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Energia attraverso le Generazioni.

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24 dicembre 2010/6 gennaio 2011 • Numero 878 • Anno 18 “Sono felice di poter dire, con una certa sicurezza, che questo è solo l’inizio”

Sommario Accorciare le distanze. Farmi un lifting. Sei mesi senza Ikea. Mantenere la calma. Fare le mie scuse a Ibrahimovic. Portare i bambini a Pompei prima che crolli tutto. Meno zuppe pronte a cena. Fare delle ferie decenti. Imparare la lingua dei segni. Passare un mese tra il tropico del cancro e quello del capricorno. Parlare di più, ascoltare meno. Leggere la biograia di Luigi XV in francese. Aprire un albergo sulla spiaggia a Zihuatanejo. Essere moderato nella moderazione. Imparare a cucinare le lasagne come fa mia nonna. Trovare un posto ai fumetti. Creare una biblioteca di stilemi graici. Tornare a sorridere. Almeno un weekend con neve, camino, castagne e vin brulé. Andar con le lasagne inino a Prato a porre l’assedio alle castagne e frusco e ammargelluto strolagare alle prugne più tonde e ritornare. Labs! Svegliarmi prima la mattina. Smettere di procrastinare i buoni propositi degli anni scorsi. Abbassare gli scudi. Vedere tanto i miei amici. Un bel viaggio. Guardare meno la televisione. Coltivare lo zero. Prendere conidenza con la pentola a pressione. Imparare a guidare. Sperimentare. Come ogni anno, questi sono i buoni propositi della redazione di Internazionale. E i vostri? Giovanni De Mauro settimana@internazionale.it

Iheoma Nwachukwu

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La buona iglia Disegni di Gabriella Giandelli BILLy kahora

18 Zone urbane Disegni di Shout graphIc jourNaLISm

29 Cuore di tenebra Testi di David Zane Mairowitz e disegni di Catherine Anyango a. IgoNI Barrett

44 A caccia di sogni

Le rubriche

yvoNNe a. owuor

52 Bloody Kenya Disegni di Stefano Ricci oLujIde adeBayo-BeguN

60 Desiderio d’altro Disegni di Guido Scarabottolo

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Editoriale

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L’oroscopo

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L’anno del New Yorker

Il prossimo numero di Internazionale esce il 7 gennaio 2011

portfoLIo

70 L’Africa a colori Le foto di Paul Sika BINyavaNga waINaINa

78 Merce delicata Disegni di Gipi

Disegni di Franco Matticchio

I disegnatori di questo numero Catherine Anyango è un’artista svedese-keniana che vive a Londra. Gabriella Giandelli è nata a Milano nel 1963. Ha pubblicato libri in Francia, in Italia e negli Stati Uniti. Gipi è nato a Pisa nel 1963. Realizza storie a fumetti e cortometraggi. Franco Matticchio è nato a Varese nel 1957. Pittore e illustratore, ha pubblicato il suo primo lavoro per il Corriere della Sera nel 1979. Stefano Ricci è un disegnatore nato a Bologna nel 1966. Vive ad Amburgo. Collabora con case editrici e giornali in Italia e all’estero. Guido Scarabottolo è nato nel 1947 a Sesto San Giovanni. Graico e illustratore, vive e lavora a Milano. Shout è nato a Pordenone nel 1977. Vive tra Milano e San Francisco. Collabora con molti giornali statunitensi.

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internazionale.it/sommario

LoREnZo MATToTTI

Buon anno

PAUL SIkA

La settimana

BINyavaNga waINaINa, pagINa 5


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Editoriali “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra ilosoia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Comitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor) In redazione Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara Esposito Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Maria Teresa Carbone, Giuseppina Cavallo, Matteo Colombo, Monica Martignoni, Francesca Spinelli, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Anita Joshi, Lore Popper, Marta Russo, Andreana Saint Amour, Guido Vitiello, Abdelkader Zemouri Editore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo Storto Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editoriale Tel. 06 809 1271, 06 80660287 info@ame-online.it Subconcessionaria Download Pubblicità S.r.l. Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commercialeCondividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: posta@internazionale.it

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993 Direttore responsabile Giovanni De Mauro Chiuso in redazione alle 20 di venerdì 17 dicembre 2010 PER ABBONARSI E PER INFORMAZIONI SUL PROPRIO ABBONAMENTO

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È solo l’inizio Binyavanga Wainaina per Internazionale I racconti, le foto e il fumetto di questo numero sono stati scelti da Binyavanga Wainaina, scrittore e giornalista keniano, direttore della rivista letteraria Kwani? La buona iglia è il secondo racconto breve pubblicato da Iheoma Nwachukwu. Scritto in inglese, è ambientato in Nigeria negli anni settanta, dopo la guerra del Biafra, e ha come protagonista Odinakachi, una donna igbo che è stata venduta come schiava dal padre. Ma non è una storia di infelicità e perdita della libertà. È la descrizione del mondo contrastato e mutevole in cui la donna vive e, nello stesso tempo, è il racconto di un amore, di un matrimonio moderno, scritto con introspezione ed empatia da uno scrittore di eccezionale talento. Una persona a cui l’ho mandato non riusciva a credere che fosse stato scritto da un uomo. È uno dei più bei racconti che ho letto e l’autore non è molto noto, neanche nel suo paese. Ormai sono direttore di Kwani? da sette anni. Ho avuto il privilegio di ricevere – molto spesso da posti che non ho mai visto – e leggere i lavori di una nuova generazione di africani che scrivono in inglese. Ho visto gli scrittori della mia generazione, quelli nati dopo l’indipendenza degli anni sessanta, che cominciavano a trovare il loro posto in un mondo turbolento, caratterizzato dal cambiamento e dalla nascita di strumenti che consentono di comunicare e di costruire una comunità letteraria attraverso lo spazio e il tempo. Alcuni di questi scrittori, come Chimamanda Ngozi Adichie, Dinaw Mengestu, Helon Habila, Yvonne Owour e altri, stanno lasciando un segno nel mondo letterario occidentale e potrebbero essere deiniti scrittori globali. Sono felice di poter dire, con una certa sicurezza, che questo è solo l’inizio. Alcuni manoscritti inediti che ho letto indicano che l’esplosione è imminente. Nei prossimi due anni straordinari talenti africani invaderanno le librerie di tutto il mondo. Il romanzo in progress di Billy Kahora, The applications, da cui è tratto Zone urbane, ci porta nel mondo folle e ubriaco di Nairobi durante gli ultimi giorni della presidenza di Daniel arap Moi. Kandle, un vero iglio della nostra epoca, vive all’interno di un guscio di alcol e velocità che chiama “la Zona”. È un uomo a prova di proiettile, uno stuntman capace di sfruttare i buchi del collassato sistema keniano. Kandle scopre che negli anni novanta per atterrare sul tetto del mondo della inanza postmoderna basta essere un uomo dalla morale di gomma. In Bloody Kenya, un estratto del romanzo di Yvonne Owuor, la giovane artista cosmopolita

Ajany afronta la morte del fratello e i segreti della sua famiglia, che emergono mentre il Kenya è in iamme. Yvonne ci riporta agli ultimi giorni dell’era coloniale e ci fa vedere da che mondo vengono le persone che hanno creato la classe dirigente borghese del Kenya. Ajany deve fare i conti con quello che suo padre è stato veramente. Yvonne lascia intendere che il Kenya, per essere indipendente, deve imparare la convivenza: il collaborazionista che aiutava il regime coloniale ha deciso di dedicare la sua vita all’indipendenza del paese. Igoni Barrett è semplicemente uno dei prosatori più emozionanti della nostra generazione. Il suo uso della lingua è inconfondibile. La sua raccolta di racconti, From caves of rotten teeth, da cui è tratto A caccia di sogni è un viaggio attraverso una Nigeria distopica dove le persone riescono a scoprire i modi più straordinari per trovare forza e amore, per continuare a contare, per mantenere un’integrità morale. In Desiderio d’altro di Olujide Adebayo-Begun, ambientato a Kano, in Nigeria, nel mezzo dei violenti scontri tra cristiani e musulmani, un giovane insegnante di ilosoia s’innamora di un bellissimo ragazzo che ha deciso di rinunciare all’istruzione formale per studiare da imam. Ognuno di questi scrittori ha assistito alla caduta del muro di Berlino, alla ine delle dittature, è stato testimone dell’epica corruzione dei nostri leader, del collasso delle nostre istituzioni, del crollo delle nostre speranze nazionali, del progresso e della soferenza. Perché allora tutte queste storie mi sembrano riflessioni positive sul continente africano? Perché i personaggi sono autori del loro destino, non c’è cenno alla miseria e all’impotenza, ai cliché sul “terzo mondo” che l’occidente presenta ai suoi lettori ogni giorno. Siamo la generazione che ha visto tutto questo e alla ine ha scoperto di essere ancora in piedi, a volte perino più forte. Vedere Odinakachi, i suoi igli, i suoi pensieri e il suo matrimonio signiica capire perché, nonostante tutto, questo continente ce la farà. Le forze del bene sono vive e vegete, stanno afrontando quelle del male, e usciranno più forti dalla battaglia. Nelle onnipresenti narrazioni della miseria dell’Africa, gli occidentali sentono parlare troppo poco di quanto le nostre lotte ci hanno resi più forti. Questo assaggio di nuova scrittura africana appartiene pienamente al mondo, presenta le idee migliori ed è coinvolto nella creazione di nuovi paesaggi letterari per il mondo in cui tutti viviamo. E non pensate che sia inita qui. u bt Internazionale 878 | 24 dicembre 2010

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Iheoma nwachukwu Disegni di Gabriella Giandelli

La buona iglia

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Iheoma nwachukwu

è uno scrittore nigeriano di 33 anni. I suoi racconti sono stati pubblicati in Nigeria e negli Stati Uniti. Vive a Lagos. Il titolo originale di questo racconto è The good daughter. La traduzione dall’inglese è di Maria Teresa Carbone.

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uccedeva ogni volta che Odinakachi senti- tutte costruite più o meno nello stesso periodo, all’inva odore di talco addosso a donne abba- domani della guerra con il Biafra, come ogni altra casa stanza vecchie da averla potuta allattare. della città. Alcune avevano chiazze di cemento sui muCome quella che le era appena passata ac- ri, in uno stadio di perpetua ricostruzione, e molte, a canto. I suoi pensieri cominciavano a ga- due o tre piani, con le fessure laterali per la ventilazione loppare e provava a immagie grandi inestre, erano semplicemente nare cosa fosse accaduto. Stava rientran- Si sentiva state tirate su al posto di quelle demolite do dalla casa dell’amica dove era andata risucchiata dentro, dai ricchi proprietari. Un mammy wagon, per svezzare la piccola che portava sulla come una ragnatela un furgone rialzato colmo di merci e di schiena. Quella donna le era passata ac- che si disfa in un persone, con la scritta “niente cibo per la canto sulla strada, tirandosi dietro una soio di vento. signora tartaruga” a babordo e tribordo, bambinetta sorridente e sdentata che, Come se il suo le ansimò accanto con il suo carico dopensò Odinakachi, doveva essere la ni- spirito fosse stato lente, diretto al mercato principale. potina. Si erano salutate e Odinakachi, inghiottito dentro Questa era Onitsha, anni dopo la annusando il profumo di talco, osservanguerra civile, anni dopo che i soldati feun buco nella sua do il volto scavato, incorniciato dai capelderali avevano saccheggiato la città e anima li grigi sfuggiti alla sciarpa di seta che le dato fuoco al mercato, anni dopo che ricopriva il capo da orecchio a orecchio, l’arcivescovo Arinze era andato in giro si ritrovò a immaginare sua madre. Possibile che fosse per le strade sulla sua vecchia Peugeot bianca richiainvecchiata così, con iacche mani artritiche che non mando giovani uomini al sacerdozio. L’anno in cui era avrebbero mai stretto le sue bambine? O con un’anda- uscito l’eccellente People’s club Odogwu di Osita Osadetura incerta e curva che le avrebbe impedito di chinarsi be, con i suoi ottoni saturi e sofocati, l’anno in cui tutto per abbracciarle? Fece scorrere l’immagine attraverso il paese si era stretto insieme, nell’eccitazione per il il varco degli anni passati, sofermandosi sui suoi parti, World black and african festival of arts and culture. e sulle ore successive, quando una iglia prova un orgoOdinakachi arrivò a casa, un ediicio non intonacaglio speciale di fronte all’attenzione materna. La sen- to a due piani, costruito quattro anni prima da suo masazione era sempre la stessa, dopo questi viaggi a ritro- rito Chinwoke. Avevano degli inquilini nelle camere so: si sentiva risucchiata dentro, come una ragnatela singole al piano terra, otto stanze più un gabinetto, bache si disfa in un soio di vento. Come se il suo spirito gno e cucina (c’erano otto camere anche al piano di fosse stato inghiottito dentro un buco nella sua anima. sopra, senza contare la cucina). Salendo le scale per Serrava le labbra, sospirava stanca, e diceva: “Jehovah andare di sopra, fu colpita dall’odore pesante di abbanbu Eze, Dio è sovrano”. Fece così anche questa volta. Si dono. Il corridoio era deserto, a parte un marmocchio strinse lo scialle – per assicurarsi che tenesse bene la accovacciato accanto al vasino, che urinava davanti bambina – passando le dita della mano destra sotto il alla porta dei genitori. Odinakachi scosse la testa infagomito sinistro sollevato da cui pendeva una borsa, poi stidita. Avrebbe parlato con la madre del piccolo: o gli attraversò la strada polverosa per girare l’angolo verso insegnava a usare il vasino o doveva trovarsi un altro la via dove viveva. Le case della sua strada sembravano alloggio. Sentì la iglia dietro di lei che si dimenava, for-

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Iheoma Nwachukwu

Odinakachi aveva un vago ricordo delle serate in cui veniva mandata a prendere il fuoco in un accampamento vicino, mentre la sorellina tracciava disegni nella sabbia ai piedi della madre

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se anche lei voleva guardare il bambino che urinava, ma quando Odinakachi girò il collo per sbirciarla, la piccola, piena di risentimento per lo svezzamento a cui la madre la stava costringendo, evitò il suo sguardo. Odinakachi sorrise. Il cattivo odore si sentiva anche al piano di sopra, ma era meno acuto. Qui la famiglia viveva in due camere e aveva l’uso esclusivo di uno dei due gabinetti. Odinakachi passò a prendere le bambine da una vicina, mama Adanma, la cui iglia andava alla stessa scuola delle sue, poco lontano. Le ragazzine tornavano sempre da scuola insieme (ci andavano anche insieme) e le iglie di Odinakachi, quando la madre non c’era, aspettavano nella stanza di mama Adanma. Erano tre bambine dalla faccia allegra, che avevano preso da lei gli occhi infossati e dal padre il vizio di digrignare i denti. Erano nate tra il 1971 e il 1973, frutto del frenetico tentativo dei genitori di sconiggere l’imminente menopausa di Odinakachi (la coppia era convinta che la scadenza fosse a quarant’anni) e aggiudicarsi il iglio maschio. Il medico aveva deinito questo piano di battaglia “un suicidio” e aveva detto a Odinakachi (che alla terza gravidanza aveva perso conoscenza durante il travaglio e aveva dovuto essere rianimata) che se voleva morire, non doveva far altro che rimanere di nuovo incinta l’anno successivo. All’inizio la coppia lo aveva ascoltato, ma presto la “febbre del iglio maschio” aveva avuto il sopravvento. Con grande disappunto di Chinwoke, però, era arrivata un’altra bambina, la piccola che Odinakachi portava sulla schiena (il medico era rimasto sconvolto di fronte a “questa pazzia, alla sua età”). A diferenza delle sorelle, la bambina, che aveva quattordici mesi, era stata diicile da svezzare: riiutava qualsiasi cibo solido le venisse proposto, rovesciando la ciotola di yam o di riso, e dopo aver strillato puntando il dito verso il seno della madre, quando inalmente aveva ottenuto quello che voleva, per vendicarsi mordeva il capezzolo di Odinakachi. Così la madre per tre giorni consecutivi, dopo che le bambine erano andate a scuola e il marito al lavoro, si era allontanata da casa per portare la piccola ribelle a un’amica, ostetrica esperta e ferrea educatrice, che l’aveva picchiata e costretta a mangiare cibo solido, mentre Odinakachi, a disagio, stava a guardare. Odinakachi aprì la porta ed entrò nella stanza seguita dalle iglie che strillavano eccitate, riprendendo possesso di casa loro dopo l’attesa. Era soprattutto qui, nel soggiorno che sapeva di latte materno ormai secco, guardando le fotograie color seppia della defunta suocera appese al muro, che Odinakachi pensava alla madre biologica e ripercorreva malinconicamente la propria vita, quella metà della vita che aveva tenuto nascosta perino a suo marito. Non veniva da Abagana come aveva fatto credere a Chinwoke, ma da più lontano, un posto più profondo nella sua memoria. Era nata in un villaggio nella regione di Mbaise e aveva otto anni quando il suo ignobile padre l’aveva venduta a un vecchio stregone. Era la iglia più grande. Sua sorella minore quel giorno era alla fattoria con la madre. Non c’erano stati commiati.

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Prima di quel momento straziante, prima di quel giorno spaventoso, la vita era luita bene, bene come potevano andare le cose per una ragazzina negli anni quaranta. La madre di Odinakachi era una donna dal collo esile con una ila di denti bianchi e irregolari, che aveva una vera ossessione per il talco. Il suo primo matrimonio era finito quando il marito era rientrato a casa all’improvviso e aveva visto un uomo dagli occhi infossati (il padre di Odinakachi) che scappava dalla capanna mentre sua moglie restava lì, nuda e sudata. Odinakachi e la sorella avevano preso dalla madre, almeno per quanto riguardava il collo sottile. Lei aveva l’abitudine di chiamare Odinakachi ada’am, iglia mia, e l’aveva portata con sé ovunque negli anni che avevano preceduto e seguito la nascita della seconda bambina e poi negli anni in cui le gravidanze le colavano via tra le cosce. Amava Odinakachi non solo perché era nata il primo anno del suo secondo matrimonio, quasi ad annunciare alle amiche e alla famiglia del marito quanto era fertile, ma perché la piccola sembrava davvero possedere un pezzo della sua anima. Quando guardava la bambina, con i suoi occhi profondi e intensi, provava un trasporto, un’emozione – sottile come il soio di un’eco. Portava la iglia alla fattoria e posava la propria mano sulla sua mentre piegavano i gambi di cassava sul terreno. La madre di Odinakachi aveva imparato l’ostetricia da sua madre, che però era malata ed era morta giovane, prima che lei diventasse davvero esperta. Se la cavava comunque bene con gli impacchi e i massaggi, e per questo veniva chiamata nelle case, dove portava con sé la iglia. A Odinakachi non era permesso avvicinarsi. Ascoltava da lontano la donna che, seduta sulle foglie di banano, gridava come se qualcosa o qualcuno la stesse frustando e terrorizzando allo stesso tempo. Si succhiava il labbro pensosa, e non credeva alla madre che le aveva detto che questo è il modo in cui nascono i bambini.

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dinakachi aveva un vago ricordo delle serate in cui veniva mandata a prendere il fuoco in un accampamento vicino, mentre la sorellina tracciava disegni nella sabbia ai piedi della madre. Si portava un bastone di bambù, con uno straccio intinto nell’olio di palma avvolto a una delle estremità. Le piacevano quelle uscite che spesso, ma non sempre, la portavano lontano da casa (molte volte sostava immaginando che i grilli con il loro frinire la chiamassero per nome) ino a quando non trovava un accampamento, dove ardeva un fuoco. Salutava rispettosamente, poi entrava per accendere lo straccio imbevuto del suo bambù. Talvolta ricordi più tenui e sinuosi la sioravano come ragnatele. Di quando, inginocchiata accanto alla madre sul pavimento di fango, annusava il talco, cantava insieme a lei, e si guardavano negli occhi mentre la donna lustrava il pavimento con una noce di cocco. O di quando, seduta per terra accanto alla sorella, la madre rasava il capo della piccola, akpupa, coperto di sfoghi, con un aguwa prima di proteggere la testolina nuda


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con ragnatele annerite di fumo che servivano per cicatrizzare l’eczema. O di quando osservava il padre coprire di terriccio scuro la parte inferiore dei muri esterni della loro capanna per decorarla prima di una grande festa, a volte ballando per lui quando suonava il lauto. O di quando aveva trafugato le tre statuette (della dea Afanim) sull’altare di famiglia per cullarle come bambole, e aveva poi deciso che erano brutte, e le aveva gettate nel pozzo nero, mentre il padre sconvolto le cercava dappertutto. Il padre di Odinakachi discendeva da una ricca famiglia di ieri cacciatori di teste. Anche lui le aveva cacciate, su richiesta, per famiglie che avevano bisogno di una testa per seppellire un illustre patriarca. La moglie era orgogliosa e intimorita da lui, quest’uomo coraggioso e spietato. Il pagamento giungeva sotto forma di prodotti della terra o della fattoria, non di rado mucche e pecore. Le ordinazioni arrivavano da villaggi distanti e la caccia lo portava ino alla terra Ngwa, nei giorni in cui lo status di un uomo era spesso determinato da quante teste portava con sé nella bara. Ma l’arrivo dei missionari e l’insegnamento cristiano avevano provocato un calo degli ordini. La gente preferiva sempre di più un dio che, anche se non poteva spiegare come aveva generato un iglio senza moglie, aveva sacerdoti potenti dotati di fucili capaci di uccidere più rapidamente di un sortilegio. Il padre di Odinakachi non era stato allevato per la vita nei campi e vedeva in questa occupazione un regresso, così cominciò a vendere le sue proprietà per nutrire e vestire la famiglia (aveva perso

le terre migliori come dote della sposa in un secondo matrimonio con una principessa che non era andato a buon ine). Cominciò anche a chiedere soldi in prestito e quando i debiti s’ingigantirono, mise la iglia sul mercato degli schiavi. Il giorno in cui fu venduta, la madre le aveva promesso che l’avrebbe portata con sé per una breve visita a casa della sua famiglia. Ma poi aveva cambiato idea perché non aveva abbastanza talco da mettere in faccia e da portare in regalo alla moglie di suo padre. Così si era incipriata e aveva chiesto a Odinakachi, che le rubava il talco per imitarla, in un gioco molto apprezzato dalla sorellina, di aspettare a casa il mercante di Asaba che veniva a rifornire le sue scorte. Il padre era rimasto in ascolto. Appena la moglie era uscita per andare alla fattoria con la iglia minore, era corso fuori e poco dopo era arrivato con lo stregone. “Adaora, vieni qui, piccola, beke”, aveva detto il padre con voce gentile, troppo gentile. La ragazzina confusa aveva alzato gli occhi verso il padre dall’angolo dove stava accovacciata. Non aveva mai usato con lei questa voce dolce, queste parole delicate. Ciò nonostante, gli si era accostata iduciosa, con il cuore docile dei bambini. Il padre le aveva detto di seguire lo sconosciuto accanto a lui, che aveva i genitali coperti da un intreccio di fronde e portava sul petto peloso una borsa di pelle di capra. Odinakachi aveva annuito guardando lo straniero. Gli occhi del vecchio erano acquosi, i capelli grigi e crespi.

Il giorno in cui fu venduta, la madre le aveva promesso che l’avrebbe portata con sé per una breve visita a casa della sua famiglia. Ma poi aveva cambiato idea

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Iheoma Nwachukwu Supponeva che ci fosse un tempo in cui ci si prende carico della propria vita, e ci si libera del passato come di un panno sporco che scivola via nell’acqua di un iume

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C’era stato qualcosa, qualcosa che aveva fatto chinare la ragazzina nell’ovu – aveva passato le dita nella sabbia dov’era caduto il talco della madre, lo aveva annusato. Qualcosa che aveva spinto il padre ad abbassare gli occhi quando la bambina lo aveva guardato, perché sapeva che la stava vendendo per sempre. Ma Odinakachi, mentre si voltava a guardare il padre e la casa che conosceva da quando era nata, non poteva sapere che quel viaggio appena cominciato l’avrebbe portata via per tanto, tanto tempo dal mondo che amava, da una sorella che era la sua compagna di giochi, da una madre che la adorava. Color creta, era così che Odinakachi deiniva il linoleum sul pavimento del loro bilocale. Chinwoke sosteneva che era giallo. Marito e moglie spesso avevano opinioni divergenti su cose di poco conto: quanto sarebbe durata la moda delle acconciature afro e dei tacchi vertiginosi (lui diceva per sempre, lei trovava la risposta nella scritta di un mammy wagon, “nulla dura per sempre”) o la dieta giusta per la loro ultima nata (lui diceva di continuare ad allattarla al seno se era questo che la piccola voleva, lei gli chiedeva se era stato allattato al seno ino a quando gli era cresciuta la barba). Sciolse lo scialle e sistemò la iglia accanto a sé sulla sedia. La bambina, che sembrava più alta, probabilmente perché aveva perso peso passando al cibo solido, sgusciò a terra e rivolse uno sguardo accigliato alla madre sorridente. Camminò ondeggiante verso la soglia della camera da letto dei genitori e scostò la tenda per vedere le sorelle che si toglievano la divisa a quadretti marrone della scuola e indossavano gli abiti da casa. Le due stanze avevano le stesse dimensioni. Una tinta celeste chiaro copriva le pareti sotto il sofocante soitto di amianto. I cuscini sfoderati Vono non miglioravano molto l’aspetto delle sedie lucide e squallide del soggiorno. Un tavolo anonimo ricoperto di formica strappata (il passatempo distruttivo delle bambine!) stava tra il nuovo televisore Sanyo, sulle sue sottili gambe divaricate, e Odinakachi che, seduta sulla sedia a sdraio alle spalle della porta di casa, toglieva gli oggetti dalla borsa. Pensava al marito, mentre sistemava il cibo della bambina sul sedile accanto alle altre cose. “C’è qualcosa che ti tormenta”, gli aveva detto a letto la sera prima. Due volte nel corso della serata, mentre cenavano, lo aveva sorpreso che la osservava con sguardo interrogativo. C’era un sentimento intorno a lui che avrebbe aferrato solo più tardi. Era stato sempre reticente, e poi servile. Ma non era sicura che il servilismo fosse la sua vera natura: il loro idanzamento era durato poco, prima che la guerra cominciasse. Lui aveva risposto biascicando, non c’è niente che mi tormenta, e si era girato dall’altra parte per dormire. Odinakachi aveva insistito con le domande in quel modo carezzevole, pungente, territoriale, che viene d’istinto alle mogli. Ma Chinwoke era rimasto in silenzio. Alla ine aveva allungato la mano verso di lui (la piccola dormiva tra loro) e gli aveva circondato i testicoli con le dita. E quando quel movimento si era riscal-

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dato e la cosa si era indurita, lei aveva sibilato e poi ritratto la mano, ferita, turbata, consapevole adesso che lui era sveglio e si riiutava di rispondere, forse anche delusa perché non era riuscita a manipolarlo. Questa mattina lui le aveva fatto una domanda – credeva nei fantasmi? Hai visto un fantasma? Gli aveva domandato lei a sua volta. Chinwoke aveva sbattuto le palpebre e fatto cenno di no con il capo come un bambino ed era uscito per andare al lavoro. Si ripromise di costringerlo a dire quello che lo tormentava. Chinwoke poteva essere reticente – ma risoluto? Scosse la testa e raccomandò alla iglia più grande di stare attenta alle cose sulla sedia. Poi si alzò e andò in cucina a preparare il pranzo.

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i erano conosciuti un anno prima che cominciasse la guerra civile. Chinwoke era andato con degli amici ad Abagana per un funerale. La defunta era parente di un suo amico intimo. Odinakachi aveva frequentato la scuola commerciale insieme alla iglia della donna (a scuola dicevano che erano gemelle perché si somigliavano – be’, un pochino – e l’abitudine della madre dell’amica di sfregarsi con il talco ricordava a Odinakachi la sua infanzia) e quel giorno dava una mano a servire bevande e cibo. In quel periodo usava poco trucco perché i parenti adottivi erano membri osservanti della chiesa apostolica e aborrivano “le cose che gloriicavano Jezebel”. Anche così i suoi morbidi capelli scuri, gli ampi ianchi aggraziati, le cosce e le natiche piene erano un piacere per gli occhi. Chinwoke ne era stato conquistato. Le aveva fatto scivolare un biglietto in mano quando lei gli serviva da mangiare. Non l’aveva guardato in viso, ma si era accorta che la mano gli tremava. Chissà cosa potrei fare di questo nervosismo, aveva pensato. Aveva accettato di incontrarlo e più tardi si era chiesta perché. Non che Chinwoke fosse brutto: aveva una faccia lustra e pulita, unghie corte e curate, e sapeva qual era la moda del momento: una tunica in velluto con l’immagine di una testa di tigre, capelli ben pettinati con una piccola riga in mezzo. Il punto era che nel corso degli anni Odinakachi aveva imparato a guardare gli uomini con occhi condizionati dal dramma della sua infanzia. Le persone, gli uomini in particolare, prendevano questo disprezzo per prudenza e il suo riiuto frequente di guardare gli uomini negli occhi per pudicizia. Aveva lasciato passare gli anni in cui si prendono al laccio i pretendenti, mentre le sorelle adottive mettevano su famiglia. Supponeva che ci fosse un tempo in cui ci si prende carico della propria vita, e ci si libera del passato come di un panno sporco che scivola via nell’acqua di un iume. Era andata a trovare Chinwoke a Onitsha, dove lui viveva e lavorava insieme allo zio che vendeva abiti usati al mercato principale. I genitori abitavano nella casa di famiglia a Nnewi. Anche lei aveva un lavoro, faceva la sarta in un negozio di proprietà di altri membri della chiesa apostolica. In poco tempo avevano abbattuto i conini personali e ne avevano costruiti altri in comune, individuando le cose che ognuno amava nell’altro. A Odina-


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kachi piaceva che Chinwoke fosse portato per gli afari e sopportasse i suoi scoppi d’ira (ma era lievemente preoccupata che fosse ossessionato dall’igiene). Agli amici lui aveva detto che “non è per niente viziata, è proprio vergine, non c’è nulla che non mi piaccia in quella ragazza”. E si portava le mani al cuore in segno d’afetto, aggiungendo: “Mi ha steso, nessuno crederebbe che ha due anni più di me dal modo in cui scherziamo”. I severi genitori di lei (a Chinwoke aveva detto che erano i genitori biologici per coprire l’indegnità del suo passato, per renderlo più semplice, e padre e madre, grazie a Dio, non si erano addentrati in dettagli) apprezzavano questo ragazzo serio e devoto (portava sempre un rosario) che non somigliava per nulla ai giovani d’oggi tutti presi dal fumo e dalla birra. Lo zio si era complimentato con lui “per essersi deciso a mettere gli occhi sul mercato delle mogli” e ai genitori di Chinwoke disse che il iglio aveva colto “un iore raro”. E loro, quando la conobbero, furono d’accordo: la madre continuava a sorridere e la chiamava Nne Nne (Odinakachi era parsa soprafatta, innervosita da tutti questi riguardi, e i futuri suoceri interpretarono forse questa agitazione come una forma eccessiva di rispetto). Dopo la richiesta di matrimonio di Chinwoke l’anno successivo non rimaneva altro che mettere a punto i termini dell’accordo – dieci anfore di vino di palma come dote per la sposa – e controllare rapidamente gli alberi genealogici, chiedendo ai compaesani se ci fossero casi di pazzia nella famiglia. Forse un avo era dedito al furto? A nessuno era venuto in mente di inserire la

guerra nei loro piani, perché naturalmente nessuno si aspettava una guerra. Era giunta improvvisa per i due innamorati, come la pioggia torrenziale in un pomeriggio di sole. La guerra li separò. Lui venne richiamato, fu ferito, congedato. Lei lottava per sopravvivere con la famiglia. Lui smerciava cassava, contrabbandava sigarette, vendeva senza farsi problemi il sale che la sua severa e religiosissima madre aveva bagnato per aumentare i proitti. Persero diversi amici a causa delle bombe sganciate dagli Ilyushin russi. Lui fuggì a Oba con i genitori. Lei fuggì a Nnobi con la famiglia. Le tragedie li inseguivano. I familiari di Odinakachi morirono insieme a molti altri quando la seconda divisione di Ramat Mohammed li trovò a pregare nella chiesa e sparò a tutti, uno per uno, a distanza ravvicinata. Odinakachi stava urinando in un ediicio vicino. I genitori di Chinwoke morirono a Umuasi quando i soldati federali ordinarono a tutti di assistere a uno spettacolo di musica highlife e poi li crivellarono di pallottole. Chinwoke era riuscito a scappare e aveva osservato dai campi quando i genitori erano stati sepolti in una fossa comune. S’incontrarono nel campo per rifugiati ad Awka Etiti. E quando la guerra inì, camminarono per quattro giorni inché raggiunsero Onitsha: puzzavano, non ne potevano più, ma erano felici. Felici di essere vivi. Si sposarono il mese successivo. Il seno le faceva male. Era sempre così quando smetteva di allattare. Odinakachi strinse i denti e picchiettò le

A nessuno era venuto in mente di inserire la guerra nei loro piani, perché naturalmente nessuno si aspettava una guerra. Era giunta improvvisa per i due innamorati

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Iheoma Nwachukwu I igli sono una conseguenza del matrimonio, si disse, e i maschi conferiscono alla donna un rispetto che le femmine non danno. Fece questo pensiero in una sorta di resa dolorosa

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ghiandole gonie di latte pronto a sgorgare. Cosa non si fa per i bambini, pensò. Quando il dolore fu troppo, le passarono davanti agli occhi immagini spaventose di lei che metteva il seno in bocca ai mariti delle vicine, e in preda alla sua fantasia lo premette più volte. Fu tentata di allattare la piccola, ma quando era sul punto di farlo, venne trattenuta da un ultimo barlume di ragione. Il pranzo era inito: garri e zuppa di akwu. Le iglie maggiori, con le pance piene, erano scappate a giocare nella camera di mama Adanma. La piccina dormiva coricata su una coperta ripiegata in un angolo del soggiorno. Anche lei aveva mangiato garri, ma non le era piaciuto, anche nella versione sempliicata che sua madre aveva cercato di imporle – era un gusto che doveva ancora imparare ad apprezzare. Strisce regolari di luce iltravano attraverso le tende della inestra. Non la inestra sopra la televisione, da cui Odinakachi, ansiosa, sbirciava a tratti la strada per cogliere l’arrivo di Chinwoke che tardava, ma quella sopra la sedia di lato, vicino alla bambina addormentata. Odinakachi si era allungata sulla sdraio, ascoltando Nelly Uchendu (sì, doveva essere lei) alla radio. La canzone parlava di un uomo che aveva voluto sposare una ragazza contro il parere materno e ora rimpiangeva di averlo fatto, e piangeva sulla tomba della madre. Odinakachi si chiedeva cosa si provasse a sentirsi sempre circondati dall’amore disinteressato di una madre (la madre adottiva era stata fredda, si era limitata a propinarle brani della Bibbia), ad avere la tranquillità di fondo per afrontare la vita senza paura di sbagliare. Nella vita aveva commesso tanti errori. Immaginava che entrambe le madri avrebbero disapprovato il modo in cui lei e Chinwoke erano andati avanti a fare bambini. Aveva afrontato la cosa quasi come una martire, temendo per la propria vita ma giudicando necessaria la sua scelta. I igli sono una conseguenza del matrimonio, si disse, e i maschi conferiscono alla donna un rispetto che le femmine non danno. Fece questo pensiero in una sorta di resa dolorosa, sapendo che la sua esperienza avrebbe suscitato la disapprovazione maschile. Temeva di non avere avuto un iglio per un maleicio che forse la inseguiva da anni. E riteneva che un iglio maschio le avrebbe assicurato maggiore controllo sul marito – un maschio che avrebbe educato con ogni cura.

