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21/27 gennaio 2011 • Numero 881 • Anno 18 “Se le parole cadono in rovina, cosa prenderà il loro posto?”

Sommario iN copertiNA

12 La Tunisia brucia El País

Radar NOMa BaR

che fanno tremare Berlusconi The New York Times AfricA e medio orieNte

22 Il Libano ha paura

reportAge

Americhe

26 Haiti fa i conti

28 L’estrema destra

di Vivian Maier Le foto di Vivian Maier

cultura 72

ritrAtti

62 Asma al Ghoul Ribelle a Gaza Mother Jones

Le opinioni 23 27

Yoani Sánchez

sull’oceano Financial Times

30

Rami Khouri

33

David Randall

74

Gofredo Foi

76

Giuliano Milani

78

Pier Andrea Canei

grAphic JourNAlism

68 Cartoline

da Beirut Gianluca Costantini Arte

70 Follie all’asta

Amira Hass

80

Christian Caujolle

86

Tullio De Mauro

89

Anahad O’Connor

93

Tito Boeri

The Economist

le rubriche

pop

82 Parole 85

Cinema, libri, musica, video, arte

viAggi

64 La veranda

34 La nuova guerra è su internet The New Yorker

statunitensi rischiano di fallire The Wall Street Journal

portfolio

francese si aida a Marine Le Pen Le Monde iNchiestA

92 Gli enti locali

56 Alla scoperta

con Baby Doc El País europA

Intelligent Life

90 Il diario della Terra ecoNomiA e lAvoro

alla Mecca Die Zeit

AsiA e pAcifico

d’oro di Pechino in Birmania The Irrawaddy

88 Salvatori di lingue

48 Due donne

ma vuole la pace The Independent

24 Gli investimenti

scieNZA e tecNologiA

di riuniicazione Asia Times

visti dAgli Altri

18 Le ragazze Un giorno qualunque come sabato scorso, 15 gennaio 2011, uno dei più importanti quotidiani italiani conteneva nelle prime 27 pagine, quelle che comprendono la politica, gli esteri, la cronaca e la società, otto notizie in tutto. Una di politica (Ruby), una di economia (Fiat), una di esteri (la Tunisia), tre di cronaca (beatiicazione di Wojtyla, malasanità a Palermo, immigrazione a Milano), due di società (guerra ai fannulloni, sacchetti di plastica). Punto. Otto notizie: il giorno prima, in Italia e nel mondo non era successo nient’altro di così importante da meritare di essere raccontato ai lettori. È solo un esempio, perché lo stesso discorso vale per tanti mezzi d’informazione, anche all’estero. La riduzione del numero di notizie, e con loro la riduzione del numero di foto, di immagini, di voci, è un processo legato alla spettacolarizzazione dell’attualità quotidiana ma anche ai tagli nei giornali, nelle agenzie, nelle televisioni. I giornalisti rimasti inseguono tutti le stesse notizie, parlano solo delle stesse persone, raccontano sempre gli stessi paesi. Non che non siano importanti, ma sono diventati gli unici. Il resto del mondo è scomparso dal radar. Giovanni De Mauro settimana@internazionale.it

coreA

42 Tanta voglia

Tony Judt Buon compleanno Wikipedia Clay Shirky

11

Editoriali

96

Strisce

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L’oroscopo

98

L’ultima

le principali fonti di questo numero Asia Times È una rivista online di attualità asiatica con sede a Hong Kong e a Bangkok. L’articolo a pagina 42 è uscito il 23 dicembre 2010 con il titolo The most dangerous man in Korea. Mother Jones È un bimestrale statunitense che dà ampio spazio al giornalismo investigativo. L’articolo a pagina 62 è uscito a dicembre del 2010 con il titolo Sorry, Hamas, I’m wearing blue jeans. The New Yorker È un settimanale newyorchese di attualità e cultura. L’articolo a pagina 34 è uscito il 1 novembre 2010 con il titolo The online threat. El País È un autorevole quotidiano spagnolo. L’articolo a pagina 12 è uscito il 18 gennaio 2011 con il titolo La lección de Túnez. Die Zeit È un settimanale tedesco di centrosinistra. Fondato nel febbraio del 1946, si occupa di politica, economia, cultura e società. L’articolo a pagina 48 è uscito il 5 gennaio 2011 con il titolo Einmal Glaube und zurück. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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internazionale.it/sommario

La settimana

toNy Judt, pAgiNA



Immagini Sotto il fango

Teresópolis, Brasile 18 gennaio 2011 Una zona a cento chilometri da Rio de Janeiro colpita dalle frane e dalle piogge torrenziali dell’ultima settimana. Le vittime sono piÚ di settecento. Nel disastro hanno perso la casa oltre tredicimila persone. Il governo ha mandato ottocento soldati, ottomila pacchi di aiuti alimentari e sette tonnellate di medicine nelle aree piÚ colpite. Mentre gli elicotteri sorvolano la regione alla ricerca di superstiti, i soldati allestiscono ponti mobili per permettere ai mezzi pesanti di passare e rimuovere tonnellate di fango e macerie. Foto di Vanderlei Almeida (Afp/Getty Images)


Immagini Sogni di libertà Terekeka, Sudan 18 gennaio 2011

Un allevamento della tribù di pastori Mundari nel Sud Sudan, la regione che dal 9 al 15 gennaio ha votato per l’indipendenza da Karthoum. I risultati preliminari del referendum indicano una vittoria del sì: nella capitale Juba ha votato a favore il 97,5 per cento degli elettori. Se i risultati deinitivi confermeranno questo esito, si aprirà una fase di transizione che dovrebbe portare alla proclamazione ufficiale dell’indipendenza il prossimo luglio. Foto di Goran Tomasevic (Reuters/Contrasto)



Immagini Paure arabe

Sharm el Sheikh, Egitto 18 gennaio 2011 Soldati egiziani a Sharm el Sheikh, dove il 19 gennaio si è svolto il summit economico della Lega araba. Durante la riunione, i leader dei 22 paesi membri dell’organizzazione hanno discusso della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Ben Ali in Tunisia e del rischio di un effetto domino negli altri stati della regione. Foto di Amr Nabil (Ap/Lapresse)



Posta@internazionale.it Datevi da fare ◆ Caro Federico Gerin (14 gennaio), cari laureati, cervelli in fuga e ricercatori di ogni dove: mi avete proprio rotto i cabasisi! Sono anni che vi leggo piangervi addosso, di quanto siate tristi a Parigi, negli States o a Busto Arsizio dopo una vita passata a studiare materie che non vi hanno dato sbocchi. Ho 42 anni, ho cominciato a lavorare a 14 nel mondo dei motori, non per passione ma perché la mia famiglia non aveva i mezzi per farmi studiare. E non crediate che i mezzi siano solo quelli economici, sono anche culturali. In una casa dove il padre ha la quinta elementare e non sa neppure aiutarti con le frazioni e la madre con la seconda media non ha mai visto un congiuntivo, tu, ragazzino, che fai, pensi al liceo? Quando poi cominci a capire l’importanza di una base teorica ti iscrivi al serale, e la cultura te la porti a casa dopo otto ore di oicina. Avrei fatto veterinaria, ma non rimpiango nulla: ho aggiustato camion e Rolls, utilitarie e macchine da competizione, auto d’epoca e moto da corsa, qualche soddisfazione me la so-

no tolta. Ma compiango voi, che almeno l’opportunità di studiare con il culo al caldo l’avete avuta. Che potete permettervi il lusso di lasciare questa nazione di Scilipoti ma non riuscite a fare a meno di piangervi addosso. Smettetela di commiserarvi e datevi da fare, ce n’è bisogno. Fabio Zanaglia

Gli amici di Hessel ◆ Ho conosciuto Stéphane Hessel nel 2007, a Marsiglia. Ero in città per il centenario della nascita di Varian Fry, uno studioso e giornalista americano, che nel 1940 si è reso protagonista di uno dei più clamorosi salvataggi di artisti e intellettuali perseguitati del ventesimo secolo. Fry fu aiutato anche da Stéphane Hessel per organizzare un’associazione umanitaria, che da Marsiglia, tra il 1940 e il 1941, riuscì a far espatriare verso gli Stati Uniti decine di artisti e intellettuali. Pittori, scrittori e pensatori del calibro di Chagall, André Breton, Heinrich Mann, Albert Otto Hirschmann si sottrassero alle persecuzioni naziste grazie anche al lavoro di Hessel. Paolo Macrì

Confusi dal nebbiolo ◆ Nell’articolo Viaggio nell’Italia che insegue la modernità (14 gennaio) leggo che un unico vitigno, il nebbiolo, dà luogo a vini conosciuti in tutto il mondo: barolo, barbaresco, barbera, gavi, roero arneis. La barbera è un’uva, un’altra famiglia rispetto al Nebbiolo. Il gavi è un bianco secco famoso, viniicato esclusivamente con uva cortese. Roero arneis? No, l’arneis è un’uva autoctona piemontese a bacca bianca. Inoltre Marchesi di Barolo non ha tre distributori italiani in Cina, bensì un’esclusiva azienda di distribuzione, Amore wines, presieduta da due ragazzi romagnoli che a loro volta “se la cavano senza la politica”. Fabio Grasselli

sempre stati singoli individui: oggi il mondo non è migliore né peggiore di quello passato. Tienilo presente quando cerchi qualcuno in grado di capire tutto questo. Ma, soprattutto, pensa che ognuno di noi ha il suo rilesso nello specchio, qualcuno che ama le stesse cose che amiamo noi e conta i giorni che ci separano dal nostro incontro. Il lieto ine non esiste solo nei libri e nei ilm. ◆ it Milana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indirizzo milana@internazionale.it

Tim Harford risponde alle domande dei lettori del Financial Times.

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Vuoto generazionale

Succede anche a me. Leggo i classici, guardo i vecchi ilm e mi sento sola. Ma l’esperienza m’insegna che sono tante le persone non ancora troppo dipendenti da quei noiosi e tristi divertimenti del mondo moderno. Non è facile trovarle, ma quando ci si riesce la soddisfazione è grande. Forse faresti meglio a cercare tra quelli più grandi di te.

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Ma non è detto. Quelli interessati solo alle mode del momento sono sempre esistiti, così come quelli che continuano a vivere nel loro mondo fantastico fatto di libri, ilm, quadri. Riusciranno i divertimenti supericiali, in agguato ovunque, a distogliere le persone da bellissime e antiche conoscenze nascoste nelle poesie, nei romanzi e nelle opere teatrali? A volte mi sembra che il mondo sia in via d’estinzione, minacciato dall’oblio di tutte le cose importanti. Ma i portatori delle vere conoscenze sono

Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

Economia dell’orgasmo

Amo il mio partner, ma non sempre riesce a soddisfarmi a letto e a volte ingo l’orgasmo. Sbaglio? – Ms C.H., Nottinghamshire Secondo il dottorando in economia Hugo Mialon dovresti analizzare la questione come una serie di segnali reciproci. Hai due scelte: ingere o essere onesta quando le cose non vanno. Quando fai vedere che ti piace, anche il tuo partner ha due scelte: crederti oppure no. Questa strategia dipende dall’intensità del tuo amore e da quanto riesci comunque a godertela. Fattori che secondo Mialon dipendono dall’età. Più lo ami e più sei lontana dai trenta (età in cui il tuo partner si aspetta che la tua capacità di avere un orgasmo sia al massimo), più dovresti ingere. Confesso che il ragionamento è piuttosto complicato. Ne ho parlato con mia moglie, ma non è servito a molto. Alla ine ho capito che nel modello di Mialon l’orgasmo è esogeno. Non basta che i soggetti coinvolti facciano il possibile. Questa è una grave lacuna, dato che ingere impedisce al tuo partner di avere i riscontri di cui ha bisogno per migliorare. Per questo ho costruito il mio modello economico sull’argomento. Intanto, smetti di simulare l’orgasmo e accertati che il tuo partner non imbrogli nei preliminari.

Cara Milana

Cara Milana, leggo grandi classici, guardo vecchi ilm e odio la tv. Non ho legami culturali con i miei coetanei. Come lo spieghi?

Caro economista


Editoriali “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra ilosoia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Comitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor) In redazione Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara Esposito Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Sara Bani, Giuseppina Cavallo, Catherinet, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Nazzareno Mataldi, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Francesca Spinelli, Ivana Telebak, Bruna Tortorella, Stefano Valenti, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Alessia Cerantola, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Jamila Mascat, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Andreana Saint Amour, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader Zemouri Editore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo Storto Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editoriale Tel. 06 809 1271, 06 80660287 info@ame-online.it Subconcessionaria Download Pubblicità S.r.l. Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commercialeCondividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: posta@internazionale.it

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Illegittimi impedimenti El País, Spagna La corte costituzionale italiana ha bocciato in parte la legge sul legittimo impedimento, una delle ultime trovate giuridiche con cui Silvio Berlusconi aveva tentato di sottrarsi ai processi. Nella sentenza della consulta alcune norme contenute nel provvedimento sono considerate illegittime e altre vengono semplicemente interpretate, ma sempre nel senso di limitare le prerogative dell’esecutivo. Quindi il capo del governo non potrà concedersi periodi d’immunità di sei mesi rinnovabili. E inoltre saranno i giudici a stabilire, volta per volta, se gli impegni del premier costituiscano una motivazione suiciente per cambiare la data delle udienze. A prima vista la lettura della sentenza conferma che nell’Italia di Berlusconi anche le pretese più assurde possono diventare norme, e la consulta si è quindi limitata a ricordarci cose ovvie. Ma lo stato di diritto non è uscito indenne dalle pressioni a cui è sottoposto da quando sono cominciati i guai del premier con la giustizia. Berlusconi, infatti, non si è accontentato di ostacolare il funzionamento delle istituzioni, ma ha tentato di stravolgerne la natura attraverso leggi che forzano l’equilibrio tra i poteri. Con un particolare

decisivo: i privilegi accordati al governo non servono ad agevolare la sua attività, ma a sollevare il premier da eventuali responsabilità penali per fatti commessi in passato ed estranei ai suoi compiti istituzionali. Il giorno dopo la sentenza della corte costituzionale sul legittimo impedimento, è scoppiato l’ultimo (almeno per ora) scandalo legato ai rapporti del premier con delle prostitute. La procura di Milano ha annunciato l’apertura di una nuova indagine su Berlusconi, accusato stavolta di concussione e di prostituzione minorile. Il riferimento è al caso di una giovane marocchina, fuggita da un centro di accoglienza per minorenni e poi ingaggiata per alcuni festini nelle residenze del premier. A una di queste feste avrebbe partecipato anche Vladimir Putin. Intercedendo a favore della ragazza presso la polizia, Berlusconi l’avrebbe falsamente presentata come parente del presidente egiziano Hosni Mubarak. Il degrado della vita politica italiana è giunto a livelli tali che né i problemi giudiziari né gli scandali sembrano far traballare la poltrona del presidente del consiglio. Intanto il resto del mondo osserva sbalordito. u ma

Quello che il clima ci dice The Independent, Gran Bretagna Le imponenti alluvioni in Australia hanno eclissato i disastri avvenuti in Sri Lanka, dove un milione di persone hanno perso la casa, e in Brasile, dove le più forti piogge degli ultimi venticinque anni hanno colpito migliaia di persone e ne hanno uccise più di 700. Questo ci dice qualcosa sulla tendenza alla discriminazione dei mezzi d’informazione occidentali. E rivela anche qualcosa di più. Il movimento di venti e masse d’acqua noto come La Niña è probabilmente la causa immediata delle inondazioni, dal Queensland allo Sri Lanka passando per le Filippine. Ma La Niña potrebbe non essere l’unico fattore comune. Il 2010 è stato un anno particolarmente estremo, caratterizzato da tempeste di neve da record in Europa e negli Stati Uniti, da un’ondata di caldo senza precedenti in Russia e da inondazioni in tutto il mondo, dal Pakistan al Tennessee. Questa settimana in Sri Lanka la temperatura è scesa al livello più basso degli ultimi 61 anni. La nostra percezione del tempo atmosferico è alterata dall’esperienza personale. Il dicembre

del 2010, nonostante l’eccezionale nevicata in Gran Bretagna, è stato uno dei più secchi mai registrati. Il tempo e il clima non sono la stessa cosa. Secondo due grandi osservatori statunitensi delle condizioni atmosferiche globali, il 2010 è stato l’anno più caldo e umido mai registrato. Per il 34° anno di ila le temperature sono state superiori alla media del ventesimo secolo. Dal 1976 non c’è stato nessun anno al di sotto della media. Delle dieci annate più calde mai registrate, nove appartengono al decennio appena inito. Più farà caldo e più il tempo sarà imprevedibile. Da decenni la Terra si sta riscaldando. Quasi tutti i climatologi pensano che dipenda dai gas prodotti dall’attività umana che intrappolano il calore nell’atmosfera. La quantità di anidride carbonica che rilasciamo è quasi raddoppiata dalla rivoluzione industriale. Gli scettici insistono che non c’è una prova certa del rapporto diretto tra l’aumento di CO2 e il cambiamento climatico. Ma quando avremo la prova deinitiva sarà troppo tardi e non ci sarà più molto da fare. u as Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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In copertina

La Tunisia brucia Sami Naïr, El País, Spagna

L

a Tunisia ha appena vissuto una doppia rivolta, ma non è ancora una rivoluzione. Una rivolta popolare e una rivolta di palazzo nella cerchia del presidente Zine el Abidine Ben Ali. La ribellione popolare è cominciata il 17 dicembre quando Mohamed Bouazizi, 26 anni, si è dato fuoco a Sidi Bouzid per esprimere la sua disperazione di fronte alle ingiustizie sociali del paese. L’episodio ha causato un’ondata di sdegno che si è trasformata in una marea di proteste. Da una decina d’anni, infatti, i poveri in Tunisia vivono in condizioni terribili. Il potere di Ben Ali si basava su tre fattori. Il primo era il sostegno della classe me-

Da sapere ◆ Venerdì 14 gennaio, dopo quasi un mese di dure proteste della popolazione, il presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali è fuggito in Arabia Saudita. Il 17 gennaio il primo ministro Mohammed Ghannouchi ha annunciato il nuovo governo di unità nazionale, a cui partecipano anche gli esponenti dell’opposizione e un blogger. Il 18 gennaio quattro ministri (di cui tre del potente sindacato Ugtt) si sono ritirati dal governo, mentre nel paese sono scoppiate nuove proteste. Secondo l’Onu, le vittime degli scontri cominciati il 17 dicembre 2010 sono più di cento.

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Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

dia, relativamente integrata, che però negli ultimi anni ha visto peggiorare la propria situazione. Il potere ha cambiato base, fondendosi con i circoli degli speculatori e sprofondando in una corruzione familiare di stampo maioso. La moglie del presidente e la sua famiglia, i Trabelsi, si sono impossessate di tutto ciò che aveva un minimo valore, con il beneplacito del presidente. Il potere si sosteneva anche grazie all’apparato composto dai dirigenti e dai militanti del Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd), il partito di governo, che controllava tutti gli ingranaggi e il sistema di corruzione nel paese. Una specie di milizia dall’impunità garantita, che sorvegliava la popolazione servendosi di delatori e spesso usava il carcere e le torture contro gli oppositori. Inine ci sono la polizia e la guardia nazionale che Ben Ali, ex ministro dell’interno, teneva sotto controllo. Negli ultimi ventitré anni l’esercito si è indebolito perché Ben Ali ne ha sempre avuto paura. Tunisi, considerati i frequenti colpi di stato militari in Africa, ha voluto un esercito con poco potere, dando la priorità alla polizia e alla guardia nazionale, che sono diventate i principali strumenti di repressione. Di fatto la polizia, insieme a una parte delle milizie dell’Rcd, è la principale responsabile delle violenze e degli omicidi degli ultimi giorni. La svolta è avvenuta grazie a un fenomeno collettivo straordinariamente potente:

GABRIeLe MIcALIZZI (ceSURALAB/LUZPhOTO) (2)

Dopo un mese di rivolte, i tunisini hanno messo in fuga il dittatore Zine el Abidine Ben Ali. Le proteste popolari si difondono in tutta la regione. I commenti degli intellettuali e dei giornali arabi

la scomparsa della paura. Perché? Per diverse ragioni, ma soprattutto perché il potere non ha saputo reagire al suicidio di Bouazizi. Facendo visita alla famiglia del martire, il presidente è sceso personalmente in prima linea. Ofrendo denaro ai genitori per la morte del ragazzo, ha aggiunto l’umiliazione. Ben Ali voleva dimostrare di essere una persona compassionevole, ma in realtà


Tunisi, 18 gennaio 2011

del regime, l’esercito si è vendicato della polizia, che si è dimostrata incapace di guidare la repressione per due ragioni: da una parte perché il sindacato Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt) si è schierato con la popolazione; dall’altra perché molti uiciali, sostenuti dai soldati in servizio che in varie occasioni si sono riiutati di aprire il fuoco sui dimostranti, hanno fatto capire a Ben Ali che non erano più disposti a difenderlo. Al presidente è rimasta solo una via d’uscita: la fuga.

La diicile transizione

Tunisi, 18 gennaio 2011 ha dimostrato di avere paura. A partire da quel momento la paura ha cambiato versante, passando dalla popolazione al capo. Ben Ali ha cominciato a licenziare i ministri e a fare promesse, ma niente poteva fermare la ribellione del popolo, ormai consapevole del fatto che lo stato non era forte come sembrava. Ogni nuova vittima della repressione ha alimentato le proteste. All’interno

L’opposizione, legale o illegale, non ha avuto nessun ruolo. Allo stesso modo, nelle manifestazioni non si è vista neanche una bandiera verde, simbolo dell’islam. Ma non durerà. Ben Ali è stato sostituito dal primo ministro Mohammed Ghannouchi, suo ex collaboratore. E qui cominciano le diicoltà. Gli alleati di Ben Ali temono la vendetta popolare e hanno deciso di fare terra bruciata, soprattutto nei quartieri borghesi e benestanti, per terrorizzare gli abitanti e rompere l’alleanza tra la classe media e il popolo. Negli ultimi giorni ci sono state decine di morti. Si sta difondendo un caos che favorisce chi è al potere: il nuovo presidente ha promesso di convocare le elezioni entro sei mesi, un periodo molto lungo, che lascia presagire manovre pericolose. Le prospettive per il futuro rimarranno solo delle ipotesi ino a quando non sarà riorganizzata la polizia e l’esercito non si pronuncerà con chiarezza a favore dell’ordine repubblicano. Inoltre sarà necessario mettere in riga le milizie dell’Rcd, formate da persone per cui l’appartenenza al partito era l’unico strumento di ascesa sociale. I tunisini oggi afrontano una transizione verso una rivoluzione democratica e repubblicana, e questa è la cosa più diicile, perché il movimento popolare non ha una leadership riconosciuta né un programma. Si apre una nuova fase. I tunisini hanno dimostrato, con forza e dignità, che è possibile vincere l’oppressione. Sono anche riusciti, forse, a fare in modo che il mondo arabo condivida la stessa storia dei popoli dell’America Latina e dell’Europa dell’est del secolo scorso, che hanno conquistato con grandi sacriici il loro diritto alla libertà di espressione. Quella di Tunisi è una lezione straordinaria. u sb Sami Naïr è un ilosofo francoalgerino che vive e insegna in Francia.

L’opinione

La prima rivoluzione Mona Eltahawy, The Guardian, Gran Bretagna

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egli ultimi 58 anni l’Egitto ha festeggiato la “rivoluzione di luglio” con cui fu rovesciato re Faruq e si pose ine all’occupazione britannica. In realtà, non fu una rivoluzione ma un colpo di stato dell’esercito. Possiamo dire lo stesso di una serie di “rivoluzioni” avvenute nel mondo arabo, guidate da militari che hanno governato in abiti civili, negando a intere generazioni il vero signiicato della parola rivoluzione. Per anni ho invidiato gli iraniani, non per l’esito della rivoluzione del 1979, ma perché era una rivolta popolare e non un eufemismo per indicare un colpo di stato. La fuga di Ben Ali, il 14 gennaio 2011, ha signiicato molto per me, come per milioni di arabi: i 29 giorni di rivolta popolare in Tunisia sono stati una vera rivoluzione. È stata la prima volta in cui gli arabi hanno rovesciato un dittatore. Non abbiamo idea di cosa verrà dopo, ma è certo che i leader arabi osservano con sgomento quello che è successo in Tunisia e tifano per il fallimento della rivoluzione. Alcuni paesi hanno ignorato la situazione: nessuna dichiarazione uiciale da Algeri e da Rabat. Altri, come l’Egitto, hanno detto di rispettare la volontà dei tunisini, ma la stampa ilogovernativa ha pubblicato articoli in cui sottolineava che la situazione egiziana è diversa da quella tunisina. Muammar Gheddai, il dittatore libico, è stato quello che ha illustrato meglio i timori dei leader arabi. Il suo discorso ai tunisini può essere riassunto così: ho paura di quello che è successo nel vostro paese. u sv Mona Eltahawy è una giornalista egiziana che vive a New York. Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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In copertina L’opinione

Tunisi, 18 gennaio 2011

El Houssine Majdoubi, El País, Spagna

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cittadini del mondo arabo seguono con entusiasmo quello che è successo in tunisia e si chiedono quale sarà il futuro dei regimi della regione dopo il rovesciamento del presidente Ben Ali, cacciato a causa delle ingiustizie politiche e sociali che hanno accompagnato il suo governo per più di vent’anni. Questa rivoluzione sottolinea il ruolo fondamentale delle nuove tecnologie nella mobilitazione popolare nonché il ruolo odioso svolto dall’occidente con il suo sostegno incondizionato a dittature medievali. Nonostante tutto quello che è successo negli ultimi tempi, l’occidente continua a difenderle. Finché Ben Ali non è stato rovesciato l’occidente ha continuato a considerarlo uno “studente modello”. per tutto il mese delle proteste i leader occidentali, con l’eccezione degli stati uniti, hanno mantenuto un silenzio sospetto. la ministra degli esteri francese Michèle Alliot-Marie ha perino oferto la sua consulenza al regime per mettere ine alle proteste. spinta dalla Francia, l’unione europea fa pressioni sui presidenti della costa d’Avorio, del sudan e dell’Iran, ma mantiene il silenzio su quello che succede nel mondo arabo, in particolare nel Maghreb. se l’occidente ha svolto un ruolo chiave nella democratizzazione dei paesi dell’europa dell’est, ora fa il contrario con i paesi arabi. Non solo sostiene le dittature, ma permette il saccheggio della ricchezza di questi popoli consentendo ai regimi di aprire conti bancari per depositare quello che hanno rubato e autorizzandoli a comprare immobili e azioni di grandi aziende europee. Inine, l’occidente dice di lottare contro il radicalismo islamico e il terrorismo, ma i sociologi dimostrano che il fanatismo è il risultato dell’ingiustizia sociale e della corruzione di regimi come quello tunisino. u sb El Houssine Majdoubi è un giornalista marocchino, corrispondente del quotidiano panarabo Al Quds al Arabi a Madrid.

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GABrIele MIcAlIzzI (cesurAlAB/luzphoto)

Le colpe dell’occidente

Chi ha piantato il seme della rivolta Taouik Ben Brik, Libération, Francia Anche sotto il regime di Ben Ali c’erano persone che sidavano l’autorità per ottenere il rispetto dei diritti civili. Finalmente l’opposizione può uscire allo scoperto

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n questi giorni la guardia bianca moltiplica i suoi sforzi. stato d’assedio, insediamento delle ombre di zine el Abidine Ben Ali, milizie dell’ex presidente in assetto di guerra, la complicità dell’opposizione fantoccio, l’aiuto di un alleato importante, Al Jazeera, che non fa distinzione tra i veri oppositori e gli ex collaboratori di Ben Ali. Ma chi ha percorso le strade negli anni infuocati non permetterà alla guardia bianca di avanzare. Il 14 gennaio la vittoria della tunisia militante è stata evidente su tutti i fronti. Il paese è diventato per uno strano incantesimo un’immagine planetaria, un commento, un racconto scritto in tutte le lingue. Ben Ali, sul podio dei tiranni deposti, riceve la sua medaglia d’oro, battendo ceausescu e lo scià iraniano. la vittoria è stata totale e inequivocabile.

Fin dalla sua ascesa al potere nel 1987, Ben Ali ha imposto l’omertà e la legge del silenzio. I mezzi d’informazione, le notizie, lo stesso pensiero erano stati cancellati: stampa, radio, tv, libri, teatro, cinema, musica, feste, raduni, manifestazioni di strada. tutte le connessioni sociali – i tradizionali ampliicatori della vox populi (sindacati, associazioni, partiti politici, associazioni professionali, moschee) – erano state interrotte. se qualcuno veniva torturato in un commissariato di polizia o in una prefettura, se scoppiava una rivolta per l’aumento del prezzo del pane o se c’era uno sciopero nelle miniere del nordovest, ne sentivamo parlare dieci anni dopo. eravamo isolati in gabbie a compartimenti stagni in cui non trapelavano luci né suoni. Nel frattempo Ben Ali aveva creato una formidabile macchina di propaganda: gruppi di pressione, una polizia delle idee e agenti con il compito di ripulire la sua immagine. tutte le notizie erano cucinate a palazzo: i treni che arrivano in orario, il banchiere che morde il cane, il bambino che sta morendo in un pozzo. era tutto bello e armonioso nella terra dell’Architetto del cambiamento. All’inizio la resistenza, disperatamente


fragile, avanzava a tentoni, ristagnava, si mordeva la coda. Ma davanti all’arsenale di Ben Ali, alcuni hanno cominciato a usare come armi samizdat, opuscoli, graiti, giornali murali, petizioni, una valanga di umorismo e fotocopie nascoste nel cappotto. Negli anni della brace, il benalismo era un serpente a due teste: la propaganda e la pistola. Una minoranza di disperati con alleati che contano (mezzi d’informazione e organizzazioni internazionali) hanno lanciato un’ofensiva, durata ventitré anni, per mettere a tacere la propaganda che ritraeva la Tunisia come un paradiso turistico, una vera oasi di pace, dove non esistevano la tortura, le esecuzioni sommarie, le detenzioni arbitrarie. E tra questi disperati non c’erano sicuramente i giornalisti di Al Jazeera.

Assalto al fortino Quelli che alzavano la testa e chiedevano di esercitare i loro diritti erano solo poche decine. E quando Ben Ali ha dominato su tutti i fronti negli anni novanta, schiacciando gli islamisti e facendo man bassa di partiti e associazioni, quando tutti gli intellettuali si sono arresi accettando di diventare suoi consulenti, a Tunisi è rimasto solo qualche movimento esilissimo. Quasi nulla, ma non nulla. Le persone che hanno svegliato la Tunisia dal letargo hanno usato come armi petizioni e proclami, sapendo che sarebbero stati perseguitati. Moncef Marzouki, leader del Congresso per la repubblica (partito d’opposizione al bando), il giornalista Oum Zied, il sindacalista Laabidi Kamel e molti altri ancora hanno agitato le notti del padrone di Cartagine. Un fatto noto a tutti, tranne che ad Al Jazeera, ovviamente. L’isolamento, l’individualismo, il fatalismo appaiono come imperativi della sopravvivenza di un popolo il cui orizzonte si riassume da anni nei sinistri furgoni della polizia che scorazzano per la capitale. Nel 2000 Ben Ali ha dovuto afrontare due rivolte: quella contro l’aumento dei prezzi del pane nel mese di febbraio e quelle studentesche ad aprile. Le stesse persone hanno festeggiato dieci anni dopo, a modo loro, assaltando il fortino con una tattica sioux, creando sacche di libertà. Una libertà che tv come Al Jazeera continuano a mettere in relazione con un futuro incerto. u sv Taouik Ben Brik è un oppositore e giornalista tunisino. Nel 2009 è stato condannato a sei mesi di prigione.

L’opinione

Le distanze si accorciano Abdelwahab Meddeb, Le Monde, Francia La rivoluzione tunisina è un segno dei cambiamenti sempre più rapidi della storia dovuti alle nuove tecnologie

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he incredibile accelerazione della storia! Dal sacriicio di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre alla fuga di Ben Ali il 14 gennaio non è passato neanche un mese. Questi eventi inaspettati ci mostrano, in modo del tutto inaspettato, la realizzazione del desiderio di un intero popolo sulla scena della storia. Questa sequenza di eventi ha avuto un carattere locale e giovanile. È una rivoluzione che si è fatta soprattutto grazie a internet, alla generazione informatica e alla blogosfera. E la rapidità con cui è avvenuta è in stretto rapporto con la velocità e l’istantaneità dello strumento. Con la “rivoluzione dei gelsomini” abbiamo una nuova espressione del tempo nella storia, che sarà inluenzata dalla condensazione prodotta dal cambiamento delle coordinate spaziali e temporali. Abbiamo vissuto una sequenza storica che in un attimo ci ha fatto conoscere l’ignoto e ha ridotto le distanze. Internet è uno strumento neutro, da cui può scaturire il meglio o il peggio, a seconda della volontà dell’utente. Ed è proprio dal mondo islamico che negli ultimi dieci anni sono arrivati i due eventi che simboleggiano il meglio e il peggio, la civiltà e la barbarie. Il peggio è stato l’11 settembre 2001, quando la tecnica ha partorito l’abominevole attentato di Al Qaeda. Il meglio si è concretizzato pochi giorni fa davanti ai nostri occhi stupiti, che hanno visto la caduta di un dittatore, in una regione considerata refrattaria alla democrazia. Nonostante i difetti, le carenze e le perversioni, la democrazia è l’unico sistema accettabile per una

convivenza in grado di dare forma alla polifonia, al dibattito, alla contestazione, al confronto dell’amico con il nemico senza il ricorso alle armi, alla garanzia legale dell’integrità del corpo, della coscienza e della libertà di goderne in base al proprio desiderio.

Centro e periferia Intellettuali e politici sono rimasti in silenzio di fronte a quello che è successo in Tunisia, forse a causa della novità di questi eventi. Ma questo silenzio poteva essere giustiicato per le prime due settimane. Con il passare del tempo e la durata delle proteste, è diventato imperdonabile. Dopo aver conosciuto i suoi slogan (da “Libertà, lavoro e dignità” a “Ben Ali vattene!”) e aver avuto accesso alle testimonianze video e audio apparse su internet, questo silenzio è diventato colpevole. Come dobbiamo interpretarlo? È frutto dell’indiferenza o il segno della divisione di questo paese tra il centro, che comanda e decide la gerarchia degli eventi, e la periferia, che accetta gli ordini e le classiicazioni imposte dal centro? Nel suo contesto geograico e culturale, questa rivoluzione dignitosa, tranquilla, sicura di se stessa, paciica, responsabile e matura costituisce la promessa dei popoli e l’incubo dei dittatori. Ma, sottoposta alla scansione della globalizzazione, conferma a suo modo l’universalità del desiderio democratico e dell’aspirazione naturale alla libertà. Per questo motivo quello che sta succedendo in Tunisia merita solidarietà e sostegno attivo, soprattutto nei dibattiti futuri, in cui l’islamismo vorrà prendere la parola. Ma avremo i mezzi intellettuali e politici per afrontarlo, contrastarlo e contenerlo. u adr Abdelwahab Meddeb è uno scrittore e poeta tunisino che vive a Parigi. Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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In copertina

GABRIELE MICALIzzI (CESuRALAB/LuzPHoTo)

Cartagine, 18 gennaio 2011. Il quartiere dove viveva la famiglia Ben Ali

ti ad abbassare i prezzi dei prodotti di base per prevenire nuove manifestazioni. Questa ricetta sembra aver dato buoni risultati. Ma quanto durerà? Lo scontento della popolazione non sparisce. Le cause strutturali che l’hanno generato non scompaiono con il controllo dei prezzi, che non è il frutto di una politica lungimirante ma solo la reazione a una situazione esplosiva.

Un’economia superata Said Mekki, Maghreb Emergent, Algeria

Esercizi di libertà

La formula magica

Slim Chaou, Nawaat, Tunisia

Burhan Ghalyoun, Al Shuruq, Tunisia

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ora, che dobbiamo fare? In primo luogo, dovremmo avviare un’inchiesta sull’Rdc, il partito dell’ex presidente Ben Ali, per fare pulizia al suo interno. Ma prima dovremmo cominciare a ripulire il governo di transizione. Dobbiamo essere sicuri di questi uomini e queste donne perché il popolo tunisino deve avere iducia nel governo. In passato, salvo rare eccezioni, anche l’opposizione “legale” ha lirtato con l’ex regime. Per questo bisognerebbe creare un comitato di riconciliazione nazionale che ristabilisca il legame di iducia tra il popolo e il governo. Quando sarà stato fatto, l’Rcd diventerà un partito come un altro. Non ci sarà bisogno di scioglierlo e si potranno recuperare i suoi elementi più onesti e competenti. In secondo luogo, dovremmo creare un’assemblea costituente per arrivare a un sistema parlamentare che rappresenti tutte le tendenze politiche, dai comunisti ai conservatori islamici. La nuova costituzione dovrà garantire l’equilibrio dei poteri, prevedere meccanismi per contenere ogni tipo di eccessi e tener conto dei passi avanti che sono stati già fatti. Inine, bisognerà combattere la corruzione perché i tunisini, e il resto del mondo, abbiano rispetto della Tunisia e del suo stato di diritto.

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a rivolta tunisina dell’ultimo mese non è stata una sorpresa per nessuno, se non per le élite che pensavano di aver trovato la formula magica per rimanere al potere per sempre e rimandare quei cambiamenti in cui i tunisini speravano in dalla caduta del presidente Habib Bourguiba nel 1987. Questa formula (applicata da molti regimi arabi) deriva dal modello cinese e combina due elementi: l’allontanamento della politica dalla sfera pubblica vietando ogni forma di attivismo e il totale controllo dell’economia, sia accaparrandosi gli investimenti stranieri sia accumulando ricchezze con ogni mezzo.

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recenti avvenimenti in Tunisia hanno rivelato il lato oscuro del paese dei gelsomini. I suoi progressi economici non hanno garantito la ricchezza a tutta la popolazione e non hanno ridotto la disoccupazione. Il modello tunisino celebrato dal Fondo monetario internazionale ha raggiunto i suoi limiti? Di certo la specializzazione di quest’economia nei settori a forte intensità di manodopera poco qualiicata ha fatto il suo tempo, perché il paese deve afrontare la concorrenza asiatica. Inoltre il suo mercato del lavoro è cambiato: i tunisini laureati in cerca di lavoro nel 2000 erano il 20 per cento della popolazione attiva, nel 2009 erano più del 55 per cento.

Efetto domino Wael Gamal, Al Shuruq, Egitto

Sindrome tunisina El Watan, Algeria

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o spettro dei cambiamenti politici in Tunisia preoccupa i leader di tutta la regione. Dopo le rivolte tunisine e algerine i capi di stato arabi si sono afretta-

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n minuto dopo la fuga di Ben Ali, tutto l’Egitto si chiedeva: ci potrà essere nel mondo arabo un efetto domino come in Europa dell’est o sarà una rivoluzione circoscritta come quella iraniana? Secondo alcuni l’Egitto è troppo “occupato a brandire croce e Corano” per mobilitarsi per i valori universali come hanno fatto i tunisini. Altri sostengono che non succederà perché la dittatura egiziana non è rigida come quella tunisina, altri ancora spiegano che non potrebbe esserci una rivolta


del pane perché il suo prezzo in Egitto è calmierato. Ma in ogni caso, nel nostro paese sono presenti tutti gli elementi che potrebbero innescarla.

Lezioni per gli arabi Khaled al Hroub, Al Hayat, Gran Bretagna

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a principale lezione che arriva dalla Tunisia è che la stabilità di un paese è solo apparente se si fonda su un’inesistente vita politica e sulla concentrazione del potere. Per un breve periodo è possibile promuovere l’immagine di paese aidabile, soprattutto se ci si allea con l’occidente. Ma quest’apparenza di stabilità è come una mano di vernice sulle pendici di un vulcano. La seconda lezione riguarda la strumentalizzazione della modernità e della laicità, che ha un efetto potente, soprattutto se nutrita dalle paure di chi pensa che la sola alternativa agli attuali regimi siano i fondamentalisti islamici.

La maia al potere Salama Kilo, Al Akhbar, Libano

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er il momento la “democrazia” del dittatore Ben Ali regge, sia attraverso la costituzione (da lui scritta e approvata) sia perché la struttura dell’autorità non è stata modiicata. L’aspetto politico è importante, ma non dobbiamo perdere di vista la vera ragione dell’intifada popolare: la questione economica. L’economia tunisina si fondava su una classe capitalista maiosa, che potrebbe rimanere al potere o essere sostituita da un’altra famiglia maiosa. Per evitare nuove rivolte popolari tra qualche mese, l’unica via è emendare la costituzione e ribaltare le vecchie strutture di potere, includendo nel processo le forze vive dell’intifada: i sindacati, le associazioni professionali e i comitati cittadini che si sono formati nel corso dell’ultimo mese. u

L’analisi

Da Rabat ad Amman Bbc, Gran Bretagna In molti paesi arabi la situazione è simile a quella tunisina e rischia di diventare altrettanto esplosiva

scono meno le nuove tecnologie. Molti faticano a trovare un lavoro che garantisca loro la sopravvivenza. Tre egiziani hanno tentato il suicidio dandosi fuoco, uno di loro è morto.

Algeria Come nella vicina Tunisia, molti ragazzi sono scesi in piazza per manifestare, in particolare contro gli aumenti del prezzo del cibo. È ancora in vigore lo stato di emergenza proclamato nel 1992 e nella capitale sono vietate le manifestazioni. In passato ci sono state molte proteste in diverse parti del paese, ma nelle ultime settimane le rivolte sono scoppiate contemporaneamente e hanno coinvolto anche la capitale. Seguendo l’esempio del tunisino Mohamed Bouazizi, morto il 4 gennaio, sette algerini hanno tentato il suicidio dandosi fuoco. Le proteste, però, non hanno subìto un’escalation paragonabile a quella tunisina. Secondo alcuni osservatori, non è successo perché la repressione è stata contenuta e il governo è intervenuto per limitare gli aumenti dei prezzi. Il regime trae una ricchezza considerevole dalle esportazioni di gas e petrolio, e aferma di afrontare le diicoltà economiche e sociali con un grande progetto di spesa pubblica. Ma la popolazione continua a lamentarsi della corruzione, della burocrazia e della mancanza di riforme politiche.

Giordania Il 15 gennaio è stato il “giorno della rabbia”, con migliaia di giordani che sono scesi in piazza in tutto il paese per protestare contro la disoccupazione e i prezzi dei beni di prima necessità. Molti hanno chiesto le dimissioni del primo ministro Samir Rifai. La settimana scorsa il governo ha ridotto i prezzi di cibo e carburante ma la popolazione chiede di fare di più contro la povertà causata dall’inlazione. Finora le proteste sono state paciiche e non ci sono stati arresti.

