficile del mondo: pudding di pane e burro. E il Pouilly Fumé, ovviamente. Oltre a tutto il resto. Il rosso e i liquori di cui aveva perso il conto e il nome. E poi la discoteca. Anzi, il club, come lo chiamano qui. E poi. E poi. Diede un’occhiata alla sua destra. Da quella parte del letto, il piumino era ridotto a un ammasso informe, dal quale proveniva un respiro regolare. Anzi, non era solo un respiro, era come un leggero russare. Scivolò con le gambe fuori dal letto e si alzò. Il pavimento rispose con un gemito di legno antico. Si girò a controllare. Il russare continuava come prima. Pensò un grazie a qualche santo: non aveva voglia di parlare, non ancora. Attraversò la stanza cercando di guadagnare l’uscita senza fare altri rumori. Il parquet questa volta non protestò. Dietro la porta trovò un corridoio lunghissimo, anche questo in rovere antico posato a spina francese. Una boiserie bianca fasciava le pareti fino all’altezza di un metro e trenta circa, sopra vi si stendeva una carta da parati verde scuro. Per tutta la lunghezza del corridoio si aprivano porte di legno bianco, nello stesso stile della boiserie. Dalla prima sulla sinistra s’intravedeva una stanza da bagno, anche quella rivestita di carta da parati, questa volta a righe bianche e viola. Iniziò a percorrere il corridoio. All’estremità opposta sfociava in due grandi stanze con la stessa posa di parquet, comunicanti attraverso un camino bifronte. Entrambe le stanze terminavano sul fronte in due bow-window. Erano in alto, sarà stato almeno un quarto piano. Davanti vedeva degli alberi, e oltre gli alberi il Tamigi. Riconobbe a sinistra l’Albert Bridge, e a destra il Battersea. Londra, o almeno quella sua parte, era ancora addormenta-


ta e stupenda. Da sinistra il sole riversava sul fiume una luce radente. Si sentivano i gabbiani cantare. Era tutto perfetto. Si guardò intorno. La stanza era arredata in modo semplicissimo. C’erano solo due divani, di pelle chiara. Nessuna televisione, nessuno stereo, niente di niente. Solo un quadro, grande. Un fondo scuro, blu tendente al nero, una decina di figure rettangolari, alcune blu, altre celesti. Bellissimo. Si avvicinò. William Scott. Certo che Lyndons tratta bene i suoi soci, pensò. Si sedette su uno dei divani. Guardò il sole, che stava inondando la vetrata, e restò lì, con le mani intrecciate sulle ginocchia. Sì, be’, era lì, era stato bello; ma poi? Aveva quarantanove anni. Da oltre venti era avvocato. L’infanzia in Inghilterra, Cambridge al St Catharine’s College, il Master, la pratica da Lyndons, solicitor a ventisette anni; poi, poco dopo, il trasferimento in Italia, l’iscrizione anche all’albo di Milano. Cosa vedeva, se guardava indietro? E se guardava avanti? Tra poco il corpo avrebbe iniziato a cedere, non importa quanta palestra poteva fare, e serate come quella prima sarebbero diventate sempre più rare, fino a sparire del tutto. Cosa gli sarebbe rimasto, allora? Andare in studio fino a ottant’anni, appassendo lentamente? Che senso aveva? Riguardò il William Scott, e poi il Tamigi al di là degli alberi. Uno stormo di gabbiani si alzò in volo contro il sole. D’un tratto sentì freddo. Tornò verso il bagno. Accese l’acqua della doccia e vi si buttò sotto, lasciandosi inondare, a bocca aperta, gli occhi chiusi rivolti verso il cielo. Restò così qualche minuto. Quando uscì, il bagno era invaso di vapore. Ora andava decisamente meglio. Trovò un accappatoio e se lo infilò. Con la manica ritagliò uno spazio nello specchio appannato. Doveva farsi la barba.