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dinakachi dominava Chinwoke: lui le dava tutti i soldi che guadagnava, ed era lei a decidere quanto si doveva spendere. Quando discutevano, lo metteva a tacere. Chinwoke non prendeva mai l’iniziativa con gesti di afetto (tenerla per mano, accarezzarle i ianchi) per paura che non fosse dell’umore giusto. Nei momenti di lucidità capiva perché lo aveva scelto: era un uomo completamente diverso dagli uomini che avevano forzato il suo destino su una china pericolosa (il padre ignobile, il malvagio stregone). Eppure l’arrendevolezza di Chinwoke a volte la irritava. Spesso era stanca di essere così autoritaria e desiderava proprio il tipo di uomo che aveva evitato. Un uomo come suo padre che si sarebbe opposto a lei per tenerla a bada, un uomo du-

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ro e determinato. Credeva di essere abbastanza forte per un uomo così, per lottare contro di lui e avere il sopravvento. Chinwoke comunque non era un giocattolo di cui potesse disporre a piacere. Si era mirabilmente organizzato all’interno dell’organizzazione di Odinakachi. La marca del ventilatore che aveva comprato per la camera da letto era Sanyo, la radio era Sanyo, il televisore era Sanyo (il sabato puliva accuratamente tutti gli elettrodomestici). Solo il ventilatore a soitto era Smc, forse – pensò – Sanyo non ne produceva. Il materasso in camera da letto e i guanciali erano Vono, come i cuscini sulle sedie del soggiorno. Era felice che Vono non producesse cibo per bambini perché Chinwoke l’avrebbe comprato di sicuro. Allora lei avrebbe dovuto dire alla gente che dava da mangiare Vono alla iglia, e non avrebbero forse pensato che erano bioccoli di cuscino quelli che mandava giù nella gola della sua bambina? Sorrise e si alzò per spostare la piccola dai raggi del sole che le battevano sulla faccia. La piccina si mosse e Odinakachi canticchiò “Bella donna triste, tu tu tu, mia piccolina”. S’inginocchiò e premette il dorso della mano contro il pannolino per controllare se era bagnata, ma non lo era. Poi inilò le dita nel pannolino per sentire se c’erano feci ma la bambina era pulita, sapeva di borotalco e di sudore infantile. Vorrei che fosse un maschio, si disse ora che la piccola sorrideva nel sonno. Sperò che non fosse una ricaduta della “febbre da iglio maschio” di cui sofriva il marito, o qualcosa del genere. Chinwoke aveva parlato di fantasmi. Voleva fare di lei una vedova? No, non Chinwoke. La amava troppo. Ma non sapendo quali erano i suoi pensieri, Odinakachi si sentiva vulnerabile. Speriamo che mi trovi ancora attraente. Gli avrebbe spremuto fuori i pensieri alla buona vecchia maniera. Ridendo, si alzò e andò a guardarsi allo specchio della camera da letto. Odinakachi non sentiva più l’odore della canfora o dell’urina della bambina. Osservò con civetteria il suo rilesso nello specchio. La stofa che aveva addosso ora giaceva in un anello marrone intorno ai suoi piedi. Il seno aveva ancora la forza della gioventù, grazie a Dio. Lo sollevò e lo modellò di qui e di là, annuendo. Si mise le mani sui ianchi: anche qui Dio era stato buono. Voltandosi di proilo, scosse le natiche piene: come poteva Chinwoke resistere a questo, eh? Doveva essere cieco. Solo la pancia l’aveva delusa, esplosa o implosa, era così molle da farla sembrare un’accanita bevitrice di birra. Qui le gravidanze erano state ingenerose e crudeli. Ma era un dato di fatto, una questione di territorio, non una ragione perché un marito la potesse trovare poco attraente. Era ancora capace di far battere il cuore di suo marito quando voleva. E stanotte lo avrebbe inchiodato. Quando servì la cena alle iglie, Chinwoke non era ancora rientrato. Un rumore la fece sobbalzare sulla sedia più tardi, dopo che le bambine si erano addormentate. Gli tolse dalle mani una pala mentre chiudeva la porta. Sembrava esausto. “Bentornato. Cosa ti ha trattenuto?”, chiese, sollevando la pala per guardarla. “Clienti”, disse Chinwoke stancamente. “La devo far vedere a un tale domattina presto”, aggiunse, scor-


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gendo lo sguardo interrogativo di lei sull’attrezzo. Odinakachi avvertì di nuovo quella sensazione che non riusciva a identiicare. Chinwoke indossava una delle sue camicie aderenti, a iori, e pantaloni ugualmente aderenti, soprattutto all’inguine, che lei avrebbe desiderato indossasse solo a casa. I folti capelli erano pettinati alti, ed erano impolverati dopo una lunga giornata all’aperto. I suoi occhi spenti issavano Odinakachi sopra i piatti della cena. Come ci si attende da una brava moglie, aveva aspettato di mangiare con lui. La cena era composta da breadfruit, il frutto dell’albero del pane, servito con una salsa piccante. Il ventilatore a soitto era acceso. Le bambine erano stese su una stuoia accanto alla tv. “Caro, di’ a tua moglie cosa c’è che non va”, disse parecchio tempo dopo, quando erano già a letto. Il suo piano era ilato liscio come l’olio. Sotto lo sguardo del marito si era tolta la stofa che la copriva ed era rimasta in piedi davanti allo specchio accanto al letto. Nella luce soffusa della camera, Chinwoke osservava le curve sublimi che lo avevano sedotto. Stava lanciando l’amo, lo sapeva bene. Ed era in arrivo una richiesta, qualcosa, supponeva, che aveva a che fare con le domande della notte prima. Si era ripromesso di non parlare, era importante. Odinakachi usava spesso il corpo in questo modo, come un’esca. Ma il fatto di saperlo non lo proteggeva. Provò a reprimere il suo desiderio e quello riemerse subito, prepotente. Sorrise tristemente tra sé per tutti gli uomini intrappolati nelle curve di una donna.

“Ho il seno che mi fa male e non te ne accorgi neanche”, disse Odinakachi irragionevolmente, con un tono che era insieme di lamento e di rimprovero. Il primo impulso di Chinwoke fu di comprensibile rincrescimento, abituato com’era a una vita matrimoniale in cui era stato succube della moglie, anche se Odinakachi non si era lamentata con lui prima o quando gli stava vicino. Disse subito: “Mi dispiace, mi dispiace”, sollevando la mano con un gesto timido, diidente, stanco, mentre lei gli tendeva il seno perché sentisse. “Qui… e… qui”, disse Odinakachi aferrandogli la mano e premendola sull’una e sull’altra mammella. “È il latte che la piccola non può bere e che neanche tu berrai”. Risero insieme in un modo che preludeva all’amplesso. Ma quando lui cercò di accostare la testa al seno, lei lo respinse e disse, come per provocarlo: “Eh no, caro, non ti ho chiesto di succhiare, mi sono solo lamentata”. Salì dietro di lui sul letto, e le molle scricchiolarono sotto il loro peso quando Chinwoke, stringendo i denti, si girò per bloccarla. I soldi delle vendite del giorno che le aveva dato erano accanto al cuscino. Odinakachi li gettò per terra, al di sopra della bambina che dormiva, temporaneamente adagiata su un lato del letto. Fu a questo punto che si girò verso di lui e gli chiese cosa non andava. Proprio quando ormai pensava di non avere raggiunto il suo scopo, proprio quando lui si era girato di

Provò a reprimere il suo desiderio e quello riemerse subito, prepotente. Sorrise tristemente tra sé per tutti gli uomini intrappolati nelle curve di una donna

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Iheoma Nwachukwu Ogni giorno lo stregone portava da mangiare. Non si lavavano mai. Defecavano in un buco poco profondo nel pavimento, la stanza faceva anche da gabinetto

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schiena e aveva sospirato in quel modo grave e profondo, gli sentì dire: “C’è una donna che ti cerca”. Odinakachi trattenne il respiro mentre elaborava questa informazione. Allora non era quello che pensava. Una donna? Gli occhi sbattevano pensierosi. Che mi cerca? “Per cosa?”, chiese mezza seduta sul letto, aferrandogli la spalla ansiosamente in modo che la guardasse. “Dice che è tua madre”, rispose Chinwoke risentito. “Una vecchia puzzolente. L’ho mandata via, le ho detto che tua madre è morta”. Tacque, infastidito per non essere riuscito a tacere quello che sapeva, e attese una reazione. Lo issò. Ecco cos’era. Si chiese se lo aveva abbracciato. Parlò come una iglia addolorata, con la percezione istintiva di chi era quella donna per lei: “Ogni giorno ha cercato di abbracciarti, e l’hai respinta”, disse con voce aspra, premendosi il seno col palmo della mano. Chinwoke annuì, stranamente ipnotizzato dal suo movimento, dalle sue parole. “Mia madre...”, cominciò, poi tacque e chiuse gli occhi, sentendo la testa riempirsi di ricordi, risucchiando il muco nelle narici, “Puzzava… Non capivi che anche se… Anche se avesse avuto un braccio solo... Era mia madre?”. Non l’aveva mai vista piangere in quel modo. “Chinwoke Akunyili, perché non me l’hai domandato? Mi hai sempre detto tutto. Come hai potuto tenermi nascosto questo?”, disse e nascose la faccia nel cuscino, tremante. Chinwoke era confuso. La madre di Odinakachi era morta, come la sua. Forse da qualche parte nel suo subconscio, a dispetto della pretesa assurda della vecchia, aveva cercato di mantenere un equilibrio nel dolore. Sollevò la mano, il marito sottomesso, e la toccò sulla spalla. Lo lasciò fare, lasciò che la stringesse. E sollevando il volto bagnato, nascose la testa nel petto di Chinwoke, all’improvviso debolissima. E inine gli raccontò la sua storia. l giorno in cui era stata venduta, seguendo lo strano stregone con il suo intreccio di fronde e la sua borsa di pelle di capra, Odinakachi all’inizio aveva giocato con la sua ombra. Ma il viaggio era stato lungo. Camminavano e camminavano. Dopo un po’, lei pensò che non stavano andando da nessuna parte, che avrebbero camminato per sempre. O forse erano in cerca del luogo dove la terra incontra il cielo. Avevano camminato ancora. I piedi le facevano male. Sentiva l’odore della polvere. Aveva sete. Ma se lo stregone se n’era accorto, non lo faceva vedere. In poco tempo era ridotta allo stremo delle forze e della volontà. Si era fermata ansimante. Quando aveva chiuso gli occhi, delle cose bianche avevano cominciato a luttuarle nella testa. Voleva stendersi. Lo stregone aveva guardato giù verso di lei aggrottando le sopracciglia, la sua debole schiava. Aveva staccato un pezzo di corda dalla borsa di pelle di capra. Le aveva legato le mani e poi i piedi. L’aveva sollevata sul-

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le spalle, come avrebbe fatto con una capra, e aveva continuato a camminare. Se avere legato la bambina non dava nessuna indicazione delle sue intenzioni, il fatto che la portasse come una capra, un essere che abitualmente veniva sacriicato agli dèi, lasciava poco spazio ai dubbi. Aveva dormito in quel modo, sulle spalle dello stregone, e si era svegliata in una stanza buia e umida. Aveva la sensazione di non essere sola in quella stanza che sapeva di feci e di urina, litri di urina. Aveva dormito stesa nell’urina. Quando la porta si era aperta su una notte scura e vischiosa e una voce aveva gridato “Bambina Mbaise, prendi!”, Odinakachi era riuscita a intravedere, nel contrasto di un’oscurità meno itta, le sagome di altri piccoli corpi nella stanza. Aveva bevuto acqua da un vasetto che lo stregone le aveva oferto e mangiato il pezzo di cassava bollita che le aveva messo in mano. Poi la porta si era chiusa, un lucchetto era scattato, e lei era tornata a stendersi confusa e ora, inine, spaventata. Pensava a sua madre ogni giorno. Non c’era giorno che Odinakachi non pensasse a lei. Intuiva quello che le era accaduto: la porta sempre chiusa a chiave, gli altri bambini spaventati, nessun genitore che veniva a trovarli. Di certo era nella casa di un rapitore. Uno di quei mostri contro i quali la madre, mandandola a prendere il fuoco, l’aveva messa in guardia, che prendevano la gente o la compravano per usarla come volevano. Si era sentita tradita, si era chiesta perché il padre l’avesse venduta a un estraneo, poiché questo doveva essere accaduto, in efetti. Si aggrappava ai ricordi, cercando i momenti in cui poteva avergli fatto un torto. Aveva creduto che fosse un buon padre (era il marito della sua buona madre) e di essere una buona iglia. Come può una persona buona fare del male a un’altra persona buona? Come poteva lui fare del male a una parte di sé? Ogni giorno lo stregone portava da mangiare. Non si lavavano mai. Defecavano in un buco poco profondo nel pavimento, la stanza faceva anche da gabinetto. C’erano otto ragazze e due ragazzi, ma non parlavano tra di loro, come se un incantesimo avesse bloccato le loro lingue. A volte, all’improvviso, lo stregone irrompeva nella stanza, aferrava qualcuno e lo portava via. Non tornavano mai. Una volta sentirono un grido e dei passi affrettati, poi un rumore secco riportò il silenzio. Presto era arrivato il turno di Odinakachi. L’uomo l’aveva portata nella ulo-agwu, la sua casa degli dèi. Questa capanna, l’altra più grande alle sue spalle, e la terza, da cui Odinakachi era stata presa, erano circondate da una itta foresta di palme, alberi di mogano, nku akwu e iroko dalle vecchie cortecce piagate. Un sentiero portava dagli alberi alla radura dove si trovavano le capanne. Odinakachi sentiva gli uccelli che cantavano tutto il giorno. Era entrata nella capanna con il cuore che le batteva. Ogni volta che guardava lo stregone, vedeva suo padre. Foglie di palma erano sospese sulla bassa porta.


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Dentro, su un mortaio rovesciato, olio di palma e una sostanza nera erano mischiate con la carne putrescente di qualche animale. O uomo. Nella stanza c’era odore di decomposizione. Diversi vasi forati pendevano dal soitto. L’uomo aveva detto a Odinakachi di inginocchiarsi davanti a una stofa nera macchiata di olio di palma o di sangue e issata al muro accanto a un machete ailato. C’erano conchiglie ai lati, e al centro due statuette scolpite dallo sguardo cupo tenevano dei coltelli. C’erano altre statuette più grandi, sempre cupe, sedute, in piedi, sul muro, lungo il muro. Erano molte, e li guardavano con occhi irremovibili e malevoli. La prima volta che l’uomo aveva toccato le sacre conchiglie sulla sua testa e gettato la divinazione, non era apparso molto sicuro. La seconda volta non c’erano dubbi, era stata riiutata. L’uomo aveva aferrato il coltello e con uno sguardo corrucciato le aveva issato il collo e il volto. Odinakachi non si era sbagliata sul signiicato di quello sguardo e lo spirito la stava abbandonando quando l’uomo aveva fatto cadere il coltello. L’aveva riportata nella stanza e aveva preso un altro sacriicio. Perché il suo chi aveva consentito questo destino? Perché la madre non l’aveva riportata indietro alla casa della sua infanzia, talco o non talco? Lo stregone l’aveva trasferita in un’altra capanna. Ora si poteva lavare. Era stata felice di diventare la sua serva, la sua assistente, se non altro perché era viva.

Aveva portato sacriici animali (mentre lui la seguiva) nel fondo della foresta per tutti gli anni in cui lui comprava altri schiavi per alimentare i suoi poteri. Aveva visto andare e venire uomini e donne che portavano dolori e doni per lo stregone. Aveva imparato incantesimi. Un giorno aveva maledetto suo padre: “Dalla tua famiglia non verranno igli maschi a continuare il tuo nome quando morirai”. Due volte aveva cercato di scappare. Due volte aveva visto lo stregone davanti a lei (“Piccola Mbaise, queste tracce sono le linee della mia mano”) nella foresta, dopo averlo lasciato nella casa degli dèi. Lo stregone l’aveva venduta quando aveva cominciato ad avere le mestruazioni, tardi. Nel 1953 alcuni capi della chiesa apostolica, nel tentativo di abolire il commercio di esseri umani nelle “arretrate” comunità igbo, avevano comprato gli schiavi e li avevano liberati. Un mezzano di Aba aveva comprato Odinakachi e l’aveva venduta a questi uomini che la sistemarono da alcune persone irreprensibili ad Abagana: la famiglia seduta nel primo banco in chiesa la domenica, una famiglia apostolica modello, cristiana ino al midollo. Il padre adottivo dirigeva la scuola commerciale che Odinakachi frequentava, imparando l’inglese e l’aritmetica. La madre adottiva le insegnava la Bibbia e il cucito. Con le sorelle adottive era andata subito d’accordo. Uscì di casa presto, Odinakachi, la mattina dopo aver rivelato a Chinwoke il suo passato. Sconcertato, lui

Aveva visto andare e venire uomini e donne che portavano dolori e doni per lo stregone. Aveva imparato incantesimi. Un giorno aveva maledetto suo padre

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Iheoma Nwachukwu Provò uno strano sentimento d’indignazione e di vergogna. Come un bambino viziato sorpreso a rubare nella casa di un vicino povero

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aveva ascoltato la storia e le aveva detto che il modo in cui la guardava non sarebbe cambiato, ma dentro di sé non ne era davvero sicuro. La vulnerabilità di Odinakachi però lo fece sentire più forte. Entrambi si erano nascosti delle cose, ma quella della moglie era stata una disonestà ben più grande. La vecchia era arrivata tre giorni prima, disse. Veniva da Oba. Naturalmente lo aveva aspettato in Niger street, vicino al mercato, e lo aveva seguito ino al negozio. Non sapeva come aveva fatto a individuarlo, di sicuro qualcuno l’aveva aiutata. Aveva detto che veniva da Ezinihitte, che non poteva arrivare così vicina al suo scopo e rinunciare. Ma Chinwoke era sicuro che non sarebbe tornata: era stato molto brusco l’ultima volta, l’aveva insultata. Per tutta quella lunga notte, desiderando solo che nascesse il nuovo giorno, Odinakachi aveva issato il marito addormentato. Non riusciva a capire in che momento nella loro vita insieme fosse diventato così duro. Mentre Odinakachi era impegnata a fare di lui quello che voleva, a cercare di capire cosa chiedeva da lui, Chinwoke doveva essere stato impegnato a cercare semplicemente le cose che voleva. Entrambi avevano trovato sostegno nella reciproca familiarità, e si erano allontanati l’uno dall’altra. Cosa stava proteggendo Chinwoke? Un’altra famiglia? Un’amante segreta incinta di igli maschi? Era terriicante. Odinakachi brancolava nel buio e si arrovellava. Le bambine si stavano ancora lavando, la piccola si era appena svegliata, quando Odinakachi uscì per cercare la vecchia. Chinwoke parlò con voce ferma, tagliente, quando la moglie era già sulla porta: “Non prepari le bambine per la scuola, prima? La piccola, non le dai da mangiare, non la lavi? Io devo andare...”. “Non mi hai sentito stanotte”, lo interruppe bruscamente, “quando ti ho detto che sarei andata a cercare mia…”. Si fermò, odiando improvvisamente il suono della propria voce. Come se per la prima volta dal loro matrimonio sentisse il tono che usava con lui, le parole che gli rivolgeva. Provò uno strano sentimento d’indignazione e di vergogna. Come un bambino viziato sorpreso a rubare nella casa di un vicino povero. Sentì battere in fondo alla sua coscienza il martelletto di un giudice. Suonava così, il modo in cui parlava? Chinwoke fece una smoria, ammonito a dovere. Avrebbe voluto dire di più, ma non a quel viso. Forse più tardi. Gli aveva fatto bene, comunque, dire quello che pensava. La piccola guardò prima un genitore poi l’altro, preparandosi a piangere. Odinakachi sospirò, cercò di calmare i pensieri. Rispettava questa fermezza sconosciuta di Chinwoke, che gli aveva consentito di proteggere da lei quello che era così vitale: la minacciava e insieme la attirava. Parlò ora con un senso di maggiore responsabilità, in toni gentili e sommessi: “Marito mio, per favore, non ti arrabbiare, mi dispiace, ho la testa a pezzi a furia di pensare. Per piacere, prepara tu il garri per le bambine, anche la piccola mangerà, portala...”. Poi uscì di corsa. Il sole era nascosto dietro qualche ediicio molto alto e Odinakachi, passando accanto a un grande albe-

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ro di papaia, non notò le foglie frastagliate che vibravano di un pallido oro, mentre si risvegliavano al sole. Camminava a passi veloci, quasi frenetici. La stofa che indossava le batteva fra le gambe. Portava una blusa stropicciata senza maniche e il fazzoletto per la testa le pendeva alla vita. Il mercato era molto lontano da casa loro e avrebbe potuto prendere un autobus, ma decise di camminare. Entrando in Niger street, vicinissima al più grande mercato dell’Africa occidentale, con il suo trambusto di persone frettolose, di uomini in bicicletta, di mammy-wagons che andavano avanti e indietro, di clacson strombazzanti, Odinakachi si rese conto che non sapeva chi o cosa cercare. Sarebbe dovuta venire con Chinwoke. Ma subito dopo aver fatto questa rilessione, le venne in mente che non aveva importanza: il sangue ha la sua voce. E così, con questa convinzione nel cuore, prese a camminare lentamente, scrutando i volti, le donne in piedi, quelle sedute davanti alle case, e i suoi occhi individuarono una vecchia. La vecchia si alzò in piedi. Odinakachi si fermò e la issò, le tempie che le pulsavano. E poi ecco che correva, correva, interrompendo le conversazioni e il traico, e la gente si bloccava a issare quella donna che urlava e cadeva tra le braccia della vecchia tremante. iù tardi la madre le avrebbe mostrato il talco misto a sabbia che aveva conservato da quel giorno, molti anni prima, quando una strana sensazione l’aveva fatta tornare a casa dalla fattoria e aveva avvertito il vuoto e aveva visto i segni delle sue dita sulla sabbia. Avrebbe detto a Odinakachi dei lunghi giorni passati senza dormire, nell’attesa, un’attesa disperata, che la iglia tornasse dal mercato a cui il marito, mentendo, aveva detto di averla mandata; dei due igli maschi morti ancora piccoli; del giorno che il padre era andato a vendere la sorella di Odinakachi a Ngwa e poi non si era più fatto vedere, dopo che per fortuna uno sconosciuto aveva riportato a casa la ragazzina. Avrebbe raccontato a Odinakachi dei sogni in cui la vedeva dentro una stanza buia inseguita da coltelli, dell’attesa negli anni, della soferenza, della iducia profonda, presente come un secondo cuore, che l’avrebbe rivista un giorno, dei igli maschi che la sorella di Odinakachi non era riuscita ad avere, della fortuna di aver incontrato a Mbaise un membro della Chiesa apostolica di Oba, che l’aveva guidata ino a Chinwoke. Ora, prima che i ricordi venissero rivelati, prima che la iglia fosse turbata dalla richiesta della vecchia di tornare con lei a Mbaise, pensando come posso lasciare mio marito ora?, e calcolando le conseguenze di lasciare un mondo familiare, se ne stavano lì semplicemente, ad asciugarsi reciprocamente le lacrime. Odinakachi issava il volto consunto e impolverato, la linea della mascella indurita dall’età, il collo loscio con le sue ragnatele di rughe, le braccia fragili attraversate da vene in rilievo, e diceva piano: “La mia buona madre”. u

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Billy Kahora Disegni di Shout

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Zone urbane uori, su Tom Mboya street, Kandle capì di tato la vita nel centro cittadino. A Buru era sempliceessere davvero nella Zona, il luogo calmo mente Kan. Nell’area di Hurlingham era conosciuto e sofocante dove iniva dopo aver bevuto come The Candle. In pochi anni, a Buru Buru, la geneper un minimo di 72 ore. Aveva dormito razione di suo fratello minore Giant Rat avrebbe usurmeno di quindici ore facenpato la sua leggenda scoprendo il doppio do pisolini strategici, man- Aveva diversi nomi sballo di coca e alcol. giato quel tanto da non impazzire e bevu- in zone diverse. Allo La minaccia di pioggia aveva trasforto tanta di quell’acqua da far crepare una Zanze era Small mato Tom Mboya street in una baraonda vacca. Anche le due ore di bagni caldi a Package Millionaire. di clacson, gonne alzate che scavalcavaHell’s Gate gli avevano fatto bene. Si diceva che lui e la no la mercanzia di venditori schiamazKandle aveva scoperto la Zona a di- sua banda – Susan, zanti, matatu che inchiodavano e vigili ciassette anni, quando i piaceri del sesso Kevo e altri – che urlavano. Certa gente litigava per il occasionale avevano perso vigore, e ave- avessero riportato la parcheggio e altri mercanteggiavano sul va cambiato vizio per dedicarsi all’alcol. prezzo della biancheria intima. Il tuono vita nel centro Nell’intreccio di voci di una città-villagrombava e sofocava tutto. Soiava un cittadino gio piena di leggende e storie bizzarre su vento umido che annunciava un breve igli di ministri alla guida di Mercedes scroscio passeggero, ma tutti correvano con il portabagagli pieno di soldi e su un certo Jimmy X come se stesse per abbattersi un pesante acquazzone. rimasto imbattuto in circa cinquecento risse da bar dal- Bastava già questo a creare un ingorgo di cinque ore ila ine degli anni ottanta in poi; in un posto dove nabab- no a notte inoltrata. Le persone calme e sagge s’inilabi sessantenni si portavano a letto le adolescenti e si vano nei bar sapendo che ci sarebbero comunque volutenevano le loro mutandine per ricordo; in una città te ore per tornare a casa. dove la iglia di uno dei più ricchi uomini d’afari del I clienti dello Zanze che entravano nel Kenya CineKenya organizzava feste così esclusive che Janet Jack- ma Plaza lo insultavano perché Kandle camminava in son era arrivata apposta in aereo per il suo complean- direzione opposta. Pochi intuivano che aveva cominno: lui, Kandle, era diventato un sedicente maestro ciato a bere a mezzogiorno. Kandle non era solo un dell’arte di bere per 72 ore e aveva conquistato una nota maestro nel raggiungere la Zona, era anche bravissimo a piè di pagina. a nasconderlo. L’abbondante volume di alcol nel sanFrequentava i nuovi bar del quartiere commerciale gue aveva reso più lucida e gialla la sua pelle bruna, indi Nairobi ed era diventato un’icona rispettata nei sensibile e priva di carattere come quella di un bambiquartieri della sua infanzia – Buru Buru, Westlands, Ki- no di tre mesi. La mezza bottiglietta di collirio Insto che le, Loresho e Ridgeways: uno degli ultimi sopravvissu- aveva usato in bagno cominciava a fare efetto. Con il ti agli incidenti d’auto causati dall’ubriachezza, alle tempo aveva imparato che il sole era categoricamente storiacce e ai suicidi legati all’alcol, alle risse da bar e sconsigliato quando bisognava afrontare una tranquilalla depressione. Aveva diversi nomi in zone diverse. la transizione nella Zona. Fortunatamente, fuori restaAllo Zanze era Small Package Millionaire. Si diceva che va pochissima luce e lui si sentiva in gran forma. lui e la sua banda – Susan, Kevo e altri – avessero ripor“Benvenuti alla diretta serale dell’arte delle 72 ore.

F BILLY KAHORA

è uno scrittore keniano. È managing editor della rivista letteraria Kwani? Ha scritto The true story of David Munyakei (2009), e lo script del ilm Soul boy, diretto da Tom Tykver. Sta scrivendo il romanzo The applications. Il titolo originale di questo racconto è Urban zoning. La traduzione dall’inglese è di Giuseppina Cavallo.

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Filosofo del calendario keniano, Kandle associava tutti i mesi a diversi colori e sfumature. Agosto lo vedeva giallo acceso, il periodo in cui l’anno svoltava

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I’m easy like sunday morning”, borbottò in direzione di quegli amichevoli insulti. Filosofo del calendario keniano, nella sua mente Kandle associava tutti i mesi a diversi colori e sfumature. Agosto lo vedeva giallo acceso, un periodo in cui l’anno svoltava. Responsabilità lasciate alle spalle o rinviate al prossimo gennaio, un mese bianco. Marzo era blu-violetto. Dicembre era rosso. Agosto come foschia gialla, sarebbe stato appropriato se quella sera l’avessero licenziato dalla Eagle Bank. Kandle aveva cercato di convertire diverse persone ai piaceri della Zona, con esiti disastrosi. Kevo, il suo migliore amico, una volta a Naivasha si era fatto un brutto taglio nel palmo della mano all’alba di un verde mattino di Pasqua, dopo che avevano bevuto per quasi una settimana. Voleva impressionare il gruppo con la sua capacità di gestire la Zona e per poco non era morto dissanguato. Quando la mano gli si era goniata per l’infezione, qualche giorno dopo, avevano dovuto interrompere la vacanza e ripartire in macchina per Nairobi. Kevo non imparava mai. Suo cugino Alan era morto due anni prima cercando di percorrere i cinquanta chilometri dell’autostrada Thika-Nairobi in quindici minuti. Susan, che prima era stata la ragazza del compianto Alan, poi di Kandle e ora combinava qualcosa con Kevo, aveva smesso di cercare di entrare nella Zona quando si era resa conto che dopo il trattamento delle 72 ore non poteva fare a meno di spogliarsi in pubblico. Dopo essere stata quasi stuprata a una festa, era caduta per settimane in uno stato di depressione suicida da cui era emersa con tagli di rasoio dappertutto e 20 chili in più su quello che un tempo era un corpo magniico. Ogni mese faceva il suo Grande Pianto per Alan, poi invariabilmente andava a letto con Kandle, inché lui non si era stancato e allora lei era passata a Kevo. La Zona chiaramente non era per chi non sapeva controllarsi. Spogliarsi in pubblico, tagliarsi il palmo della mano, credere di essere in Supercar, per Kandle erano tutti esempi di come farsi soprafare dalla Zona Cattiva. Bisognava mantenere intatto il livello di alcol per restare nella Zona Buona, dove si potevano coltivare tutte le mere illusioni della propria squallida esistenza. La Zona Cattiva era il luogo di tutte le paure, le preoccupazioni, l’odio e le ansie. Mentre andava verso Harambee avenue, Kandle improvvisamente barcollò e perse l’equilibrio, bloccando la folle risata che aveva in petto. Guardandosi intorno, sentì che cominciava ad arrivare la solita paranoia della Zona. Camminare nella zona commerciale di Nairobi all’ora di punta era di per sé un’arte perino da sobri. Da ubriachi, era come giocare a rugby in un autobus in movimento su una sassosa strada di campagna. Kandle si costrinse a tornare nella Zona Buona Buona ripensando alla Lenana school, in precedenza Duke of York. Era meglio rievocare i ricordi del rugby, della Madre di tutti i campi, Stirlings, quello dove aveva giocato con gioioso abbandono. Era diventato il giocatore più veloce in campo, cento metri in dodici secondi senza diicoltà, tufandosi e schivando, evitando le masse brute, la plebaglia ignorante, e puntando alla ragazza che guardava dal bordo campo. Nell’occhio

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della sua mente la ragazza era sempre la stessa. La ragazza della pubblicità Limara. Magra e snella. Scura perché lui era chiaro, leggermente più alta di lui. Il campo era accanto alla latteria della scuola, perciò nell’aria c’erano elicotteri di scarabei stercorari da evitare e mine di letame di mucca da schivare. Poteva quasi sentire l’odore della ragazza Limara e della gloria a pochi passi da lui, quando all’improvviso nella zona di meta apparve una mucca frisona. Ruminava puntandogli un occhio addosso, o piuttosto lui si vedeva nel suo occhio. E quell’occhio divenne il mondo intero. Intanto la mucca frisona continuava a ruminare, senza battere ciglio. Mentre Kandle cercava di tornare nella Zona Buona, tutta la vita gli passò davanti in una foschia gialla. Nel grande occhio, si vedeva rilesso il mondo e la ragazza svanì. Lui mise a terra la palla con calma, si avvicinò alla mucca, la carezzò sul dorso e con quel tocco si accorse che non era frisona ma una mucca bianca con alcune macchie nere, invece che il contrario. La macchia nera sul dorso era la carta del Kenya. Era uno stramaledetto zebu. Per tutto il tempo non smise mai di ruminare. Con la palla nella zona di meta lui si prese i suoi cinque punti. ornando in sé, si rese conto di essere alla ine di Tom Mboya street e fu costretto a evitare i corpi che gli venivano addosso da tutte le parti. Harambee avenue era ancora asciutta e ventosa. Una donna grassa gli venne incontro all’angolo di Harambee avenue e proprio quando immaginava che le loro spalle si sarebbero scontrate, Kandle si ritrasse e la donna trovò uno spazio vuoto. Kandle fece una smoria quando lei sorrise di sfuggita verso di lui, verso il suo vestito. All’angolo, il suo olfatto acuito dall’alcol colse appena una zafata, comunque disgustosa, di sudore e bustine da tè usate. Si fermò e scivolò con cautela lungo il muro calcolando dov’era il supermercato più vicino mentre si metteva la mano a coppa davanti alla bocca e respirava leggermente: fu contento di sentire l’odore del dentifricio che aveva mandato giù nei bagni dello Zanze. La zafata di sudore, capì, non era la sua, dovuta allo sforzo della partita di rugby. Fu a quel punto che Kevo lo raggiunse. E Kandle per poco non gli dette un cazzotto. “Africano di merda. Che ore sono?”. “Scusa il ritardo, amico. Qui c’è tutto. Susan è di sopra allo Zanze. Appena siamo entrati, Onyi ci ha detto che te n’eri andato”. “Comincio a volervi un po’ meno bene, a voialtri”, disse Kandle prendendo la grossa cartella da Kevo, che cominciò a saltellare a piedi uniti in mezzo alla strada, senza motivo. I passanti lo guardavano divertiti. “Tutto il resto è stato mandato all’uicio del personale. Perciò, buona fortuna”, disse Kevo ancora senza iato. “Stavate scopando, voi due? È per questo che avete fatto tardi?”, chiese Kandle con un ghigno, vedendo che nella cartella c’era tutto quello che gli serviva. “Ci vediamo tra un po’”. Mentre si stavano separando, Kevo gli gridò dietro.