Egitto Le somiglianze con la Tunisia sono molte: condizioni economiche dure, autorità corrotte, poca libertà di espressione. Il presidente Hosni Mubarak, 82 anni, ha praticamente il monopolio del potere ed è in carica da trent’anni. Finora la profonda frustrazione degli egiziani non è sfociata in proteste di massa, e alle manifestazioni si presentano poche centinaia di persone. Rispetto ai tunisini gli egiziani sono in media meno istruiti e cono-

Libia “Non c’è nessuno meglio di Zine per governare la Tunisia, che ora vive nella paura”. Le reazioni del leader libico Muammar Gheddai al rovesciamento del presidente tunisino rilettono il suo nervosismo per un possibile efetto domino. Il colonnello guida il paese da quarantun anni con il pugno di ferro. Le proteste sono duramente represse, ma negli ultimi giorni ci sono state manifestazioni ad Al Bayda. Marocco Come in Tunisia, il paese deve afrontare seri problemi economici e una corruzione dilagante. La reputazione del Marocco è stata danneggiata dalle rivelazioni di Wikileaks sugli afari della famiglia reale e sull’avidità di personaggi vicini al re Mohammed VI. I dispacci di Wikileaks dall’ambasciata statunitense a Tunisi citavano problemi simili nella cerchia di Ben Ali. Ma in Marocco, come in Egitto e in Algeria, la libertà di stampa è limitata e le autorità sono riuscite a contenere le proteste. Come in Giordania, la monarchia ha un forte sostegno popolare. u Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Visti dagli altri Le ragazze che fanno tremare Berlusconi Il presidente del consiglio è indagato a Milano per prostituzione minorile e concussione. L’inchiesta mette a rischio la stabilità del governo, scrive il New York Times

ALeSSANdRA BeNedeTTI (CoRBIS)

Rachel Donadio, The New York Times, Stati Uniti

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l 18 gennaio in Italia è scoppiato un grave scandalo dopo la pubblicazione su alcuni giornali delle incredibili conversazioni telefoniche di Karima el Marough detta Ruby, una ballerina di origine marocchina. Nelle intercettazioni la ragazza dice di aver partecipato ad alcune feste in casa del capo del governo Silvio Berlusconi in da quando aveva 16 anni. Resta da vedere se l’astuto premier sarà davvero travolto dallo scandalo. Le intercettazioni sono venute alla luce qualche giorno dopo la decisione dei magistrati di Milano di aprire un’indagine su Berlusconi, che secondo gli inquirenti avrebbe pagato Karima el Marough, all’epoca dei fatti ancora minorenne, per avere rapporti sessuali nella sua villa di Arcore. Berlusconi, che ha 74 anni e nega di aver commesso atti illeciti, dice che non sapeva che Karima el Marough fosse minorenne. Ma il premier è anche indagato per concussione: avrebbe chiesto alla polizia, nella primavera del 2010, di rilasciare la ragazza che era stata fermata per furto. Nelle intercettazioni, Ruby dice di aver chiesto cinque milioni di euro a Berlusconi per mantenere il silenzio sulla vicenda. Ma a quanto pare Ruby è solo una delle tante. Secondo i magistrati della procura di Milano, “un rilevante numero di giovani donne si sono prostituite” con il primo ministro ottenendo in cambio denaro o appartamenti in comodato gratuito. In Italia, dove dietro una facciata di moralità cattolica si nasconde un’alta tolleranza per le vicende scabrose, Berlusconi è uscito indenne da tutti gli scandali scoppiati nel corso degli anni. Ma stavolta, con il premier che rischia

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Silvio Berlusconi a Villa Madama una condanna penale e le intercettazioni che descrivono un mondo squallido fatto di orge e ricatti di ragazze squillo, la situazione sembra diversa. A metà dicembre Berlusconi ha superato per pochi voti una mozione di siducia, e se gli alleati della sua fragile coalizione si tirassero indietro, potrebbe essere costretto ad andare alle elezioni. Ma, soprattutto, gli italiani sono sempre più preoccupati dal contrasto tra i problemi che aliggono il paese e le priorità del premier. “Il problema non è quello che fa in privato, ma quello che non fa come capo del governo”, dice Simone Calvarese, 41 anni, un autista di autobus romano. Calvarese dice di aver votato Berlusconi ma di aver perso la pazienza, come molti altri italiani. Intervenendo sulla vicenda, il 18 gennaio il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha espresso “forti preoccupazioni” e ha convocato Berlusconi per un chiarimento. Nel frattempo l’Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, pubblicava un insolito editoriale in cui condannava una cultura fatta di “potere, sesso e soldi”. A questo si aggiunge la bocciatura, da parte della corte costituzionale, della legge

sul legittimo impedimento. Ma se il governo cadrà davvero è tutto da vedere. Alcuni esponenti dell’opposizione hanno chiesto a Berlusconi di dimettersi, ma il premier lascerà solo se perderà la maggioranza in parlamento, e per il momento i membri del suo partito gli restano fedeli.

Soldi per il silenzio Finora Berlusconi ha risposto alle critiche afermando di essere vittima degli attacchi di mezzi d’informazione “sovversivi”. Ma le intercettazioni difuse dai giornali hanno colpito gli italiani. Le registrazioni, che comprendono diverse conversazioni tra donne, avvocati e uomini d’afari, mettono in luce l’intreccio tra politica e cultura da reality show che Berlusconi ha contribuito a creare negli ultimi decenni in qualità di padrone del principale gruppo televisivo privato. In una delle intercettazioni pubblicate da Repubblica, Karima el Marough dice che il primo ministro le ha oferto dei soldi in cambio del silenzio: “Silvio ha detto al suo avvocato: dille che le pagherò il prezzo che vuole, l’importante è che lei chiuda la bocca, che neghi tutto”. Nello scandalo sono


coinvolti dei personaggi che sarebbero perfetti in una telenovela. Tra gli indagati ci sono Emilio Fede, 79 anni, vecchio amico di Berlusconi e direttore del telegiornale di una delle reti del premier, e l’agente televisivo Lele Mora, di 55 anni. Sotto la lente degli inquirenti è inita anche Nicole Minetti, 25 anni, ex igienista dentale e consigliere regionale in Lombardia per il partito di Berlusconi. Secondo la procura erano proprio loro tre a selezionare le ragazze per i festini organizzati nelle ville del premier. Il 25 gennaio la giunta per le autorizzazioni del parlamento dovrebbe cominciare a discutere la richiesta di perquisizione di alcuni immobili del primo ministro. Tra questi ci sono anche alcuni uici nei pressi di Milano, dove secondo gli inquirenti potrebbero trovarsi documenti che dimostrano la concessione gratuita di appartamenti in cambio di prestazioni sessuali. Le intercettazioni hanno danneggiato gravemente l’immagine da superuomo che Berlusconi si è costruito negli anni. In una conversazione pubblicata dal Corriere della Sera una ragazza, parlando dell’aspetto del premier, dice: “Sta più di là che di qua. È diventato pure brutto: deve solo sganciare. Speriamo che sia più generoso”. In un altro passaggio, Karima el Marough si paragona a Noemi Letizia, la ragazza a cui Berlusconi fece visita per il suo diciottesimo compleanno nella primavera del 2009, alcune settimane prima che Veronica Lario chiedesse il divorzio. Noemi diceva di chiamare il premier “papi”. Anche Ruby ha detto di chiamarlo così, aggiungendo però che “Noemi è la pupilla”. Nelle altre intercettazioni si scoprono dettagli sulle serate trascorse da Berlusconi, Fede e Mora in compagnia di decine di donne che si mettevano in topless mentre gli uomini stavano a guardare. In un discorso registrato e trasmesso in tv, Berlusconi, l’aria tesa e il viso spalmato di fondotinta, ha attaccato i magistrati che indagano su di lui, ha difeso il suo diritto alla privacy e ha negato di aver fatto sesso a pagamento. Il premier ha anche detto di avere una compagna stabile. A questa dichiarazione ha fatto seguito un’ondata di ipotesi su chi sia la donna. Seduto alla sua scrivania, con una serie di foto di famiglia e la statuetta di un cavallo imbizzarrito alle spalle, Berlusconi ha aggiunto che “nel corso di quelle serate tutto si è sempre svolto all’insegna della più assoluta eleganza, del più assoluto decoro e tranquillità”. u fp

L’opinione

Il iglio dell’Italia Gabriel Puricelli, Página 12, Argentina Ogni volta che sembra vicino al crollo, il premier si riprende. La colpa è della corruzione dell’intero sistema

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ncora una volta, il ilo sottile su cui cammina Silvio Berlusconi si è allungato di un altro centimetro, rimandando di nuovo la sua caduta nel precipizio. Anche se il premier si è visto bocciare dalla corte costituzionale la legge sul legittimo impedimento, i tre processi più importanti in cui è imputato sono comunque troppo vicini alla prescrizione. I suoi avvocati sono i più recenti cultori dell’arte della procrastinazione giudiziaria, che sta vivendo il suo momento d’oro da quando Berlusconi è entrato in politica. Dopo aver comprato deputati in quantità appena suiciente per evitare la caduta del governo e aver trasformato i procedimenti giudiziari in una caricatura che neanche la fantasia più grottesca avrebbe potuto immaginare, ora Berlusconi invita tutti ad ammirare la perfezione e la disinvoltura con cui ha costruito l’impunità di stato. Senza sparare un colpo, senza incarcerare nessun oppositore, l’uomo che per arricchirsi ha avuto bisogno della prima repubblica, e che è arrivato al potere grazie al suo crollo, la passa liscia senza troppi problemi. Lo sforzo di un’intera grande famiglia è stato ricompensato dal successo del suo miglior iglio. Una lettura ingenua della decisione della corte costituzionale potrebbe far pensare che, alla lunga, c’è sempre qualcuno che dice basta. Per prima cosa, però, non bisogna attribuire ai giudici il peso del fallimento collettivo della democrazia italiana. E soprattutto la decisione di fermare Berlusconi, per quanto giusta, arriva troppo tardi.

Per comprendere la situazione bisogna guardare oltre. Sottolineando le distorsioni politiche nate dopo tangentopoli, quando sono caduti in disgrazia i leader politici in scena ma non gli imprenditori che manovravano tutto da dietro le quinte. Al contrario, i nuovi protagonisti della politica misero in scena uno spettacolo peggiore dell’operetta appena inita.

L’ultimo centimetro Questo centimetro che da sempre separa Berlusconi dal suo crollo deinitivo non è abbastanza corto per impedire nuovi passi. Avendo trasformato il governo in un mero scudo per l’immunità dei delinquenti, il capo del governo non si darà pace ino a quando non sarà riuscito a fare lo stesso con la presidenza della repubblica, oggi occupata da Giorgio Napolitano con la stessa dignità (anche se con meno decisione) di Sandro Pertini. La missione di demolire il sistema politico non sarà completa ino a quando il simbolo stesso della repubblica italiana non prenderà la forma di quell’uomo eternamente giovane. E ino a quando la costituzione non sarà riscritta. Non c’è danno per cui non esista rimedio. Ma non bisogna illudersi che l’uscita di scena di Berlusconi basti a risolvere tutti i problemi del paese. Mentire sfacciatamente è il metodo più eicace per far venire meno la fede laica nella democrazia senza cui non esistono cittadini. Nelle ultime settimane Berlusconi ha fatto un passo indietro, ma all’appello manca ancora una forza di riscatto democratico che metta ine a un gioco in cui l’imbroglio è la regola. u sb Gabriel Puricelli è uno studioso di politica internazionale argentino. Coordinatore del Programa de politica internacional. Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Visti dagli altri Lo scontro con gli operai non salverà la Fiat A Miraiori Sergio Marchionne ha voluto dare una dimostrazione di forza. Ma i problemi dell’azienda vanno oltre le relazioni sindacali

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on una maggioranza di appena il 55 per cento, i lavoratori di Miraiori, l’impianto torinese del gruppo Fiat, il 15 gennaio hanno approvato un contratto che sotto alcuni aspetti comporta un netto peggioramento delle loro condizioni lavorative. L’esito del referendum è stato inluenzato dalla minaccia dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, di chiudere lo stabilimento e, in prospettiva, l’intera iliera produttiva italiana dell’azienda se la sua proposta fosse stata respinta. Il contratto irmato il 23 dicembre prevede che nel turno di otto ore la durata complessiva delle pause sia ridotta da quaranta a trenta minuti. Inoltre, i tempi di lavoro saranno molto più lessibili: se lo vorrà, l’azienda potrà imporre ai dipendenti di lavorare per dieci ore al giorno per quattro giorni consecutivi, di fare straordinari e di rinunciare al sabato libero. A partire dal

Da sapere Variazione tra 2009 e 2010 delle vendite dei principali gruppi automobilistici europei. Confronto tra i mesi di aprile %

renault Bmw Peugeot Mercedes Audi Citroën Volkswagen Opel/Vauxhall Ford Fiat

+17,2 +15,9 +10,6 +3,1 -1,1 -5,8 -7,3 -18,4 -19,4 -28,6

Fonte: Acea

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2012, se l’assenteismo non sarà sceso sotto il 4 per cento, i primi due giorni di malattia a ridosso delle feste, delle ferie o del riposo settimanale non saranno più pagati. Inoltre il diritto di sciopero sarà drasticamente limitato, con la minaccia del licenziamento per i dipendenti e dell’annullamento dei contributi sindacali per i rappresentanti dello stabilimento. Ma il dettaglio più importante è un altro: i sindacati che non hanno sottoscritto l’accordo non avranno diritto di rappresentanza. Così esce di scena la Fiom, il più grande sindacato metalmeccanico italiano. A diferenza di altre quattro organizzazioni di categoria, la Fiom si è riiutata di ratiicare un accordo che “introduce in fabbrica condizioni di schiavitù”. Di fatto, il documento non è il risultato di una trattativa: Marchionne ha semplicemente messo sul tavolo il suo elenco di richieste, sostenendolo con la minaccia di chiusura.

Quota sei milioni I quattro sindacati di categoria che hanno sottoscritto il contratto sono convinti di avere “assicurato il futuro della Fiat in Italia”. In caso di vittoria dei sì, Marchionne aveva promesso un investimento immediato da un miliardo di euro per Miraiori e di venti miliardi nel medio termine per le altre fabbriche nel paese. Ma per il momento c’è solo una certezza: con le sue maniere sbrigative, l’amministratore delegato della Fiat sta introducendo nuovi elementi di rigidità nelle relazioni sindacali italiane. E non lo fa perché i salari sono troppo alti: con uno stipendio medio di 1.200 euro netti al mese, i dipendenti Fiat portano a casa molto meno dei loro colleghi della Volkswagen. O perché Miraiori abbia problemi di assenteismo o di scioperi selvaggi. Marchionne ha voluto dimostrare agli investitori statunitensi di essere il sovrano assoluto delle sue fabbriche. Dopotutto la Fiat controlla il 25 per cento della Chrysler e mira a conquistarne una quota di maggioranza. Per riuscirci avrà bisogno dei miliardi provenienti dal mer-

EMAnuELE CrEMASChI ( LuZPhOtO)

Michael Braun, Die Tageszeitung, Germania

Torino, gennaio 2011. Presidio sindacale allo stabilimento di Miraiori cato inanziario. Marchionne guida la Fiat dal 2004, e dopo l’acquisizione della Chrysler ha vissuto una metamorfosi: se prima era un fervente sostenitore del dialogo con i sindacati ed escludeva che si potessero introdurre in Europa condizioni lavorative improntate al modello statunitense, oggi mette in mostra tutta la sua intransigenza. Ma resta da vedere se l’accordo di Miraiori porterà dei beneici anche per i lavoratori. Basta pensare agli straordinari: il contratto è stato appena ratiicato che già ai dipendenti di Miraiori viene ridotto l’orario lavorativo per i prossimi dodici mesi. Questo perché la Fiat vende troppo poco, e


Stati Uniti

Intanto a Detroit Bernard Simon e John Reed, Financial Times, Gran Bretagna L’amministratore delegato della Fiat è acclamato come il salvatore che ha dato nuova vita alla Chrysler

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i suoi risultati sono decisamente peggiori di quelli della concorrenza. A fronte di una contrazione di circa il 5 per cento del mercato europeo delle automobili, il gruppo di Torino ha subìto una perdita complessiva del 17 per cento. Il motivo è che i “venti nuovi modelli” promessi da Marchionne qualche anno fa non si sono ancora visti. Inoltre all’azienda torinese manca la massa critica: la sua produzione è di due milioni di veicoli all’anno. Includendo la Chrysler non si arriva neanche a quattro milioni. Si tratta di cifre troppo basse per un mercato così competitivo. Lo stesso Marchionne ha issato a sei milioni il livello minimo di sopravvivenza. Ma neanche una guerra contro i lavoratori e i sindacati “insubordinati” potrà risolvere questo problema. u fp

l contrasto non potrebbe essere più netto. Mentre i leader sindacali italiani criticano Sergio Marchionne per le riforme sul lavoro che cerca di imporre nelle fabbriche Fiat, dipingendolo come un rapace capitalista, gli americani lo acclamano come l’eroe che ha dato nuova vita alla Chrysler. Prima del voto sull’accordo di Miraiori, il 14 e il 15 gennaio, la leader della Cgil Susanna Camusso ha accusato Marchionne di “insultare l’Italia”. Allo stesso tempo i dipendenti della Chrysler e gli analisti presenti al salone dell’auto di Detroit lo ricoprivano di elogi per aver risollevato la casa automobilistica più piccola del Michigan. Marchionne ha preso il comando della Chrysler un anno e mezzo fa, quando il gruppo è riuscito a evitare il fallimento grazie al salvataggio dell’amministrazione Obama e la Fiat ha acquisito una prima quota del 20 per cento, salita di recente al 25 per cento. La Chrysler continua a essere in perdita e deve convincere gli acquirenti statunitensi che i modelli disegnati dalla Fiat rappresentano un miglioramento rispetto al suo vecchio parco auto. “Le piattaforme Fiat sono un punto interrogativo”, dice Finbarr O’Neill, presidente di J.D. Power and associates. “Saranno in grado di realizzare prodotti competitivi negli Stati Uniti? Avranno le risorse e la fantasia necessarie? È questa la sida”. Per il momento, comunque, Marchionne ha innescato un’energica ripresa. Negli stabilimenti Chrysler la trasformazione è palpabile. Nell’impianto di Jeferson North la produzione dovrebbe passare dalle 60mila unità del 2009 alle 265mila del 2011. Gli operai lavorano in due turni per realizzare la nuova Jeep Grand chero-

kee e il suv Dodge Durango. I leader sindacali italiani protestano contro le riforme di Marchionne, ma quelli di Detroit sanno di avere poca scelta. “Accettare l’accordo era l’unico modo che avevamo per sopravvivere”, dice Cynthia Holland, leader sindacale dello stabilimento. “La maggior parte dei dipendenti si ritiene fortunata ad avere un lavoro”. Pat Walsh, manager dello stabilimento, racconta che quando Marchionne è andato al Jeferson North per la prima volta, “sembrava un concerto rock”. E si è conquistato altri fan diventando il primo amministratore delegato della Chrysler a partecipare a un’assemblea sindacale. Il dato più importante è che le concessionarie Chrysler sono riuscite a vendere più di quanto ci si aspettasse. Con l’aiuto di promozioni mirate e grossi sconti ad autonoleggi e ad altri operatori del settore, nel 2010 la quota dell’azienda nel mercato statunitense è salita dello 0, 5 per cento. Come alla Fiat, anche a Detroit Marchionne ha imposto una tabella di marcia serrata. “Sergio ha inventato l’ottavo giorno di lavoro”, ha detto la settimana scorsa a un pubblico di imprenditori Ralph Gilles, responsabile del design per la Chrysler e per il marchio Dodge. Per il mese di gennaio ai dirigenti è stato chiesto di lavorare un ine settimana per valutare i dipendenti. Marchionne ammette che la Chrysler dovrà sgobbare per riconquistarsi la credibilità. “Per dimostrare capacità di ripresa e stabilità nel mercato abbiamo dovuto lottare molto più di quanto pensassi, e questo ha inciso anche sui volumi, sulla quota di mercato e, credo, sulla percezione esterna”. u sdf

La Chrysler continua a essere in perdita e i modelli disegnati a Torino sono ancora un’incognita per gli acquirenti americani Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Africa e Medio Oriente Il Libano ha paura ma vuole la pace Robert Fisk, The Independent, Gran Bretagna Le accuse a Hezbollah per la morte di Raiq Hariri e il crollo del governo rischiano di aprire una grave crisi. Ma oggi il paese è più maturo. E non accetterà di sprofondare in un nuovo conlitto

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Da sapere u Il 12 gennaio il partito Hezbollah ha ritirato i suoi ministri dal governo di unità nazionale guidato da Saad Hariri, provocandone la caduta. Hezbollah voleva che Hariri prendesse le distanze dal Tribunale speciale per il Libano (Tsl), che indaga sull’omicidio dell’ex premier Raiq Hariri commesso nel 2005. Ma il premier non ha ceduto alle pressioni. u Il 17 gennaio il procuratore del Tsl, Daniel Bellemare, ha presentato al giudice le prime incriminazioni. I nomi degli accusati rimangono segreti, ma secondo le indiscrezioni di stampa, tra gli incriminati ci sono dei dirigenti di Hezbollah.

ANWAR AMRO (AFP/GETTy IMAGES)

oldati dappertutto. Nelle valli, sui monti, per le strade di Beirut. A quanto pare il loro compito è impe­ dire al Libano di scivolare in una guerra civile. Stando a quello che ci viene detto, il partito Hezbollah ha azzerato il go­ verno, e questo in un certo senso è vero. Il 17 gennaio è stato presentato al Tribunale spe­ ciale per il Libano un atto d’accusa che, se­ condo la stampa, incrimina alcuni membri di Hezbollah per l’assassinio del premier Raiq Hariri commesso nel 2005. Gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna chiedo­ no che la giustizia internazionale faccia i nomi dei colpevoli. Quando Hariri è stato assassinato sul lungomare di Beirut, nel 2005, tutti credevano che i responsabili fos­ sero i siriani: non il presidente Bashar As­ sad, ma i servizi di sicurezza del partito ba­ athista. Oggi ci dicono che il colpevole è

Hezbollah, vicino alla Siria e braccio arma­ to dell’Iran in Libano. Washington e Londra sono a caccia di sostenitori per questa tesi. Intanto Hezbollah ha abbandonato la maggioranza, facendo cadere il governo di Saad Hariri, iglio di Raiq. E oggi molti so­ no convinti che il paese sia sull’orlo di una guerra civile simile a quella durata dal 1976 al 1990. Io ne dubito. Una nuova generazio­ ne di libanesi che hanno studiato all’estero è tornata a casa e non tollererà altri spargi­ menti di sangue.

Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, domenica 16 gennaio

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In teoria il Libano non ha più un governo e le elezioni che hanno portato al potere Saad Hariri non sono più valide. Le consul­ tazioni che il presidente Michel Suleiman avrebbe dovuto avviare il 17 gennaio per la nascita di un nuovo esecutivo sono state rinviate. Cosa vuole quindi Hezbollah? Te­ me a tal punto il tribunale dell’Aja da arriva­ re a distruggere il paese? Anche se gli occi­ dentali preferiscono ignorarlo, il problema è molto semplice: il Libano è uno stato con­ fessionale creato dai francesi, che l’hanno governato con un mandato internazionale dopo la prima guerra mondiale. Per diven­ tare un paese moderno, il Libano deve cam­ biare. Ma non può farlo. La sua identità è nel settarismo, e questa è la sua tragedia. Gli sciiti del Libano, rappresentati da Hezbollah, sono circa il 40 per cento della popolazione, mentre i cristiani sono una minoranza. In futuro il Libano diventerà un paese musulmano sciita, anche se la cosa non piace all’occidente. Hezbollah e la maggioranza dei libanesi non vogliono isti­ tuire una repubblica islamica. Il partito sci­ ita, però, ha commesso molti errori: il suo leader, Hassan Nasrallah, parla già da pre­ sidente e auspica una nuova guerra contro Israele, che si concluda con la stessa “vitto­ ria divina” che, secondo lui, ha messo ine al conlitto del 2006. Temo che anche Israe­ le voglia un’altra guerra. Non i libanesi, pe­ rò. Intanto l’obiettivo degli Stati Uniti è col­ pire l’Iran: ecco perché Hezbollah dev’esse­ re incolpato per la morte di Hariri e per la caduta del governo. Ed è chiaro che anche Hezbollah vuole disfarsi di questo governo. In questo modo sta spazzando via ogni ipo­ tesi di una soluzione araba alla questione del settarismo del Libano, che si sta trasfor­ mando in un paese sempre più spaventato. Non c’è da stupirsi se per strada non c’è nes­ suno e se i libanesi hanno paura di uscire a godersi il sole del Mediterraneo. Tuttavia penso che oggi il Libano sia un paese più maturo. Ho notato che nei giorni scorsi Samir Geagea, il leader delle Forze libanesi, una delle milizie cristiane del pae­ se, ha esposto sulla facciata dell’uicio del suo partito una nuova fotograia, in cui è vestito con abiti civili e non con la divisa mi­ litare sfoggiata in passato. Mi sembra un buon segno. u gim Robert Fisk è un giornalista britannico che vive a Beirut. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra (Il Saggiatore 2010).


BENEDICtE DESRuS (REutERS/CoNtRASto)

Israele

NIGERIA

Jonathan vince le primarie

Il nuovo partito di Barak Ehud Barak a Gerusalemme, 17 gennaio 2011

La secessione si avvicina Dopo la chiusura dei seggi il 15 gennaio, i primi risultati del re­ ferendum sull’autodetermina­ zione del Sud Sudan indicano la vittoria schiacciante dei favore­ voli alla secessione, scrive Sudan Tribune. L’annuncio dei risultati uiciali è previsto per il 6 febbraio. Il 14 gennaio nella regione di Abyei, contesa tra nord e sud, i rappresentanti del­ la tribù araba misseriya e quelli della sudista dinka ngok hanno raggiunto un accordo per mette­ re ine alle violenze elettorali. Le parti si sono impegnate a pa­ gare un risarcimento per ogni persona uccisa nell’anno prece­ dente e a garantire la sicurezza nella regione.

RDC

Stupro di massa a Fizi un comandante dell’esercito della Repubblica Democratica del Congo, Kibibi Mutware, è i­ nito sotto accusa per lo stupro di almeno cinquanta donne a ca­ podanno nel villaggio di Fizi, nella provincia orientale del Sud Kivu. Ma le vittime potrebbero essere di più perché molte don­ ne non avrebbero sporto denun­ cia per non essere abbandonate dai loro mariti. Secondo fonti delle Nazioni unite, scrive la Bbc, Kibibi ha ordinato ai suoi uomini di attaccare il villaggio per vendicare la recente uccisio­ ne di un soldato.

BAz RAtNER (REutERS/CoNtRASto)

SUDAN

Il ministro della difesa Ehud Barak ha abbandonato la leadership del Partito laburista per lanciare il nuovo partito centrista Atzmaut (indipendenza), scrive Ha’aretz. La decisione gli permetterà di rimanere nel governo di Benjamin Netanyahu. Il Partito laburista, invece, si prepara a uscire dalla coalizione di governo, in disaccordo con la linea scelta da Netanyahu nei negoziati di pace con l’Autorità Palestinese. Secondo la radio militare israeliana, sarà presto autorizzata la costruzione di 1.400 nuove case israeliane a Gerusalemme Est. u

Il presidente nigeriano Good­ luck Jonathan, cristiano del sud, ha vinto le primarie del Partito democratico del popolo (Pdp). Il suo avversario, Atiku Abubakar, musulmano del nord, ha denunciato irregolari­ tà nello scrutinio. Alcuni mem­ bri del partito chiedevano a Jo­ nathan un passo indietro per rispettare l’alternanza tra nord e sud. “ora bisogna lavorare per garantire la regolarità delle elezioni presidenziali previste ad aprile”, conclude Vanguard. IN BREVE

Costa d’Avorio Il 19 gennaio l’inviato dell’unione africana Raila odinga ha lasciato Abi­ djan dopo il fallimento dei nego­ ziati per mettere ine alla crisi politica nel paese. Iraq Il 18 gennaio 50 persone sono morte e 150 sono rimaste ferite in un attentato suicida da­ vanti a un centro di reclutamen­ to della polizia a tikrit.

Da Ramallah Amira Hass

Sognando la Tunisia La sera del 14 gennaio erano tutti incollati alla tv, qui a Ra­ mallah, per seguire in diretta la rivolta in tunisia. La matti­ na dopo erano tutti soddisfatti. “Il popolo tunisino ha salvato l’onore della nazione araba”, mi ha detto un amico. La tv era accesa anche nel negozio di frutta e verdura. Al­ cuni dimostranti tunisini sta­ vano parlando con i giornali­ sti. uno di loro ha detto che perino i palestinesi stavano meglio di loro. Dal punto di vi­ sta alimentare è sicuramente vero, ma i prezzi dei generi di

prima necessità non sono stati l’unico motivo della rivolta. La tunisia, come la maggior par­ te degli stati arabi, è governata da un’élite cinica e corrotta. La situazione dei palestinesi è di­ versa, perché hanno a che fare contemporaneamente con tre regimi repressivi: l’Autorità Palestinese, Hamas e Israele. È vero, però, che per certi aspetti i palestinesi stanno meglio di altri. In Cisgiorda­ nia, per esempio, gli attivisti per i diritti umani hanno più li­ bertà d’azione che in molti sta­ ti arabi. Perino a Gaza la re­

pressione è ancora piuttosto prudente. La “schizofrenia” palesti­ nese emerge chiaramente dal­ le seguenti dichiarazioni. Il 15 gennaio una nota dell’olp elo­ giava il “coraggio dei tunisini, capaci di battersi contro l’op­ pressore”. Poche ore dopo il dirigente Ahmed abd al Rah­ man ha dichiarato: “L’olp è vi­ cina alle famiglie delle vittime, ma non prende posizione sulla vicenda”. Dopotutto i leader dell’olp furono ospitati per an­ ni dal corrotto presidente tuni­ sino Ben Ali. u nm

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Asia e Paciico

CHRISTOPHE ARCHAMBAULT (AFP/GETTY IMAGES)

Operai nel cantiere del nuovo palazzo del parlamento a Naypidaw, marzo 2010

Gli investimenti d’oro di Pechino in Birmania Yan Pai, The Irrawaddy, Thailandia Le aziende cinesi sono impegnate nella costruzione delle infrastrutture birmane. Che servono soprattutto a trasportare in Cina le risorse naturali di cui è ricco il paese

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a China communication construction investirà cento milioni di dollari nella costruzione di un aeroporto vicino Naypyidaw, capitale della Birmania costruita ex novo dalla giunta militare nel 2004. Una notizia che spiega ino a che punto Pechino stia prendendo il controllo delle infrastrutture birmane. Negli ultimi anni la Cina ha aumentato molto i suoi investimenti in Birmania, soprattutto nella realizzazione di infrastrutture per migliorare l’accesso alle risorse naturali del paese. Tra questi progetti, oltre all’aeroporto, ci sono ferrovie, strade e gasdotti utili, soprattutto, a portare in Cina le risorse naturali come gas, legname, carbone, rame, metalli preziosi e petrolio di cui la Birmania è ricca. Le infrastrutture del pae-

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se sono in pessimo stato: secondo il Factbook della Cia, in Birmania ci sono 27mila chilometri di strade, ma solo 3.200 sono asfaltati. Inoltre, su 76 aeroporti solo 39 hanno piste asfaltate. Secondo il sito che ha dato la notizia del contratto irmato dalla Chinese communication construction il 15 dicembre 2010, la Ex-Im Bank, una banca nazionale cinese, sta per concedere prestiti a tassi agevolati al dipartimento di aviazione civile del governo birmano. Il nuovo aeroporto dovrebbe essere pronto nel 2011. Tra i progetti più ambiziosi c’è un collegamento ferroviario di 1.920 chilometri tra Kunming, la capitale della provincia cinese dello Yunnan, e Rangoon, principale città commerciale della Birmania, nonché precedente capitale del paese. Secondo alcune fonti, la ferrovia potrebbe perino essere prolungata ino a Tavoy, nella divisione del Tenasserim, nel sud del paese, dove gli investitori tailandesi stanno pianiicando lo sviluppo di un enorme porto. I lavori per la linea ferroviaria, che dovrebbero partire quest’anno, fanno parte del grande piano di Pechino di collegare la Cina con i suoi vicini del sudest asiatico. Esiste anche un progetto per riportare in

vita la Stilwell road, la strada costruita durante la seconda guerra mondiale per consentire alle forze alleate di aiutare la Cina nella sua resistenza all’occupazione giapponese. Secondo il quotidiano britannico The Telegraph, la strada, che si estende da Myitkyina, capoluogo dello stato Kachin, ino a Pangsau, vicino il conine indiano, sarà ricostruita dalla Yunnan construction engineering company insieme alla birmana Yuzana group, grazie a un accordo raggiunto il 22 novembre 2010. Nel giugno del 2010 il primo ministro cinese Wen Jiabao ha visitato la Birmania per promuovere ulteriormente i rapporti economici già forti tra i due paesi: secondo le statistiche uiciali, la Cina nei primi cinque mesi del 2010 ha investito circa 8,2 miliardi di dollari, inclusi cinque miliardi per il settore idroelettrico. Uno dei più grandi progetti comuni è un gasdotto che porterà gas naturale dalle coste birmane sul golfo del Bengala direttamente a Kunming. Parallelamente sarà costruita una linea ferroviaria che collegherà Kunming al porto di Kyaukpyu, nello stato del Rakhine. Tutto questo smentisce le voci secondo cui il governo birmano sarebbe preoccupato di un’eccessiva dipendenza economica da Pechino. Dopo la visita uiciale in Cina del capo della giunta, il generale Than Shwe, a settembre il governo di Pechino ha concesso al regime un prestito a tasso zero di 30 milardi di yuan (circa quattro miliardi e mezzo di dollari). u ro

Da sapere u Il 16 gennaio 2010 l’Associazione dei paesi del sudest asiatico (Asean) ha dichiarato che farà di tutto per far annullare, o almeno alleggerire, le sanzioni internazionali contro la Birmania. Secondo l’Asean la liberazione di Aung San Suu Kyi e le elezioni di novembre (vinte, come previsto, dal partito legato alla giunta militare, segnate dai brogli e giudicate vergognose da molti governi stranieri) “sono chiari segnali che il paese sta andando verso un sistema più democratico”. Le critiche alle sanzioni sono trasversali, scrive The Irrawaddy: anche il partito di Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia, sta valutando i loro costi e beneici per la popolazione. Comunque l’interesse di molti governi e aziende straniere, aggiunge il quotidiano online, non riguarda il bene dei cittadini birmani bensì i lauti guadagni di cui per ora possono godere solo le aziende cinesi.


Giappone

cina - stati uniti

L’ultima visita di Hu Jintao

Commercio tra Stati Uniti e Cina esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti

Importazioni cinesi dagli Stati Uniti

344,1 miliardi di dollari

81,8 miliardi di dollari

Fonte: Bbc

Dispotismo democratico

Due rimpasti in sette mesi Aera, Giappone Il 14 gennaio il primo ministro giapponese Naoto Kan ha fatto il secondo rimpasto di governo da quando è arrivato al potere, sette mesi fa. Una delle nomine più importanti del nuovo esecutivo è quella di Kaoru Yosano, per anni membro del partito liberaldemocratico (ora all’opposizione), scelto come ministro per le riforme economiche e iscali. La nuova formazione dovrà tentare di arginare la crisi sociale ed economica, riducendo un debito pubblico pari al 200 perc ento del pil e avviando un dibattito con l’opposizione per il nuovo bilancio. Secondo il settimanale Aera, le scelte di Kan sembrano dettate anche dalla volontà di prendere le distanze dall’ex segretario del Partito democratico Ichiro Ozawa, coinvolto in una serie di scandali per inanziamenti illeciti che da tempo screditano la maggioranza e di cui dovrebbe dare spiegazioni agli inquirenti nelle prossime settimane. Il rimpasto ha fatto salire leggermente i consensi, oggi al 34 per cento. ◆

Il parlamento kazako ha votato all’unanimità la decisione di cambiare la costituzione e indire un referendum sull’estensione del mandato del presidente Nursultan Nazarbaev. Se il referendum dovesse passare, il presidente potrebbe rimanere in carica ino al 2020 senza dover afrontare nuove elezioni. L’agenzia di stampa Ferghana scrive che questa è una commedia già vista in passato. Nel 1998, violando la costituzione che lui stesso aveva voluto, Nazarbaev si fece eleggere presidente due anni prima della data prevista per le elezioni. Imitando altri leader dispotici del passato, anche il presidente kazako si serve di strumenti democratici, come il referendum, per scopi autoritari.

La madre di una delle vittime

in breve

AIJAz RAHI (AP/LAPReSSe)

Preceduto dalla irma di sei accordi commerciali per un valore di 574 milioni di dollari, il 19 gennaio è cominciata la visita uiciale del presidente cinese Hu Jintao a Washington. “Una visita importante come quella che fece Deng Xiaoping nel 1979 (e che segnò la normalizzazione dei rapporti tra le due potenze, rimasti congelati per 30 anni)”, ha scritto il cinese Global Times nel giorno dell’incontro tra Hu e il presidente statunitense Barack Obama. Il South China Morning Post scrive che i capi di stato delle due principali potenze mondiali si sono genericamente impegnati a collaborare per superare le questioni spinose che li hanno divisi negli ultimi anni: il Tibet, Taiwan, lo squilibrio commerciale tra Cina e Stati Uniti e i diritti umani. Hu ha sottolineato che “cooperare signiica rispettare le scelte reciproche in merito al percorso di sviluppo intrapreso”. Intanto, fuori dalla Casa Bianca, gli attivisti per i diritti umani protestavano contro Pechino. Il sito della Bbc scrive che le immagini delle proteste durante l’incontro fuori dalla Casa Bianca, trasmesse dalle tv straniere, in Cina sono state oscurate. Ma la vera sostanza della visita di Hu, che terminerà il suo mandato nel 2012, è stata di carattere economico. Dopo Washington, il presidente cinese ha proseguito per Chicago, dove ha incontrato i dirigenti delle maggiori aziende statunitensi presenti in Cina.

kazakistan

strage di pellegrini Il 14 gennaio almeno 104 persone sono rimaste uccise e cinquanta ferite durante un pellegrinaggio lungo il sentiero di montagna Pullumedu, che porta al tempio indù Sabarimala, nello stato del Kerala. A causare la strage è stata la ressa cominciata dopo che una jeep si è ribaltata su dei pellegrini. Secondo un rapporto del dipartimento forestale del Kerala, uno dei fattori alla base dell’incidente è la negligenza dei responsabili dei templi dello stato, che hanno ignorato le raccomandazioni di regolare il transito dei veicoli motorizzati.

Afghanistan Il 19 gennaio 13 persone sono morte nell’esplosione di una bomba su una strada nella provincia di Paktika, nell’est del paese. L’attentato è stato attribuito ai ribelli taliban. Filippine Il 18 gennaio il governo e i ribelli comunisti hanno annunciato che il 15 febbraio riprenderanno a Oslo i negoziati di pace. L’obiettivo è mettere ine entro il 2014 al conlitto cominciato nel 1969. India Il ministero dell’interno ha annunciato il 14 gennaio che il contingente presente in Kashmir sarà ridotto del 25 per cento.

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Americhe Come al cinema

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empo fa ad Haiti c’era una piccola e famosa sala cinematograica, il Capitol. In rue Lamarre. Oggi che i cinema sono diventati dei ricordi per chi coltiva la malinconia dei tempi andati, l’attualità ha preso il posto del grande schermo. E di certo ad Haiti l’attualità non manca. I giornalisti che inseguono le notizie non hanno un minuto di pausa. Negli ultimi giorni i ilm in programma sono emozionanti. Dopo il drammatico anniversario del terremoto del 12 gennaio 2010, che ha fatto rivivere a tutti “Il giorno in cui per poco non ho perso la vita” o “Il giorno in cui ho perso una persona amata”, dal 16 gennaio in cartellone c’è “Il ritorno di Jean-Claude”. Jean-Claude, chiamiamolo per nome. Non è né Duvalier – quello era suo padre – né Baby Doc, un soprannome che noi haitiani abbiamo scoperto leggendo la stampa internazionale il giorno della sua fuga, nel febbraio del 1986. Jean-Claude è tornato in patria. È più vecchio, ma sempre circondato da militari, adulatori e da una donna. Questo dittatore, che ha sempre lasciato agli altri il lavoro sporco, dal 16 gennaio deve faticare per afrontare la stampa e i tribunali. Dev’essere spaesato, in senso proprio e igurato.

Non è un brutto sogno In questi giorni è in programma anche un altro ilm, che non si vedeva da anni. L’Organizzazione degli stati americani (Osa) ha dovuto presentare delle scuse al presidente della repubblica di Haiti René Préval, per una fuga di notizie su un rapporto sulla regolarità delle elezioni che gli era stato commissionato dallo stesso Préval. Solo al cinema un dirigente haitiano può sognare di essere il protagonista più apprezzato nei suoi rapporti con le istituzioni internazionali. L’anniversario del sisma, l’Osa, JeanClaude, il colera, le elezioni presidenziali. Purtroppo non è iction e neanche un brutto sogno. Siamo ad Haiti nel 2011. E gli haitiani devono darsi da fare perché in questo paese non c’è il lieto ine che riempie di felicità gli spettatori. u nm

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RAMON ESPINOSA (AP/LAPRESSE)

Frantz Duval, Le Nouvelliste, Haiti

Port-au-Prince, 18 gennaio 2011. Jean-Claude Duvalier

Haiti fa i conti con Baby Doc Maye Primera, El País, Spagna

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l 18 gennaio, quando una decina di poliziotti haitiani e dell’Onu l’hanno prelevato dall’albergo per portarlo al palazzo di giustizia, l’ex dittatore Jean-Claude Duvalier indossava lo stesso vestito blu di due giorni prima, al suo arrivo all’aeroporto di Port-au-Prince. Non aveva le manette: non l’avevano arrestato. Cinque ore dopo la magistratura ha presentato contro di lui accuse di corruzione, furto e malversazione di fondi pubblici. Duvalier, noto come Baby Doc, è uscito da uomo libero, ma dovrà rimanere a disposizione dei giudici. Le autorità volevano interrogarlo per stabilire se, durante il suo governo dal 1971 al 1986, avesse sottratto milioni dai fondi pubblici.

A casa Duvalier è tornato a Port-au-Prince il 16 gennaio, dopo 25 anni di esilio in Francia. Lo stesso corpo di polizia che l’ha scortato dall’aeroporto al quartiere di Pétionville, il 18 gennaio ha occupato la strada del suo albergo in dalla mattina presto. All’una gli agenti l’hanno fatto salire su un furgone con i vetri oscurati. Poco prima il giudice Gabriel Ambroise e il pubblico ministero Aristidas Auguste erano saliti nella camera di Duvalier per spiegargli la situazione. De-

cine di manifestanti si sono concentrati fuori dall’ediicio acclamando il dittatore e sventolando vecchie foto di François Duvalier, Papa Doc, dittatore di Haiti dal 1957 al 1971, che alla sua morte lasciò il governo al iglio diciannovenne. “Sotto la presidenza di Duvalier e dei suoi squadroni della morte sono state uccise e torturate migliaia di persone e centinaia di migliaia di haitiani sono fuggiti in esilio”, ha dichiarato il responsabile per le Americhe di Human rights watch, José Miguel Vivanco. Clébert Joseph, un haitiano di 65 anni che gridava slogan a favore del dittatore sotto il suo albergo, ha un altro ricordo: “Jean-Claude non è cattivo. È tornato a casa. Tutti i leader in questo paese hanno ucciso qualcuno”. Il portavoce dell’alto commissario dell’Onu per i diritti umani ha dichiarato: “Non è chiaro se Haiti possa arrestare e processare Duvalier”. La questione è se i crimini imputati a Baby Doc siano caduti o meno in prescrizione. Il governo statunitense è stato cauto. “Qualsiasi leader politico non dovrebbe pensare a se stesso, ma a fare passi avanti nell’applicazione dei diritti umani e nella ricostruzione del paese”, sono state le uniche parole su Duvalier pronunciate dal portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs. u sb


stati uniti

stati uniti

L’amico dei tea party

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in breve

Stati Uniti Il 14 gennaio il presidente statunitense Barack Obama ha tolto alcune restrizioni sui visti, gli invii di denaro e i viaggi verso Cuba. Venezuela Il 15 gennaio, in un discorso alla nuova assemblea nazionale, il presidente Hugo Chávez ha lanciato un invito al dialogo, impegnandosi a revocare entro l’estate i poteri speciali che ha ottenuto nel dicembre del 2010.

