All’ombra dell’impero

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Š 2013 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano ISBN 978-88-6852-036-6


dai ricordi di artan hagopian

Un inaspettato bussare non è mai foriero di buone notizie

È nell’ordine naturale delle cose che il nostro cuore balzi in gola all’improvviso se di notte – fossimo anche svegli e stessimo leggendo un buon libro davanti a un caminetto acceso – qualcuno si presentasse inaspettatamente alla nostra porta e bussasse freneticamente. Così successe a me il 18 ottobre 1890, poco prima della mezzanotte. Di norma sono un uomo che non s’impressiona facilmente, ma quella volta fui colto alla sprovvista, complice lo slivovitz che avevo bevuto dopo cena e una certa stanchezza dovuta a un’intensa giornata di lavoro al negozio. Avevo appena finito di arrotolare una sigaretta, quando l’insistente rumore mi costrinse a indossare una vestaglia e a dirigermi a passo rapido verso l’ingresso di casa, con l’animo in parte seccato per l’ora tarda e in parte incupito dalla preoccupazione. Aprii la porta e riconobbi il giovane servitore egiziano di sir Burton, un ventenne dinoccolato, con la pelle scura segnata da qualche malattia contratta da bambino, abbigliato in maniera dimessa e con un’espressione serissima stampata in volto; proprio lui, che solitamente pareva affetto da una paralisi facciale che lo condannava all’allegria perenne. «Signor Artan Hagopian, il mio padrone ha chiesto di voi. È urgente.» Il suo forte accento mediorientale e il tono grave resero lugubre quella semplice comunicazione. Io, che stavo in piedi sulla soglia, tre gradini più in alto, annuii lentamente e con un gesto automatico accesi la sigaretta dopo aver preso i fiammiferi da una tasca dei pantaloni. Per spiegare la flemma con cui accolsi la notizia, dirò che fu in buona parte dovuta alla mia educazione orientale, che predilige una pacata riflessione alle reazioni nevrotiche tipiche degli europei, e ciò mi porta a voler chiarire come il mio nome, per metà albanese e per 7


metà armeno, sia dovuto a un bizzarro incontro, accaduto in terra ottomana, tra una carovana di mercanti che portava tappeti verso Istanbul e una delegazione di dignitari provenienti da Tirana. Sta di fatto che mi ritrovai in uno di quei momenti della vita in cui il tempo e i pensieri sembrano fermarsi. Il cielo era privo di stelle e il silenzio sepolcrale, come se il mondo, l’intero universo fossero in attesa di un terribile accadimento. Lanciai un’occhiata alla carrozza di Burton che stazionava in strada. Il cavallo scalpitò. Il vetturino lo rabbonì con un paio di fischi sommessi, si tirò su il bavero del cappotto e si calcò il berretto in testa. Una civetta fece sentire il suo grido. La scena mi fece pensare a un cupo quadro fiammingo, e mi riebbi soltanto quando una campana in lontananza batté i dodici tocchi. «Sta molto male?» domandai lasciando uscire il fumo dalla bocca. Il servitore guardò a terra e assentì. Rientrai in casa per vestirmi, e quando ne uscii vidi che si era accomodato a cassetta, di fianco al vetturino. Io salii dietro, mi accoccolai sul sedile e incrociai le braccia al petto. Ricordo che tiravo su con il naso in maniera insistente, come faccio spesso quando sono nervoso. Da anni sapevo del compito che mi sarebbe toccato alla morte di Richard Francis Burton, ma, per quanto possibile, mi ero sempre imposto di non pensarci, e ora… Avevo conosciuto sir Burton dieci anni prima, quand’io ne avevo trenta e lui quasi sessanta. Era entrato nel negozio di cineserie e artigianato orientale che avevo da poco aperto a Trieste e aveva espresso alcune considerazioni su certi oggetti provenienti dal Kashmir. Non sapevo chi fosse quel gentiluomo, ma avevo subito compreso di trovarmi in compagnia di un esperto che non sarei stato in grado di abbindolare com’ero uso fare con i ricchi borghesi triestini. Ammisi che si trattava di riproduzioni recenti, più adatte all’arredamento di qualche locale pubblico che alla collezione di un appassionato. Espressi il concetto in inglese, per metterlo a suo agio, e lui, infatti, rimase talmente soddisfatto dalla risposta che volle saperne di più sul commercio che portavo avanti. Con il passare del tempo le sue visite al negozio si erano fatte più frequenti, ricambiate dalla mia partecipazione alle cene organizzate da lady Burton, e come succede tra uomini che il destino aveva vo8


