Una vita nella scienza

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PREFAZIONE

L’obiettivo di questo libro è offrire ai lettori un’idea generale del mondo della scienza. Non intende essere un’autobiografia, ma per illustrare la straordinaria storia della scienza che può arrivare a vincere il Nobel, ciò che la informa e la alimenta, ho usato anche episodi della mia vita. Racconterò di esistenze che mettono al centro la formulazione di domande e la ricerca di risposte capaci di resistere a verifiche e scrutini. È possibile avvicinarsi alla verità, anche se è una verità molto piccola? Gli scienziati, ovviamente, non sono gli unici al mondo a porsi domande e ad andare in cerca della verità e della conoscenza; molte altre persone straordinarie si pongono l’obiettivo di illuminare le verità ultime e promuovere ciò che ci unisce in quanto esseri umani. Poche di loro riescono a vincere il Nobel, ma questo premio, e tutto ciò che rappresenta, è un modo utile per concentrarci su questo tipo di risultati. Le diverse culture scientifiche sono molto diverse tra loro, ma tutte hanno lo stesso fine: la scoperta e l’innovazione. Alla base della scienza c’è sempre l’indagine della realtà. Alfred Nobel era un industriale, ma sentiva una profonda spinta verso la scoperta e l’innovazione. Il suo grande esperimento fu di offrire un riconoscimento e una ricompensa alle conquiste scientifiche e uma-


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nitarie più importanti, celebrando il sapere, la compassione e la conoscenza. Il suo obiettivo, se così si può dire, era contagiare il mondo con la voglia di capire, con la passione per le soluzioni reali e creative. Lo straordinario esperimento del Nobel dura da oltre un secolo. Sono stato insignito del premio nel 1996, e penso sia arrivato il momento di riflettere sulle lezioni che ne ho tratto. Quali sono i fattori che spingono i membri migliori e più brillanti della società a dedicarsi a un’esistenza guidata dagli obiettivi di Nobel, ovvero creatività, conoscenza e impegno umanitario? Cosa c’è in ballo per la nostra società nel modo in cui oggi viene praticata la ricerca scientifica, e nel modo in cui sono allocati e distribuiti il denaro e le opportunità? E che dire dei nuovi eccitanti campi di ricerca quali le nanotecnologie e la genomica? Come si sono sviluppate e dove ci hanno condotto la scienza e la tecnologia, e dove ci porterà la scienza nel corso del Ventunesimo secolo? Qual è il posto della scienza nella storia dell’uomo, e qual è il suo legame con altri temi importanti come la religione? Chi sono gli scienziati e che cos’hanno in comune tra loro? Come si formano, come operano, come conducono le loro esistenze? La scienza è un’opzione praticabile per chi desidera avere un lavoro, una famiglia e guadagnare bene? La maggioranza degli scienziati si sposa, ha figli, vive in città e va al lavoro tutti i giorni più o meno come chiunque altro; ciononostante, il lavoro dello scienziato richiede un impegno costante e non è detto che porti ad avere una vita «tranquilla e rilassata». Ovviamente, nessuno può semplicemente decidere di vincere un Nobel, e la possibilità che chi acquista questo libro ci riesca è


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tanto remota quanto quella di chi, leggendo Golf My Way di Jack Nicklaus, arrivi a vincere lo US Open di golf. Potrebbe anche succedere, ma come sa chiunque ami il golf, esistono anche altre ricompense. La decisione di lavorare duramente e votarsi a una vita basata sull’indagine razionale può essere foriera di una sincera eccitazione e della sensazione di stare facendo qualcosa di importante, e addirittura può portare a ottenere dei riconoscimenti globali. La vita, al suo meglio, è un’avventura, un viaggio pieno di scoperte, e cosa può esserci di più gratificante di scoprire, descrivere e spiegare alcuni principi di base dell’esistenza che nessun altro essere umano aveva mai compreso? È questa la materia di cui è fatta la vera scienza. Le società che incoraggiano e sostengono tale passione saranno le prospere economie della conoscenza del futuro. Non tutti possono, o desiderano, diventare scienziati; ma possiamo permetterci di ignorare il funzionamento della scienza e i risultati che può raggiungere?


