UNO
28 ottobre 2013 «Non dico che non sia un bel progetto. Anzi: sarà pure un contratto bellissimo, un’occasione unica, per carità, non lo metto in dubbio. Però, vede, signor Galli, lei sa bene che ogni contratto comporta dei rischi. Che il committente non la paghi, che qualcosa s’inceppi in corso d’opera, che lei a sua volta non sia in grado di pagare i fornitori… senza considerare, nel nostro caso, il rischioPaese. Ora, lei tutti questi rischi non è in condizione di assumerli; e noi, su questa strada, non siamo in condizione di seguirla. Ecco il punto. Lei a volte dimentica che la nostra unica garanzia sul finanziamento che abbiamo concesso alla Galli Holding è il pegno sul 100% delle azioni della Galli Strade. E dimentica anche, ma direi soprattutto, che siccome la Galli Holding è in default sul finanziamento da un anno e mezzo, è da un anno e mezzo che noi avremmo potuto escutere quel pegno. Sì, è vero, fino ad oggi non l’abbiamo fatto: ma solo perché sapevamo che, alla scadenza della concessione, la Galli Strade avrebbe percepito un indennizzo sufficiente a rimborsare capitale e interessi del nostro scaduto a tendere; e sino ad allora la situazione appariva ragionevolmente sotto controllo. Ecco perché abbiamo accettato di negoziare con la Holding uno standstill. 11
Ma il nuovo contratto che lei ha firmato con la Galli Strade mette tutto in crisi. Non importa quanto quel contratto sia vantaggioso per lei, quanto la farà guadagnare, quante prospettive le potrà aprire. Per noi quel contratto è solo un rischio, il rischio che qualcosa vada storto e che il committente, un fornitore, o chissà chi altro faccia causa alla Galli Strade prima che il nostro finanziamento sia rimborsato, lasciando noi col cerino in mano. E questo rischio, noi, non siamo disposti a correrlo. È semplice, signor Galli. Se lei non avesse cambiato le carte in tavola, forse avremmo potuto aspettare ancora. Ma visto che ha firmato quel contratto, non abbiamo altra scelta che escutere. E sono certa che anche il suo avvocato glielo potrà confermare. Vero, avvocato? Avvocato, ma mi sta ascoltando?»
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DUE
Qualche mese prima. 9 aprile 2013 ore 10:00-11:00 «Ma mi aveva promesso a fine mese.» «E infatti. Sto dicendo fine mese.» Pugliatti allontanò il cellulare dall’orecchio e riguardò il nome del cliente. Sentì che le sue dita si stringevano, come intorno a una bambolina vudù. Ancora una volta l’aveva preso per il culo. «Ma di questo mese, Frattini. Di questo, non del prossimo.» «Be’, cosa vuole che sia, per un mese.» «Ma Frattini, il lavoro l’ho finito sei mesi fa, ed era iniziato quasi un anno fa. E in tutto questo periodo non mi avete dato neanche un acconto.» Pezzi di merda, pensò. Voi a fine mese lo stipendio lo prendete, no? Se chiamate un idraulico, lo pagate, no? Lo pagate sull’unghia, e magari in nero, se no quello non vi esce di casa. E perché non dovete pagare un avvocato? Come credete che viviamo, noi? All’altro capo, sentì che Frattini sbuffava. «Senta, Pugliatti, cosa vuole che le dica? I nostri tempi sono questi. Decida lei, se vuole continuare a lavorare per noi. Se non le va più bene, la chiudiamo qui.» Un attimo di silenzio. Era stato un attimo, o di più? «D’accordo, Frattini, d’accordo. Se mi garantisce che è il prossimo.» 13
«No, no, su questo stia tranquillo, Pugliatti. È già in scadenziario. Fine mese prossimo.» Figlio di puttana, pensò lui. L’avevi detto anche il mese scorso. «Va bene, Frattini. Mi fido di lei.» «Bene, Pugliatti, sono contento che ci siamo intesi. Arrivederci.» Clic. Pugliatti posò il telefono e si prese la testa fra le mani. Cosa vuole che sia, per un mese. La gente non si rende conto, pensò. Ormai la sua vita era un continuo equilibrismo tra un mese e l’altro, tra un conto e l’altro. Aveva due conti, uno con il Credito Ambrosiano, per il mutuo, e uno con la Banca dell’Insubria, per il circolante dell’attività di studio e le