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“Ehi, a proposito. Jamo è morto questo ine settimana. È andato a sbattere. Carbonizzato. Tornavano da un rave. Un capannone. Hanno preso Dagoretti corner a 160 alle otto del mattino e sono initi addosso a un camion che veniva da Kawangware. Non so neppure perché andassero da quella parte. Il iglio di puttana era di Karen”. “Magari andava a ovest. Jeans. Cercava di entrare nella Zona. Jamo chi?”. “Jamo Karen”. Kandle alzò gli occhi al cielo: “Ci sono almeno cinque Jamo Karen”. “Jamo breweries. Il padre una volta era direttore generale”. “Non credo di conoscerlo”. “Sì che lo conosci. Siamo stati a casa sua un mese fa. Un gran casino. Tu eri sparito con la sorella. Susan era furiosa”. “Susan. Siamo un triangolo amoroso, ora?”, chiese Kandle. “Comunque, la cerimonia è a Karen. Poi il funerale a Muranga. Ho sentito che ci sono dei posti strepitosi a Thika. Per cambiare aria. Vediamo che fanno Danny e il gruppo di Thika. Conosci le pollastrelle di Thika”. “Ci penserò”. “Hai un bell’aspetto, piccolo”, fece Kevo con un cenno di saluto. Kandle a un tratto si accorse di aver dimenticato allo Zanze la borsa con il suo elegante cardigan marrone,

la camicia bianca, i pantaloni a scacchi grigi e la cravatta. Avrebbe dovuto chiedere a Kevo di prendergliela. Sentendosi stanco per poco non svenne di nuovo. Adesso era a non più di dieci minuti dal comitato della Eagle. Fin dall’infanzia, Kandle aveva sempre odiato il contatto isico e quell’odio diventava particolarmente intenso quando aveva bevuto. La situazione era peggiorata dopo un incidente nel dormitorio del liceo. Una mattina Kandle si era svegliato intontito pensando che era ora dell’allenamento di rugby prima dell’alba. Muovendosi si accorse che il pigiama gli era sceso ino alle ginocchia e che ce l’aveva duro. Nel buio c’erano delle igure in tuta già pronte per la corsa mattutina di dodici chilometri. Nessuno sembrava prestargli attenzione. Si inilò i calzoncini puzzolenti e mentre la testa gli si schiariva ricordò qualcosa che lo fece sentire a disagio. Rivide confusamente delle mani che stringevano e un viso scuro accanto al suo letto. Non scoprì mai chi l’aveva svegliato quella mattina e sentiva una furia omicida quando guardava i visi che gli si accalcavano intorno, pensando che uno di loro aveva abusato di lui. Nei mesi seguenti durante gli allenamenti aveva osservato le giovani facce tese e sorridenti cercando qualcosa, un’occhiata d’intesa: allora non riusciva neppure a pronunciare la parola omosessuale. Dopo quell’incidente cominciò a non vedere di buon occhio il rugby, a provare un astio continuo e profondo per le tradizioni della Lenana. Poi un giorno smise di apprez-

All’improvviso nella zona di meta apparve una mucca frisona. Ruminava, puntandogli un occhio addosso, o piuttosto lui si vedeva nel suo occhio

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Billy Kahora Mentre la testa gli si schiariva ricordò qualcosa che lo fece sentire a disagio. Rivide confusamente delle mani che stringevano e un viso scuro accanto al suo letto

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zare la sensazione di essere in forma, il grande cameratismo del campo e gli saliva una rabbia omicida perino quando a siorarlo era il più innocente degli attaccanti. Prese gusto alla violenza e alzava le mani sui più piccoli. Era bravo, diventò arrogante e, forse proprio per questo, sempre più furbo, indiferente a tutti tranne che ad altri due ragazzi che considerava più intelligenti di lui. Diventò freddo e crudele. La sua bocca si piegò in un ghigno. Malgrado l’innata velocità, non era riuscito a diventare un giocatore di rugby perché andava fuori di testa al contatto isico maschile. Il rugby, scoprì, non era per chi non sopportava i contatti. Non potevi diventare veramente bravo se odiavi avvicinarti troppo e detestavi il facile cameratismo dato dal contatto isico. Proprio come nella vita e per strada, in città, bisognava essere spontanei con chi ti era vicino. Mentre risaliva Harambee avenue, si rese conto di essere in piena Zona Cattiva. Guardando il suo rilesso nelle vetrine dei negozi, gli venne voglia di darsi un pugno in faccia. E come un pupazzo a molla che non voleva andarsene, il viso scuro di suo padre gli appariva nell’occhio della mente, brutto come il peccato. Si chiedeva se quell’uomo fosse davvero suo padre. Alla ine del liceo lasciò perdere il rugby e cancellò il ricordo di quelle mani strette sulle sue palle con concentrata eccitazione. Prese a frequentare regolarmente i sobborghi di Riruta alla ricerca di passere suburbane. Un giorno, durante le vacanze scolastiche, quando era ancora in terza, era entrato in camera sua e aveva trovato Atieno, la cameriera, che si provava i suoi jeans. Erano ancora a metà gamba e il suo vestito lasciava scoperte le cosce. Nelle settimane seguenti, Kandle scoprì i piaceri della carne. Il resto di quelle vacanze scolastiche lo passò sopra Atieno. Non avrebbe mai dimenticato le sue grida di “Maiyo”, “Maiyo”, “Maiyo” che risuonavano in tutta la casa. Dio, Dio! Dio! In quel periodo diventò sessualmente attivo con maniacale determinazione. Non era diicile. Le ragazze lo consideravano carino. Quando tornò per le vacanze di dicembre, Atieno non c’era più; c’era una donna kikuyu più anziana e materna, brutta come il peccato. Suo padre lo prese da parte e lo informò che la settimana dopo sarebbe stato circonciso. Gli dette anche dei proilattici. “Non vogliamo altri bambini”, fu tutto quello che disse a Kandle. Su Harambee avenue tre ragazze con la divisa di una qualche compagnia aerea camminavano verso di lui in un fruscio di abiti femminili, ridendo disinvolte. Mentre ignorava i loro volti e osservava i loro ianchi, Kandle provò un’improvvisa sensazione di impotenza. Una delle ragazze lo guardò spavalda, e per la centesima volta nella sua vita lui sorrise, riconoscendo la schizofrenia debilitante della Zona. Forse per la prima volta quel giorno, un leggero incespicare gli fece veramente capire quanto fosse ubriaco, anche se per chiunque, tranne suo padre, sarebbe stato diicile intuirlo. E così la Zona Cattiva passò in un fruscio di vesti femminili portandosi via l’immagine di suo padre e le sue associazioni rabbiose, l’ansia del primogenito, visioni di coltelli, sangue, pugni e denti spezzati. Aveva

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capito già da un pezzo di essere un violento, come suo padre. E con il passare della Zona Cattiva inalmente prese coscienza di essere iglio di suo padre esattamente come quel piccolo mostro del fratello, Giant Rat. Frugò frettolosamente nella tasca della giacca e tirò fuori una bottiglietta di Vodka Smirnof Red Label, bevve a garganella e tornò in pieno nella Zona Buona. Poi, improvvisamente, si ritrovò alla Eagle Bank. Con il palazzo della banca davanti agli occhi si costrinse a stare calmo e a respirare profondamente. Sorrise a se stesso e prima di entrare si fermò a pensare alle ultime 72 ore. Il guardiano notturno, Ochieng, solitamente cordiale e ben disposto, fu glaciale. “L’aspettano”, disse in swahili scuotendo il capo per l’assurdità dei giovani. Kandle fu accompagnato negli uici interni della banca dalla segretaria del direttore, Maina, una donna scura, allegra e pettoruta. Anche lei oggi era molto professionale. “Sei in ritardo. Dobbiamo aspettare che gli altri del comitato si riuniscano di nuovo”. Era la prima volta che gli parlava in inglese. Aveva perso quell’afettuoso sentimento kikuyu per lui. andle, che sapeva come ingraziarsi le donne di una certa età, una volta le aveva portato banane fritte e trippa mista a nundu fritto, costolette di bue per il suo compleanno. Più tardi lei gli aveva detto che erano le cose più buone che avesse mai assaggiato, meglio di tutti i biglietti che aveva ricevuto per il suo compleanno. Perino il direttore, Guka, uscendo dal suo uicio e mangiandone distrattamente un po’, commentò che sua moglie purtroppo non cucinava così bene. Mentre Kandle aspettava davanti all’uicio del direttore, Maina l’osservò per qualche attimo e poi sbottò, esasperata. “Che vuoi? Pensi di essere troppo in gamba per lavorare qui da noi?”. “No. Non voglio chissà che. Credo di voler fare il cuoco”. Lei non riuscì a trattenersi e scoppiarono insieme a ridere nella stanza che diventava sempre più buia. Kandle entrò nell’agenzia e trovò due impiegati che lavoravano ancora per far quadrare i conti. Strinse gli occhi in una fessura, aprì la bocca e vuotò addosso a loro il gas contenuto nel suo stomaco. “Che c’è di nuovo?”. Il tono era apertamente sprezzante. “Ottocento registrazioni”, rispose uno di loro senza alzare gli occhi. “Ma guardatevi”, disse Kandle. Loro invece guardarono lui e vedendo la sua acredine fecero una smoria. “Passate qui ogni giorno della vostra vita a occuparvi dei soldi degli altri. Poi andate a mettervi in fila aspettando il matatu per due ore. Vi svegliate alle cinque del mattino. Viaggiate nel traico per due ore, passate la vostra giornata sulle carte e tornate a casa alle nove di sera. Se siete fortunati riuscirete a comprarvi casa a 50 anni. Una macchina a 45 e un bel vestito a 35. Sono sicuro che in questo momento in tasca avete sì e no 50 scellini. Posso darvi da mangiare per una settimana. Maledetti contadini”. Sospirò e contò tremila scellini. “Ubriacatevi e trovate delle donne. Godetevi Nairobi”. I due impiegati venivano da fuori città. Poi Kandle andò in bagno, si tolse dalla tasca della

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giacca una busta bianca e contò 60mila scellini che intendeva consegnare al contabile per rimborsare il prestito per i mobili che aveva chiesto prima di andare in ferie. Quando rientrò, Maina gli disse che il comitato era pronto e lo fece entrare. L’uicio del direttore era tetro. C’era una grande scrivania scintillante ricoperta da una spessa lastra di vetro. Sotto c’era un calendario con molte date cancellate. Su un lato della scrivania c’era una grande agenda aperta e al centro una penna stilograica appoggiata sull’enorme registro del bilancio. Alcune voci erano state spuntate e quando Kandle entrò, il direttore, Guka Wambugu, stava studiando le cifre con aria corrucciata. Era vestito come un gentiluomo di campagna, aveva la sua eterna giacca di tweed con le toppe ai gomiti e, sotto, uno smorto maglione grigio ferro sulla cravatta marrone e la camicia bianca. Gli mancavano solo gli stivali di gomma per completare il quadro. Kandle notò che il vecchio scemo portava un vecchio paio di scarpe Bata Prefect tutte scalcagnate. Bata mshenzi. Shenzi type. Kandle sofocò la risata incontrollabile che minacciava di esplodergli dal petto. Di fronte alla scrivania c’era una sedia per Kandle. La stanza, anche se grande, conteneva pochi oggetti. Lungo la parete destra c’era una grande biblioteca con i raccoglitori della banca e diversi libri, per lo più classici degli uici keniani: la Bibbia evangelica, La montagna dello splendore, inni tradizionali kikuyu, Not yet uhuru, la costituzione del Kenya, il sistema bancario in

Kenya e Il crollo di Achebe. C’erano anche parecchi bollettini della Eagle macchiati di tè. Sulla parete sinistra si apriva una inestra afacciata su Harambee avenue. Kandle riusciva a vedere la vecchia Jogoo house e una parte del complesso del Kenyatta conference centre. C’erano anche due foto di Guka. In una teneva in alto un trofeo vinto dalla iliale di Harambee su un campo arido di supericie irregolare. Nell’altra aveva la T-shirt della Eagle e impugnava una mazza da golf. Improvvisamente si sentì un suono di sirene spiegate e nella stanza tutti si voltarono a guardare il corteo d’automobili presidenziale che sfrecciava sulla strada. Per quel giorno aveva inito, tornava a casa nella State House. Kandle sogghignò e ricordò che un giorno, quando era alle elementari, aveva stretto la mano al Presidente durante un’iniziativa per promuovere il Progetto nazionale del latte nella scuola dell’infanzia. C’era una vecchia foto di Kandle che beveva da una busta di latte mentre il Presidente gli sorrideva raggiante. L’immagine era circolata in tutto il paese e ancora oggi la gente lo fermava per strada scambiandolo per Blueband Boy, un altro bambino che era stato il grande beniamino della pubblicità televisiva negli anni ottanta. Ai lati della scrivania avevano fatto spazio per il resto del comitato. Ocuotho, il contabile dell’agenzia, era seduto alla destra di Guka, agghindato e servile come sempre, il viso magro e scavato, a un soio dai cinquanta e dalla possibilità di andare in pensione. Nell’agenzia era famoso per i vestiti che gli pendevano dalle spalle

Il direttore era vestito come un gentiluomo di campagna, con l’eterna giacca di tweed e, sotto, uno smorto maglione grigio ferro sulla cravatta marrone e la camicia bianca

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Billy Kahora Poi sorrise raggiante. Aveva la schiena ben inarcata come al solito, e gli occhi erano quelli di un anziano della tribù che non tollera sciocchezze da ragazzini irresponsabili

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come da un attaccapanni. Era anche noto per la sua ostinazione nel tagliare i costi e si aggirava tra i piani della banca come un uccello serpentario, immaginando il giorno in cui anche lui avrebbe avuto un’agenzia da dirigere. Un tempo era stato il primo contabile della più grande iliale della Eagle in Kenya, ma l’avevano trasferito nell’agenzia di Harambee, più piccola, dopo una serie di frodi commesse sotto i suoi occhi. Anche se come rappresentante della direzione era seduto a destra, si sentiva in parte solidale con il ragazzo davanti a lui perché si era trovato nella stessa situazione di Kandle, seppure a livello dirigenziale. Per evitare il licenziamento aveva dovuto spiegare come mai aveva autorizzato, senza pensarci troppo, una spesa di dieci milioni di scellini. Ma nello stesso tempo la sua era anche una presenza ostile, perché era stato proprio un gruppo di tre giovani della stessa età di Kandle a costargli quasi il posto e la carriera. Quell’esperienza l’aveva reso prudente, una persona che non dava giudizi afrettati: aveva imparato che nelle questioni bancarie serve sangue freddo e teneva per sé le sue opinioni. Ocuotho in luo signiica lucertola e quell’uomo era davvero imperscrutabile. Accanto a lui sull’estrema destra c’era un uomo calvo con un paio di occhiali irmati, non da vista: Malasi dell’uicio personale. A Kandle sembrò di averlo già visto da qualche parte. A sinistra, per rappresentare il sindacato e, in teoria, Kandle, c’era il delegato sindacale, Kimani, un quarantenne allampanato e giovanile con i capelli ricci e lunghe mani sottili che piegava e faceva scricchiolare in continuazione. Si dava il caso che fosse anche il superiore diretto di Kandle. Era l’uomo dietro le lunghe trattative nel dipartimento. Alla sua destra c’era un uomo più giovane, il vicedelegato sindacale della iliale, Koigi, un tipo pafuto con pancia e sedere tondi che smentivano il suo attivismo. Da bambino aveva avuto un incidente e tendeva a inclinare il capo a destra come un uccellino nei momenti più improbabili. Come Kandle, lavorava in quell’agenzia da un anno ed era considerato un astro in ascesa. Era anche un compagno di bevute di Kandle. “Ah, signor Karoki. Kandle Kabogo Karoki. Dopo averci fatto aspettare ci ha inalmente concesso il piacere della sua compagnia. Sono certo che conosce tutti qui, a parte il signor Malasi del personale”, disse Guka allungando il braccio verso l’uomo calvo con gli occhiali irmati. Poi sorrise raggiante toccandosi il viso lungo con mosse feline. Aveva la schiena ben inarcata come al solito, e gli occhi erano quelli di un anziano della tribù che non tollera sciocchezze da ragazzini irresponsabili. Kandle a un tratto ricordò chi era quel tipo calvo. Era l’uomo che l’aveva assunto perché gli erano piaciute le rughe della sua fronte. Guka si voltò verso il rappresentante del sindacato. “Signor Kimani, questo comitato si è riunito per esaminare la condotta del signor Karoki e far pervenire una decisione… chiedo scusa… un consiglio all’uicio personale su cosa fare del giovane signor Karoki”, disse guardando Kandle con aria eloquente. “Non è una questione complessa. Il signor Karoki ha deciso che non

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era più interessato a lavorare per la Eagle e ha smesso di presentarsi in uicio. Davanti a me ho i dati della sua presenza in banca, che per qualche ragione negli ultimi dodici mesi è peggiorata. Precedentemente, la rilevazione conferma che il signor Karoki è sempre stato un impiegato esemplare. Quando ha cominciato ad assentarsi abbiamo cercato di scoprire cos’era successo, ma il signor Karoki non si è dimostrato disponibile. Cosa dire? Io sono qui per dirigere quest’agenzia e alla ine, come dicono gli americani, serve una soluzione. Gli inglesi per cui lavoravo quando sono arrivato in questa banca avrebbero detto che prima di tutto vengono la regina e la nazione. Poi viene la Eagle”. Fece una pausa, si schiarì la gola e guardò fuori dalla inestra con sussiego. “Quando sono entrato in questa banca facevo il fattorino ed ero l’unico impiegato africano della Eagle. Lavoravo per un direttore di agenzia che si chiamava Purkiss, un ex detective di polizia che mi ha fatto sentire orgoglioso e mi ha insegnato il senso del dovere. Sono qui da quarant’anni. Ne compirò sessanta l’anno prossimo. Mi sembra che i giovani non sappiano più cosa stanno facendo. Quando avevo i suoi anni, signor Karoki, nessuno della mia età mi avrebbe chiamato signore. In nessun caso, anche se ero già maturo e responsabile come fattorino. Più maturo di quanto lo sia oggi lei. Avevo l’età di Malasi, trentasei anni, prima che qualcuno mi ofrisse l’opportunità di lavorare al cambio estero. Ed ero già un uomo, padre di tre igli. Ora si guardi. Avrebbe potuto essere al mio posto, Dio ci scampi, a quarant’anni. È un peccato che non mi sia accorto in tempo di lei per rimetterla in riga. Ma prima di darle la parola, sentiamo il contabile della banca, il signor Ocuotho”. lla ine di questo discorso, tutti i dipendenti dell’agenzia stavano cercando di nascondere un sorriso. Malasi aveva la fronte lievemente aggrottata. Ogni volta che aveva citato l’età, Guka, senza neppure accorgersene, aveva sottolineato le parole con una certa enfasi. Quaranta era diventato qua-ran-ta, trenta era tren-ta. E così via. “Grazie, signor Guka”, disse Ocuotho sofocando la risatina che aveva in gola. Parlava con energia. “Il signor Karoki è un buon impiegato, o era un buon impiegato. Ma dopo aver ricevuto lo stipendio di giugno, cui va aggiunto il prestito che ha chiesto per i mobili, la settimana seguente non si è ripresentato al lavoro. Abbiamo ricevuto una lettera del dottor Koinange secondo cui aveva bisogno di una settimana di riposo per ragioni di stress. Io allora ho deciso di fargli prendere le ferie. Dopo quella settimana di permesso per malattia non è tornato al lavoro. Le ferie uicialmente sono cominciate tre giorni dopo. Oggi lo rivedo per la prima volta”. Kandle guardava il suo capo, Kimani, che aveva un’espressione grave. Sentendosi addosso gli occhi di Kandle, ammiccò in modo quasi impercettibile. “Qual è l’esatta data d’inizio di questa sequenza di fatti?”, chiese Guka. Tutti aspettarono mentre Ocuotho consultava la sua agenda.

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“Venerdì 24 giugno”. “Oggi è giovedì 15 agosto. Perciò senza contare il permesso per malattia e le ferie, il signor Karoki si è assentato per due settimane senza una ragione plausibile. E dopo otto settimane non sembra aver risolto il suo problema”, osservò Guka. Distese il ventre accarezzandolo. Era meglio che spuntare il bilancio. Kandle ricordò che l’ultimo accordo nel dipartimento era stato raggiunto il 22 giugno. “Sentiamo il delegato sindacale dell’agenzia, il signor Kimani”. “Ho lavorato con Kandle per un anno e in tutta onestà ho visto pochi ragazzi della sua età lavorare sodo come lui. Qualche settimana fa non si è presentato al lavoro, come ha detto il signor Ocuotho. Ha telefonato più tardi e ha detto di non sentirsi bene e che era successo qualcosa a sua madre. Ha detto che quello stesso giorno avrebbe mandato una lettera del medico. Non ci ho fatto troppo caso. La gente si ammala. Kandle non aveva mai perso un giorno di lavoro. Gli ho detto di fare avere la lettera al contabile, inviarne una copia al dipartimento e tenerne una per sé. Poi naturalmente è andato in ferie. Quando non è rientrato come previsto – io dovevo andare in ferie dopo di lui – mi sono preoccupato e ho cercato di contattarlo. Quando ci siamo sentiti, mi ha detto che i suoi problemi non erano risolti e ha sostenuto di aver parlato con l’uicio del personale. Io gli ho raccomandato di conservare una copia di tutte le sue lettere”. Guka cominciava ad agitarsi. Era chiaro che non era

a conoscenza di nessun contatto con l’uicio del personale, con cui aveva già problemi per via di numerosi reclami dei dipendenti di medio livello dell’agenzia. La maggior parte di loro si era trasferita e se la passavano benissimo altrove dopo essersi lamentati del suo pugno di ferro e dei suoi metodi colonialistici. Una volta aveva accusato di insubordinazione il leggendario Hendrix, ma quando il caso era arrivato ino a loro, l’uficio del personale aveva deciso diversamente e l’aveva trasferito ai servizi commerciali, il che di fatto equivaleva a una promozione. Ora Hendrix era il broker principale della banca. Guka era direttore di agenzia da otto anni. I suoi colleghi che erano diventati dirigenti insieme a lui, adesso erano direttori esecutivi oppure amministratori delegati di altre società. Guka si allentò la cravatta. Per una volta aveva la sensazione che fosse un cappio. Pensò che alla ine dell’anno doveva andare in pensione. Avrebbe voluto essere sul campo da golf o nella sua piantagione di tè e ricordò a se stesso che più tardi doveva parlare con Kimani per scoprire se c’era qualche possibilità che ricominciassero le transazioni di valuta. Erano passati due mesi da quando aveva ricevuto i suoi soliti ventimila scellini alla settimana. Doveva inire la casa che stava costruendo a Limuru. La faccenda non stava andando come si aspettava. “Non sono a conoscenza di documenti o comunicazioni di questo tipo. Ma come sapete siamo un grande dipartimento e farò un controllo”, propose Malasi.

Sembrava una di quelle faccende rognose. Tanto per cominciare il ragazzo appariva troppo calmo, quasi annoiato dalla procedura. E cos’era quella grossa cartella di documenti?

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Billy Kahora Mentre usciva dall’uicio insieme agli altri, lasciando soli Guka e Malasi, Kandle si rese conto di avere appena concluso una delle migliori interpretazioni della sua vita

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Guka tossicchiò: “Credo che i fatti siano chiari …”. Malasi lo interruppe: “Penso che dovremmo sentire se Koigi ha qualcosa da dire e poi il signor Karoki, prima di decidere quali sono i fatti…”. L’uicio del personale aveva pagato milioni di scellini a ex dipendenti per licenziamento senza giusta causa e Malasi cominciava a pensare che avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga da questa storia e mandare qualcun altro. Sembrava una di quelle faccende rognose. Tanto per cominciare il ragazzo appariva troppo calmo, quasi annoiato dalla procedura. E cos’era quella grossa cartella di documenti che aveva sulle ginocchia? Il riferimento a uno dei più insigni psichiatri di Nairobi, il dottor Koinange, aveva introdotto un elemento completamente nuovo. Si dava il caso che il dottor Koinange facesse parte del consiglio di amministrazione della Eagle. Date le circostanze, sarebbe stato ridicolo assecondare l’arroganza bellicosa di un vecchio. Anche se fossero riusciti ad allontanare il ragazzo, Malasi decise di far girare discretamente la voce che Guka andava mandato in pensione. Era il direttore più anziano della Eagle, e aveva superato da un pezzo la data di scadenza. A ben pensarci, solo due o tre fattorini erano più anziani di lui. Malasi decise che avrebbe raccomandato Ocuotho come possibile candidato alla carica di direttore dell’agenzia di Harambee. uka si schiarì di nuovo la voce. “Giovane signor Karoki, lei ha cinque minuti per spiegare la sua condotta”. La sua disinvolta sicurezza si era trasformata in un’ira intensa e trattenuta. “Prima di cominciare, forse dovrebbe afrontare la questione del prestito che ha ricevuto per acquistare mobili”. Kandle prese silenziosamente una busta bianca dalla tasca e la appoggiò sulla scrivania di Guka insieme al contenuto della grande cartella marrone. “Cos’è questa storia? Non abbiamo tempo per le sciocchezze, signor Karoki”, borbottò Guka accennando ai documenti. Malasi allungò un braccio, prese la cartella e distribuì copie a tutti. Guka ignorò la sua. Kandle parlò con voce sommessa. “Nell’ultimo anno mia madre è uscita di senno. Essendo il primogenito e a causa delle continue assenze di mio padre, nell’ultimo anno l’ho vista peggiorare. Mio padre l’ha lasciata anni fa e sono stato io a dovermi prendere cura di lei. Mia sorella è negli Stati Uniti e mio fratello è sempre attaccato alla bottiglia. Due mesi fa mia madre ha lasciato la casa di mio padre a Buru Buru e si è trasferita in una baraccopoli poco lontana. E nello stesso periodo io ho cominciato ad avere forti mal di testa. Non riuscivo né a mangiare né a dormire e ho perino iniziato ad avere le allucinazioni, come spiega in una delle lettere il dottor Koinange, il nostro medico di famiglia. Lui mi ha esplicitamente detto che si sarebbe messo in contatto con l’uicio del personale della banca. È per questo che io non ho preso contatti. L’ha fatto il mio medico”. Gli occhi di Kandle erano pieni di lacrime. Guka si accomodò meglio sulla sedia e issò il soitto. Inilò il labbro superiore dentro quello inferiore as-

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sumendo la classica posa degli uomini kikuyu quando pensano. Il labbro arricciato kikuyu. Malasi prese la parola. “Sì, vedo che l’uicio del personale ha ricevuto delle lettere dal suo medico. Vedo anche che ci sono altre lettere spedite dal suo avvocato. Perché si è preso tanto disturbo se era veramente malato?”, chiese Malasi. “Avevo pensato di dimettermi perché non me la sentivo di tornare al lavoro inché mia madre non fosse stata meglio. Ma poi il mio avvocato mi ha detto che non era necessario”. Una lacrima gli rigò la guancia destra, e lui se l’asciugò rabbiosamente. “Ha ancora intenzione di dimettersi?”, chiese Malasi con aria quasi speranzosa. “Vorrei prima sapere quali alternative ho”. “Be’, non è necessario che chiami il suo avvocato. No, non è necessario. Valuteremo il suo caso e le faremo sapere. Nel frattempo si prenda un po’ di riposo. E può tenere i soldi del prestito, per il momento. È ancora un dipendente di questa banca”. Tornò a rivolgersi a tutti i presenti. “Signor Guka?”. Il direttore lanciò un’occhiataccia a Kandle, con un mezzo sorriso. Non disse niente. “Signor Karoki, lei può andare”, disse Malasi. Mentre usciva dall’uicio insieme agli altri, lasciando soli Guka e Malasi, Kandle si rese conto di avere appena concluso una delle migliori interpretazioni della sua vita. Canticchiando Crazy baldhead di Bob Marley, già si vedeva di nuovo allo Zanze a folleggiare ino alle prime luci dell’alba. “Può venire un attimo nel mio ufficio?”, chiese Ocuotho a Kandle. Prima di seguirlo, Kandle strinse la mano a Kimani e a Koigi e bisbigliò: “Sarò allo Zanze, più tardi”. Poi scortò Ocuotho nel suo uicio diviso in due da una vetrata, proprio al centro del piano. “Perché non mi ha parlato dei suoi problemi? Eravamo d’accordo che poteva rivolgersi a me, in caso di bisogno. Ho delle conoscenze alla sede centrale, e avremmo potuto trovare una soluzione. Lo sa che Guka non capisce i giovani”. “Grazie, signore. Non si preoccupi, è tutto a posto ora”. “Adesso avrà un po’ di tempo. Pensi seriamente alla sua vita”. “È proprio quello che sto facendo, signore”. Ocuotho sospirò, poi lo guardò. “C’è una piccola questione che mi preoccupa. Una questione privata. Mia iglia è malata, e mi chiedevo se potesse prestarmi una piccola somma. Diciamo diecimila scellini?”. “Non c’è problema. Il tasso d’interesse è sempre lo stesso. E avrò bisogno di un assegno in bianco”. “Ma certo”. Ocuotho compilò un assegno e glielo porse. Kandle s’inilò una mano nella tasca posteriore e prese venti banconote da cinquecento scellini dai soldi del prestito per i mobili. “Be’, temo che non la rivedremo presto da queste parti, per un motivo o per l’altro. Ci mancherà…”, disse Ocuotho in tono eloquente. Scoppiarono entrambi in una profonda risata di pancia, quella risata degli uomini keniani che nasce da


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una consapevolezza speciale. Ridere era una lingua in sé, che la gente usava per sfuggire a una muta disperazione nazionale. Dentro l’uicio del direttore, Guka guardava Malasi scuro in volto. “Credevo che fossi qui per darmi il tuo appoggio. Dobbiamo sbarazzarci di quel piccolo furfante”. Malasi sorrise. “Quel piccolo furfante non tornerà più”. “Come fai a saperlo?”, chiese Guka. “Ha perso le rughe che aveva sulla fronte. L’ho conosciuto quando stavamo selezionando il personale, l’anno scorso. E posso dirti che non è più il ragazzo di allora. Non so che cosa sia successo, ma non è più lo stesso. E sono pronto a scommettere la mia laurea in psicologia che non torna”. “Psicologia?”, ribatté Guka disgustato. “Meglio la psicologia della legge. Non vorrai metterti contro uno dei migliori avvocati del Kenya. Quel ragazzo è alla ricerca di nemici da battere, e la Eagle non sarà uno di loro”. Guka emise un gorgoglio di disapprovazione. “Un ragazzo contro una banca? Forse è arrivato il momento di andarmene in pensione”. “Dopo tutto, la banca è fatta di persone. Io ho studiato il caso, prima di venire qui. Kandle Karoki non è uno dei quei ragazzotti che di solito assumiamo per il lavoro d’uicio. Sua zia è la donna più potente del Kenya. Suo padre quest’anno verrà quasi sicuramente eletto nel collegio di Embakasi. Il suo medico è il dottor

Koinange. Nairobi è una città troppo piccola per farsi dei nemici”. Si alzò in piedi. “Tu stai per andare in pensione. Io ho ancora una carriera davanti”. Malasi si vantava di essere un conoscitore della natura umana, soprattutto di quella del Kenya di tutti i giorni. E siccome, un giorno, aspirava a diventare capo del personale decise che non avrebbe mai dimenticato quella lezione. Sapeva che gli ultimi 45 minuti erano stati qualcosa di più di una riunione d’uicio. Adorava i ilm western e di guerra, e capì che quello era stato uno dei migliori duelli che avesse mai visto, una perfetta simulazione del conlitto generazionale. Era soddisfatto di aver saputo mantenere il distacco necessario per esprimere questo giudizio. “Che Dio aiuti i suoi genitori. Quel ragazzo vuole fare il cuoco. Me l’ha detto la mia segretaria. Lasciare la banca per cucinare… Non lo so. Forse mi sono perso qualcosa, forse è uno di quei ragazzi un po’ strani a cui non piacciono le donne. Come li chiamano? Gai?”. Malasi rise forte. “Credi che ci riuscirà? Io facevo il cuoco prima di entrare in banca come fattorino”. “Un bravo cuoco oggi guadagna più di un direttore di banca”, disse Malasi uscendo. Lasciando l’uicio, Guka vide qualcosa che lo lasciò di stucco. Ocuotho rideva insieme al ragazzo, nel suo uicio di vetro. Il vecchio direttore inarcò la schiena, cercò di serrare la mascella inilando il labbro superiore dentro quello inferiore e uscì dalla banca pensieroso. u gc

Malasi si vantava di essere un conoscitore della natura umana, soprattutto quella del Kenya di tutti i giorni. Decise che non avrebbe mai dimenticato quella lezione

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Catherine Anyango Cuore di tenebra

Diario del Congo Arrivati a Matadi il 13 giugno 1890

ECCO LA STAZIONE DELLA SUA COMPAGNIA.

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"MI RITROVAI DI FRONTE A UNA CALDAIA CHE SGUAZZAVA NELL'ERBA E, POCO DOPO, IN UN VAGONCINO CAPOVOLTO".

"SEI NERI AVANZAVANO IN FILA, UNITI DA UNA CATENA CHE TINTINNAVA RITMICAMENTE".

VEDO OGNI COSTOLA… LE GIUNTURE DELLE LORO MEMBRA SEMBRANO NODI DI UNA CORDA.

QUESTA MACCHINA SEMBRA LA CARCASSA DI UN ANIMALE.

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"FUI COLTO DAL PRESENTIMENTO CHE SOTTO IL SOLE ACCECANTE DI QUEL PAESE AVREI IMPARATO A CONOSCERE UNA FOLLIA RAPACE E SPIETATA".

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Catherine Anyango

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"IL LAVORO!".

