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Il getto d’acqua lo investe di colpo, prima gelido, poi caldo, bollente: lo spogliatoio del Torino è vuoto, le pareti sembrano rimbombare, agli appendini i vestiti dei compagni, le borse granata tutte uguali, le scarpe firmate, gli stivali e le cinture con le borchie. Non c’è nessuno. Ma da fuori, nell’aria già scura di questo novembre del 1991, tuona il coro dei tifosi, riecheggia dal tunnel e arriva fino a qui: «Bru-no tu sei un fi-glio di put-ta-na», ritmato, ossessivo, assassino, continuo come i tamburi di una tribù indigena nella foresta pluviale. Eppure Bruno in campo non c’è già da venti minuti. «Uno-di-noi, Pasquale, uno-di-noi», «Pic-chi-ali tut-ti, Pasquale, pic-chi-ali tutti», rispondono di contro, dall’altra parte, dalla celebre Maratona. Sì, il protagonista è uno che in questo momento non c’è: Pasquale Bruno si è preso la scena in absentia, in questo derby di Torino che è diventato una sorta di «Sfida all’Ok Corral.» Tutti contro tutti in ogni angolo del campo. Pasquale, sotto la doccia, sente le urla e per un attimo è inorgoglito: oltre l’acqua anche i cori sembrano lavar via quella sensazione di tremenda inadeguatezza, di vergogna profonda che lo aggroviglia ogni volta, puntualmente, quando il raptus finisce. 88
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Già, cosa gli si agita in testa, appena tocca l’erba con gli scarpini, a questo ragazzo del sud, sempre educato fuori dal campo, abituato a fare il baciamano alle signore, certo non un cultore della lingua italiana, ma mai, mai, assolutamente mai volgare? Perché a un certo punto le sinapsi si spengono, il cielo si oscura, gli stadi crollano a terra, diventa tutto nero e non riesce più a controllare ogni reazione? Quante volte è successo a Pasquale? Saranno almeno cinquanta quelle registrate dai taccuini degli arbitri, dai resoconti dei giornalisti, dagli occhi esaltati di gioia o di rabbia dei tifosi. I propri e quelli avversari. Ma queste sono le note ufficiali, rendicontate: in verità, almeno una volta a partita, e anche di più, in Pasquale Bruno, per molti il difensore più spietato della storia del calcio italiano, si è verificato il blackout, e la corrente elettrica non è più arrivata al cervello. Questa volta, però, è stato come il giudizio universale, il cielo è diventato lo spazio e Pasquale ha davvero subito una metamorfosi. In lupo, o meglio ancora, per assecondare i simboli, in toro. Man mano, l’acqua che scende a rivoli dallo spruzzino aiuta a chiarire la dimensione epocale dell’ordalia: Pasquale inizia a ricordare, a focalizzare l’evento. Casiraghi oggi è partito come una saetta. Il damerino è assai in forma ed è difficile tenerlo a bada: Pasquale forse è più stanco, forse ha meno energia in corpo o semplicemente è infastidito dalla foga dell’altro. E decide come in tante occasioni in passato che bisogna fargli capire subito come deve stare in campo. Cioè, girargli attentamente alla larga. Una botta sul polpaccio, una spinta decisa, ma Casiraghi oggi 89
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non ne vuole sapere di farsi intimidire o di smetterla, anzi reagisce botta su botta, calcio su calcio. Risultato? Poco più di cinque minuti e arriva il giallo, quello che come una condanna tocca a Pasquale praticamente a ogni partita, anche se, di solito, non così presto. Solo a lui, però, perché a Casiraghi che pure non si sta comportando come un gentiluomo, non è stata comminata alcuna ammonizione, allo juventino nulla. Pasquale sente che le tenebre stanno galoppando verso di lui, che questo blackout sarà il peggiore. Ma non fa o non riesce a fare nulla per fermarsi un attimo prima di cadere nel precipizio. Passa un quarto d’ora, c’è una punizione per la Juve, i duellanti sono entrambi in barriera. L’arbitro fischia una prima volta perché Baggio possa battere, ma è costretto a interrompersi: Casiraghi è a terra, rantolante, come se fosse stato colpito al cuore e fossero i suoi ultimi secondi di vita. Alza lo sguardo, l’arbitro. E sa già chi è il colpevole, anche senza averlo visto. Una vecchia solfa, un ritornello stantio, come in una fiaba di Esopo il lupo (o meglio il toro) è sempre il colpevole. Cartellino, rosso. L’acqua ora conforta la memoria, depotenzia ogni scarica di adrenalina. Gli è tutto chiarissimo, adesso: Casiraghi è caduto da solo, ha fatto il melodramma, quel genere di cose che Pasquale non ha mai potuto sopportare. E l’arbitro ci è cascato. Ovviamente. «Ma come? Quando ci siamo presi a calci per davvero non hai fatto nulla e mi espelli ora che non è successo niente?»: è diventato tutto nerissimo in quel momento al Delle Alpi. E una furia belluina, atavica, quella che monta sul solco dell’ingiustizia, ha devastato cervello, muscoli e corpo di Pasquale Bruno. Si sono dovuti mettere in tre, in quattro, per contenere quella 90