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Leggi sul possesso di armi meno severe

più severe

“La strage di Tucson dell’8 gennaio ha riacceso il dibattito sulla cultura delle armi negli Stati Uniti”, scrive Time. “L’Arizona è da sempre in prima linea nella battaglia per il diritto a possedere armi. Dopo il Vermont e l’Alaska, l’anno scorso ha approvato una legge che consente ai cittadini di portare armi nascoste in luoghi pubblici anche senza permesso. Un’altra legge consente di portare armi nei bar, purché si astengano dal bere”. Negli Stati Uniti c’è la più alta concentrazione di armi da fuoco del mondo: circa 300 milioni, di cui cento milioni in mano a privati cittadini. u

REUTERS/CONTRASTO

TIME

il paese delle pistole

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Reince Priebus è il nuovo presidente del partito repubblicano. Ex capo del partito nel Wisconsin, 39 anni, ha preso il posto di Michael Steele dopo aver sconitto Maria Cino, appoggiata dal presidente della camera John Boehner. Secondo Politico la sida più diicile di Priebus sarà trattare con i Tea party, suoi sostenitori, senza ofendere i donatori tradizionali del partito.

Punta Arenas, Cile

ciLe

accordo sul gas “Dopo sette giorni di sciopero per l’aumento del prezzo del gas, il governo di Sebastián Piñera e i rappresentanti dell’Asamblea ciudadana della regione meridionale di Magallanes hanno raggiunto un accordo”, scrive il quotidiano cileno La Nación. Il nuovo ministro dell’energia Laurence Golborne (anche ministro per le miniere) ha dichiarato che il prezzo del gas aumenterà dal 1 febbraio solo del 3 per cento – invece del 16 per cento annunciato la settimana scorsa – con un sussidio per il 44 per cento della popolazione della regione.

Dall’avana Yoani Sánchez argentina

cafè amaro Bere una tazza di cafè la mattina è l’equivalente nazionale della colazione. Possono mancare il pane, il burro e anche l’irraggiungibile latte, ma un risveglio senza questa bevanda calda e stimolante lascia presagire una brutta giornata. Quand’ero bambina tutti gli adulti che mi circondavano bevevano tazze su tazze di cafè mentre chiacchieravano: il rito di condividere un cafè era importante come abbracciare qualcuno o invitarlo a entrare in casa. Qualche settimana fa Raúl

una settimana senza grano Castro ha annunciato che il cafè del mercato razionato sarà mescolato con altri ingredienti. È stato bufo sentire un presidente parlare di argomenti culinari, ma a noi cubani ha fatto anche ridere il fatto che ci spiegasse una prassi comune da anni nell’isola. Non solo alteriamo da tempo la più importante bevanda nazionale, ma lo stato ci ha anche superato in furbizia senza dichiararlo sull’etichetta del prodotto. Non si potrà più usare l’aggettivo “cubano”, perché non è un segreto che il

paese importa cafè dal Brasile e dalla Colombia. A Cuba la produzione annuale di cafè è scesa da 60mila tonnellate a seimila. Negli ultimi mesi “il nettare nero degli dèi bianchi”, come una volta l’hanno deinito gli indigeni, ha cominciato a scarseggiare. Le casalinghe hanno ricominciato ad aggiungere piselli tostati e macinati per garantire il goccetto amaro al risveglio. Non sappiamo se si può ancora chiamare cafè, ma almeno è qualcosa di caldo da bere la mattina. u sb

Il 17 gennaio i produttori agricoli hanno cominciato uno sciopero di una settimana per protestare contro i limiti alle esportazioni del grano imposti dal governo. L’Argentina è uno dei maggiori esportatori di cereali del mondo, ma secondo molti analisti questo sciopero è soprattutto simbolico e, almeno per il momento, non avrà ripercussioni né sul mercato internazionale né su quello interno. “È la nona volta”, ricorda il quotidiano La Nación, “che gli agricoltori protestano contro le politiche agricole della presidente Cristina Fernández”.

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Europa

PATRICk DURAND (GETTy IMAGES)

Jean-Marie e Marine Le Pen al congresso dell’Fn, Tours, 16 gennaio 2011

L’estrema destra francese si aida a Marine Le Pen Le Monde, Francia Dopo trentott’anni, Jean-Marie Le Pen lascia la guida del Front national alla iglia Marine. Che per svecchiare l’immagine del partito ha deciso di puntare sulla sovranità nazionale e la laicità

I

l cambiamento è evidente: il Front national è diventato un partito presidenziale. Con l’elezione di Marine Le Pen, che il 16 gennaio ha sconitto il rivale Bruno Gollnisch con oltre il 67 per cento dei voti dei militanti, il partito di estrema destra fondato nel 1972 dal padre Jean-Marie Le Pen ha subìto una trasformazione. La linea della nuova leader per le presidenziali del 2012 è stata accettata dall’intero partito. Immediatamente a suo agio nel suo nuovo ruolo, Marine Le Pen ha pronunciato un discorso programmatico di rottura, incentrato sulla repubblica, la democrazia, la laicità e lo stato nazionale. I temi classici dell’estrema destra sono stati sostituiti dall’esaltazione della sovranità, che presuppone l’uscita dall’euro e la lotta alla globalizzazione: “La scelta del 2012 sarà netta: da una parte la globalizzazione, cioè dere-

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golamentazione, meno protezione sociale, invasione demograica, perdita dei nostri valori civili; dall’altra la nazione”. Marine Le Pen non vuole più impaurire i francesi, ma punta ad allargare la sua base elettorale. L’obiettivo è rompere con la vecchia immagine dell’Fn e far entrare il partito nel novero delle formazioni democratiche. Per questo la nuova leader riprende alcuni temi condivisi, per poi riformularli in modo più radicale. L’Fn si presenta come una forza rigorosamente repubblicana, unico partito assolutamente contrario a ogni idea di comunitarismo e difensore della laicità: tutte posizioni utili per meglio attaccare i musulmani. “Faremo scrivere nella costituzione che la repubblica non riconosce nessuna comunità particolare”, ha detto Marine Le Pen, che, pur guidando un partito in cui hanno militato diversi ex collaborazionisti, ha dichiarato di voler rappresentare “lo spirito della resistenza”. Fieramente repubblicano, l’Fn si dichiara anche democratico: “Vogliamo rimettere lo stato nelle mani del popolo. E la democrazia diretta è la migliore forma di governo”. Ma Marine Le Pen vuole soprattutto dare una forte svolta statalista alla sua formazione, da sempre diidente verso le istitu-

zioni. “Quando bisogna dettare regole, proteggere, innovare è allo stato che si guarda, perché lo stato ha le dimensioni e la legittimità per agire. Inoltre lo stato fa parte del nostro dna nazionale”, ribadisce Le Pen, evocando “il bisogno di uno stato forte” contro “il dio denaro” e dichiarandosi favorevole alle nazionalizzazioni. Tutto questo non vuol dire che l’Fn si sia trasformato del tutto. In Italia Gianfranco Fini, con una reale evoluzione personale, ha portato Alleanza nazionale dal neofascismo alla destra classica. E qualunque analogia con Fini, considerato negli ambienti di estrema destra un traditore, è riiutata da Marine Le Pen. Ma il cambiamento portato dalla nuova leader è comunque profondo: nel pensiero dell’Fn sono apparsi concetti come la riduzione della crescita e la denuncia del consumismo, oltre al tema della “rilocalizzazione”, cioè “l’avvicinamento dei luoghi di produzione e di consumo”.

La strategia di Sarkozy Di fronte alla svolta dell’Fn, l’Ump del presidente Nicolas Sarkozy è alla ricerca di contromosse. Il governo non ha intenzione di abbandonare i temi della sicurezza e dell’immigrazione, che saranno al centro della campagna per le presidenziali del 2012. In questo campo, il presidente ritiene che i francesi continuino a considerarlo più credibile della sinistra, anche se le sue iniziative sono state spesso contestate. Il fallimento del dibattito sull’identità nazionale, le critiche dopo il discorso di Grenoble, che ha dato il via alle espulsioni dei rom, e i cambiamenti nell’Fn non hanno dato maggiore credibilità alla minoranza dell’Ump convinta che cavalcando i temi della sicurezza e dell’identità si fa il gioco dell’estrema destra. L’Ump, inoltre, vuole riappropriarsi degli aspetti sociali e dei riferimenti alla repubblica fatti da Le Pen. L’obiettivo è serrare i ranghi ed evitare una sconitta che rischierebbe di spaccare il partito. Allo stesso modo i socialisti non vogliono lasciare all’estrema destra i temi della sicurezza, dell’islam o dell’impoverimento della società. Il trauma del 21 aprile 2002, quando Lionel Jospin fu sconitto al primo turno da Jean-Marie Le Pen, poi battuto al ballottaggio da Jacques Chirac, è ancora forte. Anche per questo Martine Aubry e Ségolène Royal, in lizza per la candidatura alle presidenziali, hanno ripreso la strada delle fabbriche per riallacciare i contatti con l’elettorato popolare. u adr


CAThAL MCNAUGhTON (ReUTeRS/CONTRASTO)

germania

georgia-russia

il risarcimento impossibile

un esempio per tutti

La Georgia presenterà alla Russia una richiesta di risarcimento per le conseguenze della guerra dell’agosto 2008. Secondo Vzgliad, Tbilisi si rivolgerà alla giustizia internazionale per ottenere da Mosca 20 miliardi di dollari come compensazione per l’aggressione militare e altri 15 miliardi per i danni causati all’ambiente. Una richiesta che diicilmente verrà esaudita, come del resto quella già avanzata da Ossezia del Sud e Abkhazia (le due regioni secessioniste al centro del conlitto del 2008) al governo di Tbilisi: 13 miliardi di dollari di danni. Ma la guerra è costata molto anche a Mosca: secondo i dati del ministero delle inanze, il Cremlino ci ha rimesso 7 miliardi di dollari.

irlanda

Brian Cowen verso il voto Il premier irlandese Brian Cowen (nella foto) è stato confermato alla guida del partito di centro Fianna Fáil con un voto di iducia del suo gruppo parlamentare, scrive l’Irish Independent. In calo di consensi dopo la crisi di governo seguita all’approvazione del piano di salvataggio dell’Ue, Cowen aveva deciso, tra le polemiche, di non dimettersi, facendo così scoppiare uno scontro politico con il ministro degli esteri Micheál Martin. Sarà lui, quindi, a guidare il Fianna Fáil ino alle elezioni di marzo, che però, secondo i sondaggi, segneranno il ritorno al potere dei laburisti.

Nel 2010 il pil ha registrato una crescita record, la disoccupazione è diminuita e le entrate dello stato sono aumentate a ritmi vertiginosi. Il miracolo economico arrivato mentre il mondo è in crisi , osserva Cicero, ha proposto una Germania che “una volta tanto è un modello per gli altri paesi”. Politici ed economisti di tutto il pianeta non smettono di elogiare i risultati di Berlino. Oggi, inoltre, i tedeschi non sono visti solo come persone eicienti e aidabili, ma anche allegre e piene di passione. Ma a quanto pare neanche questo miracolo economico può fermare “la loro classica tendenza all’autocommiserazione e il loro amore per l’infelicità”. Mentre gli italiani invidiano alla Germania il suo sistema di smaltimento dei riiuti e gli inglesi le scuole, i tedeschi cominciano a dubitare che l’economia vada davvero bene e si lanciano in previsioni per il futuro piene di pessimismo e paura. “Questa non è certo una forma di sano scetticismo”, conclude il mensile, “ma una negazione della realtà. Forse, come sospettano alcuni studiosi, è un bisogno inconscio di autopunirsi dovuto a eventi tragici della storia recente, come i crimini nazisti”. ◆ gran Bretagna

estonia

una divisione di cibersoldati Per difendere il paese dagli attacchi informatici, Tallinn ha creato la Küberkaitseliit (Lega di ciberdifesa, Kkl): la prima unità di cibersoldati del mondo, legata all’organizzazione paramilitare Lega di difesa estone. Il gruppo s’incontra ogni settimana per sventare attacchi informatici simulati. L’estonia, scrive il quotidiano polacco Rzeczpospolita, “è stato il primo paese del mondo a introdurre il voto online nelle elezioni parlamentari ed è tra i leader per l’accesso alla rete. Anche per questo un attacco informatico paralizzerebbe l’intero stato”.

la rivincita dei laburisti Il 13 gennaio il partito laburista ha vinto con un ampio margine le elezioni legislative suppletive nella circoscrizione di Oldham east e Saddleworth, vicino a Manchester. Il voto era stato indetto dopo l’annullamento Le elezioni suppletive di Oldham East/Saddleworth, 13 gennaio 2011 % Numero 0 10 20 30 40 50 di voti

Laburisti

14.718

Liberaldemocratici

11.160

Conservatori

4.481

Altri

4.571

Fonte: Bbc

dell’elezione, per pochi voti, del laburista Phil Woolas, il 6 maggio 2010. Questa volta lo scarto tra la laburista Debbie Abrahams e il liberaldemocratico elwyn Watkins è stato molto ampio, osserva il Guardian, che attribuisce il successo della sinistra al crollo dei conservatori. “Il Labour conferma di essere tornato in campo”, osserva il quotidiano, secondo cui la vittoria “conferisce una nuova autorità e un certo slancio” al nuovo leader laburista ed Miliband, molto criticato al momento della sua elezione. A garantire il successo della campagna del Labour sarebbero state la denuncia dell’aumento delle rette universitarie e dell’iva, due misure chiave del piano di austerità del governo liberalconservatore di Nick Clegg e David Cameron.

DANIeL ROLAND (AFP/GeTTy IMAGeS)

Cicero, Germania

in Breve

Germania Il 18 gennaio è cominciato a Francoforte il processo al ruandese Onesphore Rwabukombe, accusato di aver partecipato al genocidio del 1994 in Ruanda. Rwabukombe si era rifugiato in Germania anni fa (nella foto, mentre viene ammanettato). Grecia Il 17 gennaio si è aperto ad Atene il processo a 13 anarchici del gruppo Cospirazione delle cellule di fuoco. Rischiano ino a 25 anni di prigione per terrorismo. Russia Il presidente Dmitrij Medvedev è arrivato il 18 gennaio in Medio Oriente per rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi.

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Le opinioni

Efetto Tunisia nel mondo arabo Rami Khouri

G

li eventi di queste ultime settimane in mili anche nei loro paesi. È la dimostrazione di quanto Tunisia, dove le manifestazioni di sia maturata Al Jazeera e del suo ruolo attivo nel campiazza hanno spinto alla fuga il presi- biamento. È il risultato di quindici anni di crescita di dente Zine el Abidine Ben Ali, po- questa tv, nata nel 1996 come strumento di espressiotrebbero dimostrarsi la svolta storica ne e di solidarietà per i telespettatori arabi, frustrati che molti prevedevano e aspettavano dalla impossibilità di esercitare appieno i loro diritti. 4. L’aspetto più notevole degli eventi in corso in da decenni nel mondo arabo: il momento in cui dei cittadini scontenti e umiliati si liberano della paura e Tunisia è l’aver mostrato quanto fosse debole la struttura che manteneva al potere il regime chiedono con forza ai loro leader serie di Ben Ali, fondato sulle forze di sicuriforme politiche. La fuga di Ben Ali, ot- L’aspetto più tenuta da coraggiosi cittadini tunisini notevole degli eventi rezza. Ancora una volta la lezione è che i che hanno smesso di lasciarsi intimidire in corso in Tunisia è regimi dittatoriali tenuti in piedi sopratdalla polizia e dall’esercito, è un evento l’aver mostrato storico per quattro motivi. quanto fosse debole tutto dalle forze armate e dai servizi segreti si sgretolano rapidamente appena 1. È il primo esempio di leader arabo la struttura che che viene cacciato da una rivolta popola- manteneva al potere i cittadini mostrano di non temere lo re negli ultimi decenni. È la ine dell’ineril regime di Ben Ali, scontro con i militari rischiando la morte, le manganellate e il carcere. Il 10 zia e della docilità delle masse arabe, rifondato sulle forze gennaio, quando Ben Ali ha ordinato maste passive per anni di fronte al potere alle sue truppe di non usare proiettili crescente di stati autoritari sostenuti di sicurezza veri contro i manifestanti e ha promesso dall’occidente, e di regimi fondati sulla di non ripresentarsi alle elezioni del 2014, si è capito polizia e sull’esercito. È possibile che l’attuale rivolta tunisina passi alla che i suoi giorni erano contati. E infatti da quel mostoria come l’equivalente arabo del movimento di So- mento sono passate solo ventiquattr’ore prima che lidarnosc che nel 1980, dai cantieri di Danzica in Polo- fuggisse dalla Tunisia. Ben Ali è stato uno dei peggiori esempi di dittatore nia, diede il via alle proteste che contribuirono al crollo, dieci anni dopo, dell’Unione Sovietica e del suo arabo contemporaneo, per di più fortemente sostenuimpero. Va detto, in realtà, che probabilmente spetta to dalle potenze occidentali. L’uomo forte di Tunisi al popolo sudanese il merito della prima protesta po- per anni ha represso spietatamente le proteste e sofopolare moderna del mondo arabo: quella che provocò cato le side lanciate da altre forze politiche: partiti un cambio di governo nel 1985, quando le manifesta- islamici, democratici laici, di sinistra, o sindacalisti, zioni di piazza rovesciarono il presidente Jaafar Ni- giuristi, giornalisti e altre categorie di cittadini. Poiché meiri. Però quel cambiamento fu breve, tanto che poco nel mondo arabo sono molto difusi sistemi di governo tempo dopo il Sudan si è trovato di nuovo sotto un re- simili forse stiamo assistendo all’avvio di un processo storico in cui gli eventi di questi giorni innescheranno gime militare. 2. Le manifestazioni tunisine di queste settimane altre rivolte per imitazione o nuovi fermenti politici. sono largamente condivise in tutto il mondo arabo, Anche in questo caso Al Jazeera avrà un ruolo fondacon la possibile eccezione di alcuni piccoli paesi ricchi mentale. Resta l’incognita su ciò che la ine di Ben Ali signidel Golfo. Queste proteste non riguardano solo l’aumento dei prezzi e la mancanza di posti di lavoro, ma icherà per gli interessi e le posizioni di grandi potenze anche il modo autoritario e paternalistico con cui certe occidentali come la Francia e gli Stati Uniti. In larga élite di potere del mondo arabo trattano i cittadini, ne- misura dipenderà dal tipo di governo che prenderà il gandogli i più fondamentali diritti umani: libertà di posto del suo stato fondato sui servizi segreti e sulla espressione, rappresentanza credibile, partecipazione repressione. Riuscirà ad afermarsi un sistema demopolitica, obbligo dei governi di rispondere al popolo e cratico e pluralista? E in che misura i tunisini riterranpari accesso alle risorse dello stato e alle opportunità no responsabili le potenze occidentali per i decenni in cui hanno soferto la loro condizione di cittadini senza oferte dal libero mercato. 3. La copertura degli eventi e della ine del regime diritti democratici? Lo sapremo ben presto, perché forse stiamo per di Ben Ali, assicurata dal network televisivo Al Jazeera, porta questa vicenda nelle case di centinaia di milioni avere la possibilità di sentir dire dai tunisini, per la pridi arabi, molti dei quali la seguono entusiasti, e proba- ma volta in mezzo secolo, cosa pensano e cosa vogliobilmente saranno incoraggiati a dar vita a proteste si- no davvero. u ma

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RAMI KHOURI

è columnist del quotidiano libanese Daily Star. È direttore dell’Issam Fares Institute of Public Policy and International Afairs all’American University di Beirut.


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Le opinioni

Il giornalismo con l’inganno David Randall

S

arebbe bello cominciare l’anno con qualco- di aver smascherato. Secondo me, infatti, il modo in sa di ediicante, che mandi un messaggio cui la notizia è stata ottenuta l’ha privata di ogni valore. di speranza ai lettori di Internazionale. Ma Uno dei princìpi fondamentali del giornalismo – se non io faccio il giornalista, non lo psicologo. E vuole essere solo gossip – è che il cronista deve sempre se di qualcosa sono diventato esperto gra- rivelare che lavoro fa, a meno che non stia indagando zie al mio lavoro, sono le situazioni sgrade- su un reato. E l’ostilità di un ministro verso Rupert voli. Quindi inaugurerò il 2011 parlando di comporta- Murdoch sarà anche una notizia interessante, ma non menti scorretti. Tra l’altro sarà anche molto più diver- è ancora un reato. Il Daily Telegraph ha inoltre afermato che le due tente. Partirò da una vicenda che qui, a Londra, ha susci- croniste operavano “sotto copertura”. Di solito tato un polverone. Vengo subito al sodo: la responsabi- quest’espressione si usa in caso di missioni nobili, condotte in circostanze pericolose da polilità di decidere se Rupert Murdoch possa ziotti o da giornalisti che rischiano la controllare altri mezzi di informazione Uno dei princìpi pelle per raccogliere informazioni, poin Gran Bretagna è stata aidata a un mi- fondamentali di niamo, sul traico di esseri umani o sulla nistro. Già, perché qui queste faccende ogni giornalismo criminalità organizzata. È un genere di sono regolamentate, a diferenza di certi che non sia solo giornalismo che ha una lunga tradizione. altri paesi che probabilmente conoscete. gossip è che il La sua pioniera fu Nellie Bly, una giovaSull’argomento il ministro aveva fatto cronista deve solo dichiarazioni vaghe. Se non che, alla sempre presentarsi ne e coraggiosa americana che si fece un nome negli anni ottanta dell’ottocento fine di dicembre, è scoppiato un caso come tale, a meno usando dei travestimenti per denunciare perché la stampa ha citato queste sue pache stia indagando varie ingiustizie. Una volta si inse addirole: “Ho dichiarato guerra al signor su un reato rittura pazza per trascorrere una decina Murdoch e credo che vinceremo”. Quedi giorni in un manicomio di New York e sto annuncio così aggressivo ha fatto pensare che il ministro avesse già preso la sua decisio- rivelare i trattamenti crudeli inlitti ai malati. Ma quelne sulle società di Murdoch. Molti si sono indignati lo che Nellie Bly non fece, né con i politici né con gli (almeno a parole) e alcune anime belle hanno accusato altri potenti, fu ingere di non essere una giornalista il ministro di non essere imparziale. Il giorno dopo gli è per ottenere dichiarazioni a efetto che non avrebbe ottenuto con una normale intervista. stata revocata la delega a decidere sul caso Murdoch. Mi sembra che questa vicenda del Daily Telegraph Ma non starei a seccarvi con questa vicenda, se non fosse per un dettaglio. Il ministro – Vince Cable, segre- e quella di Wikileaks, che ha pubblicato i cablogrammi tario di stato per le attività imprenditoriali – è stato for- dei diplomatici statunitensi, abbiano qualcosa in cose avvicinato da un cronista che gli ha fatto una doman- mune. In entrambi i casi, infatti, sono state rese pubblida? No. Ha fatto forse afermazioni imprudenti in un che dichiarazioni fatte da qualcuno che pensava di discorso uiciale? No. È successo, invece, che due don- parlare protetto dalla riservatezza. E in nessuno dei cane giovani e attraenti gli hanno fatto visita presso il suo si si è agito per lanciare l’allarme e sventare così qualstudio privato, dove una volta a settimana dà udienza che ingiustizia. Si è trattato invece di tentativi alla cieai cittadini. Le signore gli hanno fatto varie domande e ca, per vedere se saltava fuori qualcosa d’interessante. Cable ha risposto con franchezza, premettendo che le A me dà molto più fastidio un giornalista che si serve sue parole dovevano “restare tra quelle quattro mura”. dell’inganno di uno che approitta di una violazione Ma le due donne non erano comuni cittadine: erano contrattuale, come quella commessa dal dipendente due attraenti croniste del Daily Telegraph e hanno re- del governo statunitense che ha passato i cablogrammi a Wikileaks. gistrato di nascosto ogni sua parola. Di questi dispacci non ancora pubblicati pare che ce Pare che in Gran Bretagna molti giudichino il modo in cui sono state ottenute quelle dichiarazioni come un ne siano altri 200mila. Ebbene, se questi – a diferenza esempio di buon giornalismo. Io invece ci vedo un di quelli usciti inora – ci riveleranno dei segreti imporesempio di inganno. La direzione del Daily Telegraph tanti (in particolare sulla crisi inanziaria), allora l’opeha sostenuto insistentemente che, grazie a quel sotter- razione di Wikileaks sarà pienamente giustiicata. Non fugio, le croniste hanno messo in luce la contraddizio- come quella delle due giornaliste, che si sono insinuate ne tra le dichiarazioni del ministro e le sue vere opinio- nell’uicio privato di un politico spacciandosi per coni, e quindi hanno agito nel pubblico interesse. Ma è muni cittadine, facendogli gli occhi dolci per spingerlo un’ipocrisia ancora maggiore di quella che pretendono a parlare a ruota libera. u ma

DAVID RANDALL

è senior editor del settimanale Independent on Sunday di Londra. Ha scritto quest’articolo per Internazionale. Il suo ultimo libro è Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza 2007).

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Inchiesta

La nuova guerra è su internet Seymour Hersh, The New Yorker, Stati Uniti. Foto di Simon Norfolk Negli Stati Uniti cresce il timore di possibili attacchi informatici. Il business della sicurezza ha raggiunto cifre da capogiro. Civili e militari si contendono il controllo delle comunicazioni online. E la privacy dei cittadini è sempre più a rischio. Ma la minaccia è reale?

I

l 1 aprile 2001 un aereo da ricognizione statunitense EP-3E Aries II addetto alle intercettazioni sul mar della Cina Meridionale si scontrò con un jet cinese, scatenando la prima crisi internazionale dell’amministrazione Bush. Il velivolo cinese precipitò e il suo pilota morì, ma quello statunitense, guidato dal tenente della marina Shane Osborn, riuscì a efettuare un atterraggio di fortuna in una base cinese sull’isola di Hainan, a quindici miglia dal continente. In seguito, Osborn pubblicò un memoriale in cui descriveva “le martellanti vibrazioni” dell’aereo che precipitava facendo 2.600 metri in trenta secondi, mentre lui tentava di riprenderne il controllo. L’aereo trasportava ventiquattro persone tra uiciali e soldati assegnati al Naval security group command, un’unità della National security agency (Nsa), che furono rimpatriati dopo undici giorni. L’aereo rimase ad Hainan. Il Pentagono dichiarò che l’equipaggio aveva rispettato il protocollo, che prevedeva l’uso di un’accetta, e perino di un cafè bollente, per rendere inutilizzabili le apparecchiature e i programmi dell’aereo. Tra questi c’era un sistema operativo creato e gestito dall’Nsa che controllava i messaggi radar cifrati, quelli in voce e le comunicazioni elettroniche dei cinesi. Ci vollero due anni prima che la marina ammettesse che le cose non erano andate così bene. “È altamente probabile, quindi non

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può essere escluso, che una parte del materiale top secret non sia andato distrutto e sia caduto nelle mani della Repubblica Popolare Cinese”, si legge in un rapporto della marina pubblicato nel settembre del 2003. Il danno era ancora più grave di quanto si potesse dedurre dal rapporto del 2003, e le sue dimensioni non sono state ancora del tutto rese note. Il contrammiraglio a riposo Eric McVadon, che faceva ricognizioni aeree al largo della costa russa ed era addetto militare a Pechino, mi ha detto che i messaggi radio inviati dal velivolo indicavano che le informazioni essenziali erano state eliminate e che l’equipaggio era riuscito a cancellare il disco rigido, ma non aveva distrutto l’hardware, da cui si potevano recuperare i dati. “Nessuno ha usato un martello”, ha detto McVadon. Anzi, le apparecchiature elettroniche erano state appena aggiornate. “Forse qualcuno pensa che non sia andata così male, ma ho partecipato a qualche riunione sui costi di quell’incidente per l’intelligence. Sono stati altissimi”. Gli esperti della marina non credevano che la Cina fosse capace di ricostruire il sistema operativo fornito dall’Nsa, il cui codice, se-

Un obiettivo della ciberguerra potrebbe essere la rete elettrica statunitense

condo un ex alto funzionario della Cia, è formato da un numero di righe che va dai trenta ai cinquanta milioni. Conoscendolo, la Cina potrebbe decifrare le informazioni segrete della marina. “Se il sistema operativo controllava quello che normalmente controlla un aereo spia, aveva sicuramente una serie di driver per catturare informazioni radar e telemetriche”, spiega Whitfield Diffie, un pioniere nel campo della crittograia. “L’aereo era conigurato per spiare quello che gli interessava, e i cinesi vorranno sapere cosa volevamo sapere su di loro, e quello che noi potevamo intercettare e loro no”. In efetti, negli anni successivi i servizi segreti statunitensi hanno cominciato a rendersi conto che la Cina aveva accesso a informazioni sensibili. Gli Stati Uniti hanno capito ino a che punto erano esposti solo alla ine del 2008. Due funzionari della sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush e l’ex funzionario dei servizi segreti mi hanno detto che qualche settimana dopo l’elezione di Barack Obama i cinesi hanno cominciato a intercettare una serie di connessioni controllate dall’Nsa. Le intercettazioni riguardavano anche alcuni dettagli sugli spostamenti programmati dalla marina. A quanto sembra, i cinesi stavano dimostrano agli americani quello che erano in grado di fare. Perché i cinesi avevano fatto capire che avevano accesso alle comunicazioni statunitensi? Uno dei funzionari della sicurezza


INSTITUTE

Il supercomputer dell’università di Liverpool, in Gran Bretagna

nazionale mi ha detto che alcuni assistenti del vicepresidente Cheney credevano – o volevano credere – che l’attacco fosse un messaggio di benvenuto al presidente Obama. È anche possibile che i cinesi si fossero semplicemente sbagliati, data la diicoltà di muoversi con precisione nell’universo informatico. Un ex funzionario della Cia mi ha detto che l’ammiraglio Timothy J. Keating, che all’epoca era a capo del comando del Paciico, convocò una serie di frenetiche riunioni alle Hawaii. All’inizio del 2009 riferì l’accaduto alla nuova amministrazione Obama. Se i cinesi avevano ricostruito il sistema operativo dell’EP-3E, tutti i sistemi simili della marina dovevano essere sostituiti, per un costo di centinaia di milioni di dollari. Dopo quell’incontro, dicono diversi funzionari dell’amministrazione attuale e di quella precedente, la sostituzione fu efettuata. La perdita del’EP-3E ha scatenato un lungo dibattito all’interno dell’esercito e dell’amministrazione Obama. Molti milita-

ri considerano l’incursione cinese un avvertimento: la Cina potrebbe usare le sue nuove capacità informatiche per attaccare le infrastrutture civili e il complesso militare statunitense. Altri invece propendono per una risposta paciica e appoggiano un maggior uso della crittograia, perché temono che conidare troppo nelle iniziative dei militari possa avere conseguenze negative per la privacy e le libertà civili. A maggio del 2010, dopo anni di programmazione, è stato uicialmente attivato il cibercomando degli Stati Uniti, che ha assunto il controllo operativo di diverse unità di attacco e di sicurezza in precedenza assegnate ai quattro corpi dell’esercito. Il comandante, il generale dell’esercito Keith Alexander, un uiciale di carriera dei servizi segreti, ha detto chiaramente che per proteggere gli Stati Uniti e combattere quello che considera un nuovo tipo di guerra, la guerra nel ciberspazio, vuole avere maggior accesso alle email, ai social network e a internet. Nei prossimi mesi Obama, che si è

impegnato pubblicamente a difendere la libertà e la privacy di internet, dovrà fare scelte che avranno enormi conseguenze. Le reti americane saranno aidate ai civili o ai militari? La sicurezza informatica sarà al centro di una guerra? Anche se i dettagli dell’episodio dell’EP3E sono stati tenuti segreti, la “guerra cibernetica” è diventata uno dei problemi di sicurezza nazionale più pubblicizzati del paese. All’inizio del 2010 Richard Clarke, un ex funzionario della sicurezza nazionale alla Casa Bianca che lanciò l’allarme sulla pericolosità di Al Qaeda prima degli attacchi dell’11 settembre, ha pubblicato Cyber war, una dura denuncia della vulnerabilità degli Stati Uniti agli attacchi degli hacker, sia governativi sia privati, soprattutto cinesi. “Dalla ine degli anni novanta la Cina ha fatto tutto quello che un paese farebbe se avesse deciso di prepararsi a un’ofensiva informatica”, scrive Clarke. E prevede un futuro in cui la Cina potrebbe scatenare il caos: “Nel giro di un quarto d’ora, 157 granInternazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Inchiesta di aree metropolitane vengono gettate nel panico da un blackout nazionale all’ora di punta. Nuvole di gas velenosi si avvicinano a Wilmington e Houston. In diverse città le rainerie bruciano le loro scorte di petrolio. A New York, Oakland, Washington e Los Angeles le metropolitane si fermano. In tutto il paese gli aerei cadono dal cielo a causa delle collisioni in volo. Muoiono diverse migliaia di americani”. All’inizio del 2010 il viceammiraglio a riposo J. Michael McConnell, il secondo direttore della National intelligence di Bush, ha lanciato un allarme simile. “Gli Stati Uniti stanno combattendo una ciberguerra e la stanno perdendo”, ha scritto sul Washington Post. “Le nostre difese informatiche sono estremamente carenti”. A febbraio, quando ha testimoniato davanti alla commissione per il commercio, la scienza e i trasporti del senato, ha detto: “Se non limitiamo i rischi, potremmo andare incontro a una catastrofe”. In gioco ci sono parecchi soldi. Quella della sicurezza informatica è un’industria in espansione, e gli avvertimenti di Clarke, di McConnell e di altri hanno contribuito a creare l’attuale complesso cibermilitare. Il governo federale spende tra i sei e i sette miliardi di dollari all’anno per la sicurezza informatica di materiale non secretato e si calcola che spenda altrettanto per quello secretato. Clarke è il presidente della Good Harbor Consulting, una società di pianiicazione strategica che ofre consulenze a governi e imprese sulla sicurezza informatica e su al-

tre questioni. Oggi McConnell è vicepresidente esecutivo della Booz Allen Hamilton, che lavora in appalto per la difesa. Due mesi dopo che aveva testimoniato davanti al senato, la Booz Allen Hamilton ha ottenuto un contratto da 34 milioni di dollari, 14 dei quali erano destinati alla costruzione di un bunker per il nuovo cibercomando del Pentagono. I funzionari della sicurezza e dell’intelligence statunitensi concordano quasi tutti nel dire che i militari cinesi, e forse anche un hacker indipendente, in teoria sarebbero in grado di scatenare il caos negli Stati Uniti. Ma diversi esperti dell’esercito e dei servizi segreti mi hanno detto che questi timori sono esagerati e si basano su una fondamentale confusione tra spionaggio infor-

“Tutti rubano a tutti. Il problema degli Stati Uniti è come fermare questa corsa” matico e ciberguerra. Il primo consiste nell’intercettare segretamente scambi di email, messaggi di testo, altre comunicazioni elettroniche e dati industriali allo scopo di raccogliere informazioni sulla sicurezza nazionale o notizie di tipo commerciale. La ciberguerra consiste nel penetrare nelle reti di comunicazione di altri paesi allo scopo di danneggiarle e metterle fuori uso. Questa confusione è tornata utile agli appaltatori della difesa, ma ha molto preoccu-

pato i difensori della privacy. Il libro di Clarke, con le sue descrizioni allarmanti, ha avuto molte recensioni positive. Ma è stato aspramente criticato dai giornalisti delle riviste tecniche specializzate, che hanno rilevato molte informazioni sbagliate e una serie di ipotesi senza fondamento. Per esempio, Clarke attribuisce a un hacker una grave interruzione dell’elettricità avvenuta in Brasile, mentre sembra sia stata dovuta ad alcuni isolatori coperti di fuliggine.

Prove inconsistenti Le ipotesi di guerra informatica più comuni riguardano la rete elettrica statunitense. Neanche il più rigoroso difensore della privacy metterebbe in discussione la necessità di aumentare la sicurezza delle infrastrutture elettriche statunitensi, ma non esiste alcun caso documentato di un blackout causato da un attacco informatico. E l’idea che premendo un bottone un hacker possa spegnere le luci di tutto il paese è semplicemente ridicola. Negli Stati Uniti non esiste una rete elettrica nazionale. Esistono più di centro società elettriche pubbliche e private che hanno linee, sistemi informatici e metodi di sicurezza diversi. Queste società hanno formato molte reti regionali, il che signiica che un fornitore che fosse colpito da un attacco informatico potrebbe sfruttare l’elettricità dei sistemi vicini. Il decentramento, che tanto allarma gli esperti di sicurezza come Clarke e molti suoi colleghi dell’esercito, può anche proteggere le reti. A luglio del 2010 si è parlato di un virus,

Da sapere Attacchi informatici Aurora Provenienza: Cina Data: 2009 Obiettivi: attivisti per i diritti umani cinesi negli Stati Uniti, aziende tecnologiche negli Stati Uniti Danni: compromesse le email degli attivisti per i diritti umani, rubati da Google i codici proprietari Livello tecnico: alto Coinvolgimento del governo cinese: probabile Byzantine Candor Provenienza: Cina Data: 2002-? Obiettivi: esercito e agenzie governative statunitensi Danni: rubate “grandi quantità di dati sensibili” Livello tecnico: alto Coinvolgimento del governo cinese: probabile

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Ghostnet Provenienza: Cina Data: 2007-2009 Obiettivi: ambasciate e uici governativi di diversi paesi in India, compresa l’ambasciata statunitense e gli uici del governo tibetano in esilio Danni: sconosciuti. I software si iniltrano furtivamente nei computer senza che gli utenti se ne accorgano Livello tecnico: alto Coinvolgimento del governo cinese: probabile Shadows in the cloud Provenienza: Cina Data: 2009-2010 Obiettivi: uici governativi indiani e tibetani, Nazioni Unite Danni: compromessi la corrispondenza dei tibetani in esilio e i docu-

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menti segreti del governo indiano. Livello tecnico: alto Coinvolgimento del governo cinese: plausibile Stuxnet Provenienza: Israele Data: 2009-2010 Obiettivi: sistemi industriali Danni: colpiti circa centomila computer, soprattutto in Iran. Chiusura temporanea delle centrifughe nell’impianto per l’arricchimento dell’uranio di Natanz Livello tecnico: molto alto Coinvolgimento del governo israeliano: probabile Russia contro Estonia Data: 2007 Causa: la decisione del governo estone di togliere un monumento di guerra sovietico dalla capitale Tallinn

Danni: bloccati per giorni i siti web di banche, governo e giornali Livello tecnico: medio Coinvolgimento del governo russo: plausibile Russia contro Georgia Data: 2008 Causa: guerra nell’Ossezia del Sud Danni: i siti del governo georgiano fuori uso per alcune ore Livello tecnico: medio Coinvolgimento del governo russo: plausibile Contro Wikileaks Data: 2010 Causa: la pubblicazione di cablogrammi diplomatici segreti Danni: ripetute interruzioni al sito Livello tecnico: basso Coinvolgimento di un governo: improbabile New Scientist


INStItUtE

Antenne per le intercettazioni sull’isola di Ascensione, nell’Atlantico meridionale

chiamato Stuxnet, che ha colpito migliaia di computer in tutto il mondo. Le vittime, la maggior parte delle quali ne sono uscite indenni, sono riuscite a superare gli attacchi, anche se in alcuni casi hanno impiegato ore o addirittura giorni per accorgersi della presenza del virus. Alcuni computer erano all’interno della centrale nucleare di Bushehr, in Iran, perciò molti hanno pensato che il virus fosse stato creato in Israele o negli Stati Uniti. Un consulente del Pentagono sulla guerra informatica mi ha detto che forse era stato un tentativo di “attacco semantico”, cioè un virus progettato per spingere le vittime a pensare che i loro sistemi funzionavano bene, mentre in efetti non era così, e forse già da tempo. Se il virus mirava a colpire Bushehr, ha messo in evidenza uno dei punti deboli degli attacchi informatici: è diicile dirigerli su un obiettivo preciso e contenerli. L’India e la Cina sono state colpite più dell’Iran, e il virus avrebbe potuto difondersi in direzioni diverse e colpire Israele. Ancora una vol-

ta, l’apertura di internet costituisce un deterrente contro l’uso di armi informatiche. Bruce Schneier, un ingegnere informatico che pubblica un blog molto letto sulla cibersicurezza, non è in grado di dire se Stuxnet fosse una vera minaccia. “Non esistono prove concrete che il virus avesse come obiettivo l’Iran o qualunque altro paese”, mi ha scritto rispondendo a una mia email. “D’altra parte, era molto ben progettato e ben formulato”. Il vero rischio di Stuxnet potrebbe essere che “ha fatto il gioco di quelli che vogliono credere che la ciberguerra sia già scoppiata. Oggi fermare i militari sarà più diicile che mai”. Un contractor della difesa che è considerato uno dai maggiori esperti americani delle capacità militari e cibernetiche della Cina ha avuto da ridire sull’espressione “guerra cibernetica”. “Certo, ai cinesi piacerebbe derubarci”, mi ha detto, “trasferire tutte le innovazioni economiche e industriali da ovest a est. Ma lo spionaggio informatico non è guerra”. E ha aggiunto: “Mc-

Connell e Clarke insistono a parlare di ciberguerra, ma le loro prove sono inconsistenti”. James Lewis, del Centro studi strategici internazionali, ha lavorato per il dipartimento di stato e per quello del commercio sotto l’amministrazione Clinton e ha scritto diversi libri e articoli sugli enormi costi economici dello spionaggio informatico della Cina e di altri paesi, come la Russia, dove gli hacker sono in stretti rapporti con la criminalità organizzata. Anche Lewis distingue tra quello che è successo e una ciberguerra. “Le autorità cinesi mi hanno detto che non intendono attaccare Wall street perché praticamente è roba loro”. La Cina possiede quasi mille miliardi di dollari di titoli di stato americani, “e un attacco informatico danneggerebbe anche loro”. Nonostante questo, la Cina “sta lanciando un duro attacco agli Stati Uniti sul piano economico”, dice Lewis. “In parte è il solito spionaggio commerciale, ma in parte è qualcosa di nuovo, una sorta di conquista Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Inchiesta del west. Tutti rubano a tutti. Il problema degli Stati Uniti è come fermare questa corsa. Secondo me dobbiamo cominciare a pensare alla minaccia informatica come a una questione commerciale che non abbiamo ancora risolto”. La battaglia tra le agenzie civili e quelle militari sulla cibersicurezza, e i inanziamenti che l’accompagnano, rende più diicile valutare il pericolo. Il generale Alexander, il capo del cibercomando, è anche il direttore dell’Nsa, un doppio ruolo che ha suscitato qualche preoccupazione, soprattutto tra i difensori della privacy e delle libertà civili. Uno dei primi obiettivi di Alexander è stato assicurarsi che i militari svolgessero un ruolo dominante nelle questioni di cibersicurezza e nel decidere la forma delle reti informatiche future. Teoricamente, il dipartimento della sicurezza nazionale (Dhs) ha la responsabilità di garantire la sicurezza delle infrastrutture civili e private statunitensi, ma le autorità militari pensano che non abbia le risorse per proteggere le reti elettriche e altri sistemi. Questa disputa è diventata di dominio pubblico quando, nel marzo del 2009, Rodney Beckstrom, direttore del centro per la sicurezza cibernetica nazionale del Dhs, si è improvvisamente dimesso. In una lettera al segretario Janet Napolitano, Beckstrom avvertiva che l’Nsa stava controllando le attività informatiche del suo dipartimento: “Pur riconoscendo l’importanza dell’Nsa per la raccolta di informazioni, se la sicurezza e il controllo di tutte le reti governative sono nelle mani di un’unica organizzazione, le nostre istituzioni democratiche sono in grave pericolo”. Beckstrom ha insistito perché la sicurezza informatica fosse sorvegliata da agenzie civili “in contatto con l’Nsa, ma non sotto il suo controllo”. Il generale Alexander non ha fatto molto per rassicurare chi lo criticava sul ruolo dell’Nsa. Nell’udienza di conferma dello scorso aprile davanti alla commissione per i servizi armati del senato, si è lamentato di “uno sfasamento tra le nostre capacità tecniche di condurre certe operazioni e le leggi e le politiche di governo”. Alexander ha afrontato anche un tema discusso: quando usare le forze armate tradizionali per rispondere a un attacco in rete o prevenirlo. Ha detto ai senatori che il cibercomando sarebbe in diicoltà se dovesse decidere una risposta solo in base a un giudizio sulle intenzioni dell’hacker. “Qual è il suo piano? Ne ha uno? Sono questioni diicili, soprattutto quando entrano in gioco l’attribuzione e la neutralità”. A quel pun-

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to, ha detto, lui non ha “l’autorità di attaccare un paese neutrale. E la complicazione sta proprio lì. Come si può fare questo passo?”. Nell’autunno del 2010 il vicesegretario alla difesa William J. Lynn III ha pubblicato un saggio su Foreign Afairs in cui invita a usare le “capacità difensive dell’Nsa indipendentemente dal governo” e aferma: “A livello di dottrina, il Pentagono ha formalmente riconosciuto il ciberspazio come un nuovo terreno di guerra”. Questa deinizione solleva una serie di interrogativi su dove comincia e dove inisce il campo di battaglia. Il “ciberspazio” in cui operano i militari comprende i computer che sono nelle case degli americani? Un alto funzionario del dipartimento della sicurezza nazionale mi ha detto: “Ogni volta che l’Nsa si occupa della sicu-

Non si può pensare che forse scoppierà una guerra e stare lì ad aspettare che succeda rezza interna, i difensori della privacy gridano allo scandalo”. Ma la collaborazione tra militari e civili è aumentata (qualche tempo fa, il dipartimento della sicurezza nazionale ha siglato un accordo con il Pentagono che, in caso di attacco informatico, concede ai militari il diritto di agire in tutti gli Stati Uniti). “Abbiamo bisogno dell’Nsa, ma il problema è come collaborare e dimostrare che controlliamo i settori di cui siamo responsabili”. Lo stesso funzionario, come molti altri con cui ho parlato, considera i discorsi sulla guerra informatica un tentativo dei burocrati di “alzare il livello di allarme” per trovare sostegno a un maggiore intervento del ministero nella difesa delle infrastrutture private. “Tutti parlano di guerra informatica”, dice. “Il loro scopo è quello di mobilitare i politici. Si usano sempre analogie belliche per smuovere la gente”.