"SCOPPIO UNA MINA NELLA RUPE. IL LAVORO PROCEDEVA…".

"ERO ENTRATO NEL LUGUBRE GIRONE DI QUALCHE INFERNO. IL MOVIMENTO VORTICOSO DELLA TERRA NELLO SPAZIO ERA IMPROVVISAMENTE DIVENTATO PERCETTIBILE".

"E QUI ALCUNI DEI MANOVALI SI ERANO RITIRATI A MORIRE…".

"…LENTAMENTE. NON ERANO NEMICI, NON ERANO CRIMINALI, NIENT'ALTRO CHE NERE OMBRE DI FAME E DI MALATTIA".

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Catherine Anyango

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“MI DIRESSI IN FRETTA VERSO LA STAZIONE. VICINO AGLI EDIFICI INCONTRAI UN BIANCO DI UN'ELEGANZA INASPETTATA".

SONO USCITO A PRENDERE UNA BOCCATA D'ARIA FRESCA.

SEMBRA IL MANICHINO DI UN SARTO.

"MA PROVAVO RISPETTO PER IL SUO COLLETTO, I SUOI AMPI POLSINI, I CAPELLI BEN PETTINATI".

"NEL GENERALE SFACELO DI QUELLA TERRA, TENEVA AL SUO ASPETTO…".

"…I SUOI COLLETTI INAMIDATI, GLI SPARATI RIGIDI PROVAVANO LA SUA FORZA DI CARATTERE".

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Giugno 1890. Il capo della stazione ci trattiene per qualche oscuro motivo.

"DOVETTI ASPETTARE DIECI GIORNI IN QUELLA STAZIONE - UN'ETERNITA".

Molti dubbi sul futuro. La mia vita qui con queste persone (i bianchi) non può essere molto confortevole. Evitare il più possibile rapporti.

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Catherine Anyango

NELL'INTERNO INCONTRERA CERTAMENTE IL SIGNOR KURTZ.

CHI E KURTZ?

UNA PERSONA NOTEVOLE. DIRIGE UN AVAMPOSTO COMMERCIALE NEL VERO PAESE DELL'AVORIO. AL LIMITE ESTREMO…

DA LAGGIU… …CI MANDA PIU AVORIO DI TUTTI GLI ALTRI MESSI INSIEME.

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ANDRA LONTANO, MOLTO LONTANO NELL'AMMINISTRAZIONE… …E QUELLO CHE HANNO IN MENTE LASSU, IN EUROPA.

QUANDO VEDRA IL SIGNOR KURTZ, GLI DICA CHE QUI VA TUTTO BENE.

QUANDO SI E OBBLIGATI A TENERE I CONTI IN ORDINE, SI FINISCE PER ODIARE QUESTI SELVAGGI… …ODIARLI A MORTE.

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"LASCIAI FINALMENTE LA STAZIONE CON UNA CAROVANA DI SESSANTA UOMINI, PER UNA MARCIA DI TRECENTO CHILOMETRI".

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"E INUTILE CHE MI DILUNGHI. SENTIERI, SENTIERI OVUNQUE, SU E GIU PER FREDDE GOLE…".

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Catherine Anyango

"…E UNA SOLITUDINE, UNA SOLITUDINE, NESSUNO, NEANCHE UNA CAPANNA!".

Lunedì 30. Raggiunto Congo da Lemba dopo aver superato cime nere. Lunga scalata. Difficoltà. Campo pessimo. Acqua lontana. Sporcizia. Martedì 1 luglio. Partiti presto, molta foschia, diretti al fiume Lufu. Splendido bagno. Fiume pulito. Mi sento bene. Primo pollo.

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"LA POPOLAZIONE SE N'ERA ANDATA DA TEMPO".

MercoledĂŹ 2 luglio. Paesaggio piĂš aperto. Morbide colline. Strada buona, in perfetto stato. Arrivati alle 11 a Banza Manteka. Accampamento sporco. Troppo debole per passare dal missionario.

Storia tratta da Heart of darkness (SelfMadeHero 2010), adattamento a fumetti del romanzo di Joseph Conrad. Testi di David Zane Mairowitz. Disegni di Catherine Anyango Internazionale 878 | 24 dicembre 2010

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A. Igoni Barrett Disegni di Franco Matticchio

A caccia di sogni

Q A. IGONI BARRETT

è uno scrittore nigeriano nato a Port Harcourt nel 1979. Nel 2005 ha pubblicato la raccolta From caves of rotten teeth (Daylight Media 2005), da cui è tratta questa storia. I suoi racconti sono usciti sulle riviste Agni, Guernica, Kwani? e New Madrid. La traduzione dall’inglese è di Francesca Spinelli.

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uella mattina, come tutte le volte che L’addetta era una ragazza. Indossava dei jeans azsaltava la scuola, il quindicenne Sa- zurro chiaro e una canotta rosa con una scollatura che mu’ila spinse la porta a vetri ed entrò tolse il iato a Samu’ila: il suo sguardo riusciva a spinnell’ambiente fresco dell’internet café. gersi quasi ino ai capezzoli. I piedi – dalle unghie lunEra lo stanzone lungo di un vecchio ma- ghe e variopinte – erano incrociati sulla scrivania. Stagazzino, senza ventilaziova leggendo un libro con la copertina ne, dove l’aria entrava solo dalla porta “Perché non mi patinata, che teneva davanti agli occhi d’ingresso, che era sempre chiusa. Due lasciate in pace?”, come se fosse uno specchietto da borsa. condizionatori antiquati – ansimanti e esclamò la ragazza Samu’ila tossì per attirare la sua attensinghiozzanti a causa del lusso irregola- dell’internet café. zione, ma la ragazza non alzò gli occhi re della corrente – soiavano fuori nuvo- Riconobbe Samu’ila. dal libro. Era abituato al suo modo di fale gelate. Le lampade fluorescenti sul “Ancora tu. Ma a re. soffitto emettevano una violenta luce scuola non ci vai “Cosa leggi oggi, sorella?”, chiese. bianca e il pavimento era coperto da un mai?”, disse con “La favorita del principe”, rispose lei. soice tappeto rosso, che nel mezzo avePoi, con un sospiro, tolse i piedi dal tavovoce piatta. “Quanto va una striscia marrone lasciata dal conlo e ci sbatté sopra il libro. “Perché non tempo stai oggi?” tinuo calpestio. Su due lati della stanza mi lasciate in pace?”, esclamò, lancianerano allineati dei tavoli con sopra i modogli un’occhiata. Riconobbe Samu’ila. nitor. Sotto i tavoli c’erano i computer e i gruppi di con- “Ancora tu. Ma a scuola non ci vai mai?”, disse con votinuità con le loro luci rosse, verdi e gialle, mentre per ce piatta. “Quanto tempo stai oggi?”. terra, dove il tappeto era brillante come se fosse appe“Quattro ore”, rispose Samu’ila. na uscito dalla fabbrica, c’era un groviglio di cavi che Mentre con una mano gli tendeva un biglietto e con andavano in tutte le direzioni. l’altra metteva i soldi nel cassetto della scrivania, la Le pareti della stanza erano coperte di messaggi di ragazza cominciò a recitare con voce cantilenante: “La avvertimento rivolti a trufatori, spammer e hacker. stampante non funziona. Se il computer s’impalla, riFermandosi davanti alla scrivania dell’impiegata, Sa- avvialo. Se una pagina ci mette tanto a caricarsi, io non mu’ila notò un nuovo cartello: sono il server. Sei pregato di non disturbarmi per nessun motivo”. Siamo lieti di annunciare “Lo so”, disse Samu’ila. che la nuova tarifa notturna è La ragazza riprese il libro e piazzò nuovamente i 250 naira!!! piedi sulla scrivania. Samu’ila si chinò per vedere l’ora Vi promettiamo che sicuramente sul cellulare di lei, appoggiato sul tavolo. Erano solo le avrete una grande notte con noi, 8.23 ma l’internet café era quasi pieno. Samu’ila si quando venite. guardò intorno in cerca di un computer libero e ne Siamo qui per fare diferente. scelse uno in fondo alla stanza. Avvicinandosi sentì un getto d’aria fredda che gli fece venire la pelle d’oca. Il Firmato: la direzione. computer che aveva scelto era di fronte al condiziona-

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A. Igoni Barrett

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Con il sorriso stampato in faccia, Samu’ila si chinò in avanti e, tasto dopo tasto, si addentrò nel fantasmagorico regno del web. C’era un messaggio oline nella sua casella di Yahoo! Messenger

tore. Tirò indietro la sedia e prese posto. Fece scrocchiare le dita, espirò, poi tirò fuori il piano porta tastiera e digitò la password scritta sul biglietto. Lo schermo diede un bagliore di vita e aprì la homepage di Yahoo!. Con il sorriso stampato in faccia, Samu’ila si chinò in avanti e, tasto dopo tasto, si addentrò nel fantasmagorico regno del web. C’era un messaggio oline nella sua casella di Yahoo! Messenger. dv6? ho bsgn d parlarti ora! t prego! xxx Era un messaggio di Ben. Ben: il vedovo sessantenne che aveva conosciuto tre settimane prima in una chat di incontri. Ben: il ricco pensionato americano senza figli e con cinque cani. Ben: l’uomo solo che avrebbe fatto qualunque cosa per lui. O almeno così diceva. Sullo schermo spuntò la inestra dei messaggi. Ar-

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rivò un primo buzz, poi un secondo e un terzo, senza suono. c6? Samu’ila scrisse la risposta. eccomi, amore ciao tesorino! dv eri? sn ore ke t aspetto… scuuuusa, amorino. ho avuto pb a casa. m 6 mancato! anke tu… guarda… ho 1 sorpresa x te! Samu’ila aspettò, con le dita appoggiate sulla tastiera. Vedendo che Ben non scriveva nulla, si portò le mani dietro la testa, intrecciò le dita e si appoggiò allo schienale. Sofocò uno sbadiglio e fece vagare lo sguardo per la stanza. La sua attenzione fu attirata dall’uomo seduto accanto alla scrivania dell’addetta. Parlava al cellulare. Aveva una voce sicura e disinvolta: dalla sua bocca sgorgava un torrente di coordinate bancarie,


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Gli occhi, con il bianco tumido segnato dai capillari, lo issavano. Poi si allontanarono dalla webcam e la faccia di Ben apparve al centro dello schermo. L’immagine era pixelata, i movimenti ritardati e a scatti. Nell’oscurità che gli incorniciava il viso, Ben era bianco come il fondo del mare. Samu’ila tese la mano per grattargli il mento. Gli occhi sullo schermo, allo stesso tempo lontani e vicini, lo facevano sentire nudo, esposto, come l’ultimo pesce nel secchio di un pescatore. Poi Ben mosse la testa, chinò lo sguardo e lo schermo si colorò di Tahoma rosso: m vedi? Leggendo la domanda, Samu’ila ricominciò a respirare, poi si guardò intorno per vedere se qualcuno aveva notato il suo disagio. Quando si voltò di nuovo verso il computer, trovò una silza di messaggi. Lasciamo che il vecchio sofra un po’, si disse. Scrutò il viso sullo schermo notando le sopracciglia ispide, il naso butterato e le narici strette, le borse sotto gli occhi sporgenti. Solo quando Ben cominciò a mandare righe intere di alloraa??? Samu’ila si decise a rispondere: t vedo

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qualiiche professionali e dettagli di versamenti. Agitava la mano sinistra per aria e teneva il telefono stretto nella destra, gesti che contrastavano con il suo tono suadente. Sentendo il forte accento dell’uomo e il suo tentativo così palese di ingersi americano, Samu’ila non poté trattenere un sorriso. Che svanì quando l’uomo, facendo un gesto di vittoria, gettò il cellulare sul tavolo con un urlo di gioia. Samu’ila tornò a issare lo schermo, tutto preso dalla ricerca di una frase che esprimesse la giusta combinazione di sorpresa e gratitudine, quando apparve la richiesta di accettare l’avvio della webcam. Istintivamente cliccò “ok” e si rese conto di cosa aveva appena fatto solo quando sullo schermo apparve un paio di occhi. “Oh!”, esclamò spaventato, facendo un salto indietro con la sedia.

amu’ila era entrato la prima volta in un internet café per conto del fratello maggiore, che lo aveva incaricato di consegnare una lettera d’amore a una ragazza con cui non aveva il coraggio di parlare. Samu’ila aveva undici anni. All’epoca pensava che gli internet café fossero sale giochi per adulti, ma si era subito ricreduto: l’atmosfera da aula d’esami lo aveva convinto che lì dentro si facevano cose serie. Aveva sentito parlare di internet, ma non aveva un’idea chiara di cosa fosse. A scuola si era sorbito una serie di racconti di fantasia che erano il cavallo di battaglia di alcuni suoi compagni. Aveva sentito dire che su internet si potevano vedere tutti i ilm e i video musicali gratis. Aveva scoperto con meraviglia che chiunque poteva giocare a qualunque gioco con persone che abitavano dall’altra parte del mondo. I suoi sogni erano stati turbati dalla strana storia di una ragazza che mandava lettere d’amore a un ragazzo che non conosceva. Quando lui le apriva, veniva trasportato nella stanza di lei dove poteva guardarla, nuda sul letto, mentre faceva sparire magicamente dei cetrioli. Gli era stato detto che qualunque cosa, da una grafetta a una crociera, su internet si poteva comprare con un “clic” e che c’erano macchine chiamate “motori di ricerca” che producevano risposte se uno digitava delle domande. Non aveva mai creduto a quelle storie, ino al giorno in cui si era ritrovato dietro l’oggetto del desiderio di suo fratello e aveva scoperto, sbalordito, che tutto ciò di cui aveva sempre dubitato era vero. All’inizio, quando il suo slancio aveva ancora il sapore dell’innocenza, Samu’ila aveva sfruttato tutta la sua forza di persuasione infantile per chiedere al padre qualche spicciolo per le caramelle. In realtà metteva da parte ogni kobo (centesimo) per andare nell’internet café più vicino. Quando suo padre gli disse che a quel ritmo avrebbe inito per rovinarsi i denti e sua madre cominciò ad alzare gli occhi al cielo ogni volta che il i-

All’epoca pensava che gli internet café fossero sale giochi per adulti, ma si era subito ricreduto: l’atmosfera da aula d’esami lo aveva convinto che lì dentro si facevano cose serie

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A. Igoni Barrett Era circondato da trufatori e scommettitori, ladri di carte di credito e hacker di email: tutti venditori di speranze e cacciatori di sogni ancorati alla realtà dalla sete di guadagno

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glio parlava di soldi, Samu’ila si mise a rubacchiare per non dover abbandonare la sua passione. Il giorno del suo quattordicesimo compleanno, il padre lo prese da parte per una chiacchierata da uomo a uomo. Gli chiese cosa voleva fare nella vita. Quando Samu’ila rispose “il dottore”, il padre scoppiò in una lunga e fragorosa risata. Poi, di nuovo serio, gli disse: “Non ti ho chiesto cosa pensi che io voglia che tu diventi. Voglio sapere cosa vuoi fare tu”. Cedendo alla sincerità del momento, Samu’ila confessò che voleva solo starsene davanti a un computer a navigare su internet. Il padre rimase sconvolto dalla scoperta che suo iglio era evidentemente posseduto dallo spirito di un lavativo. Per mettersi la coscienza a posto, disse al ragazzo: “Fai quello che vuoi, iglio mio, basta che trovi il modo di guadagnarci”. Samu’ila seguì il consiglio del padre. Aprì gli occhi e si accorse di essere l’unico, negli internet café dove andava, che non era lì per fare soldi. Era circondato da trufatori e scommettitori, ladri di carte di credito e hacker di email, pirati informatici e cyber-attori: tutti venditori di speranze e cacciatori di sogni ancorati alla realtà dalla sete di guadagno. Samu’ila decise di fare un po’ di soldi anche lui. Così cominciò a saltare la scuola e, usando come capitale iniziale i soldi per l’autobus e per il pranzo, dedicò un po’ di tempo ad ampliare le sue conoscenze informatiche. Quando conobbe Ben, Samu’ila era diventato esperto del web quanto una formica delle sue mansioni. Sapeva registrare account di posta elettronica in tedesco, francese e italiano. Sapeva scaricare, caricare, convertire e comprimere. Sapeva rubare indirizzi email, creare false identità online e inondare di spam intere nazioni. Aveva undici indirizzi email, tutti con nomi e nazionalità diverse. Quando s’intrufolò nella chat room dove conobbe Ben, si faceva passare per una vedova liberiana di 23 anni che viveva in Nigeria senza amici, parenti o speranze. Quando Ben diede un’occhiata alla foto del suo proilo – che Samu’ila aveva preso da un articolo online su una ragazza annegata in Martinica – perse subito la testa.

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entre scriveva, Ben teneva la testa china sulla tastiera. Tra i capelli ricci e brizzolati si apriva una zona calva, simile alla chierica di un monaco. Alzò lo sguardo dopo aver inviato il messaggio. allora... ke ne pensi? d ke? Samu’ila aveva capito benissimo la domanda di Ben, ma quando ingeva di essere una donna faceva sempre lo stupido. Era una delle regole di base. d me! 6 piacevolmente sorpresa? delusa? LA PRIMA!!! grz! ;) Alla domanda successiva di Ben, Samu’ila fece un sorrisetto compiaciuto e cominciò a rispondere senza avere inito di leggere. qdo vedrò la tua faccia?

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Risposta di Samu’ila: l’hai già vista nn le foto. vederti cm tu vedi me.. cn la webcam te l’ho detto ben, nn ci sn molti int cafe cn webcam qui e nn ho i soldi per andarci. nn è facile x me venire a chattare cn te ogni giorno, ma t amo e ho bsgn d parlarti, xò è smp + diicile trovare i soldi Samu’ila incrociò le braccia per proteggersi dal freddo e aspettò la risposta di Ben. xkè nn m kiami? o m dai il tuo num ke t kiamo io? xkè nn ho il tel!!! nn hai 1 amico ke t può prestare il cel 5 min? Ben issò la webcam in attesa della risposta. Dall’intensità del suo sguardo traspariva una certa diidenza. Samu’ila notò che i suoi occhi erano così chiari da sembrare miopi, e che la punta del naso era curva come il becco di un avvoltoio. Il getto dell’aria condizionata era sempre più freddo. Samu’ila decise di interrompere la chat. comincio a cred ke 6 solo interessato al mio corpo... oggi vuoi vedere la mia faccia, dom le tette. 6 uguale a tt quei tizi ke si sn approittati d me. cm i ribelli in Liberia ke hanno ucciso mio marito... e io pensavo ke fossi diverso! mi hai trattato male ben. cm una PUTTANA!!! Mentre le scuse di Ben, costellate di punti esclamativi, riempivano la inestra dei messaggi, Samu’ila ricominciò. vuoi ved la mia faccia, ma nn pensi a me? nn sai qnt vorrei stare cn te ora, nella tua stanza, tra le tue braccia, cn la testa sulla tua spalla... MA NN POSSO!!! Samu’ila si appoggiò allo schienale, unì le mani e le strinse tra le ginocchia, alzando lo sguardo verso il sofitto, incurante delle parole sullo schermo. Poi scattò in avanti, le sue mani si alzarono sopra la tastiera e, dopo essersi librate in una sorta di danza, calarono in picchiata. nn consideri i sacriici ke faccio x essere qui ogni giorno. nn m hai neanke kiesto xkè nn sn al lavoro. sn 3 sett ke chattiamo ogni mattina e nn t 6 neanke kiesto cm sopravvivo o se ho 1 lavoro. 6 SICURO KE M AMI DAVVERO?!? Il viso di Ben si trasformò in una smoria di dolore mentre i suoi messaggi inondavano la inestra, ma Samu’ila chiuse Messenger, uscì dall’account Yahoo! e concluse la sessione. Quando lo schermo si spense, vide il suo riflesso. Stava sorridendo, ma scacciò quell’espressione dal suo volto. Il fesso andava lavorato ancora un bel po’, e per scaramanzia non bisognava cantare vittoria troppo presto. Nonostante tutto, non riuscì a sofocare la gradevole sensazione che gli solleticava la pancia. Si alzò, rabbrividendo per il freddo. Si diresse verso il computer libero vicino alla scrivania dell’addetta, dove prima si era seduto l’uomo dal forte accento. Mentre occupava la postazione fortunata la ragazza alzò gli occhi, incrociò lo sguardo acceso di Samu’ila e, sibilando infastidita, si tirò su la canotta. Poi tornò a concentrarsi sul libro. Samu’ila fece un nuovo log in: questa volta era una quindicenne mozambicana, vergine e in cerca di un uomo. u


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Yvonne A. Owuor Disegni di Stefano Ricci

Bloody Kenya

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YVONNE A. OWUOR

è una scrittrice keniana. È nata nel 1968. Il suo racconto Weight of whispers nel 2003 ha vinto il Caine prize for african writing. Il titolo originale di questo racconto è Bloody Kenya, estratto dal suo primo romanzo Dust and memory, in uscita nel 2011. La traduzione dall’inglese è di Monica Martignoni.

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n realtà, però, le cose andarono così. A diciotto caduto, lo raccolse, lo pulì e tirò via Nyipir per una spalanni Odidi, il fratello di Ajany, scoprì le canzoni la. Il ronzio delle mosche, proveniente da un punto deldi Fela Kuti. Si convinse di essere l’erede di Tho- la stanza, copriva il suono della radio che annunciava i mas Sankara e si fece la riga da una parte come risultati delle elezioni. Patrice Lumumba. Sul campo di rugby, quando Più tardi, Baba disse ad Arabel Ajany Odidi: “Firmesentiva i tre rulli di tamburo che annunciavano rai tu per la famiglia”. l’inno nazionale del Kenya, tremava. Durante il primo Era partita da Bahia proprio il giorno prima, con una anno di università era tornato a casa, a Wuoth Ogik. La valigia arancione piena a metà di vestiti spaiati, matesera, in biblioteca, di fronte a tutta la fariale da disegno assortito, due passapormiglia, aveva preso il suo fucile, l’aveva Baba si accasciò sul ti, una carta di credito e il cellulare rosso smontato e ne aveva sparpagliato i pezzi pavimento. Il ronzio che conteneva la voce di Baba, la collana delle mosche, ai piedi di suo padre Nyipir. di ametista che indossa sempre, due “Basta!”, aveva gridato. chiavi del portone. Aveva lasciato il suo proveniente da un Adesso cinque persone issavano nau- punto della stanza, MacBook nero sulla scrivania con gli inseate i corpi ammassati nella sezione copriva il suono serti in avorio, in attesa di aggiungere un morti non identiicati. Oh, disse tra sé della radio che ghirigoro giallo in modo che il ghepardo Ajany, quando vide il volto livido di Odidi annunciava i del cartone animato sullo schermo pocon una cicatrice a forma di foglia e le sue tesse muoversi, biascicare in portoghese risultati delle lunghe, lunghe ciglia. In qualche località e vendere skateboard. elezioni del Brasile avevano istituito un giorno di Nella solitudine dell’angolo rivolto a festa per il cadavere non identiicato. “Sai est della sua stanza tutta bianca e dalle cosa signiica autopsia?”, chiese il dottor Mda. grandi inestre, uno spazio separato, in cima a un supA testa china, Ajany ascoltava. porto nero era posato un volto di argilla modellato a “Autopsia signiica vedere con i propri occhi”. metà su un teschio di gesso. In dodici punti del volto Le pulì il naso. “Ed è quello che faremo”. erano stati incollati dei bastoncini di gomma bianca Sembrava una cosa normale. Sul pavimento c’erano tagliati a diverse lunghezze per indicare la profondità delle macchie di sangue. del tessuto; gli altri nove erano stati rimossi. Il naso e la Il ventilatore cigolò, e poi cinque corpi furono sepa- bocca, modellati e rimodellati e distrutti nel corso di rati dagli altri mentre Baba lanciò un grido facendosi sette anni, erano incompleti ed erano ridotti a squarci largo brutalmente tra loro. Si diresse verso Odidi e si in attesa di essere terminati. Le orbite oculari della gettò sul cadavere. scultura avevano indossato e scartato tutti i colori degli Wolololololo! Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! Eh!… / Nyandolo / occhi per manichini. Sottili strisce di argilla collegavaNindo otere / Nindo man e wang’ baba / Obi mana ka / no i pioli bianchi sul volto e sul cranio. Gli spazi del retiNindo man e wang Obi mana ka… / Aieee… colo erano stati riempiti più e più volte con l’argilla. Il Una ninna nanna. tutto era stato ricostruito basandosi sul ricordo oscuro Baba si accasciò sul pavimento. La mano del dottor di uno scheletro dell’infanzia e del suo gesto nel moMda raggiunse il cappello di Baba nel punto in cui era mento dell’ultimo respiro. Quella testa aveva viaggiato

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insieme a lei per sette anni, aveva attraversato le Americhe avvolta in carta da pacco, aspettando di ricevere dimensioni, sfumature, un compimento e un nome. L’aveva esaminata attentamente. Aveva accarezzato il gesso sul volto incompiuto, sui muscoli non realizzati. Arabel Ajany le aveva voltato le spalle. Ogni partenza ha più livelli. Talvolta, come nel suo caso, è accompagnata da dita che impongono il silenzio sulle labbra di almeno novanta fantasmi.

1949

Lei era angloindiana, più indiana che inglese, a dire il vero. Per correggerla fu usata una buona dose di picnic, libri, feste e musica molto inglesi

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Bloody Kenya. Maledetto. Non è una bestemmia. Lì il sangue sembrava sgorgare da troppi fori. Un taglio sanguinava. Il tramonto sanguinava. Le pecore sanguinavano. Le strade di fango rosso sanguinavano. Tramonto-alba sanguinanti. Vita che scorre, morte che gocciola. Selene aveva contato le morti per droga, alcol e incidenti, aveva tenuto duro durante la guerra civile, era stata testimone di emorragie di speranza, aveva visto sanguinare corpi senza testa, e teste senza corpi, aveva abortito un vecchio amore, aveva issato i fuochi d’artiicio rossi del Kenya speriamo-che-la-situazione-migliori e, con l’intima consapevolezza che le veniva dalla terra, aveva sognato gigantesche ombre di sangue. Hugh e Selene erano sbarcati a Mombasa. Intontita, lei aveva seguito le istruzioni. Mezz’ora dopo si ritrovò sulla barca a remi che li portava a riva, carica di bauli e valigie. Fissò la nave e agitò una mano per allontanare un nugolo di insetti, notò che il cielo era coperto e pensò: torniamo indietro, Hugh. Lui le toccò il viso e canticchiò: “Siamo a casa, amore mio, siamo a casa”. La bandiera britannica sventolava su Mackinnon square. Più tardi, il treno di mezzogiorno, con loro a bordo, avanzò sbufando su binari a scartamento ridotto per quasi cinquecento chilometri ino a Nairobi. Dopo l’arrivo in stazione Selene si rifugiò nell’osservazione indiferente di ciò che la circondava. Lì, nel trambusto di una tronia palude imborghesita, sentì che ogni cosa e ogni persona esistevano per il divertimento di quel paesaggio che pulsava, viveva, respirava. “Si prende gioco di noi”, pensò. Pioveva, nel Cambridgeshire, quando Hugh e Selene s’incontrarono. Ansiosi di sfuggire all’umidità, avevano fatto urtare e impigliare i loro ombrelli. Se li erano scambiati ridendo nervosamente. Hugh era un soldato che aveva siorato il teatro di guerra e ne era un testimone disgustato e distaccato. Lei era angloindiana, più indiana che inglese, a dire il vero. Per correggerla fu usata una buona dose di picnic, libri, feste e musica molto inglesi, trasformati in supplizio da una madre che suonava Il volo del calabrone ogniqualvolta Selene si comportava male. Denaro di vecchia data ma di origini sospette, giramondo con segreti nascosti, un padre con la pelle scura ossessionato dall’idea di mantenere chiara e bella la pelle delle sue tre iglie. Quindici giorni dopo, Selene e Hugh si erano sposati d’impulso con una cerimonia civile bagnata dalla pioggia, un maggiordomo in pensione e una donna delle pulizie come testimoni. “Bene”, aveva detto sua madre, guardando i capelli rossi di Hugh. “Può andare”.

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Si stabilirono a Naivasha. Non in una zona di primo livello, ma comunque abbastanza vicino per permettergli di sentire l’odore di vitello arrosto delle feste a cui non erano stati invitati. La vista, in lontananza, sul lago prediletto dalle innumerevoli atmosfere. Camerieri che s’inchinavano a un giro di parole. C’era così tanto lavoro da fare. Avevano bisogno di denaro. Ed entrambi si misero a studiare i terreni, a fare esperimenti con i raccolti, a fallire, ad aspettare la pioggia, a scavare e piantare e a mobilitare esseri umani i cui sogni, culture e vite erano lontani dai loro come solo gli universi possono essere. Terra grassa, argillosa. Terra sabbiosa. Mescolare i terreni. Piantare l’erba. Aspettando che qualcosa attecchisse. Hugh ebbe un’idea. Potevano diventare viticoltori. Selene fu d’accordo. Perciò importarono viti dall’Italia e dal Sudafrica. Hugh aveva noleggiato un trattore grazie a un prestito e aveva preparato il terreno. Avevano lavorato con quindici contadini delle piantagioni per mettere le viti. Aspettarono. Le viti crebbero. I vicini cominciarono a farsi sentire. Entusiasmandosi davanti alle viti che germogliavano con successo, per progettare in segreto le loro aziende vinicole. Hugh e Selene furono messi sotto esame. Un inizio promettente. Vicini operosi, i Thompson. Accento da classe media. Pafuti, per bene, anglicani ed educati. Avevano dato ai loro quattro igli nomi di animali, iumi e alberi: Topi, Oryx, Tana e Acacia. Giocavano a backgammon, ascoltavano Wagner e si chiedevano quale nuova coltura avrebbe attecchito in quella magniica terra. Selene scolava bicchieri di champagne mescolato a Guinness. Più tardi, lei e Hugh ridevano dei Thompson e dei loro igli molto per bene. Dopo la stagione delle piogge, a cena, un timido annuncio. Hugh aveva scavalcato il tavolo, rovesciando il vaso di iori, per atterrare sul suo grembo e abbracciarla: “Un iglio?”. Hugh ricominciò a dipingere. I suoi acquerelli sfuggivano agli schemi per uscire dalle tele. Selene invece si dedicò al ricamo. Il Kenya stava cambiando Hugh. Le guance scavate, marcate, solcate da cicatrici, colorate dal caldo, la pelle chiazzata e screpolata, come se non potesse più contenere la persona che era stato. Il domestico. Il mio kavirondo. Il cacciatore waliangulu: il mio battitore. Il mio mpishi. Noormohamed. Il restauratore: il mio falegname indiano. Il barcaiolo: il mio rematore di Lamu. L’elefante morto: il mio trofeo. Kenya: il mio paese. Selene: mia moglie. Una tempesta travolse Naivasha, distruggendo le sponde del lago. Cominciò come una pioggerellina da una nuvola grigia, illuminata da dietro. Devastò il territorio per cinque settimane. Hugh dipingeva i iori, le girafe, gli uccelli e gli ippopotami che avevano visto i suoi vicini. Una colonna di bottiglie di vodka e di gin segnò l’attesa. Guardavano marcire le viti. Qualche gambo resistente indugiava e


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cresceva da solo. Sarebbe stato ragionevole tornare in Inghilterra. Lei scrutava le nuvole gonie. Con voce acuta Hugh chiese: “Ma l’hai vista quella Tempesta?”. Adesso non vede più le cose piccole, pensò. “James Thompson dice che ci presenterà ai Colield al club. Possono proporre i nostri nomi per diventare soci del Muthaiga”. Sorrise raggiante a Selene. Cominciarono i safari. A casa loro arrivò un assortimento di creature massacrate. Teste, pelli, zanne. Selene non ci trovava gusto in quelle uccisioni di animali. Gli altri. Mwihaki e Karanja, il giardiniere. Noormohamed, il capocuoco. Preparava un ottimo sformato di patate e carne. Scrutava dalla porta il volto di Selene per cogliere segni di apprezzamento o di disappunto. Lisabeta, l’aiuto cuoca. Linus, il garzone di cucina. Agwaro, il domestico. Era stato a Burma. “Com’era Burma, ragazzo?”. “Duro, memsahib”. “Cos’hai visto?”. “Niente di buono, memsahib”. Penina, bambinaia-governante. Assunta in previsione dei bambini che sarebbero arrivati, era ancora sottoutilizzata. E, molto tempo dopo, Aggrey Oganda, autista e assistente personale di Hugh. Hugh lo tenne lontano da lei. Due labrador. Un gatto randagio. Una mangusta. Un cercopiteco a gola bianca, un branco di scimmie co-

lobo e diverse antilopi. La prima nascita. Una bambina. All’ospedale Nanyuki Cottage. Sto diventando sempre più piccola, pensò. Hugh era da qualche altra parte in Kenya. Selene uscì da sola dall’ospedale. Viaggiò di notte ino a Naivasha. Penina le diede del brodo di pollo inché il suo corpo non recuperò le forze. Selene si occupava del giardino, lavorava la terra, allevava pecore che morivano. Nel regno nazionale. Una morte. Lucas Pkiech, scartato dalla missione, nella battaglia contro le forze britanniche. Hugh mescolava rame sulla sua tavolozza. Il colore del sangue di un aborto emorragico. Il duca di Gloucester arrivò e dichiarò uicialmente che Nairobi era una città. “Dobbiamo andare a casa”, disse Selene a Hugh. La sua voce aveva un suono lamentoso e Hugh voltò la testa, con gli occhi socchiusi e le labbra strette. Era un’altra primavera piovosa e spiacevole quando Selene si presentò a Londra. Più tardi. Aferrando l’erba con le mani, lei e sua sorella guardavano i cigni neri scivolare sul laghetto di un parco. Le sue due nipotine giocavano con il fratellino appena nato. Frammenti d’erba macchiavano le dita di Selene. Selene se le portò al naso e riuscì a sentire solo l’odore di Hugh. Selene tornò in Kenya. Gli alberi di tulipano erano pieni di boccioli cremisi. Un’esplosione di rossore fecondo. Spathodea campanu-

Cominciarono i safari. A casa loro arrivò un assortimento di creature massacrate. Teste, pelli, zanne. Selene non ci trovava gusto in quelle uccisioni di animali

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Yvonne A. Owuor Ballare. Ubriacarsi. Flirtare. L’avrebbe tradito, se l’oggetto del suo desiderio non avesse notato una preda più giovane. Ballare. Giocava a backgammon, spettegolava

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lata in tutto il loro splendore. Nelle mani di lui un gin liscio e un libro. Fiori del Kenya, pensò lei. Hugh sembrava più grande della stanza. Il Kenya gli aveva dato i muscoli. Colse lo sguardo di lei e rise. “Amo questo paese”. La principessa Elisabetta d’Inghilterra e il duca di Edimburgo andarono in Kenya. La principessa diventò regina. Amici, agricoltura, sogni; feste, musica, alcolici e barbiturici per alleggerirsi l’animo. Due settimane dopo, Selene stava curando il giardino di Naivasha nel caldo secco e guardava il pastore che tosava le pecore. Kenya Weekly News. “...secondo sua eccellenza il governatore il clima politico generale in Kenya è il migliore che si ricordi in tanti anni”. “Quel frocio ha una testa di legno e una lingua biforcuta”, disse Hugh. Mandò in pezzi il piattino di Selene. Traduzione. Le regole del sistema di classe inglese, rigorosamente applicate nella colonia, avevano fatto respingere la richiesta di Hugh di diventare socio del club Muthaiga. Perciò lui disprezzava Mitchell, il governatore. Ballare. Ubriacarsi. Flirtare. L’avrebbe tradito, se l’oggetto del suo desiderio non avesse notato una preda più giovane. Ballare. Giocava a backgammon, spettegolava su una stagione mondana inglese a cui non partecipava e invitava i Thompson per il tè. Il mio paese. La mia gente. I miei sogni. “La mia gente ha sgobbato ed è morta per questa terra. Non lascerò che quell’idiota se la lasci sfuggire”. Il governatore Mitchell si ritirò. Hugh fu invitato alla festa “inalmente-ce-ne-siamo-liberati” data dal club. Selene scolò il brindisi e poi qualche altro drink. Tentò di ballare il fox-trot perché Hugh era sparito con una donna androgina al braccio e lei non era stata l’unica a notare com’era sgattaiolato fuori dalla porta della cucina. Argomento preferito a cena: giuramento dei mau mau. Pettegolezzo preferito: insurrezione. Paura preferita: morte degli europei. Selene pensò: l’avevo detto. Morte di una famiglia nell’Aberdare. Raccolti incendiati. I progetti perfetti di Hugh per il paese perfetto. Mau. Mau. Mwihaki in casa, vede minacce ovunque. “Memsahib, dobbiamo stare attenti”. Fumo di sigaro e piani per partire, direzione sud o nord. Una donna di nome Rosaline, che allevava cavalli arabi, distribuiva centrini con la scritta Save our country. Quando Hugh tornava nella loro casa di Naivasha, Selene si concentrava nel versargli una tazza di tè e nel contare le chiazze sulla sua pelle. A Nairobi. Un mito. Kenyatta. Una manifestazione. Una metafora. Canna da zucchero. Una frase: Mau. Mau. Ansia. Il caos imperversava. Kenya News Weekly, 7 ottobre. L’auto del capo Waruhiu era stata mandata fuori strada e lui era stato colpito da quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo.