Dalla stanza da letto sentì che qualcosa si muoveva, evidentemente la doccia si era sentita. Socchiuse la porta del bagno. Ora il rumore dalla stanza era più netto, rumore di piumino scostato, di cuscino tirato su. Fece la sua voce gentile. «Buongiorno! Dormito bene?» Dall’altra stanza solo un mugugno addormentato. Lui continuò. «Senti, alle tre ho una riunione a Milano e non riesco a passare da casa. C’è per caso un rasoio che posso usare?» Un altro mugugno. Poi il primo cenno di vita. «Usa pure il mio. Dopo ieri notte, credo proprio che possiamo condividere anche quello.» Uscito dal bagno, Giuliani si fermò sulla soglia della stanza a guardarlo. Liam Greene, era lì, seduto nel suo letto, ancora mezzo sotto il piumino, e sembrava proprio che ci stesse benissimo. Dio, quant’è bello, pensò Giuliani. Assomigliava un po’ a Rupert Everett ai suoi tempi migliori, ma un po’ meno alto e un po’ più robusto. Molto più robusto, si corresse mentalmente. Già, il canottaggio, pensò. Era così che era nato tutto, la sera prima. Fino ad allora, di lui Giuliani sapeva solo che aveva trentasette anni ed era considerato l’astro nascente di Lyndons, ma non aveva mai avuto occasione di scambiarci parola. Poi la sera prima, da Mosimann’s, si erano trovati di fianco al buffet, e tra un bicchiere e l’altro avevano scoperto di avere studiato entrambi a Cambridge, anche se in college diversi. Greene era stato un alunno del St. John’s, un college famoso, fra l’altro, per lo sport; e aveva tenuto a ricordare di aver fatto parte della loro squadra agonistica di canottaggio, il famoso «Lady Margaret Boat Club» – o Maggie, come lo chiamavano là. Giuliani rifletté che le ore passate a remare si vedevano tutte. Gli ricambiò lo sguardo. Anche nella semioscurità della


stanza, riusciva a vedere il verde smeraldo dei suoi occhi. Avvertì un lieve brivido. «Buongiorno!» lo salutò a sua volta Greene. «Ecco il mio regalo di Natale, tutto fresco di doccia. Hai trovato il rasoio?» Giuliani si sentì arrossire. «Sì, grazie. Come stai?» «Divinamente. E tu?» «Benissimo. Mi spiace di averti svegliato.» «No, figurati, tanto anch’io devo andare in studio. Sei in piedi da molto?» «No, sarà una mezz’oretta. Ho dato un’occhiata in giro, spero che non ti dispiaccia. Complimenti, proprio una bella casa.» «Grazie, sono contento che ti piaccia. Mi casa es tu casa.» «Dove siamo, esattamente? Direi Chelsea ma non ne sono sicuro. Sai, ieri sera non ci ho fatto molto caso.» «Sì, sì, siamo a Chelsea. Cheyne Walk, per l’esattezza.» «Bello. C’è una vista stupenda.» «Sì, sono stato fortunato a trovare questo posto, gli appartamenti qua vanno via come fulmini.» «Sembra una casa molto antica.» «Non tantissimo, è della fine dell’Ottocento, però è piena di storia. Sai che qui ci ha vissuto Ian Fleming? È qui che ha iniziato a scrivere la serie di 007. Ma non solo lui, anche Henry James, T.S. Eliot e Somerset Maugham hanno abitato qui. Lo chiamano l’Isolato degli Scrittori.» «Be’, come dite voi, quite impressive. Vivere qui deve stimolare la fantasia.» «Sì, in effetti credo proprio che la stimoli. Vieni qua.» «No, non posso, devo essere in aeroporto alle dieci, non voglio fare le cose di fretta.» «Hmm. Quando fai così sembri più italiano che inglese.» Giuliani rise, iniziando a vestirsi. «Può essere. In effetti quanto a spensieratezza gli italiani sono sopravvalutati.»


«Be’, italiano o non italiano, questo vuol dire che dovrai tornare», replicò Greene. «Questo volentieri.» «Perché non vieni per Natale, o per Capodanno? Possiamo stare un po’ qui, oppure andare al mio club a Dover e uscire un po’ in barca. Anche d’inverno è bellissimo.» «Guarda che ti prendo in parola» gli rispose Giuliani fissandolo negli occhi. «Sono serio», rispose Greene sostenendo il suo sguardo. «Facciamo così», disse Giuliani. «Mi presti una cravatta, così sono obbligato a tornare». Esitò un attimo, poi aggiunse «E poi così avrò qualcosa di tuo nel frattempo.» Greene si alzò. «Affare fatto». Aprì un armadio e tirò fuori una cravatta rossa ornata di tanti piccoli stemmi bianchi raffiguranti un’aquila sopra una corona. «Prendi questa. E guarda che è una cravatta speciale, la può avere solo chi ha gareggiato per il Maggie ai Bumps di maggio in Barca Uno. Da non confondere con quella di Barca Due, praticamente uguale ma con in più delle righe bianche che ordinano gli stemmi in diagonale.» «Be’, Liam, non so che dire… Mi sembra troppo.» «No, non è troppo. Diciamo che hai fatto i Bumps anche tu. E poi è solo un prestito, e intendo riscuoterlo presto.» «Va bene, se è così allora accetto», capitolò Giuliani. Guardò l’orologio. «Mi spiace andare.» «Lo so. Anche a me spiace che te ne vada.» Mentre si allacciava la cravatta, Giuliani gli lanciò un’occhiata attraverso lo specchio dell’armadio. «Sai, fino a ieri sera non avevo mai immaginato che tu…» disse con voce esitante. Nello specchio, i loro occhi si incrociarono. Un vuoto nella pancia. «Riusciamo almeno a fare colazione insieme?» Greene ruppe il silenzio. «Qui all’angolo c’è una brasserie dove fanno dei croissant favolosi.»


