UNO
Ha cinquant’anni ed è bellissima, con il suo odore di umanità che balla gomito contro gomito, schiena contro sedere. All’inizio vestiva il rosa dei tavolini a stelo e dei pouf color malva che avevano preso negli anni la forma dei tanti culi accolti. È toccato a me darle una rimodernata, con cubi fluorescenti e poltrone color rame, una disco ball da soffitto e la macchina del fumo – poco usata, a dire la verità, perché fa un effetto nebbia che da queste parti riporta dritto al quotidiano. La pista è rimasta circolare, proprio come l’aveva voluta mio padre, il Carlin, con il palco per l’orchestra in fondo alla sala e una parete argentata a riflettere la luce e dare l’illusione che al Sorriso dancing club tutti possano brillare, nessuno escluso. Ovunque, i vetri fumé offrono a cavalieri e dame la possibilità di specchiarsi, anche solo di sfuggita, per sistemare la posizione dell’attacco e aggiustare l’approssimazione dei passi. Per il suo compleanno volevo una festa che fosse soprattutto piacere per il liscio, quello vero, fatto di valzer, mazurca e polca, senza neppure le contaminazioni del tango all’italiana. Un compleanno è un giorno fatto apposta perché gli altri ci dicano che siamo speciali, e cinquant’anni sono una tappa importante, da celebrare con tanta gente, qualche ricordo e la certezza di un domani ancora da ballare. È grazie a lei che la mia vita è diventata un giro di valzer senza problemi di stile e con più di un cambio di dama, a togliere stabilità all’insieme. Ho un nome preso in prestito da uno zio emigrato nell’Ohio
che aveva l’abitudine di chiamarmi all’americana. Porto la riga in mezzo e capelli scalati, ho addominale piatto e guance fresche di dopobarba giust for me. Mi chiamo Frank Saponara. Nato in Veneto, di famiglia polesana e nonno coratino. Figlio di proprietario di balera. Proprietario di balera. Ballerino di liscio. Tombeur de femmes. Nato cinquant’anni fa insieme alla balera, e cresciuto al suo fianco, anzi, dentro il suo stomaco. Per questa ragione, e per molte altre, lei merita la mia dedizione. Dedizione è una parola che non va più di moda, tipo torpedone, frigidaire e codesto, eppure per me è il tempo lento che prende la forma dell’attenzione, come una giacca su misura che non fa difetto sulle spalle. Per evitare le solite distrazioni, durante i preparativi appesi il cartello chiuso per festa prossima all’ingresso e spensi addirittura il cellulare, che troppo spesso mi vibrava nella tasca dei pantaloni. Misi un classico di Secondo Casadei in sottofondo, a un volume che permettesse alle mie scarpe di vernice di risuonare sulla pista dove avevo imparato a ballare ancora prima di riuscire a stare saldo sulle gambe. In quello spazio color antracite, a sette anni avevo sentito il mio primo odore di donna, a quindici anni ero stato lasciato e a diciotto avevo fatto l’amore nel guardaroba, tra una fila di soprabiti e a qualche gruccia caduta a terra. Avevo slacciato decine di reggiseni ed ero finito a fare la controfigura in un film senza trama. Avevo cacciato decine di ubriachi, consolato divorziati, sedotto vedove e mi ero innamorato. Per poi pentirmene. Sono sempre stato rigido in fatto di eleganza, al punto da infilarmi ogni notte nel letto con il pigiama in tinta con l’umore. Durante quel fine settimana di preparativi, preferii essere
indulgente con le regole alle quali io stesso mi ero obbligato, per concedermi qualche piccola comodità: arrotolai le maniche della camicia sopra ai gomiti e misi una fascia elastica sulla fronte per impedire al sudore di scendere sugli occhi. Lavorai senza sosta, concedendomi poche ore di riposo al giorno. Passai l’aspirapolvere, lustrai il pavimento, i tavolini e gli specchi, riassortii il bar di rum, grappe e degli elisir di lunga vita tra i migliori in commercio. Appesi decine di festoni e misi nei bagni qualche pianta di aloe che depurava l’aria dai cattivi odori e faceva green, come diceva l’Ancilla, mia madre, che era stata in collegio dalle Orsoline e parlava un po’ di inglese. E poi tulle. Chilometri e chilometri di tulle: vermiglio, giallo, viola e indaco. Tulle ovunque, a scaldare le colonne e i corrimano, i soffitti e i fari che avrebbero illuminato la serata. Spolverai le fotografie appese all’entrata, le stesse che avrei proiettato in formato gigante sulla parete argentata della sala da ballo grazie all’aiuto del mio amico Alcide Vanzetti, che si era dato disponibile a maneggiare il proiettore. Nel