INTRODUZIONE

Vivevamo a Memphis, in Tennessee, quando alle 4:20 di una fredda mattina di ottobre squillò il telefono. Rispose mia moglie Penny, pensando che fosse successo qualcosa a uno dei nostri anziani genitori in Australia. Ma la voce dall’altra parte della cornetta non aveva l’accento australiano. «Sono Nils Ringertz della fondazione Nobel», disse. Penny mi passò la cornetta e aggiunse: «È per te». Nils chiamava dalla Svezia e mi annunciò che avevo vinto il Premio Nobel 1996 per la Medicina insieme al mio amico e collega svizzero Rolf Zinkernagel per una scoperta che avevamo fatto più di vent’anni prima. Inoltre, mi avvertì che avevamo dieci minuti per chiamare i nostri famigliari prima che desse l’annuncio alla stampa. Da quel momento in poi il telefono, aggiunse con grande flemma, sarebbe stato costantemente occupato. Eravamo decisamente scioccati, me lo ricordo bene. Era da un po’ di tempo che sapevo di essere in corsa per il Nobel, ma soltanto da poco avevo cominciato a prendere queste voci seriamente. L’anno prima, io e Rolf avevamo ricevuto il premio Lasker per la ricerca medica di base, un prestigioso riconoscimento americano che ha la tendenza a prevedere i futuri Nobel. Alcuni dei miei colleghi più audaci mi avevano detto che secondo loro


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avevo il trenta per cento di possibilità di partire per un viaggetto a Stoccolma, ma io non mi sentivo particolarmente emozionato. Se non altro per non perdere la sanità mentale, mi ero convinto che i ragazzi cresciuti nelle periferie australiane non vincono i premi Nobel. Ma quel mattino, ogni dubbio svanì. Nel giro di un quarto d’ora mi chiamarono dalla Reuters, dal Belgio, feci un collegamento con una trasmissione radiofonica di Bogotà, mi telefonarono dal «Sydney Morning Herald» e così via. Riuscii a fare l’ultima chiamata alle 4:27 e la successiva alle 5.32. Non sarebbe stato un lunedì normale, decisamente no. Anzi, da quel momento in poi la mia vita non è più stata normale. Ovviamente, ciascuno ha il proprio concetto di «normalità». Essendo cresciuto nella città subtropicale di Brisbane, nemmeno io forse avrei considerato normale una vita dedicata alla scienza e trascorsa tra i laboratori di tre continenti. L’infanzia nel Queensland alla metà del Ventesimo secolo era un affare piuttosto tranquillo e privo di pretese intellettuali. Non avevo praticamente idea di come fosse il mondo fuori da lì e nemmeno molte informazioni grazie alle quali potermene fare un’idea. Se ci ripenso, era tutt’altro che il trampolino ideale da cui poter spiccare il volo verso le vette della scoperta scientifica. Sono cresciuto nel sobborgo operaio di Oxley, dove la metà dei ragazzi abbandonava la scuola finite le medie per andare a lavorare nella locale «fabbrica del bacon» – un mattatoio – in quella di cemento, a far mattoni, oppure cominciava un periodo di apprendistato da qualche parte. Ero un ragazzino brillante, ma le giornate a scuola erano interminabili; mi annoiavo, e i risultati che ottenevo erano inferiori alle mie potenzialità. Inoltre, il fatto