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forza di Ercole, per evitare un finale amaro di carriera, lo strangolamento di un arbitro in mondovisione. Più lo tenevano, più diventava cieco e più cercava di divincolarsi e avventarsi contro l’ingiusto e l’inaudito: piano piano, però, la furia è andata smorzandosi, e Pasquale si è placato, gli occhi bassi a terra, travolto da due correnti contrarie, fischi e insulti da un lato, urla di esaltazione dall’altro. Pasquale ha abbassato la testa e si è diretto verso il tunnel. Momenti così sono difficili da spiegare a chi non ha mai giocato a pallone. Quando vieni espulso sei davvero solo in mezzo a 80.000 persone, le sensazioni si amplificano per mille, tutto ti rimbomba come se fossi sotto una campana. Non riesci a pensare a niente. A Pasquale è successo tantissime volte prima di oggi. E dovrebbe averci fatto l’abitudine: il calcio maschio, rude, inglese, è il suo pane fin da quando ha iniziato. Si fece buttar fuori già alla prima partita in serie A, con addosso la maglia del Como e di là, contro, sempre la Juve, per aver massaggiato Boniek a dovere. Ma oggi no, è stato diverso: quando sai di aver sbagliato, quando sai che il ruolo che ti attribuisce il gioco delle parti è quello del cattivo, accetti la sentenza di buon grado, te ne esci senza dire niente. In fin dei conti ognuno fa il proprio mestiere. Io faccio i falli, l’arbitro mi punisce. Ma oggi no: quel damerino ha ingannato me, ha ingannato l’arbitro, ha ingannato tutti. Il gioco delle parti non è stato rispettato. Chiude le manopole dell’acqua calda, si riveste lentamente con la divisa sociale, esce dallo spogliatoio del Delle Alpi e si avvia verso il garage. 91
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Accende il motore e si dirige verso la casa in collina dove abita da quando è arrivato a Torino: ha cambiato squadra, ma non appartamento. Apre il cancello automatico, sale le scale della villetta. E, senza salutare nessuno, si chiude nell’ampia camera e si butta disteso nel grande letto matrimoniale. «Oggi l’ho combinata grossa.» *** Si è alzato di buon ora, Pasquale, questa mattina. Sua moglie gli ha preparato il caffè, non è buonissimo, non ha mai imparato a farlo. Ma non è per questo motivo che il difensore è scuro in volto: al caffè cattivo si è abituato, non ci si abitua invece mai alle cattiverie degli uomini. Scende in garage, accende la Duna, auto obbligatoria per chi deve rappresentare i colori sociali. Non esistono Ferrari, Lamborghini o fuoriserie di sorta, si prende l’ultimo modello Fiat, quello che decide l’azienda. E gli si fa pubblicità gratis. Ché se la guida un Pasquale Bruno magari l’operaio se la compra più volentieri, quella macchina squadrata e poco invitante. Ma non è per la Duna che Pasquale è immerso in pensieri nefasti mentre affronta le curve che da Superga portano fin giù in città e poi verso il vecchio campo d’allenamento della Juventus, la regina d’Italia, al cui cospetto Pasquale è stato ammesso, provenendo dall’umile Como, nel 1987. Il campo è il Combi, a due passi da dove hanno preparato da sempre le partite anche i dirimpettai granata, il mitico Filadelfia. I tifosi sentono il respiro dei nemici, quasi, da una curva addossata all’altra rimbalzano gli insulti e i cori. 92