«Ma se sei ancora a letto…» «Dammi solo cinque minuti e sono pronto.» E cinque minuti dopo erano in strada. A Giuliani Londra non era mai sembrata così bella.


Venerdì 20 dicembre 2013, ore 12:00 Milano

«Scusa, Fabio, mi dai una mano?» Fabio Mengoni tirò i piedi giù dalla scrivania e si voltò verso la porta. Cazzo, ancora quel rompicoglioni di Laurenzi. Ma possibile che mentre tutti in studio ormai pensavano solo alle vacanze, proprio a lui fosse toccato l’unico praticante secchione? Rimise i piedi sulla scrivania e restò a guardarlo. Che cazzo gliene fregava. Aveva ben altro a cui pensare. Era il 20 dicembre. Il giorno dopo ci sarebbe stata la cena di Natale dello studio, e se l’avessero promosso a socio quello era il momento in cui l’avrebbero annunciato; solo che a lui non avevano ancora detto niente. Giuliani gliel’aveva promesso e ripromesso – e ci credo, dopo sette anni che si faceva un culo così, ma sta di fatto che al momento non gli avevano ancora detto niente e Giuliani era irreperibile. Quand’è che atterrava il suo aereo? Ricontrollò l’agenda per l’ennesima volta e calcolò che sarebbe stato in studio tra le due e le tre. Vaffanculo. Ancora tre ore. Appena arriva vado da lui e la chiariamo una volta per tutte, decise. Poi, se le cose vanno come devono andare… Pensò alla serata che si sarebbe concesso. Era perfino difficile immaginarla. «Fabio?» Mengoni sospirò. Proprio non voleva andarsene. Si vede che oggi è destino, pensò.


Lo guardò, lì sulla porta, con i suoi occhiali fuori moda, con la sua camicia da poco, con i pantaloni spiegazzati di chi viene da fuori e porta la roba da stirare alla mamma il fine settimana. Un po’ gli fece pena. Aveva iniziato anche lui così, e si ricordava ancora cosa voleva dire. «Sì, Guido?» Laurenzi era ancora lì sulla soglia, con un fascicolo in mano. «Scusa, volevo chiederti… Giuliani mi ha dato da studiarmi questa pratica intanto che lui era via. Io ci ho provato ma mi sono un po’ perso, non è che mi puoi aiutare un attimo? Ho visto che ci hai lavorato tu.» «Fammi vedere… Che pratica è?» «In anagrafica è archiviata come Special One.» «Ah, sì, Special One. Cazzo se ci ho lavorato, io e Giuliani ci abbiamo dedicato praticamente tutto l’anno scorso. È stata la prima SPAC italiana – la prima o la seconda, in effetti ci stiamo contendendo il primato con un altro studio che ne ha seguito un’altra chiamata Enterprise. Noi abbiamo fatto il filing in Borsa per primi, ma per una serie di circostanze la loro è stata ammessa alla quotazione prima della nostra, e da allora stiamo discutendo su quale delle due date faccia testo.» «Ecco, sì, la SPAC. Io mi son letto un po’ di carte ma non è che ci capisca molto, all’università queste cose non le abbiamo mai fatte, non sapevo neanche che esistessero…» Mengoni sorrise. Se a Medicina insegnassero a fare i medici come a Legge insegnano a fare gli avvocati, saremmo tutti morti, pensò. «Vabbè, va», fece Mengoni. «Mettiti qua che facciamo un recap.» Laurenzi si sedette tutto contento. «Grazie, Fabio.» «Facciamo un passo indietro. Tu sai cos’è un fondo di private equity?» Laurenzi sembrò illuminarsi. «Sì, questo lo so, me l’ha