altre spese familiari. Purché ogni fine mese il primo fosse capiente per la rata del mutuo, e il secondo non andasse mai oltre l’affidamento concessogli, ogni trucco poteva servire. Era un gioco delle tre carte continuo, in cui la carta che ogni volta magicamente spariva era il fallimento. Rinviare i pagamenti dei fornitori, far finta di non aver ricevuto le fatture, trasferire fondi da un conto all’altro, usare la carta di credito il più possibile, anche per pagare le bollette. Ogni pagamento con la carta veniva addebitato sul conto il 16 del mese dopo. Se la bolletta di marzo la pagavi con la carta in aprile, sul conto lo vedevi il 16 maggio. Ma attenzione, questo valeva per la VISA. Con l’American Express arrivava prima. Ormai erano questi calcoli che gli occupavano le giornate. A volte gli pareva di non essere neanche più un avvocato, gli sembrava di essere il direttore finanziario di un’azienda in crisi. Peccato che quell’azienda fosse lui. Ancora non riusciva a crederci. Da quando si era messo in proprio, sul finire degli anni 14
Novanta, il suo lavoro aveva sempre continuato a crescere. Poco, ma a crescere. Ogni anno un nuovo cliente, e mai nessun cliente perso. E dopo dieci anni, aveva iniziato a essere tranquillo. Poi, improvvisamente, verso la fine del 2008, dopo la crisi dei subprime, tutto si era spento. Anzi, non proprio improvvisamente; e questa era stata la cosa più grave. Se almeno si fosse spento tutto di colpo, cinque anni prima, avrebbe ancora potuto cercare una via di fuga. Magari rientrare in qualche grande studio, forse anche lasciare la libera professione e cercare lavoro in qualche azienda. Ma anche in quel caso, pensò, la vita l’aveva fregato. Era stata un’agonia lenta, durata cinque anni; una malattia che aveva dato l’illusione di poter guarire, ma che in realtà progrediva inesorabile verso la fine. E non è che lui avesse mai fatto errori, sul lavoro, o perso la fiducia di qualche cliente: semplicemente, i clienti avevano smesso di chiamarlo. Il suo cliente più importante, il Credito Ambrosiano, quella banca che lui stesso aveva aiutato a crescere, assistendoli in un’acquisizione dopo l’altra finché erano arrivati a essere la prima banca del Paese e una delle prime cinque d’Europa: anche loro, piano piano, avevano rallentato il flusso dei mandati fino a farlo cessare del tutto. Per una sorta di perversa ironia, tra loro i ruoli si erano ribaltati: ora era lui a dar lavoro – e soldi – alla banca, con quel mutuo che lo perseguitava ogni mese. Quante volte si era chiesto perché l’avesse contratto, quel mutuo. Ma in realtà non riusciva a sentirsi in colpa. Era quello che avevano fatto sempre tutti, suo padre, e il padre di suo padre, e il padre di suo padre di suo padre: costruire. Impegnarsi per costruire. E la rata era più che sostenibile, all’inizio: molto più di quella che era stata per suo padre la propria. D’altronde, pensava anche, quando la banca mi ha fatto il prestito, sapeva anche quanto mi dava da lavorare. 15
E come pensa che possa continuare a rimborsarlo, se non mi dà più lavoro? Sta di fatto che, nel giro di cinque anni, i suoi ricavi erano diventati un decimo di quelli di prima. E a quel punto, tutte le vie di fuga erano bruciate. I grandi studi non ti guardavano neanche, se non portavi fatturato; e l’unico pensiero delle aziende era licenziare, certo non assumere; tantomeno assumere uno di quarantacinque anni. E i pochi clienti che ancora davano qualche lavoro sembravano sentire l’odore del sangue. Se non accettavi di essere pagato un decimo di quello che cinque anni prima era ritenuto normale, non ti guardavano neanche; e anche quando avevi accettato un decimo, per farti pagare dovevi aspettare mesi, inseguirli, sollecitare, supplicare. Solo gli studi che nel tempo avevano accumulato ricchezze enormi potevano permettersi di stare al gioco. Per loro, poteva anche valerne la pena: tiravano la cinghia per una decina d’anni, e intanto tutti