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Voci. Intervennero tre battaglioni di fucilieri africani di sua maestà. E. Il quarto battaglione dall’Uganda. E. Due compagnie del 26° battaglione da Mauritius. Agwaro rimase sull’attenti vicino a Selene inché lei non s’informò: “Cosa c’è, ragazzo?”. “Memsahib”, rispose, “vorrei andare a casa prima dei disordini”. “Che disordini?”, domandò Selene seccata. “Quelli stanno arrivando”. “E tu come lo sai?”. “Stanno arrivando”. Si osservò andare in pezzi, si chiese quale parte di sé si trattenesse dal fare dei buchi nel corpo di Hugh prima di aprirgli lo stomaco con un machete e strappargli la pelle. Sorrise a Hugh, immerso in pensieri brulicanti, scacciò vari insetti che tentavano di mordere, posarsi e strisciare su lei e Hugh per mangiarseli. Stupido Hughie.

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uesto paese ha scelto le sue prede. Le ha conquistate, poi le ha divorate, a volte nel modo più delicato. Con un bicchiere di gin in mano lei continuava a ridere, mentre le lacrime le scorrevano sul viso. Dodici aerei Hastings si stavano dirigendo sul Kenya. A metà di una conversazione nella notte del 21 ottobre 1952 a Naivasha, Hugh, con il volto paonazzo e gli occhi lucidi andò a sbattere contro il ianco di Selene e sussurrò: “I fucilieri del Lancashire sono qui”. Il mattino seguente, alla radio, la voce del nuovo governatore Baring: in Kenya era stato dichiarato lo stato di emergenza. La notte precedente. Operazione Jock: 183 mandati di arresto e detenzione. I fucilieri pattugliavano le strade di Nairobi abitate dagli africani. Furono richiamati in servizio gli uomini del Kenya police reserve e quelli del Kenya regiment. Due giorni dopo il capo Nderi fu fatto a pezzi da machete branditi dalla sua gente. Il giorno seguente il Kenya, incrociatore della Royal Navy, attraccò a Mombasa. Truppe a bordo. Una settimana più tardi, Eric Bower, che viveva da solo, stava facendo il bagno quando i domestici lo massacrarono. Era diicile distinguere dove iniva il suo corpo e dove cominciavano quelli dei suoi domestici. In un mite crepuscolo di qualche giorno dopo, Hugh indossò un’uniforme anonima, trascinò Selene a ballare un valzer, la fece volteggiare tra le sue braccia: “Che mi venga un colpo! Il nostro paese ha bisogno di noi”, declamò in tono solenne. Il nostro paese? “Dove stai andando?”. Avrebbe dovuto fargli quella domanda molto, molto tempo prima. Stava andando al quartier generale, sezione speciale, per un incontro con sir Percy Sillitoe. “Sillitoe?”, esclamò Selene con aria corrucciata. “Il direttore generale dei servizi di sicurezza britannici, Hugh?”. La sua voce terminava con uno stridio. “Cos’hai a che fare con quella gente, Hugh?”.


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“Per l’amor del cielo, cresci, Selene!”. Si grattò la testa. Un movimento rapido. Un gesto da bambino. “È il mio lavoro. Da un po’. Lo sai”. Non lo sapeva. “Non hai mai detto…”. “Non me l’hai mai chiesto”. Lei si sedette. Il potere è inutile se non può essere esercitato, mormorò Hugh. Selene tenne il conto dei morti dello stato di emergenza. Si mise a fumare per segnare il tempo. Operazione Anvil. Operazione Hammer. Vite spostate. Operazione First lute. Massacro di Lari. Manipolazione dei capi dei ribelli. Un’incursione nella stazione di polizia di Naivasha. Bene. Selene esultò tra sé: “Era ora. Colpite gli impianti. Fatela diventare una vera insurrezione così posso tornare a casa”. Aspettava di leggere la notizia della distruzione del sistema ferroviario, di opere pubbliche. Aspettava i segnali di una vera guerra; una ragione per essere evacuata. Niente. Mentre ricamava, singhiozzava. Si voltò, si mise una mano sulla gola. Apparve la igura di Noormohamed. Agwaro stava dritto dietro di lui. Selene sbatté le palpebre. Che uomini belli! Noormohamed disse: “Siamo qui, memsahib. Nessuno le farà del male”. “Grazie”, rispose. Grazie. Agwaro annuì una volta.

Selene comunque andò a letto con il fucile di Hugh a portata di mano sotto il letto. Voglio la sicurezza di una presenza che mi rimanga vicino abbastanza a lungo da diventare familiare, pensò. Ho bisogno di appartenere a qualcuno, a qualcosa. Hola. Un campo di lavoro. Un massacro: un iglio dell’impero, bello e forte, diventò una furia. Ridusse in poltiglia sette detenuti incatenati. Alcuni furono trasferiti. Hugh era uno di loro. Selene pensava che non fosse coinvolto nella vicenda in nessun modo. Prima lo mandarono al iume Athi e poi, mentre le operazioni di pulizia venivano completate, fu destinato al Northern Frontier District, una provincia chiusa. “Problemi con i turchi, cara”, così Hugh spiegava le sue lunghe assenze. I turchi. Abitanti selvaggi. Kenaway, l’uiciale responsabile della provincia, adeguandosi alle esigenze di quelle terre arse dal sole, aveva percorso la zona a piedi, nudo, tranne che per i sandali e un casco coloniale. Selene chiamò Hugh mentre si stava allontanando in auto. “Salutami Kenaway”. Le piaceva la risata. A metà dell’anno. Intorno a mezzogiorno, un aiutante indigeno di Hugh, una giovane recluta della polizia tribale guidò l’auto di Hugh ino alla fattoria di Naivasha. Era un uomo alto, snello, dall’espressione seria. Baffetti alla Hitler. Zigomi alti. Pelle scura. Ebano vellutato. La guardò negli occhi, curioso, leggendole dentro e

Voglio la sicurezza di una presenza che mi rimanga vicino abbastanza a lungo da diventare familiare, pensò. Ho bisogno di appartenere a qualcuno, a qualcosa

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Gli occhi di Selene evitavano quelli del marito e se toccava il suo corpo lo faceva anche con la lieve eccitazione di toccare un estraneo. Adultera con tuo marito

vedendo qualcosa che solo lui capiva. Che hai da guardare, si chiese lei. Ho tre bocche? Hugh saltò fuori dall’auto. Aveva la testa bendata, il braccio sinistro al collo. Nessuna spiegazione. Nessuna domanda. “Cara!”, biascicò. Selene si diresse senza fretta verso di lui e appoggiò la guancia sulla sua. “La testa?”. “Un taglietto. Sta guarendo”. “Quello chi è?”. Gli occhi erano rivolti all’aiutante. “Aggrey? Mi dà una mano. È un bravo ragazzo”. L’aiutante parcheggiò l’auto. Scese. Accennò un saluto militare a Hugh: “Signore”. Rimase sull’attenti in attesa di istruzioni. Hugh fece un cenno con la mano senza guardarlo. Si tolse il berretto rivolto a Selene. “Signora”. Si voltò e si diresse agli alloggi dei domestici. Signora, non memsahib, notò Selene. “Mi sei mancato”, disse a Hugh. Quella notte, a letto, Selene si rannicchiò accanto a lui. Hugh le disse che stava costruendo per lei la casa perfetta vicino a un’oasi perfetta a Kalacha. Le descrisse le pietre color corallo e rosa che venivano trasportate attraverso le terre aride. Da Dar es Salaam. Tanganika, disse lei. “Non è un po’ lontano?”. “No, cara”, rispose Hugh con una risatina ironica. “Dar es Salaam… A sud del Somaliland. Nella nostra parte della cartina”. “Oh”, replicò Selene. Hugh si alzava prima dell’alba. Selene contava i suoi passi nervosi. Hugh cercò di ritrovare interesse nella loro vita di Naivasha.

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Chi sei quando sei laggiù, si chiedeva Selene. Serviva tè e focaccine. Selene osservava Hugh. Brusco, inequivocabile. Gli occhi di Selene evitavano quelli del marito e se toccava il suo corpo lo faceva anche con la lieve eccitazione di toccare un estraneo. Adultera con tuo marito. Tornò dove si stavano asciugando le opere d’arte di Hugh. Le dita indugiarono sulle linee spesse e scure, gli occhi leggevano linee frastagliate. Hugh le disse che aveva visitato le tre isole del lago Rudolf. Selene sapeva che lui stava scrutando la sua reazione di fronte alla sicurezza con cui afermava che le isole erano abitate da demoni e venti di sventura. Aveva incontrato il pitone gigante nel cratere all’estremità orientale dell’isola. Sorrise. La sua barca era stata colta da una tempesta improvvisa. Aveva urlato contro il vento. Aveva aspettato la morte. Dopo le sue grida il vento si era fermato. “Come un rubinetto che viene chiuso”, spiegò. Le narici di Hugh si dilatarono. Dopo cena si sedette a rimuginare, lanciando sguardi torvi alla notte attraverso le inestre aperte. Lei si stava lavando i denti. Si voltò verso di lui che la stava issando. Sentì un brivido correrle lungo la schiena e la pelle fremere. Lui aprì la bocca per dire qualcosa. Lei lo anticipò. Lo cinse con le braccia. Spinse il suo corpo contro quello di lui. Qualsiasi cosa, pur di non sentirlo parlare dello stato del suo cuore. Più tardi, la mano di Selene, sfuggente, giocava con il proprio seno, mentre i denti di lui le ferivano un capezzolo. Hugh le accarezzò la schiena, disegnando linee con il dorso della mano. Hugh disse che l’acacia ischiante possedeva diverse note. Che ognuno dei quattro venti che spirano verso


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nord trasportava la propria canzone. Disse che il fracasso che facevano le palme ricordava il rumore di un treno merci in corsa. Disse che l’acqua evaporava prima di toccare terra. Dovremo trovare una nuova casa per il cane, aggiunse. L’altro labrador, più vecchio, era morto dopo uno scontro con un serpente velenoso. “Forse dovremmo uccidere Chui e imbalsamarlo oppure cucinarlo e mangiarlo, così sarà sempre con noi”. Il respiro di Selene si fermò inché Hugh non le diede dei colpetti sulla schiena e la mordicchiò. Lei si spostò e sollevò il lenzuolo per asciugare delle lacrime improvvise e inopportune.

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ue notti prima della partenza verso la loro nuova casa. Un album di schizzi. Un disegno raffigurava una donna sdraiata in una posa che poteva sembrare volgare se non fosse stato per i piccoli dettagli – un braccialetto di perle, l’intreccio delle cicatrici sul ventre. La donna, con il ventre arrotondato, incinta, a gambe divaricate, issava l’artista, con una mano sotto la testa. A Hugh piaceva prendere in giro la ritrattistica. L’ego al servizio degli sciocchi, pensò lei. Selene rimise a posto i quadri in silenzio. Due giorni dopo, issava le montagne malinconiche, la parete rocciosa. Qui la siccità è esuberante, pensò. Arrivarono a Kalacha. Dovunque guardasse c’erano cammelli e capre, mucche e asini e pecore. Orici, gerenuk, girafe, elefanti, gazzelle, impala e serpenti. Cavalli. Muli. Dovunque guardasse, cercava una garanzia di vegetazione. Premette forte la schiena contro il corpo di lui. “Per te”. Era quasi fatta. Una bocca rosa formata dall’eclettica materia della terra che sembrava respirare. Hugh fece penzolare una chiave. Lei sfoderò un sorriso. Inserì la chiave sbagliata nella serratura. Il mazzo di chiavi cadde. Hugh le raccolse. Aprì il pugno di Selene, le richiuse la mano sulle chiavi, la sollevò e le baciò le dita. Un tipo diverso di calore le invase il corpo. Toccami, pensò. La porta si aprì su una stanza ampia e fresca. Di fronte, in alto sulla parete, un’apertura lasciava entrare l’aria e si apriva su uno splendido scorcio del deserto. Selene sospirò. Mattonelle smaltate sulle pareti intonacate e sul pavimento. Icone ortodosse etiopi. San Giorgio vestito di verde accompagnato da un angelo dall’aria minacciosa che brandiva una spada iammeggiante. Opera di Hugh. Una frase incisa che Selene lesse e rilesse: Crux sancta sit mihi lux / Non draco sit mihit dux / Vade retro satana / Numquam suade mihi vana / Sunt mala quae libas / Ipse venena tibas. “Hugh?”. “Qui nessun diavolo può farti male”. Dietro di loro, Aggrey Nyipir Oganda osservava. Selene si voltò e colse il suo sguardo. L’aiutante sbatté le palpebre, ma non prima che lei vedesse la compassione sul suo volto. Chi? Chi era questa donna?

Ma il Kenya le aveva dato la capacità di indossare il volto giusto al momento giusto. Di andare avanti come se niente fosse successo, come se lei non fosse cambiata, come se non stesse cambiando continuamente. Si alzò dal letto. Entrò in una biblioteca, percorse la stanza, contò i passi. Centodue. Accese una lampada a kerosene, gironzolò di sotto. Si sedette sul bordo della fontana, si sporse all’indietro inché sentì scorrere sul suo corpo la frescura dell’acqua. Una fontana molto, molto educata, disse all’acqua. Un movimento. Un secondo dopo l’aiutante riapparve con un recipiente ricavato da una zucca pieno d’acqua. Gli occhi spalancati. Un rapido sguardo alle sue spalle. Una ruga di preoccupazione sul suo volto. “Ni nini, che c’è?”, chiese lei ansimando. “Hakuna kitu, niente, signora. Karibu maji, prenda un po’ d’acqua”. La zucca sapeva di usato e di latte acido. Selene afferrò il recipiente con entrambe le mani e bevve l’acqua d’un iato. “Adesso vai”, gli disse. Voleva restare sola. L’aiutante fece un inchino e si allontanò, con il recipiente in mano. Un vento lamentoso si scontrò con le palme. Lei si mise a camminare in fretta. Poi, in camera da letto, si staccò di dosso la vestaglia bagnata e scivolò nel letto ino ad avere le mani di lui sulla sua pelle. Chiuse gli occhi alla notte che era entrata con lei nella stanza. Qualcuno la stava osservando. Ne era certa. Quel mattino una foschia rosata tingeva la terra. Hugh stava dormendo con il viso rivolto verso l’alto, come se stesse guardando il soitto sopra di lei. Aveva sollevato il ginocchio sinistro. Selene osservava il suo corpo nudo. Era di un marrone chiaro uniforme, come se il sole l’avesse fatto girare delicatamente su uno spiedo sopra il suo fuoco segreto. Selene abbassò la testa e con i suoi capelli coprì il volto di Hugh. Assaggiò il suo sudore. Le cicatrici sul suo petto, il sangue della ferita sulla sua testa. La sensazione di siorare i suoi peli sul petto. Stroinò il viso sulla sua barba, respirando. I segni silenziosi. Grai, morsi, ferite di pallottola. Lui le diede un morso al naso, un po’ per scherzo, le accarezzò la gamba. Selene invece gemette. Hugh si mosse in modo di spostarla sotto di sé. Avrebbe dovuto fargli delle domande. Che cos’era quel segno di garrota sotto il mento? Respirava a bocca aperta. La sua lingua cercò lo Hugh di cui si ricordava. Lui era lì. Era lì. Lui le baciò una guancia e sussurrò: “Non ti piace stare qui”. L’aereo di Selene partì una sera dieci mesi prima dell’indipendenza del Kenya. Aveva preso con sé solo quello che le serviva. Il suo aereo volteggiò sopra le pianure; si potevano vedere gli gnu della valle del Rift che migravano in ritardo, chiazze nere sul terreno. Istinto migratorio. Sua madre, che era cieca da un occhio, scrutò il neonato e sospirò: “Sarà nero”. u

Dovunque guardasse c’erano cammelli e capre, mucche e asini e pecore. Orici, gerenuk, serpenti. Dovunque guardasse, cercava una garanzia di vegetazione

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Olujide Adebayo-Begun Disegni di Guido Scarabottolo

Desiderio d’altro dizioni non serve a niente. Dobbiamo pensare alle nostre prossime mosse”. Mama Biliki si alzò in piedi e, brandendo i gambi di ewedu a mo’ di corno magico, alzò la voce per farsi sentire dai vicini: “Chi dice che io e la mia famiglia non avremo più una casa, possa Allah riiutarsi di accoglierFilastrocca popolare nigeriana lo nel giorno inale. Questa persona non ha pensato alla nostra situazione prima di darci questo yeye di l giorno in cui consegnarono la notiica di sfrat- sfratto? Allah non penserà alla sua prima di mandarlo to, John Olatoye, ventisette anni, insegnante di dritto allo shaitan!”. studi sociali, pubblica amministrazione e fon“Piantala, Malik!”, gridò in inglese Biliki al iglio damenti di ilosoia, scoprì di essere innamora- piccolo, che si era messo a spezzare le banane stese a to di Aziz Oduwale, suo vicino di essiccare al sole sul cemento crepato. Lo “Che vuoi che casa di dieci anni più giovane. sollevò di peso, ignorandone gli strilli; il Oltre la zanzariera verde della ine- facciamo? Facciamo suo hijab lasciava intravedere soltanto stra vide il fratello di Aziz, Waris, svento- come dicono. Ma una fronte liscia come un uovo di gallina, lare il foglio in cui si comunicava che la una cosa, una cosa il tipico naso a punta dei fulani e due labsua famiglia aveva sette giorni per fare le so per certo: chi bra carnose. Si girò verso la madre. “Bavaligie e lasciare la casa dove avevano priva una persona sta, mama”, disse in yoruba, “le tue mavissuto per dodici anni. Mama Biliki non della sua casa non ledizioni non ci aiuteranno, smettila. alzò lo sguardo verso il iglio e continuò a Probabilmente non verranno mai. Baba avrà più un posto strappare le foglie di ewedu dai gambi Risi ha ricevuto un avviso del genere cindove riposare” che stringeva in mano. La sorella Biliki, que mesi fa. Vivono ancora a casa loro”. che con il suo picchiettio di pestello e Passavano da una lingua all’altra: la vecmortaio creava l’unico ritmo in quel pomeriggio così chia rimproverava in yoruba, la giovane in inglese, cocaldo, smise di pestare e prese il foglio dalle mani di me se quest’ultimo fosse stato troppo prezioso per esWaris. sere preferito alla sfrontata luidità della lingua ma“Che facciamo, mama?”, chiese Biliki. Dopo aver dre. lanciato un’occhiata al foglio, la donna sibilò: “Che Waris rovesciò il secchio di ferro, aggiungendo un vuoi che facciamo? Facciamo come dicono. Ma una co- violento fragore metallico alle strilla del bambino. Poi sa, una cosa so per certo: chi priva una persona della andò a sedersi sullo sgabello appena liberato dalla masua casa non avrà più un posto dove riposare”. dre furente, infastidito dall’ottimismo di Biliki. “Ti sbaWaris, che aveva un animo rabbioso e il viso arci- gli, quello veniva dal governo, questo è del tribunale”. gno, piazzò un piede su un secchio di ferro rovesciato Waris aveva ragione. John aveva un paio di amici accanto alla stufa a cherosene ingrigita e appoggiò la funzionari all’alta corte di Ikeja, e le loro case traboccamascella sul pugno chiuso. Per un attimo la sua bocca vano di beni sequestrati e ricomprati a prezzi stracciati: ricordò il grugno di un maiale: “Mama, lanciare male- scrivanie in vero legno di mogano, tappeti persiani, Padre Abramo ha tanti igli Tanti igli ha padre Abramo Io sono uno di loro, e anche tu Lodiamo quindi il Signore Mano sinistra, mano destra, avanti!

I OlujiDe ADeBAyO-BeGun

è uno scrittore, poeta e drammaturgo nigeriano. Nato nel 1983, ha lavorato come insegnante, agricoltore e copywriter. Il titolo originale di questo racconto è A brief history of desire. La traduzione è di Matteo Colombo.

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John osservò le sue sopracciglia folte, gli occhi simili a braci e la pelle color carbone, e si avvicinò di qualche centimetro alla zanzariera verde

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condizionatori, frullatori. E gli amici degli amici ofrivano loro soldi nella speranza di procurarsi un congelatore Lg nuovo di zecca per cinquemila naira o un generatore 4 kva per tremila naira. Ma agli Oduwale avrebbero potuto portare via ben poco. Otto mesi prima, in quell’ora del mattino in cui i muezzin si apprestano a intonare la chiamata alla preghiera e i predicatori cristiani a difondere le loro voci ampliicate, Baba Biliki aveva perso conoscenza. Un urlo di Mama Biliki, simile a quelli che stava cacciando ora, aveva fatto trasalire John, che si era precipitato fuori dalla sua stanza. Alcuni vicini avevano chiamato un taxi collettivo, poi avevano aiutato a trasportare Baba Biliki, sollevandogli con attenzione la gamba sinistra, dove, li aveva avvertiti Mama Biliki, c’era una brutta ferita provocata da un incidente motociclistico il mese prima; informazione che aveva permesso a John di identiicare l’origine di quell’odore di fagioli marci misto a disinfettante stantio. Più tardi Baba Biliki aveva ripreso conoscenza al Besthope Hospital, a due strade da casa loro, per poi essere trasferito al Lagos Teaching Hospital, quindi allo University College Hospital di Ibadan e dopo ancora all’Obafemi Awolowo University Teaching Hospital di Ile-Ife. Alla ine lo avevano riportato a Lagos. Dopo aver speso tutti i suoi guadagni di macellaio e impegnato buona parte di quelli che per la sua famiglia erano oggetti di valore, si era sentito dare lo stesso verdetto da tutti i dottori: sofriva di una forma avanzata di diabete, che non gli avrebbe lasciato scampo. Il padrone di casa, un blocco di cemento molto più robusto dei muri delle stanze che aittava, aveva detto a John che quella, un tempo, era una famiglia rispettabile, nel senso che pagava regolarmente l’aitto. Al sesto mese di ritardo, però, era andato in tribunale a chiederne lo sfratto. Con sua grande sorpresa gli Oduwale avevano ottenuto sei mesi di proroga senza l’obbligo di pagare. Ora i sei mesi erano inalmente scaduti, facendo scattare il preavviso di sette giorni. Quel giorno John era tornato a casa prima del solito. Voleva preparare per bene le dispense di ilosoia per i suoi studenti del liceo Bishop Aggey; nulla di troppo formale o accademico, solo qualche nozione di pensiero occidentale con cui sperava di catturare l’attenzione dei ragazzi. Era stata la preside Ukpabio a suggerirglielo, e John, forte della sua doppia laurea in ilosoia e inglese, aveva accettato volentieri. Ma le sventure degli Oduwale stavano risucchiando tutte le sue energie. Appoggiò un gomito sul tavolo di formica gialla davanti alla inestra, che serviva sia da scrivania sia da toletta, con la sua schiera di libri, compiti vecchi, dentifricio Close-Up, essenza alla vaniglia e spazzole da poco. Avrebbe potuto chiudere la inestra, mettere un po’ di musica, e le loro conversazioni sarebbero state al riparo dalle sue orecchie. Ma il caldo di quel pomeriggio sarebbe diventato insostenibile; perino il sibilante ventilatore da soitto sembrava smuovere solo una brezza calda. Mummy Favour, una vicina che gestiva un phone center con annessa videoteca, aveva raggiunto gli Oduwale attirata dal rumore. Stringendo tra le mani l’avvi-

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so, continuava a ripetere: “Ma insomma, che crudeltà! Che crudeltà!”. Arrivò Aziz. “E ku ile…”, disse, salutando tutti. Ma quando vide l’espressione di Waris e il petto ancora ansimante della madre, capì subito. John osservò le sue sopracciglia folte, gli occhi simili a braci e la pelle color carbone, e si avvicinò di qualche centimetro alla zanzariera verde, mentre Aziz si precipitava al ianco della madre. “A papà l’avete detto?”, chiese Aziz. “Se ancora non lo sa, dobbiamo dirglielo”. Prese un sacchetto d’acqua da una bacinella per terra e lo svuotò in un solo sorso.

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a quando, dieci mesi prima, si era trasferito nella mia stanza, John era sempre stato incuriosito dalla famiglia Oduwale. Aveva seguito le disavventure diabetiche di Baba Biliki, imparato a conoscere l’indole energica e materna di Biliki, il carattere taciturno di Waris e quel terremoto di donna che era Mama Biliki. Ma era stato l’arrivo, due mesi prima, di Aziz – diciassettenne fresco di diploma al Trinity College di Ogun, un istituto elitario che aveva frequentato grazie a una borsa di studio – a trasformarlo da semplice osservatore, o forse timido voyeur, in una persona inesorabilmente coinvolta dai tanti problemi degli Oduwale. Mama Biliki si richiuse la vestaglia e gettò i gambi di ewedu nell’immondizia. “Non esiste problema troppo grande perché Allah non possa risolverlo. Gliela lasceremo, la loro casa. A mio marito lo dirò stasera stessa”, disse. La reazione allo sfratto prese una piega più energica. Biliki avrebbe chiamato Kunle, il conducente d’autobus, per issare un giorno della settimana in cui traslocare a Ijebu-Ode. Aziz, invece, poteva cominciare a prepararsi subito, dato che sarebbe andato a stare dallo zio, Baba Fisayo, che abitava a Bauchi da quattordici anni e faceva il medico. Lì avrebbe proseguito gli studi. “E io dove vado?”, chiese Waris alla madre. “Tu verrai con noi a Ijebu-Ode, naturalmente”, rispose lei. Lo sguardo di Waris prese a saettare come quello di una lucertola. “A Ijebu-Ode? E che farò, io, a IjebuOde?”. Mama Biliki mise le foglie in una fumante pentola di ferro sfregiata dalla fuliggine, tirò fuori un piccolo fascio di saggina e cominciò a percuotere l’ewedu senza pietà. “Imparerai un mestiere”, disse. “Ah, io devo imparare un mestiere mentre Aziz può andare all’università, perché io per l’università non vado bene, vero?”. Il tono di Waris fece arrabbiare Biliki. “Sta’ a sentire, Waris”, disse. “Sono tempi duri, ed è inutile che fai il sorpreso. Hai fatto l’esame di ammissione quattro volte, è colpa nostra se non sei passato? Forse dovresti provare qualcos’altro”. “Sei solo invidiosa perché tu l’esame d’ammissione non hai potuto farlo. È colpa nostra se quando dovevi prepararlo sei rimasta incinta di Mufu?”, chiese Waris


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alla sorella. “Waris”, rispose lei, “io non ce l’ho con te. Dico solo che stiamo cercando di fare quello che possiamo. Io vivrò qui con mio marito, Aziz andrà a Bauchi. Dove pensi di stare a Lagos?”. “Chi ha detto che non posso andare anch’io a Bauchi? Viene sempre prima Aziz, Aziz di qua, Aziz di là... Vi siete dimenticati che anch’io ho il mio creatore?”. “Non tirarmi in mezzo, Waris. Che c’entro io? Hai stufato con le tue cretinate”, disse Aziz. Waris lo aferrò per il collo della jellabiya e lo strattonò verso di sé con tutta la forza dei suoi quattro anni in più, tanto da fargli cadere lo zucchetto, che calpestò senza riguardo. “Con me questo tono non lo usi, chiaro?”. “Lasciami stare! Lasciami, ohh!”. “Basta!”, gridò la madre. “Smettetela di fare gli sciocchi. Waris, tu vieni con noi a Ijebu-Ode, punto e basta”. “Prima mi dovete ammazzare!”, urlò Waris, e se ne andò. Uscito di scena il suo aguzzino, Aziz prese a camminare avanti e indietro con le mani dietro la schiena. “Ma Baba Fisayo è cristiano, papà non sarà d’accordo”. Sua madre lo guardò con un’aria quasi impietosita. “Non preoccuparti”, gli disse. “Starai bene da lui. Tuo padre lo sa già, è d’accordo”. Il ragazzo però continuò a borbottare tra sé e sé “Bauchi”, arricciando le labbra color legno di sandalo e corrugando il bel viso, come per costringere il cervello a capire e, magari, ac-

cettare. Andò via la corrente, e John si alzò dalla scrivania. Fuori, sentì l’odore dell’ewedu di Mama Biliki che bolliva sul fuoco. Biliki stava preparando l’amala, racchiudendo nel cellofan piccole manciate di morbida pasta. Il ricco aroma di tubero si fondeva con il lieve odore di urina che veniva dal muro di mattoni accanto alla cucina. “Mmm, prima o poi ci farai cadere il naso”, le disse John. “Ah, broda John, buona sera. Come sta?”, rispose Biliki, e John vide quel sorriso, la versione femminile di Aziz, gli stessi occhi e lo stesso naso, lo stesso slancio determinato nel passo, solo che quello di Biliki era stato in parte domato dal peso di doversi occupare di un padre diabetico e di un marito alcolizzato. “Broda John, la stavo cercando”, disse Aziz balzando in piedi. “Aziz, tu lo cerchi sempre. Lascialo un po’ in pace, il nostro professore”, intervenne Biliki. John e Aziz uscirono in strada. “Mi spiace per lo sfratto. Spero che per voi non sia un colpo troppo duro”. “La ringrazio, professore. Allah ci aiuterà... Oggi il mio alfa mi ha dato un libro da leggere. Parla di una waliat, santa Rabia di Bassora, broda John. Anche altre persone sono state strumenti di Allah in passato!”. John ammirava quell’aspetto di Aziz, la sua capacità di tenere le preoccupazioni lontane dalla mente e go-

John ammirava quell’aspetto di Aziz, la sua capacità di tenere le preoccupazioni lontane dalla mente e godersi il presente

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I canali di scolo trasportavano i resti della vita di Lagos: pacchetti di sigarette vuoti, pannocchie di granturco, pannolini usati. La musica riempiva l’aria

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dersi il presente. Di lì a sette giorni si sarebbe ritrovato senza un tetto, eppure preferiva discutere di intrepide sante vissute millenni prima di lui. “E cos’è successo a questa waliat, Aziz?”. “Dicono fosse così vicina a Dio che, quando andò in pellegrinaggio alla Mecca, fu la Ka’ba stessa a venirle incontro a metà strada, tanto che gli altri pellegrini, al loro arrivo, non la trovarono”. “Una gran bella egoista”. “Ma no, che dice! È la prova di quant’era devota a Dio. Pensi che un giorno andò al iume a lavare i panni, e lì incontrò un altro sceicco, Hassan. Questo sceicco, convinto di indurla in tentazione con facili miracoli, stese il suo tappeto da preghiera sul iume, ci si sedette, ma il tappeto non afondò. Rimase perfettamente a galla, come su una supericie piatta. Allora disse a santa Rabia: ‘Sorella in Allah, vieni con me sul tappeto, preghiamo insieme’. Rabia lo guardò, ma invece di unirsi a lui stese a sua volta il tappeto da preghiera, però a mezz’aria, e ci si sedette. Davanti allo stupore dello sceicco Hassan, disse: ‘Oh, sheikul, quel che hai fatto tu, qualsiasi pesce può farlo. Quel che ho fatto io, qualsiasi mosca può farlo. Il compito che Allah ci ha dato è più importante di quello di pesci e mosche. Per cui smettila con questi miracoli da due soldi e dedicati al compito che Allah ti ha dato!’. Ah, quanto vorrei essere anch’io così vicino al Signore!”. Passeggiarono come amanti per Hassan street, l’uno infatuato di Dio, l’altro dell’altro. Gli ediici lungo

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la via, marroni, a un solo piano e coperti di crepe, sembravano ile di denti macchiati. I canali di scolo trasportavano i resti della vita di Lagos: pacchetti di sigarette vuoti, pannocchie di granturco, pannolini usati. La musica, sia islamica sia cristiana, riempiva l’aria. Eppure ogni cosa, iltrata dallo splendore della loro conversazione, riluceva e scintillava, e il mandorlo tropicale che segnava la ine della nostra strada non era più un vecchio tronco stanco, ma un albero verde e rigoglioso. John passò un braccio intorno alle spalle di Aziz, e lui, di rimando, gli si fece un po’ più vicino. Cercando qualcosa con cui rivestire quella nuova amicizia dei corpi, John chiese: “Hai mai sentito parlare di Rumi e di Shams al Din?”. “No, chi sono?”. “Mio mistico amico, devi assolutamente conoscere la storia di Rumi e del suo amico. Due grandi wali di Allah, credimi. Ma anche due amanti, amanti di Dio”. John aveva comprato le candele che gli servivano e, mentre si dirigevano verso casa, Aziz gli chiese: “Broda John, lei cosa desidera dalla vita?”. “Be’, essere un buon insegnante, credo. E magari mettere su una bella famiglia”. Aziz si passò la lingua sulle labbra carnose, poi le arricciò, perso nei pensieri. “Il mio desiderio, broda John”, disse, “il mio unico desiderio è quello di amare Dio. Non so davvero che fare per questa storia di Bauchi”. Quando arrivarono a casa, più tardi quella sera, John aveva scordato la sua spossatezza e deciso di avvi-


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cinare i suoi studenti a Socrate. “Cominciamo dalle cose fondamentali”, scrisse sul quaderno delle lezioni. “Una vita senza esame non è degna di essere vissuta”. E capì di essere innamorato di Aziz.

