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“Siamo chi se ne va, ma siamo anche chi nella vita abbiamo incontrato� Angelo Benvenuto
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Istituto Marco Belli Liceo Linguistico - Liceo delle Scienze Umane
“I PAESAGGI DELL’ANIMA” Crescere da studenti al “Marco Belli” Raccolta di testi di allievi e docenti a cura di Angelo Benvenuto
Portogruaro (VE)
2008-2009
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Tutte le illustrazioni, comprese quelle delle copertine, sono tratte da lavori realizzati dagli studenti di varie classi dell’Istituto, coordinati dalla prof.ssa Luisa di Sarno, in vista di questa raccolta.
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NOTE E RINGRAZIAMENTI. Sento il dovere di ringraziare tutti i colleghi che hanno aderito al progetto “I paesaggi dell’anima”; chi con consigli e suggerimenti, chi con sollecitazioni ed inviti a scrivere, rivolti agli studenti; chi con lo zelo di chi ritiene che parlare di sé con corretta scrittura sia sempre un importante atto educativo. In particolare ringrazio le professoresse Luisella Saro, Luisa di Sarno (dai suoi lavori sono tratte le fotografie che compendiano il testo), Graziella Bellomo, Anna Zago, Giorgia Righetti, Lucia Gorup de Besanez e Debora Bossone per il contributo concreto e costruttivo che hanno dato al progetto. Ringraziamenti vanno anche ai professori Domenico R. Mantovani, Lia Zulianello, Mario Defina, Francesco Ricci e Dario Schioppetto che del progetto sono stati la coscienza critica. Ringrazio il nostro Dirigente Scolastico, prof. Lorenzo M. Zamborlini, che ci ha sempre sostenuto e incoraggiato, specialmente laddove ravvisava in noi attenzione ed entusiasmo per modalità nuove ed innovative nei percorsi educativi. A nome di tutti, ringrazio i veri protagonisti di questo progetto: GLI STUDENTI del “M. Belli” di Portogruaro, che con i loro scritti ci hanno detto cose importanti che noi forse ignoravamo, ma sulle quali certamente dovremo tutti riflettere. Giugno 2009 Prof. Angelo Benvenuto
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Introduzione “I paesaggi dell’anima” Crescere da studenti al “Marco Belli” Le studentesse e gli studenti che si formano nella nostra scuola crescono; acquisiscono saperi e competenze, si confrontano con altri giovani coetanei e con gli adulti; tessono amicizie, vivono amori, sperimentano inimicizie, provano antipatie, intrecciano rapporti con gli insegnanti, a volte cordiali e costruttivi, a volte meno. Accolgono con serenità quanto loro offerto dagli insegnanti durante le lezioni in classe; oppure vi combattono contro. In ogni caso gli studenti faticano. Nella nostra scuola, talvolta, dopo essersi diplomati, ritornano a salutare i compagni più giovani e alcuni insegnanti e, non raramente, con questi ultimi, mantengono rapporti culturali e confidenziali per molti anni ancora. Altre volte scompaiono per sempre, lasciando un loro ricordo solo negli archivi della scuola. Tutto questo rientra nella normalità di ogni scuola superiore italiana; anzi, gli insegnanti che provengono da altra scuola, spesso apprezzano il “Belli” per la relativa “serenità con cui si lavora” e per la serietà e l’educazione degli studenti. Però: ci siamo abbastanza chiesti, mentre gli studenti sono impegnati a sostenere una verifica orale, a prepararsi per un compito scritto, ad ordinarsi gli appunti nel quaderno delle esercitazioni, quali siano le loro speranze, i progetti, le fatiche, i sentimenti, le inquietudini che essi portano nell’anima e che non raccontano che a pochi amici o a qualche (fortunato) insegnante ritenuto degno della loro confidenza? Potremo anche rispondere che il nostro compito è quello di offrire loro una bella chiara e completa lezione di storia o di matematica o di diritto e questo è, in fondo, il nostro compito; solo che poi ci troviamo a lamentarci per: le loro ripetute ‘strategiche’ assenze;
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la mancata esecuzione dei compiti domestici; le numerose insufficienze che attribuiamo loro a fine anno; i debiti scolastici, le ripetenze; la sistematica (nonostante i regolamenti) uscita di alcuni durante le ore di lezione per andare alle macchine distributrici di bibite e caffè; o a fumare; o a telefonare; la comparsa di manifestazioni di aggressività, di insolenza, di rifiuto dell’autorità che a noi appaiono incomprensibili ed immotivate e che a volte nemmeno gli studenti stessi sanno giustificare.
Per tutti questi motivi abbiamo voluto dare ai nostri studenti lo spazio per parlare maggiormente di sé stessi; parlare non in senso generale ma intorno a dei ‘paesaggi’ scelti in comune, quali, (solo a titolo esemplificativo): la paura (di non farcela, della verifica, del prof., della famiglia, ecc.), la speranza, la fatica, l’inquietudine, l’amicizia, il nichilismo, la disuguaglianza, la solitudine, la competizione, l’amore, la violenza fisica e quella psicologica, la tenacia, la noia, le prospettive di lavoro, l’emarginazione, il fare ciò per cui ci si sente versati, il non poter fare ciò che ci viene meglio, l’arte e la scuola, la musica, la paura di tenere un discorso in pubblico, scrivere per sé, leggere ciò che a scuola non serve, dover leggere ciò che non serve a nulla, raccontare quello che si è imparato durante uno stage ospite ‘in famiglia’ … Ciascuno poi si è scelto liberamente il ‘paesaggio’ ritenuto più adatto. Non si è trattato affatto di modificare i programmi disciplinari curricolari, ma di inserire qualche contenuto interessante per gli studenti nel lavoro che normalmente facciamo di formazione delle competenze testuali, sia al biennio che al triennio; accettando anche l’evenienza di essere posti in discussione, ma certi, allo stesso tempo, di aver guadagnato qualcosa circa la capacità di motivare i nostri studenti e con frasi sicuramente diverse da: “studia perché c’è l’esame” o “siccome non hai voglia di studiare sono costretto a metterti quattro” o altre banalità del genere.
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Perché abbiamo fatto questo? Per comprendere un po’ meglio il disagio di tanti studenti; per aiutarli a rimuovere o a ‘riorientare’ le loro difficoltà; per attenuare o battere il nichilismo così diffuso fra loro; per aiutarli a crescere liberi, competenti, consapevoli ed indipendenti. Ma non era questo il fine della scuola? Prof. Angelo Benvenuto Referente al progetto “I paesaggi dell’anima” per il Dipartimento di Italiano Anno Scolastico 2008-2009.
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Paesaggi, 1
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ECHI DEL PRESENTE. Occhi incollati al televisore o al computer, orecchie otturate dalle cuffie che producono una musica assordante: sono i giovani di oggi, gli “addormentati sociali” descritti ne I ragazzi nello scantinato da R. Jalbert, quando alludeva al dilagare del nichilismo giovanile, all’inerzia conformista, all’indifferenza esistenziale che caratterizza la nuova forma di solitudine comune al mondo degli adolescenti. Inquadrato da U. Galimberti anche come “nuovo vizio”, ovvero come disastroso inconveniente dell’età della tecnica, il culto del vuoto sembra concentrare alcuni tratti del giovane studente. Ad ascoltare i commenti dei professori, poi, diventa facile condividere, nel generale disorientamento, una critica così radicale. Mi pare, però, che dalla lettura dei testi pervenuti, e dalla condivisione delle prime impressioni, ad emergere non sia tanto il nichilismo esistenziale così dibattuto e protagonista in buona parte della speculazione contemporanea, quanto, invece, una sintomatica luce di speranza che sale da cuori apparentemente chiusi che, simili a scrigni, attendono la chiave giusta per aprirsi e mostrare la ricchezza custodita. Si parla tanto, oggi, di crisi del sistema scolastico, del paradosso che dipinge la scuola come il luogo abbandonato dalla passione per la vita, dello spleen senza poesia degli studenti. La discrasia tra la società complessa, dinamica, in continuo mutamento e le istituzioni scolastiche, sempre qualche passo indietro perché troppo lente rispetto ai ritmi della contemporaneità, pone il problema dell’inadeguatezza della didattica e di una generale demotivazione degli studenti che esprimono nell’indifferenza emotiva un’apparente vuotezza interiore, insieme alla mancata connessione con la realtà e alla rottura del rapporto Io-Mondo. La natura di tali mutamenti ha modificato le strutture mentali dei giovani, il modo di sentire il passato e di vivere il territorio; sono
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profondamente modificati gli stili relazionali, i sistemi culturali di riferimento. In questo quadro di drammatica complessità, la scuola, che ha il compito i trasmettere la cultura elaborata e sedimentata nelle aree disciplinari, si trova a collocarsi a distanza rispetto alle trasformazioni sempre più rapide della società. Forse non è possibile pretendere che essa assuma il ritmo di tali modificazioni, come non lo si può pensare per altre istituzioni sociali. Ma se c’è un aspetto da non ignorare è che nonostante i mutamenti in cui si trova imbrigliata, continua a rivolgersi a soggetti in età evolutiva che vivono nel presente interiorizzandone le spinte e le mutazioni. Se l’educazione risente della complessità sociale, il ruolo dell’insegnante diventa cruciale non solo nell’elaborare interventi didattici quotidiani condotti dalle innovative strategie suggerite dai pedagogisti, ma anche nel modo di percepirsi e di pensare la relazione educativa. Anche l’insegnante è una natura umana, un’esistenza di fronte a tante esistenze che dona una parte di sé nel prendersi cura degli altri. In questo scenario anche la responsabilità della scuola, dunque, assume nuovi lineamenti orientati a colmare la distanza tra le domande segrete che molto spesso gli studenti comprimono nella loro intimità e il peso degli imponenti cambiamenti sociali. Se è stato smarrito l’importante legame di senso, come il senso dello stare a scuola, il senso dello studio della matematica o della filosofia, il senso della relazione o delle regole, è chiaro che oggi, più che mai, si impone con urgenza il recupero della relazione. Anche a questa esigenza risponde l’Istituto “Marco Belli” con il progetto “Paesaggi dell’anima” e altri meritevoli, qui non citati, percorsi intellettuali che vanno oltre i contenuti e la cognizione e chiedono l’espressione della creatività, delle segrete emozioni, delle speranze, delle passioni, di quei motori potenti dell’interesse e della voglia di vivere e di crescere. Credo che chiunque faccia fatica a muovere la volontà al di fuori dei personali campi di interesse, a maggior ragione quando
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il soggetto in questione è uno studente. E se è vero che l’interesse non esiste al di fuori del legame emotivo, tale legame, evidentemente, non si costruisce quando il rapporto tra docente e allievo è minato da incomprensioni e diffidenze. Al di là di tutte le possibili riforme che possono migliorare il profilo della scuola per adattarla ai tempi che corrono, credo che se c’è qualcosa che il tempo non può usurare è l’importanza della com-prensione che si dà nella comunicazione e nella comunione. Se il carattere del nostro tempo è la complessità, lo studio va forse impostato secondo criteri capaci di esaltare il momento dell’ermeneutica, il suo carattere comunitario, intersoggettivo, vario, interessante, relativo, aperto, adatto a donare, nella responsabilità sociale e morale, sempre nuovi sensi e significati a ciò che si studia e, dunque, alla vita. Che senso aveva, per me, acquisire un sapere consolidato per riferire poi il contenuto? Che senso ha, per Lisa, nell’oscurità della notte, ripetere sottovoce per non svegliare chi già dorme quei dati essenziali per il compito del giorno dopo? W. Benjamin risponderebbe che non siamo noi a doverci trasferire in ciò che studiamo, come testi, autori, storie, ma loro a trasferirsi in noi: “il vero metodo per renderci presenti le cose – scrive - è rappresentarle nel nostro spazio”. Su questo orizzonte di senso si sono mossi gli studenti che hanno deciso di aderire al progetto. E così, si interroga, ci interroga, Chiara, nella bellissima lettera indirizzata al professore, quando afferma: “…il mio orecchio delle volte vorrebbe sentirsi chiedere, al posto del classico ‘esponi i contenuti’…, ‘cosa dice a te, oggi, tutto questo, non ti senti vicina a quello che dice, e se ti senti distante da tutto questo, perché? … Provi a chiedermi di Giovanni Pascoli… lo so bene che i particolari, le date… sono importanti, ma non possono dirle nulla di me, di come mi sento leggendo quello che il poeta ha scritto quasi un secolo fa, quanto riesco a sentire attuali le sue idee che a prima vista sembrano così distanti da ciò che sono…”
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Più che pensieri invadenti che rischiano di infastidire, definirei le parole di Chiara, così potenti nella loro delicatezza, importanti occasioni per ricordare che l’insegnante non solo fornisce competenze o intrattiene e contiene studenti annoiati, ma è anche un intellettuale che sceglie, indica dei valori, distribuisce idee, giustifica il suo operato. Per questo, per me, occupare una cattedra significa provare ogni giorno a rispondere ad una domanda fondamentale, che chiede: “Che cosa ci faccio qui?”. Penso alla scuola, oggi, come orientata verso un’alba della relazione; penso al progetto “I paesaggi dell’anima” come ad una preziosa chiave e ai tracciati degli studenti, come un’importante donazione che mostra, oltre ai guazzabugli del cuore, lo status di anime vive, speranzose, che chiedono attraverso la scrittura la comprensione. Non sono pensieri affidati al vento, ma frammenti di storie di personali affetti a cui non si può non credere e non dare voce; momenti di un tentativo di chiamare per nome atmosfere sfuggenti che a volte accendono e a volte trascinano, paesaggi orlati anche dal silenzio, dove spesso regna il senso che una parola non può dire. Prof.ssa Lia Zulianello Docente di Filosofia e Scienze Sociali
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L’INQUIETUDINE MI INSEGNI AD AMARE Caro professore, ho ricordi di decine e decine di lettere che ho scritto negli anni: momenti di rabbia o di incontenibile gioia che desideravo condividere con qualcuno, ma esse, per la maggior parte delle volte, sono rimaste gelosamente custodite in un cassetto, quasi il solo destinatario prescelto fossi proprio io. Crescendo, ho imparato il valore delle parole e l’importanza del confronto diretto con le persone. Sta di fatto che, nella maggior parte dei casi, è stendendo nero su bianco i miei pensieri, che riesco ad esprimere più profondamente ciò che penso e che porto nel cuore. Negli ultimi due anni è nato in me un pensiero piuttosto invadente, che mi tormenta e non mi dà pace e anche se troverà la mia domanda forse un po’ insolita, spero che la sappia stupire ed in un certo senso ‘mettere in crisi’. Posso immaginare la difficoltà nella quale a volte può incorrere nel trasmettere, con l’insegnamento, la sua passione per la letteratura; quello che ogni tanto mi chiedo è quando mi insegnerà ad amare. Non vorrei che la prendesse come una critica, anzi, vuol essere solo una provocazione, fresca ed un po’ ingenua, priva di pretese. Quando i poeti parlano d’amore, mi si spalanca il cuore. Non sempre è un bene, dato che assieme ad esso si aprono un sacco di ferite lontane e profonde; sono però dei momenti talmente inspiegabili, che, quando capitano, mi sento travolta da una lunga serie di emozioni tra loro contrastanti e così, come scrive uno dei miei autori preferiti, Paulo Coelho, mi ritrovo “con un piede nella favola e l’altro nell’abisso”. Ci sono alcuni passi dei testi poetici che toccano profondamente la mia sensibilità: basta una parola perché la mia mente inizi a vagare libera tra i ricordi, piacevoli o meno, ed ogni volta mi sento cambiata, capisco di aver conosciuto un
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lato diverso di me, quello che scopre i sentimenti o quello che contempla tristemente un abbandono. Accostandomi di volta in volta a nuovi autori, nuove esperienze di vita e nuovi modi di pensare, mi trovo a riflettere sulla passione che li ha spinti a scrivere. Il loro era ed è un amore diverso da quello che spesso possiamo concepire noi… Mi piace immaginare gli occhi lucidi e sognanti di Francesco Petrarca che incrociano solo per pochi istanti quelli di Laura, l’immensità che pervase l’animo del poeta nel momento in cui sentiva la necessità di scrivere per riuscire a sfogare quel sentimento così devastante, fatto di amore e frustrazione, sorrisi e lacrime. Questa sensazione di vibrante passione è impressa nelle pagine del mio libro. Sottolineo con un tratto forte e preciso tutte le cose che ai miei occhi diventano speciali, fondamentali, ed ecco che, voltando pagina, le dita incontrano, lungo tutta la facciata, i solchi lasciati dalle annotazioni scritte in fretta, perché la penna ha voluto gelosamente custodire qualche espressione, qualche termine particolare. Il processo è analogo per quanto accade dentro di me: i pensieri ed i concetti diventano parte del mio essere e così in qualunque momento ho l’occasione di poterli ricordare e di riviverli. Ammetto che, nonostante tutto, c’è un aspetto di questo modo di apprendere che mi spaventa. Il sistema scolastico si pone come obiettivo valutare l’alunno in base alle informazioni che acquisisce ed in base al metodo con il quale si applica nello studio delle diverse materie. Lei però, prof., rispetto a questo, mi ha dimostrato, a volte, di voler evadere da quello che è il rigido metodo scolastico tradizionale; l’ha fatto nelle piccole cose e con alcuni gesti un po’ più evidenti. A volte vorrei che i professori si interessassero di più a cosa dice alla nostra vita tutto quello che ci insegnano, perché credo sia questo il vero indice della maturità di una persona. Le date sono tante, le cose da ricordare anche e sappiamo
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tutti come una buona percentuale di queste finisca inevitabilmente per essere dimenticata. Il mio orecchio delle volte vorrebbe sentirsi chiedere, al posto del classico “Esponi i contenuti” di questo concetto, testo o teoria che sia, “cosa dice a te, oggi, tutto questo? Non ti senti vicina a quello che dice, e, se ti senti distante da tutto questo, perché?”. Sono sicura che in occasioni come queste voi professori potreste conoscerci un po’ di più e soprattutto avreste l’occasione di rendervi conto che sappiamo ragionare sulle cose, farle nostre ed utilizzarle per la nostra vita più di quanto possa sembrare. Non dovrebbe forse essere questo uno dei compiti principali della scuola: prepararci ad affrontare la vita? Lo so bene che i particolari, le date, i nomi e gli avvenimenti storici sono importanti, prof, ma la balbettante esposizione della biografia di un autore può dirle solo che ho imparato a memoria tanti numeri (cosa personalmente improbabile, vista la mia poca predisposizione) e che a breve non li ricorderò nemmeno più; non possono però dirle nulla di me, di come mi sento leggendo quello che il poeta ha scritto quasi un secolo fa, quanto riesco a sentire attuali le sue idee che a prima vista sembrano così distanti da ciò che sono. Provi a chiedermi di Giovanni Pascoli: le parlerei principalmente dell’abbandono, un aspetto che in diversi modi ha permeato la vita del poeta e che per me ha un significato profondo ora come non mai. La domanda iniziale gliela ripeto, prof, anche se potrà infastidirla. La prego: lei che qualche volta riesce ad uscire dagli schemi, ci insegni e mi insegni ad amare! La letteratura, il sapere, la vita, la contemplazione delle piccole cose… Quello che vuole, ma lo faccia. Non è assimilando informazioni che riusciamo ad appassionarci, no! È ritrovando nella vita di tutti i giorni quello che è racchiuso nei libri di scuola, quando ti viene chiesto di dimostrare ciò che sai e anche quando devi metterti in discussione, agire; è proprio qui che entriamo in gioco per
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quello che negli anni siamo diventati: delle persone che sembrano sapere tutto, ma si accontentano della superficialità delle cose, o dei ragazzi in gamba, con una fantasia che li fa viaggiare con la mente anche durante le lezioni. Persone che non sono spaventate dalla vita, perché hanno imparato ad affrontare le cose con saggezza ed a testa alta. Questa lettera non si aggiungerà a quelle che tengo ancora dentro il cassetto: ci tenevo che proprio lei venisse a conoscenza delle mie idee, per quanto banali alle volte possano essere. Grazie, prof., perché ci sono stati dei momenti nei quali, nella sua voce e nelle sue spiegazioni, sono riuscita a percepire un po’ di quella passione della quale ho tanto parlato prima. È una cosa che mi fa piacere e che mi ha insegnato una verità importante: i sentimenti forti non sono comuni a tutte le cose che conosciamo e delle quali parliamo. Sembra scontato, ma a volte capita che cerchiamo di dimostrare che tutto, bene o male, ci piace, anche se spesso non è la verità. La saluto con un pensiero che potrebbe farla sorridere oppure arrabbiare. Accetto comunque il rischio. La storia non mi piace, non riesco a farmela piacere, non dice quasi nulla alla mia vita e quel poco che mi lascia è racchiuso in particolari che spesso nessuno mi chiede di sapere. Oggi non mi dice ancora nulla, magari un giorno lo farà. Arrivederci, prof.! Questo è l’ultimo anno e spero che le mie parole possano fare un po’ come le annotazioni del libro: ritornarle in mente tra qualche tempo ed aiutarla, se le sembra che qualche ragazzo sia distante da tutto ciò che dice, tanto quanto lo sono stata io l’anno scorso e lo sono ora, quando ciò che accade nella mia vita mi opprime e mi allontana. Grazie di tutto. Con simpatia. Chiara Tonanni Gianni, 5BS
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È PRESTO PERCHÉ SIA TARDI “Svegliati tesoro, è tardi!”. Questa è la sveglia di tutte le mattine: la voce assonnata di mia mamma che risuona in tutta la casa e dalla cucina arriva fino alla mia stanza. Che cosa strana, il tempo! Per me, le sei e un quarto di mattina sono un orario inammissibile; per il resto dei miei amici è ancora troppo presto per svegliarsi. Il buio inghiotte la mia camera, la casa, la via, la città e per me è già ora di essere in piedi, pronta per cominciare una nuova giornata. Data l’ora tarda, la colazione e il fondamentale quarto d’ora in bagno si riducono, costringendomi a una terribile corsa mattutina. Pronta e ancora incosciente di essermi realmente svegliata, salgo in macchina, dove regna il silenzio delle menti intorpidite da quelle poche ore di sonno. Arrivo in stazione e con me vedo arrivare il mio treno. Mi fiondo giù per le scale, dove trovo la solita coppia di vecchietti che fatica a salire la ripida scalinata in marmo, e che come al solito supero con uno scatto incredibile, catapultandomi nel treno. I miei compagni di classe mi salutano con una ‘ola’, facendomi notare l’ormai cronico ritardo. Inutili le scuse delle sveglie che non suonano, di macchine che non partono: la mia stanchezza è la loro stanchezza, e silenziosamente mi dimostrano la loro comprensione. Come tutte le mattine, il treno si blocca durante la corsa per un inspiegabile guasto. I pendolari sono abituati a questo genere di cose, tanto che, quando non si verificano, pare di essere di fronte ad a un miracolo. Quando si arriva nella ‘stazione di fine corsa’, si capisce che è ormai tempo di scendere, che la giornata è davvero cominciata, che è troppo tardi per tornare a letto. Inspiri profondamente e ti lanci nell’aria gelida della mattina, che ti accarezza le guance arrossandole e che ti stringe, fino ad arrivare a scuoterti le ossa.
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Mentre cammini frettolosamente, ti dedichi a un veloce ripasso di tutte le materie; ripasso che spesso è iniziato già durante il viaggio in treno. Ad un tratto, ti trovi nel grande cortile semideserto, grigio, cupo, che puzza di fumo di sigaretta e di nervosismo, e ti senti sprofondare in una coltre di sassolini bianchi, che ti imprigionano il piede fino quasi alle caviglie. Sali a fatica i tre gradini che ti separano da ciò che è ‘fuori’ dalla scuola, ed entri. Nell’atrio, tantissime persone che, simili alle formiche, corrono a destra e a sinistra senza tregua: prof. che imprecano contro la fotocopiatrice, bidelle che litigano tra loro, segretari che chiedono informazioni, alunni che devono il terzo caffè della mattina o che sventolano il libretto delle giustificazioni, aspettando ansiosi una firma. Mentre sali le scale, noti che la cartella è pesante e grava sulle tue spalle: quella scalinata è come il Calvario e la cartella la tua croce quotidiana. Arrivi in classe accompagnata dal suono della seconda campanella. La prima cosa che noti entrando, sono gli occhi accusatori del prof. che, con un sorrisino malefico, ti chiede la giustificazione scritta del tuo ritardo. Quella domanda risuona nella tua testa come fosse una barzelletta, tanto che vorresti riderci sopra e complimentarti per il suo sarcasmo, ma dentro ti risuona la consapevolezza che la persona che prepotentemente è seduta in cattedra non scherza, fa sul serio. A questo punto, qualsiasi attenuante è inutile: la neve, la pioggia, il traffico, una tua caduta o la semplice stanchezza tipica di ogni essere umano sono dati inammissibili e in ogni caso affrontabili per il prof., che, quasi sicuramente, nella sua vita precedente era un S.S. Rassegnata, ti scusi e corri fuori a farti dare, firmare, timbrare un permesso temporaneo che verrà poi trascritto sul libretto e fatto firmare dai tuoi genitori. Maledetti cinque minuti di ritardo! La mattinata prosegue tranquilla, mentre il tuo cervello immagazzina centinaia di notizie interessanti come il fatto che
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Schopenhauer ritenesse che Hegel fosse un asino, dato effettivamente rilevante per la storia della filosofia… Ad un tratto, però, l’equilibrio all’interno della classe si interrompe, si vivono attimi drammatici, molti cominciano persino a pregare: il prof. ha aperto il registro perché “ha bisogno di voti”. Questa strana esigenza da parte dei prof. è in assoluto la cosa che di certo li rende meno simpatici. Nella classe è piombato il silenzio fino a quando non viene fatto un nome: il tuo. Mentre i compagni tirano un sospiro di sollievo, capisci che è troppo tardi per aprire il libro e dare un’ultima sbirciata, oppure fingere uno svenimento improvviso. Solitamente le interrogazioni iniziano con una frase tipica:” Dimmi tutto quello che sai su…”. A questa domanda segue sempre un lungo silenzio, dato paradossalmente eloquentissimo sulla profondità delle conoscenze di quell’argomento da parte dello studente, che pur è dotato di una capacità che purtroppo crescendo si perde: la fantasia. La maggior parte degli alunni integra le scarse conoscenze con ingegnose trovate, con discorsi che si avvicinano allo stile di una conferenza piuttosto che a quella di un’interrogazione, e così riesce a sopravvivere, portando a casa la tanto aspirata sufficienza. Tale incredibile dote incredibilmente si affina proprio durante gli anni delle superiori. La campanella di fine ricreazione è suonata ed io sono ancora bloccata qui in bagno, per merito delle ‘graziose ragazze’ che hanno ritenuto fondamentale aprire un comizio su “quanto è bono il tipo di 5C”, bloccando così la circolazione. Rinunciando ad espletare i miei bisogni, corro in classe, dove mi attende un interrogatorio degno di un poliziesco. La prof. mi interroga, questa volta però senza voto, sul mio ritardo. Cerco di spiegarmi, ma ricevo come risposta che lei è riuscita a mangiare e contemporaneamente a fare la strada per arrivare a scuola. Mi sembra superficiale spiegarle che a me fa schifo mangiare in bagno. Mi scuso nuovamente e torno al mio posto.