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Si tratta solo dei campi di allenamento, ma fa comunque una certa impressione incrociarsi con gli avversari mentre parcheggi. È accaduto per tantissimi anni, a Torino che per il calcio si scalda, ma non trascende mai. È successo fino all’anno prima, quando i granata se ne sono andati a Orbassano, fuori città. E ora potrebbe capitare anche sull’altra sponda, perché la Juventus potrebbe andarsene dal Combi, ormai vetusto. Ecco, Pasquale è di cattivissimo umore, per una volta anche fuori dal campo, perché gli hanno appena comunicato che l’anno prossimo, l’anno sociale 1990-1991, non giocherà più per la Juventus: «Ma come? Mi scaricate così? Ho dato tutto per questa maglia, mi sono fatto buttare fuori per difendere questi colori e mi date il benservito come alle cameriere?» È arrabbiato perché ha fatto di tutto per immedesimarsi in questi due colori, il bianco e il nero. Gliel’ha riconosciuto perfino l’Avvocato, una frase buttata lì che diventa una sentenza destinata ai posteri: «Ci fossero undici Pasquale Bruno nella Juve, non ci batterebbe nessuno». Ma sono gli anni della decadenza, dopo il regno di Michel Platini e della litania – Zoff, Gentile, Cabrini… – e il ricambio non c’è stato. Di là è arrivato Berlusconi, che ha fatto saltare il banco per i morigerati costumi di casa Juve, abituata a gestire il mercato a piacimento senza esagerare mai. Maradona poi, più giù, detta legge come non era mai successo prima. E pure l’Inter, con quei tedeschi, vuol dire la sua. E l’ha già detta, vincendo uno scudetto a suon di record. Cosa c’entra Pasquale in tutto questo? Sarà mica colpa sua? E invece sì. Pare che la Juve, per mettersi in linea coi tempi delle 93
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rivoluzioni sacchiane e berlusconiane, dopo aver speso miliardi per portarsi a casa Roberto Baggio (uno che Pasquale non ha mai particolarmente amato) abbia poi ingaggiato un allenatore bresciano che si dice profeta del calcio champagne, tutto zona e gioco di prima, tutto fioretto e niente spada. E pare che questo allenatore, Gigi Maifredi, non abbia particolarmente stima per Pasquale, troppo rude, troppo marcatore vecchio stile per i suoi schemi vellutati, e gli preferisca tal De Marchi, suo pupillo al Bologna. La Duna è posteggiata, dunque, e Pasquale entra negli spogliatoi dimessi del Combi, si cambia e inizia a palleggiare sulla terra battuta. Di fianco a un altro che non brilla nemmeno lui per allegria, Alexander Zavarov, uno che, alla Dinamo Kiev, chiamavano il Maradona degli Urali prima dell’ingaggio alla Juventus. Pasquale è un animale sociale, fa ridere chiunque, come un toccasana naturale, ma con il sovietico è difficilissimo. Zavarov viene pagato in buoni spesa dal partito comunista dell’Unione Sovietica, che l’ha girato ad Agnelli a patto che in cambio venisse costruita una fabbrica d’auto nelle profondità della Russia. Sì, Zavarov è un calciatore di Serie A e deve mettersi in fila alle casse del super per comprare il pane con i buoni. E Zavarov, intristito, ha cercato di dimenticare la Dinamo Kiev con la vodka: qui avrebbe dovuto sostituire Platini, non c’è riuscito. Pasquale – e la Juve dovrebbe riconoscerglielo – ha cercato di mettere a suo agio tutti questi stranieri improbabili che non riescono, non possono raccogliere, l’eredità di «Le Roi». Con Ian Rush era come se si conoscessero da sempre: erano sempre in coppia, comunicando in un gramelot anglopugliese, 94
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cercando di trasformare Torino in Liverpool trascinandosi da un bar all’altro. Con il risultato che, alla fine, Rush era sempre ubriaco. Una volta ha parcheggiato la Duna d’ordinanza in mezzo ai viali del quartiere del Filadelfia e se n’è andato, mollandola lì sulla carreggiata. Quante volte Pasquale l’ha raccolto da terra e portato nel suo appartamento, anch’esso in collina, come dev’essere per ogni giocatore della Juve? Nonostante l’evidente stato di confusione di Rush, Pasquale fin da subito è rimasto affascinato dal suo passato: re di Liverpool, 230 gol in quindici anni di maglia rossa. E poi Rush è il campionato inglese, il sogno di Pasquale Bruno fin da bambino. Perché a Pasquale, battezzato simpaticamente «o’ Animale» dal compagno Tricella, quel bravo ragazzo, tutti sbrigativamente avevano affibbiato l’etichetta dell’ignorante provinciale, un po’ tamarro, buono solo a rompere le caviglie del centravanti di turno. Non sanno che Pasquale, figlio della borghesia impiegatizia salentina, il padre sarto diventato quadro dell’Enel, solo per poco non ha preso il diploma di perito industriale, quando la maggior parte dei colleghi si ferma a fatica alla terza media. Non sanno che non ama farsi trovare impreparato dalle figlie mentre ripassano la lezione del giorno dopo e che per questo si è comprato un’enciclopedia a rate. Non come tanti suoi colleghi che «pensano solo a soldi, donne, auto e orologi», come ha detto in un’intervista, «Credono che Rossana Rossanda sia una caramella e Pol Pot un piatto tipico piemontese». Credano pure alla figurina del Pasquale barbarico e animalesco, se lo dice lui stesso, senza neanche arrabbiarsi troppo: nella Ju95