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l complesso dove vivevano aveva trentatré stanze. Ognuna ospitava in media quattro persone, ma in tutto c’erano solo due latrine scavate nella terra, che di solito erano occupate. E così il giorno seguente, mentre si lavava nei pressi della recinzione, John fu sorpreso dalla vista di una donna che a petto nudo correva a fare pipì vicino al muro. “Ohh, mi scusi, broda, non ce la facevo più”, disse lei abbassandosi la vestaglia e dileguandosi. John sentì i peli drizzarglisi sulla nuca. Poi si girò e vide Aziz. Aveva il iato corto e l’aria agitatissima. “Sei di nuovo andato a trovare il tuo alfa?”. “Sì, sì! Ho buone notizie, broda John. Il mio alfa si è oferto di prendermi tra i suoi studenti. Frequenterò le sue lezioni già da domani”. “Ma non dovevi andare a Bauchi?”. Aziz mise su un broncio pieno di risoluzione. “Ho cambiato idea. Seguirò il cammino di Allah”. Chi era questo ragazzo così ben fatto, che preferiva l’amore di Allah all’amore di tutte le ragazze che silavano per strada in top e jeans a vita bassa? Che cercava la compagnia di jinn e santi morti da secoli? Aziz lo intristiva e lo rendeva felice al tempo stesso. Biliki li raggiunse davanti al muro. Legato alla schiena portava Malik, suo iglio, che mangiucchiava uno snack coperto di muco. Il sorriso di Biliki era contratto dall’ansia, e John capì che Aziz aveva comunicato la sua decisione alla famiglia. “Broda John”, disse la ragazza. “Ci aiuti a convincere Aziz. Conosce il nostro problema. Doveva andare da suo zio a Bauchi, ma ora dice che non vuole”. “Però ieri non ho detto sì, o sbaglio? Sista Biliki, io lì non ci vado. Quell’uomo è un keferi!”. “Mio fratello è impazzito. Ohh, ma che ti succede, Aziz? Ti pare il modo di parlare di Baba Fisayo? Quando mamma si sveglia, la senti!”. Ma al ragazzo non importava nulla di Baba Fisayo. Si perse a issare il muro di cemento irregolare, la pittura sbiadita, le macchie di mufa, l’ailato battaglione di denti storti che correva lungo le sue gengive. Da una crepa era spuntato un iore giallo. Un topo passò accanto a loro noncurante, portando avanti la sua esistenza con sobrietà, come Allah voleva. Il ghigno di vetri rotti risplendeva animato da tanti colori. Aziz sospirò. “Al suo cospetto siamo tutti insigniicanti”, pensò. Biliki, delusa, se ne andò lasciandoli davanti al muro. “Dovresti rivedere la tua decisione. Hai l’opportunità di prendere una laurea. Non hai sempre sognato di diventare avvocato? Chi ha detto che non puoi servire Allah facendo l’avvocato?”, chiese John. “Dio sta mettendo alla prova la mia devozione. Non fallirò. Non andrò a Bauchi”, rispose Aziz. John rovesciò un secchio di acqua insaponata nel canaletto di scolo, e proprio allora vide una furiosa Mama Biliki dirigersi verso il iglio con Waris al seguito.

“Cos’è questa storia che non vuoi andare a Bauchi?”, gridò avvicinandosi. “Mama, Baba Fisayo è un keferi”, ribatté Aziz. D’istinto, le mani della donna aferrarono uno sgabello che si trovava lungo la sua traiettoria e lo scagliarono contro il iglio. Lo sgabello passò accanto ad Aziz e lasciò una tacca nel muro prima di spaccarsi esattamente in quattro pezzi. La voce potente della donna riecheggiò nel cortile, strillando e al tempo stesso blandendo il iglio. “Se qualcuno deve proprio andare a Bauchi, mama, perché non può essere Waris?”, chiese Aziz. “Io voglio dedicarmi ad Allah, non posso vivere sotto lo stesso tetto di un keferi né seguire le sue regole”. Waris cominciò a raccogliere i resti dello sgabello, senza smettere di issare il fratello; quel fratello così brillante, che aveva ottenuto il massimo dei voti in tutte le prove dell’esame di maturità, che era stato la star della cerimonia di recitazione del Corano, che aveva sempre attirato l’attenzione di tutti. Più tardi Aziz, di nascosto dalla famiglia, andò nella stanza di John. Si mise a percorrere il poco spazio libero tra il divano e il televisore, sofermando lo sguardo su una mensola piena di libri, sul tavolo di formica e sul ritratto di Arthur Schopenhauer appeso al muro. La sua jellabiya era candida e lucente, pur emanando un lieve odore di sudore. Le sopracciglia aggrottate gli disegnavano ampi solchi sulla fronte. John gli chiese se avesse preso accordi con l’imam per una qualche sistemazione, dato che aveva deciso di rimanere a Lagos. “Sistemazione? Ma no. Non è già una fortuna che mi accolga senza chiedermi una retta?”. Spiegò poi che lo sceicco di Dio gli avrebbe insegnato il cammino della rettitudine per uomini e jinn, guidandolo dalla sfera della shariat a quella della tarikat, dal latte dell’islam alla carne dell’islam. “E dove vivrai?”. Gli occhi di Aziz si fecero più lucidi, la mascella più serrata. Era come se dentro di lui imperversasse una guerra: “Sista Biliki ora vuole sminuirmi, lo so, ma il mio Dio è pieno di risorse. Troverà un posto per me”, disse. Quella mattina, durante la lezione, gli accenni a Socrate erano conluiti in una spiegazione del monoteismo e del politeismo. Anche se la maggior parte degli studenti si era schierata senza esitazione dalla parte del monoteismo, stupendosi che un popolo tanto illuminato potesse venerare degli idoli (perché così concepivano il pantheon greco), una di loro, Toyin, aveva liquidato il concetto stesso di Dio, uno o plurimo che fosse. Toyin, un’orfana sedicenne che la sera, dopo la scuola, vendeva mele importate per strada, aveva detto che Dio era una bugia. A scuola correva voce che fosse una sregolata, una che frequentava i docenti da pari a pari e aveva già abortito tre volte. Ma in classe era sempre attenta. Aveva detto a John che Dio era un ároso, una frottola, un’invenzione; sudando e masticando chewing-gum, aveva rimesso Dio al suo posto. Tesi e antitesi, Toyin e Aziz: due antipodi adolescenti, il primo fervido sostenitore di Dio, la seconda fervida sostenitrice della vita. “Broda John, posso chiederle un favore?”, chiese

Si mise a percorrere il poco spazio libero tra il divano e il televisore, sofermando lo sguardo su una mensola piena di libri, sul tavolo di formica e sul ritratto di Arthur Schopenhauer

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John era rimasto sorpreso. Waris era l’esatto contrario del fratello. Aziz era esuberante, lui aggressivo. Aziz era aggraziato, Waris gofo e scomposto

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Aziz. “Posso fermarmi per un po’ di tempo da lei?”. John immaginò Aziz che per un po’ di tempo condivideva con lui il sapone Dettol Cool, per un po’ di tempo leggeva i suoi libri sul tavolo di formica giallo, ben sapendo che per un po’ di tempo avrebbe anche condiviso il suo materasso Vitafoam, e che dunque per un po’ di tempo avrebbe potuto guardare i suoi occhi, e forse stringerlo. Sì! Propose ad Aziz di trasferirsi nella sua stanza già da quella notte, ma Aziz disse che prima voleva chiedere il permesso alla madre. John andò a farsi il bagno, immaginando al suo ritorno di trovarlo ancora lì, sdraiato sul divano ma senza più la jellabiya; lui gli prendeva le mani, Aziz non obiettava, e si mettevano a parlare. “Tu parli sempre d’amore, Aziz”, gli diceva John, “ma sei mai stato amato?”. “Ah, broda John, non lo so. Le ragazze non mi piacciono granché”. “E i ragazzi?”. Aziz lo guardava con aria d’intesa. “È peccato, broda John”. “Rumi diceva che nessun tipo d’amore è peccato”. John posava le mani sul viso di Aziz, gli siorava le sopracciglia, seguiva con un dito il contorno delle sue labbra, a occhi chiusi. Aziz scattava in avanti, le sue labbra incontravano quelle di John con troppa foga. John, allarmato, apriva gli occhi. Quelli di Aziz avevano un fremito e guardavano altrove, le sue narici si dilatavano, non diceva una parola. Borges il cieco si dirigeva a sud, aferrando un coltello che non sapeva impugnare e trovando, inatteso, l’oro. Aziz aveva un’erezione. John gli stringeva le natiche, le accarezzava su e giù, Aziz gemeva piano. Tornando dal bagno, John sentì la porta sbattere, poi la voce di Aziz che discuteva di nuovo con la madre. Quando entrò nella stanza, la trovò desolata.

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erso le quattro di pomeriggio avevano riportato a casa Baba Biliki dal Besthope hospital. I vicini erano accorsi intorno a Mama Biliki e a Biliki, che faticavano per farlo scendere dal taxi, e si era creato un po’ di trambusto. Durante l’ultimo ricovero, durato quattro mesi, Baba Biliki era ingrassato. Era riuscito a fare un debole sorriso; con quel viso gonio sembrava un Budda sorridente. Lo avevano trasportato oltre il ponte di assi, oltre i banchi di ferro che contenevano i sacchetti d’acqua, oltre il negozio di Mummy Favour, che continuava a ripetere: “Tutto andrà bene, nel nome di Gesù. Tutto andrà bene, nel nome di Gesù”. Poco prima Waris, senza un motivo particolare, aveva rivelato a John che adesso anche lui era uno di loro: si era convertito a Cristo il giorno prima. John era rimasto sorpreso. Waris era l’esatto contrario del fratello. Aziz era esuberante, lui aggressivo. Aziz era aggraziato, Waris gofo e scomposto. “Perché hai deciso di cambiare?”, gli aveva chiesto John. “Perché? Voglio dimostrargli che sbagliano. Sono tutti convinti che li abbia colpiti una disgrazia solo perché Aziz non vuole andare a Bauchi, e così al posto suo

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ci devo andare io, lo stupido della famiglia. Ci andrò, ma li coprirò di vergogna. Mi aiuterà Gesù Cristo. Non è così? Il suo sangue non basta anche per me?”. “Sì”, aveva risposto John, “basta e avanza”. “Partirò stasera stessa. Prenderò l’autobus notturno di lusso”. “Fai buon viaggio, allora, e buona fortuna”. Baba Biliki lo aveva fatto chiamare una settimana dopo che John si era trasferito nel complesso. Entrando nel loro salotto, John aveva trovato l’anziano signore che mangiava un’anguria troppo matura. Aziz gli aveva spiegato che l’aspetto più pesante della malattia, per il padre, era il divieto di mangiare carne rossa, lui che aveva fatto il macellaio tutta la vita. Quel giorno faceva fatica a mangiare il contenuto rosso e spappolato dell’anguria. Il succo gli colava sul mento come sangue, dandogli un’aria al tempo stessa grottesca e colpevole. “Signor professore, non conosco il suo nome”, aveva detto Baba Biliki a John dopo avergli oferto un po’ di anguria. “John Olatoye”. “Ah, e da dove viene?”. “Sono un ijesha”. A quel punto, Baba Biliki si era lanciato in un elogio degli ijesha: “Un ammirevole giovane ijesha, così ricco che vive in una casa piena di noci di cola e dorme su una stuoia ornata di pietre preziose”. La sua risata era acuta e sepolcrale. Emanava un odore rancido. Dentro di lui stava crescendo un buco nero, a mano a mano che gli organi bruciavano e cadevano, uno dopo l’altro. Presto sarebbe scomparsa ogni traccia di coordinazione, le cellule non avrebbero più nuotato nella stessa direzione, le ossa sarebbero diventate egoiste e le vene avrebbero smesso di trasportare. Lui aveva voglia di carne rossa. Si era chinato in avanti e aveva fatto alcuni respiri profondi, chiudendo gli occhi e lasciando cadere l’anguria sul pavimento. Ogni elemento stava tornando alla sua tenda, come le tribù di Israele. Quel giorno, dopo essere tornato a casa, Baba Biliki si stese su un materasso con una tazza di tè Lipton accanto. “Vuole del tè, signor professore?”. “No, la ringrazio”. “Sono io che la ringrazio. Ho saputo che ha aiutato molto la nostra famiglia. Possa Allah ricompensarla”, disse sospirando. “Mi dicono che è disposto a ospitare Aziz”. “Gli ho detto che sarebbe meglio se andasse a Bauchi”, rispose John esitante. “Ha un grande futuro davanti a sé”. “Ma non c’è tempo”, ribatté Baba Biliki. “Lui vuole venerare Allah. Sa, anch’io da ragazzo ero così. Ho dormito nella moschea per cinque anni, come lui conoscevo il Corano e tutti gli hadith a memoria. Non c’era fonte che non sapessi citare, hanno cominciato a chiamarmi alfa prima ancora di chiamarmi baba eleran, baba macellaio. Ma per tutto il tempo che ho passato a tagliare carne, ho sempre pensato: ‘Io faccio a fette la carne,


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mio iglio farà a fette gli avversari in tribunale’. E invece ecco che riiuta un’opportunità così grande. Lo sa che io e mio fratello minore non ci parliamo da sette anni? Non l’ha invitato a stare da lui per beneicenza, mi creda. L’ha fatto per necessità. Sono stato io a far studiare Baba Fisayo, ma dopo che ha cominciato a fare il medico a Bauchi, la prima lettera che mi ha scritto è stata per dirmi che si era reso conto che la salvezza non era nell’islam, che aveva visto la vera luce, e alla ine mi chiedeva se volevo unirmi anch’io a quella luce. Gli ho detto di no, e lui ha smesso di parlarmi. Però vuole mio iglio. Anche Waris è iglio mio. Prenderà il posto di Aziz, e possa Allah concedergli la sua benevolenza come meglio crede. Broda, abbia cura di Aziz ino a quando non tornerà in sé. Stiamo vivendo la sera del mondo!”. Baba Biliki si accasciò di nuovo sul letto. Quella notte, Aziz dormì a casa di John. Entrambi impacciati, non si toccarono. Aziz sedeva su una sedia. Non parlarono dello sfratto. Non parlarono della salute di Baba Biliki. Parlarono del più e del meno per alcuni imbarazzanti minuti, poi John sbottò: “Tu Dio lo vuoi per amante. Vuoi essere innamorato pazzo di lui”. Aziz si morse un labbro, e inilandosi una mano sotto la camicia si accarezzò il ventre. Poi si chinò in avanti e guardò John: “Voglio amarlo in un modo più profondo. Ora ne avverto la meraviglia, ma raggiungere il fana... Oh, John... signiica dissolversi dentro di lui”. In quel momento John sentì che se avesse allungato

una mano per siorarlo, Aziz si sarebbe arreso. Ma non ci riuscì. Si sdraiò e chiuse gli occhi, e ascoltò Aziz parlare, mentre la radio borbottava qualcosa sui punteggi della Champions League, una porta sbatteva e i margini dei suoi pensieri formicolavano. Poi scivolò nel sonno, e in sogno vide gli Oduwale ballare intorno a una veste bianca e rigonia che avvolgeva il cielo. Ruotando, formavano un cono vorticante, la cui punta siorava e faceva fremere l’orlo della veste. La veste sventolava e si apriva, come le labbra di un sesso femminile, e dal suo centro spuntava un neonato verde e bagnato. Un angelo, accompagnato da un fruscio simile a un’interferenza televisiva, presiedeva al parto. Il neonato si rivelava essere una creaturina fragile e stremata. Biliki tuonava come un fucile, e tra le sue mani si materializzava una spada, e di colpo tutti gli Oduwale brandivano spade e si lanciavano all’inseguimento del neonato. John, stringendolo in braccio, andava a nascondersi dietro un motore Cummings di seconda mano esposto da uno dei venditori di pezzi di ricambio della nostra via. A scuola, il giorno dopo, trovò gli altri professori riuniti intorno a una radio. Erano scoppiati nuovi disordini a Jos, provocando almeno quattrocento vittime. Come al solito, i coloni musulmani erano accusati di aver aggredito i birom, gli abitanti autoctoni in prevalenza cristiani. Come al solito, il governo federale prometteva indagini approfondite sulle circostanze dell’aggressione e

In quel momento John sentì che se avesse allungato una mano per siorarlo, Aziz si sarebbe arreso. Ma non ci riuscì. Si sdraiò e chiuse gli occhi, e ascoltò Aziz parlare

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Olujide Adebayo-Begun Il taxi che presero era coperto di adesivi islamici. Uno raigurava il grande sceicco sui Ibrahim Niass, sovrapposto alla Ka’ba, con il volto beato rivolto al cielo

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rinnovava il suo impegno a garantire la sicurezza di persone e proprietà in tutto il paese. In classe, John parlò agli studenti del mondo delle forme di Platone. Parlò della causa prima di tutte le cose, che era un mondo di perfezione, un mondo di forme pure. Ogni cerchio era un’imitazione del cerchio originale; ogni cavallo, un tenue barlume del cavallo originale. Quale immensa bellezza dovevano possedere, quelle forme originarie, se le loro ombre erano così scadenti? A mo’ di esempio prese una sedia. Il sedile era rotto e mancava una gamba. Nel mondo delle forme, quella sedia sarebbe stata perfetta. Così perfetta che tutte le sedie del mondo, pur possedendo qualcosa della sua forma, sarebbero state solo un’ombra del suo splendore; e questo valeva per tutte, dallo sgabello su cui il mendicante sedeva a elemosinare biglietti da dieci naira, ino alla poltrona occupata dal presidente ad interim che ora impartiva ordini e rassicurazioni per far calare il silenzio sulla morte di oltre quattrocento cittadini uccisi nelle loro case. Nel mondo delle forme quella sedia era perfetta, senza bordi rotti o scheggiati, senza scarabocchi di biro, senza il minimo cigolio. Si poteva provare a immaginare l’uomo perfetto: un uomo immune da malattie, avidità e desideri, un uomo così perfetto da non avere bisogno di Dio. Quando quella sera tornò a casa, la porta degli Oduwale era socchiusa. Biliki si precipitò fuori senza l’hijab. Aveva lo sguardo sconvolto, e per poco non lo travolse. “Broda John, Waris è scomparso! Baba Fisayo dice che non è ancora arrivato. Abbiamo provato a chiamarlo, ma non risponde!”. “Calmati. Quand’è partito l’autobus?”. “Ieri sera verso le sette”. “E quando l’avete sentito l’ultima volta?”. “Stamattina presto, verso le quattro e mezza. Ha detto che avevano quasi raggiunto il Plateau... Ha sentito cosa sta succedendo a Jos? Si ammazzano tra loro! Dov’è mio fratello?”. Nascosero i loro timori a Baba Biliki, per non peggiorare le sue condizioni di salute, e John li portò all’uficio della ditta di autobus con cui era partito Waris, la Safe Journey Bus Service. Aziz non poté accompagnarli; Biliki voleva che tenesse d’occhio il padre. Il taxi che presero era coperto di adesivi islamici. Uno raigurava il grande sceicco sui Ibrahim Niass, sovrapposto alla Ka’ba, con il volto beato rivolto al cielo. Su un altro c’era una donna bianca con l’hijab, circondata da splendide calligraie arabe. Entrarono in un iume di automobili che scorreva lentamente lungo la traicata Ikorodu road. John si chiese come si sarebbe sentito se invece di Waris fosse sparito Aziz. La biglietteria della Safe Journey Bus Service era afollata di parenti preoccupati. Fatta eccezione per un addetto alle pulizie, non c’erano impiegati in vista. Aspettarono quattro ore, poi decisero di andarsene, mentre alcune persone infuriate cominciavano a chiedersi se non fosse il caso di incendiare l’ediicio per far sbucare qualcuno in grado di dargli notizie dei loro cari. La sera, intorno alle dieci, John sentì dei rumori provenire dall’appartamento degli Oduwale e svegliò Aziz.

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“Broda John, ha appena chiamato Baba Fisayo”, disse Biliki singhiozzando davanti a casa. Dall’interno si sentì la voce di Mama Biliki gemere: “Hanno ucciso mio iglio! Dov’è mio iglio?”. “Calmati, che cosa vi ha detto?”. “Che è appena partito da Jos e arriverà a Lagos entro le otto. Gli ho chiesto se ha visto mio fratello, non mi ha risposto. Mio padre mi ha perino strappato il telefono di mano e gliel’ha chiesto di nuovo, ma Baba Fisayo non rispondeva, non parlava! Professore, dov’è mio fratello? Hanno ucciso mio fratello!”. “Sii paziente, ti prego. Aspettiamo Baba Fisayo”, disse John. Aziz, che ino a quel punto era sembrato come in trance, cominciò a gridare: “Allah sta usando iblis per metterci alla prova, dobbiamo resistere, dobbiamo resistere!”.

A

lle sei del mattino Baba Fisayo arrivò con i particolari. Erano stati aggrediti da una folla inferocita, va’ a sapere se musulmani o cristiani, birom o greci. Alcuni erano riusciti a fuggire illesi, altri erano rimasti feriti, molti erano morti. E dopo che i soldati inviati sul posto erano riusciti a riportare l’ordine, Baba Fisayo aveva trovato solo la carta d’identità di Waris. “Io spero in Cristo”, disse. “Forse Waris si è semplicemente nascosto. Lo scopriremo nei prossimi giorni”. Baba Biliki si riiutò di parlargli, e poco dopo Baba Fisayo se ne andò, promettendo di mettere annunci su tutti i giornali per cercare informazioni su Waris. “Cosa ho fatto di male, Allah?”, chiese Mama Biliki singhiozzando. Baba Biliki si alzò di scatto, con un’energia innaturale. Telefonò a Kunle, il conducente d’autobus, e gli ordinò di presentarsi mezz’ora dopo. “Andiamo tutti a Ijebu”, disse, e all’arrivo dell’autobus cominciò a fare le valigie, barcollando come un ubriaco, ammassando nel veicolo gli oggetti della loro vita a Lagos: un ventilatore rotto qua, uno scatolone di stoviglie là. “Io resto qui”, dichiarò Aziz. “A Ijebu non ci vengo”. Suo padre lo issò con occhi vitrei, mentre il ragazzo, con lo sguardo rivolto al cielo, continuava a ripetere: “Il mio posto è qui, il mio posto è qui!”. Corse da John: “La prego, mi aiuti a convincerli, ce l’ho quasi fatta, il mio posto è qui, Allah vuole sapere quanto sono forte e devoto, glielo dica anche lei”. Finirono di caricare sull’autobus gli ultimi pezzi della loro esistenza, e Biliki andò con loro. John portò in casa Aziz che, rendendosi conto dell’enormità della sua defezione, scoppiò a piangere. John gli parlò a bassa voce, lo consolò, lo rassicurò e gli preparò un tè che Aziz bevve tra i singhiozzi. Dopo aver bevuto, si alzò in piedi. “Broda John, deve farmi un ultimo favore”. “Dimmi, Aziz”. “La prego, mi dia cinquecento naira. Andrò a IjebuOde”. John glieli diede, e capì che non l’avrebbe rivisto mai più. u


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L’Africa a colori Tutta l’energia creativa e l’ottimismo del continente. In perfetto equilibrio tra il cinema e la fotograia. Le immagini dell’ivoriano Paul Sika

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aul Sika non è un fotografo come gli altri. I suoi “ilm composti da un solo fotogramma” sono esplosioni di colore a metà tra il cinema e la fotograia. L’inluenza del grande schermo è evidente in questi lavori, che sembrano fermi immagine tratti da una pellicola elegante, alla moda e un po’ surreale girata in Technicolor. Non a caso Sika ha scelto la carriera artistica dopo essere rimasto folgorato da una locandina del ilm Matrix reloaded mentre passeggiava per le strade di Londra. Il fotografo ivoriano, che si considera un imprenditore della creatività, si deinisce il nipotino di Andy Warhol e ammette di ispirarsi anche a David LaChapelle. Per le sue immagini Sika usa degli attori. Quando la foto è stata scattata, l’artista rende i colori più intensi usando Photoshop. Ha realizzato così il suo lavoro più noto, le Africa series. All’inizio del 2010 ha pubblicato il suo primo li-

bro, At the heart of me, in cui celebra la cultura e lo spirito del continente, ispirandosi alla sua vita quotidiana. “Le mie immagini mostrano la forza di volontà degli africani quando si uniscono per raggiungere un obiettivo comune”, spiega Sika. “Racconto l’energia e le speranze del continente, evitando gli stereotipi”. Attratte dallo stile inconfondibile di Sika, molte aziende, soprattutto nel settore della moda, gli hanno aidato le loro campagne pubblicitarie. Attualmente il fotografo è in cerca di partner per entrare nel mondo dei videogiochi. Sika è molto apprezzato anche negli Stati Uniti e di recente ha tenuto la sua prima mostra a New York. u Paul Sika è nato ad Abidjan, in Costa d’Avorio, nel 1985. Si è diplomato al liceo francese Blaise Pascal e poi si è trasferito in Gran Bretagna per studiare informatica alla Westminster university. Dopo la laurea è tornato in Costa d’Avorio e ha cominciato la carriera di fotografo.

A pagina 70-71: Asita Diallo 3. A pagina 72-73: Gloglo gospel 1. A pagina 74-75: At the heart of me 2. A sinistra, dall’alto: Time burns by; Lika. Al centro: Charbon ire. Sopra: Gloglo gospel 4. Qui accanto: Kajeem. Internazionale 878 | 24 dicembre 2010

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Binyavanga Wainaina Disegni di Gipi

Merce delicata

S BINYAVANGA WAINAINA

è uno scrittore e giornalista keniano. Scrive per il giornale sudafricano Mail & Guardian ed è un columnist di Internazionale. Nel 2002 ha vinto il Caine prize for African writing. Nel 2003 ha fondato la rivista letteraria Kwani? Questo racconto è uscito nell’inverno del 2006 sulla Virginia Quarterly Review con il titolo Ships in high transit. La traduzione è di Francesca Spinelli.

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tupido turista giapponese. A colazione, dal- di tour operator, un’attività non proprio gloriosa per il la terrazza che dà sulla pianura del parco rampollo di una famiglia che esportava i suoi massicci nazionale di Lake Nururu, ha visto il branco gabinetti di ceramica in tutto il mondo. Matano, però, di babbuini. Ha visto i due grossi maschi, ha avuto un’idea vincente. che grugnendo e battendosi il petto risponUn’oca con il pallino della fotograia, una certa Diadevano a tutti i cliché umani sulla brutalità na Tilten-Hamilton, gli ha raccontato la storia astrolomaschile. Ecco un esempio di come la realtà corrispon- gica del popolo masai, spiegandogli la sua teoria seconde all’opinione generale: quel tizio aveva do cui i masai sarebbero i veri antichi passato la vita a guardare documentari Shanks vive in egizi. Gli ha pure mostrato la sua collesulla natura. L’aveva ripetuto a Matano Kenya, dove ha zione di fotograie, pochi giorni prima di più volte, eccitatissimo, mentre andava- un’agenzia di tour spedirle a un editore di libri da salotto: no a Nakuru. Come può uno così ricorda- operator, un’attività foto piene di astrologhi masai mezzi nudi re alla propria adrenalina che quelle be- non proprio gloriosa con lo sguardo isso sul cielo notturno, il stie sono capaci di uccidere, se per lui per il rampollo di dito puntato verso le stelle e i perizomi sono solo attori della tv? sollevati che svelano i loro sederi di rame una famiglia che Ha nascosto un pezzo di pane e, dopo esportava gabinetti asciutti e sodi. che tutti avevano inito la colazione, l’ha di ceramica in tutto A Matano è sembrata un’idea geniabuttato al branco di babbuini e ha puntato le. il mondo la macchina fotograica. Il maschio più Cimeli. grosso si è avvicinato per prendere il pane Così ha reclutato dieci tra i migliori e se n’è andato portandosi via un dito del giapponese, intagliatori della cooperativa Akamba di Mombasa, li non senza aver prima decapitato il coccodrillo verde ha nascosti in una piccola fattoria a Laikipia e ha avviasulla sua maglietta. to un’industria a domicilio. Cimeli masai. Quel pomeriggio il babbuino è stato abbattuto. Un Versione per i turisti: altro coccodrillo verde ha preso il posto del primo. È Mille anni fa, nel grande impero Maa, chiamato successo il mese scorso. Maa-saa-i-a, viveva un grande intagliatore. Si diceva Poi c’è il capo e socio in afari di Matano, Armitage fosse in grado di intagliare lo spirito di un guerriero moShanks, delle Ceramiche da Bagno Shanks, o forse Ga- ran nel legno di ulivo. La notte entrava nello spirito del binetti Shanks, o Shanks Sciacquoni. O forse è un into toro. Di giorno faceva soiare i venti che intagliavano i Shanks: potrebbe aver preso in prestito il nome. Matano totem nel legno di ulivo. Quando l’impero Maa-saa-i-a non gliel’ha mai chiesto. Sa solo che il nome Shanks ha crollò, dopo una grande guerra contro i fenici per il conuna certa inluenza a Karen, a Nyali e a Laikipia, pro- trollo del commercio di mirra e d’incenso, i masai soprio come i nomi Kuki e Blixen. Sa anche che, da qual- pravvissuti si dispersero. Alcuni partirono verso sud e che parte nel Commonwealth, ci sono dei funzionari formarono la grande nazione zulu, altri rimasero statali che cacano regolarmente in tazze Armitage nell’Africa orientale, poveri ma nobili. Altri ancora si Shanks. batterono al ianco del Prete Gianni o diventarono glaShanks vive in Kenya, dove ha una piccola agenzia diatori a Roma. Il grande intagliatore, Um-Shambalaa,

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sparì una notte sulle colline Ngong, tradito dagli spiriti maligni che avevano annientato gli antenati. Ora aspetta che il popolo masai risorga. Fino all’anno scorso, nessuno conosceva il segreto del Maa-saa-i-a, inché Armitage Shanks è andato a vivere tra gli (ormai pochi) samburu che abitano sulle montagne. Armitage ha ucciso il suo primo leone a 17 anni, a mani nude (sotto gli occhi del suo fratello di circoncisione Ole Lenana) e ha salvato i samburu della montagna con la sua hit Cibo per i masai (cantata con la sua rock band dell’epoca, I Martiri Fecali). L’anziano sciamano dei grandi masai gli ha chiesto di diventare un anziano, e Armitage ha cambiato nome: ora si chiama Ole um-Shambalaa, “il fratello che non è nato tra noi”. Gli anziani hanno pregato Ole um-Shambalaa di aiutarli a riconquistare la gloria perduta. Gli hanno dato tutti i loro trecento cimeli in legno di ulivo chiedendogli di venderli. Un primo passo per risorgere.