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Lì trovo la mia compagna di banco, senza la quale, a volte, penso che non riuscirei a sopravvivere: i compagni di classe sono infatti una sorta di zucchero che fa sembrare la scuola meno amara. Ritengo sia utopistico e forse un po’ ipocrita generalizzare a tutta la classe la propria simpatia, perché, su venti persone, qualcuna di particolarmente sgradevole ci dovrà pur essere, però queste venti persone condividono con te cinque ore al giorno, sei giorni alla settimana, per nove mesi e per cinque anni e, se tutto va nel migliore dei modi, diventa quindi scontato che il legame che si crea è inevitabilmente forte. Molto spesso tra compagni c’è complicità, in quanto si è tutti sulla stessa barca e l’aiuto reciproco è un buon salvagente a cui aggrapparsi in caso di necessità, ma spesso tale situazione si può trasformare in rivalità spietata, degna di una vera e propria competizione agonistica. La causa di ciò, spesso accompagnata dalle attenuanti della stanchezza e della fatica, sono i famosissimi voti, veri protagonisti del sistema scolastico. Stranamente questi appaiono a noi studenti nella maggior parte delle volte sbagliati, ingiusti e dati con una certa avarizia, come se il prof. dovesse pagare una tassa proporzionale al voto dato e così il piacere della conoscenza spesso svanisce di fronte a un numerino scritto in rosso. L’ultima ora passa con una lentezza inaudita, quasi come se le lancette, distrutte anche loro dalle cinque ore di agonia, avessero deciso di andare pianissimo. Finalmente l’ultima campanella suona e tutti corrono fuori dall’edificio scolastico, con una rapidità mai vista, nemmeno nelle sporadiche ‘simulazioni di evacuazione’. Il mio passo si fa sempre più veloce, perché è in atto una vera e propria fuga contro il tempo. Arrivo accaldata e sfinita in stazione, mentre vedo il treno del ritorno partire senza di me. Con lo stomaco che brontola, la testa che urla, il cuore che pulsa, mi siedo sulla fredda panchina della stazione, in compagnia del concerto del mio corpo e dei miei compagni di viaggio, visibilmente distrutti.
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Il ritorno è silenzioso e raramente intervallato da commenti sulla giornata appena trascorsa. L’arrivo a casa consiste in un conciso resoconto della mattinata ai miei genitori; più che un racconto, in realtà sembra un bollettino di guerra. Un breve pasto, consumato voracemente come se non mangiassi da giorni, e poi finalmente mi abbandono sulla poltrona, tacita amica che mi abbraccia nel suo tepore e mi addormenta, ripulendo la mia stanca mente. Tale beatitudine viene però interrotta verso la tre dalla sveglia, che mi ricorda il mio appuntamento con lo studio pomeridiano. Arriva, così, velocemente, tra i compiti di italiano e il ripasso di biologia, l’ora della cena e della televisione, spesso seguita da un bagno rilassante durante il quale mi cimento nelle mie doti canore. Ed infine ecco la notte e con essa l’ora del ripasso prima di andare finalmente a dormire. Anche la casa dorme e solo dalla cucina si sente una flebile voce che ripete per l’ennesima volta dati essenziali per il compito del giorno seguente. La mia voce è l’unica compagna, il mio cervello l’unico che capisce di cosa stia parlando. Sorrido, pensandomi in quella circostanza, a parlare da sola come se fossi matta. Sospiro, chiudo i libri, stanca di sentirmi ripetere le stesse cose e chiudo anche la cartella. Allora guardo il grande orologio della cucina e capisco che è tardi.Forse no, non è tardi: è solo troppo presto perché inizi un nuovo giorno. Meglio che vada a dormire. Lisa De Flumeri, 5BS SCRITTURA NOTTURNA Un foglio bianco fa molta più paura di un grosso libro sul quale ogni giorno bisogna passare le ore a studiare. La domanda sorge spontanea: “ perché?”.
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Me lo domando ancora, mentre a fatica tento di superare questa mia avversione di fronte al foglio che ho davanti: “Quale è la distinzione fra confidarsi e confessare? La sottile convinzione di un costo da pagare.” (Canzone dei Nomadi). Trovarmi faccia a faccia con un foglio bianco è una tentazione a lasciarmi andare...con il rischio di incappare in qualche verità sgradevole che non oso confessare perché può rivelare quello che non so di essere e di sentire. È la scrittura notturna, quella dove a volte posso trovarmi, senza averlo programmato, faccia a faccia col volto terribile della vita, con una componente ignota di me stessa. I miei pensieri si riversano incalzanti sul foglio bianco, aggredendolo con la loro fretta di emergere e la loro straordinaria ed inesorabile verità. Questo continuo rifuggire l'atto di scrivere non ha fatto che peggiorare le cose. La paura di vedere i miei pensieri delinearsi e prendere forma, di rileggerli e doverne perciò prendere atto: ogni parola si staglia imponente e sembra poi riecheggiare in continuo all'interno della stanza... È come in una notte d'estate. Fuori impera il temporale e io, dal mio giaciglio sicuro, affido i miei pensieri al vento, senza prenderne consapevolezza, liberandomi da ogni preoccupazione e senza necessariamente doverla affrontare. E il vento soffia forte. Lui non sembra arrancare, nonostante il peso di ciò che gli ho affidato; impone la sua voce e non è altro che un canto. Un lampo, uno squarcio in cielo e nella mia anima. Tutto riacquista concretezza: la stanza, le pareti, i mobili, i quadri ed io. Un tuono e tornano anche i miei pensieri. È notte, il ricordo di un vecchio film attira la mia attenzione. Audrey Hepburn apre le finestre di un terrazzo e la sua figura si staglia sulla Parigi degli anni '50, poi siede alla scrivania e comincia a scrivere: “È notte e qualcuno qui attorno sta suonando ‘La vie en rose’, la maniera francese per dire ‘sto guardando il mondo con degli occhiali colorati di rosa’, ed è proprio così che mi sento,[...] qui ho imparato una
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ricetta molto importante, ho imparato a vivere e ad essere parte di questo mondo senza restare in disparte a guardare, sta pur certo che non la sfuggirò più la vita, e neanche l'amore.” La sicurezza di tali parole, la loro semplicità nel sintetizzare i tanti sentimenti che comporta il ‘crescere’ suscita in me invidia e ammirazione. Devo ancora trovare la mia personale ricetta e al momento vedo solo una ragazza insicura, che passa la maggior parte del tempo sui libri, per colmare i limiti di quella grande intelligenza che tutti le attribuiscono. A chi si è montato la testa si dice che a cadere da un piedistallo troppo alto ci si fa male; a chi senza volerlo nemmeno si è trovato a camminare su una corda tesa ad un'altezza inimmaginabile cosa si dovrebbe dire? Fra la generale ammirazione, qualcuno se l'è mai chiesto se soffra o meno di vertigini? Ebbene sì: nonostante mi piaccia andare bene a scuola e talvolta anche primeggiare, io soffro di vertigini e me ne starei volentieri seduta comoda fra il pubblico a godermi lo spettacolo senza tante preoccupazioni, limitandomi a svolgere il minimo indispensabile! Invece, per non deludere gli altri e le loro aspettative, sono chiamata a dare sempre il meglio di me stessa, a raggiungere un determinato voto. Quello che mi dà fastidio è il fatto che solo pochi sanno capire che ‘i voti’ sono prima di tutto delle persone; per quel nove o per quel sei, qualcuno ha lavorato e qualunque sia il numero, esso ha, su chi lo ha ricevuto, inevitabilmente un peso. Nel mio viaggio quotidiano, questi numeri hanno un ruolo molto importante e così talvolta ho la sensazione di non studiare solamente per me stessa, ma anche per gli altri che poi mi giudicano: non solo i professori, ma anche i genitori, i parenti, gli amici… Intanto il tempo trascorso sui libri a studiare mi sottrae ad altri interessi, ugualmente importanti per il mio avvenire.
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Ho paura di allentare il ritmo perché temo le possibili reazioni, eppure la tentazione è grande: perché non restare in disparte e godermi la vita? Studiare fatti lontani, argomenti distanti e noiosi mi sembra talvolta inutile e abbandonerei volentieri quei grossi manuali per uscire con gli amici, disegnare, fare l'inventario dei ricordi sulla scia di una canzone o per rifugiarmi in un bel romanzo. Allora mi chiedo se il mio attuale atteggiamento sia giusto: cosa conserverò un domani di questi anni passati a studiare per compiacere gli altri e me stessa e solo raramente con la volontà di farne tesoro? Nessuno può dirmi ora come sarà il mio futuro, ma io so già per certo che sarà l'insieme di tutte le esperienze di questi miei anni, dal momento che noi, come qualunque luogo, siamo tempo rappreso. “Un luogo non è solo il suo presente, ma pure il labirinto di tempi ed epoche diverse che si intrecciano in un paesaggio o lo costituiscono, così come pieghe, rughe, espressioni scavate dalla felicità o dalla malinconia non solo segnano un viso ma sono quel viso che non ha mai soltanto l'età o lo stato d'animo di quel momento, bensì è l'insieme di tutte le sue età e gli stati d'animo della sua vita” (Claudio Magris, L'infinito viaggiare). Devo tale consapevolezza ad uno splendido romanzo e, perché no, a chi prima di me ha avuto la fortuna di scovarlo e me l'ha consigliato. Il fatto di non aver trovato questa grande verità in un libro di scuola appesantisce ancor più la mia angoscia. Ho paura: paura di abituarmi troppo a navigare sul blu oceanico dell'atlante, piuttosto che su quello delle onde di un vero mare; di sacrificare il sapere ad un voto e non conservare niente. Se fossi inconsapevole di tutto questo, forse sarebbe più facile. Queste pagine mi sono servite ad affrontare paure nascoste, celate nel profondo del cuore. Tutti noi dovremmo ogni tanto abbandonarci alla scrittura notturna, che poi è sinonimo di viaggio.
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Nella nostra vita, che è insieme viaggio nel tempo e nello spazio, dovremmo sempre rimanere disponibili a digressioni, soste, deviazioni, senza perciò sentirci in affanno per aver tralasciato per un momento il nostro dovere, perché affrontare la strada considerando la sue possibili alternative è il miglior modo per attraversare il mondo facendone reale esperienza. Sento il vento che soffia e sbuffa fuori dalle finestre…Sembra sia venuto a cercarmi. Questa volta non ho niente da affidargli, perché tutto ora è in questi fogli che prima mi sembravano così ostili e che ora, a riguardarli bene, ritraggono il mio volto. Penso allora che solo lui li saprebbe sfogliare, con la delicatezza e l'eleganza che conserva anche nella bufera. Ma ora è inverno: nessun lampo, nessun tuono, e se anche ora dovesse alzarsi un temporale, non avrebbe più il potere di farmi vacillare. Questa volta non ho incaricato il vento delle mie paure, ma sono qui, scolpite dall'inchiostro e perciò concrete e non sembrano più degli ostacoli così difficili da superare. E così mi tuffo sul morbido cuscino, addormentandomi con la consapevolezza di aver trovato anche io, finalmente, la mia personale ricetta: vivere ogni attimo senza sacrificarlo al futuro o annientarlo in progetti e programmi. Vivere per vivere e non per aver già vissuto! Angela Florean, 4CL IL PROBLEMA CHE PIÙ SPESSO MI ASSALE (Aforismi in libertà). Il problema che più spesso mi assale è l’incertezza del mio futuro, non sapere cosa sia veramente giusto per me: vorrei andare all’università, rendere felice mio padre che tanto sogna una figlia laureata, e rendere felice anche me, sentirmi realizzata… ma non so se è davvero questo che voglio.
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Sarò all’antica e forse anche un po’ sciocca, ma non mi dica anche lei che sognare d’avere una famiglia è da falliti, perché so che voglio diventare madre e cullare una tenera creatura fra le braccia, allattarla, pulirla, cambiarle i pannolini, passare qualche notte insonne a causa dei suoi strilli, ridere quando mi sorriderà, piangere quando mi chiamerà per la prima volta mamma… Sento d’avere così tanto amore in corpo, che a volte mi sembra di esplodere! Avrei tanto voluto essere la Lotte di Werther: il soggetto d’un amore tanto forte e passionale da parte di un uomo affascinante… Temo che la mia passione per la lettura possa essere uno svantaggio per ogni ragazzo interessato a me: come potrò innamorarmi di qualcuno finché il mio cuore sarà pieno di figure così inavvicinabili? Sicuramente il Romanticismo mi ha fin troppo affascinata, contagiandomi: passione, orgoglio, impeto, amore… Sono forse destinata a rimanere sola? Ecco… ora lei mi rimprovererà perché sono uscita dall’argomento. Ebbene: almeno per questa volta lei non ha nessun potere: sto scrivendo quello che il mio cuore mi detta, senza un ordine preciso, prestabilito; ed è meglio così, altrimenti non riuscirei a spiegarle con chiarezza ciò che provo. La scuola di certo non mi aiuta: voi professori vi ricordate che dovete consegnare i voti spesso in ritardo e fissate interrogazioni, verifiche e prove all’ultimo minuto, tanto che comunque raramente riuscite a correggerle in tempo. Pensate che la vostra materia sia sempre la più importante e pretendete che noi studenti ci ricordiamo ogni minimo dettaglio: mi stupisce che non ci chiediate anche quanti capelli avesse avuto in testa il buon caro vecchio Ungaretti quando è morto…Penso a lui perché è forse uno degli autori preferiti da noi studenti! Una delle poche cose che mi coinvolgono a scuola è la ricerca di termini caduti in disuso della lingua italiana. Io e la mia compagna di banco abbiamo trovato un’affascinante occupazione, ossia scrivere elenchi di parole.
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C’è l’elenco sopra citato, ma anche quello delle parole onomatopeiche, quello delle parole che suonano bene, quello delle parole che fanno ridere, quello dei prodotti che ormai hanno acquisito il nome delle marche che li sponsorizzano (ad esempio Scottex o Rimmel) e infine l’elenco dei modi di dire che non vorresti mai fossero a te rivolti, “settore” nato nel nostro curioso “lavoro”. Ma era una parentesi, questa. Pascoli si rivolterebbe nella tomba, vedendo cosa siete diventati voialtri professori: dell’insegnamento avete fatto l’arma perfetta di distruzione di massa. Il fanciullino che era in voi dov’è finito? Probabilmente me la sto prendendo con la persona sbagliata, ma lei è forse l’unico disposto ad ascoltare noi studenti, anche se mi vedo costretta a dar ragione alla mia compagna di banco, quando dice che ci fa ricordare troppe date che in ogni caso cancelleremo finita la scuola. Solo la data di morte di O. Wilde ci rimarrà impressa nella mente: 1900. Almeno quello è morto in un anno tondo! Anna Mores, 5BS
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VOLTI Il collega professore ha appena esposto in Collegio docenti il progetto che vuole offrire agli studenti del “M. Belli” l’opportunità di esprimersi ed essere ascoltati senza la preoccupazione del voto. “Bello” - penso fra me - “spero che qualcuno ne approfitti per scrivere” e il pensiero s’accorda ai volti di ragazze e ragazzi e rimanda alle anime e ai paesaggi. Volti come paesaggi che riconosco nel saluto la mattina o che mi si presentano nuovi, che mi soffermo ad osservare, quasi a voler coglierne l’anima. Volti come paesaggi che capita di esplorare in una conversazione in classe o nei corridoi, che cerco di decifrare nelle poche battute o nei molti silenzi. Volti come paesaggi che sfuggono al ritratto, che gusti per un attimo, che cerchi di comporre in un quadro definito, che mostrano il farsi di persone nuove. Volti come paesaggi da cogliere e gustare più spesso perché vi fiorisca una relazione educativa generosa. Prof.ssa Graziella Bellomo Docente di Religione SBUFFO E MI LAMENTO Caro diario, sbuffo e mi lamento se devo fare i compiti di italiano. Li faccio controvoglia e provo invidia nei confronti di quelle compagne che scrivono testi bellissimi che mi commuovono e che sembrano sinfonie di parole. Mi chiedo: “Perché non ci riesco anch'io? Cos'è che mi blocca? Riuscirò un giorno a scrivere qualcosa di veramente bello da rendermi orgogliosa e farmi capire che sono anch'io allo stesso livello di tutte le altre?”
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Ma non è solo questo che mi preoccupa. Certe volte mi verrebbe da mollare tutto. Di sera vorrei distrarmi un pochino, magari leggere solo tre pagine di un libro scelto da me, ma non posso, non riesco a trovare il tempo, perché devo studiare per le verifiche del giorno seguente e, nonostante spesso abbia mal di testa, non importa; continuo a studiare sopportando il dolore. Finirà? Silvia Casonato, 3BS UNO STUPIDO VOTO Molte sono le cose che vorrei dire, ma è difficile trovare le parole giuste, specialmente per una che, come me, non ama scrivere. In queste righe sarò sincera, perché questa è la prima opportunità che mi viene data di dire quello che penso senza essere giudicata. Stare a scuola dovrebbe essere una cosa tranquilla e serena, invece tutto viene rapportato ad uno stupido voto finale; un voto che però non racconta mai le sofferenze e i sacrifici fatti da noi studenti. La cosa peggiore è studiare ed impegnarsi fino allo spasimo per una verifica e poi non essere premiati, né con una valutazione adeguata, né con una parola positiva da parte dell'insegnante. Tutto questo mi fa provare tanta rabbia. La scuola, sottoposta a continue rivoluzioni, sta perdendo il suo vero obiettivo: quello di preparare le persone ad affrontare la realtà. Sono arrivata a considerare la scuola come una entità diversa e contemporaneamente parallela alla mia vita, ma reagisco a tutto ciò con indifferenza; in aula sono infatti sempre taciturna, non disturbo mai e gli insegnanti
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probabilmente mi considerano una studentessa seria e tranquilla. Io non sono così, semplicemente… mi adatto. Anzi, sono obbligata ad adattarmi, perché la scuola è un sistema del quale anch'io faccio parte; essa è il frutto di una società malata, che ci obbliga all'istruzione forzata, condotta con mezzi inadeguati; a causa di tutto questo, quando sono a scuola cambio drasticamente e continuamente il mio carattere e mi tengo molte cose dentro, piuttosto che esprimermi liberamente. Quando qualcosa non mi piace, tendo a diventare aggressiva, rischiando così di dare il via libera ad un lato brutto del mio carattere; e allora cerco sempre di controllarmi e penso che, alla fine, tutto questo è solo…‘scuola’. So che è sbagliato questo modo di agire, ma è il solo comportamento che mi è concesso. Quello che mi colpisce e disturba è proprio la convinzione che hanno certi insegnanti di conoscerti e di conoscere sempre le causa di un brutto voto, quando in realtà… non sanno niente. Nel corso della mia carriera scolastica ho collezionato parecchie insufficienze che paradossalmente ricordo anche con piacere, in quanto ognuna ha rappresentato un problema da risolvere o segnava un periodo di stanchezza: situazioni che mi capitano frequentemente. Credo che i miei insegnanti non abbiano mai compreso questo. La fatica che sto vivendo in questo periodo a scuola non mi fa apprezzare nulla, perché non ho più tempo per me e sembra che i professori si dimentichino che davanti a loro ci sono esseri umani a volte stanchi che preferirebbero una lezione più attiva e con meno compiti per casa; il loro obiettivo è insegnare e quindi dovrebbero rapportarsi a noi e alle nostre esigenze per poter svolgere le lezioni in modo che siano capite da tutti. Non siamo solo noi a doverci sempre adattare a loro! In questi anni ho imparato a non provare più ansie e preoccupazioni inutili, perché ho capito che il lavoro e la fatica che mi sobbarco in questo periodo sono e rimarranno mie, come le soddisfazioni che ne derivano; infatti studio per me e
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non per guadagnarmi il giudizio positivo dei genitori o degli insegnanti. Il nostro è un mondo di lottatori e i riflessivi che si dedicano allo studio vengono messi da parte perché tutto gira attorno ai soldi e al potere; per vivere oggi è necessario essere decisi, svegli e soprattutto avere esperienza, cose che non tutti nella scuola hanno, in quanto i libri non possono insegnare come comportarsi in una società complessa come la nostra. Anonima LA FIGLIA CHE TUTTI VORREBBERO AVERE Molte volte vengo considerata la figlia che tutti vorrebbero avere, forse per il mio modo di comportarmi con la gente e il sorriso che cerco sempre di portare stampato in faccia. I miei genitori sono orgogliosi di quello che faccio e dell’impegno e della buona volontà che metto nelle mie azioni quotidiane. Cerco in ogni modo di non deluderli. Ma non sono contenta: mi sento limitata e, appena mi imbatto in un insuccesso, mi demoralizzo e non reagisco. Vivo male anche nella scuola… Sono in terza e ho passato tre anni piangendo e con la paura di non farcela a realizzare il futuro che ho sempre sognato. Molti professori hanno fiducia in me e ciò mi rende felice, ma questo non mi basta: il mio timore di deludere le persone a me care è troppo grande e fa sì che io non pensi a me stessa, ma abbia soprattutto paura degli altri. Ad esempio, fare un compito per il quale ho studiato tanto e prendere un’insufficienza è deludente per me, per i miei genitori e per certi prof. (non tutti, per fortuna!). Io so riconoscere i miei problemi scolastici, le mie difficoltà nell’affrontare i compiti, i miei vuoti di memoria improvvisi, la mia agitazione che non passa, il non capire più
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niente. Sono troppo apprensiva, è vero, ma non posso farci nulla! La più grande rabbia è studiare e non avere risultati. Mi arrabbio, divento cattiva con me stessa e mi domando perché non ce la faccio, perché non posso essere come quelle mie compagne a cui basta una sola lettura per memorizzare tutto. Poi capisco che sono fatta così e devo accettarmi per quello che sono. Devo imparare ad accettare i miei difetti, i miei problemi, le mie difficoltà. Anonima, 3BS
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LA FATICA All’inizio, quasi una sfida. Lavagna nera. Un segno bianco, quello del gesso. Una scritta. La mia. “Labor omnia vicit improbus”. Ho detto ‘la mia’, ma le parole, si capisce, sono Virgilio. Virgilio che parlava a noi. A noi adulti, a noi insegnanti, a noi educatori. Al ‘Dipartimento di Italiano’ in una delle tante riunioni d’inizio d’anno, quando, guardandoci negli occhi, tra una scartoffia e l’altra, siamo andati ‘alla sostanza’ (capita, qualche volta!) e ci siamo chiesti cosa fare perché i nostri studenti riscoprano interesse nei confronti delle nostre lezioni e nei confronti della scuola. (“Inter-sum”: sono in mezzo, c’entro, partecipo. Perché è solo verificando come quello che sto studiando c’entra con la mia persona che ne capisco il senso, altrimenti lo sforzo è percepito come inutile). E poi una sfida lanciata ai ragazzi. Altre lavagne. Altri segni bianchi nelle mie classi del triennio. Stessa frase. E domande schiette. “Cos’è la fatica, per voi?” “Che senso ha la fatica di alzarvi ogni mattina, venire a scuola, stare sui banchi, ascoltarci, studiare…?” All’inizio, stupore. Si percepiva nell’aria. Si toccava con mano. Si leggeva negli occhi quasi smarriti. “Ma come? Non dovevamo fare italiano, oggi?! È impazzita, questa qui?” E dallo stupore dei loro occhi di adolescenti capisci che quelle domande sono quasi scordate, come svela il termine nella sua etimologia: “tolte dal cuore”, con un’operazione che va contro natura, contro il livello più vero dell’io. Censurate. Come se qualcuno, più o meno esplicitamente, avesse fatto intendere che a scuola non fosse lecito porsele. Forse neanche più nella vita… E invece il cuore dell’uomo non è mai cambiato: i desideri e le domande sono sempre le stesse, perché nasciamo mendicanti di felicità, del bello, del vero, del giusto, dell’amore. Ma è difficile comunicare se stessi, dire ciò che si
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pensa, ciò che si sente dentro; dare un nome alle cose che avvengono nell’intimo. I loro occhi smarriti raccontavano perplessità. Pare impossibile -sembrava dicessero- che qualcuno, che ‘la prof.’ (una prof. ?!?) possa capire cosa proviamo VERAMENTE. Eppure… Eppure non c’è risposta ad una domanda che non si pone. “Factus sum mihi magna quaestio”. “Sono diventato una grande questione a me stesso”, diceva bene Sant’Agostino. Porci ‘quella’ domanda anche a scuola (sì: anche a scuola. E perché no? Vietato?), abbiamo capito che ci ha fatto bene. A loro, i nostri studenti, e a noi, i loro insegnanti. È emerso, nero su bianco, quel subdolo stato di “souffrance” (Leopardi, Zibaldone, 22-04-1826) che è nel cuore di ciascuno: giovane e adulto. (“Ma prof. Saro, lei è proprio fissata con Leopardi!”…) Ed è emerso, tra storie che raccontano dolore, stanchezza, fatica, inquietudine, speranza, che la vita è comunque attesa. “Ad-tendere”, un “tendere verso”. Prima balbettante, poi sempre più chiaro, man mano che leggi, capisci che il desiderio vero, profondo, dei ragazzi che hai di fronte ogni giorno non è ‘esistere’ ma ‘vivere’; che l’unica posizione dignitosa per un essere umano è quella di chi non smette di cercare: parte per il viaggio dell’esistenza, veleggia lungo il mare della vita e in acque spesso poco tranquille, ma ha lo sguardo sempre vigile, attento a cogliere indizi. C’è ‘febbre di vita’ in quelle frasi, in quei versi… A tutti ogni giorno è chiesto di superare ostacoli piccoli e grandi, è chiesto lavoro, è chiesta responsabilità, è chiesta…fatica. Ma da tanti testi abbiamo capito insieme che, quando la meta piano piano si fa più chiara, quando scorgi la luce fioca del faro, anche lontano, quella fatica sarà ricompensata. È opportuno dunque riappropriarsi del presente: l’unico tempo a disposizione che abbiamo per mettere in gioco l’io in azione; per sperimentare la corrispondenza tra quanto viviamo (anche a scuola) e il nostro cuore, la nostra esigenza di felicità. Un viaggio, si è detto. A scuola si viaggia insieme. In una comunità educante che dovrebbe essere formata (ma lo è?!)