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ventus 1989-90 l’unico che sapeva masticare un po’ d’inglese era proprio lui, Pasquale Bruno. Mentre tutti si guardavano l’ombelico – «Il campionato italiano è il più bello del mondo» e tutta la sequela dei luoghi comuni più stantii – lui già si vedeva a Manchester, United o City non importa, al Liverpool, kick and run: nessuno che si butta per finta, ce le si dà e le si prende senza far troppe storie, un calcio a misura sua e di nessun altro di quella Juventus 1989-90 che lo vuole rottamare a 28 anni. È demodé, Pasquale Bruno. Bisogna giocare a zona, in quegli anni, e il mister non ti dice più prima della partita «attaccati a quello, non farlo respirare: soffocalo», ma «Copri la tua parte del campo e non ti muovere da lì.» «Non mi sento di andare in pensione», si dice Pasquale per farsi forza, mentre osserva il tristo Zavarov e Dino Zoff, il mister, un altro poco espansivo, anche lui sulla lista dei partenti perché considerato oggetto d’antiquariato. Zoff che, ligio al suo dovere, da friulano che non sgarra mai, lo richiama anche se la stagione è finita, e ormai le urla sono al vento, tutti pensano ai Mondiali imminenti che si giocheranno in Italia. E anche chi non sarà convocato ha già la testa alle vacanze imminenti, in Sardegna o in Versilia, come va per la maggiore allora. Pasquale no. Ai Mondiali non ci pensa. E nemmeno alle vacanze, che farà probabilmente in Salento, come sempre. Pasquale è incazzato. Per davvero. La sessione quotidiana è finita e si riavvicina alla Duna, accende il motore e, mentre si allontana dal Combi, per un attimo lo sguardo piomba sul vecchio stadio abbandonato degli avversari: il glorioso Filadelfia che 96
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ospitò le imprese della squadra più bella di tutti i tempi, il grande Torino. Osserva quel campo, cadente ma luminoso, l’osserva per un attimo Pasquale, bramoso di riscatto e di rivincita. E giura a se stesso che avrà la sua vendetta. *** Le case sono tutte uguali, red bricks, mattoni rossi, incolonnate l’una di fianco all’altra, come in una qualsiasi periferia britannica, come in una qualsiasi scena di Ken Loach. Alla fine della via, incastonato tra un pub e un fish’n’chips gestito da pakistani, l’edificio bianco su due piani, asettico ed elegante, diverso da tutti gli altri: due porte automatiche, tutto perfettamente lindo, non c’è nemmeno la moquette, immancabile altrove in Gran Bretagna. Al secondo piano, si apre a destra una stanzetta, con una scrivania, una poltrona, il computer. E alle pareti due poster, «Torino 1991-1992» e «Hearts 1995-1996»: i giocatori in posa, seduti e in piedi, appena ingialliti, ma ben in vista. In entrambe, c’è lui: con gli scozzesi sorride come uno scolaro in gita o il bambino che ha realizzato finalmente i suoi sogni dopo anni di attesa. Ma ogni volta che gli cade l’occhio sui granata è un singhiozzo, un palpito, un fremito: qui lo sguardo è quello consapevole, fiero, dell’adulto, del giocatore definito, allo zenit della sua carriera. Di chi si è tolto un bel po’ di rivincite. «Finito? Io?» Pasquale Bruno se lo ripete ogni volta che entra nella stanza e fissa questo poster, una volta la settimana, dopo aver lasciato la macchina a Fiumicino e aver preso l’aereo per Manchester, esser 97