tardo pomeriggio, i musicisti degli Abramo’s bussarono alla porta sul retro, impazienti di salire sul palco per sistemare gli strumenti. Lucio Abramo, che prestava il cognome all’orchestra, si presentò con un paio di stivaletti con la zip: «Belle scarpe», gli dissi, fissando quelle punte esagerate. Mi strizzò l’occhio, quasi mi volesse rimorchiare, e si passò una mano tra i capelli regalati dalla moglie per un recente anniversario, a giudicare dall’improvvisa fioritura che lo rendeva un giovanotto. Per l’occasione aveva ingaggiato qualche elemento in più rispetto alla formazione tradizionale, per tornare a essere, almeno per una sera, il leader della grande orchestra che faceva ballare anche i sassi, quando il liscio era una moda per giovani e anziani: ai soliti basso, chitarra, batteria, fisarmonica, voce e sax, aveva affiancato un clarino, due coriste e un violino,
in omaggio a Carlo Brighi, lo Zaclén, che del liscio era stato inventore e padre. Avevo discusso vivacemente con Lucio, perché lo Zaclén gli pareva roba antica. Lui avrebbe voluto suonare qualche cosa di moderno – «Una beguine, un fox, almeno un ballo di gruppo» – e dovetti convocarlo nell’ufficio del primo piano per ricordargli le regole del locale: «Neanche se suoni gratis». Gli misi l’indice contro il petto: «Al Sorriso dancing club si fa il liscio, quello vero». «Sei vecchio dentro», si lamentò lui allungando le mani sulle mie sigarette Parliament Premium, che preferivo alle altre per via del pacchetto quadrato, adatto al taschino delle camicie da ballo. Mentre l’orchestra accordava gli strumenti, la cantante Leonora scaldava la voce nel microfono acceso, col disappunto di Lucio che faticava a imporle il silenzio, dato che se la portava a letto. Arrivò anche Giovanna Beltrame, detta la Beltra, storica bigliettaia e guardarobiera, unica dipendente del locale a tempo indeterminato insieme a Mariano Zanin, il barman, che, in ritardo di mezz’ora, entrò in sala fingendo una gran fretta, nella speranza di non essere rimproverato. «Un gin tonic», gli ordinai. «Con poco ghiaccio.» Mia madre e Zelindo Frassoni, l’uomo che si definiva il suo compagno, giunsero un paio di ore prima dell’inizio della serata per controllare che tutto fosse in linea con il buon nome del locale. In tacchi alti e abito crema con scollatura disinvolta, l’Ancilla avrebbe voluto occuparsi dei preparativi per la festa, ma io avevo insistito perché mi lasciasse fare. «È tutto perfetto», la rassicurai accompagnandola in sala e coprendola con un avanzo di tulle, che si buttò cortesemente alle spalle. «Te sì ón bravo putèlo, Frank», mi disse senza guardarmi, per timore di leggermi in faccia una preoccupazione o, peggio, una paura.
Zelindo Frassoni era un ingegnere in pensione che in gioventù aveva inventato una giostra per innamorati, diventata famosa come la Giostra del Sì. Era un uomo un po’ troppo presente, che voleva insegnare agli altri a campare: «Devi impugnare le maniglie laterali e usare tutte e due le mani», diceva al mio amico Vanzetti, impegnato a orientare il faro occhio di bue. Gli proposi un aperitivo per distrarlo dagli affari di Alcide che, dall’alto della cabina di regia, aveva il suo bel daffare. La sola assente ingiustificata era Barbara. Avevo insistito perché mi raggiungesse nel pomeriggio, ma lei aveva tenuto il cellulare spento per non farsi trovare. Fisarmonicista e cantante, era stata per un breve periodo la vocalist degli Abramo’s, prima che Lucio le preferisse Leonora. La frequentavo da qualche mese e mi piaceva il suo modo di intendere la musica e anche come faceva l’amore: sempre un po’ a metà, per non farsi sorprendere. L’Ancilla dubitava della mia capacità di stare con due piedi in una sola storia. Durante il compleanno le avrei stupite entrambe con una dichiarazione pubblica dal palco del Sorriso. Mi ero immaginato la scena insieme al Vanzetti, che ne aveva impostato la regia: luce su di me e mormorio del pubblico, che sulla mia stabilità affettiva nutriva più di un giustificato dubbio. «Barbara, mi vuoi…» Sposare? No, sposare no. Il matrimonio è un paio di scarpe troppo stretto: impossibile resistere per più di tre balli. Barbara mi vuoi, punto. Perché io ti voglio eccome. Se solo lei se ne fosse fregata di quella stupida faccenda degli Abramo’s… Provai a richiamarla dal telefono dell’ufficio, fino a quando la Beltra non bussò alla porta per chiedermi di scendere: «È ora», mi disse, «la sala è piena». «Beltra?» «Sì?»