La via di mezzo In teoria lo scontro tra il Pentagono e le agenzie civili per il controllo della sicurezza informatica dovrebbe essere mediato dal coordinatore per la cibersicurezza del presidente Obama, lo zar Howard Schmidt. Ma Schmidt ha fatto ben poco per afermare la sua autorità. Non ha nessun controllo sul budget e nell’eventualità di una crisi dipenderebbe da quelli che hanno una maggiore disponibilità di fondi, come il genera-

le Alexander. Non era il candidato preferito dell’amministrazione per quel posto. A quanto si dice, diverse persone prima di lui avevano riiutato l’incarico. In un’email, il consulente del Pentagono sulla guerra informatica ha parlato di mancanza di una politica comune e di “saccheggio cibernetico” della proprietà intellettuale, aggiungendo il commento che avevo già sentito fare da altri: “È paradossale che tutto questo stia succedendo sotto il naso del primo presidente degli Stati Uniti che ne capisce di informatica. Forse avrebbe dovuto scegliere un responsabile con qualcosa in più di una laurea per corrispondenza” (Schmidt si è laureato e specializzato all’università di Phoenix). A Schmidt l’espressione “ciberguerra” non piace. “Il punto è che la ciberguerra non conviene a nessuno”, mi ha spiegato. “Quando mi dicono che qualcuno lancerà un attacco informatico contro gli Stati Uniti, io dico che, se guardiamo alla storia dei conlitti, i tentativi di tagliare i ili del telefono o di captare i segnali Morse ci sono sempre stati. Ora qualcuno ha scoperto che spaventare la gente con la ciberguerra è un modo per fare carriera”, e ovviamente si riferiva a McConnell e Clarke. “Improvvisamente sono diventati tutti esperti. ‘Guerra’ è una parola grossa e anche i mezzi d’informazione sono responsabili di questa montatura. Molti scambiano lo spionaggio commerciale su internet per una guerra informatica”. Schmidt ha combattuto in Vietnam, è stato uiciale di polizia per diversi anni in un’unità della Swat (Special weapons and tactics) in Arizona, e poi si è specializzato in reati informatici all’Fbi e nella divisione investigativa dell’Air Force. Nel 1997 è andato a lavorare alla Microsoft, dove è diventato responsabile della sicurezza, ma dopo l’11 settembre se n’è andato per entrare al servizio dell’amministrazione Bush come consigliere speciale per la cibersicurezza. Quando Obama l’ha chiamato, lavorava come capo della sicurezza per eBay. Gli ho chiesto cosa pensa della disputa tra militari e civili: “L’ideale sarebbe una via di mezzo, in modo che né gli uni né gli altri abbiano troppo potere, e che si scambino le informazioni”, mi ha risposto. “Ovviamente dobbiamo difendere le nostre infrastrutture e il nostro stile di vita. Abbiamo i nostri punti deboli e con il Pentagono e il dipartimento della sicurezza nazionale prendiamo sempre in considerazione l’eventualità del peggio”. Ma allo stesso tempo “dobbiamo tenere aperte le nostre


INStItUte

White Sands Missile Range, un’area militare nel sud del New Mexico

rotte commerciali e usare liberamente internet”. Come si fa a proteggere la rete elettrica? Per un hacker che abbia competenze avanzate inserirsi nelle reti statunitensi è ancora troppo facile. Nel 2008 qualcuno è entrato nei computer della campagna elettorale di Obama e McCain, e si sospettava che fossero stati i cinesi. Molte persone aprono le email con allegati pericolosi, permettendo agli hacker di “prendere possesso” dei loro computer. A quel punto, queste macchine zombie possono essere collegate tra loro per creare una botnet capace di mandare in tilt un sistema. Gli hacker sono in grado anche di iniltrarsi in un grande server come Gmail. Le ipotesi sui costi dei reati informatici variano, ma secondo uno studio citato da Obama a maggio del 2009, tra il 2007 e il 2008 avrebbero superato gli otto miliardi di dollari. A proposito dello spionaggio informatico, Obama ha detto anche: “Si calcola che solo l’anno scorso ci siano state violazioni della proprietà intellettuale per mille

miliardi di dollari”. Una possibile soluzione sarebbe la cifratura obbligatoria: lo stato dovrebbe costringere sia le imprese sia i singoli individui a installare gli strumenti di protezione più aggiornati. In qualche forma, questa scelta è ampiamente supportata sia dagli esperti di tecnologia sia dai difensori della privacy. I militari e i servizi segreti, invece, si oppongono alla cifratura in dal 1976, quando fu introdotto il protocollo crittograico Diie-Hellman, basato su uno scambio di chiavi. Il motivo è ovvio: la cifratura gli impedirebbe di intercettare certi segnali. In questo senso, gli interessi dell’Nsa coincidono con quelli degli hacker. John Arquilla, che dal 1993 insegna alla Naval postgraduate school di Monterey, in California, nel suo libro Worst enemies ha scritto: “Sarebbe molto meglio se tutto il traico web civile, commerciale, statale e militare fosse crittato”. Invece, molti responsabili della sicurezza sostengono che “il ciberspazio può essere difeso con fortii-

cazioni virtuali, in pratica con i ‘irewall’ che tutti conoscono. Quella che prevale è l’idea di una sorta di linea Maginot”. Secondo Arquilla, i servizi segreti statunitensi e le autorità di polizia hanno sempre opposto resistenza alla cifratura perché temono che se fosse messa in atto un’iniziativa seria e difusa per proteggere i dati non potrebbero più sorvegliare possibili criminali o terroristi internazionali. Questo però non ha impedito ai criminali più esperti di assumere hacker o di cifrare i ile, mentre le persone comuni rimangono esposte a rischi, scrive Arquilla. “Oggi i signori della droga e le reti terroristiche possono ancora comunicare tranquillamente tra loro via internet, mentre la maggior parte degli americani non può farlo”. Schmidt dice di essere favorevole alla cifratura obbligatoria per le infrastrutture elettriche del paese, ma non per altre cose. All’inizio del 2009, però, Obama non ha approvato l’iniziativa, in parte, secondo Schmidt, a causa dei costi che comporterebbe Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Inchiesta L’ente francese per l’energia atomica, vicino a Parigi

INSTITUTE

per le imprese. Oltre alle spese iniziali, i sistemi di cifratura più soisticati prevedono l’uso di tessere di sicurezza, il continuo cambio di password, una serie di regole per i dipendenti e la rinuncia al controllo da parte dei dirigenti a favore degli addetti alla sicurezza. Intanto, il generale Alexander ha continuato a fare pressione per avere più potere e perino un dominio internet separato, forse un’altra linea Maginot. Una mattina di settembre ha dichiarato a un gruppo di giornalisti che il cibercomando aveva bisogno di “una zona di sicurezza”, uno spazio separato su internet per proteggere i militari e le industrie essenziali dagli attacchi informatici. Questa zona di sicurezza sarebbe sotto lo stretto controllo del governo. Secondo il New York Times, Alexander ha anche assicurato ai giornalisti che “possiamo continuare a fare il nostro lavoro senza ridurre le libertà civili”.

In difesa della privacy L’estate scorsa il Wall Street Journal ha scritto che l’Nsa aveva cominciato a inanziare un programma di sorveglianza segreto chiamato Perfect citizen per controllare i tentativi di intrusione nelle reti di computer delle società energetiche private. Il programma prevede che lo stato installi in quelle reti dei sensori in grado di controllare se si veriicano attività insolite. Secondo il Journal, alcune società avevano espresso preoccupazione per la privacy e avrebbero preferito avere indicazioni più precise su cosa fare in caso di un attacco cibernetico. L’Nsa ha risposto pubblicamente, come non fa quasi mai, insistendo nel dire che non era prevista alcuna “attività di controllo”. A proposito del Perfect citizen, un ex agente dell’Nsa mi ha detto: “Questo permetterebbe all’Nsa di controllare la nostra rete di comunicazioni nazionale. Se fossero gestiti solo dallo stato, non avrei obiezioni ai sensori, ma se anche le società private sfruttassero Gmail o att.net per comunicare, l’Nsa entrerebbe nei computer di tutti i fornitori di servizi del paese”. Anche l’Nsa ha i suoi hacker, molti dei quali lavorano in un ediicio segreto vicino all’aeroporto internazionale Thurgood Marshall di Baltimora. All’interno, squadre d’attacco cercano di iniltrarsi nelle reti di comunicazione di paesi amici e nemici, mentre squadre di difesa controllano i tentativi di iniltrazione nei sistemi statunitensi. L’ex agente dell’Nsa, che è stato addetto ai controlli in una grande installazione segreta, mi ha detto che gli uomini dell’Nsa

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hanno avuto un addestramento prezioso in materia di spionaggio informatico durante l’attacco all’Iraq del 1991. Hanno perfezionato le loro tecniche durante la guerra in Kosovo del 1999, e poi durante quella contro Al Qaeda in Iraq. “Qualsiasi cosa possano farci i cinesi, noi possiamo farla meglio di loro”, ha detto il tecnico. “Le nostre capacità di ofensiva informatica sono molto più avanzate”. Nonostante questo, Marc Rotenberg, presidente dell’Electronic privacy information center e grande difensore della privacy, sostiene che l’Nsa non è abbastanza competente per assumere un ruolo guida in materia di sicurezza informatica. “Mettiamo da parte il problema della privacy”, ha detto Rotenberg, che in veste di ex consulente del senato ha parlato spesso davanti al congresso di crittograia e difesa dei consumatori. “La questione è: volete veramente che un’agenzia che non riesce neanche a svolgere bene le sue attività di spionaggio sia responsabile della sicurezza nazionale? Se è così, siete pazzi”. Quasi vent’anni fa, l’amministrazione Clinton, dietro pressione dell’Nsa, disse che avrebbe acconsentito a esportare computer dotati di sistemi di crittograia solo se i produttori statunitensi accettavano di installare in ogni macchina un microcircuito integrato approvato dal governo chiamato Clipper chip. Il Clipper chip avrebbe permesso alle autorità di polizia di accedere ai dati dei computer. La polemica sulla privacy che ne seguì mise in imbarazzo Clinton,

che decise di autorizzare l’esportazione dei computer senza quel microcircuito, e l’Nsa lo prese come un rimprovero. Una storia simile si potrebbe ripetere. L’amministrazione Obama sta lavorando a una nuova legge che consenta alla sicurezza nazionale e alle autorità di polizia di controllare le comunicazioni online. La legge imporrebbe ai produttori di apparecchi come il BlackBerry e a tutti i fornitori di servizi di comunicazione, come Skype, di usare una tecnologia che permetta al governo federale di intercettare e decodiicare le comunicazioni. “La storia del Clipper ci ha fatto capire che l’Nsa non è molto brava a fare il suo lavoro e il suo desiderio di spiarci supera la sua capacità di proteggerci, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale”, sostiene Rotenberg. “L’Nsa vuole la sicurezza, ma vuole anche intercettare tutto quello che può. È convinta che più ascolta più riesce a garantire la sicurezza”, aggiunge. “Al generale Alexander non interessa la privacy. Vuole sapere di più sulle persone che usano internet”, accedere al protocollo interno originale o agli indirizzi Ip. “Alexander vuole i codici utente. Vuole sapere con chi comunichiamo”. Rotenberg ammette che lo stato deve svolgere il suo ruolo nel ciberspazio. “Vogliamo un sistema di crittograia forte per la sicurezza delle infrastrutture statunitensi”, dice. Ed è d’accordo con Schmidt sulla cifratura obbligatoria per le poche industrie che se fossero danneggiate manderebbero


in tilt il paese. E la Cina? È una minaccia così grande che dovremmo prepararci a una guerra informatica? Gli Stati Uniti considerano da tempo la Cina una minaccia strategica e militare e una potenziale avversaria nella disputa su Taiwan che dura da sessant’anni. Secondo i piani di emergenza che risalgono ai tempi della guerra fredda, se una lotta cinese entrasse nello stretto di Taiwan, l’esercito statunitense dovrebbe intervenire, con in testa un gruppo di portaerei della marina. “Se volessero fermare le nostre portaerei userebbero tutti gli strumenti della guerra informatica che hanno a disposizione per confonderci o rallentare l’avanzata della nostra lotta”, dice l’ammiraglio a riposo McVadon. “Forse i cinesi pensano che la ciberguerra possa funzionare, ma non è detto che sia così. E questo è pericoloso perché potrebbe portare a una guerra reale”. Comunque, la possibilità di una battaglia navale per Taiwan e di un’escalation ino a un ciberattacco contro le infrastrutture interne statunitensi è piuttosto remota. Jonathan Pollock, un esperto di questioni militari cinesi che insegna al Naval war college di Newport, in Rhode Island, aferma: “I cinesi non amano correre rischi. Qualche zufa c’è stata e gli Stati Uniti continuano a raccogliere informazioni lungo le frontiere cinesi, ma ormai è in corso un processo di accomodamento tra la Cina e Taiwan”. A giugno del 2010, Taiwan ha approvato un accordo commerciale con la Cina che ha come scopo ultimo un riavvicinamento politico. “Il cambiamento ormai è evidente e qualcuno dovrebbe spiegarmi come faremmo a trovarci in guerra con la Cina”, aggiunge Pollack. Molti dei vecchi alleati degli Stati Uniti sono impegnati nello spionaggio informatico da decenni. Un ammiraglio della marina a riposo che ha passato buona parte della sua vita a occuparsi di intercettazioni, dice che la Russia, la Francia, Israele e Taiwan sono i paesi che spiano di più gli Stati Uniti. “Ho seguito le attività cibernetiche russe e cinesi per anni e non sono mai riuscito a capire quanta parte di quelle attività avesse scopi militari e quanta scopi commerciali”. Secondo l’ammiraglio, la marina statunitense è preoccupata soprattutto per i tagli al suo bilancio, “ha bisogno di un nemico e ha scelto la Cina. Usare quello che sta costruendo il nemico per giustiicare il proprio budget non è un’idea nuova”. Quasi tutti gli esperti di cibersicurezza sono stranamente d’accordo su una cosa: la minaccia informatica più grave non proviene dai gruppi terroristici tradizionali come

Al Qaeda, almeno per il momento. “Non sono ancora in grado di attaccare il nostro sistema informatico”, mi ha detto John Arquilla. “E non sono particolarmente interessati a farlo”. Il problema è: gli Stati Uniti hanno qualche punto debole? Se ce l’hanno, prima o poi i terroristi lo sfrutteranno”. E ha aggiunto una rilessione inquietante: “I terroristi di oggi usano il ciberspazio e devono prima essere in grado di proteggere le loro attività”. Quando avranno imparato a difendersi, probabilmente passeranno all’attacco.

Conseguenze inattese Jefrey Carr, un esperto di sicurezza informatica di Seattle, ha studiato le operazioni di spionaggio informatico condotte durante i recenti conlitti in Estonia e Georgia. Neanche lui pensa che la Cina o la Russia possano lanciare un attacco contro gli Stati

“Qualsiasi cosa possano fare i cinesi, noi possiamo farla meglio di loro” Uniti. “Non è nel loro interesse danneggiare un paese che li sta inanziando”, dice. “Sarebbe più sensato che lo facessero i criminali”. Immagina che in Medio Oriente ci siano bambini di cinque o sei anni che già usano internet e che “a quindici o sedici anni saranno hacker”. Carr è convinto che tutti i provider di servizi internet dovrebbero chiedere agli utenti di dare informazioni veriicabili al momento della registrazione, per permettere alle autorità di ridurre lo spionaggio online. All’inizio del 2010 Carr ha pubblicato Inside cyber warfare, che racconta, in parte, la sua ricerca sulle attività di spionaggio informatico in tutto il mondo. Ma aggiunge: “Odio l’espressione ‘ciberguerra’”. Gli chiedo perché l’ha usata nel titolo del suo libro e risponde: “Le esagerazioni non mi piacciono, ma purtroppo vendono”. Perché non ignorare i difensori della privacy e permettere alla sicurezza di prepararsi a una guerra informatica? In quest’epoca di terrorismo internazionale e di tensioni tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano, concedere ai militari un maggiore accesso alle comunicazioni private via internet e alla rete stessa, a molti potrebbe sembrare prudente. Ma ogni attività militare ha sempre conseguenze inattese, che potrebbero venire alla luce tra qualche anno. Paradossalmente, un esempio è proprio l’episodio

dell’aereo EP-3E abbattuto al largo della costa cinese nel 2001. La storia, che mi è stata raccontata da un diplomatico americano a riposo molto ben informato, comincia con le contestate elezioni presidenziali del novembre 2000, i cui candidati principali erano Al Gore e George W. Bush. Quell’autunno, dopo un’analisi di routine , il Pentagono era giunto alla conclusione che i voli di ricognizione al largo della costa orientale dell’ex Unione Sovietica, normali sortite quotidiane dell’aviazione e della marina che partivano dalle basi sulle isole Aleutine, erano troppi, e consigliava di ridurli. “Alla vigilia delle elezioni del 2000, i voli furono bloccati”, racconta l’ex diplomatico. “Ma non c’era nessuno che avesse l’autorità di imporre cambiamenti e tutti volevano fare il loro lavoro”. Nessun comandante militare voleva rinunciare alle sue missioni. “Perciò il sistema si spostò per default sul bersaglio successivo, cioè la Cina, e i voli di ricognizione passarono da uno ogni due settimane a più o meno uno al giorno”, prosegue l’ex diplomatico. All’inizio di dicembre “i cinesi cominciarono a reagire all’aumento dei nostri voli di ricognizione e noi riferimmo le loro lamentele ai militari. Ma a Washington non c’era nessuno che potesse prendere una decisione o dare spiegazioni”. Non si poteva dire ai cinesi che l’aumento dei voli dipendeva essenzialmente dal fatto che si procedeva per inerzia. Il dipartimento della difesa era vacante, dato che sia i democratici sia i repubblicani aspettavano che la corte suprema decidesse a chi spettava la presidenza. Come era prevedibile, il risultato fu un aumento dei comportamenti provocatori da parte dei piloti dei caccia cinesi addetti a tenere d’occhio i voli di ricognizione. Poi cominciarono a disturbarli. Il jet cinese arrivava a poche decine di metri dal lento EP3E, e improvvisamente accendeva i postbruciatori per poi allontanarsi lasciandosi dietro un’onda d’urto che faceva tremare l’aereo americano. Il 1 aprile 2001 il pilota cinese sbagliò a calcolare la distanza. Un errore che per il dibattito sulla sicurezza informatica statunitense ebbe conseguenze delle quali non ci rendiamo ancora del tutto conto. u bt L’AUTORE

Seymour Hersh è uno dei più importanti giornalisti investigativi statunitensi. Nato nel 1937, nel 1970 ha vinto il premio Pulitzer per l’inchiesta sul massacro di My Lai in Vietnam. Nel 2004 è stato il primo a occuparsi delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib.

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Corea

ChrISToPher MorrIS (VII/CorbIS)

Galleria shopping plaza, Seoul, Corea del Sud

Tanta voglia di riuniicazione Peter Lee, Asia Times, Thailandia

Il presidente sudcoreano Lee Myung-bak vuole unire la penisola sotto il suo controllo e creare una grande potenza. Ma sbaglia politica e non tutti sono d’accordo

C

hi è l’uomo più pericoloso della penisola coreana? Forse non è il dittatore nordcoreano Kim Jong-il, ma il presidente della Corea del Sud, Lee Myungbak. L’avvenimento più importante del 2010 nell’Asia del nord è stato il tentativo della Corea del Sud di promuovere la riuniicazione della penisola sotto la sua guida. Un’iniziativa che ha incontrato la ferma opposizione della Corea del Nord e della Cina, l’appoggio condizionato degli Stati Uni-

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ti e il tacito consenso del Giappone. Tuttavia il governo di Lee è riuscito solo a precludersi ogni alternativa. La paura della reazione nordcoreana ha impedito qualunque mossa della Corea del Sud per accelerare il crollo del regime di Kim Jong-il. Lee deve limitarsi ad attendere gli eventi e sperare che la questione nordcoreana inisca nel dimenticatoio prima che lui perda il sostegno interno e internazionale, e prima che la Cina si afermi deinitivamente come il garante e l’arteice economico della sopravvivenza del regime di Pyongyang.

Il fulcro della strategia di Lee è la “dottrina Mb”, dalle iniziali del suo nome, che di fatto istituzionalizza l’ostilità nei confronti di Pyongyang. Wikileaks ha reso pubblico un cablogramma dell’ambasciata statunitense a Seoul del gennaio 2009 che illustra la politica nordcoreana di Lee: “Il presidente è determinato a non cedere alle pressioni della Corea del Nord. I nostri informatori ci hanno detto in diverse occasioni che Lee è ancora piuttosto soddisfatto della sua politica verso il Nord e che è pronto a lasciare congelate le relazioni tra le due


Coree ino alla ine del suo mandato, se sarà necessario. A nostro giudizio, inoltre, i con­ siglieri e i sostenitori più conservatori di Lee considerano lo stallo attuale un’ottima occasione per incalzare e indebolire ulte­ riormente il Nord, anche se questo potreb­ be implicare una buona dose di rischio cal­ colato. A favore della posizione del governo Lee c’è anche l’opinione pubblica coreana, quasi apatica rispetto ai rapporti tra Nord e Sud”. A un certo livello, la dottrina Mb è sem­ plicemente una reazione conservatrice alla sunshine policy liberale dei predecessori di Lee. Ma la crescente forza economica, la sempre maggiore statura internazionale della Corea del Sud – simboleggiate dal ver­ tice del G20 di Seoul del 2010 – e le ambi­ zioni geostrategiche del suo presidente hanno dato nuovo slancio alla sua politica di riuniicazione.

nere la posizione di Seoul riiutando i collo­ qui a sei e i negoziati diretti con Pyongyang. Poi ha dovuto far passare in secondo piano nella gestione della sicurezza della penisola i colloqui a sei – e la Cina che li ospita – sen­ za rompere i rapporti con Pechino, suo grande partner economico. E inine – lavoro tuttora in corso – dovrà far uscire di scena il Giappone. I diicili rapporti tra Washing­ ton e il governo di Tokyo guidato dal Partito democratico gli hanno inora facilitato il compito.

Una nuova alleanza In un’intervista rilasciata al Washington Post nell’aprile del 2010, Lee ha spiegato come la sua concezione dei rapporti tra Sta­ ti Uniti e Corea del Sud non riguardi solo le questioni regionali: “L’anno scorso abbia­ mo presentato un documento sulla visione futura dell’alleanza tra Corea del Sud e Sta­ ti Uniti. Questo documento stabilisce non

Il grande sogno Lee sogna di uniicare l’intera penisola, e la sua popolazione di 75 milioni di abitanti, sotto la bandiera di un Sud democratico e capitalista alleato con gli Stati Uniti, suben­ trando al Giappone come principale part­ ner di Washington in materia economica e di sicurezza. In questo modo metterebbe Pechino di fronte alla prospettiva di avere sull’uscio di casa una grande potenza ilo­ occidentale, e al tempo stesso riuscirebbe a creare dei contatti con la numerosa mino­ ranza coreana che vive nelle province nor­ dorientali della Cina. Resta da vedere se Lee riuscirà a realizzare questa ambizione durante il suo mandato o da presidente del Grand national party. L’opinione corrente è che in questa fase la riuniicazione comporterebbe un onere inaccettabile per il Sud. Ma in passato Lee ha preso in esame l’ipotesi di inanziare la riuniicazione con le risorse minerarie e la forza lavoro a basso costo del Nord. Indub­ biamente la prospettiva di raddoppiare il territorio sotto il proprio governo e di pas­ sare alla storia come il leader che ha pro­ mosso la riuniicazione della penisola e ha reso la Corea una delle sei maggiori poten­ ze economiche del mondo farebbe gola an­ che a politici molto meno ambiziosi di Lee. La riuniicazione ha un ruolo centrale nella visione che Lee ha della Corea del Sud co­ me potenza globale emergente e giustiica la presa di distanza dalla Cina e l’avvicina­ mento agli Stati Uniti. Il suo desiderio di promuovere la riuniicazione alle proprie condizioni ha modificato alcuni assunti strategici in Asia del nord. Innanzitutto Lee ha dovuto convincere Washington a soste­

Da sapere

1945 Con la ine della guerra del Paciico termina l’occupazione giappponese della Corea. La penisola è divisa in due zone d’inluenza lungo il trentottesimo parallelo: sovietica a nord e statunitense a sud. 1950 Il Sud dichiara l’indipendenza, il Nord lo invade e comincia la guerra di Corea. 1953 La guerra termina con un armistizio. 1998 Sotto la presidenza di Kim Dae­jung la Corea del Sud adotta nei confronti del Nord la sunshine policy, la politica volta ad ammorbidire l’atteggiamento di Pyongyang verso Seoul attraverso le relazioni e l’assistenza economica. 2008 Nonostante i notevoli progressi nei rapporti tra i due paesi, il nuovo presidente Lee Myung­bak abbandona la sunshine policy per una drastica chiusura nei confronti del Nord. Da allora i rapporti tra Nord e Sud sono peggiorati.

solo che lavoreremo insieme per la pace e la stabilità della penisola, ma anche che ci im­ pegneremo per assicurare la stabilità nel nordest asiatico e collaboreremo per af­ frontare questioni globali come il cambia­ mento climatico, la difusione di materiali nucleari, il terrorismo, la povertà e così via”. Gli sforzi della precedente amministra­ zione per sottrarre l’apparato militare sud­ coreano alla leadership statunitense sono stati abbandonati e il controllo operativo degli americani sulle forze armate di Seoul in caso di guerra è stato esteso al 2015. Per dimostrare la volontà del governo di ingra­ ziarsi i militari di Washington, l’ammini­ strazione Lee ha anche cancellato, in ma­ niera vergognosa, una commissione d’in­ chiesta sull’uccisione di civili coreani da parte delle forze americane – e sulla presen­ za di osservatori statunitensi alle esecuzio­ ni di esponenti della sinistra compiute da agenti sudcoreani – durante la guerra di Co­ rea. Un altro elemento a favore del disegno di Seoul è la delusione di Washington per il tentato processo di denuclearizzazione portato avanti dai colloqui a sei (a cui parte­ cipano Cina, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone e Russia con la Corea del Nord), che ha portato inora ben pochi risultati. L’amministrazione Obama è ormai convin­ ta che la Corea del Nord non rinuncerà mai spontaneamente al nucleare. Come ha rivelato Wikileaks – e come è stato riferito con troppa ingenuità dalla stampa – i diplomatici sudcoreani hanno lavorato assiduamente per convincere gli Stati Uniti non solo che la Corea del Nord stava per cedere, ma anche che la Cina si era rassegnata al crollo del regime e alla riuniicazione. Per gli Stati Uniti, quindi, sarebbe stato sciocco impegnarsi con Pyongyang o chiedere la mediazione di Pe­ chino quando il cambio di regime nel Nord era imminente. In realtà sembra che gli Sta­ ti Uniti sapessero che Seoul esagerava. Ma con Pyongyang ancorata alla politica del rischio nucleare calcolato per attirare l’at­ tenzione di Washington, l’amministrazione Obama non aveva molte alternative. Dal punto di vista degli Stati Uniti, Seoul aveva un ruolo di primo piano negli afari nordcoreani, e i militari statunitensi vede­ vano di buon occhio un impegno più attivo in Corea del Sud. Oltre a svolgere le eserci­ tazioni militari difensive contro un ipoteti­ co attacco nordcoreano, nell’agosto del 2010 il comando americano in Corea del Sud ha annunciato che stava lavorando a diverse possibilità per tenere sotto control­ Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Corea

TOMAS vAN HOUTRYvE (vII NETWORK)

Nella metropolitana di Pyongyang, Corea del Nord

lo il Nord nel caso di un crollo del regime. La Corea del Nord, che voleva un negoziato a due con gli Stati Uniti, e la Cina, che attraverso i colloqui a sei voleva giocare un ruolo importante nel destino della Corea del Nord, sono rimaste deluse. Che decisione prenderà la Corea del Nord è un mistero, ma è probabile che per Pyongyang la provocazione militare sia il modo migliore, se non l’unico, di dimostrare i limiti della politica statunitense con la Corea del Sud e di vincere l’indiferenza di Washington spostando l’attenzione su di sé.

Il ruolo della Cina Il 26 marzo 2010 la corvetta sudcoreana Cheonan è stata afondata al largo della costa occidentale della penisola e Seoul ritiene responsabile Pyongyang. Lee ha scelto di reagire come presidente di una potenza mondiale offesa e non come autorità di controllo della metà meridionale di una nazione divisa. Al vertice sulla sicurezza in Asia di giugno è intervenuto auspicando “sforzi congiunti e responsabili” sulla sicurezza, ha sollecitato e ottenuto l’esplicito appoggio degli Stati Uniti e con il loro sostegno è riuscito a portare la questione alle Nazioni Unite. Il tutto senza consultare Pechino e senza considerare i colloqui a sei. La Corea del Nord probabilmente ha sbagliato a pensare che gli Stati Uniti avrebbero risposto a un oltraggio come l’afondamento della Cheonan impegnandosi a dialogare con Pyongyang. Ma anche la Corea del Sud e gli Stati Uniti sbagliavano se pensavano che la Cina si sarebbe unita a loro nel condannare la Corea del Nord. Il riiuto di Pechino nel sostenere qualunque importante sanzione delle Nazioni Unite contro Pyongyang dopo l’incidente della Cheonan

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è stato il primo chiaro segnale dell’opposizione della Cina a un cambiamento nella penisola senza la sua partecipazione. Davanti all’opposizione russa e cinese, la discussione della vicenda al Consiglio di sicurezza dell’Onu si è conclusa con un’insigniicante lettera del presidente del Consiglio invece che con una risoluzione. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha

Da sapere u Nel corso degli anni le stime dei costi della riuniicazione sono aumentate. Nel 1990 il think tank statunitense Rand corporation aveva calcolato che per raddoppiare il pil nordcoreano servivano 60 miliardi di dollari in cinque anni e per portarlo al livello di quello sudcoreano ce ne sarebbero voluti 1.700. Secondo l’Istituto per lo sviluppo coreano, legato al governo di Seoul, oggi la riuniicazione richiederebbe circa duemila miliardi di dollari in trent’anni. A settembre la Federazione industriale coreana ha portato la cifra a tremila miliardi. Secondo Peter Beck dell’università Keio di Tokyo, per portare in trent’anni il reddito pro capite del Nord all’80 per cento di quello del Sud ci vorrebbero tra i duemila e i cinquemila miliardi di dollari. Economie a confronto Corea del Sud

Reddito pro capite

Corea del Nord

20.000 dollari

1.000 dollari

Prodotto interno lordo (pil)

820 miliardi di dollari

24 miliardi di dollari

Fonte: Le Monde

cercato di fare buon viso a cattivo gioco e di mettere a segno alcuni punti contro la Cina accusandola di “deliberata cecità” e conducendo una serie di importanti esercitazioni navali congiunte intorno alla costa coreana. I cinesi, da parte loro, hanno dimostrato un’assoluta indisponibilità a fare marcia indietro, criticando aspramente gli Stati Uniti per aver compiuto “azioni provocatorie” che hanno “fatto salire la tensione nella penisola”. E, nel caso qualcuno non avesse recepito il messaggio, il presidente cinese Hu Jintao ad agosto ha ricevuto una visita di Kim Jong-il a Changchun, ribadendo al mondo intero che Pechino appoggia la dinastia Kim e la futura presidenza di Kim Jong-un. In cambio di questa stretta di mano, Kim ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di tornare ai colloqui a sei, una cosa che sicuramente fa piacere alla Cina ma forse non è una priorità per Pyongyang, ed è avversata da Seoul e da Washington. Ora che Pechino e Pyongyang sono quasi sulla stessa linea, la Cina sostiene che il problema dell’Asia settentrionale non è Kim Jong-il ma gli incauti tentativi occidentali di afrontarlo isolando il suo regime invece di trattare. Perino dopo l’ennesima provocazione di Pyongyang, che il 23 novembre ha bombardato l’isola di Yeonpyeong uccidendo quattro persone, la Cina si è riiutata di condannare il Nord e si è limitata a riproporre una ripresa dei colloqui a sei. Il bombardamento di Yeonpyeong, più ancora dell’afondamento della Cheonan, ha messo a nudo la sostanziale debolezza della strategia di Seoul per la riuniicazione. Forse le immagini di distruzione di Yeonpyeong sono servite a ricordare ai sudcoreani cosa potrebbe signiicare un attacco di artiglieria contro la capitale, migliaia di volte più popolosa dell’isola. I mezzi d’informazione cinesi hanno sottolineato che dopo l’attacco la borsa di Seoul ha tremato per una settimana, lasciando intendere che il governo aveva dovuto spingere gli imprenditori locali a intervenire per comprare le azioni che i nervosi investitori stranieri stavano svendendo e impedire un imbarazzante crollo del mercato. Gli esperti statunitensi e sudcoreani hanno cercato di dimostrare che i 13mila pezzi di artiglieria nordcoreani non possono radere al suolo Seoul e che, qualora la Corea del Nord cercasse di attaccare la capitale, dopo pochi minuti interverrebbero i missili cruise, l’aviazione statunitense e quella sudcoreana. In realtà perino un accenno di fuoco avrebbe ripercussioni negacontinua a pagina 46 »


L’opinione

Se Pechino abbandona Pyongyang Brice Pedroletti e Philippe Pons, Le Monde, Francia L’atteggiamento della Cina verso la Corea del Nord sta cambiando. Ma non ancora in modo così decisivo

C

on l’aumento della tensione militare nella penisola, si può pensare a una riuniicazione della Corea? Il presidente sudcoreano, il conservatore Lee Myung-bak, aferma che “la riuniicazione è vicina”, che “bisogna prepararsi a questo evento” e, secondo le informazioni pubblicate da Wikileaks, sarebbe caduto uno dei principali ostacoli a una riuniicazione sotto il controllo del Sud: l’opposizione della Cina. Nel 2009 Chun Yung-woo, ex viceministro degli esteri di Seoul diventato consigliere per la sicurezza del presidente Lee, ha assicurato all’ambasciatrice statunitense a Seoul, Kathleen Stephens, che la Corea del Nord “non è più per la Cina un paese cuscinetto”, in grado di separarla dalla Corea del Sud dove si trovano 28mila soldati americani. Tuttavia alcuni esperti sudcoreani sono scettici. E a Pechino i pareri sono contrastanti. In Cina non è più un tabù ofendere l’alleato nordcoreano su internet, dove gli eccessi del regime sono regolarmente oggetto di battute ironiche. Come ha scritto il Global Times, appendice nazionalista in inglese del Quotidiano del popolo, già nel giugno del 2009, dopo il secondo test nucleare nordcoreano, “la stima del popolo cinese nei confronti della Corea del Nord ha raggiunto uno dei punti più bassi”. In efetti la posizione della Cina nei confronti della Corea del Nord è ambivalente. I suoi legami economici, culturali e politici con il Sud continuano a raforzarsi, e il valore dei loro scambi è quasi settanta volte quello delle transazioni commerciali con il Nord. La città

cinese di Dandong, a ridosso della frontiera nordcoreana, sogna di diventare un importante snodo commerciale tra la Cina e un futuro mercato coreano, che dovrebbe prendere la forma di una Corea del Nord convertita al modello cinese di economia di mercato o di una Corea unita. Tutti i coreani, animati da un forte sentimento patriottico sia a Nord sia a Sud, vogliono la riuniicazione del paese, che è stato unito per secoli. Ma in Corea del Sud una visione realistica – per i costi inanziari della riuniicazione e per la dificoltà a far convivere due popolazioni dopo mezzo secolo di separazione – ha spinto inora a preferire una coesistenza paciica e un avvicinamento graduale. Tuttavia il presidente Lee, pur favorevole all’idea di un percorso a tappe, ha rimesso all’ordine del giorno l’ipotesi di una riuniicazione sotto la guida del Sud. Uno scenario che presuppone non solo la caduta del regime nordcoreano, ma anche la scomparsa del paese stesso. Questo solleva due interrogativi. La Corea del Nord è pronta ad accogliere come liberatori i coreani del Sud e, con loro, gli statunitensi? E come si comporterà la Cina? Pechino condivide con Pyongyang una tappa della storia (l’intervento delle truppe cinesi nella guerra di Corea) e una frontiera lunga 1.400 chilometri. Tuttavia, per l’economia cinese sarebbe più vantaggioso condividere una frontiera con un’economia capitalistica anziché con uno stato chiuso in se stesso. Ma non bisogna dimenticare che dalla parte cinese della frontiera vive una grande comunità nordcoreana animata da un forte na-

In Cina non è più un tabù ofendere l’alleato nordcoreano su internet, dove circolano battute sul regime di Pyongyang

zionalismo: nel caso di una riuniicazione potrebbe esserci un lusso di profughi dal Nord che potrebbe diventare destabilizzante per le province cinesi. “Evitare il crollo del regime rimane la priorità di Pechino”, osserva Hideshi Takesada, direttore dell’Istituto nazionale di studi di difesa di Tokyo. Probabilmente la Cina accetterebbe “una Corea unita sotto la guida del Sud, alleato degli Stati Uniti, se questa Corea non le sarà ostile”, aferma Chun Yung-woo nel cablogramma pubblicato da Wikileaks. Del resto è ormai noto che in Cina ci sono posizioni divergenti sulla Corea del Nord: una favorevole a sostenere il regime, l’altra disposta ad appoggiare un’evoluzione o un suo crollo. Zhang Liangui, professore di strategia internazionale alla Scuola centrale del Partito comunista, crede poco a un’apertura “alla cinese” della Corea del Nord: “Le decisioni politiche dei nordcoreani sono strettamente legate agli interessi del regime”, spiega. “Paradossalmente, più l’economia si sviluppa e più il regime avrà paura per la sua stabilità. Quando la popolazione ha abbastanza da mangiare, comincia a pensare ad altre cose come l’uguaglianza e la libertà”. Secondo Haksoon Paik, ricercatore all’istituto Sejong a Seul, la direzione del Partito comunista cinese è preoccupata per la stabilità del suo vicino ed è poco favorevole a metterlo in diicoltà. Lo scenario di un “abbandono” di Pyongyang da parte della Cina, che porterebbe al crollo del regime, sembra prematuro a Choi Heum-choon, esperto sudcoreano di relazioni tra la Cina e la Corea del Nord presso l’Istituto governativo per l’uniicazione nazionale: “La Corea del Nord è ancora uno stato cuscinetto per la Cina: l’esercito cinese non tollererà mai la presenza di forze statunitensi al Nord”. Secondo Haksoon Paik, “dopo l’incidente della corvetta Cheonan e l’aumento delle tensioni nella regione, la situazione è cambiata. Ormai il confronto va oltre le due Coree, e riguarda da un lato Pechino e Pyongyang e dall’altro Washington e Seoul”. Situazione che rende lo scenario molto più complesso. u adr

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Corea

CHRISTOPHeR MORRIS (VII/CORBIS)

Apgujeong-dong , il quartiere dello shopping di Seoul

tive per l’economia e comunque sembra che una ripresa della guerra di Corea non sia nell’agenda di Lee, anche se probabilmente questa volta potrebbe vincerla. Dopo l’attacco, il governo sudcoreano non ha potuto fare altro che minacciare rappresaglie e mandare via il ministro della difesa. Gli Stati Uniti hanno dato pieno appoggio

alle proprie responsabilità”. Né il generale Han né l’ammiraglio Mullen sono entrati nei dettagli in merito alle modiiche delle regole d’ingaggio, ma Han ha dichiarato che la Corea del Sud e gli Stati Uniti hanno “concordato di reagire energicamente a nuove provocazioni della Corea del Nord”. Per questo avrebbero “messo a

Lee deve sapere che spingendo la Corea del Nord tra le braccia della Cina ha prolungato la sopravvivenza di Pyongyang morale e diplomatico alla Corea del Sud. Sul piano militare, le cose sono andate diversamente. Il governo Lee evidentemente voleva impressionare la Corea del Nord mostrando la sua capacità di rispondere in maniera unilaterale in caso di provocazioni future. Gli Stati Uniti probabilmente non volevano rinunciare a dire la loro su come e quando comincerà la terza guerra mondiale, e sono stati cortesemente evasivi.