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salito sul solito cab nero e aver oltrepassato le due porte automatiche di questo edificio bianco in mezzo alle case rosse. Pasquale – invecchiato bene, fisico asciutto e capello grigio sì, ma sempre corto come un marine, come usava da giovane – nella sua seconda vita si occupa di procure, scova talenti nelle serie minori britanniche e li segnala alle società italiane: un insolito asse anglo-leccese, perché gli altri cinque giorni della settimana ha deciso di trascorrerli nel paesino del Salento dove è nato, San Donato. Dunque, ogni volta che entra nella stanzetta contempla la sua doppia riscossa: essere stato praticamente il primo giocatore italiano di un certo nome ad aver osato la scommessa britannica, nel 1995, andando a giocare negli Hearts di Edimburgo quando nel provincialissimo calcio nostrano nessuno ci pensava. E, prima, aver militato nel Toro più forte dopo il classico e grande Torino (c’è anche quello del 1976, è vero, ma forse c’erano meno avversari allora), dopo esser stato scaricato dalla Juve, perché demodè, fuori tempo. Guardati in quella fila, Pasquale, quella di mezzo, sei tra Vincenzo Scifo, il più forte calciatore belga degli ultimi trent’anni, e Martin Vazquez, uno degli eroi della quinta del Buitre, già idolo del Bernabeu e del Real Madrid. Con loro due (e con il Mondo, Emiliano Mondonico, appena un po’ più in là nella foto un poco ingiallita: quanto avete litigato, quanto ti ha voluto bene) hai scritto delle imprese memorabili, hai fermato l’orologio della storia del Torino contemporaneo. Perché, praticamente, da quel glorioso 1992 non è successo più nulla dalle parti dei granata. E l’hai fatto, hai battuto proprio il Real Madrid, hai sfiorato 98
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la Uefa, senza derogare di una virgola ai tuoi principi, quelli che alla Juve sembravano non piacere più: marcatura cattiva, spietata, implacabile, ma leale; non si cade a terra se non ci si è fatti davvero male; si accettano le regole del gioco, io picchio, tu mi ammonisci e mi espelli, ma nessuno bara, e poi a fine partita si dice quello che passa per il cuore e non per il manuale delle risposte del calciatore perfetto. Non si dice: «Si vince in undici e si perde in undici», e nemmeno «non mi interessa aver segnato, mi interessa il bene della squadra.» I cronisti ti aspettavano a fine partita: «ora arriva Pasquale e ci dà il titolo per domani». Ci marciavi anche un po’ su, ti piaceva sentirti addosso la loro ansia e le loro aspettative, e giocavi a spararla più grossa. Cose così: «Se possedessi un asino come Crippa, non gli darei nemmeno da mangiare, lo lascerei morire di fame» o «Spero che Baggio abbia il coraggio di guardarmi negli occhi. Purtroppo lui può guardare in faccia poca gente perché raramente si è comportato da uomo vero.» Cose così, che preferivi di gran lunga al frasario standard. Ora sei alla tua scrivania, in un angolo della tua amata Britannia, dove alla fine sei riuscito a giocare, a incontrare e scontrarti con altri mille Pasquale Bruno. Non al Manchester o al Liverpool, come sognavi, ma in Scozia, agli Hearts di Edimburgo, dove dopo vent’anni si ricordano ancora di te. Tu, pensa, lì eri il più elegante in campo, avevi i piedi migliori, tanto che a un certo punto, sacrilegio inaudito, ti misero a centrocampo. Basta raptus. A picchiare ci avrebbero pensato gli altri. 99
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E sorridi perché pensi che oggi avresti vita facile con i Balotelli e gli Icardi, tu che hai dovuto marcare Maradona, Zico, Platini. E Van Basten, il cliente più difficile. Eppure non ti ha mai fatto un gol. E, umiliato dalle tue spasmodiche, invadenti attenzioni, si è permesso di ballarti addosso, mentre eri caduto a terra. Sorridi quando pensi a questi di oggi, che si mettono il dito alla bocca per zittire i tifosi: ai tuoi tempi sarebbe stato impossibile. Soprattutto al Toro: quella maglia ti si fondeva addosso e diventavi un ultrà in campo, sentivi la partita come un’esperienza religiosa. E, se si era perso, soprattutto se si era perso male, quando la partita era finita, sotto la doccia, quella doccia anestetico dopo le espulsioni, erano fiumi di lacrime amare. Hai voglia, come fanno questi di oggi, ad andare soltanto a mangiare una pizza, dopo certe sconfitte, magari dopo un derby perso contro chi ti aveva sbolognato come un ferrovecchio. Sorride Pasquale Bruno dalla sua Inghilterra, dove, esule, si è rifugiato a cercare un calcio che non esiste più. Sorride, sì, mentre lascia la stanzetta nel palazzo tutto nuovo, scende in strada e cammina di fianco alle case rosse, una uguale all’altra, e si allontana sotto una pioggerella leggera, né calda, né fredda. Qui non c’è nessuna manopola per anestetizzare i ricordi. E non ce n’è più nemmeno bisogno.
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