Matano sorride tra sé e sé. Guarda il traghetto e si diverte a vederlo attraverso i loro occhi. Stretta allo stomaco: paura, brivido. Pazzesco. Così vero. Odore di gasolio vecchio, sudore e spezie. Così esotico

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osì Matano è inito a dirigere la WylDe AFreaka Tours. Shanks ormai è un nobile selvaggio e non s’interessa più a cose come i moduli delle tasse. O alle procedure di accoglienza all’aeroporto: Ragazze con gonne di raia che ballano e cantano “A wimbowe, a wimbowe”. Uomini che ballano e cantano “A wimbowe, a wimbowe”. Un guerriero gigantesco con i bai da leone e la faccia truccata di nero si dirige carponi verso i turisti tedeschi plaudenti, contraendo i muscoli e ruggendo “A wimbowe, a wimbowe”. In the jungle… In realtà Shanks non si è mai davvero interessato alla WylDe AFreaka Tours. Ogni anno fa un viaggio di sei mesi ovunque ci siano europei danarosi per “pubblicizzarsi” (ma alla ine evita gli scandinavi conducentidi-spazzaneve, i belgi fabbricanti-di-grafette e gli svizzeri bucatori-di-formaggi e se ne sta in Provenza, in Toscana e nel sud della Francia). Ma quando non è in viaggio in genere si dedica ad altri progetti. Ha cominciato con i bagni itodepuranti (per uno Shanks è diicile non occuparsi di toilette), poi ci sono stati i Martiri Fecali, che sono arrivati ottavi in classiica sull’Isola di Man e si sono esibiti a Vladivostok (“Cibo per i Masaaaaa-aaih, anche per loro è Pasqua…”). Poi ha aperto un locale a Londra, il Nuba Tattoo Bar, inaugurato da un cugino di Leni Riefenstahl. Alle casse c’erano dei nuba nudi, almeno inché l’Esercito popolare di liberazione del Sudan non ha minacciato di metterci una bomba (come ha dichiarato Shanks in un’intervista alla Bbc). E poi c’è stato il grande fallimento, il cafè di Nairobi chiamato Inviato Speciale: a quanto pare mangiare circondati da immagini sgranate in bianco e nero dell’africano denutrito di turno fa passare l’appetito. Tra un’impresa e l’altra Shanks si dedicava al sesso tantrico, tracannava una bottiglia di vodka a sera e si teneva alla larga da Mister Kamau Delivery, il suo spacciatore di coca, a cui deve perennemente dei soldi. Ultimamente, però, Shanks è più assente del solito. È cupo. Matano sa che è solo una fase, l’inizio di un nuovo progetto, e questo vuol dire che per un po’ non ci saranno più soldi. Ha pa-

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gato i dipendenti con tre giorni di anticipo, prima che Shanks mettesse le mani sul conto. Il furgoncino avanza verso la rampa e Matano si prepara a salire sul traghetto. Guarda nello specchietto retrovisore. La coppia che ha appena preso all’aeroporto smette di gesticolare animatamente. Per un attimo i loro visi s’immobilizzano, i due si guardano, poi gli occhi dell’uomo incrociano quelli di Matano. Jean Paul distoglie lo sguardo con aria colpevole e dice alla moglie/amante/collega: “Hai visto che roba? Che bagnarola? Chissà quando è stato costruito, probabilmente prima della guerra”. “Secondo te è sicuro?”. Matano sorride tra sé e sé. Guarda il traghetto e si diverte a vederlo attraverso i loro occhi. Stretta allo stomaco: paura, brivido. Pazzesco. Così vero. Odore di gasolio vecchio, sudore e spezie. Così esotico. Colore: le donne con i loro vestiti, gli occhi bordati di kohl; altre donne scure che indossano gonne e camicie dimesse; altre ancora che sembrano a metà tra due culture, camicia di chifon e sarong a portafoglio con sgargianti motivi gialli, verdi e blu. Molte persone sono a piedi nudi. Un vecchio arabo in tunica bianca, con il viso emaciato e il naso adunco, se ne sta seduto sul ponte. Ha un alluce deforme rialzato come una scarpa di Alì Babà. Il piede che sembra un vecchio pezzo di legno verniciato, pieno di fessure. Sbuccia dei gambi e mastica la polpa. Una delle due guance è gonia e lui sputa, sputa senza sosta verso la terraferma. La saliva marrone atterra sul metallo arrugginito, forma una piccola pozza, gocciola e cola sul lato, inendo su una corda avvolta per terra. Gli occhi dei turisti sono pietriicati tra l’orrore e l’eccitazione. È così vero! Devo assolutamente mandare un articolo a Granta. Stessa scena vista con gli occhi di Matano: Abdullahi sta di nuovo masticando miraa. Nato bene, nella città vecchia, iglio rinnegato di una delle famiglie swahili più antiche della costa, ha abbandonato un’attività di autotrasporto per le gioie di sesso, droga ed europop (aveva un gruppo che faceva le cover degli Abba negli alberghi, indossando kanzu e cantando in swahili: “Waterloo, niliamua kukupenda milele…”). Adesso è troppo vecchio per piacere alle tedesche bionde in cerca di emozioni in un naso adunco e un paio di occhi aridi e crudeli. Il regno dell’euro non ammette più sceicchi arabi selvaggi (ma teneri) nei romanzi rosa di Mills and Boon. Oggi gli arabi si dividono tra poveracci armati, assemblatori di meze, camerieri che servono humus e delicatini igli di papà che frequentano qualche scuola privata europea. Non ci sono fan degli Abba tra gli under 60, ora che tutti ascoltano Eminem e Tupac. Abdullahi ormai fa parte dello sfondo, è appena visibile tra il degrado e le mura ammuite della città vecchia, dov’è tornato a vivere. Il cellulare di Matano squilla, scrollandolo dai suoi pensieri. “Ndugu!”. È Abdullahi, e Matano si gira per guardarlo. Abdullahi sorride, con le labbra coperte di khat rappreso. Alza la mano in un saluto ironico. Matano sorride.


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“Ah”, dice Abdullahi. “I tuoi occhi si sono di nuovo persi tra le cosce bianche, fratello. Sei perso, bwana”. “È lavoro, bwana, lavoro. Lo sai com’è quando il mzungu è in missione, no?”. “Hai pensato alla mia proposta? È tutto pronto. Il tizio può venire a casa di Shanks stasera”. “Fratello, quando capirai che non ci sto?”. “Sawa. Poi però non dire che non ti avevo avvertito quando mi vedrai con la Porche, la casa a Nyali e il mio harem di belle gnocche giriama. Nuoti troppo nelle loro acque, fratello. Anch’io ci ho nuotato, e guarda che ine ho fatto. Pensa ad assicurarti il futuro ora, fratello. Scaricheranno anche te. E daaai… fratello! È un afare irresistibile, e i marine arrivano stasera, bwana”. Abdullahi spara un proiettile di saliva marrone in mare e ride. Matano scuote la testa, ridendo tra sé. Povero Abdullahi. L’hip-hop etnico regna sovrano sulle spiagge: muscoli addominali neri e incazzati. I ragazzi più scuri battono le spiagge in tre lingue europee, ostentando carnose labbra color carbone, zigomi prominenti come montagne brulle, dreadlock e muscoli luccicanti di sudore. Abdullahi si guadagna da vivere sul traghetto, vendendo erba e khat, masticando tutto il giorno, inché gli occhi gli lacrimano. Ormai non fa più molto caso a come usa la saliva. Un tempo con Matano andava a caccia di donne bianche. A volte Abdullahi si

presenta da Matano con qualche progetto folle: all’inizio erano i video porno, poi le trufe sulle carte di credito, tutte idee dei suoi nuovi amici nigeriani. Abdullahi ha dimenticato la regola numero uno: è tutto un gioco, lo fai per i soldi, non per raggiungere la vetta. Non farti mai condizionare dalla vetta. I giocatori dell’altra squadra potrebbero non essere seri, potrebbero lasciarsi alle spalle la terra e salpare per posti dove serve il paracadute. È per questo che sono venuti a Mombasa. I nigeriani lo scaricheranno appena non gli servirà più, come fanno con tutti. Una volta – è stata un’esperienza emozionante – Matano ha aiutato Abdullahi: gli ha fatto guadagnare dei soldi mandandogli delle donne scandinave, anche qualche uomo. Matano è un giriama, per questo ce l’ha con gli swahili, soprattutto con le famiglie come quella di Abdullahi, che avevano enormi proprietà sulla terraferma e trattavano i giriama che ci vivevano illegalmente come schiavi. Ma Abdullahi è una vittima del suo stesso successo culturale. Come puoi sperare di catapultarti ai primi posti del villaggio globale se provieni da tremila anni di rainatezza islamica? Ti ritrovi prigioniero della tua nobiltà storica, della nostalgia, della monumentalità della città vecchia, che ha congelato le stradine e trasformato quel luogo un tempo vivo in un piedistallo del passato. Matano, nato in una famiglia di giriama abusivi e

Abdullahi ha dimenticato la regola numero uno: è tutto un gioco, lo fai per i soldi, non farti mai condizionare dalla vetta

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Binyavanga Wainaina L’uomo è snello, muscoloso, abbronzato e biondo. Ha un viso intenso e compassionevole, con un che di svedese, un viso da nordico amante della natura

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spedito in una scuola missionaria, non ha quel tipo di bagaglio (il bagaglio che ti fa dire “la-nostra-civiltà-hacostruito-palazzi-più-belli-e-fatto-più-conquiste-della-tua”). Qualunque strada può solo farlo salire. Matano odia il traghetto. Da bambino, quando suo padre lo portava in bicicletta a scuola, provava un brivido ogni volta che salivano a bordo. Ora lo odia: odia la deferenza della gente nei suoi confronti, i loro occhi che si velano non lasciando trapelare nulla. Sanno che nel suo furgoncino Matano trasporta dollari in carne e ossa. Una volta un bambino con la divisa della scuola, scalzo come lui da piccolo, è rimasto per tutta la durata del viaggio seduto su un parapetto a issarlo, issarlo senza battere ciglio. Aveva fame di essere come lui, e Matano lo sentiva. A volte negli occhi delle persone coglie la vergogna, persone con la valigetta di cartone, l’abito di nylon e le scarpe con le suole consumate. Lo guardano, poi si girano dall’altra parte: accanto a Matano il loro tentativo di apparire moderni diventa umiliante. E poi c’è la questione dell’accento. Quando parla con i bianchi davanti a tutta quella gente, Matano è sempre molto consapevole del modo in cui calibra le sillabe, sibila con il naso e parla a un ritmo continuo e modulato. Anche se intorno a lui, su questo trabiccolo galleggiante che porta persone a lavorare per altre persone che le disprezzano, l’espressione dei volti è ambigua, Matano sa che scatenerà grandi risate nelle stradine di periferia dove vive la sua gente. Imiteranno il suo into accento mzungu sibilando con il naso e rideranno. In una città come Mombasa, la sua uniforme da guida turistica signiica potere. Matano può comportarsi in due modi con le persone. Primo: può fare come se la diferenza non esistesse, e sentirsi imbarazzato dall’affetto che gli altri gli restituiranno per questo. In sua assenza diranno: che brava persona, così generoso, così buono. Matano si vergogna di incrociare ogni giorno quei grandi sorrisi sul traghetto, di sentirsi quasi venerato solo per quello che è. Seconda possibilità: può assumere un atteggiamento gelido. Lontano dalla sua casa e dai suoi vicini, non rivelare nulla: salutare con aria assente, contribuire con distacco, tenersi a distanza. È quello che si aspettano. È quello che fa quasi sempre nei luoghi pubblici, dove tutti devono conformarsi a un modello stabilito lontano da lì, con regole che favoriscono le persone istruite. Ovviamente può comportarsi in modo diverso a casa, a Bamburi, dove le persone ritrovano di nuovo se stesse, dopo una giornata al servizio di qualche magnate gikuyu, uomo d’afari gujarati, commerciante di pietre preziose swahili o noleggiatore di dhow tedesco. Qui le persone si spogliano dell’ambiguità come se fosse una seconda pelle. Il suo cinismo li fa ridere. Matano ridiventa gofo e impacciato. La sua eloquenza vacilla. Gli altri abitanti di Bamburi, poveri e senza istruzione, sono più abili di lui in cose che lì contano di più: suonare il tamburo, trovare il vino di palma migliore a qualunque ora della notte, procurarsi il pesce più fresco, giocare a bao o a dama con i tappi di bottiglia, o semplicemente riempire le notti vuote parlando o inseguendo il rumore dei tamburi quando l’imam è andato a dormire,

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per rendere omaggio ad antenati che riiutano di sparire dopo mille anni d’inluenza islamica. Che storia! Popolata di personaggi che sidano il tempo, marinai portoghesi, tedesche arrapate, streghe travestite da gatti neri e falli in grado di tamburellare su una clitoride ino a farla impazzire, e il telefono del consiglio comunale di Mombasa sbloccato per poter chiamare la Germania e dire alla tua bambola vengo dal clan dei Nove Villaggi. Guerrieri (ruggito) nessuna donna può resisterci, come potrei lasciarti dolcezza, sei così debole, fragile e pallida, i miei muscoli ti schiacceranno, il mio cazzo ti squarcerà, non possiamo stare insieme, non puoi starmi dietro a letto (che peccato), io sono un selvaggio che capisce solo il sangue e la forza, mi salverai con la tua dolcezza? Mandami dei soldi per aiutare il mio clan, se il mio clan morirà anche la mia potenza sessuale morirà, dolcezza, hai mandato la lettera d’invito all’uicio immigrazione, ce l’ho duro, dolcezza, così duro che ballerò tutta la notte, scoperò l’aria inché verrò dentro la terra e darò forza ai miei antenati. I miei poteri magici sono veri, dolcezza. Hai mai sentito parlare del tingisha, dolcezza, è un ballo, me l’ha insegnato mia nonna, ho imparato a ruotare e ruotare i ianchi per farti godere. Ce la farai a reggere il mio ritmo, dolcezza? Per tutta la notte? Non vorrei che ti facessi male. Bisogna intrattenerti. Il materiale si pesca ovunque, per intrattenere i milioni di turisti nelle loro case imbiancate con i tetti di foglie di palma, seduti sotto le palme, sotto i baobab, sotto gli ombrelloni della CocaCola nei bar di lamiera ondulata. Questa storia racchiude tutte le macchie di sperma secco trovate dalle cameriere, tutte le promesse tradite, tutte le signore scortesi il cui marito si tromba le puttane al Mamba Village; tutti i portafogli che aspettano sulla spiaggia, tutte le scopate di tutti i ragazzini scuri che trascorrono le giornate a cacciare clienti e a trattenere il respiro per non sentire l’odore di crema abbronzante e iltro solare e deodorante roll-on e carne stantia che passa dodici mesi all’anno chiusa in una fabbrica climatizzata.

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l villaggio: dodici capanne immerse in un idillio che sta scomparendo. Dall’alto della strada sterrata, dove c’è la fabbrica di cemento Bamburi, si apre un territorio diverso: il futuro. Oltre la fabbrica di cemento c’è un’enorme zona ecologica, Haller Park, che impressiona tutti ma per ora è più piccola della somma delle sue parti: per funzionare ha ancora bisogno di una squadra di esperti. Ci sono anche giganteschi alberghi a forma di torte gelato, centinaia di video hall strapieni dove entri per cinque scellini e proiettano le avventure di un eroe che può distruggere un intero villaggio di paglia e maneggia una macchina da guerra fatta di caricatori, accessori, munizioni e addominali. Anche i movimenti sono stati studiati e importati, le canottiere militari comprate in qualche mercatino dell’usato, la bandana, la camminata da macho, il lanciarazzi di legno, il gesto di appoggiarsi e sparare. E il suono dell’arma imitato da una bocca. “Mi ni Rambo, bwana”.


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“Eddy Maai”. È il regno dei video hall. E dei sottotitoli in cinese. La coppia nel furgoncino sta ancora parlando. L’uomo è snello, muscoloso, abbronzato e biondo. Ha un viso intenso e compassionevole, con un che di svedese, un viso da nordico amante della natura. Parla con quel rigido accento americano difuso in Europa continentale. Porta gli occhiali. Lei è sicuramente americana e ha la faccia di una che presenta qualcosa in tv, qualcosa di tosto come Sixty minutes. Ha un viso così fresco che sembra intagliato, piallato e carteggiato da un falegname, e i capelli lucidi, corti e neri. Anche lei porta gli occhiali. Sono i produttori di qualche programma televisivo americano. Shanks ha detto a Matano di riservargli il “trattamento da sultano”, che descrive così: “Uva, sdraio con vista sul tramonto, giovani barbari accigliati ma buoni, oppure giovani barbare voluttuose, supposte Anusol sempre pronte nel cassetto portaoggetti”. “Il posto non è un granché, ma il cibo è buonissimo, e comunque in Somalia per un po’ toccherà adattarsi. Jan ha detto che non ha ancora trovato un posto con l’acqua corrente. Non dobbiamo dimenticare di comprare dell’alcol, a quanto pare a Mogadiscio non si trova nulla”. “Cazzo. Quante bottiglie possiamo portare?”. “Non ci sono restrizioni, non hanno la dogana e comunque a noi stranieri ci lasciano in pace”.

“Secondo te conosceremo Shanks? Al telefono sembrava un tipo molto interessante”. “Verrà benissimo in video. Tra l’altro somiglia davvero a un masai, è magro e ha un che di intenso…”. “Sì, ma lo scialle rosso non va bene. Quel colore è troppo forte su una pelle chiara”. “È incredibile quant’è autentico, non trovi? Al telefono ho sentito che è davvero un tipo in gamba”. “Secondo te è un traichino?”. “Se lo è, è un traffichino fico. Va a trovare Peter Beard nella sua tenuta di Nairobi. L’ho letto su Vogue. È amico di Kapuscinsky”. Breve e reverenziale silenzio mentre metabolizzano il miracolo. “Come dovremmo chiamarlo, Shanks o Um-Shambalaa?”. Scoppiano a ridere. All’aeroporto hanno detto a Matano che pensavano di fare delle riprese. La natura non è il loro campo, s’interessano più alle “storie di vita vissuta”, ma qui è tutto così fantastico. Così elettrizzante. Dobbiamo incontrare Um-Shambalaa, non è incredibilmente sciamanico? C’è qualcosa, in loro, che irrita Matano. Un appagamento chiuso su se stesso, che lui ha notato spesso negli occidentali di sinistra. Sono così sicuri di avere ragione, di avere dalla loro la forza morale. E ignorano il loro po-

C’è qualcosa, in loro, che irrita Matano. Un appagamento chiuso su se stesso, che lui ha notato spesso negli occidentali di sinistra. Sono così sicuri di avere ragione

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Binyavanga Wainaina Una città come Likoni è fatta di diecimila ambulanti e strade brulicanti di persone che vanno in giro trasportando tutto quello che possono vendere

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tere, ignorano quanto i loro servizi televisivi e i loro copioni pieni di angoscia siano sempre un limpido ritratto della meschinità delle altre persone: colori accesi e sgradevoli sul loro silenzioso sfondo bianco. Neutro. Non capiscono di essersi trasformati nel ceteris paribus del mondo, nell’invisibile obiettività. Matano mette una cassetta. Tina Turner: “Burn baby burn…”. “Cerchiamo qualcosa di autentico”, continuano a ripetere. Sono vent’anni che fa questo lavoro, da quando, fresco di laurea in ilosoia, ha cominciato sognando di guadagnare abbastanza per fare un master e andare a insegnare tra persone abituate a volare sulle ali delle idee. Si è rivelata un’impresa impossibile: è stato tentato dalle mance, dai mille modi in cui i dollari riuscivano a inirgli in tasca, e poi a uscirne. Ha visto di tutto. Ha accompagnato femministe in guerra contro le mutilazioni genitali femminili, appassionati di natura con lo sguardo bovino, corrispondenti superstar, afroamericani in cerca delle loro radici, membri dei Peace Corps e orde di cooperanti: stranieri che parlano lingue africane e indossano vestiti kaki o di canapa. La moda Acnur. Nessuno di loro è mai riuscito a vedere in lui solo quello che aveva davanti agli occhi. Matano era il simbolo di qualcosa. Un paio di loro sono perino andati a casa sua, hanno mangiato educatamente tutto, poi si sono girati e hanno cominciato a indagare: questa è una cosa tipica della vostra cultura? Che ne pensate della democrazia? E dei diritti degli omosessuali? E dei diritti delle donne? Cercano di “capire la tua cultura”, come se la cultura fosse qualcosa che si nasconde sotto la pelle delle persone, e quello che le persone sono, come si presentano, non fosse autentico. Matano ha avvertito spesso questo loro tentativo di spezzarlo, farlo a pezzetti, di scartare gli elementi comuni che lo rendono umano per concentrarsi su ciò che è esotico, su ciò che lo rende diverso da loro. A quel punto sono liberi di apprezzarlo: non è più una minaccia. Possono dire: “Oh, come invidio la vostra cultura così solida” o “noi occidentali non abbiamo le radici che avete voi, quest’energia positiva, è tutto così autentico”. Bla-bla-bla. Ai! In tutti questi anni c’è una sola persona che non ha avuto una visione distorta di Matano: un contabile texano sovrappeso che portava un cappello Stetson ed era venuto in Kenya perché aveva promesso di smettere con la caccia e cominciare con la fotograia. Dopo il safari sono andati a bersi una birra e il tipo lo ha preso in giro e ha detto: “Mi sa che io e te non siamo mica tanto diversi, eh? Io sono un contabile con un bilocale a Houston, due ex mogli, tre marmocchi e me ne sto sempre per i fatti miei. Vengo in Africa e divento Ernest Hemingway, eh? A Houston non mi farei vedere manco morto con un cappello da baseball. E tu, che tipo sei davvero, fuori da questa stronzata di lavoro?”. Il furgone scende sobbalzando dal traghetto ed entra a Likoni. Cos’è oggi una città in Kenya? Sicuramente non un insieme di ediici: una città come Likoni è fatta di

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diecimila ambulanti e strade brulicanti di persone che vanno in giro trasportando tutto quello che possono vendere. Gli ingredienti per la tua cena ti vengono a cercare ino al inestrino della tua auto, ino alla tua bicicletta, in nelle tue braccia, se sei a piedi. Qualunque cosa ti serva, ti si materializza davanti agli occhi: l’abito e la cravatta per il colloquio di lavoro di domani, il costume da bagno irmato di seconda mano, il reggiseno, il tagliaunghie, la cocaina, la radiosveglia fabbricata a Dubai, l’eroina, la Bibbia, i gamberi al pili pili già fritti, la cassetta pirata di musica gospel, il video dello spettacolo di un comico, il pezzettino di Taiwan, la palla di neve di New York, con tanto di neve e strade così pulite che deve avercele messe Rudolph Giuliani in persona. L’ultima novità dei venditori ambulanti sono le videocassette. I reality in salsa nigeriana hanno invaso le strade di Mombasa. Ogni due settimane esce una cassetta nuova in tutto il paese. Le telecamere segrete sono piazzate in posti diversi, a volte per giorni. Nel primo video si vedeva un noto consigliere entrare in un bordello. Nel secondo alcuni impiegati del ministero del territorio si spartivano il bottino dopo un’impegnativa giornata passata ad approvare trasferimenti di proprietà. Matano non ne ha ancora visto nemmeno uno. Non ha avuto tempo ora che è cominciata la stagione turistica. Lo svedese amante della natura, Jean Paul, si gira verso il inestrino del furgone, contro il quale bussano i prodotti in vendita. Il suo viso si chiude ermeticamente, e tira fuori dalla borsa un libro: Jambalaya, lo spirito assetato. Matano ha letto una recensione su una rivista newyorchese che uno dei suoi clienti ha lasciato in Kenya. Un libro scritto da una sacerdotessa vudù (nonché ex conduttrice di talk show) che vive in Louisiana. La critica è in estasi. Il Libro dell’Anno. Nel cast del ilm ci sarà Angelina Jolie.

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l punto cieco di Matano: Frammento di una conversazione tra Matano e una delle sue amanti svedesi annuali, Brida, che adora Gabriel García Márquez: “Perché voi bianchi avete la issazione del realismo magico?”. Brida fa scorrere le unghie sul petto di Matano e gira una pagina del libro. Matano si scosta. “Non trovate che sia un po’ troppo comodo? Un modo per sentirsi innocenti? Così siete liberi di esplorare gli ashram in India, le manyatta dell’Upper Matasia, o magari il paese dei sogni in Oceania, con un didgeridoo che suona in sottofondo, tutto questo senza dovervi scontrare con il ricordo dell’imperialismo, dei dottori pazzi che misuravano la soglia del dolore dei bantu, dei campi di concentramento per i mau mau, degli espatriati che succhiano soldi ai donatori per i loro viaggi annuali in riva al mare, dove veriicano di persona l’ormai scomparsa verginità delle spiagge”. “Non essere così angosciato, tesoro! Io sono svedese! Possiamo parlarne domani mattina? Prometto di non essere per niente innocente. Sarò una cooperante tedesca o magari la iglia di un colono inglese. E tu potrai essere l’africano arrabbiato. Ti lascerò strappare i


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miei vestiti e…”. “Certo, tanto a te che t’importa? Vieni ogni dicembre, ti spari i tuoi orgasmi multiculturali, poi te ne vai e mi lasci qui a propinare realismo magico a tutti quei fessi. Non vedi che non c’è nessuna diferenza tra il tuo interesse per Márquez e l’idraulico grasso e paonazzo che mi supplica di raccontargli storie di gatti trasformati in jinn, di cani fantasma cannibali che invadono le strade di notte, di reincarnazioni cannibali di Zimba? A Mombasa tutti i cazzo di venditori di gingilli provano a riilare queste stronzate: ‘È mio totem, signora, magia di mia famiglia. Devo vendere questo oggetto antico per sfamare mia famiglia. A lei dare molti bambini, molto amore. Seppellito con erbe di amore da antenati che portano soldi. Regalo di mia bisnonna, rubato dai fantasmi di Shimo La Tewa’”.

Brida scoppia a ridere e poggia il libro. “È la vita, no? Meglio fare soldi così che dicendo ‘Oh, io vendere perché io povero, mia terra presa da colonizzatore/multinazionale-a-caccia-di-spiagge/accalappiacani-tedesco-che-vuole-investire la pensione/ ex-fricchettone-diventato-cooperante’”. Brida gli passa la mano sulla fronte corrugata per appianarla. “Non mi rovinare il libro, tesoro. Sono arrivata al punto più bello. Domani parliamo, ok?”. “Perché non dovrei dirti le cose come stanno? Perché non leggi i realisti magici delle tue parti? Almeno riusciresti a contestualizzare. Voi europei di sinistra, simpatici e iperistruiti, disprezzate i troll, i folletti e le streghe dagli occhi verdi anche se rappresentano le vostre origini precristiane, però davanti a uno spiritobambino giamaicano o a un gabinetto animato dello

A Mombasa tutti i cazzo di venditori di gingilli provano a riilare queste stronzate: “È mio totem, signora, magia di mia famiglia. A lei dare molti bambini, molto amore”.

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Zululand vi fate venire un orgasmo letterario”. “Tu pensi troppo, Matanuuuu. Ora ti faccio una canna, ok? Poi magari scopiamo, e poi tu puoi andare a fare il tuo intervento alla conferenza sulla letteratura panafricana mentre io inisco il mio libro in pace”. Matano scoppia a ridere.

Prescott e Jean Paul scendono, entrambi confusi dal calore e dall’incertezza: come si comporterà con loro? S’inchinerà per accoglierli? Gli bacerà il naso?

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Jean Paul si gira verso la tipa con la faccia da giornalista cazzuta e dice: “Non senti com’è musicale la sua prosa? Ha un che di allucinogeno”. Lei lo guarda con aria sprezzante. “Preferisco Allende”. Poi si china verso Matano e, separando lentamente le parole in tante microsillabe, chiede: “Quali scrittori keniani ci consigli, Matanuuu?”. “Karen Blixen”, risponde, con la faccia impassibile. “E Kuki Gallman”. Ngugi wa Thiong’o lo consiglia solo a quelli che vengono in Kenya per autolagellarsi: quelli che abbracciano la tua causa più fervidamente di quanto la abbracceresti tu, perché la loro causa e la loro autostima sono un’unica cosa. In genere danno anche delle buone mance, soprattutto dopo aver letto Petali di sangue. Quand’è solo. Quand’è solo legge Dambudzo Marechera, che ha capito il caos, ha capito come nessun racconto possa spiegare questo continente, e a un certo punto conclude: “E lo specchio mi rivela, nudo e vulnerabile fatto”. A Matano torna in mente il nome della giornalista cazzuta: Prescott Sinclair. Prescott non è mai stata in un posto dove l’odore del mare è così forte. Apre ancora una volta la rivista presa sull’aereo per guardare le immagini, gamberi giganti grigliati in spiaggia, frutta tagliata in forme fantasiose. Jean Paul l’ha di nuovo irritata. Le piace lavorare con lui negli Stati Uniti. Come accompagnatore è bravo e innocuo. Ma la sua prosaicità la infastidisce. Jean Paul vive ogni cosa e ogni luogo allo stesso modo, incurante delle diferenze. Legge i libri giusti, si adatta ai cambiamenti d’umore di Prescott, non è mai macho, prepotente o calcolatore. Si scusa di essere meticoloso. Prescott ha cercato più volte di spingerlo a rivelarsi, a incrinarsi. Comincia a credere che Jean Paul sia solo quello che mostra. Brynt, il suo capo: ossessionato dal lavoro, dal sesso, un ulceroso in cerca di una igura materna (che arriverà), il tutto avvolto da pettorali scultorei, senza un ilo di grasso. È esattamente il tipo di uomo che Prescott si è convinta di non dover volere. Non riesce a resistergli. La sinisce, chiedendole di cambiare pelle a ogni nuova impresa, di diventare un’altra, pronta a fare quello che lei non farebbe mai. A letto dev’essere una tigre, una donna capace di allontanarsi facendo le fusa mentre lui rimane steso, sfatto. Per lui il sesso è una liberazione: è sempre carico di elettricità, ovunque vada, ma non riesce a trasformarla in un’esperienza memorabile. Ogni volta che Prescott pensa a lui, le viene in mente l’immagine di un cavo elettrico sciolto che guizza sul cemento, spargendo scintille. Non riesce a lasciarlo stare. La sua elettricità continua a promettere senza mantenere, e spesso Prescott ha l’impressione che sia colpa sua: non

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sa come fargli trasformare la sua elettricità in luce. Lo ha lasciato un mese fa. Non ha risposto alle sue chiamate. Si è portata il lavoro a casa. Ha chiesto di essere trasferita all’estero. Jean Paul sicuramente sa, ma non ha detto una parola. Perché è così vigliacco? L’autista, che non ha più aperto bocca dopo che Prescott ha provato a fare conversazione, si gira verso di loro, sorride e dice: “Benvenuti a Diani! Stiamo entrando nel Makuti beach resort. Karibu!”.

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la persona a deinire il viso o il viso a deinire una persona? Matano se lo chiede spesso. Come mai le persone diventano spesso quello che i loro volti promettono? Quanti miliardi di spermatozoi vivono nei bar di Mombasa e schizzano nelle strade buie di Mombasa? Come mai è proprio quello con lo sguardo sfuggente che raggiunge l’ovulo? La iducia può avere gli occhi grandi, infossati; la diidenza è sfuggente, con gli occhi ravvicinati. O non è così? Tra gli swahili che abitano sulla costa è scortese guardare qualcuno negli occhi. Bisogna essere sempre ospitali, nascondere i veri sentimenti per mantenere la tranquillità dei rapporti, l’armonia della comunità. Un inglese direbbe che è tutto molto viscido, soprattutto se accompagnato dall’odore di olio di cocco e incenso. Armitage Shanks, in base alla teoria della “facciache-deinisce-la-persona”, è un martire. Occhi che ti catturano: verde acqua, con sprazzi tremolanti che tengono incollato il tuo sguardo appena dice qualcosa. Occhi spirituali: più infossati del solito, con rughe di espressione e piccole ali sul bordo delle palpebre, che le sollevano quando vuole compiacere. Potrebbe essere un leader spirituale, uno a cui le persone verrebbero a chiedere discretamente consiglio. Se fosse musulmano lo fermerebbero in tutti gli aeroporti occidentali. Quali meccanismi determinano quei dettagli che per noi hanno tanta importanza? Cosa succede alla supericie dell’occhio per cui la luce vi brilla come fosse liquida? È possibile che alcuni abbiano i muscoli che attaccano l’occhio alla testa più corti delle altre persone e che spingono il globo oculare più a fondo nel viso? Quale bambino è nato, un milione di anni fa, con gli occhi di un vecchio sorridente? Che parole saranno state sussurrate nel villaggio? Sulla saggezza di quel bambino, sul suo potere di invocare gli antenati, tanto che le donne si buttavano nel suo letto appena il suo fallo si svegliava e salutava il mondo? Il viso di Ole um-Shambalaa è magro, ascetico, segnato e scuro, scuro quasi quanto quello di Abdullahi. I suoi capelli sono biondi, tagliati corti. Ole um-Shambalaa non può essere frivolo. Non più. Si china in avanti per aprire la porta del furgone e sorride. Prescott e Jean Paul scendono, entrambi confusi dal calore e dall’incertezza: come si comporterà con loro? S’inchinerà per accoglierli? Gli bacerà il naso? La stretta di mano rischia di sembrare imperialista? Shanks non li aiuta: resta lì, immobile, come solo i religiosi orientali o alcuni animali sanno stare. Muscoli tesi, sorriso suicientemente benevolo da smuovere le viscere. I due ospiti sentiranno uno sfarfallio di calore


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nelle loro pance. Un millisecondo prima che Prescott si lanci nel saluto masai imparato per l’occasione, Shanks allunga entrambe le mani e aferra la sua. Fa lo stesso con Jean Paul, chinando timidamente lo sguardo, come annichilito dalla loro energia spirituale. Si gira, senza salutare Matano, e s’incammina verso la hall. Il suo sedere snello e sodo si contrae a ogni passo. Prescott è sconvolta dai suoi pensieri. Immaginare il sesso con quest’uomo sembra un sacrilegio. Suo malgrado, però, si chiede se si dedica al tantra o a qualche esotica pratica orgasmico-spirituale masai. Cazzo, sbaglio o qui in Kenya praticano l’escissione? Matano raggiunge la zona di servizio. Ha sempre una camera a disposizione nell’albergo, ma la usa solo per quelli che Shanks chiama “i dialoghi della vagina”. Gli appartamenti di servizio sono tutti monolocali: strutture perfettamente cubiche fatte di scadente calcestruzzo e lamiera ondulata. Matano trova i colleghi nel cortile interno: seduti su alcuni sgabelli, giocano a bao. “Dooo… do. Matano mwenyewe ameika. Umepotea ndugu”. “È un po’ che non ti fai vedere, fratello”. Fuori dal cortile, Otieno si fa chiamare Ole Lenana. Ogni giorno, scintillante come una statua di bronzo, con le sue treccine rosse lunghe ino alle spalle, indossa un perizoma rosso e va in spiaggia, dove si fa fotografare dai turisti spacciandosi per masai. Prima lavorava

come impiegato al consiglio della contea di Mombasa. Riceve una piccola pensione da Frau Hoss, una tedesca di cinquant’anni che ogni anno trascorre due settimane a Mombasa per coprire le rughe con l’abbronzatura e andare a letto con uno più abbronzato di lei. Otieno è un adepto del vunja kitanda: “spacca il letto”. Dice che un miscuglio di erbe stimola la sua potenza, anche davanti a seni vecchi, grinzosi e cadenti. Matano ha qualcosa da dirgli a proposito di Frau Hoss. Matano saluta tutti, poi va nella stanza di Otieno. L’interno è suddiviso da vari kanga. La camera da letto è una tenda appesa accanto al letto. Il salotto, un albero di giada in un grosso recipiente di stagno, tre sedie microscopiche con sopra dei centrini di merletto e un piccolo televisore in bianco e nero. Sul tavolino sono poggiati alcuni album fotograici. Una cassa sotto il tavolo contiene i libri di Matano, in gran parte regali di turisti, quasi la metà in tedesco. Tira fuori quello che ha ricevuto la settimana scorsa. È da allora che aspetta di incontrare Otieno, per fargli vedere il libro di Frau Hoss. Si spoglia, inila il suo costume nero, si avvolge un kikoi azzurro intorno alla vita. Raggiunge gli altri, si siede su uno sgabello, con le ginocchia più in alto delle spalle e il kikoi raccolto pudicamente sull’inguine. Sente l’odore di latte di cocco e spezie. Le donne stanno cucinando dall’altro lato del cortile, e chiacchierano mentre sbucciano, schiacciano, tritano e s’intrecciano

Riceve una piccola pensione da Frau Hoss, una tedesca di cinquant’anni che ogni anno trascorre due settimane a Mombasa per coprire le rughe con l’abbronzatura

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Binyavanga Wainaina Brynt non ha chiamato. Anche se non risponde alle sue chiamate, è importante che lui chiami, così può avere la soddisfazione di non rispondergli

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i capelli. “Allora, hai visto Um-Shambalaaaa?”. I quattro attaccano a cantare: “Um-Shambalaa, let’s go dancing. Ole um-Shambalaa, disco dancing…”. Matano ride. “Ha resistito ino all’ora di pranzo senza coca?”. Otieno si gira verso Matano. “Mi vuole pagare, bwana, per fare Ole Kaputo, il iglio del capo masai”. “Nooo! Ahi! Mi sa che verranno fuori un bel po’ di soldi! Ecco perché evitava di parlarmi. Stavolta facciamo sul serio. Credo sia gente della tv. Americani”. Segue un silenzio, mentre tutti realizzano cosa implica quell’informazione. America. La partita di bao riprende, e la conversazione s’intreccia iaccamente intorno a loro. Matano passa il libro agli altri. Kamande, il cuoco, dà un’occhiata alla copertina e caccia un urlo divertito. Sulla copertina si vede Otieno, con il corpo argentato (per gentile concessione di PhotoShop), che s’inginocchia nudo davanti al muro di fango di una manyatta. Tutta la foto è una variazione di quel nero argentato: l’unico colore è il rosso del suo scialle masai, steso per terra. Due vecchie mani bianche scivolano lungo il suo sedere, ma il resto della persona è tagliato. Dev’essere quasi il tramonto: l’ombra di Otieno è lunga e indistinta, una lunga, tremolante ombra di cazzo si solleva ino a toccare la sua shuka. Otieno sembra perplesso, poi aferra il libro. Aggrotta le sopracciglia, confuso: chi è quel tizio? Poi si riconosce. Spalanca la bocca. Il libro cambia mano, fa il giro dei presenti, tutti si piegano in due dalle risate. Le donne si avvicinano per indagare. Fatima, la moglie di Kamande, guarda la copertina, guarda Otieno, guarda di nuovo la copertina. “Ahi! Perché non mi hai detto che avevi una bottiglia di birra tra le gambe? Ti trovo io qualcuno, se impari a usarla come si deve! Non con questi bianchi, cosa vuoi che ti facciano scoprire loro?”. Le donne ridono e si allontanano con il libro per esaminarlo meglio. Otieno si gira verso Matano. “Dove l’hai preso?”. “Un turista l’ha lasciato nel furgone la settimana scorsa. Frau Hoss dice che ti ha insegnato il sesso tantrico”. “Le faccio causa!”. “Non dire fesserie”, dice Matano. “Scrivi anche tu un libro. Scriviamolo, bwana! Gli editori faranno a gara! Il sesso africano va per la maggiore in Germania, se scrivi un libro farai un sacco di soldi! Titolo: Il mio corpo profanato. E in copertina schiai una tua foto a torso nudo con l’aria triste e tormentata”. Scoppiano a ridere. Prescott è seduta con Jean Paul al bar della piscina, accanto alla spiaggia. Bevono un drink e guardano il tramonto in attesa di Shanks. Non ci sono barriere tra qui e l’India. Le sagome di decine di ragazzi bassi e muscolosi si stagliano contro il crepuscolo. Coperti e circondati di gingilli, fanno la verticale, spiccano salti, battono il cinque e si riuniscono continuamente per confabulare.