«Stai una bomba.» Quel vestito di macramè, forse ricavato da un set di asciugamani ereditati dalla nonna, non poteva passare inosservato sul corpo di una donna di settant’anni che aveva trascorso tre quarti dei suoi giorni alla biglietteria e al guardaroba del Sorriso dancing club regalando un benvenuto a tutti e qualche ora di buon sesso a più di un amore di passaggio. «Anche tu stai bene, Frank.» Indossavo pantalone bianco, scarpa bicolore, camicia nera con collo a becco lungo e giacca magenta elettrico. Con l’esempio, provavo a educare lo stile nostrano di Bottecchio sul Po, che ultimamente prediligeva i completi in lycra e stretch, colpevoli di mettere in mostra i difetti fisici dei ballerini. Per i cinquant’anni del locale, ai miei ospiti chiedevo il rispetto del cerimoniale. Lo avevo anche scritto sui biglietti d’invito che erano stati recapitati casa per casa: obbligo di giacca per gli uomini e abito di gala per le signore. I ballerini si erano messi d’impegno, a giudicare dagli strass in coda alla biglietteria e dai numerosi frac, affittati al Pronto Moda del paese. Con un’ora di anticipo rispetto all’inizio ufficiale della serata la gente già premeva per entrare e io disciplinavo la fila, come mi aveva insegnato mio padre: «Buonasera», salutavo l’ingegnere Labardella, Alessandrino, il Cacin e Nazareno, inseparabili compagni di carte del circolo Il Cremlino. «Benvenuti», dicevo stringendo la mano al sovraintendente Papa Giovanni e signora, agli alunni dell’annuale corso di ballo, al comitato della Festa delle Rane e al gruppo di catechesi parrocchiale, presentatosi compatto nonostante gli anatemi di don Vincenzo, detto ‘l Brulé, che lo aveva messo in guardia dalle tentazioni della carne e dalla dissolutezza del ballo. Un «Accomodatevi», poi, a Paolo e Maria Casarini, campioni
italiani di liscio unificato, e ai fratelli Licia e Teodoro Varin, gli alunni più promettenti dei miei corsi del martedì, motivati a vincere la gara in programma per la serata. «Hai fatto le cose in grande, Frank.» «Ho fatto del mio meglio, Rebecca.» Rebecca Lazzarin era la migliore amica di mia madre. Lei e Ancilla erano state compagne di classe dalle Orsoline e non si erano mai separate, neppure quando la figlia di Rebecca, Ivana Colucci, mi aveva sedotto per poi lasciarmi per Eugenio Livore, detto il Ruza. Ivana era stata la mia prima ballerina di liscio e il mio primo odore di donna, quello che di tanto in tanto torna nell’aria a ricordarmi che i ricordi sono desideri che cambiano forma mentre si avvicinano. Il Ruza me l’aveva portata via e, ogni volta che mi incontrava, sollevava il mento e si sforzava di sembrare interessante. Eppure idiota come lui in paese c’era solo il bardotto dei genitori del Vanzetti, che aveva il muso schiacciato e, al posto di nitrire, grugniva da maiale. Il Ruza aveva due occhi poco intelligenti che osservavano di lato come fanno i bovini, piuttosto che guardare in avanti. Siccome non pronunciava bene le vocali, in bocca a lui le parole finivano per assomigliare a un lamento. Non aveva nulla – un particolare, un gesto, una predisposizione – che fosse di buon gusto. La sera del compleanno del Sorriso Ivana arrivò al braccio del marito e mi guardò con insistenza, quasi non fosse stata lei a preferirmi l’altro: «Mi riconosci, Frank?» Le tre gravidanze l’avevano trasformata e le avevano costretto le caviglie in un paio di collant contenitivi, a giudicare dallo sforzo del nylon nel trattenere le pieghe di carne, impilate le une sulle altre. «Per Ivana e sua madre un ingresso omaggio», dissi alla Beltra, asserragliata sullo sgabello della biglietteria, mentre il Ruza strizzava gli occhi per mettere a fuoco tutto il suo disprezzo.