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da genitori e docenti che avvertono, indelegabile, la responsabilità nei confronti del ragazzo che hanno davanti, chiunque egli sia e qualunque sia il suo destino. Perché, ancora prima di un ‘mestiere del fare’ (e quel gergo tanto caro alla scuola fatto di ‘certificazioni’, ‘conoscenze’, ‘competenze’, ‘capacità’… e la lista sarebbe ahinoi interminabile…) questa comunità educante, SOPRATTUTTO OGGI, è opportuno che si interroghi su qual è la necessità prima di un essere umano che sta diventando adulto. L’aveva ben detto Pavese. Impossibile dirlo meglio. Il ‘mestiere di vivere’. Ma l’educazione a scuola si fa se la scuola ha questa preoccupazione. Se ha come preoccupazione fondamentale l’istruzione, lo studente FA ma non E’. E le sue domande restano compresse in una pentola a pressione che sempre più rischia di scoppiare. Gli esempi, tristissimi, ti feriscono gli occhi ogni giorno sui quotidiani. Tu sei preso (distratto?) dai programmi, dalle riunioni, dalla burocrazia, mentre la richiesta forte che si fa strada dagli scritti dei tuoi allievi è di un volto che si occupi di ciascuno, nella sua meravigliosa specificità; che gli tenda la mano, che gli faccia capire “perché vale la pena”. Che durante questo pezzettino faticoso ma affascinante del viaggio: la scuola superiore, quel volto adulto sia con lui, condivida quel tratto di cammino, dia forza e coraggio, sostegno e fiducia, amore e speranza. La parola “speranza”, in ebraico hatiquà, contiene la radice ‘qaw’ che rimanda ad una corda tesa tra due poli. Per l’ebreo, solo chi sa restare agganciato al passato vive pienamente nel presente ed è in grado di proiettarsi con speranza nel futuro. Ecco allora che l’esperienza diventa capacità di capitalizzare gli errori, di metterli a frutto, perché si diventa saggi andando oltre la singola prestazione; imparando da ciò che accade. Anche un’esperienza dolorosa, anche un brutto voto, anche una frustrazione, una sconfitta, il senso di inadeguatezza… E così, lette queste pagine, capisci che il tuo ruolo non è solo trasmettere insegnamenti, per quanto rigorosamente
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impartiti; capisci che la ‘cultura’ non è solo ciò che sai, ma prima di tutto ciò che sei: la posizione di fronte a te stesso e di fronte alla realtà (e la cartina di tornasole è che, se, tu adulto, hai il coraggio di guardarti indietro, se è rimasta traccia nella tua vita dei ricordi di scuola, di quando sui banchi c’eri tu, la traccia è il contorno di volti che sapevano comunicare se stessi, il proprio modo ‘appassionato’ di spiegare la loro materia, rendendo ragione di quella loro passione, ma soprattutto il loro modo di vedere la realtà. Con uno sguardo ‘buono’ sulle persone e sulle cose. Ma anche con capacità chiara di giudizio). E così capisci che un’emergenza educativa c’è, esiste. È nei volti, negli scritti dei ragazzi della nostra scuola. Quelle facce lì. Nomi e cognomi. Perché educare è “e-ducere”: tirar fuori, sviluppare, portare a compimento. Favorire ANCHE a scuola gli aspetti presenti nella personalità di ciascuno: quelli fisici, affettivi, intellettuali, morali, spirituali. Ce l’hanno chiesto in punta di piedi, facendoci arrivare timidamente, talvolta anonimi, i loro testi. Qualcuno l’ha gridato. “Sono io: ti dico il mio nome, il mio cognome, la mia classe. Non ti puoi sbagliare. Sono inconfondibile. Guardami! Sono unico e irripetibile”. E noi? Si può fare di tutto per i ragazzi, ma allo stesso tempo si può rimanere distanti da loro in modo abissale. Una sfida, dicevo. Per i ragazzi: guardare con coraggio dentro il loro cuore, senza censurare nulla. Per noi adulti: essere compagni di viaggio, con la consapevolezza di aver camminato un po’ di più, di aver consumato qualche suola in più. E poi cercare di ascoltare, perché non c’è esperienza più bella e più utile di un’amicizia che abbia a cuore il Bene di chi abbiamo di fronte. Per tutti, insieme, la forza di pensare che domani varrà la pena di essere vissuto, non permettendo che scivoli come acqua tra le dita e, ancora insieme, il desiderio di lasciare questo mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato. Prof.ssa Luisella Saro Docente di Italiano e Storia
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NON È SOLO FATICA La fatica. Nemica inesorabile da eliminare perché tenta di ostacolarci, oppure amica franca, fino alla brutalità, che ci fa del male per renderci più forti? In questo interrogativo, che è forse impossibile da sciogliere, è racchiuso, si può dire, il significato profondo della fatica. Basta del resto una semplice riflessione a farci riconoscere che il dolore è un attributo del concetto di fatica, e che questa è inestricabilmente associata alla vita. La sofferenza che essa ci procura è il prezzo da pagare per ottenere qualsiasi cosa, se è vero che senza un minimo sforzo non si ottiene nulla Probabilmente il mondo non sarebbe tale, se la fatica o il dolore, la gioia, la felicità non esistessero. Accettando la realtà che con la fatica dobbiamo fare i conti, saremmo forse meglio disposti ad ascoltarla e ad accettarla come parte integrante della nostra vita, prima di condannarla. Non c’è gioia senza dolore, non c’è vita senza morte, non c’è piacere senza fatica. Sono due lati di una stessa moneta, che non potrebbero esistere l’uno senza l’altro. Così, imparando a convivere con la fatica e non tentando di evitarla, si riuscirebbe a godere di un’esistenza più serena e, per assurdo, non ci peserebbe sapere che dietro ad ogni conquista si celano una serie di fatiche. Il messaggio spesso prezioso che la fatica ci invia contribuisce a rafforzare l’ormai debole capacità umana di apprezzare le cose. Anche le più piccole. Sofia Vizzon, 4AL
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CHE FATICA! Dal lavoro allo sport, dalla gioia al dolore, la fatica è sempre presente nella vita dell’uomo. Ogni giorno, se si vuole raggiungere un obiettivo, si deve lottare, ci si deve sacrificare per svolgere al meglio il proprio dovere. Al contrario degli anni passati, oggi, accanto alla fatica fisica, si affianca quella mentale. A causa delle continue innovazioni, la vita dell’uomo è più frenetica, la società è cambiata. L’uomo è diventato più egoista: vuole essere al passo con i tempi e i beni che in passato erano considerati dei privilegi, ora sono ritenuti cose che tutti possono avere. Di conseguenza, non riuscendo a rinunciare a tutto questo benessere, aumenta la fatica di arrivare a fine mese. Soprattutto nel mondo giovanile si assiste ad una sfida continua, perché i ragazzi non vogliono sentirsi inferiori ai loro coetanei; vogliono possedere le novità, le cose migliori e l’unico modo per soddisfare i loro bisogni è rivolgersi ai genitori, senza timore di ricevere un ‘no’, perché, pur di far felice il proprio figlio, mamma e papà sono pronti a qualsiasi sacrificio. Essere genitore è molto faticoso, perché spesso è difficile avere un dialogo con i propri figli, capire le loro esigenze e i loro problemi, essere presenti nei momenti di bisogno senza esser troppo oppressivi, far capire loro dove stanno sbagliando e ogni tanto dire quel ‘no’ che forse sarebbe opportuno. Nonostante ciò, diventare genitore è molto bello. Le visite di controllo, le continue preoccupazioni: quelle belle e quelle che impensieriscono; il travaglio… Non è semplice trascorrere nove mesi di gravidanza, ma questa fatica alla fine viene ripagata dalla nascita del proprio figlio che, in un lampo di luce, riesce a cancellare ogni tensione e a far ricordare solo i momenti di gioia. Però non sempre la nascita porta solo gioia. Alcune volte, infatti, il figlio può nascere con dei problemi. Accanto alla gioia compaiono dunque, angoscianti, le preoccupazioni del genitore, la fatica ad accettare e a far accettare una creatura che presenta degli handicap.
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Ma anche esser figli comporta delle difficoltà, soprattutto per i ragazzi che cercano di far felici i genitori e se stessi, ottenendo buoni risultati sia in campo scolastico che in quello sportivo. Anche in questo caso, il peso della fatica può esser alleggerito dalla forza di volontà che con grinta si cerca di mettere in campo per svolgere il proprio dovere. All’inizio, in qualsiasi ambito, non sempre la fatica e il sacrificio vengono ripagati con risultati che soddisfino, ma grazie all’impegno e alla costanza, alla fine si riesce a vincere e ad essere felici. Spesso qualcuno cerca di risolvere i problemi che incontra lungo il cammino seguendo la strada più facile. Di fronte al dolore non sempre si è capaci di reagire e si pensa che l’unico modo per far felice una persona ferma immobile nel letto di un ospedale, sia quello di staccare la spina del respiratore. La vita è un dono, un regalo che ‘qualcuno’ ci ha fatto e ha fatto ai nostri genitori, un dono che per certe persone è inutile, ma per altre è una cosa stupenda. Se siamo qui è perché ‘qualcuno’ sa che anche noi, pur piccoli in confronto al mondo, siamo utili, anzi indispensabili. Francesca, 4AL UNA DOMANDA DIFFICILE Cos’è la fatica per me? Qual è la mia più grande fatica? Non so bene perché, ma mi è difficile rispondere. In primo luogo, anche se mostro di essere sempre espansiva, in realtà sono una persona riservata e non mi piace rivelare i miei punti deboli; ed è questo il motivo, per l’appunto, per cui ‘faccio fatica’. Inoltre, tendo sempre a mettere gli altri prima di me, perciò, se penso alla fatica, mi viene in mente quella altrui, prima della mia, probabilmente perché cerco di visualizzare ogni mia fatica come qualcosa di passeggero e soprattutto di inevitabile. Dal
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momento che mia madre e mio fratello lavorano, sono io a dovermi occupare di molte cose che riguardano la gestione della casa, come la spesa, le pulizie, far da mangiare... Sarà per l’abitudine, ma questo non mi secca più di tanto, perché lo ritengo il giusto contributo alla vita familiare. Il problema della fatica si pone quando penso al diario, che sembra urlare da dentro lo zaino, con le pagine fitte di esercizi da fare e le verifiche imminenti. Eppure, neanche lo studio risulta essere una fatica, perché se rinuncio a due ore di sonno o ad una passeggiata con le amiche, penso che la domenica mi verrà in aiuto per recuperare il riposo e lo svago. Il punto è proprio l’organizzazione del tempo: specialmente d’inverno, le giornate scorrono praticamente sempre uguali e sembrano talmente corte da non lasciarmi il tempo per fare tutto. A parte questo, mi pare di faticare come qualunque altra diciassettenne: fatico a combattere contro la mia natura impetuosa, ad accettare chi ‘rompe le scatole’ o non si fa gli affari propri e a volte sento di sbagliare a tenere la lingua fra i denti e a non rispondere per le rime. Fatico nel tentativo di aiutare le persone a cui tengo di più e soprattutto nel non ferirle. Alle volte mi creo problemi inutili, o mi chiedo troppo spesso se c’è qualcosa da cambiare in me. Probabilmente sto cercando qual è il mio posto nel mondo, il senso delle cose che faccio. In conclusione, credo di affrontare abbastanza bene la fatica, perché sto imparando a gestirla e soprattutto posso contare sull’educazione che mi è stata data e sulla convinzione che, prima o dopo, la fatica viene premiata dalla soddisfazione e dal sentirsi realizzati, e che, inoltre, essa è un valore che nobilita la persona. Anonima
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UN GESTO PER CAPIRE CHI SEI Cara Vera, (anche se non so più se davvero mi convenga usare questa forma di cortesia…). Sono giorni, ormai, che tento di scriverti una lettera, ma non ci riesco. Mi sembra troppo faticoso. Primo perché non ho ancora capito la situazione (proprio non riesco a capacitarmene!), secondo, non riesco a comprendere cosa ti abbia spinto ad agire come hai agito. Ti scrivo per dirti quanto sto male e vorrei tanto riuscissi a comprendermi… Forse posso capire che il fidanzato ti aveva appena mollata e avevi bisogno di consolazione, ma il fatto che tu abbia aiutato Anteo nella sua ripicca non mi aiuta a perdonarti e a capirti. A Capodanno ti avevo dato parola che se tu fossi venuta in montagna con me, allora avrei adempiuto alla mia promessa. Ti avevo spiegato quanto soffrivo per la perdita di Anteo e quanta voglia avevo di non rivederlo, ma dopo varie e insistenti volte che tu e lui mi avete chiesto di venire in montagna, ho deciso di avventurarmi il 31 Dicembre con voi e gli altri. Forse avrei fatto meglio ad ascoltare la mia razionalità che mi suggeriva di starmene a casa, ma non l’ho fatto e così il 30 siamo partiti in cinque in cerca del divertimento ai limiti dell’assurdo in montagna. Arrivati a Ravascletto, ho percepito da subito che la situazione era abbastanza strana e tesa, ma è andata bene fino alla fine dell’anno; poi (ed è soprattutto questo ciò che ancora fatico a capire…) dal primo dell’anno in poi, tu e quella *** di Anteo vi siete messi d’impegno per farmi imbestialire, ingelosire, per farmi male. Dato che ti sentivi sola, avvertivi la necessità di flirtare con lui.
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Beh, se lo scopo vostro era quello di ingelosirmi, ci siete riusciti solo in parte… Il viaggio del ritorno per me è stato uno schifo: sono rimasta un giorno intero a fare da terzo incomodo tra le due coppiette. Scusa, ma non so come andare avanti… Misurare le parole per non offendere o essere troppo pesanti è davvero faticoso. Il culmine del vostro subdolo giochetto amoroso è stato nel viaggio in corriera da Casarsa a Portogruaro… Finalmente in me iniziava a sfogarsi quella che era stata una vera e propria rabbia suicida, sotto forma di cristallini salati di frustrazione: le lacrime. Ho chiamato mia madre, felice di sentire finalmente una voce rassicurante preoccupata per sua figlia. Arrivati a Portogruaro, ero finalmente felice di scendere da quel dannato autobus e rifugiarmi nel mio angolo di solitudine. La sera in cui sono tornata a casa ero talmente sconvolta che, dopo aver pianto a dirotto e raccontato a mia mamma ciò che mi era successo, me ne sono andata a dormire, afflitta e senza capire il senso di ciò che avevo subito. Per fortuna le mie sorelle non erano lì a vedermi in quell’attimo di debolezza… Di una cosa, però, ero certa: io, giudicata fredda, perfida, impulsiva, insensibile e senza cuore, ero totalmente disperata; e lo sono ancora adesso, poiché non riesco a trovare un modo per liberarmi da ciò che è successo. L’indomani ho domandato ad Anteo perché mi avesse chiesto di andare in montagna se aveva in mente di trattarmi come una pezza da piedi… Certo: da lui che è uno stupido non potevo aspettarmi qualcosa di intelligente! Da te, però, una delle mie due migliori amiche, non avrei mai immaginato un comportamento del genere… Sono profondamente e incommensurabilmente delusa… Se fossi stata in te, non avrei mai preso gli ‘avanzi’ degli altri, solo perché avevo un problema di cuore; non lo avrei fatto
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proprio per principio: sono dell’idea che ciò che lasciano gli altri non va raccolto per rispetto. Non so se mai supererò la cosa, ma so che sono una persona forte: CIO’ CHE NON MI UCCIDE MI FORTIFICA. È come la quiete dopo la tempesta: prima ero frustrata, ora capisco, sono più serena. Non ho perso nulla. Se potessi tornare indietro, ascolterei il mio buon senso e la razionalità. Ora posso solo dire che ciò che hai fatto mi ha reso cosciente di come sei veramente… Cassandra, 4AL LE DIFFICOLTÀ DELLA VITA Caro diario, in questo momento della mia vita sono molto triste e spesso tendo a chiudermi in me stessa, con il rischio di non interagire più con le altre persone. Rifletto molto sui miei comportamenti, ma non riesco a capire perché sto diventando così introversa. Faccio fatica a svegliarmi alla mattina e ad andare a scuola; non riesco più ad esternare i miei stati d’animo e i miei problemi ai miei genitori; quando studio non sono concentrata, penso ad altro. Penso che sia tutto tempo sprecato e che potrei impiegare le mie energie in qualcosa di più utile alla mia esistenza. Alla fine mi rendo conto che per adesso questo è il mio lavoro e che, anche se studiare è faticoso, c’è sempre qualcosa da imparare, che anche lo studio contribuisce a costruire la mia personalità ed amplia le mie conoscenze. Tanti sono i sacrifici che devo compiere ogni giorno, come parlare con persone con cui non ho instaurato un ottimo rapporto, o aiutare mia nonna che ormai è anziana e troppo stanca per poter provvedere autonomamente alla propria sussistenza.
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Già solamente vivere sta diventando una fatica enorme. Spesso penso che, se sparissi, sarebbe tutto più semplice e non avrei problemi. Tuttavia, sono pienamente cosciente che la vita è un dono e che è una sola; per questa ragione cerco di sfruttare al meglio il mio tempo e di godere ogni istante che posso, senza trascurare i miei affetti e le mie passioni. Vorrei tanto che la vita fosse più facile, che tutti capissero le mie esigenze, ma mi rendo anche conto che al mondo non esisto solamente io e se pretendo di essere ascoltata, devo anche saper ascoltare, cosa che per me è assai faticosa, in quanto talvolta mi accorgo di essere egoista ed egocentrica. Quando rifletto sul mio modo di relazionarmi agli altri, mi rendo conto di non avere un bel carattere e faccio fatica ad individuare quali sono i miei errori, tuttavia, alla fine, riesco sempre a modellare la mia personalità e il mio comportamento a seconda del luogo in cui mi trovo e delle persone che frequento. Questo cambiamento continuo della mia personalità mi porta a compiere ogni giorno degli sforzi, come fingere di essere un’altra persona, solamente per essere accettata all’interno del gruppo, oppure cercare di contenere le mie emozioni, per paura di essere derisa dai miei coetanei. Riuscire a muoversi in maniera corretta nella fase dell’adolescenza è un’impresa assai ardua e comporta una serie di sacrifici e di sforzi che per gli adulti possono essere banali, ma che per i ragazzi non lo sono affatto. Per esempio, essere condizionata dai giudizi degli altri e dai pensieri che determinate persone possono avere riguardo ai miei comportamenti non fa altro che diminuire la mia autostima e aumentare la mia insicurezza, ed è proprio questa incertezza e questa pressione psicologica che gli altri esercitano su di me, che caratterizza la fase adolescenziale, nella quale tutti i ragazzi, compresa la sottoscritta, si ritrovano ad essere più fragili ed esposti alle difficoltà della vita. Non lo so se capirò mai perché bisogna fare fatica per ogni cosa, però sono convinta che i sacrifici sono indispensabili,
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innanzitutto per avere una vita migliore in futuro e anche per raggiungere i propri obbiettivi. Nonostante ciò, non nascondo che sceglierei volentieri la via più breve e più facile, perché so cosa vuol dire essere stressati e nervosi e rientrare a casa la sera senza parlare con i propri cari. Vivo personalmente queste cose ogni giorno e solo ricordarle mi fa stare male, perché il tempo che non trascorro con le persone a cui voglio veramente bene, so che non lo recupererò mai più. Anonima LA FATICA NEL CAMMINO Chiunque, durante il percorso della vita, prova fatica. Con il termine ‘fatica’ non si intende in questo caso la fatica di una partita a pallone, o di una qualsiasi altra attività fisica, ma la più temuta e pericolosa fatica: quella morale. È una sensazione che caratterizza solo gli esseri umani. Basti pensare alle difficoltà che può provare una persona timida a relazionarsi con altra gente, o le difficoltà che soprattutto gli adolescenti provano nel cercare di instaurare un dialogo all’interno delle mura domestiche. Tutti proviamo il sentimento della fatica, anche se in forme, sfumature e per motivi diversi. Diversa è anche la tattica di difesa con la quale ognuno cerca di contrastare la fatica. Il paradosso è che anche quando si cerca di contrastarla, si finisce con l’incontrarla di nuovo, perché la fatica più grande è proprio…difendersi da essa, perché alla base di qualsiasi fatica, che possa sembrare banale o meno, c’è quella enorme, che consiste nel riuscire a dare un senso alla propria esistenza. Spesso ci si pone domande su proprio destino, sulle scelte fatte in passato le cui conseguenze si vedranno col passare degli anni. Ed è nel cercare di rispondere a queste domande
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che ci si accorge che il vero sforzo è quello di trovare la propria strada e, così, riuscire a vedere un senso nella nostra esistenza. Trovare un senso alle cose non è però né una cosa semplice, né immediata. Davanti alla morte di una persona cara si fa fatica a riuscire a dire che essa ha un significato. In queste circostanze si è presi dal dolore e si pensa più a un’ingiustizia che a trovarvi un senso. Forse la vera forza delle persone è proprio questa ed è racchiusa nella capacità di riuscire, di fronte ad ogni anche piccola situazione della vita, a trovarne il senso; che sia personale e unico, importante per se stessi, utile per avvicinarsi alla scoperta del senso di TUTTA la vita. Durante la crescita e la maturazione si incontrano fatiche di ogni tipo, come ad esempio quella di chiudere capitoli passati della propria vita e di guardare al futuro con altre prospettive, con speranza. L’abilità di superare e sconfiggere il sentimento della fatica porta a un senso di stabilità e gratificazione interiore enorme: vedere i propri obbiettivi raggiunti, dopo mesi o anni di sacrifici, riuscire a capire quale sia la scelta giusta per il futuro, quali le amicizie sincere e quali i comportamenti da tenere con le persone, rilascia nell’animo umano una tranquillità e una serenità che rende la persona in grado di guardare la vita con occhi diversi. La fatica di rialzarsi dopo degli sbagli e delle sconfitte vale la pena di essere sofferta. Provando fatica, si riuscirà a capire il senso dell’esistenza e ad apprezzare così la vita in tutti i suoi aspetti, sia positivi che negativi e, soprattutto, si avrà la forza per andare avanti. Anonima
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IL PASSO NECESSARIO Caro diario, siamo agli sgoccioli delle vacanza natalizie e il mio solo ed unico pensiero sono i compiti. Come ogni anno mi sono ridotta all’ultimo momento. In particolare sono preoccupata per il testo riguardo la fatica. Ho cercato qualcosa che mi ispirasse, ho letto la definizione sul dizionario, ho leggiucchiato qualcosa su internet. Nulla. Demoralizzata, ho lasciato perdere. Mi sono seduta davanti al foglio e ho preso un bel respiro: cosa mi viene in mente pensando alla fatica? A questa parola ho associato immediatamente l’aggettivo ‘fisica’. Sì: la prima tipologia di fatica che mi viene in mente è proprio quella fisica. In particolare un ricordo su tutti si è fatto strada nella mia mente: un ripido sentiero di montagna, coperto da una coltre bianca. La temperatura non superava i due gradi. Lo zaino pesava sulle spalle doloranti, i muscoli dei polpacci erano tiratissimi, pareva si dovessero strappare da un momento all’altro; gli unici rumori, quelli dei miei passi e del mio respiro affannato. Era una delle tante scampagnate in montagna. Ce ne sono state molte, di faticose, ma la cosa che mi sorprende sempre è che, una volta arrivata in vetta, non potevo fare a meno di essere contenta della fatica che avevo compiuto. Ciò mi ha fatto realizzare un punto importante della mia riflessione sulla fatica: essa è assolutamente necessaria per sperimentare, poi, una soddisfazione grande. Non c’è vittoria senza fatica. Le cose che si ottengono con sofferenza sono decisamente le più belle. Mi è venuto in mente un altro esempio. Io non l’ho provato, ma so per certo che la fatica e il dolore del parto lasciano il posto ad un’emozione che non sono nemmeno in grado di descrivere…Penso allo sguardo di una madre che si appoggia sulla sua piccola creatura; penso a
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quando le sue orecchie sentono il primo vagito, così tanto atteso. Continuavo a riflettere . Fatica… Fatica… Ecco. Era da un po’ che ci pensavo. Forse confondevo la fatica con la pigrizia o con l’indifferenza, ma era da un pezzo che mi svegliavo con fatica. Non perché non avessi dormito a sufficienza, ma perché mi alzavo dal letto senza uno scopo. Guardando dentro di me ora l’ho capito. Riesco finalmente a dare un nome alla sensazione spiacevole che tante volte mi ha accompagnato al risveglio e ora non mi perdo d’animo: fatico a trovare una ragione che dia senso alla fatica, ma sono ottimista. Prima o dopo ce la farò. Quando l’avrò trovata sarò soddisfatta della fatica che avrò fatto. Benedetta, 4AL LA FATICA?…È OGNI SINGOLO GIORNO! Caro diario, oggi, per un attimo, mi sono fermata a riflettere. Oggi, con questi ritmi così frenetici, è un po’ difficile prendersi del tempo tutto per sé. Ma ora voglio fermarmi. Perdendomi tra i miei mille pensieri, rifletto su quanta fatica facciamo ogni giorno anche solo per un piccolo gesto. Penso alla mia vita e a quanta fatica ho fatto per arrivare fino a dove sono arrivata ora. Si può dire che la mia vita è andata di pari passo con la fatica; a cominciare da quando ero piccola, quando, a quattro anni appena compiuti, ho dovuto accettare e sopportare la fatica di perdere mia madre. È una fatica che continuerà per tutta la vita, ma penso che la fatica più grande sia stata rendersi conto che la mia mamma non sarebbe tornata e non l’avrei rivista mai più. La fatica perciò è sempre stata presente nella mia vita.