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di essere gracile, di avere una pessima coordinazione e di essere almeno un anno più piccolo di tutti gli altri non mi era certo di aiuto. Negli sport ero un disastro. La situazione migliorò un po’ quando cominciai le superiori. La scuola era stata appena inaugurata, quindi non c’erano studenti più grandi che potessero rappresentare un esempio, nessuna biblioteca e nessun club studentesco: a salvarmi furono gli insegnanti, tutti laureati e totalmente dediti all’idea di istruzione pubblica. Ricevetti delle ottime basi in fisica, chimica e matematica, e sviluppai un grande amore per la storia, i libri e i capolavori del teatro inglese. Lo studio del francese fu il mio primo contatto con una cultura straniera. Anche se oggi lo parlo in modo pessimo, e non lo leggo più nemmeno tanto bene, entrare in contatto con la storia e la cultura francese mi aprì gli occhi. Dopo aver ricevuto il Nobel sono stato eletto a membro straniero associato dell’Accademia francese di medicina, ed è una cosa che mi rende molto orgoglioso. A quell’epoca Brisbane era una cittadina piuttosto isolata e provinciale, in un Paese di cui il resto del pianeta ignorava l’esistenza. Da ragazzino, mi feci un’idea del mondo tramite la lettura – anche se nel mio libro di storia l’unico riferimento agli Stati Uniti era un breve capitolo intitolato «Giorgio III e la perdita delle colonie» – e i film. La mia visione della storia americana era allo stesso tempo anglicizzata e influenzata da John Wayne. La situazione non cambiò molto nemmeno quando, nel 1956, l’anno prima che entrassi all’università, in Australia furono inaugurate le prime trasmissioni televisive: western e giochi a premi che non ci illuminavano certo sulla vita dei nostri vicini più prossimi; quel poco che sapevamo


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dei Paesi asiatici era legato alla seconda guerra mondiale e all’esperienza coloniale europea. Nemmeno la storia della mia famiglia è indicativa di ciò che mi aspettava, o della strada che avrei intrapreso. Entrambi i miei genitori avevano abbandonato la scuola a quindici anni, anche se, come molti della loro generazione provvisti di una scarsa istruzione formale, parlavano un inglese grammaticalmente corretto e sapevano scrivere una lettera senza errori. Mia madre aveva continuato a studiare ed era diventata insegnante di pianoforte, e la casa riecheggiava delle note di Debussy, Chopin e Mozart. Mio padre seguì diversi corsi di perfezionamento sul lavoro, inizialmente come tecnico dei telefoni, in seguito nella gestione dei servizi telefonici. Era un lettore avido, e leggeva di tutto. Tuttavia, nessuno dei due aveva un’idea chiara dell’istruzione superiore. Nella nostra zona i laureati erano pochi, a parte il medico e il dentista, e non avrei saputo a chi chiedere consiglio su quale carriera intraprendere. Oxley, con le sue casette di legno rialzate e l’atmosfera semirurale, era considerata una delle «periferie difficili» di Brisbane. Avevo due amici che vivevano in un sobborgo vicino, più ricco, e i cui padri erano professionisti, ma non mi è mai venuto in mente di parlare di istruzione e carriera con loro. Poi c’era mio cugino, Ralph Doherty, che aveva tredici anni più di me e viveva dall’altra parte della città, ed era uno degli studenti più brillanti dello Stato. È stato il primo membro della mia famiglia a frequentare l’università: si è laureato con ottimi voti in medicina all’Università del Queensland, è entrato nella ricerca pubblica nel settore delle malattie infettive e tropicali, quindi si è trasferito a Harvard per un corso post-laurea. Ero vagamente consapevole della cosa, ma