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A volte guardano Prescott. Uno le fa l’occhiolino, l’altro muove su e giù le sopracciglia. Prescott si rilassa quando notano un turista, raccolgono la loro roba e vanno a molestare qualcun altro. C’è della musica nel bar: una specie di world music per fan dell’europop. “Jambo, jambo bwana, habari gani, mzuri sana…”. Da una nota guida turistica: “Il sorriso dei keniani è il più amichevole del mondo. Ti diranno jambo e ti serviranno un dawa”. I beach boys non possono entrare nell’albergo, ma a Prescott è stato detto che basta oltrepassare la ila di palme e le si getteranno addosso in sei lingue diverse. Uno dei ragazzi s’incammina verso di lei, riuscendo a saltellare perino nella sabbia. Scambia due parole con la guardia e si avvicina al loro tavolo. Prescott guarda il suo viso magro, i suoi occhi da girafa sbigottita, bordati di grossi, spessi ciui di ciglia. “Jambo!”. “Jambo. Mi spiace ma oggi non compro nulla. Niente soldi”. Jean Paul è tagliato fuori, in un mondo di persone che parlano come pesci in salsa cajun, hanno una faccia da bayou e fanno l’amore come un piatto di jambalaya. Un tizio col banjo è alla ricerca del gris gris perduto. Il beach boy prende un’aria accigliata e si dà un colpo sul petto, goniandolo: “Noi ragazzi di spiaggia bisogno di soldi! Vogliamo vendere bellissimi oggetti tradizionali di Africa. Eh! Tu sai come sento io, inseguire tutti giorni bianchi mzungu: compra questo, compra questo? Io cerco buon lavoro, tutto buon lavoro: giardino, uicio, buttafuori a Mamba Village Disco, anche uiciale marina. Io laurea, ingegneria navale, ma in Kenya? Ahi! E ora sbirri, poliziotti caccia me e miei fratelli. E l’albergo, caccia me e miei fratelli. Ma questa spiaggia, è nostra casa, capisci? Allora vuoi bracciale in pelo di elefante? È ico! Molto ico!”. Non sorride. Guarda il mare e intanto batte il piede per terra, come fosse un vaso di vetro pieno di testosterone in attesa di frantumarsi. A Filadelia Prescott sarebbe terrorizzata. Continuerebbe a camminare, con la lingua di piombo e un sorriso razzialmente neutro a tagliare il suo viso rigido. Ora ha voglia di dare un pizzicotto sulla guancia a quel ragazzo e vederlo sobbalzare sotto gli occhi dei suoi amici. “Voglio una collana, una collana masai. Me la puoi procurare?”. La guarda con freddezza cristallina, solleva un sopracciglio, poi corruga la fronte. “Mmm”, sembra voler dire, “non sarà facile”. Il silenzio dura un po’, poi la guarda e dice: “Per te, signora, perché tanto bella, io provo”. E torna saltellante dai suoi amici, dondolando ritmicamente un braccio avanti e indietro come un rapper diretto alla sua jeep. Prescott ride. Jean Paul dice: “Mio dio, guarda che tramonto”. Prescott risponde: “Non sono mai belli come nelle cartoline, vero? Cazzo, i poeti hanno fatto un bel po’ di danni. Hanno ucciso l’idea di tramonto, hanno reso noiosi i prati e hanno sterminato le notti stellate. A volte mi dico che sono deleteri quanto una multinazionale inquinante diretta da un uomo”. Jean Paul sorride pazientemente e la guarda con aria


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di compassione. Prescott vorrebbe prenderlo a schiai. Brynt non ha chiamato. Anche se non risponde alle sue chiamate, è importante che lui chiami, così può avere la soddisfazione di non rispondergli. Shanks spunta dalla porta a vetri dall’altro lato della piscina. Si è inilato il panno masai rosso nei pantaloncini corti. È a torso nudo, con le braccia avvolte intorno a un bastone da passeggio d’avorio che tiene appoggiato alle spalle. La sua igura è incorniciata dagli ultimi incerti raggi di sole, la igura da cartolina di un uomo masai che Discovery Channel presenterà, con voce profonda, come “un nobile di antico lignaggio, in sintonia con un universo grande e selvaggio”. Si accovaccia accanto a loro e fa scivolare il suo sguardo su entrambi. Sorride. “Pace”. Prescott accenna un sorriso. Jean Paul ha già ceduto: la sua bocca è spalancata. “Avete mangiato?”. Annuiscono. “Venite con me”. Lo seguono. La sua andatura non è aggraziata come se l’aspettava Prescott. È più che altro elastica: Shanks s’inclina da un lato su una gamba, poi fa lo stesso sull’altra. È un movimento vagamente familiare, anche questo potrebbe essere uscito da Discovery Channel o da World of survival. Un certo modo di camminare che hanno certe persone in certi angoli remoti del mondo, in genere persone nobili. Escono dalla parte dell’albergo riservata agli ospiti e oltrepassano un cancello. Davanti a loro, sotto un enorme baobab, c’è una grande capanna imbiancata, costruita con fango e canniccio. Ha una terrazza rivolta verso il mare, fatta di robusti rami di acacia verniciati color pino. Su un enorme divano verde mela a forma di gabinetto sono cucite le parole “Armitage Shanks”. Shanks indica il divano. “Il mio bisnonno aveva un grande senso dell’umorismo. Tutti i suoi salotti erano arredati con poltrone a forma di gabinetto”. Si siedono per terra, sui cuscini. Shanks incrocia le gambe stando ancora in piedi e si cala così sui cuscini. Un uomo molto alto esce dalla capanna portando un vassoio. Viene presentato come Ole Lenana. È Otieno. “Il mio fratello di circoncisione”. Shanks e Ole Lenana si scambiano qualche parola in una lingua sconosciuta. Ole Lenana si unisce a loro, si toglie dal collo la borsetta del tabacco e comincia a rollarsi una sigaretta. “Sapevate che…”. La sua voce li fa sussultare, improvvisamente è la voce di Shanks, non di Um-Shambalaa. “Nel cinquecento e nel seicento il letame veniva trasportato per nave, mucchi di letame secco. In mare cominciava ad appesantirsi, a fermentare, e sotto il ponte si accumulava del metano. La minima scintilla bastava a far esplodere una nave – molte navi sono naufragate così. Alla ine la gente ha cominciato a scrivere sui carichi di letame ‘Merce Delicata – Attenzione’, così i marinai sapevano di dover maneggiare il carico con cautela. Ecco com’è nata la parola merda. ‘Merce Delicata – Attenzione’. Molte di quelle che si vedono in giro oggi…”. Prescott si chiede se è così che la famiglia Shanks

disinfetta la sua storia. Aneddoti fecali che hanno acquisito la dignità di un’epoca remota, presentati in tono distante e ironico. “I masai costruivano le loro case con la merda. Questa casa è stata costruita usando merda di bestiame, concime e graticcio, e poi imbiancata con la calce. Scordatevi le stronzate scritte nella brochure. Quella era roba per Vogue. Vedo che voi due siete giornalisti seri. In realtà io non credo a tutte queste storie sulla mitologia masai, per me sono assurdità. Mi sforzo di crederci perché devo farlo. Forse, visto che sono uno Shanks, mi ha intrigato il fatto che sono cacate. Forse era per fare qualcosa che mi avrebbe dato una vita e una reputazione diverse dall’essere menzionato sui cessi di mezzo mondo. Forse ero stanco di portare un nome che si pulisce con lo sciacquone dei soldi di generazione in generazione. Forse mi piace pensare che ho il potere di salvare un’intera nazione. O forse l’ho fatto semplicemente per i soldi. Posso solo dirvi che voglio contribuire a salvare questa gente, e che i cimeli che vedrete domani sono tra le opere più meravigliose che io abbia mai visto. Il mondo deve conoscerli”. “Ma non trovi che c’è qualcosa di sbagliato?”, chiede

Un uomo molto alto esce dalla capanna portando un vassoio. Viene presentato come Ole Lenana. È Otieno. “Il mio fratello di circoncisione”

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Prescott s’immagina lo stomaco come uno strumento musicale, una cornamusa premuta per produrre i suoni più viscerali che il corpo può emettere

Prescott. “Che è un po’ come appropriarsi di una cosa che non è tua?”. Intanto pensa: “Case di merda, santo cielo”. “Mi sono guadagnato la mia appartenenza, come qualunque masai”, risponde Shanks. “Si idano di me. Sono uno di loro”. È ridiventato Um-Shambalaa. Si alza, lui e Ole Lenana si aferrano per le mani, si guardano negli occhi, poi Ole Lenana cade in ginocchio e mormora qualcosa di gutturale, grato e commosso. La sigaretta gira: Jean Paul, Prescott, Um-Shambalaa. Erba. Prescott alza lo sguardo, sorpresa da un’ombra. È la guida, Matano, con il torso nudo, i muscoli lucidi. Sta bevendo una birra. “Le sorelle sono venute a cantare”. Entrano, donne avvolte in mantelli rossi, e cantano. Voci estratte da un luogo gorgogliante in fondo alla gola, stranamente simili a strumenti di percussione. È una società che vive lateralmente, pensa Prescott, senza cercare di scalare le ottave, di trovare un crescendo, senza alti né bassi: l’estasi inseguita nella ripetizione, e mentre la musica impregna tutta l’atmosfera le donne cominciano a belare spiccando salti, salti che battono il ritmo della musica e sollevano su e giù il loro mucchio di collane. Su e giù. Ole um-Shambalaa si alza, Ole Lenana lo segue. Si dirigono verso il giardino e cominciano a saltare a ogni belato. Prescott s’immagina lo stomaco come uno strumento musicale, una cornamusa premuta per produrre i suoni più viscerali che il corpo può emettere. Si ritrova a muovere la testa avanti e indietro, al ritmo della musica. La marea dev’essere salita, perché le sembra che le onde ora s’infrangano sulla

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spiaggia più vigorosamente. Maledetto, maledettissimo Brynt. Non piangerà. Le donne si sono radunate intorno al cuscino di Jean Paul. Sul suo viso c’è un’espressione di lieve panico, che non riesce a trattenere. Gli aferrano le braccia, lo fanno alzare. Jean Paul comincia a muoversi in su e in giù, con un sorriso teso in faccia e gli occhi stravolti, in cerca di una via di fuga. Nessuna delle donne capisce una parola di quello che sta cantando. Appena tre ore fa, stavano chiacchierando in swahili mentre cucinavano la cena. Quando cala il buio, indossano kanga e perline e cominciano le prove nel cortile di servizio, ondeggiando, gorgogliando e facendo una serie di suoni che dovrebbero sembrare masai. È per questo che possono rimanere a dormire lì con i mariti. Matano sta guardando Prescott. Sta per concedersi di essere impulsiva. Le si avvicina lentamente, si ferma dietro la sua sedia, lasciando la sua presenza riempire lo spazio di lei. All’aeroporto l’ha sorpresa quand’era sola, sconcertata dalla novità del posto. Quegli occhi, quella pelle così bianca, l’hanno fatto rabbrividire. Matano non riesce a togliersi dalla testa l’idea che le donne bianche sono nude, persone con la pelle viva, come i coniglietti, che nel caldo si contorcono dal dolore e dal piacere. E lo turba sempre molto scoprire che in realtà non sono quasi mai così, sono sfrontate e insistenti, pronte a interromperlo a letto con le loro richieste. QUI! QUI! Gli aferrano il viso, lo tengono stretto, fanno lavorare la sua lingua inché non sono soddisfatte. Molte di loro non si idano delle sue capacità, pensano di dover


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dirigere tutte le sue azioni. Jean Paul ha ceduto. All’inizio le donne lo hanno preso in giro, vedendo come il suo corpo cercava gofamente di entrare in sintonia con il ritmo. Anche Jean Paul ha riso di se stesso, e subito i suoi movimenti sono diventati più frenetici. Ora sta ululando, si dimena sempre più in fretta, una marionetta fuori controllo. Un’ora dopo Prescott è seduta con Matano ai limiti della proprietà. Ole um-Shambalaa è seduto a gambe incrociate nel giardino, perfettamente immobile. Matano le passa un braccio intorno alla vita, mormorandole all’orecchio una canzone masai. Dietro di lui, il gruppo di autoaiuto femminile sta ancora cantando. I loro occhi sono diventati vitrei. Sembrano poter andare avanti all’ininito. Prescott non riesce a smettere di tremare. Dev’essere l’erba. E la musica. Si scosta bruscamente dall’abbraccio di Matano e dice: “Scusa, sono distrutta. Ho bisogno di riposare”. Matano stringe le spalle, la fa girare verso di sé e sorride, guardandola a lungo. Poi protende la sua grande mano, le mette una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e il suo polso le lascia una traccia di sudore sulla guancia. Prescott prova un senso di bruciore, e subito dopo di paura. Non riesce a dormire. Il cuore le batte sordamente nel petto. Quando si gira sulla schiena, è come se un peso enorme la schiacciasse, spingendola dentro il letto, e diventa diicile respirare. Dev’essere l’erba. Si alza. Fuori è tutto calmo. Gli altri sono andati a dormire. Esce barcollando dalla tenda, con le gambe intorpidite,

percorse da un formicolio. La sensazione si estende al resto del corpo, e Prescott va in bagno per guardarsi allo specchio. La faccia è sempre quella, un po’ selvaggia, ma non troppo diversa. Vede la collana masai che spunta dalla trousse da bagno, la prende e se la mette. Si guarda allo specchio: su di lei sembra pacchiana. I colori accesi le smorzano il viso. Sul cellulare trova un messaggio di Brynt. “Hai trovato Shanks? Chiamami”. Cos’è che ti tiene a freno, si chiede, cos’è che ti spinge a voler ridiventare com’eri prima? Dopo un’esperienza così magica e surreale, come può Chicago competere con questa musica primordiale, con i corpi che si sfregano contro l’aria densa e umida? E se la realtà corrispondesse davvero all’opinione generale? E se le prove che sostengono la tua percezione non contassero nulla? Se la tua percezione non avesse nessun peso senza l’adesione di una massa critica di persone? Qual è la realtà, ora? A casa: c’è la paura, così nascosta dentro di te che non la senti. Il mutuo, una linea della vita che non può sfuggire alla mobilità verticale: se vuoi riuscire devi rimanere rigorosamente separato da quelli che vivono lateralmente. Se non sai rimanere aperto a tutto questo, puoi sempre controllarlo. Lo confezioni. Lo vendi, come una pasticca, un programma televisivo, un nightclub, una gita aziendale, un libro, la moda del jambalaya. Lo controlli. Trasformi la magia in realtà. Fai in modo che occupi solo un periodo limitato di tempo. Questo è l’approccio umano – il resto è animale. Ma stasera sarà tutto vero, è tutto vero. Brynt è un mito lontano. Domattina sarà tutto diverso. Ora, però, Prescott torna da Um-Shambalaa.

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atano si ritrova a pensare alla proposta di Abdullahi. Una settimana fa l’ha portato dai nigeriani, che l’hanno intimidito mostrandosi spavaldi, come se nulla potesse fermarli, potesse comprarli. Vedendo che era scettico sull’afare, uno di loro l’ha preso in giro. “Voi keniani lasciate sempre che gli oyibo vi fottano! Eh! Non lo vedi il tuo vantaggio? Tu i bianchi li conosci, loro non sanno un cazzo di te. E invece sei ancora qui che perdi tempo, che porti avanti un’attività per conto di quel bianco. Ma quanto sei fesso! L’ho visto sulla rivista dell’aereo, tornando da Lagos col nuovo carico. Ha! Um-Shambalaa!”. A quel punto il gruppo ha attaccato con la canzone dei Kool and the Gang: “Let’s go dancing. Um-Shambalaa, disco dancing…”. “Devi pure ballare per Um-Shambalaa? Quanto ti dà? Noi ti stiamo ofrendo un guadagno serio, amico. Quattro ore, lasci entrare il nostro uomo, e ti ritrovi con abbastanza soldi da comprarti una discoteca tutta tua dove ballare ino all’alba per le tedesche, fratello”. Per un attimo Matano si chiede come mai l’afare vale tanto, poi si ricorda i numeri. Le migliaia di persone che si riuniscono sotto i baobab per ascoltare aneddoti sulle strane tribù degli alberghi. Il sistema a ciclo chiuso escogitato dai nigeriani per ridurre la pirateria. Tutti i video sono distribuiti lo stesso giorno in tutti i video hall. Nello stesso istante. E poi ci sono le stazioni

Non riesce a dormire. Il cuore le batte sordamente nel petto. Quando si gira sulla schiena, è come se un peso enorme la schiacciasse, spingendola dentro il letto

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La mattina è un’altra storia. Il sole sorgerà. Qualcuno riceverà una chiamata, Chicago tornerà fragorosamente nella vita di Prescott, lungo una linea telefonica

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radio che fanno pubblicità nei video. I politici che pagano per apparire durante gli intervalli. Le ong che pagano per promuovere l’uso del preservativo tra una scena di sesso e l’altra. Matano guarda il gruppo sul prato. Jean Paul ora sta ballando lentamente con (Ole Lenana) Otieno, che in una delle loro riunioni pomeridiane nel cortile sosterrà che il modo migliore per vendicarsi dei bianchi è fotterli. “Cosa dà più soddisfazione che trattare un uomo bianco come la tua puttana?”. Gli altri rideranno e gli daranno del porco. Si accerteranno che Fatima non li senta parlare. Ci tengono alla vita. Kamande si guarderà nervosamente alle spalle per controllare che sia impegnata altrove. Per cosa, pensa Matano? Cinquanta dollari? Magari un orologio? Cosa gliene frega a Jean Paul di come lo giudicano durante le sessioni di risate sotto i baobab? Chi ci farà caso tra i suoi simili, tra quelli che trasformano la magia in realtà? Chiama Abdullahi e dice: “Mandali qui, fratello. Manda il tizio, la porta sul retro è aperta”. Vede Prescott che cammina verso di lui. Si esibirà sul divano in casa di Um-Shambalaa. I drink sono già pronti, insieme all’erba. Le cameriere entrano ed escono e svaniscono quando comincia la baldoria. La mattina è un’altra storia. Il sole sorgerà. Qualcuno riceverà una chiamata, Chicago tornerà fragorosamente nella vita di Prescott, lungo una linea telefonica. Laverà via dal suo corpo l’odore di Matano, si siederà sul gabinetto e piangerà, ancora intrappolata nel pensiero del cavo elettrico crepitante. Jean Paul vedrà un mare di perline pacchiane per terra, tracce di tintura rossa sul cuscino, sentirà l’odore di iacca nudità sulle lenzuola. Sentirà che la mattina Lenana non fa parte di un’altra realtà. Vuole soldi, sta ascoltando Kiss Fm, si è spruzzato l’acqua di colonia di Jean Paul, prima di esaminare con una certa soddisfazione l’ombra proiettata dal suo pene. Nelle prossime settimane deve esercitare il suo tedesco. Presto, se tutto va come previsto, lo intervisteranno alla tv tedesca. Jean Paul vorrebbe solo che se ne andasse, e che la cameriera venisse a pulire ogni traccia della notte. Andrà a piazzarsi in spiaggia, cercando rifugio tra i bayou. Stasera vedrà la realtà di Um-Shambalaa solo attraverso una videocamera, per il loro programma Un mondo di culture. La mattina Fatima e la sua truppa di donne si spartiscono il bottino. Ole um-Shambalaa ha dato loro un bonus, per tenerle buone. Fatima non sopporta UmShambalaa, e non ha paura di mostrarlo: sa che non può fare a meno di lei. Nessuno sa gorgogliare in modo così convincente, e poi Kamande è lo chef migliore su quel lato dell’isola, e dato che ha quasi lo stesso nome del Kamante di Karen Blixen vale di più, perché può sciorinare aneddoti durante l’aperitivo. Fatima è riuscita a scucire trenta dollari a Jean Paul, minacciando di togliergli la camicia mentre ballavano. Tre dollari saranno uicialmente dichiarati ai mariti. Il resto inirà nella cassa comune segreta. In casa appariranno nuovi comfort, giustiicati in modo sbrigativo. Le rette scolastiche saranno misteriosamente pagate.

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“Ahi! Non ricordi? È stato un regalo di mama taldelle-tali, per averla aiutata in cucina quando i suoi parenti non c’erano”. Il gruzzolo cresce. Ogni tre mesi ognuna di loro riceve del denaro. Tra poco Khadija lascerà il marito. Fa la cameriera, e dopo il turno della mattina torna sempre con una serie di racconti degni di un medico legale: tintura rossa su un cuscino, Otieno che ha lo stesso odore del bagno di Jean Paul, e quand’è che Matano si deciderà a lasciar perdere le donne bianche? È decisamente ora di trovargli una moglie. Abdullahi ha sete. Sul traghetto c’è odore di gasolio vecchio. Ieri sera, dopo l’operazione da Um-Shambalaa, si è portato a letto una vecchia amante e ha dato il meglio di sé, in un tripudio di Abba, incenso e cocaina. Oggi si comprerà una macchina. I due professionisti al mattino saranno in piena forma: entrambi si sono trasformati prima dell’alba. Matano è uscito dalla stanza di Um-Shambalaa dopo aver accuratamente tolto alcuni capelli di Prescott dai suoi corti dread. È tornato nel cortile e si è steso sul suo kikoi a guardare l’alba e a contare le stelle, come faceva con sua madre quando lei cucinava in un altro cortile, a pochi chilometri da lì. Legge Dambudzo Marechera. Ole um-Shambalaa è nel suo piccolo aereo privato. Si è alzato alle quattro del mattino. Si è seduto sul suo gabinetto art déco Shanks e ha evacuato. L’alba lo sorprenderà a Laikipia, intento a parlare con gli anziani, a seguire le orme di un elefante, a chiacchierare con i giovani moran, a imparare nuovi trucchi. Visiterà la fabbrica, spiegherà agli anziani più avidi come possono guadagnarci, sborserà un pacco di soldi, quanto basta per comprare una o due capre. Chiamerà la sua nuova azienda “cooperativa per la tutela delle risorse”. La Cooperativa Maa. Tornerà al calar del sole, quando la penombra nasconde il colore della sua pelle, pronto per le riprese di Prescott. Stasera mostrerà ai due giornalisti i cimeli. Nel pomeriggio Abdullahi porta a Matano la videocassetta e la sua parte. Duecentomila scellini. Non bastano per comprare una discoteca, ma vanno comunque benissimo. Si piazzano nella sala tv dell’albergo, con parte del personale, e ridono, ridono, ridono dei gorgoglii laterali e dei dialoghi erotico-etilici. Per i prossimi mesi sarà il ilm più visto in tutti i video hall della costa. Venduto a ogni gestore, usando il sistema a ciclo chiuso antipirateria (come se a qualcuno potesse venire in mente di fregare i nigeriani), a cinque scellini a cassetta. Biglietti a dieci scellini l’uno, sesso, inte donne masai e “Um-Shambalaa, let’s go dancing”. Fanculo il copyright, siamo nigeriani. Qualcuno nella hall dell’albergo sta sbraitando, ubriaco. Sono arrivati i primi marine: la nave ha attraccato oggi, esercitazioni per l’Iraq. Matano sorride tra sé e incrocia lo sguardo di Abdullahi. Chi chiama i nigeriani? “Ehi, hai visto che belle tope al bar della piscina?”. “Voglio una stanza con vista mare, stronzo. Cazzo di terzo mondo. Ancora arabi di merda”. u


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ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI

ARIETE “C’è sempre un momento dell’infanzia in cui la porta si apre e lascia entrare il futuro”, ha detto lo scrittore Graham Greene. Io aggiungo: ci sono almeno tre momenti dell’età adulta in cui una nuova porta si apre e invita a entrare il resto del futuro. A giudicare dai presagi astrali, prevedo che per te uno di questi momenti si presenterà nel 2011. Cosa puoi fare per accelerare e incoraggiare l’invito del destino? Potresti, per esempio, arrenderti alla nuda verità di ciò che ami. TORO Se si consentisse alle compagnie petrolifere di trivellare nel National wildlife refuge dell’Artide, il petrolio estratto farebbe scendere il prezzo della benzina solo di un centesimo al litro. A mio avviso, non ne vale la pena. Considerala una metafora di avvertimento per il 2011, Toro. Non condividere la tua natura incontaminata e la tua profonda bellezza con sfruttatori che ofrono in cambio ricompense irrisorie. Cerca piuttosto di preservare le tue risorse per chi ti apprezza veramente e ti aiuta a prosperare con i suoi doni.

GEMELLI Freud ha detto che tra tutte le attività umane ci sono tre “professioni impossibili”, perché producono inevitabilmente risultati insoddisfacenti: l’educazione dei igli, il governo delle nazioni e la psicoanalisi. La mia esperienza personale non lo conferma del tutto. Credo di aver dato a mia iglia una buona educazione e, dei nove psicoterapeuti che ho consultato nella mia vita, nessuno ha mai fatto danni. Ma anche questi progetti relativamente vincenti sono stati pieni di enigmi irrisolvibili, frustrazioni croniche e incertezze esasperanti. Te ne parlo, Gemelli, perché penso che nel 2011 potrai ottenere molti più successi e gratiicazioni del solito nella tua versione delle “professioni impossibili”. CANCRO “Dobbiamo credere nel libero arbitrio. Non abbiamo alternative”, ha detto lo scrittore Isaac Bashevis Singer. Ti consiglio di adottare questa frase come tuo motto per il 2011, caro Cancerino. Secondo la mia lettura dei presagi astrali, sarà l’anno ideale per aumentare la nostra forza di volontà e intensiicare la nostra capacità di Internazionale 878 | 24 dicembre 2010

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Come sarà il nuovo anno secondo Rob Brezsny


Rob Brezsny

realizzare progetti, ma sempre con buon umore e senso dell’ironia. In efetti, uno dei modi migliori per controllare i nostri impulsi inconsci e i capricci del destino sarà non prendere troppo sul serio né noi stessi né tutto il resto. LEONE Il prossimo anno dovrai pensare in grande, più di quanto tu non abbia avuto il coraggio di fare negli ultimi dieci anni. Questo non signiica che dovrai essere temerario, spericolato o irrealistico. Al contrario. I tuoi sogni di grandezza dovranno essere attentamente studiati e ancorati alla comprensione dettagliata del funzionamento delle cose. Impara dall’errore di Snoop Dog, il rapper che aveva pensato di affittare l’intero territorio del Liechtenstein per girare un video musicale. Le autorità del paese si sono riiutate, ma solo perché Snoop Dog non glielo aveva chiesto con suiciente anticipo. Se si fosse organizzato meglio, tutto il paese avrebbe potuto essere suo. VERGINE Dieci anni fa, nell’Oregon, Don Wesson fermò il suo camion sul ciglio della strada e si portò a casa un sasso di 20 chili che aveva attirato la sua attenzione. Per anni lo ha usato insieme ad altre pietre per creare una barriera e impedire al suo cane di rovinargli il giardino. Poi ha visto un programma televisivo sui meteoriti e ha mostrato il sasso ad alcuni scienziati. Così ha scoperto che era un meteorite caduto sulla Terra 4,5 miliardi di anni fa e che proveniva dalla cintura degli asteroidi. Per il 2011 prevedo uno sviluppo metaforicamente simile nella tua vita: scoprirai un oggetto antico e prezioso che viene da lontano e che in un primo momento sottovaluterai. BILANCIA Richard Grossinger è un mio amico e maestro ed è il geniale autore di molti libri. È anche un umile adepto della grande arte della gratitudine. Sul suo sito ha una pagina in cui esprime il suo apprezzamento per i 71 migliori insegnanti che ha avuto nella vita. La sua è una testimonianza avvincente e commovente di come ciascuno di noi è il risultato di tutte le persone che ha amato e odiato. Compilare un elenco simile, secondo me, dovrebbe essere un rito di passaggio per chiunque aspiri a essere un autentico essere umano. Per te, Bilancia, il 2011 sarà il momento migliore per farlo. SCORPIONE “Appena ho scoperto il senso della vita”, ha detto il comico George Carlin, “l’hanno cambiato”. Spero che questa sarà una delle battute dalle quali trarrai ispirazione nel 2011, Scorpione. Se tutto va bene, non ti accontenterai più delle risposte che hai trovato inora alla domanda “qual è il senso della vita?”. E questa,

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secondo me, è un’ottima notizia. Avrai il privilegio di andare alla ricerca di nuove risposte per l’enigma di tutti i tempi! SAGITTARIO Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2011 Anno internazionale della chimica, per ricordare il ruolo che questa scienza svolge nella nostra vita. Nel frattempo, voi Sagittari celebrerete il vostro Anno della chimica personale, nel senso di attrazione naturale, collegamento spontaneo, fascino intuitivo e sincronicità inquietante. Non lasciare che questa abbondanza di grazia ti renda troppo sicuro di te e non startene lì seduto ad aspettare che arrivi. Cerca di essere un grande chimico, deciso a portare avanti solo gli esperimenti migliori. CAPRICORNO Ho trovato una frase che secondo me dovrebbe essere al centro delle tue meditazioni nel corso del 2011. È del giornalista David Brinkley: “Una persona di successo è quella che riesce a creare solide fondamenta con i mattoni che gli altri gli tirano addosso”. Nei prossimi mesi sarai più abile che mai nel capire quali di questi mattoni usare e come sistemarli. Non solo: avrai un intuito speciale per sfruttare al meglio non solo i mattoni che ti hanno colpito di recente, ma anche quelli che ti sono arrivati in altri momenti della tua vita. ACQUARIO La città di Stoccolma, in Svezia, è composta da 14 isole unite da più di 50 ponti. È un posto pulito e ricco di cultura, considerato uno dei migliori centri urbani del mondo. Spero che l’anno prossimo svilupperai una certa somiglianza con Stoccolma. Con un po’ di fortuna e la chiara intenzione di stringere legami nuovi e solidi, collegherai le molte zone frammentate della tua vita, creando una rete uniicata per fare in modo che ogni parte sia in sintonia con il tutto. Anzi, deinirei il 2011 il tuo Anno della costruzione di ponti. PESCI A 19 anni volevo diventare un poeta. Il mio obiettivo era scrivere una poesia al giorno per tutta la vita, ma non avevo l’ambizione di pubblicare un libro. Ero contento di crogiolarmi nell’estatica epifania che accompagnava ogni nuova eruzione poetica. Poi, un giorno, ho visto un volantino che annunciava un reading di poesie. C’erano tutti i poeti importanti della città tranne me. Fui sorpreso e ferito. Perché mi avevano lasciato fuori? Alla ine ho capito il motivo: tutti gli altri avevano scritto un libro. Da quel momento in poi sono stato ossessionato dall’idea di pubblicare il mio primo volume. Un anno dopo, e dopo molto duro lavoro, ce l’ho fatta. Mi piacerebbe vederti sperimentare qualcosa di simile nel 2011, Pesci: una scossa benigna che ti spinga a passare al livello successivo.


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L’anno del New Yorker

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SIPrESS

“Sono dieci anni che non dici niente. Tutto bene?”.

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“Eviti la luce diretta”.

“Posso spiegare tutto”.

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zIEglEr

“l’esperimento con gli umani è durato abbastanza. Diamo il controllo agli ippopotami”.

“Dannazione Hopkins, non ha ricevuto la circolare?”.

Le regole Capodanno all’estero 1 Se parti il 31, metti in conto la possibilità della mezzanotte in aeroporto. 2 non è il paese che conta, ma la festa a cui vai. 3 non farti trovare impreparato: metti in valigia trombette e cappellini. 4 non sei andato in lì per twittare: a mezzanotte bacia qualcuno. 5 Cerchi il brivido di un capodanno diverso? Vai a dormire alle dieci e mezzo e assapora la libertà. regole@internazionale.it

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Ph Fastmsf - Post production Thomas Lavezzari

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