spiegato Giuliani, e a novembre mi sono letto una decina di regolamenti.» «Allora prova a descrivermelo con parole tue.» «Be’, un fondo di private equity sostanzialmente è quello che in Italia definiremmo un fondo chiuso.» «Guido, non mi interessano le definizioni. Dimmi come funziona nella realtà.» «Nella realtà. Ok. Allora, in sostanza – almeno, per quello che ho capito – funziona così: c’è un gruppo di persone, diciamo di managers, che sono esperte nell’individuare aziende con prospettive di crescita e nel valorizzarle. Queste persone, questi managers, si mettono alla ricerca di investitori, e sostanzialmente gli dicono: se ci date da gestire i vostri soldi, noi andremo a cercare le aziende più interessanti sul mercato, cercheremo di comprarle alle migliori condizioni, ci lavoreremo su per migliorarle, e dopo qualche anno le rivenderemo a un prezzo che, grazie al nostro lavoro, sarà molto più alto del prezzo di acquisto. Alla fine, tutto il guadagno – ossia, in sostanza, la differenza tra il prezzo di acquisto e di vendita di queste aziende – viene ripartito tra gli investitori e i managers, ma i managers partecipano al riparto solo se gli utili già distribuiti agli investitori gli hanno fatto recuperare il capitale investito più una certa percentuale predeterminata.» Be’ – rifletté Mengoni – tende un po’ all’astrazione, ma non è stupido. «Bene, Guido, direi che fin qui ci siamo. E perché prima dicevi che questo si chiamerebbe un fondo chiuso?» «Perché, quando uno investe, poi non può uscirne quando vuole. Deve stare ad aspettare che finisca tutto il processo, che sia venduta l’ultima azienda comprata. La durata complessiva del processo è stabilita nelle regole del fondo e può variare a seconda dei casi, ma tipicamente i managers si danno cinque anni per acquistare aziende, cinque anni per venderle, e si riservano di prolungare il periodo di vendita


di un altro paio d’anni almeno, nel caso le condizioni non siano favorevoli.» «Ma gli investitori devono versare tutti i soldi subito?» «No, normalmente è previsto che li debbano versare solo se e quando i managers glielo chiedono – ossia, in sostanza, quando hanno individuato un’azienda da comprare; però dal momento in cui un investitore si è impegnato a versare una certa cifra non dovrebbe più potersi tirare indietro, se non sbaglio, e dunque quella cifra di fatto l’investitore la deve tenere a disposizione, non può più farci quello che gli pare.» «E questo vale solo per il periodo in cui i managers possono comprare, i cinque anni iniziali di cui mi parlavi prima?» «No, in realtà dovrebbe poter valere anche per tutta la durata del fondo, perché normalmente è previsto che anche dopo il periodo d’investimento, pur non potendo fare nuove acquisizioni, i managers possano fare degli investimenti aggiuntivi nelle aziende che hanno già comprato, se questo può servire a valorizzarle e a venderle meglio.» «Quindi chi si impegna a investire in un fondo chiuso sa che in ogni caso per almeno dieci anni non può più disporre della somma per cui si è impegnato?» «Be’, sì. Sì, direi di sì.» «Stai attento, Guido, ho detto in ogni caso.» «Mah, non so, Fabio, non saprei…» «Non ti preoccupare, Guido, ragiona con calma.» «Non so, sì, normalmente sono cinque anni per investire, più cinque per disinvestire, quindi…» «Sì, ma uno può disinvestire solo se ha investito…» «Ah, forse ci sono!» si illuminò Laurenzi. «In realtà il periodo per cui la somma è sicuramente bloccata sono solo i primi cinque anni! Teoricamente, potrebbe anche succedere che in tutti i cinque anni i managers non trovino nessuna azienda interessante da acquistare, e siccome dopo non possono più farlo, in quel caso il fondo finisce lì.»


«Bravo, vedi che ci sei arrivato? Intendiamoci, non è che fosse una cosa così importante; ma devi abituarti a cercare di immaginare sempre le ricadute pratiche delle regole, che siano le regole di una legge o le regole di un contratto; e non solo per quello che dicono, ma anche per quello che non dicono. Comunque non ti preoccupare, è una dote che si sviluppa col tempo.» Non era vero, e Mengoni lo sapeva. In giro c’erano tanti avvocati, anche anziani, che quella dote non l’avevano e non l’avrebbero avuta mai; ma Mengoni iniziava a pensare che quel ragazzo il potenziale lo aveva. «E per il resto come andava?» gli chiese timidamente Laurenzi. Si vedeva che ci era rimasto male. «Andava tutto benissimo, Guido. Si vede che ti sei applicato. Giuliani sarà contento.» L’altro arrossì un pochino, ma si vedeva che gli aveva fatto piacere sentirlo. «Adesso torniamo alle SPAC. Secondo te, da quello che mi hai detto, quali sono i punti critici del fondo chiuso?» Laurenzi esitò di nuovo. Ancora le ricadute pratiche. «Guarda, ti aiuto io. Uno è proprio quello che abbiamo appena visto.» «Cioè?» «Cioè il fatto che, una volta che uno ha investito in un fondo chiuso, deve tenere i suoi soldi immobilizzati per dieci anni o, nella migliore delle ipotesi, almeno per cinque. Non credi che questo a un investitore possa dare un po’ fastidio?» «Be’, sì, in effetti…» «E un altro punto critico è il processo di disinvestimento.» «E perché?» «Perché si fa presto a dire “dopo cinque anni vendiamo”; ma se poi non trovi da vendere? Sì, si può prorogare il fondo di un paio d’anni; ma se anche in quel paio d’anni non riesci a vendere, cosa succede?»


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