i loro concorrenti morivano, come contadini in miseria falciati da una carestia. Alla fine, i sopravvissuti sarebbero stati i padroni del mercato. Ma questo, ovviamente, potevano farlo solo gli studi grandi, e anzi solo i più grandi tra i grandi, magari tenendo la posizione a furia di tangenti, come si sentiva dire in giro. Non potevano certo permetterselo gli studi piccoli, e men che meno poteva permetterselo Pugliatti, che era venuto su dal nulla, senza alcun patrimonio familiare alle spalle. Piano piano aveva ridotto lo studio: rinunciato prima a un collaboratore, poi al secondo, e infine alla segretaria. Ma ormai si stava avvicinando al punto in cui non ci sarebbe stato più niente da tagliare. Da più di tre anni, i risparmi che era riuscito a mettere da parte erano spariti, inghiottiti dal crollo del fatturato e dal mutuo, puntuale come la morte ogni mese. Ormai sopravviveva solo grazie all’affidamento dell’Insubria; ma le 16
poche parcelle che aveva ancora da incassare potevano farlo restare entro i limiti del fido solo per altri quattro/cinque mesi, al massimo sei. Sempreché fossero pagate. Quel mese, ad esempio, due clienti gli avevano garantito che avrebbero saldato le loro parcelle, entrambe riferite a lavori vecchissimi; e ora quello stronzo di Frattini gli aveva tirato il pacco. Se anche l’altro non pagava, non ci sarebbero stati più soldi per il mutuo, per vestirsi, per mangiare, per niente. Un rumore alla porta lo distolse da quei pensieri. Si girò: sulla porta c’era Zerioli, l’ultimo collaboratore che gli era rimasto. Pugliatti lo guardò e trovò la forza per sorridergli. Era affezionato a quel ragazzo. L’aveva preso con sé quando si era appena laureato. Non ricordava neanche se fosse stato Zerioli a cercare lui o il contrario, fatto sta che fin dal primo colloquio gli aveva ispirato simpatia. Forse perché era diverso da tutti i neolaureati fighetti che giravano per colloqui nei grandi studi a Milano. Tutti magrini, ben pettinati, sempre attenti a non sbilanciarsi, tutti con il massimo dei voti, sembravano già piccoli presidenti in miniatura. Zerioli al confronto si era presentato come un elefante in una cristalleria. Corpulento, arruffato, con la cravatta un po’ storta. Si vedeva che non era di Milano. Anche i suoi amici: Pugliatti ne aveva conosciuto qualcuno, era gente con cui nessuno di Milano si sarebbe fatto vedere in giro. E non aveva un gran voto di laurea, né gran voti negli esami. Ma fin dal primo momento Pugliatti aveva percepito in lui un’intelligenza viva, concreta, l’intelligenza di chi è stato abituato fin da bambino a trattare i numeri come parte importante della vita. Veniva da un paesino in provincia di Piacenza. Suo padre faceva il salumaio, e per tutta l’infanzia Zerioli, non appena tornato da scuola e liquidati in fretta i compiti, aveva dato 17
una mano in bottega, alla cassa. Conti veloci, concreti, fatti su un foglietto con la marca di un prosciutto e guardando la gente in faccia, per vedere se cercava di imbrogliare. Un’infinità di volte Pugliatti aveva riflettuto su quanto diverse erano state le loro vite, lui colle sue giornate a tavolino, coi suoi conti in ordine sui fogli a quadretti: astratti, perfetti, inutili. Spesso lo aveva invidiato. Fin da quando aveva cinque anni, non appena chiusa bottega Zerioli scappava a tirare calci all’oratorio – c’erano ancora gli oratori, dove abitava lui. Pugliatti, la prima partita a pallone l’aveva fatta in prima media; e aveva sempre sentito di essersi perso qualcosa. Ora il pallone, i numeri, le lunghe giornate di studio, ogni differenza sfumava, ogni cosa diventava indistinta e spariva in quel buco che li stava inghiottendo tutti, come quando si lavano i piatti e si tira su il tappo del lavandino. «Ciao, Francesco, cosa c’è?» gli chiese. «Ciao, Luca, niente, c’è tua moglie sul fisso.» Strano che non mi chiami sul cellulare, pensò Pugliatti. Diede un’occhiata all’iPhone posato sul tavolo e si accorse che dopo la conversazione con Frattini per qualche motivo era rimasto bloccato. Questi aggeggi, pensò. «Grazie, Fra», disse. «Passamela qua.» «Ok, Luca. A dopo.» Zerioli richiuse la porta e dopo un attimo squillò il telefono fisso. «Ciao, Emma, cosa c’è?» «Luca, scusa, ho provato a fare un prelievo al bancomat e me l’ha rifiutato.» «Boh, sarà stata la macchina. Hai provato a un’altra?» «Sì, Luca, ho provato anche a un’altra.» «Non so, dammi la tessera che provo a vedere in banca. Cosa dovevi fare?» «Niente, dovevo solo andare al super. In frigo non c’è più niente.» 18