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Anche quando ho cominciato l’asilo e poi la scuola, ho affrontato la fatica di distaccarmi da mio padre e di conoscere persone nuove che avrebbero contribuito man mano alla mia formazione e che non si rendevano conto della fatica che facevo a frequentare la scuola ogni giorno con tranquillità e ad affrontare il dolore che avevo dentro il cuore. La fatica è stata cominciare da capo e rimboccarsi le maniche; raccogliere i cocci della vita appena stravolta e ripartire più forti di prima, sia io sia mio padre. Immagino anche la fatica di mio padre, un genitore che doveva comunque crescere una figlia dopo un dramma simile e non posso certo scordare la fatica di una madre speciale come la mia che, per permettermi di venire al mondo, ha superato la fatica che la malattia le causava. Ma la fatica non riguarda solo questo. È sempre nella nostra vita, anche nella relazioni e nelle storie d’amore; e così penso a me e al mio ragazzo: alla fatica di rimanere insieme tanto tempo e di fidarsi l’uno dell’altra, alla fatica di supportarsi e di sopportarsi. A volte, nei momenti più difficili, pensi che la cosa migliore, anche se è una fatica enorme per te e per il tuo cuore, sia starsene ciascuno per conto proprio. Per fortuna poi ritorno sui miei passi e, anche se con fatica, facciamo pace. Personalmente penso di vivere la fatica ogni giorno, a cominciare dalla fatica dello studio, dello svegliarmi presto per andare a scuola, di leggere e scrivere, ma soprattutto la fatica di trovare un perché… alla fatica (e mentre scrivo mi accorgo che ripeto questo termine quasi ossessivamente, tanto lo sento parte di me…). Perciò la fatica non è una cosa che si può escludere dalla nostra vita, perché essa fa parte integrante di noi: dalla più banale e meravigliosa fatica che è quella di nascere, a quella più lieve, come studiare. Penso alla fatica che sto facendo e che farò per costruire piano piano, passo dopo passo, il mio futuro, la mia vita, la mia famiglia e, ancora più semplicemente, penso alla fatica che ho fatto per trovare il coraggio di scrivere ciò che ho raccontato di me, guardandomi dentro e facendo fatica a non
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far riaffiorare i fantasmi del passato che a loro volta fanno fatica a non bussare alla porta del mio cuore che per tutte queste fatiche belle, ma anche spiacevoli, ha subito dei duri colpi. Oggi il mio cuore è più ‘affaticato’ ma è certamente più forte. Debora Ros, 4AL UNA FATICA, UN SORRISO Lo so, non sono la persona da cui ti saresti aspettato questo. Ero quella che con più fatica ti parlava e gradiva la tua compagnia, ma, a mio parere, sei la persona che meglio rispecchia il senso di ‘fatica’. La fatica di nascere in una famiglia con quattro fratelli, la fatica di aiutare a mantenere questa famiglia, la fatica di realizzare un tuo sogno ed un altro che, purtroppo, si è rivelato un incubo; la fatica di vedere che sto crescendo e di vivere da vicino i problemi della famiglia; la fatica di alzarsi la mattina e uscire a testa alta nonostante tutto. Anche se può sembrare banale, volevo ricordarti un pomeriggio che non riuscirò mai a dimenticare e che mi fa ancora commuovere. Ricordi quando io e Martina ti abbiamo implorato di costruirci il dondolo in giardino? Non posso dimenticare quella domenica pomeriggio: tutto il tempo che hai passato in garage a lavorare per noi, tutte le ferite che ti sei procurato… Nonostante il dolore, continuavi a lavorare per noi, per farci felici. Io ti guardavo. Sono stata tutto il pomeriggio vicino a te, perché, nonostante l’età, capivo la fatica che ti costava costruire quel gioco per noi. Il vero scopo di quella fatica, l’ho capito dopo, non era il dondolo, ma il sorriso sul viso mio e di mia sorella, a lavoro finito.
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Per me è questo il senso della parola ‘fatica’: la felicità di se stessi e delle persone che amiamo. Tutti i giorni esci la mattina alle sette e torni la sera alle otto; ti spezzi la schiena nonostante i problemi di salute, per ricevere qualcosa a fine mese, che poi spendi per fare felici noi, soprattutto. Anche se molte volte mi accorgo di essere irriconoscente, non finirò mai di ringraziarti per tutta la fatica che fai per capirmi, per accontentarmi, per accettare il fatto che sto crescendo e che non sono più la tua bimba. Grazie di tutto, papi. Irene, 4AL FATICA? AMORE! Ciao, Nonno! Lo so che non potrai mai leggere questa lettera, ma volevo ringraziarti perché, soprattutto in questi ultimi mesi, mi hai fatto vedere con occhi diversi situazioni alle quali non avrei mai dato importanza e anche perché mi hai fatto capire che non tutti i sacrifici richiedono fatica. Era ormai da cinque mesi che per colpa di quello che chiamano ‘un brutto male’ eri costretto a rimanere immobile a letto, attaccato ad un respiratore e con lo sguardo fisso al soffitto. Non ti sei mai lamentato. Dicevi che non sentivi dolore e l’unica cosa che volevi era stare insieme alla tua famiglia. La mamma sapeva che avevi bisogno di essere assistito, ma purtroppo il suo lavoro non le permetteva di starti vicino tutti i giorni e quindi mi chiedeva se dopo scuola potevo venirti a trovare. E così, ogni giorno, dopo aver pranzato, inforcavo la bicicletta e venivo da te. Trascorrevo tutto il pomeriggio seduta vicino al tuo letto con il libro appoggiato sulle gambe perché, come dicevi, il mio compito è studiare. Studiavo, ma il mio pensiero era rivolto a te.
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Sicuramente non capivi quello che ti ripetevo ad alta voce di scienze o di italiano, ma, nonostante ciò, stavi attento e non ti perdevi nessuna parola e quando mi vedevi stanca mi dicevi che era meglio fare una pausa e continuare a fare i compiti più tardi. Così, dopo aver chiuso il libro ed acceso la televisione, facevo fare una pausa anche a te, aiutandoti a bere un po’ di tè. Ogni volta che mi vedevi, anche se non riuscivi a parlare, mi facevi un bel sorriso e in questo modo riuscivi a nascondere il tuo dolore e la rabbia di rimanere fermo a letto 24 ore su 24, rinunciando a giocare a carte e ad andare al centro degli anziani come eri solito fare prima di star male. Era come se, vedendo me e la mamma, riuscissi a lasciare alle spalle tutte queste sofferenze. Io, pur di farti felice e aiutare la mamma occupata nel suo lavoro, sono sempre venuta a trovarti, rinunciando talvolta ad uscire con le mie amiche o magari a starmene tranquilla e serena a casa, anche se ti confesso che certe volte ti consideravo un peso, perché invece di trascorrere la giornata con te volevo uscire e divertirmi. Solo oggi che sei venuto a mancare, ho capito che tutto quello che ti ho scritto fino ad ora è stato un sacrificio che non ha richiesto fatica. Anzi, sai una cosa? ‘Sacrificio’ credo sia proprio la parola sbagliata. Era amore. Francesca, 4AL AMAZING GRACE Caro diario, come va? Io bene, bene, molto bene! Ti racconto un po’ come è andata al concerto stasera: sono uscita di casa alle sette e mezza e ho fatto tutto di corsa, perché ero tornata a casa dal chiosco solo un’ora prima.
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Quando siamo arrivati noi, gli altri cori stavano provando le loro canzoni e, dato che eravamo padroni di casa, abbiamo lasciato loro tutto lo spazio di cui avevano bisogno; noi abbiamo cantato senza riscaldamento. La cosa della quale vorrei parlarti di più è la sorpresa che ho fatto a tutti. Dieci minuti prima di dare inizio al concerto, ho detto al mio maestro Gekky che mi avrebbe fatto tanto piacere cantare “Amazing Grace”, un brano gospel molto difficile, ma allo stesso tempo molto significativo per chi ha fede. Un po’ di tempo fa, l’avevo provata da sola, ma non era stato un granché, e la stessa cosa è accaduta quando me l’aveva fatta provare il maestro Rudy Fantin per il concerto della scuola. Avevo promesso a me stessa che prima o poi ce l’avrei fatta. Da quel giorno mi capitava di cantarla da sola. Magari sotto la doccia, senza nessuna correzione, senza nessuna certezza; neanche sulla voce potevo contare, perché ultimamente non era ok! Insomma: fatte tutte queste premesse, il maestro mi ha dato comunque fiducia e mi ha lasciata cantare quel pezzo. Ah, devo aggiungere una cosa: nel frattempo la pianista, in tutta fretta, si era fatta una specie di partitura basata su quello che le avevo canticchiato!!! Era pazzesco, ma ero sicura di ciò a cui andavo incontro. A metà esibizione, dopo il quarto brano, il maestro mi guarda e mi fa l’occhiolino come per dire: “La vuoi fare?” Con il sorriso più bello e il cuore che batteva a mille, ho fatto un cenno con la testa. “SI’!!!” Oddio, che stavo facendo? Davanti a quasi trecento persone, davanti a due cori bravi, davanti ai miei affetti più cari, davanti al mio coro e al maestro, davanti a me stessa, la mia sfida più grande era iniziata con la prima nota della pianista. Cantavo un’ottava sopra rispetto a quella abituale: da soprano cantavo contralto… Cantavo di petto: la mia vera voce in pubblico per la prima volta!
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Intanto ero giunta a quelle due note: “si, re”, i miei nemici di sempre, la mia fatica, la mia sfida. Ho raccolto tutte le mie forze, tutto il mio coraggio, per conquistare quelle due note! Dovevo cantare un’ottava sopra rispetto alle note iniziali, ma senza cambiare registro di voce. Ho tolto lo sguardo dal pubblico e ho guardato in alto. Ho pensato a tutte le volte in cui non ero riuscita a cantarla ma avrei voluto e, con gli occhi pieni di lacrime e tanta emozione, eccole, quelle due note! Quella frase di Amazing Grace: “that saved a wretch like me” era…uscita. Ce l’avevo fatta!!! Quel brano era il mio lavoro, la mia fatica. E poi gli applausi. Interminabili. Ero sbalordita, senza parole. Non dimenticherò mai l’emozione di questa sera. Anonima, 3CL LA FATICA CI SALVERA’ È difficile scrivere di cose personali. Molto più semplice e meno dispendioso ipotizzare una scaletta e… via! Partire con la stesura di un'analisi del testo dove non c'è bisogno di fare emergere se stessi, emozioni e sentimenti. È proprio per vincere questa sfida, che ho deciso di raccontare quello che di solito viene accantonato. Anche da me. C'è poco da dire: l'amore costa fatica. E sacrificio. Non me ne vogliano quelli che vedono la vita come una favola: quel “e vissero per sempre felici e contenti” nella vita reale è alternato da momenti bui. L'amore è ‘l'energia che fa muovere il mondo’, ma è anche la fatica che abbatte gli uomini, che stringe e pesa sullo stomaco e che spesso suscita tristezza, delusione e dolore. A volte l'amore per qualcuno è irrazionale, inspiegabile e proprio per questa sua almeno apparente mancanza di senno, lascia le persone stupefatte delle loro scelte.
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Ci si ritrova di fronte a persone che ci fanno soffrire, che non ci considerano o che semplicemente non ricambiano i nostri sentimenti. In quel momento, amare sembra la cosa più ingiusta del mondo. Fa affiorare le lacrime agli occhi, fa disperare, arrabbiare; fa trascorrere intere notti in bianco. Eppure, questo dolore, questa tristezza e questa fatica vengono spesso spazzati via da un semplice sorriso, da un gesto carino, o anche solo dalla vista di chi si ama. L'amore farà anche piangere, ma se delle lacrime ci si scorda così in fretta, significa che qualcosa di più grande c'è. Aspettare, capire, essere pazienti, accettare incondizionatamente, perdonare. Questa la sfida dell’amore. E cosa c'è di più faticoso del perdono? Parlo del perdono sincero, che accetta di mettere da parte un torto subito...magari per amore. Per amore di chi si ama. Peggio sarebbe non accettare il compromesso tra amore e fatica: si perderebbe qualcosa di prezioso. Paradossalmente c'è qualcosa di dolce anche nel ricordare momenti di pianto o di sconforto. C'è un sentimento innato che a volte impone di seguire la via più impervia, in salita, più faticosa. Un sentimento che solo gli uomini possono provare e che anche dopo la tempesta porta il sereno. Così, con un sorriso, ci si guarda indietro rincuorati. È stato faticoso, ma ne è valsa la pena. Sofia Vizzon, 4AL
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Paesaggi, 4
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LA PACE DI UN ASINO DIPENDE DAL SUO ORZO Caro diario, avendo tanto tempo libero durante le vacanze, riesco a trovarne per pensare. Una cosa sulla quale ho riflettuto oggi è la fatica, che per me sostanzialmente è lo sforzo di sembrare una persona ‘normale’ agli occhi degli altri. In questi ultimi mesi il mio problema è peggiorato notevolmente: puntualmente, dopo ogni pasto, eccolo lì che arriva: lo sfogo, il pianto che scende a dirotto, quasi avessi ucciso una persona, la nausea ed infine il vomito. Questo sconforto è un ostacolo che mi impedisce da tempo di vivere con spensieratezza la mia adolescenza e la fatica che faccio per nasconderlo è immane. Faticoso per me è anche osservare qualsiasi persona mangiare con noncuranza, mentre affonda i suoi denti in gustose pietanze e, boccone dopo boccone, pare sempre più beata e soddisfatta. Questo handicap mi fa scivolare nel panico perfino nelle situazioni più semplici e banali. L’altro giorno mi hanno offerto un cioccolatino. L’ho nascosto nella borsa ed è ancora lì. Ho detto “lo mangerò più tardi”. È stato davvero uno sforzo mentire così a quella ragazza, che reggeva il suo sacchetto di cioccolatini come se quelli potessero risolvere tutti i mali del mondo, ignara del fatto che quel maledettissimo cioccolatino non mi avrebbe regalato un attimo di felicità, ma una sensazione di angoscia totale. Calcolo ogni caloria e mentalmente penso a come potrei bruciarla, a quanta fatica dovrei fare per evitare che il mio corpo si modifichi. Ieri ho letto in un vecchio libro di detti popolari: “la pace di un asino dipende dal suo orzo”. Nel mio caso l’“orzo” è l’unica cosa che disturba la mia quiete. Ciò che posso dirti, mio caro diario, è che sono cosciente che tutte queste fatiche (nascondere il mio problema, mangiare, bruciare calorie…) sono malsane; però esse mi
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hanno intrappolato e la fatica che dovrò fare per liberarmi sarà enorme. Sperando di trovare le forze, tua Vittoria, 4AL QUEST’ANNO È DURA! Caro diario, inquietudine, speranza, paura e fatica… Ma come faccio a scegliere solo una di queste parole per scriverci intorno qualcosa, se ogni giorno siamo ‘travolti’ da tutti questi sentimenti e da mille altri? La nostra vita è un po’ come te, diario: si lascia scrivere e non sai mai come andrà a finire. Speriamo sempre che tutto vada bene, ma, perché ciò accada, dobbiamo fare fatica e affrontare le nostre paure. Tempo fa, quando avevo ancora tempo per scriverti ogni sera, ti ho raccontato di tutto ciò che succede in classe mia: i problemi che abbiamo, le lezioni che ascoltiamo e anche tutte le cavolate che escono dalla bocca di ognuno! Adesso sono felice, perché quest’anno, in classe, siamo tutti più uniti e questo è dovuto a ciò che abbiamo vissuto in questi quattro anni: ansie, paure, litigi...di tutto e di più! Devo confessarti che ogni giorno che passa ho sempre più paura che arrivi quest’estate. Ho paura di non farcela... Ho paura di fallire e causare tanta tristezza alla mia famiglia… Quest’anno è duro: mi devo impegnare come non mai, ma è difficile, perché abbiamo tante materie da studiare, tanti compiti da fare… In matematica ci sono mille formule da ricordare e un sacco di ragionamenti; il programma di italiano prevede tanti poeti: la loro vita, l’anno di nascita e di morte, cos’hanno scritto e quando… Ma se non ricordo nemmeno il compleanno dei miei amici! Figurati se posso sapere vita morte e miracoli di tutta questa gente!
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Per non parlare poi di storia: date, paesi, persone, battaglie, fatti importanti… Aiuto! Poi c’è diritto: gli articoli della Costituzione, i diritti e i doveri di ognuno… E biologia? Chi se li ricorda tutti i tessuti, le cellule, le prove e gli esperimenti per ogni argomento? Nella mia lista nera ci sono anche inglese e francese: regole grammaticali, parole complicate, il tempo passato, l’infinito, le ipotetiche… Ma perché non hanno inventato una lingua unica, valida per tutto il mondo? E filosofia? Tutti quei ragionamenti complicati … per dire cosa poi? Si vede che una volta non esisteva la televisione, altrimenti col cavolo che si sarebbero messi lì a scrivere pagine e pagine! Magari loro, i filosofi, lo facevano per passione, certo senza pensare che ora noi poveri studenti li dobbiamo studiare tutti… L’unica materia in cui sembrava non si dovesse studiare è educazione fisica, ma l’altro giorno il professore è venuto in classe con un fascicolo sul doping da imparare per il compito della prossima settimana…Capirai! E io come faccio ogni pomeriggio a svolgere tutti i compiti e a studiare per il giorno dopo, se tutti i professori pretendono che la loro materia sia studiata ogni giorno e ritengono sia più importante delle altre? Non posso aggiungere ore al giorno, perché quelle sono 24 e la maggior parte nella mia giornata sono già occupate: mi sveglio alle 06.30 la mattina e fino alle 12.45 sono a scuola, poi devo aspettare la corriera e va via un’ora perché parte alle 14.00. Arrivo a casa alle 14.30 e mangio. Mi concedo un’ora di riposo per guardare un telefilm e poi corro a fare i compiti e a studiare (alle volte anche fino alle 22.00). È ovvio che a scuola sono stanca e non rendo come dovrei: non ho un attimo per riposare! In questo modo tutto ciò che imparo per una materia viene quasi cancellato da quella che studio dopo…
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Sai una cosa? Proprio non capisco come tutti gli adulti che lavorano riescano a dire che si stava meglio a scuola! Da un lato forse sì, perché da studenti abbiamo più giorni di vacanza e siamo a casa presto e non alle 17.00 o anche dopo come chi lavora, poi è vero che a scuola ti diverti con i compagni e prendi in giro i professori… (Pensa che dall’anno scorso abbiamo iniziato a scrivere in un foglio tutti gli errori e le baggianate che dicono gli insegnanti!). Per il resto, non vedo proprio dove stia il bello dello stare a scuola; almeno a lavorare prendi soldi, anche se mi rendo conto che essere genitori e andare a lavorare è un bel ‘problema’, perché bisogna affrontare le difficoltà di ogni giorno… Ah, caro diario, per te è facile: sei qui con le tue pagine bianche che si lasciano scrivere, un po’ come la mia vita si lascia vivere, ma non so a quali difficoltà andrò incontro, non so quali paure dovrò affrontare e quante sofferenze dovrò subire. Dentro di me ci sono tante speranze: spero che nella mia vita ci siano sempre momenti belli, spero di non dover soffrire tanto (anche se fino ad ora è stato sempre il contrario), spero di non avere problemi con la scuola…Magari quattro o cinque ci stanno, anche perché forse me li merito, ma ciò che spero vivamente è di fare almeno sufficientemente bene agli esami. Non pretendo di uscire con un votone; mi basterebbe anche il minimo, ma voglio uscire! L’unica cosa che mi dispiace è che perderò alcuni compagni, perché mi sono sempre trovata bene con tutti. È successo anche quando sono uscita dalle medie, perché ognuno dei vecchi compagni poi ha preso la sua strada. E’la vita. “Rose e fiori”, qualcuno dice. Ma prima di raggiungere la rosa e quindi la felicità, ho proprio capito che bisogna affrontare molte spine. Alcune lasceranno un segno più profondo, altre verranno dimenticate, ma tutte sono da contrastare o con la rabbia o con la paura o magari con la speranza.
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Ora, caro diario, ti devo lasciare perché sono molto stanca e domani la sveglia suonerà presto e avrà inizio un’altra giornata faticosa! A prestissimo! Sara Bortolus, 5BS
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Paesaggi, 5
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IL PUNTO DI DOMANDA. Una bella frase, una tecnica inusuale di scrittura, un sogno e così via. Lasciamo che siano gli altri a dire qualcosa di nuovo, di fresco. I giovani, appunto. I giovani. Questa è la loro storia, storia di giovani, di molte, troppe parole, e voglia di dire. È anche la mia storia, storia di chi vorrebbe dire di più, rispetto a loro. Certo, rispetto a loro! Perché io, da insegnante, dovrei dire di più, è il mio dovere (si dice). I grandi sanno, l’esperienza, la vita… Appunto: la vita. Così, ho cercato col fedele PC, quante volte compariva la parola “vita” negli splendidi lavori, che facevano capolino sullo schermo: tante, troppe volte. E la parola “amore”? A iosa! Che bello, mi sono detto. Vediamo con la parola “morte”: poco! Meno male. Ah, questi insegnanti, con la mania di dire sempre la loro, di misurare l’incommensurabile, di vedere l’invedibile. La pretesa di ficcare il naso fra le pieghe, fra i piccoli segni, in passato vergati, oggi digitati in buon ordine sulla tastiera. Tutti uguali. Che meraviglia la scrittura! Invece è lì che si cela l’inganno, la speranza mai sopita di chi vuole affidare allo scritto l’invivibile, senza più sangue né respiro. Io scrivo e sono al sicuro, non sono più io, sono solo parole: posso stare tranquillo. Ma ogni inganno nasconde una domanda di verità. In ogni testo si cela un appello. Io dove sono? Col punto di domanda. Sono la parola, o nella parola? Un punto di domanda è l’orgoglio di chi chiede giustizia. È il servo che chiede al padrone, il povero che chiede al ricco, l’ignorante che chiede al sapiente, la parola che chiede all’autore, l’uomo che chiede a Dio, quel Dio che ancora cerchiamo di scoprire se è ancora un punto di domanda.
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Li ho contati, i punti di domanda, nei vostri testi. Sono tanti e teneramente posti a segnalare a voi stessi che ci siete, siete carne, così come siamo carne noi genitori, pedagoghi per natura. Sono retorico? Non si può non esserlo. Mi ero riproposto di non esserlo, perché è facile esserlo in queste occasioni. Mi accorgo adesso che ho appena usato l’“essere” per quattro volte. Male, molto male, prof. Evitiamo le ripetizioni, per favore. Sapete che vi dico? Non me ne può infischiare di meno. Evviva le ripetizioni, l’essere e l’essere dell’essere. Evviva pure la retorica. E i punti di domanda che anch’io (a mia insaputa) ho introdotto in queste righe. Evviva le parole che hanno sempre bisogno di un punto di domanda, “il ricciolino” come si dice ai bambini. Perché ogni parola che domanda, domanda sempre della sua esistenza, e dell’esistenza di chi lo ha posto. Prof. Domenico Romano Mantovani Docente di Filosofia e Scienze Sociali LA PALLAVOLO Ho da sempre avuto un certo interesse per lo sport, fin da quando ero piccina, tanto che ne ho provati diversi, come tennis, calcio, sci… Avevo dieci anni, quando, quasi per caso, ho deciso di praticare uno sport che da sempre mi affascinava, ma che non avevo mai potuto conoscere bene. Fu così che m’iscrissi ad una società non molto lontana dal mio paese e iniziai a giocare a pallavolo. Inconsapevolmente, cominciai un’avventura nuova e travolgente. Non mi resi subito conto di quanto quella scelta avrebbe in seguito rivoluzionato la mia vita. Per me quello non era uno sport come gli altri: sentivo qualcosa di nuovo dentro di me ogni volta che prendevo in mano la palla.