Ivana indossava un vestito a fiori che provava a nasconderle le forme. Si era messa un paio di orecchini pendenti e un rossetto troppo scuro per la sua carnagione pallida. Eppure c’era qualche cosa in lei che mi attirava, al pari dell’adolescente che era stata. Mi avvicinai, chiusi gli occhi e mi chinai dove il collo le scivolava nella spalla. In quel punto esatto trovai quello che stavo cercando. 1974. Saponetta Lux. Il mio primo odore di donna. Quell’odore le era rimasto impastato nella pelle e mi diceva che ciò che passa non per forza finisce. Rebecca si intromise tra i miei pensieri e sua figlia. «A più tardi», disse trascinando Ivana e il genero dentro la sala da ballo. Nel suo abito a fiori, la mia prima ballerina di liscio sembrava un’avocetta decisa a migrare, che aveva sbagliato destinazione per difetto di orientamento. Me ne sarei fatto carico, se non fosse stato per il bardotto che si era sposata e per le sue caviglie gonfie che mi dicevano: «Rassegnati, Frank. La vita scorre e bisogna accettarla. Non si può ridisegnare». Le caviglie di Ivana, buonasera benvenuti, avevo in testa le caviglie di Ivana, le auguro una splendida serata, erano diventate enormi, l’aperitivo lo offre la casa, e portavano il peso di un’esistenza intera della quale sapevo poco o niente, selezione di vini locali, sauté di cozze e vongole di Scardovari, perché mentre lei si sposava partoriva invecchiava, risotto di folaga e tortini di bietola e patate, le sue caviglie sopportavano una storia che aveva un inizio, una direzione e una fine quasi certa. Alzai l’orlo dei pantaloni bianchi per guardare le mie, di caviglie, e fui sollevato nel trovarle solide, snelle e affusolate. Ma i calzini. «I calzini, maledizione!» Me ne resi conto solo in quel momento. Nella mia casa di go-
lena, ingannato dalla penombra di un abat-jour da atmosfera, li avevo scelti di un blu notte che, sotto le luci del locale, si rivelava del tutto differente dal nero assoluto della camicia. Proprio io, cascavo sull’abbinamento. Abbassai in fretta il pantalone e con un gesto disinvolto pettinai all’indietro i capelli da balera. Dovevo tornare a casa per rimediare allo sbaglio. Calcolando l’andata e il ritorno, ci avrei messo quindici minuti in tutto, non di più. Se lo avesse saputo, mia madre mi avrebbe rimproverato: «Non fare il bambino, Frank». Barbara invece ne avrebbe riso, con quel suo modo spigliato che non mi faceva troppo arrabbiare. Ero così attaccato alle regole che io stesso mi dettavo da non riuscire a godermi gli sbagli, diceva lei, e aveva ragione: era un’eredità che dovevo a mio padre. Mi incamminai verso l’uscita, evitando la gente ammassata davanti al buffet poco distante dal palco sul quale Leonora, in abito lamé, piazzava un tanti auguri al Sorriso in mezzo a un classico del liscio. «Vanzetti!» chiamai, distraendolo dal ruolo di regista e tecnico, al quale si era votato per la serata. «Che c’è?» «Me ne vado.» «Dove vai?» «A Ca’ Silente.» «A fare che?» «Sono cose personali.» «Si tratta di femmine?» ammiccò. Non potevo dirgli che si trattava dei calzini. «Vado alla spiaja a prendere l’Emerenzin», mi inventai. Vladimiro Emerenzin era un amico stretto, benché fosse già un uomo quando io e il Vanzetti eravamo ragazzini. Era stato lui a iniziarci al Verduzzo e a farci scoprire le donne con certi giornaletti sconci che comprava in edicola. Non era un gran ballerino, soprattutto quando esagerava con il bianco leggermente