luto s’incontrassero, l’approfondimento della reciproca conoscenza rivelò tra noi una certa affinità di pensiero, nonostante gli anni che ci separavano e lo stile di vita notevolmente diverso. Infatti, l’esistenza di sir Burton – che tra le altre cose era console britannico a Trieste – era stata ricca di avventure che venivano narrate e ingigantite nei salotti di mezza Europa, costellata di scandali e di grandi slanci culturali, mentre la mia era quella di un tranquillo commerciante che ormai viaggiava solo per lavoro. Condividevamo, però, la passione per l’Oriente e, soprattutto, un certo interesse per gli aspetti esoterici della sua cultura. Fu su quei temi che la nostra amicizia si trasformò in un rapporto tra maestro e discepolo. La carrozza raggiunse Villa Gossleth in meno di mezz’ora. Il servitore egiziano si affrettò a scendere per aprirmi lo sportello. Forse si trattò di uno scherzo della mia immaginazione, ma l’atmosfera della casa mi sembrava diversa dal solito, quasi gotica, sebbene nulla fosse cambiato nell’arredamento e le luci fossero tutte accese. Fui accompagnato verso una camera al piano superiore e invitato a entrare. Burton era disteso a letto, con il busto leggermente sollevato e sostenuto da due voluminosi cuscini bianchi; la pelle di bufalo che utilizzava come coperta lo copriva fino all’addome. Indossava la casacca di un pigiama a quadretti, aveva i capelli tagliati cortissimi e il pizzetto folto ma ben curato. Teneva gli occhi chiusi e le mani sul petto, incrociate l’una sull’altra, come se stesse facendo le prove da morto, tanto che al momento pensai fosse già accaduto l’irreparabile. Nell’aria aleggiava quell’odore indefinibile che spesso emana chi si trova sulla soglia tra questo e quell’altro mondo. Sua moglie, una donna corpulenta di circa sessant’anni, abbigliata con un vestito grigio chiuso sotto al mento e lungo fino alle caviglie, gli sedeva accanto. Era profondamente religiosa e probabilmente stava pregando, il che poteva spiegare la postura di lui, che invece era in odore d’islamismo e di certo non si lasciava scappare l’occasione per polemizzare, anche in punto di morte. Lady Isabel Burton mi guardò indirizzandomi un cenno di saluto con il capo e uscì dalla stanza senza dire nulla, tenendo gli occhi bassi. Quando Richard sentì il battente che si chiudeva, aprì le palpebre ed esplorò la camera con lo sguardo. 9


«Amico mio», disse tentando un sorriso, «avvicinati.» Io mi accostai al letto. Con il suo solito piglio autoritario, lui alzò la mano sinistra per farmi tacere e disse: «Ascoltami con attenzione. Sai già cosa ti aspetta, e nessuno di noi due può cambiare ciò che è stato deciso a suo tempo. Io ti avevo fatto la proposta e tu avevi accettato. Ricordi? All’epoca eri emozionato come un bambino. Ora devi onorare l’impegno». Si fermò per qualche istante, la sua faccia si contrasse. «Abbi pazienza, ho dei forti dolori alle gambe», disse. «Richard, non è detto…» «Artan, non è il caso che rovini tutto proprio alla fine. Sappiamo entrambi che la mia morte è vicinissima, una questione di ore, forse meno. Le persone come noi, queste cose le sentono nell’aria, giusto?» Strizzò l’occhio destro. «Apri il cassetto del comodino.» Obbedii. Dentro c’era una scatola quadrata di circa quindici centimetri di lato e alta tre, interamente d’argento. Era lavorata a sbalzo con un’ape stilizzata al centro di un disegno geometrico di fattura orientale. «Prendila», intimò la voce roca, ma ancora ferma, di Burton. Afferrai la scatola e un brivido mi scosse. Tirai su con il naso rimanendo immobile, paralizzato dalla consapevolezza dell’enorme responsabilità che stavo per caricarmi sulle spalle. «Amico mio, ora sei tu il custode. Mi raccomando, scegli bene il tuo successore e istruiscilo come io ho fatto con te.» «Ma…» «Non sei più tutto dita e pollici. Hai imparato bene ciò che ho potuto insegnarti. Adesso vai, non voglio che tu sia qui quando succederà. Isabel ha già chiamato il medico.» Infilai la scatola nella tasca della redingote e afferrai la mano destra di Burton per l’ultima volta: «Maestro… Richard…» «Niente smancerie, vai», mi intimò con la poca forza che gli restava. «E fa’ ciò che devi. Addio.» Diedi un ultimo sguardo all’espressione perennemente corrucciata di sir Richard Francis Burton, girai sui tacchi e uscii dalla stanza combattendo contro l’impulso di voltarmi. Non ce la feci, però, a trattenere le lacrime.

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