Una nuova strategia L’8 dicembre 2010 il Christian Science Monitor ha riferito di un incontro tra l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli stati maggiori riuniti delle forze armate statunitensi, con il suo collega sudcoreano, Han Min-koo. Nell’incontro i due avrebbero discusso di nuove regole d’ingaggio per contrastare la minaccia della Corea del Nord (il primo cambio di strategia dai tempi della Guerra di Corea). Dopo l’incontro Mullen ha detto che la Corea del Sud, in quanto “paese sovrano”, ha “tutto il diritto di proteggere il suo popolo per adempiere concretamente

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punto” dei piani “perché l’alleanza possa rispondere con fermezza a ulteriori aggressioni nordcoreane”. Secondo gli analisti sudcoreani i due militari sono arrivati a un’intesa precisa. “Hanno maggiore libertà nella scelta delle armi da usare”, spiega Kim Tae-woo, vicepresidente del Korea institute for defense analyses di Seoul: “È un cambiamento storico, il primo dai tempi della guerra di Corea”. Secondo Kim, che è membro della commissione presidenziale per la riforma della difesa, “anche se Mullen non lo ha dichiarato apertamente, è stato dato il via libera alle nuove regole d’ingaggio”. Resta da vedere se questa posizione si rivelerà un vantaggio per la politica sudcoreana nei confronti del Nord. La verità è che Seoul non è disposta a correre il rischio di una seria azione militare. Sembra che Lee si sia cacciato in un vicolo cieco. Ha rafreddato i rapporti con la Corea del Nord e si è allineato agli Stati Uniti, ma lo sponsor cinese protegge il suo antagonista dalle sanzioni economiche ed evidentemente attaccare comporta troppi

problemi. Forse preferirebbe vedere la situazione nordcoreana incancrenirsi sperando nella morte di Kim Jong-il e in una lotta per la successione che ponga ine al regime. Ma i nordcoreani potrebbero non essere disposti a concedergli il lusso dell’attesa. In mancanza di una rapida crisi, Lee deve sapere che, spingendo la Corea del Nord tra le braccia della Cina, ha accelerato il processo che teme di più: un’integrazione economica tra Pechino e Pyongyang che prolungherà la sopravvivenza e la vitalità economica e militare del regime. Nei giorni successivi al bombardamento, Lee ha cercato di contrastare qualunque iniziativa cinese che minacciasse di portare la questione sul piano internazionale indebolendo il ruolo del Sud. La precipitosa visita del consigliere di stato cinese Dai Bingguo a Seoul per sollecitare un ritorno ai colloqui a sei non è stata accolta bene a Seoul. Successivamente Lee ha lanciato una tardiva “operazione simpatia”. Ha sottolineato le prospettive di una riuniicazione consensuale e ha espresso in modo non troppo convincente la speranza che la Corea del Nord, “come ha già fatto Pechino, apra le porte alla crescita economica. Spero che la Cina incoraggi attivamente il Nord a scegliere la sua stessa strada”. Dato che la Corea del Sud non intende porre il destino della penisola nelle mani dei colloqui a sei, è probabile che Pechino seguirà il consiglio di Lee, limitandosi a cercare delle opportunità economiche al Nord ed escludendo il Sud. Pyongyang ha probabilmente notato che il tasso di popolarità di Lee, che dopo il G20 di Seoul ha superato il 60 per cento, è sceso al 45 per cento dopo il bombardamento di Yeonpyeong. I nordcoreani potrebbero cedere alla tentazione di far scendere di qualche altro punto questo indicatore con una nuova provocazione per vedere se questa volta il presidente sudcoreano reagirà davvero o se inalmente si rivolgerà ai cinesi per mediare. O magari per vedere se gli Stati Uniti decideranno di abbandonare la loro politica di non intervento e riprenderanno i negoziati sulla denuclearizzazione e il circo degli aiuti alimentari ed energetici di cui Pyongyang ha un disperato bisogno. I cinesi sarebbero ben lieti di mantenere lo status quo. Nonostante il crescente risentimento dell’opinione pubblica sudcoreana contro il Nord e la Cina, il governo cinese spera che Lee o chi gli succederà inisca con l’abbandonare la politica della fermezza e dia il via a un riavvicinamento con Pechino e Pyongyang. u gc



Reportage

Due donne alla Mecca Özlem Topçu, Die Zeit, Germania Lei è una giornalista tedesca laica e di origini turche. L’altra è un’immigrata arrivata dall’Anatolia e profondamente credente. Il racconto del loro pellegrinaggio nel cuore dell’islam

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dioso turco della dottrina islamica, distribuisce a ognuno una busta con i documenti necessari per il pellegrinaggio: passaporti, biglietti aerei, il cartellino identiicativo con fototessera che durante l’hajj dovremo tenere sempre in vista. “Sono così emozionata”, dice Sevgi mettendosi subito intorno al collo il suo: ha il numero 1.334. E io? Io non sono ancora riuscita a sistemarmi il velo in testa. C’è tempo. Sono ancora ad Amburgo. Non devo indossare questo coso solo perché tutte le altre se ne vanno in giro con la testa coperta. Ma in fondo cosa c’è di male? Il problema è che Özlem la musulmana non sono davvero io, anche se conosco questa sensazione, avendo frequentato moschee e cimiteri. La mia resta comunque una ricerca come un’altra. Accompagno Sevgi nell’hajj alla Mecca e poi

KAzUyOShI NOMAChI (COrbIS)

I

l viaggio non è ancora cominciato e già la iglia di Sevgi fa di me una musulmana. Siamo all’aeroporto di Amburgo, con un bagaglio ingombrante, e siamo dirette a Gedda, in Arabia Saudita. La ragazza mi prende da parte e mi chiede a bassa voce: “Puoi farmi un favore?”. Non ci conosciamo da molto, ma mi rendo conto che è un po’ agitata. “A volte mia madre non si issa bene il velo alla testa”, dice, “e non si accorge delle ciocche di capelli che spuntano fuori. Nella casa di Dio cose del genere non devono succedere. Puoi starci attenta tu?”. Con un ilo di voce riesco a rispondere solo “sì, certo”. Io, che di solito non porto il velo, dovrò aiutare nelle prossime settimane una donna credente a portare bene il suo? Nella casa di Dio? Oggi Sevgi Erdem, suo marito Mahir e io partiremo per la Mecca, facendo scalo a Istanbul. Vogliamo partecipare all’hajj, il pellegrinaggio dei musulmani. E già prima della partenza la iglia di Sevgi ha fatto di me, iglia laica di immigrati turchi laici, una protettrice della virtù islamica. Prevedo che nel corso di questo viaggio sarò ossessionata soprattutto da due domande: cosa può ofrire questa esperienza? Come cambiano le persone che la fanno? Aspettiamo davanti allo sportello della Turkish Airlines insieme a un gruppetto di viaggiatori. È una comitiva di musulmani di Amburgo ed Elmshorn in partenza per l’Arabia Saudita. Un giovane hoca, uno stu-

scriverò un articolo su quest’esperienza. Tutto qui. Niente panico. Sevgi ha 42 anni, io 33. Tra di noi ci sono solo nove anni di distanza, ma ci separano due mondi molto diversi: Sevgi è nata in un paesino dell’Anatolia, io a Flensburg, in Germania. Lei ha fatto solo le elementari, io l’università. Lei ha tre igli, io neanche uno. Lei pulisce sotto le scrivanie su cui la sera impiegati come me lasciano le loro cose. Sevgi sembra protetta dalla sua fede, mentre io ho sempre saputo di non poter


La Mecca, Arabia Saudita. La Grande moschea

fare aidamento su nessun Dio. Lei chiama le donne come me sosyete, una persona dell’alta società, per via della mia laurea, del mio lavoro, del mio abbigliamento occidentale e del mio trucco. Io vedo in donne come lei la tipica mamma anatolica: bassina, sovrappeso, il viso rotondo delle contadine. Per il viaggio alla Mecca mi sono dovuta far prestare dei vestiti come quelli che Sevgi indossa ogni giorno: camicette larghe, gonne lunghe, calzoni a sbuffo. Nella valigia ci sono anche delle camicie di mio marito.

Molti parenti di Sevgi sono venuti a salutarla all’aeroporto. Tutte le donne della sua famiglia – la iglia, la cognata, la suocera – portano il velo, cappotti lunghi e gonne ampie. Per la prima volta in vita mia, invece di sentirmi superiore a donne come queste, mi sento inadeguata. Sevgi mi ha accettato come accompagnatrice. È grazie a lei che riesco inalmente a chiudere il velo. Sono passate da poco le tre: è l’ora della preghiera del pomeriggio. Un’attività di routine per gli uomini e le donne che aspettano allo sportello. Per me sarà la prima

volta. Io non ho mai visto mio padre pregare. La mia famiglia ha sempre guardato con sospetto gli uomini barbuti e le donne con il capo coperto, insomma tutti quelli che sono convinti di sapere come debba comportarsi un musulmano vero. Ogni tanto ho rivolto qualche implorazione fugace al cielo, ma usando sempre parole mie e mai ad alta voce. Prima di partire ho studiato le preghiere, imparando a memoria tutti i testi in arabo per evitare di fare errori. Nell’islam la quantità di regole da rispettare è incredibiInternazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Reportage giornata a Istanbul. Con questo fazzoletto in testa non ho nessuna voglia di sedermi al tavolino di un cafè, e avrei qualche diicoltà anche a fare un salto al duty-free per comprare, come al solito, una bottiglia di vino turco.

le, come se il rigore fosse un valore in sé. Quante volte bisogna prostrarsi in ogni occasione? Quattro durante la preghiera del mattino, dieci in quella di mezzogiorno, otto in quella del pomeriggio, cinque in quella del tramonto e tredici in quella della sera. Quali lodi si innalzano ogni volta? Come ci s’inchina? In che posizione devono stare i miei piedi quando mi stendo a terra? Al piano superiore del terminal un uomo del nostro gruppo ha trovato una moschea. Tutti lo guardano stupiti. Un luogo di preghiera per noi qui all’aeroporto? Eh già, ho pensato per la prima volta al gruppo come a “noi”. “Vieni anche tu?”, domanda Sevgi. “Sì”, rispondo. Noto che ne è contenta. Mentre ci dirigiamo verso la moschea, tiro fuori un fazzoletto dallo zaino e me lo sistemo attorno alla testa. È grigio, di cotone, quadrato. In valigia ne ho altri cinque: in realtà sono foulard che porto di tanto in tanto al collo. Quelli quadrati sono i più facili da issare, mi ha detto la iglia di Sevgi prestandomene uno dei suoi. L’ha preso da una gruccia nel suo armadio, dove ce n’erano appesi altri venti. La moschea dell’aeroporto è grande una trentina di metri quadrati. Il pavimento è ricoperto da una moquette rossa. Faccio fatica a concentrarmi sulla preghiera: riesco a pensare solo a una cosa, che fa caldo, così il testo in arabo dell’invocazione svanisce dalla mia testa.

Mi sono mai sentita così inta? Ho l’impressione che tutti mi guardino. Alcuni, forse, mi issano perché notano che non sono una musulmana fervente. Altri, invece, pensano che sia una di quelle persone particolarmente ligie alle prescrizioni del Corano, gente sicura di sé, che io stessa non sopporto. Le paillette argentate del velo di Sevgi luccicano sotto le luci al neon della zona di

Sevgi spera che il viaggio alla Mecca la cambi per sempre, ma ha anche un po’ paura transito. Lei e suo marito hanno speso 3.050 euro per questo pacchetto di quattro settimane a Medina e alla Mecca. L’oferta comprende l’albergo, la mezza pensione e le tasse per l’hajj. Per mettere da parte i soldi non c’è voluto molto tempo: i due conducono una vita parsimoniosa. Il marito di Sevgi fa l’autista di autobus. Il loro appartamento di tre vani e mezzo, nel quartiere di Wilhelmsburg ad Amburgo, è molto sobrio, e l’oggetto più appariscente è il televisore a

Non c’è molto da pensare: bisogna solo prostrarsi ora. “Bismillahirrahmanirrahim”. In nome di Allah, il compassionevole, il misericordioso.

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ÖZLEM TOPçU Für DIE ZEIT

Istanbul. Non ho mai visto l’aeroporto così afollato. Si capisce subito che è la stagione dell’hajj. Musulmani di tutto il mondo attendono la coincidenza: un gruppo di africane musulmane, con la testa coperta da stofe variopinte, uno di musulmani francesi, con le scarpe da ginnastica che spuntano sotto l’orlo della lunga veste. Alla Mecca saremo in tre milioni. Il marito di Sevgi è andato a cercare un bagno dove sia permessa l’abluzione rituale. Non è semplice: nella laica Turchia è sconveniente mettere in mostra la propria religiosità. E poi si bagna tutto il pavimento. Il volo per Gedda partirà solo domani mattina alle 4.30. Che fare? Sono stata tante volte in questo aeroporto, ma non come pellegrina. Ero solo Özlem, la ragazza che veniva in vacanza dalla Germania per far visita ai parenti e trascorrere qualche bella

Questo articolo

u Questo reportage è nato da un’idea del giornalista della Zeit Martin Spiewak. Per realizzarlo, Spiewak ha coinvolto la collega turco-tedesca ed esperta di islam Özlem Topçu. Insieme hanno incontrato ad Amburgo Sevgi Erdem e il marito Mahir. u Le donne possono fare il pellegrinaggio alla Mecca solo se musulmane e accompagnate da un uomo. Nella foto: Sevgi Erdem (a sinistra) e özlem Topçu alla Mecca.

schermo piatto in salotto. “Il lusso non mi piace, la mia fede lo proibisce”, dice Sevgi. Lei spera che il viaggio alla Mecca la cambi per sempre, ma ne è anche un po’ impaurita. Anche per questo, prima di partire, Sevgi e Mahir si sono tolti un ultimo capriccio: un’Audi A6 nuova di zecca dai sedili color crema. Chissà se dopo, quando saranno hajji, vorranno ancora concedersi queste gioie terrene. “Cosa ti auguri di ottenere da questo viaggio, Sevgi?”. “L’huzur”, risponde lei. La pace spirituale. È una sensazione che Sevgi sa descrivere solo nella sua lingua madre. “Spero che quando avrò pagato il debito che ho nei suoi confronti, Dio perdonerà i miei peccati”. “E in cosa consiste questo debito?”. “Ho commesso molti peccati. Voglio tornare innocente come il giorno in cui sono nata”. Sevgi mi racconta che è arrivata in Germania a vent’anni, ma non ha mai imparato ad apprezzare la sua nuova patria. I suoi suoceri le proibivano qualunque cosa. Le hanno anche impedito di iscriversi a un corso di tedesco. La sua prima iglia è nata con un grave handicap, e ino a qualche anno fa lei se n’è presa cura a casa, perché una madre non aida la sua creatura agli estranei. Alla ine ha dovuto riconoscere che la ragazza sarebbe stata meglio in una struttura attrezzata, ma tutto questo le ha spezzato il cuore. Sevgi ha anche perso un iglio, che è nato morto. È convinta che sia stata colpa sua: dopo il parto non è più riuscita a pregare per dieci anni. In seguito ha cercato di recuperare il tempo perduto. Dieci anni, cinque preghiere moltiplicate per 3.650. Ma ora con la visita alla Mecca troverà la sua redenzione. “Spero che Dio mi perdoni”, dice. Con grande cautela, come se potesse rompersi, la donna tira fuori un piccolo Corano dalla tasca e comincia a leggere in silenzio. Ora la sua vita tedesca è lontanissima. Come può darsi la colpa di tutto? Com’è possibile che una persona si abbatta così invece di prendersela per una volta con la vita, con il destino, con Dio? La religiosità di Sevgi mi dà un senso di pesantezza, ma allo stesso tempo questa donna mi sembra la persona più pura e innocente del mondo: una persona che ha vissuto una vita durissima e che è troppo poco egoista e senza desiderio di libertà. In fondo, cosa ha ottenuto dal suo Dio? E se i tre milioni di pellegrini diretti alla Mecca fossero tutti spinti da sensi di colpa immoti-


AHMeD JADALLAH (ReUteRS/CONtRAStO)

La Mecca, Arabia Saudita. Pellegrini sul monte della Misericordia

vati? Questo viaggio avrebbe comunque un senso? Ma chi sono io per giudicare? Sono una principiante della religione, un’imbrogliona camufata alla meno peggio. Per Sevgi l’hajj è tutto, ma per me? È giusto che partecipi a questi rituali per pura curiosità, per di più guardando gli altri dall’alto in basso? Ma in fondo anch’io sono musulmana di nascita, quindi ho diritto di visitare la Mecca a prescindere da quello che pensano i guardiani della moralità islamica. Con il volo per Gedda comincia per tutti i pellegrini l’ihram, lo stato di consacrazione. D’ora in poi sarà proibito pettinarsi, rasarsi, tagliarsi unghie e capelli, lavarsi i denti con il dentifricio, litigare, avere rapporti sessuali e versare sangue. Perino chi calpesta una mosca o una formica commette peccato. Gli uomini non possono più calzare scarpe e indossare abiti con l’orlo, e tutti si sono avvolti in due teli da bagno bianchi, uno legato intorno ai ianchi e l’altro gettato sulle spalle. Alla Mecca bisogna presentarsi di fronte a Dio come nel lenzuolo funebre: indifesi, inermi, lontani dalle cose terrene. Io non so cosa pensare della visione arcaica di questi uomini in ila davanti al can-

cello d’imbarco. Hanno un aspetto solenne? O sembrano bagnanti in cerca della prima sdraio? Il marito di Sevgi sorride beato. Lei gli sistema i teli intorno al corpo. Addosso a lui questo abbigliamento non sembra afatto solenne. Con una mano Mahir tiene stretta la stofa, con l’altra si tira dietro una piccola valigia su cui è stampato il nome del suo datore di lavoro: Süderelbe Bus GmbH. Alle donne, invece, non è prescritto un abbigliamento speciico. Certo. Per gli uomini la fede è una cosa più seria, visibile, esclusiva. Basta un’occhiata per capire che stanno andando alla Mecca. Loro possono mettere in mostra polpacci, addomi e braccia. Ma non è stato forse detto che di fronte ad Allah uomini e donne sono tutti uguali? Gedda. Il calore colpisce come un pugno in faccia. Ci sono più di 40 gradi. Dappertutto si vedono uomini in uniforme. Un giovane in camice da medico esamina i nostri certificati internazionali di vaccinazione. Le guardie di frontiera controllano i passaporti. “Where are you from?”, mi chiede il doganiere. Sul mio visto per l’hajj c’è scritto

che sono una casalinga e viaggio in compagnia di mio zio Mahir e di sua moglie Sevgi. Le donne non possono partecipare da sole all’hajj. “Welcome”, mi dice il funzionario. Non sono mai stata in Arabia Saudita e in realtà non ho mai desiderato venirci. In questo paese le leggi si basano sulla sharia, si eseguono in pubblico esecuzioni capitali e si tagliano le mani ai ladri. L’ortodossia religiosa dei wahhabiti è la dottrina di stato e le donne non possono lavorare né guidare. È una pura coincidenza, una disgrazia o solo una conseguenza logica che il centro dell’islam si trovi proprio qui? Il nostro hoca dice che ora dobbiamo consegnare i passaporti. Sono le regole dei sauditi: durante l’hajj i pellegrini devono rinunciare alla loro identità. Nessuno può spostarsi liberamente nel paese. Un signore anziano del nostro gruppo si dice disponibile a raccogliere i documenti e comincia ad aggirarsi tra la folla con il sacchetto di plastica di un discount tedesco. Mi sento male solo a vederlo. Dove verrà conservato il mio passaporto? Quando me lo restituiranno? Non sono mai stata costretta a consegnare i miei documenti. Mi sento prigioniera, rinchiusa, ridotta al ruolo di casalinInternazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Reportage

Eccomi, mio Dio, al tuo comando! Eccomi al tuo comando! Tu sei Dio senza alcun congenere. Eccomi al Tuo comando! Tue sono le lodi, la grazia e la maestà. Tu sei Dio senza alcun congenere. Lì dove nelle cartoline di mia nonna la Grande moschea emana la sua luce accecante, si erge verso il cielo una grottesca torre dell’orologio cinque volte più alta del Big Ben di Londra. Con i suoi 601 metri d’altezza, la torre Abraj al Bait sarà il secondo ediicio più alto del mondo. Il complesso di grattacieli intorno alla torre ospiterà ufici, alberghi, centri commerciali e le iliali di Kentucky Fried Chicken, Starbucks e Pizza Hut. L’InterContinental ha già preso posto nel complesso, insieme all’Hilton e alla House of Donuts. Nel cuore dell’islam fede e commercio, ascesi e ostentazione non sembrano in conlitto.

Gedda, Arabia Saudita

KARIM SAHIB (AFP/GETTy IMAGES)

ga. Me la prendo con i sauditi. Sevgi invece non si preoccupa. “Sabir, ya hajji, sabir”, dice. Una frase che nei prossimi giorni sentirò spesso: “Pazienza, hajji, pazienza. Allah rimetterà tutto a posto”. Trentasei ore dopo la partenza da Amburgo arriviamo in autobus alla Mecca, la città che mia nonna, senza esserci mai stata, ha descritto come il paradiso, come “il luogo più bello che si possa immaginare”. Per me la Mecca non era altro che un’immagine dipinta con colori kitsch nelle sale da tè turche. La città natale di Maometto, il profeta. La sede della Grande moschea, che ino a oggi ho visto solo in tv o sotto forma di una sveglietta di plastica che invoca “Allahu akbar” con voce gracchiante. Ora quel paradiso mi si presenta davanti come il luogo più desolato del pianeta. Cemento e deserto a perdita d’occhio. Invece delle splendide dune di Lawrence d’Arabia, vedo solo detriti in varie tonalità di marrone smorto. Il centro della Mecca è accerchiato da gru che sovrastano i minareti. Cerco almeno di farmi piacere il panorama, ma non ci riesco. Non lo dico a nessuno, neanche a Sevgi, che sta intonando il richiamo dei pellegrini:

ranti self service e sei ascensori. Sembra un ostello della gioventù più che un palazzo. Quasi tutti i pellegrini del nostro gruppo sono pensionati, molti sono malati: il cuore, la circolazione, la glicemia, l’artrosi. Sevgi e io dividiamo la camera all’ottavo piano con altre tre donne. Occupiamo due letti adiacenti: non ci separano nean-

Alla Mecca fede e commercio, ascesi e ostentazione non sembrano in conlitto che cinque centimetri. Io mi sdraio completamente vestita, senza togliermi neanche il velo. Le donne parlano della Grande moschea, che visiteremo domani mattina. La Kaaba, la casa di Dio, sarà la prima tappa del nostro hajj. Ammiro in silenzio l’eccitazione di queste anziane signore. Sevgi dice che Allah esaudisce sempre la prima preghiera che si pronuncia di fronte alla Kaaba: ne è fermamente convinta. “Per

Da sapere Numero di pellegrini alla Mecca dal 1998 a oggi, in milioni

Sono irritata? Dovrei accettarlo, sono una sosyete! Questa città non è bella come pensavo, ma non è neanche così piatta e austera come temevo. La Mecca appartiene anche a me.

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Il nostro albergo si chiama Istanbul Palas. È una struttura di sedici piani che può ospitare circa duemila persone e ha due risto-

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Fonte: Dipartimento di statistica dell’Arabia Saudita

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cosa pregherai?”, le chiedo. “Per ricevere il perdono”, risponde. Ah, Sevgi, ma tu non hai nessuna colpa. Una delle nostre compagne di stanza mi chiede: “Sei sposata?”. “Sì”. “Con un turco?”. “No, mio marito è tedesco”. La donna mi guarda sconcertata e sorride. “Ma che mi dici? Almeno è circonciso?”. Riletto per qualche istante su cosa rispondere. Mi fa piacere che sia meno pudica di quanto pensassi. Ma comunque già immagino il dibattito che potrebbe venirne fuori. Così decido di limitarmi a sorridere e di alzare gli occhi al cielo. “Lo sai che una musulmana non può sposare un cristiano?”, mi chiede ancora. Sevgi tace. Io speravo che mi aiutasse, invece mi pianta in asso. Io le piaccio, ma il mio stile di vita le risulta incomprensibile. La irrita. E per lo stesso motivo lei irrita me. Potrei parlare a queste donne dritto in faccia, cominciare una discussione su chi sono i veri detentori della fede. Solo quelli che hanno una regola per ogni cosa? Il mattino dopo aspettiamo nella piazza della Grande moschea insieme a una folla sterminata. Quaranta gradi, neanche una nuvola, l’ombra è inesistente. Il nostro hoca ci spiega parlando con il megafono che dobbiamo dare un segno di buona volontà per la cerimonia davanti alla Kaaba. “Ho intenzione di girare intorno alla Kaaba. Signore, accetta questa oferta e facilita il mio compito”. Alla ine dei sette giri, o ta-


KAzUyOShI NOMAChI (CORBIS)

La Mecca, Arabia Saudita. Intorno alla Kaaba

waf, ognuno dovrà pronunciare una preghiera prostrandosi due volte. Poi l’hoca spiega quali preghiere si devono fare in ciascun momento e quali lodi bisogna rivolgere ogni volta a Dio. Sono tanti gli errori che potremmo commettere. Sevgi ha paura: dice che se sbaglia, Allah non accoglierà le sue preghiere. “La mia fede è così lieve eppure così pesante”, mormora. È molto diicile concentrarsi di fronte alla massa che avanza verso la moschea in babbucce, ciabatte e sandali di cuoio. Quante persone ci saranno? Vedo arabi, africani, caucasici, americani, pachistani, turchi, afgani, indonesiani. Uomini, donne, bambini, vecchi fragili e ingobbiti, seduti su una sedia a rotelle. Signore ammantate di nero dalla testa ai piedi. Veli bianchi, aderenti o allentati. Le nazioni unite della Mecca sono variopinte ino all’inverosimile. Sembra che già in epoca preislamica le tribù arabe venerassero qui i loro dei. Rivolgevano le loro preghiere a una pietra nera che è incastonata nella Kaaba. La leggenda vuole che Abramo, il costruttore della Kaaba, abbia ricevuto la pietra in dono dall’arcangelo Gabriele. Il profeta Maometto pose ine ai riti politeistici intorno alla Kaaba, ma conservò la pietra, il culto e il pellegrinaggio. La piazza è sempre più afollata. Il pavimento di marmo bianco rilette il calore. Oltre il portone che dà accesso al cortile interno della Grande moschea sono stati installati alcuni semafori, che ora sono diventati verdi. La massa dei fedeli spinge, schiaccia e ci trascina nello spazio della Kaaba. Io ho una mascherina sul volto,

mentre Sevgi ha smesso di prendere tutti i farmaci che assume di solito, per essere assolutamente pura in questo momento. Questo momento. Di cosa si tratta in realtà? Volevo vedere la Mecca come una spettatrice distaccata in una sala cinematograica, a distanza di sicurezza emotiva, ma la calca me lo impedisce. Vengo spinta e spingo a mia volta. È spaventoso e commovente al tempo stesso muoversi in questa massa di decine di migliaia di persone. Sento il respiro degli altri e il mio, avverto il battito del mio cuore e non voglio ammettere che sta accelerando sempre di più. Sento l’odore del sudore altrui e il sapore del mio, che mi cola lungo il labbro. Ascolto la babele delle lodi rese al Signore in arabo. Mi giungono all’orecchio anche parole in turco e mi sento protetta, anche se la mia lingua madre è il tedesco. Cerco di non toccare nessuno, di decidere in che direzione andare, ma provo un senso di leggerezza quando inalmente mi lascio andare alla potenza della folla. Mi sto dissolvendo al suo interno? Eccola qui, la casa di Allah, il luogo dei luoghi. Proibito agli infedeli. Il punto verso cui si girano centinaia di milioni di musulmani di tutto il mondo durante la preghiera. Il punto verso cui dev’essere orientata la testa di ogni musulmano defunto al momento della sepoltura. Il luogo in cui una sola preghiera ne vale mille. Il luogo che pone rimedio a ogni cosa. La grande casa comune di Dio. Qui non è possibile capire chi è ricco e chi è povero, chi pernotta in un albergo a cinque stelle e chi dorme per strada in un sacco a pelo.

Sevgi mi prende per mano. Di colpo mi torna in mente di non essere qui da sola. È il suo pellegrinaggio, non il mio. Le stringo la mano e insieme ci dirigiamo verso la Kaaba. Il cubo ricoperto di stofa nera si erge nella moschea come se spuntasse dal vortice umano che lo circonda. Sevgi piange in silenzio, senza emettere suoni. Come se dentro di sé avesse raggiunto il luogo in cui ha desiderato arrivare per tutta la sua vita. “Sevgi, stai bene?”. Lei non si accorge più della mia presenza. Mi sento impotente di fronte all’autenticità della sua fede incondizionata. Il velo le è scivolato un po’ indietro, alcuni capelli spuntano fuori. Io non dico niente perché non voglio disturbarla. E perché credo che la sua fede possa anche essere imperfetta. Il nostro tawaf dura un’ora. Sevgi e io ci aggrappiamo l’una all’altra per non perderci nel turbinio umano. Dietro di noi ci sono due nostre compagne di stanza. Una di loro tira fuori un foglietto dal borsellino con l’elenco dei nomi di tutti quelli per cui vuole pregare: il iglio con il vizio del gioco, il marito ateo, la iglia che vuole divorziare. Un pellegrino è responsabile anche per tutti quelli che non sono potuti venire in qui. Sette giri. Sevgi calza un paio di babbucce di lana. Sul pavimento di marmo ci sono dei cocci. I dipendenti della moschea arrivano con mocio e secchio. Sulle loro tute è stampata la scritta Saudi bin Laden Group. Sevgi rende lode a Dio. “Bismillah Allahu akbar”, “Nel nome di Allah, Allah è grande”. “Per favore, andiamo fino in fondo. Vorrei toccare la Kaaba”, mi dice. Sul suo naso luccicano perle di sudore. Io sono preoccupata, temo che venga schiacciata dalla folla. Ci facciamo strada in direzione del cubo. Ascolta il cervello. Un cubo. È solo un cubo rivestito di nero. Lo spazio intorno a noi è sempre più stretto, gremito, torrido. Mi strappo la mascherina dal volto. Niente panico. Ora basta lasciarsi trasportare dalla folla. Senza opporre resistenza. Devo aiutare Sevgi a raggiungere la sua meta. Glielo devo. Del resto la Kaaba non è anche la mia meta? Con la ragione non posso spiegare il benessere che si prova qui. Mi sento protetta. Non devo prendere decisioni. Non ho alcun potere, nessun ego. Se questo signiica avere fede, in questo momento ho feInternazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Reportage de. O almeno credo di averla. Alla ine ce la facciamo. Io tocco la Kaaba per prima. La pietra è liscia e tiepida. E in certi punti umida, a causa della saliva di migliaia di baci. Il sipario nero è alzato. Un uomo in uniforme ci sovrasta dall’alto di un piedistallo. Porta gli occhiali da sole e una barbetta inemente rasata e picchietta sui tasti del suo cellulare. Anche lui sembra non accorgersi di niente e di nessuno. Spin­ go Sevgi verso il muro nero senza staccare la mano destra dalla Kaaba e senza riguar­ do per l’uomo accanto a me, che cade a terra. Sevgi appoggia le mani al cubo con massima cautela, come se stesse per toc­ care un cuore pulsante. Poi lo bacia. Maledizione, cosa succede? Sono inita in un evento primordiale messo in scena perfettamente: una massa circola attorno a un punto centrale. Adesso sono la componente priva di volontà di un più vasto collettivo? Sì, proprio così, e mi va bene. Mi sento rilassata. Redenta, forse? E da cosa? Trascorriamo il resto della giornata nei pressi della Kaaba, girandovi intorno o am­ mirandola senza parole, e temendo di per­ derci qualcosa se andiamo via. Sevgi sem­ bra sinita. “La immaginavi?”, le chiedo. “No, non così bella”, risponde lei. Per il resto del nostro soggiorno passe­ remo almeno una volta al giorno dalla Kaa­ ba. Solo qui la Mecca, con i suoi tre milioni di visitatori, è davvero bella. Il servizio degli autobus urbani è sospeso, il governo ha interrotto il traico aereo. I pel­ legrini dormono sui marciapiedi, sotto i ponti, sulle isole spartitraffico. Sull’intera città aleggia un odore di umani­ tà e immondizia. Le ore corrono, i giorni passano veloci. Il tempo sembra dissolversi nel cuore di questa religione che non so ancora se sia la mia. In nome dell’islam certi predicatori seminano zizzania con discorsi pericolosi. In nome dell’islam si uccide ancora oggi. E in nome dell’islam le folle si radunano alla Mecca come per confutare l’immagine ne­ gativa che grava sulla loro fede. Sevgi ha un grande desiderio: pronun­ ciare l’ultima preghiera del mattino davan­ ti alla Kaaba il venerdì prima dell’Eid al adha, la festa della rottura del digiuno. Alle cinque del mattino, prima che sorga il sole. Questa preghiera sarà sua. Ci sistemiamo al piano superiore della moschea, da dove possiamo vedere bene

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la Kaaba. Sevgi sembra felice. Mancano ancora tre ore all’alba. A un certo punto al piano di sotto vediamo un uomo barbuto con una veste bianca e un berretto da pre­ ghiera bianco in testa. Nella mano sinistra regge una sedia a sdraio, nella destra un Corano. Alza la testa verso di noi e urla: “Women never pray with men!”. Con un’al­ ternanza di arabo e inglese grida: “Go away! Go away! Women never pray with men!”. È sempre più infuriato. Con gesti furibondi ci ordina di andarcene. Perché lo fa? Nella moschea non abbiamo visto nes­

La sera Sevgi si chiede se ha fatto abbastanza per ottenere la grazia del Signore sun cartello che assegni spazi distinti agli uomini e alle donne. “Io non me ne vado”, dice Sevgi, “il nostro profeta trattava le donne con rispetto”. Mentre parla, non guarda me, ma lui. La forza di Sevgi mi colpisce molto. Alla Mecca sto perdendo giorno per giorno le mie certezze, la mia sicurezza. Per Sevgi, invece, questa città è un luogo di emancipazione. È questa la forza di una donna devota? Con le mie argomentazioni non sarei mai riuscita ad afrontare questo fanatico religioso. Per quanto il barbuto strepiti, noi non ci muoviamo di lì, ma ormai non ce la sentiamo più neanche di pregare. Per la prima e unica volta la Kaaba mi appare come un luogo di fondamentalismo, spietatezza e inlessibilità. L’imam intona la sura dell’Apertura. La sua voce è chiara, soave, leggermente na­ sale. In nome di Allah, il compassionevole, il misericordioso, lode ad Allah, signore dei mondi, il compassionevole, il misericordioso, re del giorno del giudizio, te noi adoriamo e a te chiediamo aiuto. Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nell’ira, né degli sviati. Il nostro fanatico si potrebbe benissimo inserire in quest’ultima categoria. Sevgi è disperata. “Perché Dio mi puni­

sce in questo modo?”, chiede. “Perché non mi permette di pagare i miei debiti?”. Mi piacerebbe che riuscisse a prender­ sela con Allah almeno un po’. Allah, non è giusto. Mi hai sentito? Insieme a Sevgi mi fermo due settimane alla Mecca. Camminiamo per venti chilo­ metri ino al monte Arafat, dove Maometto pronunciò il suo ultimo sermone. Lapidia­ mo il diavolo a Mina, per bandirlo per sem­ pre dalla nostra vita. Giriamo di nuovo at­ torno alla Kaaba, ce ne stiamo sedute sul nostro letto all’Istanbul Palas, guardiamo la tv turca e ci medichiamo i piedi sangui­ nanti. Ogni sera Sevgi si chiede se ha fatto abbastanza per ottenere la grazia del Si­ gnore. Io mi chiedo se una donna come lei non avrà sempre la sensazione di aver fatto troppo poco. E sono contenta di essere re­ stata libera da questo gioco di calcoli reli­ giosi. Eppure alla ine del nostro pellegri­ naggio mi accorgo anche quanto mi risulti diicile, dopo tanti giorni, saltare giù dalla giostra dei rituali, che mi fa sentire così be­ ne qui alla Mecca e mi fa quasi girare la te­ sta come a un bambino. Come farò a tornare la donna che ero prima di questo viaggio? Oppure resterò come sono adesso? Al ritorno ad Amburgo la mia famiglia mi accoglie con torta e spumante per celebra­ re l’hajj. Io bevo senza rimorsi di coscien­ za. Anche Sevgi festeggia con i suoi fami­ liari, bevendo tè. Ha perso sette chili, io cinque. Lei torna a fare le pulizie negli ui­ ci, io mi risiedo alla scrivania. Lei continua a portare il velo, io mi rimetto i miei ma­ glioncini attillati. Eppure siamo cambiate entrambe: dopo l’hajj Sevgi sembra più ri­ lassata, più sciolta. Dice che ora è più facile andare avanti. Nella mia cerchia di cono­ scenti io sono una che può raccontare un viaggio che resterà proibito per sempre a qualunque cristiano, buddista o ateo. Que­ sto viaggio non ha fatto di me una creden­ te, ma mi ha trasformato in una persona che non è più tanto certa di non credere in niente. Quando stavamo per separarci Sevgi ha detto: “Se si va insieme in pellegrinaggio si resterà amici per sempre”. Ecco di nuovo il senso d’impotenza che questa donna pia scatena in me. Questa sicurezza che la fede renda tutto possibile. Perino un’amicizia tra lei e me. Come può esserne tanto certa? “Siamo diventate hajji insieme”, dice Sevgi. “Tu e io”. u fp



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Alla scoperta di Vivian Maier Nel 2007 un giovane collezionista ha scoperto l’archivio di una bambinaia di Chicago che negli anni cinquanta aveva l’hobby della fotograia. Oggi la città le dedica una mostra

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ivian Maier lavorava come tata per alcune famiglie benestanti di Chicago, ma nel tempo libero scattava fotograie per le strade della città con la sua Rolleilex. Le immagini, circa centomila, sono state realizzate soprattutto a Chicago e a New York, ma anche all’estero. Sono state scoperte da un giovane agente immobiliare e collezionista di Chicago, John Maloof, che nel 2007 ha comprato

a un’asta, per 400 dollari, migliaia di stampe, negativi e rullini mai sviluppati. Nel 20o9, pochi mesi dopo la morte di Maier, Maloof ha cominciato a pubblicare le immagini su internet (vivianmaier.blogspot.com), partendo da quelle che descrivono la vita quotidiana a Chicago e a New York negli anni cinquanta e sessanta. Oggi Maier è considerata una delle maggiori igure della street photography. u

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A pagina 56: New York, 18 ottobre 1953. A pagina 57: Florida, 9 gennaio 1957. Sopra: senza titolo, autunno 1953.

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Sopra: Uptown West, New York, 26 gennaio 1955. Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Sopra: Egitto, 1959. Qui accanto, da sinistra: New York, 1953; Canada. Nella pagina accanto, in alto: Queens, New York, 1953. In basso, da sinistra: 108th street east, New York, 28 settembre 1959; New York, 4 aprile 1959.

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INFORMAZIONI

La mostra Finding Vivian Maier: Chicago street photographer è al Chicago cultural center ino al 3 aprile 2011. Nei prossimi mesi saranno realizzati anche un libro e un documentario. Nata nel 1926 a New York, Vivian Maier ha vissuto in Francia ino al 1951. Tornata negli Stati Uniti, nel 1956 si è trasferita a Chicago, dov’è morta nel 2009.

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Ritratti

Asma al Ghoul Ribelle a Gaza Ashley Bates, Mother Jones, Stati Uniti. Foto di Eduardo Castaldo

Indossa blue jeans, legge libri censurati e scrive sul blog articoli critici contro Hamas. È stata più volte minacciata dagli estremisti e non crede nei colloqui di pace. Ma continua a riiutare la violenza e a sostenere i valori laici

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a femminista palestinese Asma al Ghoul arriva al nostro incontro in un cafè di Gaza indossando jeans e maglietta. Il contrasto con il velo e gli abiti a sacco indossati da quasi tutte le altre donne che si trovano nel locale è evidente. Non è solo l’abbigliamento a distinguere questa donna laica di 28 anni. Tempo fa ha criticato pubblicamente suo zio, un leader militare di Hamas, che ha minacciato di ucciderla. Inoltre Asma continua a pubblicare articoli coraggiosi, a leggere libri censurati e a sidare le politiche discriminatorie contro le donne. “Per Gaza è importante che tutti i laici e i progressisti restino qui”, risponde quando le chiedo perché non ha deciso di trasferirsi all’estero. Da circa tre anni, Israele impone un embargo devastante sulla Striscia di Gaza per isolare Hamas, il gruppo militante islamico che nel 2006 ha vinto le elezioni legislative e che nel 2007 ha assunto il controllo del territorio dopo il conlitto con Al Fatah. Da allora Hamas ha imposto leggi più restrittive, compreso il divieto per le donne di usare abiti maschili o di fumare il narghilè in pubblico. I presidi delle scuole statali hanno anche fatto pressioni sulle ragazze cristiane perché indossassero il velo islamico. Eppure, Asma è rimasta fedele al laicismo e di recente ha ricevuto un premio da Human rights watch per “l’impegno e il coraggio a favore della libertà d’espressione e nonostante la persecuzione politica”. Ma riuscirà a contribuire alla costruzione della società civile che sogna? Prima di nove igli di una

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famiglia “laica ma non borghese”, Asma ha tra i ricordi della sua infanzia il rumore degli stivali dei soldati israeliani che una notte fecero irruzione nella sua casa. Rafah, la sua città d’origine vicino al confine con l’Egitto, è una delle comunità più conservatrici e povere di Gaza, ed è un frequente bersaglio delle incursioni e dei bombardamenti israeliani. Dopo aver frequentato l’università a Gaza, Asma ha lavorato come giornalista per il quotidiano arabo locale Al Ayyam. Nei duri post sul suo blog (asmagaza.wordpress. com), su Twitter e negli articoli ha spesso raccontato “la corruzione di Fatah e il terrorismo di Hamas”. Alla ine del 2003 ha sposato un poeta egiziano, un “matrimonio d’amore” che sidava la tradizione del matrimonio combinato, molto difusa a Gaza. La coppia si è trasferita ad Abu Dhabi e ha avuto un iglio di nome Naser. Ma un anno e mezzo dopo è arrivato il divorzio. Asma e

Biograia ◆ 1978 Nasce nel campo profughi di Rafah, nella Striscia di Gaza. Dopo aver frequentato l’università a Gaza, lavora come giornalista per il quotidiano arabo locale Al Ayyam. ◆ 2003 Sposa un poeta egiziano. Si trasferiscono ad Abu Dhabi e hanno un iglio. Divorziano un anno e mezzo dopo. ◆ 2006 Decide di abbandonare deinitivamente il velo islamico. ◆ 2007 Frequenta un corso di giornalismo in Corea del Sud. Scrive un articolo critico nei confronti di suo zio, un militante di Hamas, che minaccia di ucciderla.

suo iglio si sono trasferiti dalla famiglia di lei a Gaza City, dove la donna ha continuato a lavorare come giornalista. Tra lo sconcerto di parenti e amici, nel 2006 Asma ha deciso di abbandonare deinitivamente il velo islamico. “Non volevo sentirmi sdoppiata: una donna laica e islamica allo stesso tempo”, dice. Per fortuna i suoi familiari più stretti – compreso il padre, che insegna ingegneria all’università islamica di Gaza – hanno sostenuto la sua scelta. “Puoi essere libera”, spiega Asma, “solo se tuo padre o tuo marito sono laici”. Nel 2007, durante la guerra tra Hamas e Al Fatah, ha frequentato un corso di giornalismo in Corea del Sud. In quel periodo ha pubblicato un articolo in arabo intitolato “Caro zio, è questa la patria che vogliamo?”, in cui criticava il fratello di suo padre, un leader militare di Hamas, per essersi rivoltato contro la sua gente e aver usato la casa di famiglia per interrogare e picchiare gli attivisti di Al Fatah. Per tutta risposta, lo zio ha minacciato di ucciderla. Un anno dopo Asma ha parlato del suo trauma causato dalla guerra scoppiata alla ine del 2008 tra Israele e militanti di Hamas, in cui sono morti tredici israeliani e circa 1.400 palestinesi di Gaza. Spesso restava a dormire in uicio per paura di morire sulla via di casa, ad appena cinque minuti da lì. “Avevo la sensazione che gli aerei militari israeliani fossero ciechi”, ricorda. “Attaccavano tutto e tutti. Ho visto bambini morti. Come donna e come essere umano non credo nella vendetta, perché porta altro sangue, ma le persone mi dicevano: ‘Vedi? È questa la tua pace’”. Pur avendo amici


ebrei attivisti a Gaza, Asma non è mai entrata in Israele. Nel 2003 e nel 2006 il governo di Tel Aviv le ha negato il permesso di attraversare il territorio israeliano per raggiungere la Cisgiordania, dove avrebbe dovuto ricevere dei premi. Di recente ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione per due incidenti con la polizia di Hamas. Nell’estate del 2009 camminava su una spiaggia pubblica di Gaza con altre persone per andare a trovare un ex collega e la sua famiglia. La polizia li ha interrogati, e gli uomini sono stati costretti a irmare dei fogli in cui promettevano di non avere più contatti “inappropriati” con le donne. In seguito Asma ha ricevuto minacce di morte anonime ed è stata seguita e messa sotto controllo dalla polizia. Eppure, per i laici di Gaza ci sono ancora delle speranze. Nell’agosto del 2010, durante il mese del Ramadan, Asma e tre amiche attiviste straniere sono andate in bici sulla costa per sidare il divieto di usare la bicicletta imposto da Hamas alle donne. Con sua grande sorpresa, la polizia di Hamas ha dato la caccia a due motociclisti che l’avevano seguita e molestata. E ha anche scoperto che molti civili “erano piacevolmente scioccati. Dicevano: ‘Forza! Brave!’ Mi hanno

chiesto: ‘Fai il digiuno?’. E io ho risposto: ‘Sì, lo faccio!’”. Quell’esperienza ha spinto Asma a pensare che le leggi discriminatorie contro le donne siano “lessibili”. Ora crede che Hamas si trovi “tra due fuochi, perché deve ascoltare allo stesso tempo la società civile e i gruppi estremisti”.