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non ricordo di aver mai avuto con lui una conversazione seria di argomento scientifico. Inoltre, tutti davano per scontato che fosse talmente intelligente che nessuno avrebbe mai potuto seguire il suo esempio. Finite le superiori, non avevo un’idea precisa di cosa fare, e per un breve periodo considerai l’ipotesi di diventare giornalista nel quotidiano locale, il «Courier-Mail» di Brisbane. Ero un lettore instancabile: il filosofo esistenzialista francese Jean-Paul Sartre mi introdusse all’età della ragione, e grazie ai romanzi di Aldous Huxley, come La catena del passato e Punto contro punto, nei quali l’autore intreccia i temi scientifici della sua epoca (gli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo) con le vite di alcuni personaggi dell’upper class inglese, entrai in contatto con una cultura che guardava all’Illuminismo e al mondo della ricerca scientifica. Huxley usava le conoscenze della biologia dello sviluppo della sua epoca per escogitare linee narrative in grado di esplorare la tensione tra passione e vita della mente. Quale sedicenne non è interessato alla passione? A scuola non avevo studiato biologia – non era una materia proposta ai ragazzi; sospetto per gli stessi motivi per cui oggi i conservatori sono contrari allo studio dell’educazione sessuale – ma l’idea di fare ricerche in qualche campo della biologia mi sembrava interessante. Come avrei dovuto fare? Non volevo diventare medico perché, per quanto ne sapevo, la maggior parte di loro trascorreva tutta la vita tra pazzi e malati. E non mi sembrava divertente. La mia vita cambiò il giorno in cui andai a un «open day» della facoltà di veterinaria dell’Università del Queensland, all’epoca una delle due università in cui ci si poteva formare come veterinari


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in Australia e in Nuova Zelanda. Il mio interesse fu subito colpito dalle dimostrazioni di embriologia, anatomia e patologia e dalla giovane tecnica di laboratorio che se ne occupava: era sbadata, sexy e fumava una sigaretta dietro l’altra. Nella rovente estate di Brisbane, indossava un camice bianco da laboratorio e poco altro. Questa «donna più grande» – avrà avuto al massimo ventidue anni – era completamente diversa dal borioso dottor Frankenstein dei film, con il suo soprabito bianco abbottonato con cura. Persino gli organi malati in mostra alle pareti e l’onnipresente odore di cera calda e formalina mi intrigavano. Era tutto completamente diverso da qualunque cosa avessi incontrato nei primi sedici anni della mia vita. Sembrava tutto reale e, soprattutto, interessante e fattibile. Da quel momento, sono diventato dipendente dalla patologia. Il fatto che la patologia accenda l’interesse degli adolescenti non è sorprendente: molti giovani scelgono di studiare medicina legale dopo aver visto quei macabri programmi televisivi pieni di annegati, segaossa elettrici e personaggi tutti d’un pezzo che trascorrono la loro vita in tute da lavoro di plastica bianca a tagliuzzare pezzetti di carne e a metterli dentro delle boccette. La mia attrazione per la malattia e la morte non è ancora svanita: sì, è vero, molti scienziati autori di ricerche innovative sono fermi in un’eterna adolescenza, ma il gioco di «scoprire la malattia» offre sorprese sempre nuove, e di sicuro non è mai noioso. Negli Stati Uniti, medicina, odontoiatria e veterinaria sono corsi post-laurea; mentre, almeno in quei giorni lontani, in Australia, come in Gran Bretagna, i ragazzi cominciavano la loro formazione professionale appena usciti dalle superiori. Se avessi frequentato


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per quattro anni un college americano, oggi probabilmente avrei un’istruzione migliore e sarei uno storico. Anche nel mio lavoro di scienziato tendo a sviluppare le spiegazioni partendo da una prospettiva storica e la storia e la politica mi affascinano. Sono entrato alla facoltà di veterinaria all’età di diciassette anni e mi sono laureato cinque anni dopo, nel dicembre del 1962, in un giorno d’estate caldo e luminoso. Esattamente trentaquattro anni dopo, nel dicembre del 1996, mi ritrovavo nella cupa Stoccolma invernale per ricevere il Premio Nobel per la Medicina dalle mani di re Carlo XVI Gustavo di Svezia. Che cosa ha portato quel giovane e ingenuo studente di veterinaria all’immunologia e alla scienza che fa vincere i premi? Non c’erano poi così tante differenze tra me e i miei compagni di corso; una sì, però: io ho sempre desiderato, sin dall’inizio, diventare ricercatore. Ero molto altruista, ed ero convinto che migliorare le condizioni di salute degli animali domestici, così importanti nel mondo sviluppato, sarebbe stata un’attività utile. Dopo la laurea, invece di cominciare la pratica veterinaria, ho studiato il problema delle malattie infettive nel bestiame, nei maiali, nei polli e nelle pecore, inizialmente nel Queensland, quindi in Scozia, dove ho portato a termine un dottorato sull’encefalomielite ovina, una malattia infettiva virale delle pecore trasmessa dalle zecche. Tornato da Edimburgo, il mio obiettivo a lungo termine era diventare un ricercatore veterinario a Melbourne all’interno della CSIRO, l’importante organizzazione australiana per la ricerca applicata. All’inizio, però, feci una deviazione – che immaginavo temporanea – alla John Curtin School of Medical Research (JCSMR) all’Australian National University per studiare l’immuni-