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Ma questo fu solo l’inizio. Oggi, a quasi diciassette anni, sento di poterne dire di più. La pallavolo, che pratico tuttora, si è rivelata per me una vera e propria passione. Oltre ad essere un bellissimo sport di squadra, ha saputo insegnarmi dei principi, fondamentali per la vita di tutti i giorni. Uno di questi principi importanti riguarda il valore della fatica. La fatica che mi fa sudare, che mi stanca, che mi indolenzisce i muscoli, che mi fa star male e che talvolta mi fa piangere. Non si tratta però solo di una fatica fisica. Faticare per me è anche una sfida con me stessa: è ripetermi “non mollare”, è stringere i denti e non arrendermi mai. È proprio questo che la pallavolo mi ha insegnato e continua ad insegnarmi tuttora: mai darsi per vinti, mai arrendersi dinanzi ad un ostacolo, un problema. Bisogna sempre lottare, faticare, appunto; dare sempre tutto se stesso. L’altro elemento strettamente legato alla fatica è la soddisfazione. La fatica e il ‘malessere’ che essa causa sono sempre, o quasi sempre, seguiti da un premio (concreto o astratto) che fa sentire la persona felice. Qualora questo premio non dovesse comparire, la regola è: mai demordere! Queste sono solo alcune ‘lezioni di vita’ che la pallavolo mi ha insegnato. Ed è una fortuna, secondo la mia opinione: chi non impara dalla vita questi insegnamenti rischia di comportarsi in maniera svantaggiosa per se stesso. Faticare mi fa capire ogni giorno il miglior modo per affrontare i problemi che incontro. Spero che le esperienze vissute grazie a questo sport mi possano essere utili anche per il futuro che mi aspetta. Genny, 3CL
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È LA VITA Per me “ fatica “ equivale al verbo crescere . Crescere, infatti, per quanto sia naturale e inevitabile, è la più grande fatica che ognuno di noi deve affrontare giorno dopo giorno . Nel mio caso forse più che in altri . Non è ‘ nel mio stile’ piangermi addosso, ma penso che uno sfogo mi faccia bene. Da dove iniziare? Perché non da quando ero una bambina di quattro anni felice e spensierata? La mia vita era costituita da mamma, papà e danza . Mi mostravo molto predisposta alla danza, tanto che ballavo e mi allenavo con le bambine qualche anno più grandi di me. Tutto filava dritto, fin quando un giorno la fortuna mi abbandonò: quando feci ritorno a casa dall’asilo, quel giorno non c’era più il mio papà ad aspettarmi con in mano il film da guardare insieme. Mi venne comunicato, come fosse una cosa normale e accettabile per una bambina così piccola, che da allora mio padre non avrebbe mai più vissuto con me . Quello fu l’episodio che per primo mi spense. Sono cresciuta con alti e bassi; come tutti, presumo . Ad un certo punto, mi si presentò l’occasione che da sempre sognavo: vinsi una borsa di studio al Teatro Nuovo di Torino. A soli undici anni, un vero portento, un fenomeno di bambina! Ma proprio qualche mese prima di partire, mi ammalai: troppo stress, troppo allenamento, troppo studio e troppa voglia di scappare da lì, da quella mamma troppo apprensiva. Non capivo perché era così ‘attaccata’ e premurosa; l’ho capito dopo. La sua famiglia ero solo io e aveva paura di perdere ancora una volta la persona che amava. Oggi che sono più grande non la biasimo. In ogni caso, il mio sogno di diventare ballerina svanì. Continuai a crescere e a frequentare la scuola di danza dove avevo trascorso più della metà della mia vita, ad uscire
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con i miei amici e ho perfino avuto il mio primo morosetto, ma, finita la terza media, la mia cara e dolce mammina mi ha strappata da tutto ciò: tutto quello che amavo e a cui tenevo di più, ora era a migliaia di chilometri da me. Ho iniziato una nuova vita: gente mai vista e luoghi sconosciuti ai miei occhi, perennemente pieni di lacrime. Ancora una volta mi rimboccai le maniche e conobbi nuove persone, inizialmente, purtroppo, quelle sbagliate . Ma fatica significa questo: andare avanti, affrontare ogni ostacolo, avere il coraggio di saper riconoscere i propri errori e i propri limiti e, qualche volta, di cambiare. È difficile, dura, ma un diritto e forse un dovere di ciascuno. È la vita. Anonima, 3CL FATICA E BELLEZZA DELL’ADOLESCENZA “Fatica e bellezza dell’adolescenza” è il titolo di un articolo che ho letto anni fa (in prima media, se non sbaglio) in una rivista. Ad essere sincera non lo capii molto. Il futuro mi veniva presentato come un susseguirsi di ostacoli da superare più o meno faticosamente, di continui cambiamenti d’umore, di insicurezza rispetto a tutto ciò che mi avrebbe circondata e poi nuove scoperte, litigi giornalieri… Insomma: un continuo e caotico cambiamento, proprio come un cielo, sì, come un grande, sconosciuto e imprevedibile cielo. Adesso che lo sto vivendo, mi accorgo che quel cielo, che anni fa mi aveva spaventata così tanto, è la cosa più bella che ci sia. È vero, a volte pare brutto, oscuro, annuvolato, tempestoso, distante, insicuro, indeciso; ma altre ancora è limpido, sereno, luminoso, gioioso, deciso, incoraggiante. Ed è
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così dopo ogni sforzo, dopo ogni fatica, dopo ogni lacrima, dopo ogni sacrificio. “Dopo un brutto periodo ce n’è sempre uno bello, ma il raggiungimento di questo richiede fatica”. Con queste parole, donatemi da una donna in un momento di sconforto, vado avanti giorno dopo giorno, con la parola “fatica” ben impressa in mente, e non nego di averci messo un po’ ad interpretarla nel modo giusto. Sono arrivata alla conclusione che un significato solo non glielo si possa dare, in quanto essa può essere sia fisica che mentale. Nel periodo dell’adolescenza è proprio quella mentale a prevalere. La fatica di accettarsi, la fatica di accettare, la fatica di mettersi in gioco, la fatica di rischiare, la fatica di parlare, la fatica di farsi valere, la fatica di ammettere di aver paura. Fatica e ancora fatica. Questo è vivere. La fatica però dà soddisfazione, la soddisfazione dà felicità e la felicità dà bellezza; ed è tutto questo insieme di cose e di sensazioni che si comincia ad apprezzare nell’adolescenza . Sono questi mattoni che costruiranno la nostra vita. Anonima, 3CL QUANT’È DIFFICILE VOLER BENE! La fatica è alla base della vita di ognuno di noi, però ci sono vari tipi di fatica. Una fra le più grandi è quella di perdonare. Il perdono richiede l’assoluta fiducia e per questo in molti casi è una fatica, perché, per concederlo, si va ad istinto, o magari ci si mette buona volontà per fidarsi di chi abbiamo di fronte, pur sapendo che si rischia. Perdonare molte volte vuol dire lasciare da parte l’orgoglio, parlare senza dargli ascolto e, nel caso ci si
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sbagliasse, avremo umiliato noi stessi facendoci prendere in giro. Questo è solo un aspetto della fatica che in generale si prova quando ci si rapporta con agli altri. Comprendere, saper ascoltare, essere sempre presenti quando qualcuno ha bisogno non dovrebbe essere una fatica, ma il contrario, perché non c’è niente di più bello di potersi sentire utili facendo del bene. Purtroppo, quando bisogna correggere (o almeno provarci) qualcuno che sbaglia, tutto si complica, perché dare comprensione e consigli a chi non li vuole diventa una fatica immensa e così ci si chiede se ne valga la pena.. Una parte di noi sa che dobbiamo tentare di aiutare, qualche volta, di ‘salvare’ chi amiamo, ma l’altra parte, quella fredda, indifferente ed egoista di noi, ci dice di rinunciare, perché non si può aiutare chi aiuto non chiede. Trovarsi in questo bivio è un inferno. È fatica scegliere la metà giusta da ascoltare; fatica provare fino alla fine e forse anche di più per il bene vero di coloro ai quali siamo legati. È fatica non mollare, lottare per salvare un’amicizia, un amore. Qualsiasi situazione si presenti quando abbiamo a che fare con chi amiamo richiede fatica. Ma vale la pena. Anonima, 3CL FATICA, NOIA O PAURA? Caro diario, stasera ho voglia di scriverti, perché oggi ho trascorso una giornata molto pesante e sono stanca. Prima ero sul letto a guardare il soffitto e mi sono chiesta: “Perché sono stanca?” “Cos’è che mi fa sentire stanca ogni giorno?”
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Sono ancora giovane, eppure vedo mio papà rientrare per cena sempre con il sorriso, felice di essere tornato a casa, di rivederci, di stare con la sua famiglia. Io invece ho sempre il muso, perché la sera penso che alla mattina dovrò affrontare un’intensa giornata di scuola; quando arrivo a casa da scuola penso che devo studiare e così via, per un anno intero. Pensandoci, ciò che faccio io, in confronto a quello che fa mio papà, è molto meno faticoso e molto meno stressante. E allora, perché sono sempre stanca? La mia fatica in realtà è noia: noia di ripetere ogni giorno ciò che ho fatto il giorno precedente. La fatica è un’altra cosa, una cosa che viene da dentro, che affiora nel momento in cui ti trovi di fronte una persona che non ti sta simpatica, quando ti trovi nel bel mezzo di una situazione e non riesci a venirne a capo, ad esempio un discorso tra adulti. Da questi pensieri ho capito che la mia fatica non è lo stress fisico di ogni giornata; la mia fatica è un turbamento. Compare quando fai qualcosa che va oltre ai tuoi limiti caratteriali. È questo l’errore. Prendendo esempio da mio padre, ho capito che devo cercare di cambiare il mio modo di vedere e di valutare certe situazioni; devo riuscire a vincere quello stato di turbamento che mi opprime ogni giorno. Mi sentirò più matura e questo vuol dire che avrò fatto un passo importante, se riuscirò a superare allo stesso modo situazioni che mi risultano abituali e situazioni che invece faccio fatica ad affrontare. Dovrò riuscire a superare i limiti con cui mi scontro ogni volta che parlo con una persona con la quale non vado d’accordo, allo stesso modo in cui proverò a dimostrare il meglio di me stessa in ogni momento. A quel punto sarò felice, perché avrò vinto le mie fatiche, che, come ho già detto, non sono fatiche fisiche, ma il risultato di alcune debolezze e paure interiori. Proprio in quel momento potrò dire di riuscire a vivere al meglio la mia vita.
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Scusa, diario, se ti ho annoiato, stasera, con questi discorsi difficili, ma certe volte fermarsi a pensare qualche minuto mi aiuta a scoprire meglio i difetti del mio carattere, per tentare di migliorare certi miei comportamenti. Anonima, 3CL IL BARATRO DELLA DISPERAZIONE. A COSA AGGRAPPARSI? All'inizio di questo periodo di crisi sembravano tutti capirmi, sembrava che tutti riuscissero a comprendere ciò che provavo, come se anche loro vivessero le mie stesse emozioni, il mio dolore, la mia voglia di mandare tutto all'aria, la fatica di andare avanti... Quella stessa fatica che provavo tutte le sere, passate a pensare guardando nel vuoto, riflettendo sulle cose che avevo fatto e su quelle che dovevo fare, sulla mia vita, oppure trascorse ascoltando musica e piangendo nella disperazione di non saper più cosa fare. Forse la parola chiave della mia vita è proprio "fatica". Fatica a capire perché è tutto così difficile; fatica ad accettare questo dolore che mi toglie il respiro; fatica, o forse impossibilità, di trovare dentro di me la forza per riprendere in mano la mia vita e andare avanti. Prima trovavo la forza negli altri. Era la gente che mi circondava a farmi camminare. Era per loro che vivevo. Erano loro il senso della mia vita. Ora non riesco più ad aggrapparmi nemmeno a me stessa. E pensare che tutta questa fatica è iniziata da poco, due anni e mezzo fa. È allora che ho cominciato a provare cosa fosse veramente il dolore... Gloria Marson, 3CL
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IL PESO DEL MONDO (ovvero la fatica del mestiere di scrivere) Sono qui, al centro di uno spazio non definito. Intorno a me ondeggiano veli e tende dei colori dell’iride. Sto percorrendo il mio sogno. Allungo le mani, ma sfioro aria, non stoffa. Voglio spostarle, voglio vedere la luce che c’è dietro. Alla fine mi slancio in avanti, il mio peso fittizio si fa strada. Mi affaccio sul buio profondo e mi spavento. Riesco a riaggrapparmi a quel velo che oscilla come l’aurora e che non mi scivola più sotto le dita. Di nuovo in salvo, mi accorgo che la luce proviene dall’interno. Allora comincio la mia opera. Strappo pezzi di tessuto, lembi di sipari notturni e cenci nebbiosi. Allargo il mio campo e ne raccolgo ancor di più. Poi con la forza delle dita ottengo i fili migliori, li annodo insieme fino a formarne uno solo; eppure è tutta la trama di cui ho bisogno. Racimolo le parole, belle e preziose come fossero perle, che sulla propria superficie riflettono la mia luce. Con il filo ricavato dalla vita le dispongo in fila e le inanello in collane ancor più splendenti: frasi che nascondono un enigma maggiore. Poi lo spazio non definito si restringe e lancio la mia creatura verso l’alto, fuori. È un ciclo che si ripete, e ripete, e ripete... Sono il cuore del caos, la pulsante sorgente di storie e verità irreali. Sono il centro infante dell’universo; il demiurgo di mondi impossibili, retti dal desiderio del mio sogno e dal potere delle mie parole. Sono la nuvola oscura che scaglia lampi di luce e forza sul suolo e percuote ogni cosa con titanici boati di tuono. Sono Atlante e sostengo il cielo sopra la terra e sento il peso di entrambi, bramosi di riunirsi. Sono il cuore del caos. Per me, niente interruzioni. Nessun settimo giorno per riposare. Filip Gavran, 3CL
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UN VERO E PROPRIO MALESSERE Gli studenti sono accomunati fra loro da una compagna che non manca mai: la fatica. Il più delle volte questa condizione, vero e proprio malessere, è dovuta alla stanchezza accumulata durante la settimana. La scuola contribuisce a creare sofferenza e fatiche. Spesso non è la scuola in sé a provocare tutto ciò, ma soltanto alcuni professori un po’ sadici che sembrano godere della sofferenza dipinta sul volto dei loro studenti, che paiono appartenere ad una categoria particolare: non sono lavoratori e nemmeno cittadini socialmente attivi. Una categoria di ‘inetti’, che non producono ricchezza. Eppure i professori, tutti una volta ex studenti, ci ritengono fortunati, perché, a sentir loro, quando si va a scuola la vita è spensierata, leggera e radiosa; per noi non esisterebbero veri problemi, come quelli che loro chiamano i ‘problemi seri’, ma tutto, per noi, è divertente. Secondo me questi professori si sono dimenticati di quando loro erano come noi. Forse si sono dimenticati di tutte le giornate ‘no’, dei brutti voti, dei prof. che definivano “bastardi” per come li trattavano… Perché non è che i problemi ‘veri’ della vita sono solo quelli degli adulti! Ogni età ha i suoi ‘problemi seri’ e solo perché agli adulti i nostri paiono banali e infantili non vuol dire che i nostri non siano ‘veri’ problemi. Jessica Infanti, 5BS IL REALIZZARSI DI UN SOGNO La fatica è uno sforzo fisico o mentale impegnativo, che comporta dei sacrifici, ovvero la privazione di qualcosa per raggiungere degli obiettivi.
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Un esempio valido è la testimonianza di un giovane ventenne conosciuto di recente. Nicola è un ragazzo della provincia di Venezia che, aggrappatosi al suo sogno, è riuscito infine a realizzarlo. Fin dall’infanzia, il mondo degli aerei riusciva ad affascinarlo come nessun’altra cosa. Appassionato anche d’informatica, dopo gli studi scientifici si è dedicato completamente allo studio per cercare di superare gli esami necessari per entrare in accademia aeronautica. Dopo due anni ci è riuscito e recentemente mi ha raccontato la sua esperienza. Arrivato ad agosto, a Pozzuoli non lo aspettava una vita semplice. Innanzitutto un trasferimento così comporta la lontananza da familiari ed amici per molti mesi all’anno. Molto più problematico è il cambio di abitudini: sveglia presto al mattino, nove minuti per rifare il letto, togliere e piegare le lenzuola mettendole in modo tale da formare un cubo, radersi, lavarsi, vestirsi e affrontare cinque piani di scale per il ritrovo. Peggio per te se per esempio vieni scoperto sveglio durante la notte a raderti: tutti gli orari vanno rispettati! Molti allievi, a causa della mancanza di tempo, si radono stesi, durante la notte e al buio, prestando attenzione a non tagliarsi per non essere rimproverati. Questo non è nulla in confronto al fatto che bisogna affrontare un’intera e faticosa giornata. Il cibo è il minimo indispensabile per il consumo energetico giornaliero. Le luci si spengono alle otto di sera e gli allievi hanno a disposizione due serate mensili per uscire dall’accademia. Da non tralasciare è lo stress psicologico al quale gli allievi sono sottoposti continuamente: i superiori giocano spesso sul fatto che non si possa reagire ad ogni loro imprecazione potendo rispondere solamente: “Sì, signore!”. Sicuramente non sono fonte di aiuto gli allievi più grandi, i quali si divertono a proporre ai nuovi arrivati prove alle quali non ci si può sottrarre per non essere infastiditi ancora. In un contesto simile, vige il principio del più forte: molti ragazzi se ne vanno dopo pochi mesi e pure Nicola ha
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ammesso di averci pensato alcune volte, ma quando ripensava al vero motivo per il quale si trovava lì, immediatamente tutto si schiariva. Nicola è un ragazzo (ma ce ne sono tantissimi come lui) che per il suo sogno ha fatto molti sacrifici e ne farà ancora. È determinato e molto fortunato, perché ha coraggio, ma soprattutto un sogno. Non tutti hanno un sogno che desiderano così tenacemente che si realizzi! Avere vent’anni e sapere esattamente cosa fare, cosa volere e come ottenere tutto ciò è un fatto veramente raro e degno di stima. Nicola sta faticando per andare avanti, ma certamente per un motivo valido e più grande della fatica stessa: un futuro sognato e voluto, dove la parola ‘irraggiungibile’ non esiste. Anonima, 3CL LA BELLA FATICA DI VIVERE La fatica. Fatica d’amare, fatica di svegliarsi la mattina, fatica di accettarsi e accettare gli altri. La fatica è dappertutto. Se non ci fosse la fatica, cosa sarebbe la vita? Sarebbe un susseguirsi di azioni senza motivo, senza tempo, senza fine; non sarebbe una sfida, sarebbe senza sapore, senza sale e senza pepe. La vita è fatta cosi: amara e dolce, dura e soave. Se non ci fossero questi contrasti, se non ci fosse la fatica, cosa saremmo noi umani? Io faccio fatica a fare tante cose, ma se non ci fosse la fatica non avrei l’impulso d’andare avanti. Tutto ha un senso in questo mondo: il dolore, l’amore, la tristezza, la gioia, la felicità, il dolce e l’amaro; tutto ha un senso, anche la fatica. Tutto questo fa equilibrio e tutto serve
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per imparare e così crescere come persona, come essere umano. Se non ci fossero tutte queste emozioni, senza queste sensazioni, senza il buono e senza il cattivo, senza tutti questi sinonimi e contrari, la vita sarebbe solo bianca o nera. Monotona. Marjorie Bruna Baldin, 3CL LA DIFFICOLTÀ DI UN CAMMINO Il sole era ormai alto nel cielo e io e il mio gruppo eravamo in cammino da quella mattina sulla solita strada polverosa di arenaria, avvicinandoci alla capitale galiziana ad ogni passo. Eravamo in cammino già da una settimana su quel sentiero: il Cammino di Santiago. La Parrocchia del mio paese, San Giorgio di Nogaro, aveva proposto alla comunità di intraprendere questo viaggio che sarebbe stato un’occasione per conoscere meglio altre persone, avvicinarci tra noi e provare le nostre capacità. Alcuni avevano accolto la sfida con noncuranza, figurandosi il Cammino come un modo qualunque per passare una settimana d’agosto; altri con entusiasmo, volendo provare a se stessi di potercela fare e altri ancora, come me, con titubanza, dubbio ed incertezza. Capivo che quella che mi si presentava davanti era un’occasione irripetibile, ma non sapevo esattamente cosa mi attendeva in Spagna. La buona notizia era che avremmo dovuto percorrere solo l’ultimo tratto del Cammino che partiva da Roncisvalle, ossia centotrenta chilometri, visto che il tempo a disposizione era una settimana soltanto. Accanto a me camminavano Eleonora ed Elena, le mie amiche migliori.
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Avevamo trascorso insieme una settimana, ma quel tempo, normalmente considerato limitato, per noi era passato lentamente come se fosse un mese, quasi, e avevo scoperto tratti del loro carattere che non mi sarei mai immaginata. Avevo scoperto delle persone nuove, insomma, ma anziché penalizzarle, questo le aveva ingrandite ai miei occhi; avvicinandomi a loro maggiormente, avevo fatto sì che la nostra amicizia si facesse più solida. Ho inoltre visto nascere nuove amicizie con ragazzi di due o tre anni più grandi, che avevo scoperto totalmente diversi da come me li ero immaginati. Anche gli adulti che avevano intrapreso il viaggio con noi, compresa mia sorella maggiore, si erano rivelati delle persone nuove. Avevo insomma aperto gli occhi sulla realtà che ti si può rivelare solamente standoci a contatto, abbandonando i pregiudizi che d’istinto si creano. Una realtà che –ne sono certa- potevo scoprire solo intraprendendo questo viaggio. Il mio piede, ad un tratto, si trovò a calpestare l’asfalto di una strada su cui correvano veloci auto di ogni tipo e marca. Alzai gli occhi. Il cartello stradale che indicava l’entrata alla capitale galiziana comparve come d’incanto davanti ai nostri occhi. Tutti, dal primo all’ultimo, emisero gridolini di gioia e liberazione. Ci affrettammo ad attraversare la città senza nemmeno prestare attenzione alla bellezza del luogo e, in poco tempo, giungemmo nell’immensa piazza di Santiago de Compostela. Non ci sembrava vero. Dopo tutta quella fatica, le lunghe camminate e i piedi doloranti, non ci pareva possibile. Gioia e liberazione ci assalirono. Finalmente il cammino era terminato, ma aveva lasciato in ciascuno la traccia di un’esperienza indimenticabile e un’immensa ricchezza interiore. Anonima, 3CL
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LA FATICA DI ESSERE ME E DI CAMBIARE Ciascuno di noi porta un peso sulle spalle. Siamo tutti caratterizzati, in quanto umani, da legami unici nel loro genere. Il primo fra tutti, anche in senso cronologico, è quello che ci viene imposto alla nascita: il nome. L’amore ci crea, ci mette al mondo e ci assegna subito un limite. Molti sono convinti che sia ciò che definisce la natura di ogni persona e che la descrive. In realtà, come è facile intuire, è soltanto un’immagine della nostra personalità, qualcosa che evoca l’idea di noi quando viene richiamato alla memoria. Il nome segna, inoltre, il vero inizio della crescita e dello sviluppo individuale; è l’ultima imposizione totale dei nostri genitori. Dopo, ogni cosa dipende, almeno in parte, da noi. In passato ho dovuto confrontarmi con il mio nome e con questa sensazione che mi fosse stato ‘imposto’. Alla fine ho capito che è l’unico mio simbolo che non spetta a me stabilire, poiché è una prerogativa dei genitori. Purtroppo questa è soltanto una delle tante questioni interne con cui mi sono confrontato. Molte sono le cose che ci piacerebbe poter cambiare in noi e soltanto alcune prestano ascolto alla nostra opinione. Crescere, costruire, cambiare; queste tre “c” sono all’ordine del giorno per qualunque persona, specie al di sotto della mezza età. Può darsi che mi stia sbagliando: forse non si smette mai di usare la propria immaginazione per far sì che qualcosa vada o sia in un altro modo. Anzi, più ci penso, più me ne convinco. Sometimes, perhaps, one must change or die. And, in the end, there were, perhaps, limits to how much he could let himself change
A volte, forse, uno deve cambiare o morire. E, alla fine, c’erano, magari, limiti a quanto avrebbe potuto permettere a se stesso di cambiare
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Trovo che le due frasi, tratte da “The Sandman”, n. 71: La Veglia”, esprimano chiaramente questo concetto: se non siamo più in grado di cambiare, di imporci di crescere, allora forse non viviamo per davvero. Non una vita nostra, almeno, bensì un’esistenza marchiata da obblighi e responsabilità. La libertà, quest’agognata sensazione di disgiunzione con quanto ci circonda, è uno dei più grandi ed elaborati miti della società contemporanea, in quanto viene confusa con l’indipendenza. La prima, infatti, è un assoluto utopistico, come la felicità e il benessere, che possono soltanto essere perseguiti, ma mai raggiunti. Questo è inerente all’imperfezione caratteristica dell’essere umano; anche quando siamo consapevoli che qualcosa non può accadere, o che un ideale può essere realizzato solamente in parte, possiamo arrivare perfino a sacrificare noi stessi nello sforzo di raggiungere l’obiettivo, di segnare il traguardo e di mostrare al mondo che, alla fine, si può fare. L’indipendenza, invece, è un inganno vero e proprio: non si può vivere senza legami, non è ciò che Madre Natura vuole e che ha prestabilito per le sue creature. Ho realizzato che tutte le rivoluzioni scoppiate tra le pareti della mia anima sono servite a rendermi ciò che sono e lo stesso vale per ogni libro che abbia letto, film che abbia visto, o canzone che abbia ascoltato. Il cambiamento interiore è qualcosa di strabiliante: la dimostrazione perfetta dell’effetto farfalla, dove il binomio causa-effetto regna sovrano. Siamo collegati col mondo che ci circonda in infiniti modi, molti dei quali non immaginiamo nemmeno. Per questo, cercare di romperli tutti, indiscriminatamente, è stupido e inutile. Questo è l’essere umano. Ciò che non si può descrivere, invece, è la fatica. Lo sforzo di sostenere prove quotidiane, la stanchezza che deriva dal loro superamento, così come la frustrazione del fallimento.
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La vita è un continuo affrontare difficoltà e riuscire a raggiungere l’obiettivo, oppure cadere nel tentativo e poi rialzarsi. Per me, ciò che davvero pesa sulle spalle è la menzogna. Non quella a fin di bene, oppure la bugia che si racconta per evitare un male peggiore, bensì la disonestà di nascondere la verità. La realtà è un assoluto che, al contrario della libertà, si realizza appieno, eccome! Il problema è proprio il contrario: nasconderla, insabbiarla. Forse è perché intuisco che il suo posto è la luce del sole, che mi sento male a mentire. Preferisco andarle incontro, costi quel che costi. È ciò in cui credo ed è la mia scelta che mi rende libero. Ogni giorno che passa, vedo sempre più nitidamente i fili che mi legano al mondo attorno a me. Il vero potere è afferrarli ed essere, così, in grado di manovrarli secondo la mia volontà. In questo modo sono davvero artefice del mio destino. Osservando gli altri, noto con sempre maggiore chiarezza le differenze che mi separano da essi, ma anche ciò che ci accomuna. Mi sono accorto, in questo modo, che la società odierna è pervasa da idee che limitano in modo subdolo l’espressione autentica dell’io. Si tratta della pessima abitudine di assegnare mentalmente (e inconsciamente) delle etichette alle persone che conosciamo. La classificazione delle conoscenze in categorie ci allontana in misura spaventosa, inoltre ci impedisce di comprendere per bene quel qualcuno e il suo potenziale. Bisogna capire che un essere umano non ha sempre idee radicali, perché è la somma di almeno un miliardo di opinioni diverse, sia concordanti che contrastanti. La coerenza è un altro ideale assoluto e, pertanto, irraggiungibile. Ma l’umanità è limitata da altri tipi di barriere, tra cui i dogmi. Sono principalmente di tre tipi: economico, religioso e sociale.
