Il Mereghetti 100 capolavori del western Autentico specchio di una nazione, vero e inimitabile «romanzo americano», più ricco e variegato di qualsiasi prova letteraria, il western ha accompagnato per più di un secolo la storia e l’evoluzione di un Paese, offrendone una rappresentazione simbolica dei suoi avvenimenti e dei suoi personaggi. Come una novella chanson des gestes, complessa e articolata, la cui seduzione nasce dalla ricchezza inesauribile della sua materia, solo apparentemente ripetitiva e in realtà sempre diversa e nuova.
Dollaro d’onore, Un (Rio Bravo, Usa 1959, col, 141’) Howard Hawks. Con John Wayne, Dean Martin, Ricky Nelson, Angie Dickinson, Walter Brennan, Ward Bond, John Russell, Claude Akins. ◆ A Rio Bravo, lo sceriffo John T. Chance (Wayne) arresta per omicidio Joe Burdette ma deve fare i conti con la banda del fratello Nathan (Russell), un ricco e prepotente proprietario terriero. Lo aiutano solo un vicesceriffo ubriacone (Martin), che saprà trovare la forza di riscattarsi, un vecchietto (Brennan), un ragazzo (Nelson) e una bella avventuriera, Feathers (Dickinson). Sceneggiato da Jules Furthman e Leigh Brackett da un racconto di B.H. McCampbell (in realtà Barbara, la figlia di Hawks), ben ritmato dalle musiche di Dimitri Tiomkin (che rielabora il popolarissimo tema del deguello) è una summa perfetta del genere, la cui forza mitologica è raggiunta per forza di morale e non di epica. Western da camera, girato praticamente in tre soli ambienti – «la prigione luogo della solitudine, il saloon luogo del confronto e l’albergo luogo dell’intimità» [Grespi] – privo di ricostruzione storica e ancor meno di afflato paesaggistico, è comunque una summa perfetta del genere e dei temi cari a Hawks: le dinamiche che si scatenano all’interno del gruppo, il ruolo pedagogico degli anziani, la nostalgia di una passata integrità, l’orgoglio del professionista per il lavoro ben fatto, le schermaglie virili (e la difficoltà a esprimere i propri sentimenti, vedi l’insolita dichiarazione «d’amore» di Chance a Feathers: se si presenterà così discinta in pubblico lui l’arresterà!) La sequenza d’apertura, con l’uso della sputacchiera, è un omaggio dichiarato a Le notti di Chicago di von Sternberg. Parafrasato nel 1976 da Carpenter in Distretto 13 – Le brigate della morte. Johnny Guitar (Johnny Guitar, Usa 1954, col, 110’) Nicholas Ray. Con Joan Crawford, Sterling Hayden, Scott Brady, Mercedes McCambridge, Ward Bond, Ben Cooper, Ernest Borgnine.
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◆ Odiata per la sua bellezza e accusata ingiustamente di aver collaborato a una rapina, Vienna (Crawford), la proprietaria di un saloon, viene condannata all’impiccagione da una folla guidata dalla sua più acerrima nemica, Emma (McCambridge): salvata all’ultimo momento da Johnny Logan, detto Johnny Guitar (Hayden), un pistolero che in passato aveva avuto con lei una relazione, Vienna riuscirà ad andarsene libera solo dopo aver affrontato in duello Emma. Un western intellettuale e complesso, torbido e cupo come una tragedia greca (sceneggiato da Philip Yordan), segnato in profondità dall’interpretazione manierata di tutti i protagonisti e straziante nel suo disperato romanticismo (dove è possibile vedere un accenno autobiografico al legame che qualche anno prima aveva unito Ray alla Crawford). Così il tema della tolleranza, che permette di leggere nel film un violento attacco al maccartismo e al puritanesimo repressivo allora vincente, si unisce all’esaltazione, barocca e fiammeggiante, dell’amore tra «due vinti, che credono nei propri sentimenti e che, resi più forti dalle sofferenze e dalle dure prove, vi cercano una ragione d’essere e di vivere» [Lourcelles]. Notevolissimo il lavoro sul colore del direttore della fotografia Harry Stradling, ma anche del regista, che per aggirare i limiti del sistema Trucolor (che rendeva male il blu) accentuò un cromatismo in bianco (come certi indimenticabili abiti di Vienna) e nero (come la notte, spesso rotta dalle fiamme). Nonostante la povertà della produzione (Republic), Johnny Guitar è una delle rielaborazioni più conturbanti (e più poetiche) del mito della frontiera.