mosso, ma veniva volentieri al Sorriso per bere in compagnia e a mie spese. Viveva su una spiaggia di golena chiamata la spiaja de ‘l Mato, dove il ‘l Mato era lui, che aveva scelto di abitare vicino al Po in una roulotte senza acqua né corrente. Negli ultimi tempi non abbandonava mai la sponda, perché si era messo in testa di difendere il fiume dai lipoveni, romeni di etnia russa che avevano scelto il Po per sopravvivere dopo che le autorità del delta del Danubio avevano messo seri limiti alla pesca. I lipoveni cacciavano soprattutto il pesce siluro che non piace agli italiani, ed erano diventati l’ossessione dell’Emerenzin. Il più odiato era Bogdan Sokolov, cinquantenne proprietario di una barca con una sola luce a prua del tutto fuori legge e di un furgone bianco con il quale, ogni settimana, partiva per la Romania per smerciare il suo carico di pesce di frodo. Avevo insistito perché l’Emerenzin venisse alla festa del Sorriso: «Ci devi essere». Lui era stato irremovibile: «Ho cose più importanti da fare». Doveva difendere la spiaggia dall’odiato Sokolov. Provare un’ultima volta a convincerlo sarebbe stata una scusa più onorevole, rispetto ai calzini blu notte che non stavano con la camicia. Il mio piano fu smontato dall’Ancilla e da Zelindo Frassoni che mi travolsero a pochi metri dall’uscita mentre affrontavano il giro sinistro del valzer, sguardo nello sguardo, teste vicine e presa delle mani troppo decisa. Le spalle di entrambi erano convergenti e mio padre avrebbe provato orrore per la postura molle e l’eccesso di confidenza: «Gomiti aperti, tutti e due. Piedi uniti, spalle morbide», li avrebbe richiamati. Ma il Carlin non c’era più e i due piccioni si godevano la libertà dell’imprecisione. Poco distante i fratelli Licia e Teodoro Varin sfoggiavano la solidità dei fondamentali che avevano imparato da me durante le lezioni di ballo del martedì sera. «Frank, mi concedi una mazurca?» mi sorrise Licia, che aveva la bocca larga come
i videoregistratori di una volta, dove si infilava la cassetta dal lato lungo. «Più tardi, ti ringrazio.» Pamela Signorini trasportava verdura per una cooperativa locale e aveva una motrice tatuata sulla scapola: «Balliamo», mi invitò, acchiappandomi per il collo mentre si ficcava di prepotenza tra le mie braccia. Nonostante il piglio fermo ballava aggraziata e si lasciava guidare, proprio lei che nel quotidiano non permetteva a nessuno di tenere il volante. Eravamo anche andati a letto insieme, un paio di anni prima, e non era andata affatto male. «Non ti distrarre», mi sgridò. Gli Abramo’s attaccarono Simpatia dei Casadei e io e la mia dama iniziammo a girare e girare sulla pista, in fuga dai fratelli Varin che stavano al passo, per superare il maestro e dimostrare a se stessi che ce la potevano fare. Seduta in un angolo del locale, con un tovagliolo di carta sulle ginocchia e un tortino di bietola in bocca, Ivana mi osservava con un’ombra di risentimento negli occhi. Cosa fai, Frank? Come ti permetti, Frank? Sei proprio un cafone, Frank. L’orchestra suona Simpatia dei Casadei. Tu sei la mia simpatia, simpatia, simpatia. Su questa canzone, io e te abbiamo imparato a ballare. Te lo ricordi? Certo che me lo ricordo, Ivana: era un’eternità fa, quando tutto ci sembrava ancora possibile. Attorno a noi la giovane ballava con il vecchio, il grassone con la tazzina, il pelato con la svampita, la stanga con l’adolescente. Le coppie partivano alla conquista del loro metro quadrato, due passi a destra e due a sinistra, ed era tutto un incollarsi di camicie e gomiti e petti e sguardi in quel luogo così speciale che è la pista, dove la vita rinuncia a presentare il conto, anche per una sera soltanto. Provai a scaricare la mia dama al Cacin, che si era proposto
