Intanto anche dicembre è passato

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Hitler venne ad abitare da noi durante l’autunno del 1961. Pioveva a dirotto quando per la prima volta lo vidi varcare il portone di casa, mentre via Cesare Abba sembrava a un passo dall’inondazione che anticipa il giorno del giudizio. Lo zio, perché così nonno mi spiegò che avrei dovuto chiamarlo, sotto l’impermeabile blu allacciato in vita, roba da cantante per gondola sotto il Ponte dei Sospiri, appariva come un uomo minuto, quattro ossa incatenate; gli tremava visibilmente la mano, e se ne stava in un angolo rosicchiato dai pensieri: un debito da restituire entro il mese, un procedimento penale per avere scaricato abusivamente dei calcinacci in strada, una denuncia per cannibalismo, così fino al genocidio. Ciononostante, sia pure in modo tutto suo, riusciva a essere di compagnia: soprattutto quando raccontava di battaglie con i musi dei carri armati pronti in prima linea, lo faceva con impeto particolare, che gli cresceva dentro veloce come un rampicante. Zio Hitler si piazzò nella stanza che nonno Giuseppe gli aveva messo a disposizione a pianterreno, la stessa dove accatastavamo le bombole del gas esauste e gli attrezzi dimenticati dai manovali che stavano innalzando il piano di zia Gioconda. Da dove zio Hitler fosse piombato fino a noi, almeno allora, non riuscivo a capire. Piombato come un vagone, non c’è termine più esatto e sinistro in questo nostro caso. «Viene da fuori», così spiegava il nonno, agitando la mano come neppure Papa Giovanni il giorno del Corpus Domini, a chi gli chiedeva se per caso si trattasse di un ex suo nemico della


Grande Guerra in grigioverde, berretto di panno, maschera antigas, fasce gambali e gavetta, la casa distrutta dagli obici, un reduce finito in difficoltà, tagliando così corto. Resta che zio Hitler, perché, ripeto, ci era stato presentato con accluso titolo familiare, ufficialmente sembrava essere stato ingaggiato per ritinteggiare le pareti di casa ormai opache come come il Cenacolo di Leonardo da Vinci dopo secoli di fumo nero di candela. Diceva, infatti, il nonno che mancavano alla tempera dal 1941, l’anno in cui mio padre, Ignazio Abbate, detto Totò, era stato spedito in Africa Settentrionale con le piume di bersagliere, nel 7° reggimento, in guerra. Pare che il nonno avesse recuperato Hitler davanti alla torrefazione poco distante la caserma degli autieri, dove Giuseppe lavorava come capo sarto militare, un casamento in stile liberty inglese occupato da molte lavoranti messe lì a cucire, a rammendare, a smacchiare, e credo che con alcune di loro, lui, Giuseppe Politi, così il nome completo, ci andasse a letto, tra i cappotti di panno cachi da sistemare e appunto smacchiare buttati sui tavolacci. Nella stessa caserma di via Generale Antonio Cantore, l’Autocentro, durante la festa del 4 di novembre, giorno della Vittoria sui conterranei di Hitler, avevo assistito a una dimostrazione fantastica: lo smontaggio e il rimontaggio di una jeep in tempo reale davanti alla tribuna dov’erano gli ufficiali con sciabola, elmetto, medaglie e fascia azzurra obliqua sulla drop: una dimostrazione della duttilità del mondo, un po’ come le istruzioni di montaggio care ai modellisti, tutti i pezzi ordinatamente predisposti l’uno accanto all’altro per essere assemblati. Tornando allo zio, la casa andava ritinteggiata dall’ingresso al salone, e anche i soffitti dei bagni supplicavano una mano di bianco, così come la camera che era stata di Gilda, la sorella più piccola di Gemma, mia madre, morta a ventitré anni di tubercolosi, quand’era soltanto una ragazzina.