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Sin dalla nascita ci viene insegnato che il mondo funziona in un certo modo e che è quello più giusto. Ci dicono che il sistema monetario e monetarista è indispensabile, che la religione risponde alle domande dell’uomo sulla vita e che la struttura sociale è immutabile. Il miracolo del Postmoderno è la sua natura insita: il mantra della non permanenza. La curiosità dell’uomo, che viene sfruttata ai massimi livelli durante l’infanzia, si è rivelata in grado di farci porre quesiti e, cosa più importante, di non limitarci alle prime risposte. Grazie alla curiosità, siamo riusciti a rispondere, sebbene in parte, ad alcuni dei più grandi quesiti dell’umanità: che cosa siamo, che cosa eravamo, da dove veniamo. Sappiamo, infatti, che veniamo dagli alberi (prima ancora dagli oceani), che ci dondolavamo sui rami sottoforma di allegre scimmiette e che siamo diventati, dopo una lotta durata millenni, uno dei capolavori della selezione naturale. Abbiamo la tecnologia, che ci permette di viaggiare più veloci dei venti, di curarci quando siamo feriti o ammalati e di comunicare in modi inimmaginabili. Abbiamo la coscienza, con la quale abbiamo elaborato il concetto esclusivo dell’umanità, della dicotomia del bene e del male (cosa che non esiste in natura, ma soltanto in ambienti umani). Abbiamo l’immaginazione, che ci ha reso “homo sapiens sapiens” e che è il motore di tutti i nostri aspetti. Il problema sono i dogmi, che ci dicono che tutto questo va limitato, controllato e manipolato. Sono idee fondate sulla scarsità (economica, culturale o entrambe), che le alimenta e le mantiene, non sulle risorse. Per fortuna siamo figli del nostro tempo e quest’epoca ci permette di alzare lo sguardo e vedere che abbiamo sofferto e faticato attraverso millenni per tutto quanto e che ce l’abbiamo fatta da soli, perché ne abbiamo le risorse. Questo è il mio obiettivo: dimostrare a quante più persone possibile che siamo forti, caparbi e che possiamo riuscire a migliorare insieme, senza controlli esterni. Sciolti i legami non necessari, emerge l’autentica natura dell’uomo.
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So già che faticherò, così come sono consapevole che la scrittura mi aiuterà nella mia missione; se crederò in ciò che ritengo vero, se infonderò questo spirito di risolutezza del cercare la verità nelle mie opere, qualcuno mi ascolterà. Allora si innescherà l’effetto farfalla e qualcosa potrà cambiare. Non posso avere la certezza di offrire la verità, ma perlomeno vorrei garantire un’alternativa. Questa è la mia natura: io scrivo per gli altri, per raccontare storie che fanno sognare e cambiare e per trasmettere la mia sete di conoscenza. Ci metterò l’anima, così come tutta la fatica che ci vorrà, ma almeno, alla fine, comunque vada, sarò felice. Felice, perché questo sono io. Filip Gavran, 3CL LA FATICA DI PERDONARE Ognuno di noi, nella propria vita, è portato ad affrontare diverse ed innumerevoli fatiche. Basti pensare alla fatica di alzarsi ogni giorno, di andare a scuola o, più semplicemente, di scrivere un testo. La fatica che trovo più difficile e che mi richiede maggior impegno è senz'altro quella di perdonare. Sebbene sia un verbo che ho sentito fin dalla nascita, anche grazie alla religione, che propone il perdono come un atto straordinariamente importante, mi accorgo che non è certamente facile da compiere. Nella mia giovane vita, come penso accada a tutti, ho ricevuto diverse delusioni da parte di amici, ‘fidanzatini’, insegnanti e talvolta anche dai genitori. Nella maggior parte dei casi, le situazioni si sono risolte positivamente, ma semplicemente perché ho cercato di accantonare il problema e di dimenticarmene. Talvolta però non riesco neppure a compiere quest'impresa e quindi mi
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trovo molto spesso a provare rancore verso quelle persone e a non riuscire più a fidarmi completamente di loro. Per me è veramente faticoso ‘perdonare’ perché, per quanto mi possa impegnare, non ce la faccio sul serio! Sarà che sono diffidente e permalosa di natura, ma non sopporto l'idea che qualcuno possa prendersi gioco di me e ferire il mio orgoglio. Dovrei forse cercare di mettere da parte me stessa e capire gli altri, perché è inutile negare che anch'io, nella vita, ho sbagliato molte volte; ma nonostante questo, ogni volta mi trovo in grandissima difficoltà e, per orgoglio, decido di fare sempre la parte della persona forte che non soffre mai, tanto meno per questioni che a qualcuno possono parere banali. Invece mi sento infuriata, affranta, ferita nel profondo. Con questi stati d'animo che mi logorano, non riesco neppure a prendere in considerazione l'idea di poter perdonare qualcuno senza fargliela pagare in qualche maniera e senza rinfacciarglielo alla prima occasione. A parlare in questa maniera mi sento malvagia ed ingiusta, ma poi, se penso a delle situazioni estreme, mi convinco che ho ragione. Pensiamo ad esempio ai carcerati, che magari sono stati condannati per omicidio: come si possono perdonare delle persone capaci di simili gesti? Non ce la farei proprio, soprattutto se (per disgrazia) la vittima dovesse essere una persona a me cara. So che questi non sono dei pensieri ‘nobili’, ma credo anche che tutto ciò sia del tutto umano, anche se ammiro tanto le persone che invece riescono a perdonare. Spero con il tempo di poter migliorare il mio carattere e il mio comportamento, cosicché potrò vivere più in serenità con me stessa e con le altre persone. Anonima, 3CL
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LA FATICA SULLE PUNTE... Una grande stanza e la musica, dolci passi, movimenti già disegnati, il ticchettio delle punte al suolo… le delusioni e le gioie, le fatiche e il viso stanco, gli occhi rotti dal pianto e le labbra sorridenti, un duro lavoro, una fatica a volte insopportabile, l’impegno costante, che spesso non lascia respiro… Il palco non si conquista senza sforzi faticosi… Poi le luci, gli applausi… Per un attimo la mente è libera, per un breve momento voli. Allora capisci che quella fatica la vuoi ancora, e continuerai: per quei momenti e per quegli applausi vale la pena. Anonima, 3CL NON POTER STARE VICINO ALLE PERSONE CHE AMO Fino a pochi giorni fa, credevo, come la maggior parte dei ragazzi della mia età, che la fatica, per noi adolescenti, fosse prima di tutto crescere, affrontare i problemi che la vita scolastica ci riserva, come un brutto voto o qualche richiamo da parte dei professori. Effettivamente è vero che riuscire a sopportare e superare i piccoli ostacoli che incontriamo sulla nostra strada risulta faticoso; ma per me la fatica, la vera fatica è un’altra. Quando avevo quattordici anni, ho dovuto trasferirmi a Pordenone dalla mia città natia, Messina. Ero ormai grandicella ed avevo una mia vita: la mia famiglia, i miei amici
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e soprattutto il mio primo vero ragazzo, il primo che io abbia davvero amato, che mi ha fatto conoscere e amare l’amore. Il mio primo anno di liceo non è stato facile; non tanto perché era per me una situazione nuova, ma quanto perché quella situazione era arrivata proprio quando non doveva arrivare. Il destino ha voluto stravolgere la mia vita esattamente nel momento in cui mi sentivo più felice e serena. Andando avanti con gli anni, ho cominciato ad abituarmi alla mia nuova vita: avevo dei nuovi amici e avevo ritrovato la serenità; cominciavo ad essere contenta della piega che aveva preso la mia esistenza e la lontananza dai miei cari non mi pesava più come prima. Mi bastava sentirli due o tre volte al giorno e vederli una o due volte l’anno. Questo fino all’otto novembre del 2007, quando, con una chiamata arrivata alle prime ore del mattino, mia zia in lacrime dice che mia nonna se n’era andata. In quel momento ho rimpianto il fatto di non avere vissuto vicino a lei, di non averla potuta salutare per l’ultima volta. È passato ormai più di un anno dall’accaduto e, nonostante ne senta la mancanza, so che adesso mia nonna sta bene, dopo una vita di sofferenze. Rassegnatami all’idea, la mia vita tornava tranquilla, ma, per l’ennesima volta, ho dovuto rimpiangere di aver lasciato la mia città ed ho nuovamente baruffato contro il destino che mi ha così allontanato dalla gente che amo. Esattamente dopo una settimana, quel ragazzo che mi aveva fatto conoscere l’amore, Christian, ha avuto un incidente con la moto. Ora è in coma farmacologico, perché ha preso una forte botta in testa. Domani mattina dovrebbero risvegliarlo, ma io non riesco a smettere di piangere. Suo fratello, che chiamo tutti i giorni, mi dice sempre di stare tranquilla e di non preoccuparmi, ma, anche se ci provo, non ce la faccio proprio… Per me la fatica è questa: non poter stare vicino alle persone che amo quando ne hanno più bisogno.
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Paola Eliana Petitto, 5BS PERCHÉ AMARE DOVEVA ESSERE COSI’ DIFFICILE? Una lacrima. La loro ultima notte insieme. Incredibile come passava veloce il tempo, quando potevano trascorrerlo da soli. Era una di quelle rare volte. Un bacio rubato. Carezze leggere. Lei domani si sarebbe sposata. Ma non con lui. Non potevano. “Devo chiederti un’ultima cosa, Jerard”. La voce era carica di tristezza. “Tutto ciò che desiderate, mia signora” “Continuerai ad amarmi?” “Sì” Un altro bacio. La loro ultima notte insieme. Un uomo stava ritto in piedi di fronte alla finestra della sua piccola abitazione. La pioggia scorreva a gocce rapide sul vetro opaco, mentre il paesaggio si faceva più difficile da distinguere per l’oscurità sempre più nera. L’uomo scrollò il capo, cercando, inutilmente, di scacciare il pensiero fisso della sua regina. Si usa dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, ma per lui non era mai stato così e mai lo sarebbe stato. S’infilò la veste dei moschettieri di cui da poco era stato nominato capitano. Un’enorme soddisfazione che poteva comportare però più svantaggi che vantaggi. Come il compito che gli era stato affidato quel giorno: fare da scorta alla regina, durante l’incontro con certi ambasciatori. La sua regina. Non più la sua donna. Non poteva tuttavia smettere di amarla, anche se la cosa gli costava fatica. Faticoso il trattenersi dal guardarla. Faticoso resistere all’impulso di baciarla. Faticoso provare a non rapirla.
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Non poteva nemmeno fuggire. Troppo forte la necessità di proteggerla. Attraversò il giardino del palazzo di Versailles con passo affrettato. Non voleva arrivare in ritardo e poi, se lo avesse fatto, sarebbe stato punito severamente. Un ‘dettaglio’ che desiderava evitare. Bussò tre volte alla porta dell’appartamento reale, attento a non sembrare troppo insistente. Gli aprì la cameriera di Sua Maestà, una donna piuttosto bassa e tarchiata, ma con modi di fare materni e dolci. Appena lo vide, però, la sua espressione si fece preoccupata. Strano: dopotutto era stata lei a riferirgli degli ambasciatori. Magari era solo preoccupata per l’esito delle trattative… Il moschettiere entrò nella stanza di ricevimento convinto di trovarla colma di persone in abiti formali ed eleganti, eppure, a parte lui, la serva e la regina, la sala era vuota. Sua Maestà gli corse incontro. “Finalmente!” “Vostra altezza…” Piegò rigidamente il busto in un inchino. Gli occhi di lei si colmarono di lacrime. “Ho un nome, Jerard, lo ricordi?” “Sì, Altezza. È Gabrielle.” “Perché non mi guardi negli occhi?” L’uomo sollevò lo sguardo. “Come piace alla mia Signora.” “Non essere rigido, Jerard! Quella degli ambasciatori era solo una scusa per vederti…” “Vostra Maestà voleva parlarmi di qualcosa?” Addolorata, la donna si ritrasse, andandosi a sedere su uno scranno poco lontano. Con un gesto gentile, ma deciso, congedò la serva, che uscì dalla stanza. “Sì, devo parlarti. Ma ti prego, siediti.” Jerard obbedì e si sedette su una cassapanca di fronte alla donna. “Ho avuto un figlio.” “Tutto il regno ha festeggiato il felice evento.” “Ne sono a conoscenza. Tu sei stato tra i primi a saperlo, vero? Te l’ha detto mio marito.”
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L’uomo fece una smorfia, ricordando l’episodio. “Sua Maestà il re ha anche aggiunto che vi somiglia molto, mia signora.” “A lui non può assomigliare nemmeno lo volesse…” Uno sguardo interrogativo. “Ha i tuoi occhi, Jerard.” L’uomo strinse forte i bordi della cassapanca. Suo figlio. Il figlio che aveva sempre desiderato, che gli era stato strappato dalle braccia ancor prima che nascesse. Aveva un figlio e non poteva dirlo a nessuno. “Sarebbe stato meglio per me non saperlo.” La donna abbassò il capo. “So che amarmi ti costa fatica e per me è lo stesso, ma ho bisogno di chiederti un ultimo favore. Puoi educare nostro figlio? Essere il suo mentore, insegnargli tutto ciò di cui ha bisogno, i valori più importanti, l’amore verso sua madre e suo padre...” “Quale padre?” Lei tacque. “Riesco a malapena a trattenermi dal baciarvi e voi mi chiedete questo. Ebbene, rimarrò. Farò da mentore a mio figlio, lo aiuterò a crescere e a combattere, ma non gli posso insegnare l’amore verso un padre che non si può definire tale.” Si alzò dirigendosi verso la porta. Il pianto della Regina alle sue spalle. Il suo corpo si bloccò di colpo, indeciso se tornare indietro. No, non poteva. Con uno sforzo enorme rinunciò a consolare la donna amata. Con grande fatica uscì dalla stanza. Perché amare doveva essere così difficile? Chiara Mazzilli, 3CL
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UN RISVEGLIO FATICOSO Ogni mattina alle sei suona la sveglia per andare a scuola e come al solito è puntuale, quella maledetta! Ci fosse una volta che se ne stesse zitta! E che fatica alzarsi così presto: dover uscire dal piumone caldo che mi ha abbracciata tutta la notte per irrigidirsi al freddo e al gelo dell'aria mattutina... La sveglia è appena suonata ma non ho ancora aperto gli occhi. Se li apro bruciano e non vedrei nulla perché è tutto buio, per cui decido saggiamente di tenerli chiusi. Per un attimo sento un odore acre di aria ‘viziata’, ma non mi interessa molto. Lentamente cerco di girarmi nel letto per godere ancora di quei pochi istanti di caldo che mi rimangono, prima del suono della seconda sveglia e in un attimo sprofondo di nuovo nel sonno. Mi sembra che sia passato pochissimo, quando sento quell'orribile suono della seconda sveglia che si trova sulla scrivania, perciò mi tocca alzarmi per forza, ma non ce la faccio proprio, stamattina. Mi giro dall'altra parte e decido di sopportare per quanto sia possibile quel rimbombo martellante che inizia da subito ad irritarmi; si fa sempre più forte e mano a mano che il rumore aumenta i miei nervi reggono sempre meno, fino a che decido che è arrivato il momento di alzarsi. Scatto fuori rapidamente dal letto e mi lancio sulla sveglia per spegnerla. Ah, che sollievo! Chiudo gli occhi. Un bel respiro. Mi sento giusto un pochino meglio, quando improvvisamente percepisco l'aria gelida infilarsi tra la mia pelle calda e il pigiama. Un brivido mi percorre la schiena molto lentamente, vertebra per vertebra. Ora sento arrivare il gelo del mattino.
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Mi sposto verso il bagno, senza aver trovato le ciabatte in camera, al buio e ad occhi chiusi. Forse sono finite sotto il letto. Nel corridoio c'è ancora più freddo e i miei piedi a contatto con le piastrelle gelide si raffredderebbero presto, ma per fortuna stanotte ho dormito con i calzettoni di lana, per cui riesco a mantenere una temperatura accettabile fino a che non arrivo al tappetino del bagno. Mi sistemo e mi lavo i denti. Anche solo un'azione semplicissima come mettere il dentifricio sullo spazzolino la mattina diventa difficilissima, e così al primo tentativo sbaglio mira e la pasta per denti mi cade sul lavandino. Riprovo, stando ben attenta a posizionare il dentifricio sullo spazzolino e questa volta ci riesco. Apro il rubinetto e la stanza si riempie del suono dell'acqua fresca che scorre. Bagno la testa dello spazzolino e chiudo subito l'acqua. Silenzio. La mattina lo si apprezza molto di più che durante il resto della giornata. Mi metto in bocca lo spazzolino e sento il primo gusto del giorno: menta fresca, forte e fredda che mi apre subito le vie respiratorie. Dopo essermi ben lavata i denti, mi sciacquo la bocca e mi lavo il viso con una manciata di acqua fredda. Sento subito la circolazione del volto che si attiva e guardandomi allo specchio vedo che le mie guance incominciano a colorarsi di un rosa pallido. Due brutti solchi neri sotto gli occhi rovinano però il ‘panorama’ e mi ricordano le poche ore di sonno. Me ne torno ciondolante in camera, cercando di non andare a sbattere sulle porte e cerco nella cartella il diario di scuola. Lo apro alla pagina dell'orario e guardo che materie mi prospetta la giornata: filosofia, storia... Già mi fermo con gli occhi perché mi saltano in mente i due mattoni di libri che ho da portare fino a scuola. Credo che dovrebbero farli più leggeri i libri, o almeno a volumi, in modo da diminuire il peso, perché alcuni sono davvero grossi e mi si spezza la schiena a doverli portare tutti lo stesso giorno. Scorro con gli occhi la mia pila di libri e trovo
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quelli che mi servono per oggi, così li infilo nello zaino. I movimenti sono molto lenti. Che fatica alzarsi presto la mattina! Butto l'occhio rapidamente alla sveglia per vedere che ore sono e mi accorgo che forse è meglio se mi muovo. Apro l'armadio e prendo i primi vestiti di ogni pila, senza badare troppo agli abbinamenti, perché comunque ho tutto nero o quasi; mi cambio prima i calzini, così i piedi stanno al caldo, poi rapidamente mi tolgo i pantaloni del pigiama e infilo i pantaloni neri, poi la maglia e infine la felpa, camminando lungo il corridoio mentre vado verso la cucina. Là trovo i biscotti e la tovaglietta americana preparati la sera prima dalla mamma e mio padre davanti a me che mi scalda il latte. Faccio un cenno con la testa per salutarlo, perché la mia voce è ancora debole e al tentativo di parlare esce solo un sibilo. Mi siedo sullo sgabello e mangio molto di fretta, quasi strozzandomi, perché quando vedo che è molto tardi, inizio ad abbuffarmi e anche solo un goccio di latte mi va di traverso! Passo quindi i seguenti cinque minuti a tossire, mentre finisco di prepararmi. Non ho più molto tempo, per cui prendo i trucchi e corro in bagno. Devo mettere un filo di matita sugli occhi ma sbaglio mira e così un occhio si difende iniziando a lacrimare e un segno nero mi riga la guancia. Me ne torno in camera e mi infilo gli orecchini, i braccialetti, l'anello e poi via con la sciarpa ed il cappotto. Ormai non penso più a molto, solo a cercare di non perdere la corriera. Scendo le scale stando attenta a non inciampare. Quando apro il portone, il primo respiro di aria gelida mi penetra le narici e mi arriva direttamente al cervello. Ora finalmente incomincio a svegliarmi. Buona giornata! Aura, 3CL
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PER FORTUNA NON HO UN FIDANZATO! C’è una canzone che dice: “Quando hai solo diciotto anni quante cose che non sai, o forse invece sai già tutto e non dovresti crescer mai?”. Ora mi rivolgo a voi, giovani diciottenni… Alla nostra età sappiamo già tutto e non dovremmo crescere mai, o invece abbiamo molte cose da imparare? Quante volte, riascoltando questa canzone, ho provato a darmi una risposta… Inevitabilmente, essa veniva sempre a mancare. A diciotto anni la vita è ancora fresca, leggera; i sogni, i progetti, le illusioni sono ancora vivi in noi. Ma a diciotto anni cos’altro c’è in noi? Ebbene sì! Ora a questa domanda posso dare una risposta. In me oggi c’è molto, c’è tanto, e questo ‘tanto’ tre anni fa non c’era. Non sto parlando solo dell’aspetto fisico che con il tempo cambia, ma anche di un carattere che ha preso nuove forme. Qualche anno fa, la mia debolezza e la mia ingenuità mi hanno portato a commettere qualche errore, come è normale che sia, mentre oggi sono sicura di riuscire a gestire con maggiore capacità alcune situazioni particolari. Una di queste è la scuola. A diciotto anni, nella maggior parte dei casi, si è anche uno studente ed i compiti e i doveri che quest’ultimo ha sono spesso motivo di sofferenza e di grandi cambiamenti. Essere uno studente non vuol dire soltanto frequentare un luogo dove ci viene data un’istruzione, ma significa anche crescere, conoscersi e farsi aiutare a diventare grandi. ‘Crescere’, perché in qualche modo ci si limita, ci si impone di essere in un determinato modo, ci si dà delle regole: quando, ad esempio, un professore rimprovera un alunno, quest’ultimo può reagire in due modi differenti: con l’aggressività e, a volte, la maleducazione, oppure con rispetto e in modo educato. Questo non vuol dire fingere di essere quello che, in realtà, non siamo, ma significa semplicemente
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imparare a vivere all’interno di un’istituzione sociale, soprattutto perché in futuro e in un luogo di lavoro, la cosa principale credo sia proprio essere rispettosi ed educati nei confronti dei superiori. Scuola è anche accettare di farsi aiutare a diventare ‘grandi’, perché, spesso, sono proprio i professori, che ci elogiano e ci rimproverano, ad aiutarci a costruire il nostro carattere e un modo di pensare. Ma andare a scuola è anche un modo per ‘conoscersi’, in quanto nel rapporto professore-studente, ma anche tra gli studenti stessi, si vengono a formare e si scoprono nuovi aspetti della nostra personalità che prima non si conoscevano. Proprio per questo, arrivata ad oggi, credo sia giusto dare un po’ del merito a quei professori che, durante questi cinque anni trascorsi insieme, mi hanno trasmesso non solo una cultura, ma anche una formazione e quindi un’educazione. Andare a scuola, in fondo, è un po’ come andare dallo psicologo, in quanto, a volte, si viene capiti senza il bisogno di tante parole. In questi anni, poi, ho notato una sostanziale differenza rispetto a quando frequentavo la scuola media: infatti, mentre, alle medie, la maggior parte degli insegnanti era molto comprensiva e buona, alle superiori esistono diverse tipologie -se così si può dire- di insegnanti. Vi sono, infatti, coloro i quali, forse perché da giovani hanno vissuto dei momenti, delle situazioni o delle circostanze simili a quelle che viviamo ora noi diciottenni, che riescono ad essere molto più ‘umani’ rispetto ad altri professori che, invece, appoggiano il loro sedere alla sedia e il registro sulla cattedra e, impassibili, parlano per ore ed ore. In quei casi, più che ad una lezione, mi sembra di dover assistere ad una…omelia. Ecco che allora subentra la fatica: la fatica di sopportare, la fatica di andare avanti senza voglia, senza stimoli e senza energie. È già molto faticoso doversi alzare ogni mattina, prendere il treno, andare a scuola, svolgere uno o, a volte, anche due compiti in una sola giornata ed in più, se a tutto ciò si aggiunge
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anche il fatto di sapere di dover stare seduti in silenzio per ore ad ascoltare milioni di parole che sembrano non giungere mai ad una conclusione, allora sì lo studente, ad un certo punto, crolla! Lo studente non ‘crolla’ solo fisicamente, ma crolla pure la sua struttura psicologica, in quanto la fatica non riguarda esclusivamente lo studio e l’impegno, ma anche l’energia e la vitalità, che purtroppo, in certe situazioni, l’allievo finisce col perdere. Credo sia molto importante per tutti non dimenticare mai che lo studente è prima di tutto una persona e che come tale ha bisogno del suo tempo libero che purtroppo, specie durante l’ultimo anno scolastico, è davvero scarso o, a volte, assente. La mia sofferenza più grande è proprio non avere del tempo libero da dedicare a me stessa e ai miei amici, che riesco a vedere soltanto il sabato sera e la domenica. Mi ritengo addirittura fortunata di non avere un fidanzato, perché molto probabilmente, se ce l’avessi, sarei talmente esausta da diventare insopportabile e da rischiare di mandare in quattro e quattr’otto tutto all’aria. Quello che sta maturando dentro di me, infatti, come già detto, è la fatica: la fatica di dover sempre fare, fare e fare senza mai fermarsi, dimostrando di essere tenaci e di non arrendersi mai. È molto difficile, però, riuscire a fare ciò, in quanto un diciottenne non può trascorrere ogni pomeriggio chiuso in casa con gli occhi sopra i libri, concedendosi soltanto il sabato sera come svago e dunque come unico momento di divertimento, per arrivare alla domenica con l’angoscia di dover cominciare un’altra settimana impegnativa e stancante come le precedenti. La fatica dovuta allo studio quotidiano e costante, e dunque relativa alla mente, è persino maggiore rispetto alla fatica fisica, in quanto lo studio prevede una concentrazione elevata che non permette al pensiero di divagare, mentre la fatica fisica non limita completamente il pensiero. Proprio per questo, consiglio a tutti coloro i quali non sono ancora giunti alla quinta superiore, di non sottovalutare
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l’impegno e lo studio che li aspetta e soprattutto di essere tenaci e, nei momenti di sconforto, di andare avanti, pensando che, nonostante la fatica che dovranno affrontare, quest’ultima garantirà dei buoni risultati e grazie ad essa riusciranno a giungere alla meta tanto attesa, ossia la maturità. Nonostante tutte le avversità, le inquietudini, le situazioni spiacevoli, i malcontenti e le rinunce che la fatica comporta, bisogna avere speranza: non sottovalutare mai l’energia che ognuno di noi conserva dentro di sé è fondamentale, perché nella vita non si finisce mai di imparare e perché la scuola è utile a tutti per prepararsi a vivere nel mondo; quel mondo dove, con i tempi che corrono, si fa fatica a capire quello che succede e a distinguere le cose importanti da quelle irrilevanti. Ecco che allora posso finalmente dare una risposta alla mia domanda iniziale: prima dei diciotto anni, noi giovani guardavamo il mondo e credevamo che, in fondo, tutto sarebbe sempre trascorso in maniera semplice, convinti del fatto che molte cose le sapevamo già, che eravamo preparati a tutto; ora è giunto il momento di vivere in prima persona, di costruire la nostra quotidianità mettendo in campo tutte le forze, contando sempre meno sull’aiuto degli altri e sviluppando nuove e molteplici capacità per superare gli ostacoli di questa fase della vita. Un giorno, poi, quando cresceremo ed avremo un lavoro ed un futuro, allora sì che potremo voltare le spalle al passato e farci i complimenti da soli per aver faticato tanto, tenuto duro e lottato contro le difficoltà. Come dice la canzone citata prima, “il destino ha la sua puntualità”. E dunque, qualunque sia il nostro destino, nei nostri ricordi rimarranno vive le sensazioni provate a diciotto anni: i nostri ‘sudatissimi’ diciotto anni. Anonima
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LA FATICA DI VOLTARE PAGINA Caro diario, siamo nel nuovo anno. Chissà se cambierà qualcosa! Il 2009 mi porterà novità? Lo spero, anche perché gli ultimi due mesi del 2008 non sono stati facili per me… Un turbine di emozioni. Rabbia, tristezza, felicità e rassegnazione, tradimento, nuove amicizie…Alcune sincere, altre no. Una fine dell’anno strana: non di solo divertimento, ma anche di numerosi addii a persone a cui tenevo e a cui tengo ancora. Un addio deciso, un altro dovuto alle circostanze, un altro al fato. Quanto ho pianto, ultimamente… Ora non lo voglio più fare. Basta! Una nuova persona. Una nuova me. Devo provarci. Per chi mi vuole bene e non ne può più di vedermi distrutta dai continui eventi che mi ruotano attorno. Vogliono che reagisca, che non mi pianga addosso. Già ho cominciato, tagliando i ponti con persone a cui tengo, ma che mi hanno ferita più e più volte. La fatica di chiudere, dire stop; l’addio a chi consideravi la persona giusta per te. Il dolore della sofferenza. Cosa fare? Cosa scegliere? Troppa fatica. Meglio non scegliere, pensavo. Ma quando la situazione ha cominciato a pesare, quando non sono più riuscita a venirne fuori, sono caduta troppe volte. Qualcuno prima mi aiutava a rialzarmi, ma quando, testarda e cieca, ho continuato per la stessa via e cadevo, e cadevo, a poco a poco chi mi soccorreva cominciava a scomparire…Non c’era più… Nessun soccorso. Ero in compagnia del mio dolore e dell’errore che continuavo a commettere. Perché continuare a soffrire? Per chi? Questo tarlo continuava a battere nella mia testa.