per una polca, ma fui centrato in pieno dall’occhio di bue del Vanzetti, che posò la sua luce su di me per poi spostarsi su un drappello di gente raccolto all’ingresso della sala. «Che succede?» domandò mia madre. «Vedo un uomo… No, è una donna. Un uomo e una donna, lui in giacca rossa e lei in abito oro, con un corpetto a fiamma di inferno vivissimo.» Mia madre la conosceva bene. La donna era Regina Dita Urbonaite, in arte Kristelle. Bionda, biondissima, di occhi verde lago e carnagione bianca, offriva baci volanti e nessuna stretta di mano, ché, nel suo mestiere, vedere era di tutti ma toccare solo di qualcuno, e si girava a destra e a sinistra per regalare sorrisi e battiti di ciglia. Negli anni Novanta, era stata una star dei film senza trama, di quelli che l’Emerenzin mi portava a vedere al cinema Eden di Treviso una volta ogni sei mesi per non farmi prendere il vizio. Divenne famosa in tutto il Polesine quando il regista Pino Strassette scelse Bottecchio sul Po per girare alcune scene del film Fughe notturne di una badante lituana, con la i al posto della prima u, nel titolo originale. Il paese ne fu sconvolto, e io con lui, per l’invidia dei suoi abitanti nei secoli dei secoli amen. Tra me e Kristelle ci fu una storia di amore e sesso che durò quasi tre anni e terminò senza ragione o, meglio, senza che io ne conoscessi la ragione. Da quella stramba conclusione il mio amico Emerenzin si inventò una massima che consacrò la sua solida carriera di poeta di paese: gli amori eterni si concludono con un punto di domanda, scrisse su un sasso di fiume che lui stesso battezzò pietra del buon consiglio. «Bella cazzata», gli dissi io. «Già», si limitò a confermare. Dove vanno a cacciarsi le pornodive che invecchiano, era un dubbio personale che finiva con il poetico punto di domanda
dell’Emerenzin. Aprono un ristorante, investono nel gioco d’azzardo o si ritirano alle Canarie, insieme ai pensionati italiani desiderosi di benessere. Oppure escono dalle torte degli addii al celibato, partecipano alle gare di lotta nel fango o fanno le comparse alle feste di paese. Qualcuna vede la Madonna e si converte, ma solo per finire sui giornali. La maggior parte diventa attrazione per le serate-nostalgia, come Kristelle che per il compleanno del Sorriso si era presentata in balera senza invito, insieme a Icaro Milan, in cerca di pubblicità per il nightclub da poco inaugurato ad Adria. Icaro Milan era figlio dell’ex proprietario dello storico circolo Il Cremlino, ma non aveva imparato nulla dal padre partigiano: non il coraggio, non la voglia di lavorare, non la dignità. Aveva svenduto il circolo a due cinesi, che pagavano in contanti, per mettersi nel giro dei night, che erano la sua passione insieme alle motociclette Kawasaki. «Saponara!» mi chiamò a gran voce. «Corri a vedere chi ti ho portato. È ancora carne fresca, nonostante gli anta», disse facendo rimbalzare la mano sul sedere di Kristelle, quasi fosse uno scamone da brasato. Lei mi venne incontro, allargando le braccia, come per ricominciare là da dove si era fermata troppi anni prima. Sentii il sangue migrare dalle estremità al collo, per poi risalire verso le guance, la fronte e l’attaccatura dei capelli. Gli Abramo’s approfittarono della mia evidente confusione per attaccare un brano di Enrico Musiani, accolto con entusiasmo dal popolo del liscio. Dubbioso tra riportare l’ordine nel repertorio musicale o finire dritto tra le braccia di Kristelle, scelsi la prima possibilità. Girai i tacchi e puntai verso il palco, seguito dalla diva e dall’occhio di bue del Vanzetti, che mi privava di qualsiasi intimità. Mutandine ricamate, ricamate di seta nera, belava Leonora, decisamente calante. Aveva ragione Barbara quando diceva che la ragazza aveva belle gambe, ma non sapeva cantare.