Ombre rosse (Stagecoach, Usa 1939, b/n, 97’) John Ford. Con John Wayne, Claire Trevor, John Carradine, Thomas Mitchell, Andy Devine, Donald Meek, Louise Platt, Tim Holt, George Bancroft, Berton Churchill, Tom Tyler, Francis Ford, Jack Pennick. ◆ Nel 1880, una diligenza lascia Tonto per Lordsburg con a bordo la moglie incinta (Platt) di un ufficiale, un timido rappresentante di liquori (Meek), lo sceriffo Wilcox (Bancroft) a cui si aggiungono Dallas (Trevor), una prostituta cacciata dalla città, il medico alcolizzato Josiah Boone (Mitchell), il banchiere disonesto Henry Gatewood (Churchill), un giocatore professionista (Carradine), e, in seguito, il fuorilegge Ringo Kid (Wayne): dopo aver perso la scorta militare e aver fatto una sosta in cui la donna ha partorito (con l’aiuto della prostituta e del medico ubriacone), la diligenza è attaccata dagli Apache e salvata dalla cavalleria. Arrivati a destina-
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zione lo sceriffo permetterà a Ringo di vendicare la morte del padre e del fratello (affrontando in un duello i tre fratelli Plummer) e poi di andarsene oltre frontiera con Dallas? Tratto dal racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox, a sua volta ispirato a Palla di sego di Guy de Maupassant, è il più celebre dei western, quintessenza del genere e autentico capolavoro in «perfetto equilibrio tra la teatralità e l’avventura, lo spazio chiuso e l’immensità cosmica, l’aneddoto e la sintesi, l’epicità e il messaggio» [Lourcelles]. Atto d’accusa contro l’ipocrisia sociale e l’emarginazione in pieno New Deal rooseveltiano (nel momento del bisogno i pregiudizi contro la prostituta o il medico ubriacone, il giocatore d’azzardo o il fuorilegge si dissolvono come neve al sole), il film segna il ritorno di Ford al western e consente a Wayne di imporsi come attore di primo piano. La celeberrima sequenza dell’inseguimento degli indiani alla diligenza (aperta da una panoramica laterale sugli Apache appostati sulle colline entrata nella storia del cinema) fu girata nella Monument Valley (fino ad allora sconosciuta allo spettatore cinematografico) e realizzata con una cinepresa che correva a 60 km orari a fianco della diligenza. Due Oscar: per il miglior attore non protagonista (Thomas Mitchell) e per la colonna sonora (di Richard Hageman, Franke Harling, John Leipold e Leo Shuken) ottenuta riarrangiando 14 canti popolari americani. Fiacco remake nel 1966, diretto da Gordon Douglas: I 9 di Dryfork City. Piccolo grande uomo (Little Big Man, Usa 1970, col, 142’) Arthur Penn. Con Dustin Hoffman, Faye Dunaway, Martin Balsam, Richard Mulligan, Chief Dan George, Jeff Corey, Aimée Eccles, Kelly Jean Peters, Cal Bellini. ◆ Unico superstite della battaglia di Little Big Horn, l’ultracentenario Jack Crabb (Hoffman) racconta a un giornalista la sua vita: allevato dagli indiani Cheyenne dopo che la sua famiglia era stata massacrata, Jack torna tra i coloni in età adulta e cerca invano di adattarsi al loro modo di vivere. Disgustato dalla furia omicida dei bianchi, ma diventato estraneo anche all’universo indiano, finirà col generale Custer (Mulligan) alla battaglia di Little Big Horn, dove verrà risparmiato da un suo vecchio nemico indiano. Ispirandosi al romanzo omonimo di Thomas Berger (sceneggiato da Calder Willingham), Penn descrive la crisi d’identità dell’uomo americano, che oscilla tra mondo bianco e mondo indiano alla ricerca di un sé che non troverà probabilmente mai, e la descrive con il respiro di una grande epopea picaresca, mescolando programmaticamente stili e generi,
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alternando scene da commedia (come il primo incontro tra Jack e Wild Bill Hickok) con brani di grande drammaticità (come i massacri degli indiani da parte di Custer). La frase che dice il fotografo quando ritrae Jack con la moglie («Immortaliamo il momento») è un omaggio del regista al fratello fotografo Irving Penn, il cui senso però si perde in italiano: in originale, infatti, la frase («Moments preserved») è il titolo di un libro di fotografie di Irving e la voce che la pronuncia è quella di Arthur Penn. Lo straordinario make-up di Dustin Hoffman è di Dick Smith. Sentieri selvaggi (The Searchers, Usa 1956, col, 119’) John Ford.
Con John Wayne, Jeffrey Hunter, Vera Miles, Ward Bond, Natalie Wood, Harry Carey jr, Patrick Wayne. ◆ Texas, 1868. Dopo che gli indiani hanno massacrato suo fratello Aaron e sua cognata, il reduce sudista Ethan Edwards (Wayne) va alla ricerca delle due bambine rapite, assieme a Martin (Hunter), un mezzosangue adottato da Aaron. Dopo anni ne ritrova una, Debbie (Wood): ma quando scopre che ormai è diventata un’indiana, medita di ucciderla. Tra indiani e bianchi non vi è alcuna possibilità di intesa, sembra suggerire Ford: e Wayne – in una delle sue migliori parti di sempre – interpreta un personaggio tormentato e ossessivo, dai tratti spesso sgradevoli (cava gli occhi agli indiani morti per farsi beffa di una loro credenza). Vero è che le opinioni del regista non sono per forza quelle del personaggio, ma certe prodezze di Ethan sono viste con indubbia simpatia. Ideologia a parte, è sicuramente uno dei migliori western del regista (secondo molti registi, da Scorsese a Cimino, uno dei più grandi film di tutti i tempi), classico e innovativo come tutto il suo cinema: geniale l’uso degli spazi della Monument Valley, e la capacità di rendere il senso del tempo che scorre e del passare delle stagioni. La sequenza iniziale, con la stanza buia che si apre sul paesaggio, è da brivido (e verrà citata da Kasdan in Silverado); lo stesso vale per il finale, dove viene ripresa la stessa inquadratura, con la sagoma di Wayne che rimpicciolisce, condannato a un destino di solitudine. La musica è di Max Steiner, la fotografia di Winton C. Hoch e Alfred Gilks, la sceneggiatura di Frank S. Nugent dal romanzo di Alan Le May.
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