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Volevo eliminare questa tristezza e capivo che all’origine di tutti i mali c’era una persona. Per quanto faticoso fosse allontanarmene, farne a meno e non vederla, dovevo farlo. I primi giorni sono stati durissimi. Da vedere quasi tutti i giorni una persona a non vederla più cambia molto: i ritmi di vita, le abitudini… Come vai a dormire e come ti alzi. Prima sapevi che il giorno dopo avresti avuto lui che ti sarebbe venuto a trovare, poi non più. E vai a letto con questa nuova verità, cioè che hai il cuore a pezzi. Poi, non bastasse questa sofferenza, se ne aggiunge subito un’altra. Ho perso un’altra persona, stavolta per sempre. Non la potrò rivedere mai più. Né io né nessun altro. Solo il ricordo resta, a chi vuol ricordare e a chi ne ha la forza. È faticoso accettare che una persona non c’è più… Tenti in tutti i modi di aggrapparti ad una speranza, l’unica che ti è rimasta, anche se è piccola; ma quando anche quella si sgretola, che ti rimane? Un vuoto, un groppo in gola, un nodo allo stomaco. Tutto sembra inutile. Tutte le certezze svaniscono. Perché la vita è così ingiusta? C’è un senso a questa continua sofferenza? Voglio un senso. Lo pretendo! A chi posso dare la colpa? Mi serve un colpevole, mi serve per sentirmi meglio. Anche se è solo un senso di leggerezza passeggero, perché la rabbia, il dolore, il risentimento, le congetture, il “se” ti logorano dentro… Piangi lacrime amare; piangi, piangi e continui a piangere… Soffri. Ricordi… I ricordi sono dolorosi, ma…senza? Si soffrirebbe forse meno? No: la sofferenza busserebbe comunque alle porte ogni volta possibile. Senza pietà ti mostrerà i ricordi che non vuoi vedere e che vorresti fossero reali, lasciandoti poi in bocca il gusto amaro della verità. La desolazione di risvegliarsi da un sogno che si tramuta in incubo. Vederlo sorridere, per poi ricordarsi che non sorriderà più, che non potrà più piangere e scherzare.
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Perché sei morto? Perché proprio tu? Perché il fato ha scelto te? Cosa avevi di diverso da me o da un’altra persona? Poteva capitare a chiunque, ma non voglio augurarlo a nessuno. Non volevo capitasse a te, come non lo voleva nessun altro. Quando ti penso, sento un nodo allo stomaco e non solo perché non ci sei più, ma anche perché ogni volta che rileggo i nostri messaggi quand’eri sempre felice di ogni cosa che ti capitava, quando mi dicevi quante cose dovevi fare e mi salutavi dicendomi: “ci sentiamo dopo, tesoro”… O quando, negli ultimi messaggi, poiché per vari impegni non riuscivamo mai a vederci, mi dicevi: “tranquilla, ne abbiamo di tempo…”. ‘Quel’ tempo immaginato, desiderato, non c’è stato. E non ce ne sarà più. Mi ritorna alla mente quello che mi è stato detto, cioè che noi ragazzi ci crediamo immortali. Forse è vero. Lo pensiamo ma non lo siamo, e quando ce ne rendiamo conto è troppo tardi, per noi e per chi ci è vicino, perché, quando siamo incoscienti, non rischiamo solo la nostra vita, ma anche quella di chi ci sta attorno e che a volte neppure conosciamo… Mia madre mi dice sempre che non capiremo niente fino a che non succederà a noi di perdere qualcuno. A me è successo e ora capisco cosa voleva dire. Ma averlo capito così fa male. Tanto. A che prezzo si diventa consapevoli! Un prezzo troppo alto. Ora mi sono rimaste solo lacrime… Troppe sono le cose che sono capitate e mi hanno cambiato la vita che prima scorreva ‘normale’. A volte si vorrebbe evadere, andarsene da un posto che ormai sentiamo stretto. Ci sentiamo così decisi, che manca solo il passo finale, cioè fare le valigie ed andarsene: chiudere la porta e non voltarsi. Ma non siamo abbastanza forti da farlo; almeno io non lo sono… forse più avanti ce la farò… Oh, quanti dubbi mi annebbiano la mente, mi fanno fare discorsi incoerenti… Mi sento un’idiota a pensare di scrivere ciò che provo per lasciarmi andare e svuotare la mente, dato
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che i brutti pensieri poi riaffiorano e si fanno più forti e a fatica te ne liberi nuovamente. A volte sembra di impazzire! Ti senti prigioniero di te stesso, della tua mente, come se fossi rinchiuso in una fortezza di cristallo. Le pareti sono certezze che possono sgretolarsi ogni istante che passa. Corri fra i corridoi, ti specchi e vedi le espressioni che assume il tuo viso: la gioia, lo stupore, il terrore, l’ansia… Il corridoio che percorri sembra farsi sempre più lungo e alla fine vedi la luce che cerchi, le risposte tanto attese. Corri più veloce per arrivare al traguardo, accompagnato dal respiro affannoso che pian piano si carica di speranza. Vuoi che la luce ti liberi dalle corde che ti tengono prigioniero del dubbio. La luce ti abbaglia, brucia gli occhi di chi rimane per troppo tempo al buio. Ora c’è la possibilità di uscirne. Cosa fare? Abbandonare un rifugio e gettarsi nel vuoto? Si è sempre messi di fronte a delle scelte. Si deve decidere ed imparare a volare con le proprie ali senza appoggiarsi agli altri, ma non è facile… Quante cose sto scrivendo! Tutti pensieri scoordinati che a fatica riesco a mettere insieme razionalmente; forse non lo voglio nemmeno fare. Ora ti lascio, sperando, quest’anno, di riuscire a scrivere nuove cose. Magari ci saranno delle novità e magari riceverò anche più coraggio per andare avanti. Per crescere. Mara, 5AS “GRAZIE A TE…” Ciao, Andrea, ti sto scrivendo per ringraziarti. Grazie per quello che hai fatto per me.
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Grazie a te sono riuscita a superare, non con poche difficoltà, uno dei miei ostacoli più grandi: accettare con serenità la scomparsa di mio nonno. La perdita di una persona cara è uno dei fatti che si superano con più difficoltà, ma con il tuo aiuto posso dire di esserci riuscita. Ricordo con quanta difficoltà ti parlai di lui la prima volta; difficoltà svanita dopo i primi minuti. Ti raccontai tutto quello che mi veniva in mente, tutto quello che rappresentava per me questa figura fondamentale. Sinceramente faccio ancora fatica a parlare liberamente di lui, senza soffrire. Quello che so è che è dentro il mio cuore. Avevi ragione, quando mi dicevi che mi avrebbe fatto bene andare a trovarlo. E così ti ringrazio per quando, il 28 agosto, il giorno del suo compleanno, mi hai spronata ad andare da lui. Prima di allora non ero mai andata lì da sola. Quei venti minuti in cimitero mi hanno riportata a due anni prima, a quando mi ero resa veramente conto che non c’era più. Grazie a te ho capito di non averlo perso definitivamente. Ho capito che lo posso portare sempre dentro di me; ho capito che quando qualcuno lo nomina ad una cena, o si parla di lui, oppure si ricorda una sua frase o un fatto che lo riguarda, è come se fosse di nuovo in mezzo a noi, come se rivivesse di nuovo. Grazie. Anonima, 5AS IL SENTIERO DELLA VITA Cara Chiara, sono avvolta nel mio sacco a pelo, dopo questa lunga giornata di cammino e penso a te che sei rimasta a casa. Sono partita stamattina con tutti gli altri del gruppo. Abbiamo intrapreso un sentiero innevato che saliva lungo il dorso della montagna e dopo pochi minuti abbiamo smesso di
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parlare, perché il dislivello della salita è aumentato e la pendenza era così forte da togliere il fiato. La fatica di camminare con uno zaino in spalla è inspiegabile. Ti svuota dentro. D’altronde lo sai bene. Tu che l’hai affrontata con noi per tanti anni, la conosci quella sensazione di affaticamento fisico che però ti mette davanti la tua vita: lassù, quando non hai fiato per respirare, ti sembra che, più dello zaino, siano i tuoi vissuti a pesare: le parole che non hai avuto il coraggio di dire a qualcuno o le azioni che avresti preferito non fare… Emergono le fatiche della vita quotidiana, quelle che ognuno è costretto ad affrontare ed è lì che ti domandi perché ogni mattina ti ostini ad alzarti; e ti chiedi perché, anche se consapevole della fatica da compiere per arrivare in cima, ancora una volta ti trovi in montagna a camminare. La risposta era lì, davanti ai miei occhi: la vetta di quel monte, la meta, l’obiettivo da raggiungere. È QUELLO che ti fa muovere: la fatica, di qualsiasi natura, è giustificata se hai in mente ciò che essa ti permette di raggiungere. Siamo in grado di affrontarla e sopportarla se otteniamo un risultato, se alla fine c’è qualcosa che ci gratifica. Nel momento in cui si raggiunge quell’obiettivo, anche la più dura delle fatiche sembra di colpo svanire e la gioia è superiore ad ogni ostacolo, ad ogni sofferenza incontrata. Lo è stato anche per me, oggi, quando, dopo ore di cammino, ho posato a terra quello zaino. È come se la fatica, in quel momento, fosse di colpo svanita. Il panorama che mi si è presentato di fronte cancellava perfino il male ai piedi… La vita è un po’ come tanti sentieri: percorrerli costa fatica. Ma non ci si deve lasciar scoraggiare da essa, lungo la strada, anzi: bisogna avere sempre ben presente l’obiettivo e camminare guardandosi intorno, osservando il panorama, accorgendoci di chi cammina accanto a noi, di coloro che ci aiutano a sopportare le nostre fatiche, ma essere allo stesso tempo disponibili ad accollarci un po’ delle loro, perché la parte più bella, -lo so, ti sembrerà strano- è proprio la salita.
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La fatica ci pesa, ma è parte del significato di quello che facciamo, di quello che viviamo; i nostri obiettivi sono ‘grandi’ proprio perché difficili da raggiungere; hanno una profonda importanza, perché il percorso per conquistarli è assai arduo. Se, al contrario, tutto fosse semplice, perderebbero il loro fascino. Oggi mi sei mancata. Quella fatica mi è sembrata più dura, senza te al mio fianco. Avrei voluto condividere questi momenti: sono certa che sarebbe stato tutto ancora più bello. Sono sicura che alla prossima occasione sarai al mio fianco, come nel passato e per tante volte ancora. Con immenso affetto, Laura, 5AS LA VOCE CHE MI TORMENTA Caro amico, sempre vagai alla ricerca d’un luogo immune alla fatica umana. Tu sai. Molto ho errato, ed invano ho cominciato il mio viaggio verso luoghi primitivi, ove la civiltà non aveva ancora contaminato lo stato di natura che vigeva in posti tanto affascinanti quanto pericolosi. Lì trovai una fatica mai provata, che non avrei mai creduto d’incontrare: la fatica di vivere. Una morsa mi prese mente e corpo. Non seppi che fare. Non creder, però, ch’io intenda la fatica comune a tutti gli esseri che vivano in condizioni in cui la natura è antagonista alla stessa vita. La fatica di cui ti parlo è diversa. È puramente mentale, concettuale. Non ha nulla a che fare con la fatica fisica. Ogni giorno mi tormentavano domande, domande che possono sembrar assurde, domande sulla fatica di continuare una vita sofferta, come la mia, come la tua, come quella di noi, tutti, esseri umani. Perché continuare tanta fatica? Perché perpetuare una vita tanto vana quanto sofferta?
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Queste domande affollavano la mia mente, che una volta, infantilmente, un po’ presa dall’apatia, cercava un modo per non affaticarsi troppo… Il mio vagare, credevo, mi sarebbe servito per cercare un posto, su questa terra, ove tutto fosse già pronto, ove non occorresse faticar per procurarsi ciò di cui si ha bisogno. Mi sbagliavo! Incontrai ben altre difficoltà, che procurarmi cibo ed un riparo. Per sfuggire a tanti problemi e alle troppe domande che ormai m’avevano contaminato fin il corpo, scappai! Mi diressi verso quella che una volta anch’io chiamavo ‘civiltà’, ove credei non sarei più stato solo coi miei dilemmi, ove potevo condividere tormenti ed opinioni. Con qualche soldo raggiunsi Venezia, meravigliosa città, vinta dal tempo, con un fascino tutto suo, ineguagliabile centro d’arte e di cultura. Mi sembrò la scelta perfetta. Lo sfarzo dei suoi palazzi ed il fetore dei suoi canali m’avevano stretto il cuore in un abbraccio dolcissimo e soffocante ad un tempo. Ma la gente lì non fu affatto gradevole. Trovai un astio indicibile in quella città, un astio che mai mi sarei aspettato. Invece d’accomunarci, d’unirci tutti in una “social catena”, la fatica a vivere ci divide, ci separa, fa litigare i fratelli e combattere le madri. Credei di morire, e per un poco lo sperai. Se solo avessi trovato pace, non mi sarei più tormentato. Mai più. Quanto è faticoso vivere! Il Fato volle che ricominciassi a vagare… Continuai per anni la mia ricerca, la mia iniziale ricerca; tutto però mi ricordava i giorni passati in quei luoghi dimenticati da Dio, in quegli ambienti, in quei paesaggi, che tanto simili sono ai paesaggi dell’anima mia. Mi diressi fin in Asia, la lontana Asia, la terra della pace interiore (così, almeno, si dice), ove credei di trovar vita senza fatiche. M’avvicinai persino al Buddismo, invano. Io cercavo l’illuminazione per raggiungere quello stato mentale che ci permette di non essere più schiavi del bisogno, così da non dover più faticare.
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Egoisticamente, però, volevo raggiungerla subito. Mi sforzavo, senza risultati. Impazzivo. La meditazione mi rivelò fatiche nuove. Infastidito, non pensavo ad altro che alla Fatica. Mio unico tormento, mio unico timore. Sono tornato a casa da quasi due settimane ed ancora la mia condanna insiste. Mi dilania le carni e mi scuote fin a farmi perdere i sensi. Insiste. Non penso ad altro. Non posso pensare ad altro, ormai. Non darmi del codardo. Ormai ho deciso. La voce che mi tormenta tacerà. Per sempre. Tacerà! Insopportabile voce! Caro amico, tu solo capirai il mio gesto. Mi compatirai? Pure tu hai sofferto ed hai tanto faticato nella vita. Tu mi sei sempre stato amico, ma per me eri come un fratello, un fratello maggiore, un maestro. Ed io ti volevo bene come a un padre. Capirai. Tu che, solo, sentirai la mia mancanza. Tu e solo tu. Ti chiedo perdono, ma i paesaggi dell’anima mia sono troppo oscuri. Non c’è quasi più luce in me, e la flebile fiammella che danza sola nel buio sta per spegnersi. Perdonami, amico mio. Addio Bruxelles 11 dicembre 1873 Jacopo, 5AS NICHELINO Ti saluto. Devo partire, lasciarti sola. Spegnerò la luce, chiuderò la porta, sparirò. Me ne andrò quando sarai innamorata. Piangerò.
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Devo andare. Ho un appuntamento con il mondo, ma so che tu ci sei. Il tuo saluto sta nella bellezza di quel tramonto. Boris, 5AS LA STANCHEZZA DELL’ANIMA Mi ritrovo qui a pensare… Che significato darti, fatica? Ora ti ho presente più che mai: ogni singolo respiro, ad ogni passo ti sono sempre più vicina. La stanchezza mi travolge e il mio corpo lacerato è penetrato da te. Solo tu oggi presenza in me. Deborah Villotta, 5AS
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Paesaggi, 7
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IL RIFLESSO DELL’ANIMA In un momento nella vita comprendi. Ci sei. Me stesso nascosto non volevo farlo emergere. Di fronte solo un’immagine riflessa in uno specchio. Non mi piace. Più cerchi di andare avanti più la fatica ti spinge indietro. Fatica di accettare se stessi. Ama te stesso. Amerai la vita. Sabrina, 5AS INTERMINABILE SALITA Ogni fatica un gradino di un’ascesa invisibile. Non ha fine. Sempre nuovi inizi. Anonimo, 5AS
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IMPOSSIBILE DIMENTICARE Caro diario, questo non è stato un giorno semplice. Non ho mai amato questa data. Il 4 gennaio 1995 morì mio padre. Oggi è il quattordicesimo anniversario della sua morte e il dolore dentro il mio cuore è ancora fresco. Lo tocco. In cimitero c’è la sua foto, accanto a quella di mio nonno, scomparso solo alcuni mesi dopo mio padre. Ho pochi ricordi di lui. È un volto che mi trasmette sensazioni particolari, un volto che riesce ad incoraggiarmi ed a farmi pensare che non sono sola. Sono passati quattordici anni e ancora non riesco a darmi alcune risposte. Credo che non arriveranno mai, perché è stato il destino a decidere per lui. Non riesco ad accettare questo destino: non riesco a capacitarmi della scomparsa del mio papà, forse perché ero troppo piccola per capire. Il mio desiderio più grande sarebbe vederlo, parlargli un’ultima volta, confrontarmi con colui che mi ha dato la vita, con il mio sangue. Sono convinta del fatto che certi avvenimenti non si possono dimenticare, perché sono in noi e sono noi. Preferisco quindi ricordarlo per quelle cose che è riuscito ad insegnarmi, anche se sono poche. Non gli rimprovero nulla, se non il fatto che, a volte, se non stai attento alle tue azioni, sono gli altri a soffrire per te. Anonimo, 5AS UN ANNO…CHE FATICA! Caro diario, sono appena tornata dal pomeriggio più romantico della mia vita.
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Oggi ho festeggiato il primo mese assieme al mio ragazzo e, sai, ci sto pensando. Sembra un po’ banale, ma non mi sentivo così bene da tanto tempo. È stato un anno pesante, faticoso, triste e strano, ma anche emozionante e felice sotto certi punti di vista; un anno sicuramente lungo. A pensarci, ora che si è concluso, dico, come ogni anno, che è volato. Andando più a fondo, però, non è stato per niente facile. Anzi, riflettendoci, posso dire che questo è stato, credo, l’anno più faticoso di tutti. Non solo all’inizio, quando non sapevo bene cosa aspettarmi: immaginavo infatti il classico, monotono anno, con le solite cose. Alla fine si è dimostrato più interessante, anche se forse più difficile del solito. La fatica mi ha accompagnata in tutti questi dodici mesi, in alcuni più che in altri. Lei c’era. Era presente. Mi disturbava. Sì: mi disturbava. La fatica, dicono, rende più bello il raggiungimento delle cose, dei propri obbiettivi. Nel mio caso non sempre è stato così, a partire dalla scuola. Non sempre, infatti, mi sentivo nelle condizioni migliori. C’è stato un periodo terribile in cui credevo di non farcela. Ma, si sa, la scuola ‘è’ fatica e non sempre il risultato si vede subito: il percorso è lungo. Poi giugno: il lavoro, la fatica, la difficoltà ogni mattina a svegliarsi troppo presto; e poi il caldo, il lavoro, consapevole che i soldi non sarebbero arrivati che di lì a un mese e mai un mese mi è sembrato così lungo. Ero consapevole che i soldi che avrei guadagnato sarebbero rimasti (come poi è stato) nelle mie mani solo per pochi minuti, perché la promessa fatta ai miei genitori era quella di restituirli per finire di pagare la patente, una patente che è stata una tortura, non solo una fatica, e di cui neppure ora vedo i risultati, dato che la patente è inutile se non si ha una macchina. Solo alla fine di agosto ho sentito che si risollevava un po’ il morale; morale che puntualmente cadeva a terra perché in agguato c’era sempre qualcosa che non andava, come le crisi di personalità che hanno messo in discussione tutto quello che
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ero stata fino a quel momento. Crisi causate probabilmente dal lavoro, dalla mancanza di Lisa; a volte dalla poca attenzione nei miei confronti, da parte della mia famiglia. Dopo mille difficoltà e grazie all’aiuto di amici sinceri come sempre al mio fianco, sono riuscita a riemergere. La fatica non è amica di nessuno ed è sempre in agguato, pronta ad attaccarti e così una volta ancora ha attaccato il mio cuore, ferendomi per l’ennesima volta. Un ragazzo. Sì, sempre loro. Sembrerà strano, perché avrei dovuto imparare dalle esperienze passate, ma nuovamente sono stata ferita a causa della mia immaturità, della mia testardaggine, della mia incapacità ad ascoltare i consigli. È che, si sa: quando il cuore comanda, non sempre lo si può frenare a rischio che, con un soffio, come un pezzo di vetro, si spezzi. E Lei sempre lì, la fatica, in agguato; sempre più difficile da togliere, sempre incollata. A complicare tutto, i problemi di sempre: lo stress, la famiglia che a volte non si accorgeva di come stavo, o a volte se ne rendeva conto fin troppo bene; e poi la fatica ad accettare il mio ‘problema’ fisico. Con fatica e con rabbia accettare che le cose non erano cambiate, che Lui era sempre lì nel mio collo. Mi ha fatto piangere, arrabbiare, disperare, e alla fine mi ha portato alla conclusione che nessuno voleva: l’operazione. E poi ancora lui: il cuore sempre più ferito, spezzato dai maschi; ed io sempre più debole a cedere al mio cuore; e Lisa che continuava a dirmi: “stai attenta…lascia perdere..” E questo mio cuore che, lo conosci, è sempre più potente della ragione. E vince. Ma ‘perdo’ io. E io soffro… Tuffarmi sempre nelle stesse storie e poi affondare di nuovo. Poi un giorno, lui, il mio angelo. Mi ha risollevato, ha pulito un po’ della fatica che come il catrame si era incollata a me e non mi lasciava mai. Lui ora è con me e mi fa sentire per la prima volta ‘leggera’, senza il peso di quella fatica che mai mi aveva abbandonata. Se non ci fossero stati lui, Lisa, Fra, le mie canzoni, sarei affondata, perché la fatica non è -come dicono-
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solo quella che ti fa apprezzare di più le cose, ma, come nel mio caso, a volte le distrugge. Sai, ogni 31 dicembre si esprimono desideri per il nuovo anno… Questa volta non chiederò il classico anno nel quale vada tutto liscio, che io sia felice e dove tutti stiano bene. La tentazione sarebbe sperare di provare, anche se so che sarà impossibile, un anno senza fatica… Poi penso che non sarebbe umano vivere senza fatica, perché è sempre presente in ogni piccolo atto: dall’aprire un barattolo di marmellata, allo svegliarsi la mattina, all’andare a scuola, al fare tutte le altre cose che probabilmente non avrebbero senso senza di essa. Margherita Antoniali, 5AS LA RICERCA DELLA SERENITA’ Caro diario, è passato un altro anno, forse l’anno più massacrante che io ricordi fino ad ora. È stato faticoso dal punto di vista fisico, ma soprattutto mentale. Non so come ho fatto, ma dopo quattro anni di sopportazione, sono riuscita finalmente a far capire il mio grosso disagio alle persone che mi stanno attorno. Non è stato facile ed è stato molto faticoso chiedere aiuto, ma avevo toccato il fondo, purtroppo. Sai, la mia professoressa di italiano, per queste vacanze, ci ha chiesto di scrivere qualcosa sulla fatica... Sì, proprio la fatica! Ma la fatica è ovunque, per me, visto che sono una ‘pinza’! La fatica più grande per me, forse, è ciò che dovrò fare per ritrovare pace ed equilibrio. Per fare ciò, dovrò scrivere per il prof. Tessarin una lista di 10 aspetti positivi e 10 aspetti negativi che riscontro in me…
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Sarà veramente una fatica, visto che ritengo che i miei punti negativi siano in netto vantaggio rispetto a quelli positivi! Ho molta paura di non trovarne così tanti, ma ce la farò...spero. Devo farcela, non solo per me, ma per le persone che mi stanno accanto e che mi amano. Valerio, ad esempio! È stato lui il primo e forse l’unico che sapeva delle mie problematiche ed è stato lui a spingermi ad andare a parlare prima con i miei e poi con i professori, di ciò che mi era successo. Per fortuna c’è lui al mio fianco, sennò, chissà che avrei fatto! Come ben sai, è stato l’unico che non mi ha mai abbandonata e che mi ha ‘salvata’! Lui per me è tutto, tranne che… una fatica. Per la verità, ogni tanto è un po’ faticoso sopportarlo, ma credo che lui possa dire altrettanto, se pensa come è difficile a volte sopportare me! E poi c’è un’altra persona che non posso assolutamente deludere: la Marghe! Tra noi, come ben sai, è nata una forte amicizia proprio nel momento in cui non credevo esistesse più questo sentimento. Sono loro due le uniche persone a cui penso quando, nei momenti più bui e tristi, vorrei lasciar perdere tutto ciò che sto facendo per capire chi sono. Un’altra fatica enorme è accettare le cose che mi accadono. Ho miriadi di domande e vorrei tanto trovare una risposta; forse finalmente sarei più tranquilla. Ho molta paura dell’anno nuovo. Ho paura di quest’enorme fatica che dovrò affrontare… Ritrovare la mia serenità… Voglio ritrovarla…Non voglio più che mi vengano attacchi d’ansia e di panico: certe volte sono così forti che ho veramente paura. Sto male, tanto male! È da troppo tempo che sto male e non so più cosa vuol dire stare bene... Ho bisogno di provare di nuovo questa sensazione di ‘pace’! Spero anche di recuperare tutte le materie insufficienti, per uscire da questa scuola, dove sono veramente pochi i professori che mi stanno dando qualcosa e che sanno dei miei problemi. Spero di
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uscire, perché da cinque anni mi sembra di trovarmi in uno stato di prigionia: ho sbagliato tanto e la colpa è solo mia. Scrivere queste verità e soprattutto rileggerle mi fa scendere le lacrime. Spero sempre nell’aiuto di Qualcuno che sta lassù e spero che mi dia la forza, perché, se mi ha voluto qui, un motivo c’è e spero di comprenderlo. Presto. Lisa, 5AS PER NON LASCIARTI CADERE Fatica. Fatica ad accettare di non essere un supereroe. Fatica a provarci, con tutte le tue forze, a voler sollevare il suo dolore, a volerla prendere tra le braccia ed alzarla forte al Cielo, mentre, sotto, un torrente ti spezza le gambe dal gelo. Fatica a sederti in riva a un fosso svuotando la mente col sole sulla fronte… Dietro c’è la terra brulla e tu lo sai. O forse solo te lo immagini e fatichi a credere che non ci possa essere. Alle tue spalle arriva la tempesta, la bufera, codarda. La senti arrivare, entrare, filtrare attraverso la pelle. Chiudi gli occhi e speri.