«Va be’, dai, ti accompagno io, così paghiamo con la carta. Mi passi a prendere in studio?» «Ok, Luca. Fra un quarto d’ora sono là.» Pugliatti posò la cornetta e restò immobile. Cazzo, pensò. Cazzo. Eppure dovevano esserci ancora un po’ di soldi, sul conto. Aprì internet, andò sull’homebanking della Banca dell’Insubria, ed entrò nel suo account. Oltre il fido. Di poco, ma oltre il fido. Porca puttana, pensò. Ma come cazzo è possibile? Avevo calcolato tutto, dovevamo starci ancora dentro di qualche migliaio. Controllò i movimenti dell’ultimo mese. C’era un addebito pesante il 31 marzo, che non gli risultava. E che cazzo è questa roba? pensò. Entrò nel dettaglio dell’estratto conto. Interessi. Cazzo, ripeté tra se. Sapeva che il fido costava qualcosa, ma così tanto non se lo aspettava. L’affidamento era di centotrentamila euro, e gli interessi di quasi quattromila. Solo per un trimestre. Gli sembrava una cifra enorme. Ci dev’essere qualche errore, pensò. Continuò a rovistare nel portale di homebanking, voleva vedere che tasso gli avevano applicato. Finalmente lo trovò. Il 16,50%. Ah, si disse, quasi sollevato. Vi ho beccato in castagna. Senza che me ne accorgessi, mi avete applicato un tasso usurario. E chissà da quando va avanti. Adesso vi pianto una grana, e mi riprendo tutti gli interessi degli ultimi anni. In base a una legge del 1996, infatti, se in un qualsiasi prestito sono applicati interessi a un tasso eccedente quello che il ministero del Tesoro ha stabilito essere in quel periodo il limite dell’usura, gli interessi sono nulli in toto (non, cioè, solo per la parte eccedente la soglia), e chi li ha percepiti deve restituirli tutti. 19
Dal sito della banca saltò a quello del ministero del Tesoro, voleva controllare di quanto avessero sforato il tasso antiusura. Dunque, vediamo, si disse, terzo trimestre 2012, quarto trimestre 2012. Ecco. Primo trimestre 2013. Ora vediamo. Ora vi becco. Cliccò sul decreto e restò a bocca aperta. La soglia dell’usura era fissata al 16,675%. Non può essere, si disse. Ma come, se l’Euribor continua a scendere? L’Euribor è il tasso dei prestiti interbancari, il tasso, cioè, al quale le banche si prestano i soldi l’un l’altra. Ci sono vari indici di Euribor, da un mese a un anno, a seconda di quanto tempo deve durare il prestito. In pratica, indica che interesse paga una banca, quando è lei che deve fare un mutuo. Voglio proprio vedere, si disse Pugliatti. Rientrò su Google e digitò Euribor. Dopo un secondo, erano tutti là. Euribor a un mese: 0,1%. Euribor a tre mesi: 0,2%. Euribor a sei mesi: 0,3%. Euribor a un anno: 0,5%. Non ci poteva credere. Voleva dire che una banca, ai suoi clienti, poteva far pagare il denaro – ad esempio, per un prestito a un mese – anche più di centosessanta volte quello che il denaro costava a lei, senza che questo fosse considerato usura. Pugliatti restò lì, con lo sguardo fisso sullo schermo, con la vaga sensazione di essere finito lì per sbaglio, di più: che tutto fosse un immenso sbaglio. Ebbe come un senso di nausea. Che cos’era, quella roba? si chiese. Era la legalizzazione di un qualcosa d’immorale, di un qualcosa d’immondo, non sapeva neanche bene lui come definirlo. Usura? No, non era solo usura. Estorsione? Sì, ma non era neanche solo quello. La verità è che una parola adatta non c’era.
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