Restare o partire? Asma, però, ha cominciato a chiedersi se sia il caso di restare a Gaza. Il 5 dicembre 2010 suo fratello Mustafa è stato arrestato dalla polizia di Hamas per aver partecipato a una manifestazione contro la chiusura di Sharek youth forum, un’organizzazione giovanile attiva nella Striscia. L’associazione non proit, che ha organizzato campi e doposcuola per più di 60mila bambini di Gaza, è accusata di archiviare materiale pornograico nei suoi computer. Asma non ha mai fatto parte di Sharek, ma ne ammira il lavoro. L’ente è conosciuto per aver organizzato le attività per i bambini – rigorosamente separate – durante i giochi estivi annuali sponsorizzati dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei palestinesi nei campi profughi. Nell’estate del 2010 le tende erette per i giochi sono state più volte incendiate da uomi-

ni armati e con il volto coperto, che hanno minacciato di uccidere lo staf dell’agenzia. Alcuni volantini anonimi distribuiti prima degli incendi deridevano l’Unrwa e Sharek perché insegnano “ginnastica, danza e immoralità alle ragazze”. “E io che criticavo Sharek per il suo eccessivo conservatorismo, perché non permettevano ai dipendenti di ascoltare musica”, mi dice Asma con un sospiro triste. “Sharek è un esempio di quello che Hamas vuole fare a questa società. Ce ne saranno altri”. Ora, quando non è sopraffatta dalla preoccupazione per il destino del fratello in carcere, Asma legge, scrive e segue le notizie, comprese quelle sul fallimento dei negoziati di pace tra Israele e Al Fatah. Lei considera i colloqui una “triste storia di cui si conosce il inale”. Ha comprato di nascosto una copia in arabo del libro I igli della mezzanotte, di Salman Rushdie: “Dovremmo leggerlo prima di giudicarlo”. Sta anche inendo la stesura del suo romanzo, Città di amore e tabù, sull’islamizzazione di Gaza. Asma spera di pubblicarlo in arabo e in inglese. “Ora a Gaza tutto è tabù”, dice spiegando il titolo. “Però le persone continuano a commuoversi, ad avere sentimenti e ad amare”. u sdf Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Viaggi

La veranda sull’oceano Pico Iyer, Financial Times, Gran Bretagna

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renta minuti a sud di Galle, un piccolo centro nello Sri Lanka meridionale, un’isola emerge dalle acque dell’oceano Pacifico. Per raggiungerla si costeggia un lungomare circondato di palme. Tra gli alberi dell’isola spuntano delle torri bianche simili a quelle di un castello. Fermo l’auto e mi incammino sulla sabbia soice e calda per dare un’occhiata da vicino a questo enigma tropicale. Nell’acqua blu e verde c’é un ragazzino in calzolcini che si fruga nelle tasche. Duecento metri più in là, su una banchina all’ingresso dell’isola, due igure iliformi aspettano in piedi davanti a un portoncino bianco. Taprobane, il nome del palazzo nascosto, mi aveva talmente colpito che in un precedente viaggio in Sri Lanka avevo chiesto al tassista di fermarsi e, pur senza essere invitato, avevo attraversato il guado a piedi per ammirare la villa in stile anni venti fatta costruire dal sedicente conte de MaunyTalvande. Oggi, invece, sono ospite della villa. Faccio dei segni alle due igure in lontananza, ma ci sono le onde a dividerci e la distanza è troppa perché possano sentirmi. Intanto la marea sale e davanti ai miei piedi si forma una pozza d’acqua. Finalmente, dopo venti minuti di comunicazioni fallite, mi fanno capire che devo rimanere dove sono. Due ragazzi escono dal portoncino bianco e avanzano in mezzo alla schiuma del mare. I loro pantaloncini s’impregnano d’acqua. “Il portafoglio”, mi avverte uno di loro una volta giunto al mio ianco, facendomi segno di silarlo dalla tasca dei pantaloni. “Anche il passaporto?”, chiedo.

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“Sì, signore. A volte la corrente è molto forte”. Mi tolgo scarpe e calze, mi arrotolo i jeans ino alla coscia e seguo i due ragazzi in mezzo all’acqua sempre più alta, temendo di veder sparire tra le onde i miei soldi e il mio unico documento di riconoscimento. Arrivati inalmente alla banchina, ci arrampichiamo sulla terraferma. Oltrepassato il portone bianco del castello, mi accoglie un giardino pieno di vegetazione. Mi sento come un intruso sull’isola di Robinson Crusoe. I miei jeans sono talmente zuppi che quasi non riesco a muovermi. Ho i piedi bagnati e pieni di sale e sto per entrare in una cupola neopalladiana, con foto in bianco e nero appese alle pareti che mostrano partite di polo in sella a elefanti e feste in smoking di più di mezzo secolo fa, quando sovrani, regine e primi ministri venivano qui a passare la notte ballando.

Il posto più desiderato Taprobane, neanche a farlo apposta, un tempo era il nome dello Sri Lanka. Secondo qualcuno la piccola isola, su cui c’è a malapena lo spazio per la villa, ricorda la forma dell’isola più grande. Per tanti anni Taprobane è stata l’emblema del sogno di molti occidentali: fuggire dal proprio mondo per vivere in mezzo alla natura, circondati solo dal mare. La costruzione di forma ottagonale che domina l’isola fu fatta costruire dal conte negli anni venti, con verande su ogni lato che si diramano da una struttura centrale alta nove metri. Negli anni cinquanta Paul Bowles si ritirò qui per quattro anni, inendo di scrivere La casa del ragno, prima di tornare in Marocco. E quando domandarono a Mark Ellingham quale fosse il posto al mondo dove più desiderasse andare, il fondatore della Rough Guide citò proprio l’isola della casa solitaria a largo della cittadina srilanchese di Weligama. Dal 1995 la casa appartiene a Geofrey Dobbs, britannico ed ex imprenditore a Hong Kong. Insieme ad altri espatriati da

REMI BENALI (CORBIS)

L’isola di Taprobane, nello Sri Lanka meridionale, raccontata dallo scrittore Pico Iyer. Ci sono solo una villa in stile anni venti e tanta vegetazione

Hong Kong e da Londra, Dobbs si è dedicato all’acquisto e alla manutenzione di una serie di vecchie proprietà coloniali nei dintorni di Galle. Un moderno conquistatore direbbe che Galle, nella sua interezza, è divisa in tre parti. Una città moderna e traicata di circa centomila abitanti. Il misterioso borgo circondato dalle mura di un forte olandese del seicento, che risuona ancora del canto islamico di una madrasa, con gli uomini seduti sulle fatiscenti terrazze coloniali che guardano il mondo immobile mentre gli scolari camminano a ianco delle mura scrostate della chiesa riformata olandese. E inine, le ottanta case comprate in tempi recenti dai britannici e riconvertite in botteghe chic, cafè alla moda e magniici alberghi come il Galle Fort e l’Amangalla.


Sri Lanka. L’isola di Taprobane

Dobbs, che oggi gestisce due hotel coloniali ristrutturati sopra il forte, vide una foto di Taprobane negli anni settanta e, dopo anni di pazienza e trattative, prese in aitto la casa per cinque anni per poi acquistarla in via deinitiva 15 anni fa. Due minuti dopo aver messo piede nell’arioso ingresso della villa, il proprietario mi chiama dal suo cellulare per darmi il benvenuto. Uno dei suoi cinque inservienti mi passa un asciugamano e una Coca-Cola mentre osservo quella che fu la stanza del conte, che si dice sia abitata da vari fantasmi, e non solo dal ritratto gigantesco e inquietante del suo ex inquilino. Camminando per l’isola si arriva a una piscina sterminata e poi a una serie di piccoli angoli nascosti nell’ombra dove sono state sistemate sedie e panchine. Il luogo sembra un labi-

Informazioni pratiche ◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Quatar, Emirates) per Colombo parte da 627 euro a/r. Dalla capitale è possibile raggiungere in treno o in auto Weligama, un villaggio di pescatori che si trova nella costa meridionale dello Sri Lanka. La città più vicina all’isola di Taprobane è Galle, a poco meno di un’ora d’auto. Da Galle a Weligama c’è un servizio regolare di autobus. L’isola è a duecento metri dalla costa. Durante la bassa marea è possibile raggiungerla a piedi, altrimenti ci sono le barche

che fanno la spola tra le due rive. ◆ Clima Il periodo migliore per andare sull’isola è da gennaio a metà aprile, tra le stagioni della piogge. È il momento più caldo e la

vegetazione è più rigogliosa. ◆ Dormire L’isola è privata. Il prezzo a notte comprende il suo aitto esclusivo. La villa ha cinque camere con nove posti letto. I prezzi partono da mille euro a notte e variano in base al periodo scelto. Per avere maggiori informazioni si può consultare il sito: taprobaneisland.com ◆ Leggere Guido Gustavo Gozzano, Un Natale a Ceylon e altri racconti indiani, Garzanti 2005, 9 euro. ◆ La prossima settimana I 41 posti da vedere nel 2011 secondo il New York Times.

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Viaggi Sri Lanka. La spiaggia di Weligama

A tavola

RENé MaTTES (ExPLoRER/EyEdEa/CoNTRaSTo)

I mille curry dell’isola

rinto di anfratti privati. Tornati alla villa, mi portano nella glass room (stanza di vetro) sotto l’ediicio centrale, che ha un letto a baldacchino, una copia di Nineteen stories di Graham Greene e il rumore costante del mare che entra da ogni lato della stanza. Uno degli aspetti magici di Taprobane è il fatto di poter vedere e sentire la vita che scorre a soli duecento metri dalla riva. Vedo i pescherecci colorati adagiati sulla spiaggia, sento passare gli autobus e i furgoncini a tre ruote, mi arriva l’eco dell’eccitazione di una partita di calcio sulla sabbia. Eppure sembra un mondo a parte, come se l’isola trasformasse ogni suo inquilino in una sorta di imperatore riparato dal fossato del castello.

Accarezzare i sogni in fuga Le ore successive mi sembrano molto rilassanti ma anche strane. Per un po’, mangiando a tavola, unico ospite sull’isola, immagino che il mio solo commensale sia l’oceano. Poi appare il mio ospite, insieme a due noti scrittori. Ci sediamo tra libri e bottiglie mentre cala la notte: da una parte il buio, dall’altra le luci della strada. Più tardi, scortati presso una terrazza vicino al mare, io e altri tredici ospiti della villa ceniamo seduti a un tavolo illuminato da piccole torce, più rade che in qualunque albergo io ricordi. È come stare in una casa di campagna in mezzo ad alberi rossi, frangipani e onde. Chi cerca un’avventura unica nella vita – o una luna di miele – oggi può aittare Taprobane per circa 700 euro a notte (a seconda della stagione). Ma attenzione, è bene ricordare che lo Sri Lanka è da sempre un paradiso ambiguo per gli scrittori stranieri. Bowles, il più letterario tra gli inquilini di Taprobane, dedicò la vita a descrivere come il visita-

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tore si lasci via via inghiottire dall’esotismo e come un’escursione innocente si possa trasformare presto in un auto da fé. Leonard Woolf, non molti chilometri più in là, scriveva di sentirsi circondato, quasi divorato, dalla giungla avvolgente. Seduto nella mia stanza osservo una ila di formiche rosse che attraversa il balcone. I corvi zampettano attorno alla piscina, beccando noci e briciole di pane. Il rumore delle tubature nel bagno sembra una tromba che annuncia la cena sulla spiaggia. Non molto distante, ma come se appartenesse a un altro mondo, un padre prende il iglio per mano e lo conduce nell’acqua schiumosa. Stare qui è come vivere nella testa di uno scrittore, mentre il rumore del mare, incessante e sempre mutevole, giunge da ogni parte. Ripenso a un tale che mi raccontava del giorno in cui, cinque anni fa, il mare travolse tutto, devastando trecento metri di terra e inghiottendo case, interi villaggi e migliaia di vite. Mi ricordo anche di Bowles che apprezzava i pipistrelli giganti trovati sull’isola, un tempo infestata dai cobra. Chiunque voglia assaporare il fascino potente dello Sri Lanka difficilmente potrà trovare qualcosa di più sconvolgente di Taprobane: qui si possono accarezzare i sogni di fuga, ma ci si può anche trovare faccia a faccia con gli elementi in tutta la loro forza spietata, che sale nello scroscio dell’oceano. u fas L’AUTORE

Pico Iyer è uno scrittore e giornalista nato nel 1957 in Inghilterra da genitori indiani. Vive in Giappone ed è un grande viaggiatore. Il suo ultimo libro è La strada aperta (Neri Pozza 2008).

uUn intreccio di inluenze, profumi e suggestioni diversissime. Molto legata ai sapori dell’India meridionale, la cucina dello Sri Lanka ha qualcosa delle tradizioni mediorientali, grazie ai moors, un gruppo etnico di lontane origini arabe, ma ha anche più di una ricetta ereditata dal passato coloniale. di origini olandesi, per esempio, è il lamprais, riso bollito con curry, arricchito da frikkadels, polpettine, e poi avvolto in foglie di banano, mentre il bolo iado, una torta a strati, viene dalla tradizione portoghese. ogni pasto ruota intorno al riso, cucinato con miscele di spezie sempre diverse o con latte di cocco (in questo caso si chiama kiribath), e accompagnato da chutney, sottaceti e soprattutto pesce. Per provare le ininite gradazioni e sfumature dei curry locali, sul sito di Travel Channel lo scrittore e cuoco anthony Bourdain consiglia il Barefoot garden café, a Colombo, mentre, secondo il blog gourmet-chick.com, l’indirizzo da non perdere è Green cabin, sempre nella capitale: pollo, maiale, agnello e uova cucinati senza risparmio di peperoncino. Per una cena più formale c’è il Gallery café, ospitato nell’ex residenza dell’architetto srilankese Geofrey Bawa: ricette locali con un tocco internazionale. Uno dei piatti più tipici del paese – gli hoppers, barchette di farina di riso cotte in padella e poi farcite – si assaggiano al ristorante del Mohamadiya hotel, sempre a Colombo, mentre per sconiggere i postumi di una serata passata a bere arrack, il distillato più difuso del paese, il cui nome ricorda l’arak mediorientale, Bourdain consiglia il kuttu roti dell’Hotel Pillawos, una focaccia sminuzzata e cucinata con carne, uova e verdure.



Graphic journalism Cartoline da Beirut

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Gianluca Costantini è un autore di fumetti. Ha 38 anni ed è nato a Ravenna, dove vive. Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Cultura

© SoTHeBY’S (2)

Arte

Follie all’asta The Economist, Gran Bretagna L’avidità dei venditori e la frenesia dei compratori fanno impazzire il mercato dell’arte cinese antica egli ultimi mesi, durante le aste in cui erano in vendita tesori artistici cinesi sono state fatte oferte da capogiro. I nuovi ricchi collezionisti della Cina continentale sono accorsi nelle sale d’asta di New York, Londra e Hong Kong battendo ogni record pur di riportare a casa esemplari del patrimonio culturale del loro impero. Il mercato dell’arte cinese è cresciuto molto negli ultimi cinque anni, e il rialzo dei prezzi ha contribuito a rimettere in circolazione molti capolavori che appartenevano da tempo a collezioni europee e statunitensi.

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Naturalmente il rischio è un eccesso di conidenza dei venditori, spinti dall’avidità. Invece un attento esame dei lotti messi in vendita, e che dallo scorso ottobre hanno raggiunto cifre stellari, rivela che il mercato è totalmente imprevedibile. Può capitare per esempio che i pezzi migliori passino quasi inosservati.

Un vaso da 25 milioni di euro A Hong Kong il 7 ottobre 2010 il lotto da record è stato un vaso con sigillo imperiale del periodo Qianlong, venduto da Sotheby’s. Il vaso era uno dei tredici pezzi dell’asta un tempo appartenuti alla collezione di J.T. Tai. Nato nel 1910, Tai cominciò a lavorare come apprendista dallo zio antiquario a Wuxi, un’antica città a sud del delta del Chang Jiang. Dopo la chiusura della Cina al commercio internazionale voluta da Mao, nel 1949 i Tai si trasferirono a Hong Kong diventando la più grande famiglia di mer-

canti d’arte del dopoguerra, rivenditori di fiducia di importanti collezionisti come Avery Brundage e Arthur Sackler. Una porzione simile della collezione Tai meritava un trattamento speciale, e Sotheby’s aveva opportunamente raccolto i tredici pezzi in un catalogo a parte. Il vaso non era certo il più signiicativo, eppure ha suscitato il maggiore interesse. In parte perché proveniva da Fonthill House, dove Alfred Morrison, un ricchissimo borghese britannico, nell’ottocento aveva raccolto una delle più prestigiose collezioni di tesori cinesi della Gran Bretagna. Gli eredi di Morrison avevano poi venduto il vaso a Christie’s nel 1971, ma il nome Fonthill, evidentemente, ha ancora un forte richiamo. Dalla grande ressa iniziale il gioco si è ristretto a due oferenti, e alla ine la vittoria è andata alla collezionista di Hong Kong Alice Cheng, sorella di Robert Cheng, un noto mercante d’arte e collezionista ottantenne. La signora Cheng ha pagato il vaso – tasse e commissioni incluse – 253 milioni di dollari di Hong Kong (più di 24 milioni di euro), un prezzo almeno cinque volte superiore alle stime più generose. Chi è rimasto a mani vuote spesso cerca di rifarsi a un’asta successiva. Il misterioso compratore che ha sborsato 63 milioni di euro per aggiudicarsi un altro vaso Qianlong a un’asta che si è svolta nella provincia londinese appena un mese dopo, il 12 novembre, probabilmente è un collezionista


MIKE CLARKE (AFP/GEtty IMAGES) (2)

Due vasi del periodo Qianlong venduti per 24 e 13 milioni di euro. Nella pagina a ianco un sigillo imperiale dello stesso periodo cinese che non era riuscito a spuntarla con la signora Cheng. Il vaso, giallo e turchese, decorato da un elaborato motivo di fiori e pesci, ha una struttura doppia: un foro sulla parete esterna lascia intravedere un vaso interno più piccolo. La complessità della struttura, la raffinata lavorazione e la ricchezza delle tinte assicurano che il vaso è uscito dalle fornaci dell’imperatore Qianlong e per questo è il perfetto oggetto del desiderio dei nuovi ricchi cinesi. Il vaso è stato messo all’asta da una coppia anonima di fratello e sorella che l’hanno ritrovato svuotando una vecchia casa di campagna di famiglia. Non avevano la minima idea del suo valore. Gli intenditori che avevano visto il pezzo alla Asian art week di Londra erano rimasti impressionati. Ma né loro, né il battitore d’asta, Peter Bainbridge, si sarebbero mai immaginati i diciotto minuti di furiosa lotta al rilancio scatenata dal vaso. Un agente che ha partecipato per conto di un collezionista cinese collegato al telefono si è aggiudicato il vaso per una cifra 36 volte superiore alle stime massime, rendendolo il più costoso pezzo d’arte cinese mai venduto a un’asta. Visto il successo del vaso Fonthill da So-

theby’s, Christie’s si aspettava un buon risultato anche per i suoi tre lotti provenienti dalla collezione Fonthill – altri tre tesori imperiali – in vendita a Hong Kong il 1 dicembre 2010. Il pezzo forte era una coppia di incensieri di smalto cloisonné a forma di gru con le lunghe zampe poggiate su una roccia di lapislazzuli e il collo rivolto verso l’alto. Le gru sono state messe in vendita da lord Margadale, un discendente di Morrison, il primo proprietario della collezione Fonthill. Nonostante una relazione di lunga data con Christie’s, che in passato ha già tenuto altre tre aste di tesori Fonthill, lord Margadale ha mostrato le gru a tutte le maggiori case d’asta cercando l’oferta più alta. Sono pochi i pezzi di smalto cloisonné che all’asta hanno fruttato più di un milione di sterline, ma lord Margadale aspirava a molto di più. Alla ine è stata Christie’s a spuntarla.

Domina l’incertezza Nel catalogo, alla voce stima, c’era scritto “Solo su richiesta”, fatto non così raro per i pezzi davvero costosi. Ai collezionisti, privatamente, Christie’s aveva detto di aspettarsi che gli incensieri sarebbero arrivati a una cifra sui 120-140 milioni di dollari di Hong Kong (tra i dieci e i 14 milioni di euro). L’asta è partita da un prezzo base di 75 milioni di dollari di Hong Kong con due soli contendenti. Joseph Lau, noto come collezionista di trofei, si è aggiudicato il vaso con un’oferta di 115 milioni (saliti a 129,5 milio-

ni con tasse e commissioni). E secondo altri collezionisti e mercanti presenti Christie’s ha avuto fortuna a vendere il pezzo. Anche alla terza casa d’aste londinese, Bonhams, non è andata male il mese scorso con il suo lotto più prezioso, un piccolo sigillo di giada bianca a forma di dragone. Scoperto in una collezione privata europea, prima della vendita il sigillo aveva suscitato un enorme interesse. La giada è immacolata e in perfette condizioni, e si sa che il pezzo fu commissionato personalmente dall’imperatore Qianlong. La sala di Bonhams si è riempita di venditori specializzati e perino di altri banditori d’asta incuriositi dalla vendita. Eppure le oferte si sono susseguite pigramente e senza slancio. Alla ine un agente di Pechino, che ino a quel momento si era interessato solo a lotti molto meno costosi, si è assicurato il sigillo con un’oferta di 3,3 milioni di euro. Del resto Bohnams si aspettava che superasse i sei milioni. La vendita del sigillo e quella delle gru di Christie’s dimostrano che anche in un mercato in impennata – come sicuramente è oggi quello cinese – non si può dare nulla per scontato. Un po’ di nervosismo degli acquirenti, un minimo di incertezza sul lotto da parte dei venditori, troppa sicurezza ostentata dalla casa d’aste: tutto questo può avere un’influenza sull’atmosfera della sala al momento della vendita. Le aste sono capricciose e imprevedibili. u nv Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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Cultura

Cinema Italieni

Dagli Stati Uniti

I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Vanja luksic, del quotidiano belga Le Soir e del settimanale francese L’Express.

Dedicato a Zuckerberg

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La serietà della critica cinematograica, una volta tanto, sembra aver vinto sugli aspetti più leggeri e futili della cerimonia dei Golden globes, secondi solo agli Oscar nella scala di valori hollywoodiana. E così The social network l’ha fatta da padrone aggiudicandosi molti dei premi più prestigiosi, tra cui quello per il miglior ilm, la miglior regia (David Fincher) e la miglior sceneggiatura (Aaron Sorkin). Non solo, il premio per il mi-

aaron Sorkin glior attore in un ruolo drammatico è andato a Colin Firth per Il discorso del re, e quello per la migliore attrice a Natalie Portman per Black swan, altre due pellicole adorate dalla critica. Meritatissimi anche i premi per le interpretazioni da non protagonisti, andati a

Christian Bale e Melissa Leo (entrambi per The ighter). Al momento di ritirare il suo premio, lo sceneggiatore Aaron Sorkin, dopo aver ringraziato tutti i dirigenti, i produttori e i collaboratori ha voluto spendere qualche parola conciliatoria nei confronti di Mark Zuckerberg. Il cofondatore di Facebook, in efetti, non esce molto bene dal ilm. Eppure quello che secondo il Time è l’uomo dell’anno non ha cercato in nessun modo di mettere i bastoni tra le ruote a un ilm che di fatto è una sua biograia non autorizzata. michael cieply e Brooks Barnes, the new york times

Massa critica Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo T G HE ra D n A Br I e LY LE tag T n EL Fr F EG an I G a ci A R a R A O PH G C LO an B ad E a AN D T M G HE A ra G IL n U Br A et R T a D G H E gn I A ra a N n IN Br D et E P L a E Fr IBÉ gna N D an R EN ci AT a T IO LO N St S at A iU N n GE L E i ti L E Fr M S T an O IM ci N a D E S E T St H E at N iU E n W T i t i YO St H E R at W K T iU A IM ni S H E ti I S N G T O N PO ST

LA BELLEZZA DEL SOMARO

Di Sergio Castellitto. Italia 2010, 107’ ●●●●● Con La bellezza del somaro, la coppia formata da Sergio Castellitto (attore e regista) e Margaret Mazzantini (scrittrice) ci ofre una commedia esilarante dove si intrecciano intelligenza, sensibilità e cultura (forse anche troppa). All’inizio i personaggi principali, esageratamente caricaturali, appaiono fastidiosi. Ma dopo un po’ si comincia a ridere e non si smette più. Il ilm è una critica cosi acuta e crudele della nostra società, opulenta (almeno per qualcuno), infelice e ossessionata dall’eterna giovinezza. Gli adulti-bambini sono incapaci di gestire sia i igli sia le colf e, in certi casi, anche i propri pazienti, come succede a Marina (splendida Laura Morante), la moglie psicoanalista di Marcello, architetto, interpretato da Sergio Castellitto. La coppia si ritiene progressista, senza pregiudizi né tabù, ed è quasi pronta ad accettare che la iglia Rosa abbia un idanzatino di colore. Ma quando i due scoprono che si tratta di un uomo bianco, anche di capelli, e che potrebbe essere il nonno della ragazza (un Enzo Jannacci seducente ed enigmatico), non ce la fanno più: scoppia tutto. Escono fuori rancori e nevrosi, in un crescendo spaventoso. Ma è solo una beneica catarsi.

miglior ilm, miglior regia, miglior sceneggiatura. The social network domina la notte dei golden globes

Media

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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo

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I consigli della redazione

In uscita LA DONNA CHE CANTA

Di Denis Villeneuve. Con Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Lubna Abazal. Canada 2009, 132’ ●●●●● Con il suo ilm precedente, Polytechnique, Denis Villeneuve era riuscito a scrollarsi di dosso tutti i tic della sua formazione cinematograica e a realizzare un’ottima pellicola, in cui aveva dato un tocco personale a una pagina oscura della storia canadese recente. Non era un ilm perfetto, ma si faceva apprezzare. Con La donna che canta Villeneuve è andato anche oltre, sia come tecnica di regia sia come profondità della storia. Neanche questa è un’opera perfetta, ma si avvicina a essere un capolavoro. Naturalmente bisogna dare il giusto credito a Wajdi Mouawad che ha scritto e diretto l’opera teatrale di cui il ilm è un adattamento. Si capisce subito, in dalle prime scene, che il regista, insieme al suo fedele direttore della fotograia, è particolarmente ispirato. Fanno storcere un po’ il naso quelli che in principio sembrano i due protagonisti del ilm. Jeanne e Simon, due gemelli che, per rispettare le ultime volontà della madre, vanno in Libano, in cerca del padre mai conosciuto e di un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Molto presto però si capisce che i due fratelli non sono i protagonisti ed è il personaggio della loro madre (Lubna

La donna che canta

LA VERSIONE DI BARNEY

Di Richard J. Lewis (Stati Uniti, 132’)

Abazal) a emergere su tutti gli altri, attraverso dei lashback sulla guerra civile libanese. C’è una qualità quasi tarantiniana nella sceneggiatura non lineare che svela lentamente tutta la storia. La donna che canta può essere descritto come una tragedia greca che in più ha le ambientazioni di un ilm di guerra. Kevin N. Laforest, Montreal Film Journal ANIMALS UNITED

Di Holger Tappe, Reinhard Klooss. Germania 2010, 93’ ●●● ●● Animals united è un ilm che in un giorno di festa si può ragionevolmente proporre a dei bambini: realizzato in Germania, con tematiche ecologiste e un’animazione in 3d che mette insieme alcuni degli animali più teneri del pianeta impegnati a difendersi e a contrattaccare le creature più peride del pianeta: gli uomini. Rimane più o meno un mistero il fatto che animali provenienti da tutti e cinque i continenti si ritrovino nel centro dell’Africa e l’umore, ino a quel momento allegro, sarà guastato dalla sparata antiumana di una tartaruga delle isole Galapagos che nella versione originale è doppiata da Vanessa Redgrave. È un ilm carino da vedere, se non fosse per dei dialoghi molto poco sensati e una trama abbastanza sconclusionata. Forse è vero che la Pixar ci ha abituati troppo bene. Andrew Pulver, The Guardian THE SHOCK LABYRINTH

Di Takashi Shimizu. Con Misako Renbutsu, Erina Minuzo. Giappone 2010, 88’ ●●● ●● Annunciato come il primo ilm giapponese in alta deinizione e in 3d, The shock labyrinth, realizzato dal regista della serie The grudge, non è poi così sconvolgente come suggerisce il titolo. È un groviglio di dettagli kitsch che non spaventa se non a tratti.

AMERICAN LIFE

IL RESPONSABILE DELLE RISORSE UMANE

Di Sam Mendes (Stati Uniti, 98’)

Di Eran Riklis (Israele, 103’)

The shock labyrinth È la storia di un gruppo di ragazzi intrappolati in un labirinto infestato da ogni genere di fenomeno da baraccone. La struttura è piuttosto audace (per non dire confusa e demenziale) e unisce elementi di Final destination con la complessità narrativa di L’anno scorso a Marienbad. Chi proprio volesse vederlo a tutti i costi potrebbe comunque aspettare l’uscita in dvd, tanto gli efetti in 3d sono assolutamente inutili. Jordan Mintzer, Variety

Ancora in sala LA VERSIONE DI BARNEY

Di Richard J. Lewis. Con Paul Giamatti, Rosamund Pike, Dustin Hofman, Minnie Driver. Canada/Italia 2010, 132’ ● ● ●● ● Barney Panofsky, il iglio di un poliziotto di Montréal, incontra la sua terza moglie durante il suo secondo matrimonio. Barney, interpretato con un’energia spiazzante e un’eleganza volgare da Paul Giamatti, si prende un’improvvisa e folgorante cotta per Miriam (Rosamund Pike) e quasi subito dimentica la sempliciotta senza nome che ha appena sposato (anche se è interpretata dalla radiosa Minnie Driver). Il motivo dell’immediata attrazione di Barney verso Miriam è abbastanza ovvio. Ci si può invece chiedere cosa lei possa trovare in lui. Oltre che appena sposato, infatti, Barney è basso, tarchiato, stempiato e ubriaco. Richard J. Lewis e Michael Konyves (rispettivamente

regista e sceneggiatore del ilm) hanno fatto i compiti a casa: nel trasformare il romanzo di Mordecai Richler in una sceneggiatura hanno conservato dettagli importanti e ne hanno aggiunti altri per giustiicare le inevitabili sempliicazioni (la Parigi degli anni cinquanta del romanzo è diventata la Roma degli anni settanta). Ma gli autori sono stati se possibile troppo rispettosi e prudenti e il ilm che è venuto fuori dal loro coscienzioso e devoto lavoro illustra alla perfezione la terribile e paradossale trappola in cui spesso cadono gli adattamenti troppo fedeli dei romanzi di successo. A.O. Scott, The New York Times KILL ME PLEASE

Di Olias Barco.Con Aurélien Recoing, Virgile Bramly, Daniel Cohen. Francia/Belgio 2009, 95’ ● ●● ●● Dopo la tiepida accoglienza riservata dalla critica al suo primo lungometraggio Snowborder (2002), il regista francese Olias Barco era in cerca di qualcosa di speciale. Si è rifugiato in Belgio, in un posto molto sicuro (la Parti Production) e si è ispirato a dei metodi che hanno portato fortuna all’ormai leggendario Il cameraman e l’assassino. Ne è venuto fuori Kill me please, farsa macabra realizzata in bianco e nero e con un budget molto più che ragionevole. L’azione si svolge nella clinica del dottor Kruger, maestosa costruzione immersa in un bosco dove ricchi pazienti, colpiti da diversi mali, pagano ior di quattrini per poter efettuare un suicidio assistito. Poi gli abitanti del villaggio vicino imbracciano i fucili e, per ragioni che rimangono piuttosto oscure, decidono di uccidere tutti i pazienti della clinica. A dispetto di un cast di prima scelta e di un argomento di una cupa attualità, il ilm siora appena le possibilità di cui dispone. Jacques Mandelbaum, Le Monde

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Cultura

Libri Dalla Russia

I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Michael Braun, del quotidiano tedesco Die Tageszeitung.

Il premio della discordia

NANDO DALLA CHIESA

La convergenza. Maia e politica nella seconda repubblica Melampo, 304 pagine, 17,50 euro ●● ● ● ● Molto si è letto, negli ultimi mesi, della trattativa tra lo stato e la maia negli anni 1992 e 1993. Ma poco o niente si è capito in merito, malgrado i iumi di inchiostro che hanno inondato i giornali. Il libro di Nando dalla Chiesa mette un po’ di ordine nell’intricata materia dei rapporti tra maia e stato. Anzi: tra maia, stato e società civile. Il grande pregio del libro è che si libera dal racconto contingente in stile giornalistico e invece analizza in profondità – e molto al di là delle presunte trattative – il contesto in cui si muovono le grandi organizzazioni criminali. Dalla Chiesa parte dal periodo degli omicidi eccellenti del 1992 (Falcone, Borsellino, ma anche Salvo Lima) e delle stragi del 1993 per sezionare poi la fase “dell’abdicazione” (governi del centrosinistra 1996-2001) e “dell’assalto” (governo Berlusconi 20012006), dimostrando come la politica abbia creato tutti i presupposti per permettere alle maie una sostanziale tenuta. Ma non si ferma lì. Negli ultimi capitoli fornisce, in un linguaggio preciso e avvincente, un quadro generale delle “convergenze”, argomentando in modo brillante la sua tesi centrale che “la forza della maia sta fuori dalla maia”. Un libro importante, di analisi acuta e di educazione civica.

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L’assegnazione del Booker russo a un romanzo “rosa” divide la critica e sottolinea un paradosso culturale Elena Koliadina con il romanzo Cvetočnij krest (La croce di iori) si è aggiudicata il Booker russo 2010, considerato uno dei tre principali premi letterari del paese. Al di là del valore del romanzo, su cui la critica è divisa, fa discutere il fatto che il premio sia una prova del divorzio tra cultura popolare e cultura d’élite. L’autrice Elena Koliadina viene dall’universo dei periodici femminili, nella sua opera non si rintraccia alcun tipo di riferimento o di allusione alla cultura letteraria russa. Al contrario, in un’intervista, Koliadina ha detto che il suo romanzo le è stato dettato

© CLAUDINE DoUry (AgENCE VU/BLoBCg)

Italieni

San Pietroburgo, Russia da un “dio” sorridente e indulgente, uscito evidentemente anche lui da un mensile di moda. Tra questo tipo di letteratura e quella dei Pelevin e dei Sorokin l’abisso sembra incolmabile. È chiaro che la letteratura di élite non si preoccupa di ac-

cordare il tono della società russa contemporanea. Forse allora è comprensibile che siano degli scribacchini a riempire il vuoto lasciato dai grandi romanzieri. Andreï Arkhanguelski, Vzgliad

Il libro Gofredo Foi

Scrivere la vita JUAN VILLORO

Il libro selvaggio Salani, 218 pagine, 13,00 euro Il messicano Villoro è noto ai lettori di Internazionale per la sua attività giornalistica, meno ai lettori italiani per le qualità di scrittore originale e rainato, radicato in una tradizione culturale che ha i suoi capisaldi in Borges e soprattutto in Cortázar, e negli europei Calvino, Queneau, Perec. E naturalmente in Bolaño, con cui Villoro ha condiviso amori e ripulse. Il libro selvaggio non copre la vastità

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della sua produzione, ma è un romanzo molto originale e che si legge d’un iato, a cavallo tra letteratura per adulti e per ragazzi. È un romanzo di esplorazione (in una biblioteca dove i libri vivono di vita propria, “patria” del bizzarro “zio” dickensiano del protagonista). Ha pochi personaggi, tutti simpatici. Ed è sicuramente il migliore dei tanti libri che propagandano l’oggetto libro perché, estraneo al discorso della merce, lo considera come qualcosa di vivo e di

autonomo, che solo se ha qualcosa da dire trova il suo destino (destinatario) oltre la merce. È un romanzo di formazione in cui sono usati in modo divertente certi meccanismi propri del romanzo che in altri autori (vedi il famigerato Dan Brown) sono meccanici e stucchevoli. Il “libro selvaggio” è il libro della vita che ti viene incontro e che devi saper decifrare, conquistare e “scrivere”, se vuoi entrare nel tuo presente dalla porta della gaia scienza. u


I consigli della redazione

FLORIANA ILIS

JOSÉ LUÍS PEIXOTO

La crociata dei bambini (Isbn)

Il cimitero dei pianoforti (Einaudi)

Il romanzo

GRAzIANO ARICI (BLACkARCHIVES)

ANDRÉ ACIMAN

Quattro giorni di marzo (Marsilio)

CLAUDIA PIÑEIRO

Proust a Manhattan Notti bianche Guanda, 466 pagine, 19,50 euro ● ●● ● ● Manhattan, Upper West Side, vigilia di Natale: a una festa chic una donna si presenta a un uomo, entrambi sono giovani. Lei, Clara, è bellissima, disinibita, spiritosa, amante dei giochi di parole. Ha una voce suadente. Il narratore, di cui non ci viene mai detto il nome, è oltremodo rilessivo, indaga ossessivamente i propri impulsi e cerca di capire e analizzare Clara. Finiranno a letto insieme? È l’inizio di una relazione? André Aciman pone queste domande all’inizio di Notti bianche, il suo ambizioso secondo romanzo, e ci tiene sospesi ino alla ine, otto notti più tardi. Nelle 326 pagine che intercorrono nel mezzo, Clara e il protagonista (che lei soprannomina Oskar) si tengono occupati in vari modi: fanno visita a vecchi amici di famiglia di lei, pranzano insieme, improvvisano un pic-nic sul tappeto di casa di Oskar o seguono una retrospettiva dedicata a Eric Rohmer. Ma in Notti bianche l’azione è quasi tutta a livello percettivo: il romanzo racconta, dall’interno della camera di risonanza della sua mente, la battaglia di Oskar per padroneggiare il rapporto con Clara. Accompagnare i lettori in un guazzabuglio di pensieri è un azzardo: cos’è che ci tiene incollati alla pagina? Non c’è sesso né carnalità. Della presenza isica di Clara ci arriva solo una vaga idea. Sappiamo che è molto bella, ma la sua personalità sembra fatta apposta per infastidire: è altezzosa, privilegiata, egocentrica, non può fare a meno di raccontare del suo ex, che era pronto a morire per lei.