«Aspettami», riconobbi l’accento lituano, non russo, come precisava ogni volta, «è passato qualche anno.» «Sedici.» «Fermati.» «Non posso, ho una cosa urgente da fare.» «Frank!» Mi girai a guardarla. Aveva poche rughe ma, in prossimità del collo, la giovinezza lasciava spazio all’età. Il labbro superiore, gonfio di chissà quale sostanza, premeva verso il basso per umiliare l’inferiore, che spingeva in direzione opposta. Il trucco le addolciva i contorni del viso, e rendeva l’insieme innaturale. Per fortuna gli occhi erano ancora verde lago, con un trampolino marrone al principio della pupilla destra che invitava ad avventurarsi nell’iride. Mi ero immaginato quel nostro incontro decine e decine di volte. Frank? Kristelle. Prendimi, Frank. Ti prendo, Kristelle. Ti stringo tra le braccia, ti sussurro parole d’amore in un orecchio, ti sbatto al muro e ti strappo il vestito in mezzo alla sala, qui e ora, davanti al mondo. Invece mi ritrovai a tifare per il labbro superiore e a fissarle le rughe del collo, come si fa davanti a un tronco per scoprire l’età dell’albero. Kristelle si portò la mano alla bocca, e poi giù, dal collo al petto. «Ti trovo bene», disse. «Sei invecchiata.» Non, non sei invecchiata. Mi era mancato il non. «Anche tu sei invecchiato», si risentì. «Bella se vuoi venire sotto la quercia antica», cantava Leonora, e ai ballerini scappò una risata volgare. Detestavo il liscio facile che fa
rima con pazzo e diga, che era sempre più di moda da quando le orchestre-spettacolo provavano a riconquistare i giovani che al valzer preferivano la disco-dance. Salii sul palco e strappai il microfono alla cantante, tra i fischi del pubblico che continuava a danzare. «Te lo dico sempre, Saponara: sei vecchio dentro.» Me ne fregai del giudizio di Lucio Abramo, e intimai all’orchestra di sfumare in un brano dello Zaclén. Chiesi a Mariano un gin tonic con poco ghiaccio. «Tutto bene?» si informò il barman. «No, grazie.» Avevo sempre creduto che ciò che non si vede semplicemente smette di esistere, invece Ivana Colucci e Kristelle si erano presentate al Sorriso per dirmi che mi sbagliavo. «Sei mai stato innamorato?» domandai a Mariano per distrarmi dai miei trascorsi amorosi. «Una volta soltanto. Suo padre era giornalista e l’aveva chiamava Leica, come la macchina fotografica. Era bella, ma, lo confesso, Frank: l’ho lasciata per colpa dei suoi piedi. Mia nonna diceva che il secondo dito più lungo del primo è segno di cattiveria.» Mi porse il gin tonic senza ghiaccio che mandai giù tutto d’un fiato, per ritrovare la necessaria concentrazione. Da lì a pochi minuti sarei risalito sul palco per pronunciare il discorso di buon compleanno del Sorriso che avevo scritto di persona, nero su bianco. Lo avevo provato per settimane davanti al Vanzetti e all’Emerenzin, che mi davano consigli sul tono della voce e sulla presenza: «Tieni la testa di tre quarti, uguale ai divi della televisione», insisteva Vladimiro, ma io non ero un divo della televisione e mi sentivo scomodo dentro l’obbligo del tre quarti che Barbara mi aveva proposto di accantonare, per essere comodamente me stesso. Barbara, però, non c’era: «È arrivata?» domandai alla Beltra. «Sono arrivati tutti, anche gli indesiderati, ma lei no. Non si è vista», rispose. «Questa volta che cosa hai combinato?» mi do-
mandò con un’occhiata troppo alta di sopracciglio per non essere un giudizio. In un paio di occasioni, la Beltra era stata coinvolta nelle mie faccende amorose e mi aveva sostituito nelle bugie e soprattutto nelle scuse. «Non le ho fatto niente di male», la rassicurai, dandomi un’ultima pettinata allo specchio del guardaroba. «Meglio così.» Mi aggiustò il risvolto della giacca, con quel misto di orgoglio e premura che le mamme riservano al primo giorno di lavoro del figlio ingegnere. «Ti ricordi quando lo abbiamo fatto qui?» le dissi, per spazzare via la tenerezza. Al tempo della mia prima volta ero appena diventato maggiorenne e non riuscivo a fare pace con l’idea che Ivana Colucci mi avesse preferito il bardotto. «Putèlo!» mi richiamò, e finse di darmi uno schiaffo. «Sì che me lo ricordo, ma non c’entra con la serata. Piantala di dire stupidate e sali su quel palco. La gente aspetta il tuo discorso.» «Beltra?» «Sei noioso…» «Hai mai detto a mio padre di noi due?» «Tuo padre era un uomo intelligente, Frank.» Quella donna era tutta generosità e abbondanza. Me la sarei portata a casa e l’avrei ficcata nell'armadio insieme a un sacchetto di naftalina, per impedirle di guastarsi o cambiare.