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tà cellulo-mediata, in modo da comprendere meglio la risposta dell’ospite ai virus. Avevo cominciato i miei esperimenti sulle infezioni virali sui topi da laboratorio a Canberra nel 1972 e qui entrai in contatto per la prima volta con l’ambiente dinamico e intellettualmente stimolante della ricerca medica di base. La storia di quanto è accaduto in seguito nella mia odissea scientifica sarà raccontata nel corso di questo libro. Non c’è bisogno di aggiungere che non sono più rientrato nel mondo della veterinaria. Da allora ho lavorato sia in Australia sia negli Stati Uniti, ma ho vinto il Premio Nobel per una scoperta fatta a Canberra con il mio collega Rolf Zinkernagel tra il 1973 e il 1975, e per il quadro concettuale che avevamo elaborato insieme per spiegare le nostre scoperte. Nel giro di un paio d’anni siamo diventati figure significative nel mondo dell’immunologia, e lo siamo ancora. Dopo il Nobel, ovviamente, si passa a giocare in un campionato completamente diverso. L’intensa attenzione globale da parte dei media tende a esaurirsi al termine della settimana delle premiazioni, ma il riconoscimento dura molto più a lungo e permea il resto dell’esistenza. «Vincitore del Premio Nobel» è una job description che dura tutta la vita. Questa reputazione deriva, naturalmente, tanto dall’importanza del premio quanto dai risultati ottenuti dal singolo premiato. Che cosa avrebbe pensato quell’ingenuo e semplice ragazzino di Oxley se avesse potuto sbirciare nella palla di cristallo e si fosse visto a Stoccolma, dopo così tanti anni, mentre andava dal Grand Hotel al Palazzo Reale? Come avrebbe reagito se qualcuno gli avesse detto che ad attenderlo, nel suo futuro, c’era una carriera internazionale e uno dei premi più prestigiosi del mondo? Non so


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nemmeno se all’epoca ero consapevole dell’importanza del Nobel, o se conoscevo i nomi dei miei connazionali che lo avevano vinto. Nella mia vita non avevo in progetto di vincere il Nobel e per quanto ne sapevo era improbabile che potessi riuscirci. Perché proprio io? La mia impressione è che, come per molti altri vincitori in discipline scientifiche, sia stato riconosciuto il mio ruolo in una scoperta fondamentale che ha modificato l’idea predominante, quello che il filosofo Thomas Kuhn ha definito «un cambiamento di paradigma». Io e Rolf abbiamo svolto una serie di esperimenti abbastanza semplici e abbiamo avanzato, per i risultati ottenuti, quella che all’epoca era una spiegazione rivoluzionaria. Molti importanti scienziati, in seguito, hanno utilizzato i progressi tecnologici raggiunti in altri campi per chiarire meglio sia le nostre scoperte che le loro conseguenze. Le loro storie sono senz’altro interessanti quanto la mia, e ognuno di loro è stato indubbiamente influenzato da molti fattori, comprese persone, luoghi, opportunità e ambienti intellettuali. Anche se pochi vincono il Nobel, chiunque operi all’avanguardia della scoperta e della soluzione dei problemi del mondo partecipa della stessa tradizione, che sia uno scienziato, uno scrittore o un operatore di pace.


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