JENS CHRISTIAN GRØNDAHL

André Aciman Notti bianche è soprattutto un omaggio a Marcel Proust, la sua presenza è implicita ma costante. Non solo il romanzo è impregnato dal respiro lungo del periodo proustiano, dalle complesse metafore e dal tono elegiaco (per non citare le descrizioni delle feste lunghe cento pagine), ma anche i suoi temi centrali sono proustiani: l’inconoscibilità degli altri, la distillazione dell’esperienza nella memoria, lo scarto tra fantasia e realtà, il potere compulsivo del desiderio e della sua versione più ottimista, l’anticipazione. Vista attraverso la lente proustiana, Clara è degna dell’amore di Oskar tanto poco quanto Odette lo è di quello di Swann, innamorato ino all’ossessione. È la issazione che diventa interessante. In breve, Notti bianche riesce ad avvolgere il lettore nel suo incantesimo glaciale e a far apparire la New York di oggi già in retrospettiva. Ma certo lo strato di nostalgia proustiana steso sulla New York contemporanea può sembrare manierista e artiiciale. Jennifer Egan, The New York Times

Tua Feltrinelli, 144 pagine, 10,00 euro ● ● ●● ● Inés, madre di un’adolescente, Lali, e moglie di Ernesto, scopre che il marito la tradisce quando trova un bigliettino con un cuore traitto disegnato con il rossetto e irmato: “Tua”. Sulle prime ha la tentazione di andare dal marito e sbattergli il foglietto in faccia, ma poi sceglie di ingere. Inés alza il telefono della cucina e sente una voce femminile che dice a Ernesto: “Se non vieni subito non rispondo di me”. Ernesto inventa una scusa ed esce di casa. Ma la moglie lo segue in auto ino ai laghi di Palermo, dove osserva una scena tra Ernesto e l’amante Alicia, la sua segretaria. La donna cerca di baciarlo, lui la respinge, lei insiste e alla ine Ernesto la spinge via con forza, ma Alicia sbatte la testa contro un tronco e muore. Così comincia il romanzo poliziesco della scrittrice argentina Claudia Piñeiro, e dalla prima pagina è impossibile abbandonare la lettura. Il narratore si alterna di capitolo in capitolo, tra la stessa Inés, i rapporti giudiziari e le telefonate della iglia Lali, incinta da mesi senza che i genitori se ne accorgano. Ma se Inés credeva che il triangolo amoroso si completasse con Alicia, in seguito scoprirà che si tratta di un quadrato: compare Charo, nipote della segretaria uccisa, che vuole fare giustizia. La suspense si mantiene alta, ma è un umorismo molto speciale quello che tiene avvinto il lettore. Mariano Dorr, Página 12 PHILIPPE DJIAN

Le incidenze Voland, 176 pagine, 14,00 euro ● ● ●● ● Marc è un professore di letteratura applicata, o creative writing, all’università, e dispensa i suoi consigli disillusi di scrittore mancato agli studenti. Tra questi c’è Barbara. Non è certo la prima studentessa con cui abbia

avuto una relazione: la sua vita amorosa, o meglio strettamente sessuale, consiste in una serie di avventure eimere con donne molto giovani di cui non sempre ricorda il nome. Marc tiene segrete a tutti queste relazioni, e in particolare alla sorella Marianne, come lui cinquantenne e single, con la quale convive nella grande casa isolata della loro infanzia. Ma stavolta c’è un imprevisto. Barbara, che aveva portato nel suo letto, non si sveglia: è morta, “fredda come un prosciutto, già quasi grigia”. Superato il momento di stupore, Marc si sbarazza del corpo. Prima che abbia inito, però, si presenta alla sua porta Miriam, la matrigna della ragazza, ansiosa di capire il perché e il come della sua scomparsa. Anche chi già conosce l’immenso talento di Philippe Djian sarà colpito ancora una volta dal suo virtuosismo e dall’estrema rainatezza della sua scrittura: luida, ingannevolmente casuale, in realtà perfetta per questo romanzo affascinante, spesso divertente, guidato da Djian alla sua implacabile conclusione. Incidenze è, a suo modo, un romanzo di formazione e una storia d’amore, un grande romanzo tragico e speculativo, ironico e disperato, che punta il dito contro le ferite dell’infanzia, l’incapacità di guarirne, l’impotenza assoluta e deinitiva dell’amore. Nathalie Crom, Télérama REBECCA HUNT

Il cane nero Ponte alle Grazie, 256 pagine, 16,00 euro ● ●● ●● Ambientato a Londra nei primi anni sessanta, Il cane nero racconta una surreale catena di eventi che ha inizio quando Esther Hammerhans, una vedova giovane e solitaria, decide di prendere un inquilino. Il suo annuncio riceve solo una risposta dal misterioso signor Chartwell, che si rivela essere un cane nero grande quanto un uomo. Non

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Cultura

Libri apparizione, Il campione non è solo il miglior romanzo britannico sullo sport professionistico scritto da uno sportivo vero: è anche l’unico. È ormai considerato un classico, e qualcuno ha detto che non è necessario essere amanti del rugby per apprezzare questa storia, non più di quanto l’interesse per la caccia alle balene sia vitale per amare Moby Dick. L’inquieta storia d’amore tra l’anti-eroe Machin, un “duro” insicuro, e la sua padrona di casa stanca del mondo, la signora Howard, fornisce una straziante narrazione fuori campo, ma è nei passaggi che si consumano sul campo da gioco che il lettore può entrare in risonanza profonda con le scomode verità del mondo senza gioia di Machin. Frank Keating, The Guardian

DaviD storey

Com’è piccolo il mondo Sellerio, 338 pagine, 14,00 euro ●●●●● “Quando Konrad Lang tornò indietro, tutto era in iamme tranne la legna del camino”.

martin suter

Il campione 66thand2nd, 336 pagine, 15,00 euro ● ●● ● ● A cinquant’anni dalla sua prima

Niente male come incipit di un romanzo in lingua tedesca! Quello dello svizzero Martin Suter non è solo un singolare romanzo poliziesco, è anche un romanzo sull’Alzheimer. Il sessantenne Konrad Lang è il mantenuto ben poco amato di una ricchissima famiglia di industriali svizzeri, i Koch. Ha appena dato alle iamme la villa di famiglia a Corfù, piena di oggetti antichi e preziosi. Il romanzo inirebbe ben presto se sapessimo che Konrad ha dato fuoco alla villa perché ha il morbo di Alzheimer. Ma questo si scoprirà solo molte pagine dopo, e anche allora non spiegherà nulla: il mistero è altrove, ed è ben più complesso. Il più grande punto di forza di questo romanzo non straordinario ma interessante è il suo sviluppo drammaturgico, e il modo con cui nella memoria di Konrad il passato fa irruzione nel presente. Il inale è appassionante come in un ilm di Hitchcock, ed è malgrado tutto un lieto ine. Hans-Peter Kunisch, Die Zeit

non iction Giuliano Milani

natura distruttrice

Gran bretagna SARAH LEE (EyEVINE/CONTRASTO)

un qualsiasi cane nero, è evidente, ma una personiicazione del “cane nero” di cui Winston Churchill parlava per descrivere la sua depressione. L’idea di partenza – quella di un’oscura condizione psicologica incarnata in un essere vivente – è potente. Oltre all’ipotesi afascinante di poter dialogare con una malattia mentale, uno stato d’animo, un umore cupo, l’invenzione narrativa di Rebecca Hunt solleva un altro interrogativo bizzarro: che cosa potrebbe pensare e sentire questo essere immaginario, una volta separato dal suo istinto di distruggere la persona a cui si attacca? Purtroppo la questione è appena siorata nel romanzo. E il personaggio è trattato in modo deludente e convenzionale. In breve, è una grande occasione mancata. Mary Fitzgerald, The Guardian

juLian barnes

Pulse Jonathan Cape Raccolta di racconti collegati da ritmi e correnti: del corpo, dell’amore e del sesso, della morte e della malattia, della conversazione. Le prime nove sono storie d’amore e di diicoltà nel comunicare, le ultime cinque riguardano i nostri sensi, il curioso apparato che abbiamo per avvicinarci agli altri. tessa haDLey

The London train Jonathan Cape Lo scrittore Paul vive in Galles con la moglie e due igli. Quando la iglia di un precedente matrimonio scompare a Londra, Paul va a cercarla e la trova in una casa caotica al centro della città. La vita fragile e trasgressiva della iglia e la grande città esercitano su di lui un fascino inaspettato. Cora fugge da un matrimonio diicile. Due storie collegate da un treno per Londra e non solo. pauL baiLey

W.G. sebaLD

Gli anelli di Saturno Adelphi, 307 pagine, 20 euro Viaggiando nel Sufolk verso la metà degli anni novanta, lo scrittore Winfried Georg Maximilian Sebald registrava con penna e macchina fotograica quello che vedeva e gli tornava in mente durante quel cammino. Tornato a casa riprese gli appunti e li approfondì con ricerche e studi. Come e più di altri resoconti, quello di Sebald non serve tanto a capire il viaggio quanto il viaggiatore.

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Di lui emerge la spiazzante capacità di trovare sempre nuove vicende utili a dimostrare che la storia è una lunga serie di distruzioni. Con l’esattezza di uno studioso di epidemie, Sebald affastella una dopo l’altra grandi e piccole catastroi. La ricerca relativa a un teschio conservato nel museo dell’ospedale in cui si trova a essere ricoverato lo porta a rilettere sulla dissezione di cadavere raigurata in un celebre quadro di Rembrandt. Un documentario visto alla televisione lo porta a

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raccontare dei massacri compiuti dai belgi nell’esplorazione del Congo. La visita a un villaggio di pescatori gli consente di raccontare la bizzarra evoluzione delle aringhe nell’inquinato mare del Nord, e così via. La lettura di questo “pellegrinaggio in Inghilterra” mostra come lo stesso discorso sull’ineluttabilità dello sfacelo che di lì a pochi anni avrebbe trovato spazio nel romanzo Austerlitz poteva esprimersi anche senza alcun ricorso alla inzione. u

Chapman’s odyssey Bloomsbury Harry Chapman, un anziano scrittore, è in ospedale ammalato. Forse a causa di qualche droga che gli somministrano, le sue notti sono allietate o rese inquiete dalle voci delle persone che hanno popolato la sua vita reale e immaginaria. juDith fLanDers

The invention of murder HarperPress Chi meglio di un inglese potrebbe indagare sul fascino che l’assassinio esercita in noi? Flanders esamina i più famosi delitti dell’ottocento in Inghilterra. Maria Sepa


Ricevuti THOMAS SOTINEL

Pedro Almodóvar Cahiers du Cinéma, 104 pagine, 7,95 euro Conoscere meglio le opere e la vita di Pedro Almodóvar attraverso la ilmograia, i fotogrammi dei suoi ilm, le foto sul set. ALEXANDER LANGER

Il viaggiatore leggero Sellerio, 332 pagine, 12,00 euro Ampia raccolta di scritti che cominciano dal primo impegno religioso e civile dell’adolescente Langer. Articoli per giornali e riviste, testi di interviste e colloqui, ritratti di persone e resoconti di viaggi, incontri e amicizie.

Fumetti

Nella palude

A CURA DI ISABELLA PERETTI JOE SACCO

Gaza 1956 Mondadori, 432 pagine, 20,00 euro Come annunciato, anche questa settimana torniamo sull’imponente opera di Sacco che cerca di capire cosa sia davvero accaduto durante la crisi di Suez con le due gravi stragi nella Striscia di Gaza. La struttura narrativa, il lavoro graico, i dialoghi, lo stile asciutto apparentemente freddo, denotano un approccio concettuale, favorito dall’inedito incrocio tra graphic novel storica e inchiesta-reportage a fumetti. Le quasi quattrocento tavole sono fondamentalmente un continuo ritorno su due date, il 10 e il 12 novembre del 1956, sorta di no man’s land temporale, e su due luoghi: le città di Khan Younis e Rafah. Nella Rafah di oggi la centrale e rumorosissima Sea Street, che dà alla città le sembianze della vita normale, è illusoriamente rasserenante.

In realtà è lo spartiacque tra il resto del mondo e un eterno presente, una no man’s land spaziale. Superato quello spartiacque ci si inoltra in stradine anonime, in una città-dedalo che di notte, privata delle luci di una normale metropoli, diviene tombale. Il sentimento pervasivo di un assurdo claustrofobico, kakiano, s’impadronisce allora del lettore. Tutto questo converge in una macroallegoria della palude nel quale un intero popolo è inghiottito da sessant’anni. Le due no man’s land s’intersecano di continuo in un corpo a corpo, il 1956 con il 2002-2003, periodo in cui Sacco ha visitato quei luoghi. L’autore come sempre getta generosamente nella lotta il suo corpo-cartoon. Perché nel fumetto, contrariamente al cinema dal vero e alla fotograia, il realismo è solo apparenza. Francesco Boille

Schengenland Ediesse, 372 pagine, 18,00 euro Le politiche relative all’immigrazione in alcuni stati europei nel quadro più generale delle politiche dell’Unione europea. ALESSANDRA DINO

Gli ultimi padrini Laterza, 347 pagine, 19,00 euro Dino descrive una maia che cerca rapporti sempre più stretti con il mondo della politica e dell’economia e produce essa stessa nuovi modelli organizzativi e nuovi stili di comando, tratteggia i proili dei protagonisti e stila un’inedita biograia del prossimo, e spietato, probabile leader.

più di sessant’anni. Ma com’è nata la fotograia simbolo dell’olocausto? È ancora in grado di parlarci o la guardiamo senza più vederla? EVA CANTARELLA E PAOLO RICCA

Non commettere adulterio Il Mulino, 159 pagine, 12,00 euro La storia di un comandamento che induce a rilettere sulla fragilità dei rapporti di coppia e sul valore della fedeltà nel mondo contemporaneo. SHELDON WOLIN

Democrazia s.p.a. Fazi, 491 pagine, 24,00 euro “Il sistema politico americano non è nato democratico, semmai ha avuto sin dall’inizio inclinazioni antidemocratiche”, scrive Sheldon Wolin procedendo a una radiograia del potere negli Stati Uniti. HENRY MORGENTHAU

Diario 1913-1916 Guerini e associati, 356 pagine, 28,00 euro Le memorie dell’ambasciatore statunitense a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli armeni. AMOREENA WINKLER

I bambini di dio Fandango, 247 pagine, 17,50 euro La storia di Amoreena Winkler costretta a vivere nella setta apocalittica dei Bambini di dio ino a diciassette anni.

FREDERIC ROUSSEAU

MASSIMO DEL BARBA E ALFREDO FAIETA

Il bambino di Varsavia. Storia di una fotograia Laterza, 201 pagine, 18,00 euro La fotograia del ghetto di Varsavia è diventata un’icona della Shoah, un oggetto nomade che erra nel campo della memoria occidentale da

Grandi evasori Editori Riuniti, 205 pagine, 11,90 euro Un elenco minuzioso, dettagliato e feroce dei grandi evasori italiani: dalle fortune depositate in Svizzera alle residenze ittizie nel Principato di Monaco.

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Cultura

Musica Dall’Australia

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR

Irruzione elettropop

Bologna, 26 gennaio, estragon.it; Trezzo d’Adda (Mi), 27 gennaio, liveclub.it ANJA SCHNEIDER

Roma, 27 gennaio, Goa club STEVE LEHMAN

Prato, 23 gennaio, metastasio.net PAOLO FRESU

Torino, 22 gennaio, conservatoriotorino.eu; Roma, 24 gennaio, auditorium.com; Fermo (Ap), 28 gennaio, teatro.fermo.net SELTON

Torino, 28 gennaio, spazio211.com ZAP MAMA

Bologna, 23 gennaio, auditoriumanzoni.it RUDE MOOD

Milano, 22 gennaio, nidaba.it

I Cut Copy stanno per pubblicare il terzo album. Un lavoro che si allontana da quelli precedenti Manca poco alla pubblicazione del terzo album dei Cut Copy, Zonoscope, e l’aspettativa è alta. In molti scommettono che per il gruppo elettropop di Melbourne questo disco sarà quello della consacrazione deinitiva. Se i Cut Copy sono riusciti a guadagnarsi il rispetto di una buona fetta di pubblico e degli altri artisti del genere, è per la loro capacità di fare la mossa giusta al momento giusto e per l’indiscutibile talento artistico. Bright neon love, l’album di

kRISTy UMBACk (CoRBIS)

Dal vivo

Cut Copy

debutto, nel 2004 è riuscito a farsi largo nel bel mezzo del revival anni ottanta nonostante, come dice il bassista e chitarrista del gruppo Tim Hoey, “nessuno sapesse davvero suonare uno strumento. Sapevamo solo fare un po’ di scena”. Il lavoro successivo, In ghost colours, gli ha dato la

consistenza e la rilevanza di cui godono oggi, mettendoli alla guida di una nuova corrente musicale australiana di cui fanno parte anche Midnight Juggernauts ed Empire of the Sun. In ghost colours era un eccezionale amalgama di chitarre shoegaze e sintetizzatori che ricoprivano una collezione magica di canzoni pop. Uno stile che la band ha deciso di non emulare in Zonoscope: “Prima di entrare in studio già sapevamo che avremmo cercato di re-immaginare il nostro suono. Distruggere tutto e ricostruire da un altro punto di vista”. Eloi Vázquez, El País

Playlist Pier Andrea Canei

Londra per donne

KAMAFEI

Roma, 21 gennaio, locandatlantide.it; Bologna, 22 gennaio, estragon.it VERDENA

Roma, 26-27 gennaio, circoloartisti.it

Zap Mama

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1

Kinzli & the Kilowatts I read your letter Bello imbattersi in un capolavoro ruspante. Una musica che sa di legni afumicati e montagne rocciose e acqua sorgiva; un country celeste con spezie asiatiche e balcaniche, violini, pianoforti e chitarre e una voce che sa lottare per la pace. È tutto da ascoltare Down up down, e poco importa che lei sia un’orfana coreana tubercolotica, una maestrina di matematica in Colorado, o che la sua musica nata in salotto e trapiantata a Londra parli di sparatorie tra gang, e oppressioni in Birmania e Corea del Nord. Un mondo diicile, e un ascolto che riconcilia.

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Lilies on Mars Aquarium’s key Non c’è penuria di donne che amano la musica sognante, a Londra. Ci sono anche Lisa e Marina, due italiane in esilio che insieme a Matthew Parker ondeggiano in una dimensione parallela, sott’acqua ma anche nello spazio profondo, tra un Octopus’s garden beatlesiano e la Underwater love degli Smoke City. Come due sirene dalla dizione esotica, pervase di spirito faida-te e ancorate ai fondali del rock da una chitarra che si fa rispettare, attendono di essere captate dai sonar della scena shoegaze/alternativa con l’album Wish you were a pony.

3

Anna Calvi Jezebel Non c’è penuria di drama queen che imbracciano chitarre, a Londra. Viene da tifare per la londinese di padre italico che sta meravigliando in tanti. Attorno alla sua musica in cavernoso cinemascope già brilla l’aura luminosa del successo. La sua personalità fatta di vocione drammatico e Telecaster e spazzole nella notte e tendaggi in velluto blu Lynch è coinvolgente; e tirare in ballo l’irreprensibile rabbioso lamenco da diavolessa di Edith Piaf e restituirlo con tale grinta spaghetti western è di per sé un gesto su cui costruirsi una fama da neo-Mina molto pulp.


Scelti da Marco Boccitto

Rock The DecembeRisTs

The king is dead (Rough Trade) ●●●●● Il nuovo album dei Decembe­ rists è ricco di armonie folk, melodie abbaglianti e atmosfe­ re seducenti. Il leader Colin Meloy ha scritto le canzoni nel­ la sua nuova casa di campagna, a nord di Portland. E probabil­ mente l’ambiente ha inluenza­ to la composizione: i brani se­ guono i modelli tradizionali e sono di una semplicità che sio­ ra il naif. Non ci sono più quelle minisinfonie dei dischi prece­ denti, ma la musica popolare americana. In Januar hymn, per esempio, Meloy suona in un modo disperato e malinconico che ricorda il primo Bob Dylan. In Down by the water, invece, i Decemberists si accostano a un’altra grande icona statuni­ tense: Bruce Springsteen. E a proposito di istituzioni della musica americana, ospite d’ec­ cezione nel disco è Peter Buck, dei Rem. Thomas Winkler, Frankfurter Rundschau

boubacaR TRaoRé

Tango negRo TRio

cRavo & canela

Mali Denhou (Lusafrica)

No me rompas las bolas (Felmay)

Preço de cada um (Mr. Bongo)

frendo un poderoso mix di hit degli inizi, cover rhythm ’n’ blues e brani della miniopera A quick one. Già ristampato qualche anno fa con la parte centrale del concerto esclusa dalla prima edizione, le canzoni dell’album Tommy, oggi il disco è riproposto con l’aggiunta del concerto di Hull, il giorno se­ guente allo show di Leeds, allo­ ra considerato di migliore qua­ lità. In realtà le diferenze sono minime, anche se nel concerto di Hull il basso di John Entwist­ le, assente nei primi quattro brani, è stato sovrainciso usan­ do le registrazioni di Leeds. Pat Gilbert, Q The sanD banD

Live at Leeds: super deluxe edition (Universal) ●●●●● I primi album degli Who, tutti incisi in studio, non riuscivano a catturare la maestosa e vir­ tuosistica potenza della band dal vivo. Registrato nel febbraio del 1970, Live at Leeds ha elimi­ nato questo piccolo difetto, of­

All through the night (Deltasonic) ●●●●● Il cantante e chitarrista della Sand Band farà parte del nuovo gruppo di Noel Gallagher. Ma non pensate male: in questa oc­ casione il più anziano dei fratel­ li Gallagher ha dimostrato di avere buon gusto. L’album d’esordio del quintetto di Liver­ pool è ottima. Le inluenze arri­ vano da entrambi i versanti dei monti Pennini: ci sono brani che ricordano i suoni tristi di Michael Head, leader degli Shack di Liverpool, e riferimen­ ti alle luccicanti ballate di Ri­ chard Hawley da Sheield. Ma McConnell è più malinconico di entrambi: cosa che rende questo album il perfetto accom­ pagnamento per una birra be­ vuta con calma e senza fretta. Gareth Grundy, The Observer

The Who

Dye it blonde (Fat Possum) ●●●●● Appena un anno fa, questo quartetto di Chicago aderiva a un credo rigorosamente lo­i e produceva un garage rock spor­ co ma con chiari riferimenti ai Beatles e Marc Bolan. Dopo es­

The who

TERRy O’NEILL (GETTy)

smiTh wesTeRns

MySPACE

Resto del mondo

The Decemberists sersi conquistati un posto alla Fat Possum, però, si sono ritro­ vati a disposizione un budget molto superiore, e su Dye it blonde la diferenza si sente tut­ ta. I meriti non sono tutti della sapiente produzione: in dagli esordi la loro sensibilità per le melodie era evidente. Il front­ man Cullen Omori ha dichiara­ to di ispirarsi ai numi del brit­ pop come Oasis, Teenage Fan­ club e Suede, chiaramente rico­ noscibili a livello sia sonoro sia spirituale. Se prima erano con­ vincenti, oggi si possono consi­ derare degli esperti. David Bevan, Pitchforkmedia

Jazz paul bley

Annette (Hatology) ●●●●● Questo è uno dei due dischi che Paul Bley ha dedicato nel 1992 alle sue ex mogli (e grandi ispi­ ratrici) Carla Bley e Annette Peacock. Il set dedicato a Carla era un disco per pianoforte so­ lo, un lavoro più esplicitamente jazz. Il disco dedicato ad Annet­ te, invece, rilette la particolare visione del suo mondo. Annette ha abbracciato il buddismo zen, seguiva la psichedelia degli an­ ni sessanta e ha collaborato con artisti come Albert Ayler, Salva­ dor Dalí e David Bowie. Paul Bley è accompagnato dal trom­ bettista austriaco Franz Kogl­ mann e dal contrabbassista Ga­ ry Peacock, primo marito di An­ nette. La meravigliosa Touching apre e chiude il disco. La trom­

ba di Koglmann introduce gli accordi sognanti del pianoforte su Cartoon e accompagna la complessità dell’afascinante Albert’s love theme. I legami di Peacock con la musica pop, co­ munque, non dovrebbero in­ gannare: la musica di questo di­ sco è sostanzialmente ottimo jazz acustico. John Fordham, The Guardian

classica pieRRe-lauRenT aimaRD

Ravel: concerti per piano, Miroirs Pierre-Laurent Aimard, piano; Cleveland Orchestra, direttore: Pierre Boulez (Dg) ● ●● ●● Pierre Boulez aveva laboriosa­ mente registrato questi due concerti con Krystian Zimer­ man. Ora, quindici anni dopo, ci torna con Pierre­Laurent Ai­ mard. L’ex solista dell’Ensem­ ble Intercontemporain ha mol­ to maturato la sua interpreta­ zione. Meno ossessionato dalla perfezione plastica del suono del pianista polacco, Aimard si unisce al direttore nel mettere al centro la rainatezza analiti­ ca. “La genesi di questi due concerti”, spiega Aimard, “li rende una specie di Giano bi­ fronte nella deinizione dell’ar­ te di Ravel. Sono l’archetipo dell’oscillazione dei giochi in­ fantili verso la serietà assoluta”. Queste sono letture agli antipo­ di di quelle piacevoli o allucina­ te di Samson François: niente colori pastorali né inlessioni sensuali o demoniache. La no­ stra ammirazione per gli artisti viene dalla leggibilità, il con­ trollo del dettaglio e l’equili­ brio. E il concerto per la mano sinistra diventa un bolero tragi­ co sapientemente graduato, con il pianista che è una voce solitaria e riiuta malgrado tutto la disperazione. Un messaggio dalle risonanze molto attuali. François Laurent, Diapason

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Cultura

video in rete toyota City

MAGNOlIA PIcTUrES)

le vie della prostituzione

Lunedì 24 gennaio, ore 21.10 Current Inchiesta sul mercato del sesso in Gran Bretagna. I recenti omicidi di alcune prostitute a Ipswich e Bradford ne hanno riportato d’attualità la possibile legalizzazione, per proteggere le donne dai criminali. noir su blanC

Martedì 25 gennaio, ore 21.10 Arte Il giornalista Günter Wallraf è celebre in Germania per le sue inchieste in incognito. Per questo suo ultimo reportage ha assunto, con un perfetto trucco, l’identità di un immigrato somalo, per raccontare le diicoltà di un extracomunitario. vaCanza dall’oloCausto

Mercoledì 26 gennaio, ore 21.00 History Channel Per la Giornata della memoria il racconto di come migliaia di ebrei vissero una pausa di pace dalle persecuzioni naziste: tra marzo e settembre1943, 1.200 persone trovarono rifugio a Saint-Martin-Vésubie, un villaggio delle Alpi Marittime, protetti dalle truppe italiane. into eternty

Giovedì 27 gennaio, ore 0.30, Arte Nella sperduta località inlandese di Onkalo si sta costruendo il primo deposito di scorie nucleari di nuova concezione: cinque chilometri di gallerie a 500 metri sottoterra, pensati per resistere 100mila anni. Uno straordinario documentario di Michael Madsen. porrajmos

Venerdì 28 gennaio, ore 0.40, RaiTre Santino Spinelli, rom abruzzese, è un poeta, un insegnante e soprattutto un musicista. Un documentario sulla sua attività, dalla sala di registrazione alle lezioni universitarie, e sul rapporto con la sua numerosa famiglia e l’anziano padre.

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dvd storia di arance Il documentarista Eyal Sivan (Uno specialista) è una delle voci più critiche della cultura israeliana. Da sempre impegnato tanto nell’analisi della Shoa come in quella della situazione palestinese, in Jafa ricostruisce la storia commerciale e iconograica delle celebri arance prodotte in Israele: da simbolo del Medio Oriente

esotico e arabeggiante a marchio simbolo dell’industria alimentare israeliana sostenuta dal governo. Foto, pubblicità, ilmati d’archivio, interviste a storici ed esperti ricostruiscono la mitologia di un frutto, che diventa quella di una terra. Il dvd esce in Francia con sottotitoli anche in italiano. trabelsiproductions.com

france5.fr In tema di scelte sul futuro dell’industria automobilistica, ino a poco tempo fa si sarebbe evocato il modello industriale della giapponese Toyota, sistema di produzione dall’eicacia considerata ideale, al punto di dare vita a un’utopica città-fabbrica (l’ex villaggio di Koromo) in cui l’azienda gestisce direttamente vita e lavoro dei salariati. Nel 2008 Toyota diventa il primo costruttore di automobili del mondo. Solo qualche mese più tardi la crisi causa il crollo delle vendite, poi a inizio 2010 la notizia del ritiro di milioni di vetture dal mercato statunitense, per difetti di fabbricazione, è il colpo di grazia al prestigio del marchio e ai bilanci. Un reportage multimediale di France 5 sul declino dell’epopea Toyota e della città che l’ha rappresentata.

Fotograia Christian Caujolle

il più amato dai francesi Quest’anno, al contrario di quanto è successo in passato, i socialisti francesi si sono raccolti in massa intorno alla tomba di François Mitterrand. E Paris Match, a sorpresa, dedica una copertina all’ex presidente, a venticinque anni dalla sua morte. “Diciotto pagine di ricordi” condite, come è d’obbligo, dal “racconto delle persone più intime”, che permettono di svelare “i segreti della sua ultima battaglia”. In copertina Mitterrand compare con una giacca sportiva di gu-

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sto impeccabile, una camicia rosa pallido e il collo coperto, durante l’ultima vacanza nel suo amatissimo Egitto. Nel servizio fotograico all’interno, il politico più amato dai francesi è presentato con un buon dosaggio di immagini di serena vita familiare e di scatti rubati al presidente malato, in in di vita. E poi le esequie, con in prima ila quella Mazarine, la iglia segreta del presidente, di cui per primo Paris Match rivelò il volto ai francesi. Ma il settimanale si astiene dal ri-

pubblicare o anche solo evocare la foto del presidente nel suo letto di morte (immagine per altro forte e interessante: anche Victor Hugo e Marcel Proust furono ritratti sul letto di morte). All’epoca la foto creò uno scontro tra Paris Match e gli intimi del presidente che oggi contribuiscono al servizio. È un po’ come se oggi Mitterrand, che sognava di diventare scrittore, non sia più considerato un uomo politico, ma semplicemente un personaggio pubblico. u


Cultura

Arte ARTE DELLA CRESCITA

Rehab l’art de refaire, Parigi, ino al 20 febbraio, fondation.edf.com La decrescita ha i suoi adepti, i suoi avversari, le sue dimostrazioni. In questa mostra niente si perde, niente si crea, tutto si trasforma: una ventina di artisti hanno scelto come materia prima i riiuti e come strumento il riciclaggio. Cartoni usati, lamiere, libri vecchi, pezzi di legno. Anche la graica, sublime, dei cartelli informativi, è ispirata a caratteri tipograici dimenticati. Una palma monumentale apre l’esposizione: è fatta di pneumatici carbonizzati. Le Monde COPYRIGHT SUI PALLONCINI

LO STUDIO DEMOLITO

Senza preavviso. L’atelier di Ai Weiwei a Shanghai è stato demolito dalle autorità. L’artista, militante molto impegnato nella lotta per i diritti umani, ha dichiarato all’Afp: “Non pensavo che sarebbe successo così velocemente, sebbene sapessi che volevano demolirlo. Non avrei mai creduto che potessero demolirlo subito dopo il capodanno cinese”. Libération

CAL KOWAL (ESTATE OF NAM JUNE PAIK) (2)

Jef Koons, che spaziando dalle cartoline alla pornograia si è appropriato della cultura popolare in dagli anni ottanta quando lavorava in un negozio di giocattoli, vorrebbe rivendicare il copyright su tutte le rappresentazioni di cani fatti con palloncini. Posto che si voglia dar credito a questa voce, è divertente l’idea di un artista che divora le immagini della realtà e pretende di esserne l’unico proprietario. Forse Koons è sinceramente stufo di vedere la sua inluenza in tanti giocattoli, souvenir e oggetti di design senza il minimo riconoscimento. Oggi il mondo è pieno di oggetti consapevolmente kitsch riconducibili al suo stile. Chissà se Toy story lo rattrista. The Guardian

Liverpool

Immagini distorte NAM JUNE PAIK

Tate e Fact, Liverpool, ino al 13 marzo, tate.org.uk/Liverpool e fact.co.uk Negli Stati Uniti è riverito come il padre della video arte e questa retrospettiva in due capitoli (alla Tate Liverpool e al Fact), lo indica, a ragione, come santo patrono della generazione YouTube. Nato a Seoul nel 1932, Paik ha mosso i primi passi da compositore al ianco di John Cage, per riciclarsi subito come artista. Nel 1963 per la sua prima personale espone pianoforti che si collegano con apparecchi radiofonici invece di produrre note, pile di monitor come scul-

ture, dove scorrono immagini elettroniche distorte. Lo schermo di Zen for tv si rompe casualmente durante il tragitto verso la galleria. Il caso, fondamentale nella ilosoia zen, determina l’opera che, da quel momento, trasmette un’unica linea orizzontale. Nel 1967, a New York, Nam June Paik convince la concertista Charlotte Moorman a eseguire un concerto per violoncello nuda, da quel momento la famosa concertista sarà ribattezzata streap cellist. Dopo essere stati arrestati per atti osceni, Paik e Moorman decidono di nascondere le nudità dietro minuscoli schermi. Il

monitor diventa, così, il marchio di fabbrica di Nam June Paik e la telecomunicazione è l’arena estetica dalla quale diffondere e sperimentare nuove forme d’arte. La comunicazione di massa è “molto più eicace del pennello di un artista in un’epoca come questa”, commenta Paik, che continuerà a giocare con la tecnologia ino al 2006, anno della sua morte. Purtroppo l’allestimento della mostra sacriica la potenza delle prime performance, sostituite dal bianco e nero dell’abbondante documentazione fotograica. The Telegraph

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Pop Parole Tony Judt

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TONY JUDT

è morto il 6 agosto 2010. Era uno storico britannico. Questo articolo fa parte di una serie di note autobiograiche scritte per la New York Review of Books nei mesi scorsi. Sono pubblicate in Italia da Internazionale.

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ono cresciuto a suon di parole. Rotolavano mate inlessioni dell’inglese uiciale: leggendoli, non giù dal tavolo di cucina sul pavimento dove mi era mai venuto in mente che per ribellarsi bisogna ero seduto: tra nonno, zii e profughi volava­ sbarazzarsi della buona forma. no russo, polacco, yiddish, francese e quel­ Quando arrivai al college, le parole erano la mia spe­ lo che passava per inglese, in una raica di cialità. Come osservava maliziosamente un mio pro­ domande e risposte. Pomposi relitti del fessore, avevo la stofa del “ine oratore”, che univa (o partito socialista inglese dell’epoca edoardiana passa­ almeno a me piaceva pensarlo) la sicurezza ereditata da vano il loro tempo nella nostra cucina, un ambiente esclusivo all’acume critico perorando la vera causa. Passavo lunghe Oggi si preferisce dell’outsider. I tutor di Oxford e Cam­ ore felici ad ascoltare autodidatti dell’Eu­ l’espressione bridge premiano la facilità di espressione ropa centrale che discutevano ino a not­ naturale all’artiicio. verbale: l’approccio neosocratico (“per­ te fonda di marxismo, sionismo, sociali­ Ingenuamente, ché hai scritto questo?”, “cosa intende­ smo. Parlare, mi sembrava, era lo scopo siamo convinti che vi?”) invita il singolo studente a difon­ dell’età adulta. Un’impressione che non sia in grado di dersi in spiegazioni, penalizzando impli­ ho mai perso. citamente l’universitario timido e riles­ comunicare più A mia volta, per ritagliarmi uno spa­ sivo che a un seminario preferirebbe riti­ eicacemente la zio, parlavo anch’io. Il mio pezzo forte rarsi nell’ultima ila. La mia egocentrica verità, oltre che la era ricordare parole, pronunciarle e tra­ iducia nell’abilità linguistica ne usciva bellezza durle. “Diventerà un avvocato!”, diceva­ raforzata: non era solo un segno di intel­ no. “Incanterà anche i sassi!”: cosa che ligenza, ma intelligenza in sé. per un po’ tentai inutilmente di fare al parco, prima di Mi sono mai reso conto di quanto fosse importante cimentarmi altrettanto inutilmente con le ragazze, ne­ il silenzio del docente, in quel contesto pedagogico? Il gli anni dell’adolescenza. Ma a quel punto ero già pas­ silenzio è certamente qualcosa di cui non sono mai sta­ sato dall’intensità degli scambi poliglotti alla più rai­ to capace, né come studente né come professore. Alcu­ nata eleganza dell’inglese della Bbc. ni dei colleghi più brillanti che ho avuto nel corso degli Gli anni cinquanta, quando frequentavo le elemen­ anni erano così chiusi in se stessi da siorare l’afasia nei tari, erano un’epoca di grande rigore nell’insegnamen­ dibattiti e perino nelle conversazioni: prima di prende­ to e nell’uso della lingua inglese. Imparavamo che non re posizione rilettevano con calma. Ho sempre invidia­ era ammessa la minima trasgressione sintattica. Il to la loro misura. “buon” inglese era al suo apice. Grazie ai notiziari della Di solito, l’abilità linguistica è considerata una dote Bbc e ai cinegiornali, la lingua parlata seguiva regole aggressiva. Ma per me ha avuto una funzione essenzial­ accettate a livello nazionale: l’autorità della classe e mente difensiva: la lessibilità retorica consente di si­ della regione determinava non solo il modo in cui si di­ mulare una certa vicinanza, di comunicare una prossi­ cevano le cose, ma il tipo di cose che si potevano dire. mità mantenendo le distanze. È quello che fanno gli Gli accenti abbondavano (compreso il mio), ma erano attori. Ma il mondo non è un palcoscenico, e c’è qualco­ classiicati secondo un criterio di rispettabilità: di solito sa di artiicioso in questo esercizio: lo vediamo nell’at­ in funzione della posizione sociale e della distanza geo­ tuale presidente degli Stati Uniti. Anch’io ho usato il graica da Londra. linguaggio per sottrarmi all’intimità, cosa che forse Ero afascinato dal fulgore della prosa inglese nel spiega il mio debole per i protestanti e i nativi america­ suo evanescente apogeo. Era l’epoca dell’alfabetizza­ ni, due culture riservate. zione di massa, di cui Richard Hoggart avrebbe antici­ Quando c’è di mezzo il linguaggio, naturalmente, pato il declino nel suo saggio elegiaco The uses of litera- gli esterni iniscono spesso per ingannarsi. Ricordo che cy, del 1957. Nella cultura si andava afermando una una volta un dirigente americano della società di con­ letteratura di protesta e ribellione: da Jim il fortunato a sulenze McKinsey mi raccontò di avere avuto grosse Ricorda con rabbia, passando per i drammi familiari diicoltà a scegliere i giovani associati all’epoca delle della ine del decennio, si mettevano in discussione i prime assunzioni in Inghilterra: avevano tutti una conini di classe di una rispettabilità sofocante e di un splendida padronanza della lingua, le loro analisi sem­ linguaggio “appropriato”. Eppure, gli stessi barbari che bravano uscire da sole dalla penna. Come si faceva a attaccavano la tradizione facevano ricorso alle consu­ capire chi era intelligente e chi solo forbito?

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STEFANO RICCI

Le parole possono ingannare, capricciose e inaidabili come sono. Ricordo di essere rimasto stregato dalla favola storica dell’Unione Sovietica narrata dal vecchio trotskista Isaac Deutscher in una serie di lezioni a Cambridge (pubblicate con il titolo The uninished revolution: Russia 1917–1967). La forma trascendeva così elegantemente il contenuto che accettammo quella versione sulla iducia: ci mettemmo un bel po’ a disintossicarci. La pura e semplice abilità retorica, anche la più brillante, non richiede originalità o profondità di pensiero. Al tempo stesso, la sciatteria linguistica suggerisce certamente un limite intellettuale. Questa idea suonerà strana a una generazione che è elogiata per quello che cerca di dire, anziché per quello che dice. L’accuratezza

linguistica stessa, negli anni settanta, era diventata oggetto di sospetto: il riiuto della “forma” aveva favorito un’approvazione acritica della semplice “espressione di sé”, soprattutto a scuola. Ma una cosa è incoraggiare gli studenti a esprimere liberamente le loro opinioni, stando attenti a non schiacciarle sotto il peso di un’autorità frettolosa. Tutt’altra cosa è che gli insegnanti rifuggano dalla critica formale sperando che la libertà accordata favorisca il pensiero indipendente: “Quel che conta sono le idee, non preoccupatevi di come le dite”. A una quarantina d’anni di distanza, non ci sono più molti insegnanti dotati dell’autostima (o della preparazione) necessaria per stroncare un’espressione infelice Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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stEfAnO rIccI

Pop

Storie vere Un uomo di colorado springs, negli stati Uniti, è stato ricoverato per ustioni di secondo grado al volto. secondo quello che ha riferito al pompiere che l’ha soccorso, l’uomo stava pulendo la sua stufa a gas con un detergente chimico quando dall’apparecchio è uscita “una grande palla di fuoco” che gli ha investito la testa. La vittima non ha precisato al soccorritore che, mentre faceva le pulizie, aveva lasciato la stufa accesa.

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e spiegare chiaramente perché ostacola una rilessione intelligente. La rivoluzione della mia generazione ha svolto un ruolo decisivo in questo senso: mai sottovalutare la priorità accordata all’autonomia dell’individuo in ogni sfera della vita. Ben presto, l’imperativo “fa’ le cose a modo tuo” ha assunto una forma proteica. Oggi, nel linguaggio come nell’arte, si preferisce l’espressione “naturale” all’artiicio: ingenuamente, siamo convinti che sia in grado di comunicare più eicacemente la verità, oltre che la bellezza. Alexander Pope la pensava diversamente. Per secoli, nella tradizione occidentale, il modo in cui si esprimeva una posizione riletteva la credibilità degli argomenti. Gli stili retorici potevano variare dallo spartano al barocco, ma lo stile in sé non è mai stato una questione irrilevante. E “stile” non era solo una frase formulata bene: una scarsa capacità espressiva mascherava una scarsa profondità di pensiero. Parole confuse indicavano nel migliore dei casi idee confuse, nel peggiore dissimulazione. La “professionalizzazione” della scrittura accademica – e il gofo aggrapparsi degli umanisti alla sicurezza della “teoria” e della “metodologia” – favorisce l’oscurantismo. Questo ha incoraggiato l’emergere di una lingua contrafatta che si esprime in un eloquio disinvolto e “popolare”. In campo storico, ne sono un esempio gli “intellettuali televisivi”, la cui prerogativa sta nella capacità di attrarre un pubblico di massa in un’epoca in cui i loro colleghi accademici hanno perso interesse per la comunicazione. Mentre la precedente generazione di accademici distillava le sue autorevoli conoscenze in un testo comprensibile per le masse, gli studiosi “accessibili” di oggi invadono fastidiosamente la coscienza del pubblico: è l’intrattenitore, non l’argomento, a catturarne l’attenzione.

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L’insicurezza culturale genera il suo doppelgänger linguistico. Lo stesso vale per il progresso tecnologico. In un mondo di facebook, Myspace e twitter (per non parlare degli sms), l’allusione concisa sostituisce l’esposizione. se una volta internet sembrava un’opportunità di comunicazione illimitata, la distorsione sempre più commerciale del mezzo – “sono quello che compro” – comporta di per sé un impoverimento. Guardandosi intorno, i miei igli scoprono che la stenograia della tecnologia della loro generazione ha cominciato a iltrare nella comunicazione stessa: “La gente parla come negli sms”. Questo dovrebbe preoccuparci. Quando le parole perdono la loro integrità, la perdono anche le idee che esprimono. Privilegiando l’espressione personale sulla convenzione formale non stiamo facendo altro che privatizzare il linguaggio, così come stiamo privatizzando quasi tutto il resto. “Quando io uso una parola”, diceva Humpty Dumpty, in tono alquanto sprezzante, “essa signiica esattamente quello che decido io”. “Bisogna vedere”, rispondeva Alice, “se lei può dare tanti signiicati diversi alle parole”. Alice aveva ragione: il risultato è l’anarchia. In Politics and the English language, Orwell se la prendeva con i suoi contemporanei che usavano la lingua per mistiicare anziché informare. La sua critica era diretta alla malafede: le persone scrivevano male per dire cose poco chiare o deliberatamente prevaricatrici. Oggi secondo me il problema è diverso: la prosa sciatta rilette l’insicurezza intellettuale, parliamo e scriviamo male perché non ci sentiamo sicuri di quello che pensiamo e siamo riluttanti ad afermarlo senza ambiguità (“È solo la mia opinione…”). Più che subire l’avvento della neolingua, rischiamo l’ascesa della nonlingua. Di tutto questo oggi sono più consapevole che in passato. In balia di una malattia neurologica, sto rapidamente perdendo il controllo delle parole, anche se sono rimaste il mio unico tramite con il mondo. si formano ancora, con disciplina impeccabile e varietà intatta, nel silenzio dei miei pensieri – dall’interno, il panorama è sempre ricco – ma non riesco più a pronunciarle con facilità. Dalla mia bocca escono suoni di vocali e consonanti sibilanti informi e incomprensibili perino ai miei più stretti collaboratori. Il muscolo vocale, da sessant’anni mio aidabile alter ego, sta cedendo. comunicazione, espressione, afermazione: ora sono queste le mie risorse più deboli. Presto non sarò più in grado di tradurre l’esistenza in pensiero, il pensiero in parole e le parole in comunicazione, e sarò coninato al paesaggio retorico delle mie rilessioni interiori. Oggi sono più comprensivo nei confronti di chi è costretto al silenzio, ma continuo a disprezzare il linguaggio confuso. non più libero di praticarla, apprezzo più che mai l’importanza della comunicazione nella vita pubblica: non è solo il mezzo che ci consente di vivere insieme, ma anche parte del senso profondo di quel vivere insieme. L’abbondanza di parole in cui sono stato cresciuto costituiva uno spazio pubblico in sé. E quello che manca, oggi, sono proprio spazi pubblici ben tenuti. se le parole cadono in rovina, cosa prenderà il loro posto? sono tutto quello che abbiamo. u dic


Buon compleanno Wikipedia Clay Shirky

W

CLAY SHIRKY

insegna alla New York university. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Creatività e generosità nell’era digitale (Codice 2010). Questo articolo è uscito sul Guardian con il titolo Wikipedia, an unplanned miracle.