Ora che ci penso, zio Hitler aveva con sé una valigia che conteneva un abito antracite di tessuto spesso, taglio anteguerra, che lo rendeva simile a un netturbino con fregio di latta, sacco e scopa. Aveva anche un pettine nel taschino che tirava fuori per rassettarsi la frangia e mettere a posto i baffi, che in realtà non c’erano. Infine, possedeva una borsa nera che non apriva mai. Ogni qualvolta qualcuno ci si avvicinava, lo zio guardava minaccioso, facendo espressioni da interprete del muto in cima allo sforzo drammaturgico, alla Salvo Randone. Zio Hitler all’epoca della ritinteggiatura di casa nostra aveva circa una settantina d’anni, sia pure ben portati; a vederlo in cima alla scala nell’angustia dei bagni, con il rullo imbevuto d’azzurro intenso, sembrava una prosecuzione dei cortometraggi di Stanlio & Ollio con mezzi di fortuna, senza contare i momenti in cui il nonno irrompeva nella stanza e, notando lo stato di non avanzamento dei lavori, lo prendeva a male parole, minacciando perfino di rimandarlo a casa. «Dove lo spediamo, nonno?» E lui: «A Berlino, se non finisce presto può tornarsene laggiù, che poi voglio vedere cosa gli dicono i suoi conoscenti appena se lo ritrovano a spasso ad Alexander Platz…» A quel punto, zio Hitler cominciava a imprecare in tedesco, si copriva la bocca con le mani e sembrava volesse così scacciare i pensieri della possibile imminente disoccupazione e soprattutto, immagino, dell’accoglienza da parte dei conterranei. Il nonno, intendiamoci, non era cattivo, desiderava soltanto che i lavori fossero eseguiti con la cura necessaria. Perché l’altro, per la prestazione, riceveva un regolare compenso in lire, più vitto, alloggio e marchette sul libretto di lavoro, sia pure intestato a un prestanome per comprensibili ragioni. «Cosa cazzo vuoi di più, dopo tutto quello che hai combinato, eh, stronzo?» Così una volta ho sentito il nonno dirgli, proprio lui che mai usava certi toni.


Per scusarsi, lo zio, a quel punto, si trasfigurava in commesso correndo in edicola ad acquistare il «Quattroruote» destinato a mio padre; peccato che sulla via del ritorno lo sfogliasse nervosamente sgualcendo le pagine, un crimine che faceva imbestialire papà. Immagino che Hitler cercasse lì dentro soprattutto traccia di un mezzo anfibio, una sorta di jeep di produzione tedesca del tempo del fronte orientale, un mezzo con ruota di scorta imbullonata sul cofano anteriore, e non trovandola si spazientiva ricominciando daccapo. Sempre Hitler, leggeva prestando attenzione, vai a capire il perché, alla capienza d’ogni singolo bagagliaio. Quanto più era profondo quel vano, tanto più l’auto era conveniente, in grado di rispondere a ogni esigenza, perfino di fuga; al contrario, nulla gli importava della vettura a turbina della Fiat, con la sua livrea bianca e rossa, che in quei giorni sembrava sfrecciare sulle piste di collaudo del mondo intero, come messaggio di progresso. Hitler, il giorno in cui si presentò per la prima volta da noi accompagnato dal nonno, mi porse perfino un regalo, custodito dentro un foglio di giornale dove era scritto che il generale Charles De Gaulle, un palo francese allampanato con i baffi, era stato eletto presidente della Quinta Repubblica. Quanto al dono, si trattava di un soldatino tedesco di pasta, marca Elastolin, un sergente istruttore della Wehrmacht, letteralmente «forza di difesa», l’esercito del «Reich millenario», con bustina, pugni appoggiati ai fianchi e frustino. Lo zio spiegò pure che il regalo veniva dal suo paese, la grigioverde Germania, una nazione da segnare sulle carte con un motivo grafico da telo mimetico. Peccato che allora preferissi i nordisti e i sudisti della guerra di secessione americana con i loro berretti. Insomma, se Hitler avesse voluto davvero conquistare la mia amicizia avrebbe dovuto presentarsi con un fortino, tipo Fort Apache o perfino Fort Lee. Alla fine, il nonno spiegò a tutti che zio non poteva fare


molti giri in città per ragioni che non era il caso di illustrare a voce alta. Tuttavia avremmo dovuto trattarlo come uno di famiglia, almeno fino al termine dei lavori. In ogni caso, per non dispiacere l’ospite, il sergente di pasta finì accanto alla lampada sul mio comodino insieme al totem dei Sioux con tanto di becco d’aquila e ali spalancate. Dimenticavo di aggiungere che zio Hitler mi fece dono anche dell’enciclopedia «Conoscere», ecco ora l’ho detto.


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