MAJA CELIJA

ikipedia è l’opera di consulta­ zione più usata del mondo. Una constatazione banale e al tem­ po stesso stupefacente: da un lato è il semplice rilesso del suo enorme bacino di lettori; dall’altro, se considerassimo il mondo in un’ottica tra­ dizionale, Wikipedia non dovrebbe proprio esistere, e meno che mai avere lo straordinario successo raggiun­ to in appena dieci anni. Grazie all’impegno collettivo di milioni di persone, basta un clic per scoprire la deinizione di infarto mio­ cardico, la causa della guerra nella striscia di Agacher o chi era Spangles Muldoon. È un miracolo non pro­ grammato, proprio come il meccanismo in base al quale il mercato decide quanto pane arriva nei negozi. Wikipedia, però, è più anomala del mercato: il mate­ riale non solo è fornito gratuitamente, ma è anche reso disponibile gratuitamente. Perino i server e gli ammi­ nistratori di sistema sono pagati grazie alle donazioni. Non era afatto ovvio, all’inizio, che avrebbe avuto tut­ to questo successo. Per questo, in occasione del deci­ mo anniversario di Wikipedia, è giusto ricordare l’im­ probabile storia della sua genesi. Dieci anni fa, Jimmy Wales e Larry Sanger stavano cercando di creare Nupedia, un’enciclopedia online con un processo di pubblicazione in sette tappe: in al­ tre parole, sette punti in cui le cose potevano inceppar­ si. Dopo un anno di lavoro non era stato pubblicato neanche un articolo. Così, il 15 gennaio di dieci anni fa, Wales e Sanger decisero di snellire il processo, provando a usare un wiki. Sanger mandò un’email ai collaboratori di Nupe­ dia spiegando la novità e concludendo: “Fatemi que­ sto piacere. Andate sul sito e aggiungete un articoletto. Vi ci vorranno cinque, dieci minuti”. L’invito a “fare un piacere” era necessario, perché il wiki è un social media allo stato puro. Inventato a metà degli anni novanta da Ward Cunningham, alla base ha un’unica funzione tecnica: modiicare. Non serve un’autorizzazione per aggiungere, cambiare o cancellare qualcosa, e tanto meno, alla ine, per pub­ blicare. La cosa ancora più signiicativa, però, è che alla ba­ se del wiki c’è un’unica condizione sociale: “ci tengo”. Chi interviene su una pagina lo fa perché ci tiene. Ai­ dare la responsabilità dei contenuti a chi ci teneva, anziché a esperti e luminari era un’idea davvero radi­ cale. E infatti Wales e Sanger non proposero di sosti­ tuire Nupedia con un wiki: quest’ultimo doveva solo servire a generare la materia prima di Nupedia. Ma i collaboratori decisero di far andare le cose di­ versamente. La possibilità di creare un articolo in cin­

que minuti e di migliorare quelli esistenti ancora più rapidamente ebbe un efetto contagioso. Dopo qual­ che giorno gli articoli sul nuovo wiki erano più nume­ rosi di quelli di Nupedia. Il wiki era così ben fatto, e così diverso da Nupedia, che fu ben presto trasferito su un sito a parte. Era nata Wikipedia. Qualche mese do­ po Nupedia fu chiusa, mentre Sanger si ritirò da Wiki­ pedia nel 2002. Oggi Wikipedia va avanti ed è diventata un miraco­ lo per 250 milioni di persone al mese. Ogni giorno di questi ultimi dieci anni è migliorata perché qualcuno ha deciso di migliorarla: a volte creando un nuovo ar­ ticolo, spesso modiicando quelli già esistenti, ogni tanto difendendola da interventi vandalici, e dimo­ strando sempre di tenerci. La maggior parte degli utenti ci tiene un po’ e modifica un solo articolo. Un gruppo ristretto, invece, ci tiene tanto, e negli anni ha fatto centinaia di migliaia di modiiche in migliaia di articoli. Ma la cosa più importante è che tutti noi, insieme, abbiamo dato un contributo suiciente a far diventare Wikipedia quello che è oggi. Anche se può sembrare una realtà stabile, è il risultato di uno sfor­ zo incessante per conservare ciò che è ben fatto e mi­ gliorare ciò che non lo è. Non ha senso considerare Wikipedia un prodotto frutto di un’organizzazione: è un’attività che, incidentalmente, dà vita a un’enci­ clopedia. Il passaggio dal prodotto all’attività ha portato il peer review a livelli mai visti: a capo di Wikipedia c’è un

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Pop ANNE PERRIER

è una poetessa svizzera di lingua francese. Questa poesia è tradotta da Fabio Pusterla.

gruppo variabile formato da chiunque in quel momento si stia occupando di Wikipedia. La critica più difusa è che il software permette a tutti di modiicare qualunque cosa. È vero, ma le costrizioni sociali rispettate dagli utenti più seri tengono sotto controllo questa libertà. Insomma, con il software è facile fare danni, ma è ancora più facile rimediare. Immaginate un muro su cui fare dei graiti sia più diicile che cancellarli: la quantità di graiti su quel muro dipenderà dall’impegno dei suoi difensori. Lo stesso vale per Wikipedia. Se tutti i suoi utenti più entusiasti smettessero di tenerci, Wikipedia sparirebbe nel giro di una settimana, travolta da vandali e spam. Se in questo momento avete accesso a Wikipedia, vuol dire che anche oggi i buoni hanno vinto. Certo, Wikipedia non è perfetta. Molti articoli mediocri andrebbero migliorati. Gli utenti sono un po’ troppo omogenei per età, sesso e origine. Le biograie di persone vive continuano a essere piene di pasticci. Le misure adottate contro vandali e spammer iniscono per allontanare i nuovi utenti e per esasperare quelli di vecchia data. Ma Wikipedia non è un’attività legata solo agli articoli. Dalle modiiche individuali alla cultura dell’insieme, è un bene pubblico creato dal pubblico: per questo spetta alle persone che ci tengono afrontare anche questi problemi. Finché uno dei valori fondamentali di questa cultura sarà be bold, sii audace, Wikipedia rimarrà uno dei più grandi atti collettivi di generosità della storia. Quindi auguri per questi primi dieci anni di vita e grazie di cuore ai milioni di persone che hanno aggiunto, modiicato, discusso e corretto, creando l’opera di consultazione più usata del mondo. Grazie per averci parlato dei moti di Stonewall, del declassamento di Plutone a pianeta nano, della Rift Valley e dello tsuna-

Poesia

Gli uccelli morti Sta’ bene in guardia mio cuore! Quale ritardo quest’anno Sopra la rosa canina k Ho raggiunto gli uccelli selvaggi Oh! non cercatemi più se non altrove k Perché mai temere la notte Dal momento che rende L’usignuolo vertigine k Se erro se ho sete Dei pozzi scaverò itti nel cielo

Anne Perrier

mi nell’oceano Indiano, e anche del pesce scorpione, dei tiger team e dei mercati ribassisti. E agli auguri unisco una speranza: che continuiamo a essere abbastanza e a tenerci abbastanza da riuscire a festeggiare, più vitali che mai, i nostri primi vent’anni. u fs

Scuole Tullio De Mauro

Novità per la scuola boliviana Come Hugo Chávez in Venezuela e il Frente amplio in Uruguay, anche Evo Morales ha avviato in Bolivia una politica scolastica di rinnovamento, che del resto è richiesta dalla nuova costituzione del 2009. Rispetto agli altri due paesi latinoamericani la Bolivia si caratterizza per una più alta quota di analfabeti, un sistema scolastico pubblico da rifondare vincendo le resistenze del clero e una molto più marcata eterogeneità etnico-linguistica. Gli “europei” che usano il castigliano (espressione preferita a spa-

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gnolo) sono solo il 15 per cento dei nove milioni di abitanti, i meticci sono il 30 per cento, il 45 per cento della popolazione è formato da gruppi indigeni (l’articolo 5 della costituzione ne enumera 37). Questi usano lo spagnolo come seconda lingua, ma restano largamente fedeli alle antiche lingue locali. Emergono sugli altri i quasi due milioni di aymara e i quasi tre milioni di quechua. La Ley de educación approvata nel dicembre 2010 riordina le scuole in un ciclo di base di otto anni e

uno superiore di quattro, chiede il coinvolgimento delle comunità locali nel funzionamento delle scuole e tra le sue inalità (decolonizzazione, inclusione, equità di genere, educazione interculturale, creazione di una scuola superiore per la formazione di insegnanti) assegna grande spazio all’insegnamento delle lingue indigene: prima lingua e lo spagnolo seconda dove sono dominanti, seconda lingua a integrare l’insegnamento in castigliano dove sono in declino. u



Scienza e tecnologia Salvatori di lingue

Per difondere la parola di Dio e tradurre la Bibbia in più lingue possibili, alcuni missionari si sono improvvisati linguisti e hanno creato un database con tutti gli idiomi del mondo el 1963 Barbara e Joseph Grimes parlarono con i loro vicini huichol di cosa fare con i banditi che terrorizzavano quella comunità isolata. Era ovvio che il problema erano proprio loro. Il fatto che due statunitensi vivessero sulla punta meridionale delle montagne Rocciose faceva supporre che la comunità fosse ricca. I Grimes riconobbero che sarebbe stato meglio per tutti se se ne fossero andati. Finì così un decennio produttivo per la coppia. Nel 1952, appena sposati, erano andati a vivere tra gli huichol dello stato messicano di Nayarit, lontano da strade, elettricità e negozi. Joseph aveva creato un vocabolario della lingua huichol e aveva cominciato a lavorare alla traduzione del Nuovo testamento, e Barbara aveva messo al mondo tre igli. Tornati negli Stati Uniti, i Grimes furono reclutati da Richard Pittman del Summer institute of linguistics (Sil), l’organizzazione missionaria protestante che li aveva mandati in Messico. La missione del Sil, ora Sil international, è studiare e documentare le lingue per fare il maggior numero di traduzioni possibile della Bibbia. Nel 1951 Pittman aveva cominciato a intervistare missionari e linguisti sulle lingue parlate nelle zone del mondo in cui lavoravano. Il risultato fu un catalogo chiamato Ethnologue: la prima edizione, di dieci pagine, era ciclostilata. I Grimes si tufarono nel progetto ed Ethnologue crebbe moltissimo. Nel 1974, quando Barbara divenne la direttrice, il passo successivo sembrò logico: “Decisi di provare a includere tutti i paesi e le lingue del mondo”, mi ha detto per telefono dalle Hawaii, dove vive ora, con Joseph. Come spesso accade, il valore reale

ANGELO MONNE

Laura Spinney, Intelligent Life, Gran Bretagna

N

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dell’idea di Pittman e il lavoro di Barbara Grimes divennero chiari solo molto tempo dopo. Nel 1951 nessuno prevedeva la morte delle lingue, spiega l’attuale direttore di Ethnologue, Paul Lewis. Stime ottimistiche suggeriscono invece che entro il 2100 almeno la metà delle seimila lingue esistenti sarà morta o moribonda, cioè i bambini non le parleranno. E i due terzi di quelle seimila lingue non esistono in forma scritta.

I limiti dell’Ethnologue Oggi un esercito mondiale di linguisti (non tutti missionari) alimenta Ethnologue. Lewis coordina i loro sforzi con l’aiuto di un piccolo team editoriale con sede al Sil di Dallas, in Texas. Gli accademici che contribuiscono al database non sono retribuiti, ma una menzione in Ethnologue ne arricchisce il curriculum. Il catalogo comprende settemila lingue e viene aggiornato ogni cinque anni su carta e in rete, dov’è consultabile gratuitamente. A molti linguisti non piacciono le radici religiose di Ethnologue: i missionari hanno provocato l’estinzione di molti idiomi imponendo lingue “killer”, come l’inglese e lo spagnolo. Nel suo libro del 2009 Dying words il linguista australiano Nicholas Evans cita l’esempio della lin-

gua aborigena kayardild, un tempo parlata dagli abitanti dell’isola Bentinck nel Queensland. Negli anni quaranta i missionari evacuarono l’isola e spostarono gli abitanti alla missione di Mornington, un’isola a una cinquantina di chilometri verso nordovest, dove ai bambini non veniva insegnato il kayardild. Oggi la lingua, che Ethnologue classiica come “quasi estinta”, ha sei parlanti. Secondo Evans, però, ci sono anche molti esempi di missionari che contribuiscono a preservare le lingue minoritarie: “Ethnologue è ovviamente condizionato dalla realtà missionaria, ma i suoi autori sono gli unici ad avere creato un database mondiale, e questo secondo me è molto importante”. Anche se gli obiettivi religiosi del Sil suscitano la diidenza dell’ambiente accademico, molti ammettono che Ethnologue è lo strumento migliore del suo genere, malgrado il fatto che gran parte delle informazioni sia datata. Alcune lingue classiicate come parlate sono in realtà estinte, come l’atsugewi, il clallam e il coos. Ma il problema più grave, spiega Lyle Campbell, linguista dell’università delle Hawaii di Manoa, è la deinizione di lingua. “Per Ethnologue ci sono molte più lingue di quelle riconosciute dalla maggior parte dei linguisti”. u sdf


ambiente

clima

la storia nel legno

l’etichetta che disturba

tecnologia

il frigorifero senza ili È stato progettato un frigorifero che mantiene il fresco per dieci giorni senza energia. È stato usato un materiale refrigerante che a 5° c passa dallo stato solido a quello liquido: in questo passaggio viene assorbito il calore esterno, mentre la temperatura interna rimane bassa. L’idea è venuta alla True energy, partendo dai frigoriferi usati per il trasporto di vaccini. salute

Il 4 febbraio si celebra la giornata mondiale contro il cancro. Previsioni di aumento delle morti per cancro nel mondo 2007 2030 Fonte: Oms

7,9 milioni 11,5 milioni

MIke HeTTwer (ScIeNce)

Novemila pezzi di rovere, cembro e larice per ricomporre la storia europea del passato. Un’équipe di paleoclimatologi svizzeri ha ricostruito le condizioni climatiche (temperatura e umidità) degli ultimi 2.500 anni, analizzando gli anelli di crescita del legno di antichi manufatti trovati in Francia, Germania e Austria. “Abbiamo individuato diversi esempi di come i cambiamenti climatici abbiano inluenzato il corso della storia”, sostengono su Science i ricercatori. Le stagioni calde e umide hanno coinciso con i periodi di maggiore stabilità e prosperità dell’Impero romano (come quello dal 300 ac al 200 dc) e anche del Medioevo (10001200). Mentre la forte variabilità climatica registrata tra il 250 e il 600 dc ha coinciso con la caduta dell’Impero e il periodo di forte instabilità politica.

Nature, Gran Bretagna Durante le ricerche sul campo gli scienziati non dovrebbero interferire con la natura e tanto meno danneggiarla. Ma non sempre è così: si è scoperto che gli anelli di riconoscimento applicati ai pinguini ne riducono la sopravvivenza e il successo riproduttivo. La specie studiata è il pinguino reale, l’Aptenodytes patagonicus, per fortuna una delle più abbondanti e in espansione demograica. Poiché i pinguini si trovano al vertice della catena alimentare, il loro numero è considerato un buon indicatore della salute dell’ecosistema marino. Se muta, a causa del cambiamento climatico, tra i primi a risentirne sono proprio loro. Per questo è importante sorvegliarli e per farlo i ricercatori applicano delle fascette alle ali. Lo studio pubblicato su Nature ha però dimostrato che i pinguini marcati hanno avuto in dieci anni il 39 per cento in meno di pulcini e una sopravvivenza del 16 per cento più bassa. Gli uccelli con gli anelli arrivano più tardi ai siti di nidiicazione e impiegano più tempo a nutrirsi in mare, probabilmente a causa di un’idrodinamica peggiore. Non è solo un danno ai pinguini, ma alla ricerca stessa. Gli studi che hanno impiegato questi anelli vanno rivisti, tanto più che esistono delle alternative, come i chip sottocutanei. u

in breve

Paleontologia È stato scoperto in Argentina un dinosauro precursore dei grandi carnivori come il T. rex, scrive Science. L’animale, chiamato Eodromaeus (nella foto, il cranio) è vissuto alla ine del Triassico, 230 milioni di anni fa, era lungo meno di due metri e poteva correre su due zampe. Psicologia Ansia per un esame? Diminuisce se si mettono per iscritto le proprie paure. In questo modo è possibile migliorare i risultati. Non c’è invece alcun beneicio se si scrive un testo qualsiasi o non si scrive nulla, spiega Science. Astronomia Grazie al Gemini telescope delle Hawaii è stata calcolata la massa del buco nero al centro della galassia M87: pari a 6,6 miliardi di masse solari, è il più grande mai osservato.

Davvero? Anahad O’Connor

canta che ti passa Canticchiare può alleviare la sinusite? In genere le infezioni ai seni paranasali si veriicano quando le mucose s’iniammano intrappolando aria, pus e altre secrezioni. Poiché spesso l’iniammazione è dovuta a infezioni delle vie aeree superiori, chi sofre di asma e allergie è più soggetto degli altri alla sinusite cronica. Per mantenere il naso al riparo dalle infezioni serve ventilazione: un lusso

d’aria regolare tra i seni e le fosse nasali. Quale modo migliore per far scorrere l’aria se non canticchiare? In uno studio dell’American Journal of respiratory and critical care Medicine, i ricercatori hanno testato il rimedio confrontando il lusso d’aria di alcuni volontari mentre canticchiavano e mentre espiravano in silenzio per capire se canticchiare facesse aumentare i livelli di ossido d’azoto espirato, un gas prodotto nei seni: la quantità

di gas in chi canticchiava era di 15 volte più elevata. Uno studio condotto un anno dopo e pubblicato sull’european respiratory Journal ha confermato che canticchiare fa aumentare l’ossido d’azoto nel naso “causato da un rapido scambio di gas nei seni paranasali”. Conclusioni canticchiare contribuisce ad aumentare il lusso d’aria tra i seni e le fosse nasali. Questo potrebbe proteggere i seni dalle infezioni. The New York Times

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Il diario della Terra Ethical living

-56,1°C Oimyakon, Russia

Canada Pakistan 7,2 M

Corea del Sud

Stati Uniti 4,5 M

Filippine

Somalia Brasile

Mozambico

Australia 42,2°C Nyang Station, Australia

Sudafrica

L ISA MAREE WILLIAMS (GETTy)

Vulcani Il risveglio del vulcano Krakatoa, nell’isola indonesiana di Rakata, ha spinto il governo a preparare il trasferimento di decine di migliaia di

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Tubercolosi Un semplice test potrebbe aiutare a diagnosticare i casi di tubercolosi tra le persone colpite dall’hiv. Secondo Plos Medicine, il test può essere condotto anche nei paesi a basso reddito e con poche risorse. Attualmente la tubercolosi è la prima causa di morte tra i sieropositivi.

Tempeste Trentadue persone sono morte nelle tempeste che hanno colpito alcune province del Sudafrica. u Otto persone sono state uccise da un fulmine durante una tempesta in Mozambico.

Fumo La principale ragione per cui gli uomini muoiono prima delle donne è il fumo, scrive Tobacco Control. Un’indagine condotta in 30 paesi europei ha rivelato che le malattie legate al tabacco sono alla base del 60 per cento del divario tra uomini e donne in gran parte dei paesi.

Cicloni Il ciclone Vania ha portato forti piogge a Vanuatu. u Il ciclone Vince ha siorato le coste nordoccidentali dell’Australia. Valanghe Tre persone sono morte travolte dalle valanghe nell’ovest del Canada. Epidemie Continua a salire il numero di capi di bestiame infettati dall’afta epizootica che ha colpito la Corea del Sud alla ine di novembre. Per tentare di fermare l’epidemia inora sono stati abbattuti 1,4 milioni di animali. Arsenico La concentrazione di arsenico nel 27 per cento

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Consumo medio giornaliero di sigarette pro capite, 2009

FONTE: MONDO IN CIFRE

Terremoti Un sisma di magnitudo 7,2 sulla scala Richter ha colpito il sudovest del Pakistan, danneggiando alcune case. Altre scosse sono state registrate in Nuova Caledonia e nell’ovest degli Stati Uniti.

Nuova Caledonia 7,3 M

dei pozzi lungo il Fiume Rosso, in Vietnam, è superiore ai limiti issati dall’Oms, scrive Pnas. I sette milioni di abitanti dell’area, compresi quelli di Hanoi, sono a rischio.

persone. L’eruzione del 1883 causò la morte di 40mila persone. Siccità Due milioni di persone sono minacciate dalla siccità in Somalia. Lo ha rivelato il primo ministro Mohamed Abdullahi Mohamed.

Alluvioni Le inondazioni che hanno colpito l’Australia hanno raggiunto lo stato di Victoria, nel sud del paese, causando la morte di un bambino. La cittadina di Horsham è rimasta completamente isolata. In precedenza le alluvioni avevano causato la morte di 31 persone nel nordest. u Il bilancio delle piogge torrenziali che hanno colpito la regione di Rio de Janeiro, in Brasile, è salito a 702 vittime. u Cinquantuno persone sono morte nelle alluvioni nelle Filippine.

Vania

Indonesia Vince

Kerang, Victoria

Il mare in un bicchiere Vanuatu

Grecia

8,1

Russia

7,6

Bulgaria

7,1

Bosnia Erzegovina

6,7

Ucraina

6,6

Slovenia

6,5

Repubblica Ceca

6,2

Bielorussia

5,8

Cipro

5,8

Kazakistan

5,7

Il cambiamento climatico potrebbe modificare il regime dei corsi d’acqua alimentati dai ghiacciai e dalle piogge, mentre l’innalzamento dei mari potrebbe privare molte aree costiere delle fonti d’acqua dolce. La desalinizzazione è una possibile alternativa, anche se richiede molta energia e produce gas che alimentano l’effetto serra. Gli impianti usati sono principalmente di due tipi: a distillazione termica o con l’uso di membrane. Il primo tipo è il più antico e rappresenta il 43 per cento della produzione. In molti impianti, soprattutto in Medio Oriente, si usa il calore di scarto delle centrali nucleari o a petrolio. Ma a causa della varietà dei progetti, è impossibile quantificare l’energia usata. La tecnica che separa l’acqua dal sale tramite una membrana è invece più moderna ed efficiente. In questo caso servono fra i tre e i sette chilowattora per produrre un metro cubo d’acqua potabile dal mare. Se, per esempio, si volesse distillare un quarto dell’acqua potabile consumata in California, 57 miliardi di litri al giorno, si dovrebbero impiegare 23 milioni di chilowattora al giorno. E si immetterebbero quotidianamente nell’atmosfera 15mila tonnellate di anidride carbonica. L’acqua andrebbe presa dall’oceano, distruggendo la vita marina in essa contenuta, o dal sottosuolo, creando problemi di subsidenza. La conservazione delle risorse idriche attuali è quindi ancora oggi uno strumento fondamentale, scrive Slate, anche se in futuro la desalinizzazione potrebbe diventare necessaria.


Il pianeta visto dallo spazio

Il plancton della Patagonia

Argentina

eARthobseRvAtoRy/NAsA

Oceano Atlantico

u Al largo della costa argentina due forti correnti oceaniche hanno mescolato le acque ricche di sostanze nutritive e piante galleggianti microscopiche giusto in tempo per il solstizio d’estate australe. Il 21 dicembre 2010 il satellite Aqua della Nasa ha scattato questa foto che mostra la ioritura di itoplancton al largo della costa atlantica della Patagonia. Per far risaltare le diferenze tra le comunità di plancton, gli scienziati hanno usato sette bande spettrali diverse. La ioritura verde e azzurro lattiginoso si è sviluppata sulla piattaforma continentale al largo della Patagonia, dove le

acque costiere più calde e salate, insieme alle correnti provenienti dalle regioni subtropicali, incontrano le acque più fredde e dolci che arrivano da sud. Nel punto in cui le correnti si scontrano – che gli oceanograi chiamano fronte della piattaforma – si formano vortici e mulinelli turbolenti che sollevano le sostanze nutritive dal fondale oceanico. Inoltre, il vicino Rio de la Plata deposita sedimenti ricchi di ferro e azoto nel mare a nord dell’area mostrata nella foto. Il forte sole estivo completa il banchetto per il itoplancton, che a sua volta diventa un nutrimento fondamentale per tutte

La ioritura del itoplacton in Patagonia. L’immagine è stata scattata il 21 dicembre 2010, giorno del solstizio d’estate nell’emisfero australe.

u

le creature, dagli animali microscopici (zooplancton) ai pesci e le balene. Anche se è impossibile afermarlo con certezza senza analizzare l’acqua, la maggior parte di questo itoplancton è probabilmente formata da coccolitofori, piante unicellulari che creano depositi di calcite (la calcite è un minerale costituito da carbonato di calcio che spesso si trova nel gesso). Le ioriture di coccolitofori sono comuni nelle acque dell’emisfero meridionale in primavera ed estate. Nella miscela potrebbero anche esserci delle diatomee.–Michael Carlowicz

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Economia e lavoro

JOSH ANDERSON (THE NEw YORk TIMES/CONTRASTO)

Lewisburg, Stati Uniti

Gli enti locali statunitensi rischiano di fallire M. Corkery e I. J. Dugan, The Wall Street Journal, Stati Uniti Municipi, ospedali e scuole negli Stati Uniti hanno sempre più diicoltà a farsi prestare i soldi. Nei prossimi mesi rischiano di non rimborsare i prestiti già contratti omuni, ospedali, scuole e altri enti pubblici statunitensi hanno grosse difficoltà a rifinanziare debiti per decine di miliardi di dollari. Il 13 gennaio il mercato dei municipal bond, le obbligazioni emesse dagli enti locali, è stato colpito da una nuova ondata di dati negativi che ha reso più diicili le aste dei titoli. A causa della scarsità della domanda, il New Jersey è stato costretto a ridurre del 40 per cento un’emissione di obbligazioni e a garantire un tasso d’interesse più alto del previsto. Le turbolenze del mercato, inoltre, hanno spinto il colosso dei fondi comuni d’investimento Vanguard Group a rinviare il lancio di tre nuovi fondi di municipal bond. Diversi enti e istituzioni come gli stati e le aziende di servizi pubblici sono costretti a riinanziare i loro debiti in seguito all’in-

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terruzione di accordi come le lettere di credito, cioè i contratti con cui le banche garantiscono la solvibilità degli enti debitori. Senza le lettere di credito molte istituzioni potrebbero essere costrette a pagare tassi d’interesse più alti o a ofrire garanzie più onerose. E agli enti più in diicoltà potrebbero essere negati del tutto nuovi capitali. Secondo Bank of America, quest’anno scadranno lettere di credito e altri strumenti analoghi per un valore di 109 miliardi di dollari. In base alle stime della Thomson Reuters, il valore delle sole lettere di credito in scadenza è di 53 miliardi di dollari.

Stretta creditizia Gli analisti sostengono che molti stati e le grandi città riusciranno comunque a rinnovare i loro debiti. La stretta creditizia, però, esporrà gli enti più piccoli al rischio di fallimento. Quest’eventualità potrebbe ripercuotersi sulle banche che hanno garantito i municipal bond con le lettere di credito. Secondo l’analista inanziario Frederik Cannon, è diicile valutare l’esposizione delle banche, perché in genere questi accordi non sono riportati nei libri contabili. La New Jersey economic development authority ha cercato di riinanziare un debi-

to a tasso variabile, ma la risposta degli investitori è stata fredda. Così il New Jersey ha dovuto ridurre la sua oferta dagli 1,8 miliardi di dollari previsti a 1,1 miliardi a causa dei tassi elevati richiesti dagli investitori. Una parte dei soldi raccolti, inoltre, servirà “a coprire i maggiori costi dovuti al mancato uso di lettere di credito per un valore di un miliardo di dollari”, ha spiegato Andrew Pratt, portavoce del ministro del tesoro del New Jersey. In Texas la J.P. Morgan Chase ha impugnato l’accordo del 2001 con cui garantiva un prestito trentennale della Harris county Houston sports authority, l’ente pubblico che ha costruito e gestisce lo stadio di football di Houston. A causa della rottura con la banca, ora l’authority dovrà rimborsare l’obbligazione nei prossimi tre anni e mezzo. “Immagini di aver stipulato un mutuo di trent’anni e poi qualcuno la costringe all’improvviso a pagare l’intero valore della sua abitazione in cinque anni”, ha spiegato Janis Schmees, direttrice esecutiva dell’ente. Tra gli analisti, comunque, destano più preoccupazione gli enti di piccole dimensioni, come scuole e ospedali. Secondo la Thomson Reuters, nel 2008 i comuni hanno contratto debiti a tasso variabile per 122 miliardi di dollari, il doppio dei inanziamenti ricevuti l’anno prima. La diicoltà di riinanziare i debiti è stata uno degli aspetti più rilevanti della crisi inanziaria. Molte banche, per esempio, sono fallite perché facevano aidamento sui inanziamenti a breve termine e non sono riuscite più a rinnovarli. Di recente questi stessi problemi hanno contribuito alla crisi della Grecia. Le banche esitano a rinnovare le lettere di credito anche alla luce delle nuove norme sul settore inanziario, che impongono agli istituti politiche più prudenti. Oltre alle banche, un altro importante erogatore di lettere di credito a sostegno dei municipal bond è il gigantesco fondo pensione pubblico californiano California public employees’ retirement system (Calpers), che ha garantito obbligazioni a tasso variabile per 2,5 miliardi di dollari. Joe Dear, il responsabile investimenti del Calpers, ha spiegato che il fondo usa le lettere di credito anche per agevolare il inanziamento degli enti locali californiani, ma che non ha intenzione di aumentare il suo coinvolgimento in queste operazioni. “Anche noi teniamo d’occhio i municipal bond”, ha detto, “e per ora non vediamo segni di ripresa”. u fp


Cina YURI KOCHETKOV (EPA/ANSA)

Pechino è sempre più inluente Quota cinese nel commercio estero di alcuni paesi, in percentuale 1992 (**1998)

2010

Gran Bretagna

6,2 1,5

1,1

3,8**

0,5

0,6

Germania

3,5

0,7 1,3

Belgio 2,9

Italia

Spagna

5,7

1,6

14,0

2,2

0,4 0,9

Taiwan

9,0

9,7

Arabia Saudita

12,8

Nigeria

6,9

22,1

India

10,5

2,2 3,5

1,8** 1,1

5,0

0,5 Egitto

0,9

12,0

1,2

0,5

4,2 Brasile

Argentina

4,0

Thailandia

0,7

4,8

Messico

6,4

1,0

1,2

0,1

20,4

Cina Turchia

0,8

Svizzera 3,3 Francia 3,8

russia

22,8

3,4

Giappone

0,3

Stati Uniti

Corea del Sud

Polonia

6,1

14,3

fONTE: fINANCIAL TIMES

Russia

8,9

6,5

Canada

7,0

Svezia 3,8

Paesi Bassi

Sudafrica

13,1

Malesia

3,7

16,3 Indonesia

12,7

Australia

20,6

Il peso della Cina nel mondo cresce anche grazie ai crediti concessi ai paesi in via di sviluppo e in America Latina, che superano quelli erogati dalla Banca mondiale. Come scrive il Financial Times, nel 2009 e nel 2010 la China Development Bank e la ExportImport Bank of China hanno prestato almeno 110 miliardi di dollari a governi e aziende di paesi poveri. L’obiettivo è assicurarsi sempre più materie prime e aumentare gli scambi, come dimostra la crescita della quota cinese nel commercio estero di molti paesi. u

il numero Tito Boeri

12 per cento Negli ultimi dieci anni i salari cinesi sono cresciuti in media del 12 per cento all’anno, un tasso molto superiore a quello dei paesi occidentali. L’autoritarismo di Pechino non è servito a comprimere artiicialmente i salari dei lavoratori, ma piuttosto a imporre un sistema con una bassa protezione sociale. Se da un lato questa trasformazione ha permesso un incredibile aumento della produttività, e quindi dei redditi e della ricchezza, dall’altro ha

rosneft alleata di Bp Con la benedizione di Vladimir Putin, il gruppo petrolifero russo Rosneft ha realizzato uno scambio azionario con la britannica Bp. Nezavisimaja gazeta deinisce l’accordo “un matrimonio tra giganti malati” dettato da esigenze politiche. La Bp è ancora esposta ai risarcimenti per il disastro ecologico nel golfo del Messico, mentre la Rosneft è l’azienda che ha inglobato la Yukos dell’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij, oppositore di Putin attualmente in carcere. In seguito all’intesa, la Rosneft è entrata nel capitale del gigante petrolifero britannico, con il quale svolgerà attività di prospezione nel mare Artico. Nella foto: gli impianti della Rosneft a Nefteyugansk, in Russia.

maroCCo

La strategia del fosfato anche aumentato l’incertezza per le famiglie cinesi, che non dispongono di un adeguato sistema di welfare e di tutela dei disoccupati o di chi non è più in condizione di lavorare. Come osservano Andrea Boitani e Rony Hamaui su lavoce.info, questa è una ragione plausibile per spiegare la crescita della propensione al risparmio delle famiglie cinesi, che da molti è considerata un problema per gli equilibri economici globali. Gli americani continuano a chiedere una forte rivalutazio-

ne dello yuan per rendere le merci cinesi meno competitive sui mercati internazionali. Ma la soluzione migliore potrebbe essere quella di costruire un sistema di protezione sociale, come quello realizzato in Europa negli anni cinquanta e sessanta. Sarà possibile in Cina? L’articolo 1 della sua costituzione sembra una catena di ossimori: “La Repubblica popolare cinese è uno stato socialista soggetto alla dittatura democratica del popolo”. u

Il Marocco è il primo esportatore mondiale di fosfato, un minerale che serve a produrre fertilizzanti, detergenti e batterie al litio. Questa risorsa, scrive Jeune Afrique, è uno strumento di negoziazione per la diplomazia di Rabat, ma alimenta le tensioni con le province sahariane del paese, dove si trovano ricchi giacimenti. L’estrazione del minerale, infatti, è nelle mani dell’Oice chériien des phosphates (Ocp), un’agenzia governativa accusata di non distribuire i proitti tra la popolazione.

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Strisce se mangio carne, farò dei tocchetti grigi. se mangio verdura, verrà una roba liquida e acre. con i latticini, be’, c’è una sola definizione: “la crema blasfema”.

Thingpart Joey Alison Sayers, Stati Uniti

Mr. Wiggles Neil Swaab, Stati Uniti

ho capito che sto invecchiando perché adesso scelgo cosa mangiare in base alla cacca che voglio ottenere.

WOW. LA CORTE SUPREMA STA DECIDENDO SUL MATRIMONIO GAY.

Non ho mai detto nulla del genere, Ted.

Macanudo Liniers, Argentina

Red Meat Max Cannon, Stati Uniti

Quindi, dottore, lei pensa che questo fastidioso prurito andrà via da solo? Che sollievo!

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Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

SIGNIFICA CHE PRIMA DOVREMO DIVORZIARE, E POI FARE UN MATRIMONIO GAY CON QUALCUN ALTRO.

ragazzo, devi andare da un dottore. non mi sembra una cosa normale.

e se mangio frutta, la merda mi dice che una specie aliena di uominiinsetto controlla segretamente il governo.

PIÙ TARDI... MA CHE CAVOLO DICI? PRIMA DI TUTTO, NON C’ENTRA NULLA. E POI TU NON SEI NEANCHE GAY.

LA COSA PIÙ TERRIBILE È CHE NON HA CAPITO NEMMENO LA LEGGE.

Non ha detto che devo metterci un unguento? Il problema è che non sono proprio un tipo da boxer.

No. Ho detto che il prurito passerà se lei comincerà a usare i boxer.

Me ne sono accorto. Potrebbe almeno passare a un modello di tanga senza paillettes sulla stringa?

Sul serio? Li fanno anche senza?


Rob Brezsny

L’oroscopo Gli studi dicono che il tasso di criminalità è in costante diminuzione, eppure tre persone su quattro sono convinte che sia in aumento. Quali conclusioni possiamo trarne? Una potrebbe essere che la maggioranza della popolazione è incline al pessimismo. A mio parere di astrologo, Capricorno, non puoi permetterti di essere vittima di questa psicosi di massa, perché può interferire con la fortuna che ti sta venendo incontro. Non ti chiedo di essere assurdamente ottimista: basterebbe che tu cercassi di rinunciare a ogni tua tendenza a essere assurdamente pessimista. ARIETE

Ti si presenta ancora una volta un’annosa questione: dare la priorità all’indipendenza o all’interdipendenza? Naturalmente la risposta è sempre diversa a seconda del momento e della fase della tua evoluzione. Ma, almeno nelle prossime settimane, secondo me dovresti mettere l’accento sull’interdipendenza. Se fonderai le tue energie con quelle di alleati che hanno una forza e un’intelligenza pari alle tue, ne trarrai enormi beneici. TORO

Trovo che molti di voi Tori siano troppo modesti. È una caratteristica che può essere sia accattivante sia esasperante. Anche se il mio cuore si scioglie quando incontro un Toro che sottovaluta la sua bellezza, mi viene voglia di prenderlo per le spalle e scuoterlo ino a dargli un po’ di iducia in se stesso e di tempestarlo di esortazioni come: “Credi in te stesso quanto io credo in te, per amor di Dio!”. Ma penso che nei prossimi giorni non ce ne sarà bisogno: sembra che tu stia entrando in una fase di maggiore autostima.

ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI

GEMELLI

Sarà una buona settimana per lasciare la mente completamente vuota, per startene stravaccato davanti alla tv sorseggiando latte caldo, o per trascorrere ore rannicchiato sotto le coperte insultandoti e sentendoti in colpa per gli errori che hai commesso nella tua vita. Sto scherzando! Per favore non ti azzardare a fare qualcosa di simile, sarebbe un terribile spreco dei presagi astrali. Ti

suggerisco qualche idea migliore: vai a cercare il fuoco sulla montagna! Impara un trucco da eseguire al buio! Scopri una nuova emozione nel deserto! Studia le persone più sagge e più selvagge che conosci, per essere anche tu selvaggiamente saggio!

Ma posso suggerirti di rendere le tue incursioni oltre frontiera più piacevoli di quelle dei camionisti sul ghiaccio? VERGINE

La popstar Katy Perry è famosa non solo per la sua voce ma anche per il suo aspetto isico. Ecco perché è stato divertente quando suo marito, l’attore e cantante Russell Brand, ha pubblicato su Twitter una sua foto appena alzata dal letto. Senza trucco, il viso di Katy è straordinariamente comune. Non brutto, ma insigniicante. In conformità con i presagi astrali, Vergine, ti invito a fare come Russell Brand: rivela la realtà che si nasconde dietro l’affascinante illusione, in te stesso oppure ovunque tu lo ritenga necessario.

CANCRO

Sarebbe una settimana ideale per piangere disperatamente sui vecchi amori che ti hanno spezzato il cuore. Ho visto raramente una conigurazione astrologica migliore di quella attuale per liberarti dell’angoscia di quelle vecchie soferenze sentimentali. Quindi ti consiglio di inventare un rituale che le esorcizzerà completamente e produrrà la massima catarsi. Forse potresti costruire un santuario che contiene le foto e gli oggetti che tengono una parte di te ancorata al passato e trovare parole coraggiose e gesti nuovi per dirgli addio per sempre. Hai qualche idea su come organizzare una cerimonia che favorisca il tuo processo di guarigione?

“Caro Rob, per tutta la vita ho cercato di guardare il quadro generale, capire come funziona l’universo, meditare sul perché le cose sono come sono. Spesso, però, sono così innamorato di questi concetti universali da non prestare abbastanza attenzione a me stesso. Per amare l’ininito, trascuro troppo il inito. Hai qualche consiglio?”. – Sagittario Cosmico Caro Cosmico, sei fortunato! I membri della tribù del Sagittario sono entrati in una fase in cui possono rimediare al loro disinteresse per i dettagli che alimentano la vita. Scommetto che nelle prossime settimane troverai divertente e appagante occuparti delle tue piccole necessità quanto comprendere i misteri del cosmo. ACQUARIO

BILANCIA

Quando ero piccolo, mi hanno insegnato a considerare la mia mente analitica come lo strumento principale per comprendere la realtà. Ma alla ine ho capito che dovevo aggiungere a questa teoria alcuni corollari: per me l’immaginazione e l’intuizione sono essenziali quanto la mente analitica; ho bisogno di esprimere regolarmente i miei impulsi creativi più giocosi, e questo a volte m’impone di mettere da parte la mia capacità analitica; per mantenere il mio benessere emotivo, devo lavorare sui sogni, che appartengono a un regno in cui la mente analitica non è signora e padrona. Per te è il momento ideale di coltivare altri tipi d’intelligenza.

LEONE

Il canale tv History trasmette un reality show intitolato Ice road truckers. Il programma racconta le gesta degli autisti che guidano i loro tir a 18 ruote per centinaia di chilometri attraverso i iumi ghiacciati, i laghi e le paludi dell’Alaska e del Canada nordoccidentale per rifornire avamposti remoti dove gli esseri umani fanno lavori esotici come estrarre diamanti o gas naturale. Saresti un buon candidato per partecipare a questo show, Leone. Nel 2011 il tuo coraggio e il tuo spirito d’avventura saranno ai massimi livelli.

SAGITTARIO

SCORPIONE

Se nei prossimi mesi hai in programma di passare un po’ di tempo in letargo, è il momento ideale per farlo. I tuoi tempi di reazione stanno rallentando, e questa è una cosa molto salutare. La tua allergia alla civiltà sta aumentando, la tua testa è troppo piena di pensieri inutili e il tuo cuore desidera ardentemente una pausa dalle piccole soferenze e dalle banali preoccupazioni della vita quotidiana. Quindi, va a cercare un dolce silenzio in cui nasconderti.

All’inizio del novecento, per andare in spiaggia molte donne indossavano un costume di lana che copriva quasi tutto il corpo. Appena uscite dall’acqua pesavano dieci chili di più. Nuotare, poi, era una vera impresa. Il tuo attuale stato psicologico somiglia alla sensazione che proveresti indossando biancheria intima di lana bagnata, un vestito da clown di lana intriso d’acqua e un cappotto di lana inzuppato. Il mio consiglio? Togliti tutto. I presagi astrali sono chiari: qualunque siano stati i motivi per vestirti così, non sono più validi. PESCI

Nel libro di memorie The bedwetter: stories of courage, redemption, and pee, l’attrice comica Sarah Silverman confessa che a 19 anni bagnava ancora il letto. La depressione è stata una compagna costante della sua adolescenza. Eppure, in qualche modo è diventata un’adulta così straordinaria da poter chiedere a Dio stesso di scrivere la postfazione al suo libro. Come ha fatto? “Sarà banale”, ha dichiarato a Publishers Weekly, “ma è merito del sesso”. Un’inversione di tendenza simile è in arrivo anche per te, Pesci. Riscatterai una parte del tuo passato, molto probabilmente con l’aiuto di un sensuale alleato divino.

Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

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internazionale.it/oroscopo

CAPRICORNO

COMPITI PER TUTTI

Guardati allo specchio e di’ a te stesso una verità spiacevole ma bufa che non ti sei mai detto.


MIx & reMIx, l’heBdo, svIzzera

L’ultima

Joep BertraMs, parool, paesI BassI

Bennett-Chattanooga tIMes Free press, statI unItI

“steve Jobs è molto malato”. ipad ultrapiatto. MacBook air ultrapiatto. iphone 4 ultrapiatto. padrone ultrapiatto.

Ma se gli squilibrati non possono più comprare i fucili, io chiudo bottega!

I dittatori arabi hanno paura del contagio.

Mi piace sprofondare in un buon libro mentre guardo la televisione.

Le regole Skype 1 decora la tua postazione con luci e sfondo. 2. non dire “skypami”. 3. Il fatto che sia gratis non vuol dire che devi chiamare ogni giorno i tuoi parenti in Canada. 4. non c’è bisogno di truccarti, ma devi vestirti. se la chiamata è erotica fai il contrario. 5. a forza di essere invisibile lo diventerai davvero: nessuno ti chiamerà più. regole@internazionale.it

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Internazionale 881 | 21 gennaio 2011

sIpress

dIleM, lIBertè, algerIa

Favola italiana.




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