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Non puoi arginare la fatica, ma puoi lottare, combattere, sempre. Sperare. Selena Galasso, 4AL NELL’ATTESA DI UN RICORDO ‘Fatica’. Non pensavo che questa parola fosse così presente in ogni giorno che vivo, dopo che la nostra storia è finita. Da quel giorno, tutto mi sembra più difficile da affrontare: la scuola, gli amici, la famiglia, una passeggiata in centro tra la folla e le luci natalizie. La fatica di scacciarti dai miei pensieri è costante, come costante è la consapevolezza di dover vivere senza di te. E così, a diciotto anni capisci che il cammino della vita è lastricato anche da pietre dure e amare e che molte volte la felicità sembra davvero un traguardo irraggiungibile. Anonimo, 5AS LA FATICA DI UNA VITA Penso. Guardo mia madre, il suo volto segnato, la fatica di una vita distrutta e ricostruita da soli. Guardo le persone che vivono, la fatica che assale tutti i giorni. Guardo me stessa allo specchio.
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La fatica di trovare un senso alla vita, quando qualcuno già ti suggerisce la soluzione. La fatica di trovare la felicità nelle piccole cose. Guardo dentro di me. Respiro. Vedo le persone care che ho perso, sento la fatica di averle perse. Io amo E capisco. La fatica più grande è amare e lasciarsi amare. Mariaelena, 5AS LA FATICA DI VIVERE Per me, la fatica si può riassumere in un’unica parola: VIVERE. Già l’AZIONE di vivere è faticosa. È faticoso svegliarsi la mattina e capire perché vale la pena alzarsi e continuare a vivere. È faticoso sopportare i genitori quando ti assillano per cose che ti paiono inutili. È faticoso riallacciare i contatti con il mondo esterno, quando non ne hai nessuna voglia. È faticoso ascoltare gli altri, chiedendoti se ciò che hanno detto abbia un significato. È faticoso trovare un senso alla giornata più nera. È faticoso ridere quando hai voglia di piangere. È faticoso sopportare tutti quei morti alla tv quando tu invece sei vivo. È faticoso chiedersi perché loro siano morti e perché tu sia ancora qui. È faticoso vedere le immagini dei bambini straziati dal dolore della guerra.
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È faticoso vedere genitori strappati ai figli e figli strappati ai genitori. È faticoso credere che ci siano mentalità talmente differenti e delle volte strampalate, da arrivare a massacrare qualcuno. È faticoso accettare ciò che pensano gli altri. È faticoso confrontarsi con gli altri. È faticoso sapere ciò che è giusto quando non puoi fare nulla. È faticoso restare inerti ad ascoltare o a guardare perché non sei abbastanza forte o potente per intervenire. È faticoso porti degli obiettivi, sperando di realizzarli nel modo più giusto. È faticoso raggiungere ciò che vuoi, senza cadere vittima della bramosia. È faticoso pensare anche ai bisogni delle altre persone. È faticoso crescere, sperando di non scendere a patti, barattando la tua piccola dose di ‘follia’ quotidiana con la responsabilità. È faticoso ammettere che, all’80%, da adulto perderai i tuoi ideali. È faticoso farcela in un mondo così ostile ed impersonale che si divora per sopravvivere. In sostanza, tutto è fatica. Ma ciò che più mi preme sapere è: ha senso o no tutta questa fatica? Probabilmente me lo chiederò tutta la vita. Ho bisogno di trovare una risposta a questa domanda. Mounia, 4AL
LA FATICA DI TROVARE UN SENSO Faticoso è tutto ciò che compiamo sforzandoci, fisicamente o mentalmente; tutto ciò che non vorremmo fare perché è difficile o perché non ne capiamo il senso. La fatica è un sentimento proprio dell’uomo e si sviluppa in lui da subito. Per quanto mi riguarda, la sua prima manifestazione è stata la difficoltà di rispettare ciò che gli adulti mi
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imponevano. Essendo ancora piccola, non capivo il senso di molti divieti e ho imparato a comprenderlo a mie spese dopo innumerevoli ‘incidenti’. Successivamente, i primi mesi di scuola, si è presentata la difficoltà di seguire le lezioni. Essendo alle elementari, i momenti che più mi piacevano erano quelli in cui potevamo giocare liberamente e, in effetti, consideravo la scuola principalmente come luogo d’incontro con gli amici. Ancora non conoscevo l’utilità di quelle interminabili spiegazioni di grammatica, appresa anni dopo, di fronte ai segni rossi di un compito di italiano. Un’altra difficoltà era data dal fatto che ero molto curiosa e tendevo quindi a distrarmi facilmente: bastava un’auto di passaggio in strada, un rumore in corridoio o un compagno che sistemava i colori nell’astuccio, per catturare la mia attenzione e scatenare la mia fantasia. Non parlerò dei duri allenamenti per raggiungere un obbiettivo sportivo, perché, non praticando alcuno sport, non mi riguardano direttamente; vorrei invece cercare di descrivere i sacrifici che si fanno in amore. Come ogni adolescente, la mia idea dell’amore si rifà ancora alle favole in cui la principessa trova il suo principe azzurro e tutti vissero felici e contenti. Nella vita reale, però, non è sempre così. Ci sono mille difficoltà: diversi caratteri, interessi, priorità… A volte parlare pacificamente non basta per conciliare le due idee; arrivano allora urla, lacrime e litigi e così, presi dalla foga del momento, si finisce per dire cose che non si pensano veramente. Quando ci si calma un attimo e cala il silenzio, le opzioni sono due: alle volte ci si lascia definitivamente, perché le difficoltà sono troppe, non ci si capisce più, non ci si sforza nemmeno, o semplicemente si è stanchi. Segue la fatica di andare avanti, lasciandosi alle spalle delusioni e amarezze, la scelta di smettere di piangere e voltare pagina. Il più delle volte, invece, basta vedersi di nuovo, ridere entrambi anche per un nonnulla per superare qualsiasi diversità e dimenticare il motivo della lite.
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Potrei parlare della fatica di dormire, quando mille pensieri ti attraversano la mente; della fatica di farsi accettare dal gruppo, tipica di ogni adolescente, ma anche di mille altre fatiche, perché, come ho già detto, tutto può essere faticoso. L’importante è che lo sforzo abbia un senso: che sia vincere una gara o imparare qualcosa di nuovo, qualcosa per la vita, se è finalizzata, una volta raggiunto l’obbiettivo, la fatica provata non ci sembrerà poi così pesante. Eleonora, 4AL
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LA SPERANZA Quello che ho apprezzato di più di questa attività sono stati l’entusiasmo ed il coinvolgimento con cui l’hanno accolta i ragazzi, dandosi da fare con tutte le loro energie e la loro progettualità per realizzare i loro lavori. Uno dei motivi di tale successo è stato il tema, quello dei paesaggi dell’anima, che si è dimostrato particolarmente sentito e gradito, anche più di quello che io da sola potevo immaginare e mi ero prefigurata. Anche il tipo di espressività che i ragazzi hanno spontaneamente prescelto mi ha stupito, ossia il fatto che abbiano prodotto non solo testi scritti, ma anche immagini, disegni collage, in parole povere la loro creatività a trecentosessanta gradi. Sicuramente la riflessione sulla dimensione interiore risponde ad un bisogno profondo di quest’età (e magari non solo di questa) e dimostra avere un valore catartico ed immediato tale da non creare quasi blocchi espressivi di alcun tipo, ma, semmai, grande interesse e tante idee. Ma anche l’attività creativa che è venuta spontaneamente fuori dalle classi mi ha fatto molto riflettere (come ogni volta che questo miracolosamente succede) su quelli che sono i reali bisogni dei ragazzi stessi, i loro reali interessi e su quello che di culturale e creativo li può davvero motivare a volte, e che non sempre noi adulti riusciamo subito ad intuire e immaginare, come anche questa volta di nuovo è miracolosamente successo. Non resta che da sperare che un giorno tutto questo, compresa la solidarietà e la reciproca collaborazione che si sono manifestate in questo progetto, un giorno nella scuola possano diventare non solo un miracolo, o un fatto isolato, ma la norma o, comunque, qualcosa di sempre più presente. Prof.ssa Luisa Di Sarno Docente di Italiano e Storia
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QUESTA NOTTE ERO LÌ, RAGGOMITOLATA Questa notte ero lì, raggomitolata tra le coperte, nel buio della mia stanza e pensavo. Adoro la notte: è l’unico momento in cui rifletto su tutto quello che sono, che voglio e che sento. Ho diciassette anni ed una vita davanti… È proprio questo che mi spaventa: tra poco più di tre mesi arriveranno i tanto attesi diciotto anni e mi rendo conto che tutto mi sta scivolando tra le dita; il tempo scorre troppo velocemente e mi farà diventare subito adulta. Ho paura di non essere in grado di affrontare le tante responsabilità che la vita mi metterà davanti, di non riuscire ad assaporare ogni minima cosa della mia adolescenza che non tornerà più, eppur vivo ogni giorno con la speranza di riuscire a realizzarmi e a tirare fuori il meglio di me in ogni ambito che mi si presenta. Ed ecco che subito penso a tutto quello che ho vissuto finora: gioie, dolori, follie, risate, pianti, confusioni… Mi chiedo se è normale avere questa insicurezza che si presenta troppo spesso in me e fa trasparire la fragile Giulia. Sì, ecco come mi descriverei in una sola parola: INSICURA. Molte volte mi vesto di una maschera e cerco di nascondere questo mio lato caratteriale anche se, chi mi frequenta da vicino, conosce bene questo mio limite. Una paura costante è proprio quella di vedermi, un domani, senza alcuna soddisfazione; trovarmi in uno stato di totale fallimento e deludere quelli che credevano in me e nelle mie capacità. Sarò in grado di affrontare il mondo del lavoro? Di inserirmi in un contesto completamente differente da quello in cui sto vivendo adesso? Non riesco a vivere di certezze; vedo il mio futuro rappresentato da un enorme punto di domanda e avrei solo voglia di mettere chiarezza ed ordine dentro di me per capire ciò che desidero realmente. Ma è difficile a questa età; è difficile capire cosa si vuole.
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Mi capita, poi, di ripensare alla mia vita di qualche anno fa, a come tutto era diverso e a come la mia visione del domani fosse differente rispetto a quella odierna e questo, molto *probabilmente, perché, crescendo, ho affrontato diverse esperienze che hanno alimentato questo mio attuale stato e acuito questo lato del mio carattere. Devo cercare, quindi, di impossessarmi di nuovo dei miei sogni, di impugnare la mia vita, di realizzare le mie aspettative, i miei progetti, senza rimanere immobile, guardando il tempo che mi scorre davanti e che non tornerà mai più. Giulia De Gisi, 4CL FINCHÉ C’È VITA Finché c’é vita, c’è speranza! Questo è uno dei detti più comuni, per indicare quanto la speranza possa essere parte fondamentale nella nostra vita. Tutti nutriamo desideri e ambizioni per il futuro nostro, di chi ci sta vicino e del mondo in generale; futuro nei confronti del quale, poiché non possiamo avere certezze, allora speriamo. Speriamo che domani sia un giorno migliore, speriamo che i nostri problemi finiscano, speriamo di diventare qualcuno e speriamo pure nella buona o nella cattiva sorte di qualcun altro. Sebbene possa sembrare un'azione inutile, non lo è; è vero che non porta a nulla di immediato e concreto, ma permette di non abbattersi o scoraggiarsi, di nutrire ambizioni per ciò che ci aspetta e soprattutto di sognare. C'è chi sostiene che sperare sia per i deboli, per le persone che non possono fare nulla di meglio; non è vero, perché tutti ne abbiamo bisogno e lo facciamo, magari involontariamente, senza rendercene conto. Io stesso affronto le varie difficoltà che la vita mi impone quotidianamente pensando al ‘dopo’, sperando di trovare alla
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fine un risvolto positivo, e credo che sia proprio questa la forza che mi consente di andare avanti. Ci sono tantissimi pensieri negativi che possono prendere il sopravvento, ma l’importante è cercare di andare avanti tenendo conto delle sensazioni positive che rasserenano la nostra giornata. Questo per me è un periodo di scelte; sto infatti per finire la scuola superiore e mi chiedo: cosa farò dopo? Sarà preferibile iniziare subito a lavorare o sarà meglio continuare gli studi scegliendo un corso universitario? In quest’ultimo caso, quale facoltà? Ciò che mi aspetta mi sembra confuso. Spesso mi capita di temere che farò la scelta sbagliata e che da essa scaturirà una serie di errori dai quali sarà difficile tornare indietro. A questo si sommano le preoccupazioni più imminenti, quali la scuola, l'esame di Stato e tante altre piccole sfide giornaliere a cui io, come tutti, sono sottoposto. Ma siccome mi definisco un ottimista, mi piace sempre trovare il lato positivo (e a volte anche quello divertente) di ogni cosa o situazione, e ciò mi rende momentaneamente certo che tutto andrà sempre per il meglio, anche se le esperienze negative talvolta hanno spento le mie speranze e non nego che ci siano, e ci siano stati, momenti in cui i pensieri negativi prendono, o hanno preso, il sopravvento, cosicché, anche quel barlume di chiarezza e serenità, che prima avevo, sparisce. In questi momenti tutto ciò che mi rimane è solo la speranza. Mi rifugio in essa per immaginare come potrebbe esser la vita se tutto andasse per il verso giusto, o almeno come io desidero. A volte mi lascio talmente trasportare, mi sembra tutto così reale, che vedo me, tra qualche mese, contento di ciò che ho scelto e con una chiara idea di come proseguire. Mi capita anche di chiedermi se magari, sperando, non mi stia solo illudendo, e se invece non debba adoperarmi di più per concretizzare le mie volontà. A questa domanda non sono in grado di dare risposta, ma sono certo che senza la speranza non riuscirei a vivere. Si dice anche: “La speranza è l'ultima a morire”, in quanto, anche nelle situazioni peggiori, resta la nostra ancora
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di salvezza, ciò che ci consente di non arrenderci. Basta poco per far tornare in noi la voglia di vivere, anche nei giorni più grigi: per alimentare la speranza basta l’sms di un amico, un complimento ricevuto, un bel voto, oppure delle soddisfazioni familiari. La speranza, più che un sentimento, è un’energia; una qualità che si trova in ciascuno di noi. Dobbiamo apprezzarla, senza però lasciarci ‘prendere’ del tutto; dobbiamo infatti sempre tener d’occhio le nostre certezze e stare coi piedi per terra. Chiunque, ad ogni modo, nutre speranza per qualcosa, sono convinto che deve adoperarsi al meglio delle sue capacità per concretizzarla. Stefano Bastianetto, 5BS
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TIPO. Bisognerebbe far fare al cervello qualche capriola, forse così potresti capirci qualcosa. Sono un mistero, la tipo generation. A volte vedi che non ti vedono, capisci che non capiscono, e ti chiedi chi sia il marziano, se tu o loro. Naturalmente, concludi, sono loro gli alieni. Poi ti chiedi se la risposta non sia troppo facile. Certo è la più tranquillizzante, la meno faticosa. In fondo, i ragazzi, li osservi da tempo, per questo pensi che ti basta vedere il soggetto, osservare come si muove, come sta seduto, come prende il libro (ce l'ha?) o trascina lo zaino (che è uncool, la tipo generation al femminile è innovativa, lo sta cambiando con il borsone, che fa più trendy). Ti basta un colpo d'occhio per farti un'idea del personaggio, e ne sei talmente convinto che potresti accettare scommesse con te stesso sui voti che prenderà (ovviamente, quelli che tu gli darai). Così annusi ritardi e assenze, per capire se odorano di marina strategica, assaggi i compiti per casa, guardi come tiene i quaderni, ascolti come non sa le cose che hai detto in classe. E lì cerchi conferme di quello che pensi di sapere già. Il problema è che, a volte, non ne sai proprio niente: quello che c'è sotto le frange ermetiche, nei cellulari occulti, nel blog riservato o sul privatissimo(?) Facebook, è un altro universo, la loro dimensione parallela, ed esclusiva. Non è solo perché non hai le mappe di quei territori (saresti un intruso comunque), semplicemente perché non fa parte del programma. In classe può capitarti (c'è un'acustica pessima) di ascoltare la tua stessa voce che dice cose che tu ritieni interessanti, poi ti guardi attorno in cerca di feedback, e gli sguardi ti restituiscono l'educata e sofferta sopportazione, a volte la noia, la versione non verbale della fatica. Ti stupisci, perché sembrano non apprezzare a priori. Poi, in un'altra occasione, crei le condizioni per dare loro delle responsabilità, costruisci assieme un progetto, vivi un'esperienza comune (che spesso è fuori dal comune) lontano
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dalle solite quattro mura. Il punto di vista cambia improvvisamente, il tuo e anche il loro. Arrivi a vedere cose che in classe non potevano saltar fuori, che non hanno a che fare col programma (apparentemente), che ti rivelano aspetti insospettabili delle personalità, scopri persone che prima vivevano nascoste fra i banchi, apprezzi qualità che non avresti mai immaginato. E il cervello ha fatto un triplo salto mortale, carpiato e con avvitamento, tipo. Prof. Mario Defina Docente di Filosofia e Scienze Sociali
LA PAURA UN VOTO NON GIUDICA UNA PERSONA! Eccomi qui... Ho deciso di rispondere alla proposta che è mi è stata fatta dalla mia insegnante. Comincio così: secondo me il mondo della scuola è un po’ come una maratona e lo studente un corridore. Anche se diversi, studente e corridore cercano infatti la stessa cosa: vincere la gara. Il corridore percorre delle tappe: rispetta una dieta equilibrata, compie molti allenamenti quotidiani, si prepara psicologicamente. Il giorno della gara dovrà impegnare tutto sé stesso, senza imbrogliare. Comunque vada, saprà di aver fatto tutto il possibile e, in caso di insuccesso, dovrà rialzarsi e continuare a correre; farsi forza sapendo che alla gara successiva ci sarà per lui un’altra possibilità, un’altra occasione da prendere al volo, senza tirarsi indietro. Io penso di assomigliare un po’ ad un corridore: compio i miei allenamenti tutti i giorni, con costanza e seguendo la giusta dieta. Quando arriva il giorno della gara, guardo l’ostacolo davanti a me e cerco di rassicurarmi, pensando che l’ostacolo sarà facile da superare. Credo in me stessa e so che potrò farcela. Ma quando cado, è il panico... I dubbi
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cominciano a divorarmi, mi chiedo perché, in cosa abbia sbagliato. All’inizio non ho la forza psicologica per rialzarmi. Mi domando se ce la farò e in quel preciso istante penso al futuro e a quello che un giorno desidero diventare, agli obiettivi che mi sono prefissata. Penso così che chi si dispera è già vinto in partenza... La vita di uno studente non è a facile, per nessuno. Ci sono successi e insuccessi e bisogna imparare ad accettare tutto; trarre vantaggi dai successi e imparare dagli errori. Io però sono una ragazza che, nonostante queste ‘teorie’, in realtà non accetta i fallimenti in quella materia, o su quell’argomento, o in quel compito. Non accetto l’idea di fallire, forse perché temo di scalfire la mia autostima. Alcuni insegnanti, poi, nonostante vedano che molti studenti fanno fatica ad accettare voti come il 4 o il 5, fanno pesare ancora di più l’insuccesso, facendoci sentire ridicoli. Quando mi rendo conto di aver fallito nel mio percorso, ogni volta nasce un conflitto con quell’insegnante e inevitabilmente cresce il mio odio anche verso la materia. È in quel momento che decido di non lottare più ed è lì che i miei obbiettivi mutano, facendomi vedere il futuro sotto un’altra prospettiva. La scuola è un rischio, è una prova, ed io devo mettermi in gioco. Quando però vedo che riesco a stare in piedi con le mie gambe, mi congratulo con me stessa, perché secondo me è la più grande soddisfazione della vita. La mattina, quando mi alzo, penso che mi aspetta una nuova giornata di scuola e provo quasi angoscia, ma poi, quando arrivo a scuola, ritrovo il sorriso perso la sera prima e, alla fine della mattinata, uscendo da quel portone un po’ vecchio, mi convinco di aver imparato altre cose nuove, altre cose che faranno parte del mio “bagaglio culturale”, come dice la mia prof. di italiano, che tanto stimo. Quell’insegnante per me è stata fondamentale. Anche grazie a lei ho capito che dopo una caduta ce l’avrei fatta, un po’ da sola, un po’ con il suo aiuto. Lei a volte mi dice: “Basta
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che tu creda in te stessa, perché sei intelligente”. Ha ragione. La forza sta lì. Durante il mio percorso, il mio cammino di studentessa, le esperienze che più mi hanno fatta crescere sono stati questi cinque anni di scuola superiore (ora sono in quarta, ma guardo avanti!). Mi accorgo di quanto in fretta sia passato il tempo. L’anno prossimo ci sarà, infatti, il famoso ‘esame di maturità’. Ogni tanto, quando ascolto gli altri studenti che ci sono già passati, mi domando: “Beh, se l’hanno passato loro, perché io non dovrei farcela?” Così viaggio con la mente alla notte prima degli esami: chi sarò, cosa farò, quali paure avrò?… Non so ancora se sarò una di quelle studentesse che rimarranno solo tra le pagine di un registro blu, con il mio nome scritto seguendo l’ordine alfabetico; una pagina che, col tempo, in mezzo alla polvere, ingiallirà; o se ogni tanto, e se il tempo me lo consentirà, tornerò a trovare i miei insegnanti che continueranno a fare lezione a studenti di generazioni successive. Non sono mai stata una studentessa che gli insegnanti possono ricordare come ‘tre le prime della classe’. Non sono mai stata neppure tra le ultime... Mi considero ‘nella media’e sto faticando molto per questo. A volte, però, quando vedo molti miei amici che hanno lasciato la scuola, perché magari credevano di alleggerirsi la vita, convinti che si sarebbero creati lo stesso un futuro e ora si ritrovano a fare qualcosa che non li soddisfa pienamente, o altri che, cadendo si sono fatti male e non hanno più forze per rialzarsi, mi ritengo fortunata di essere arrivata fino qui, anche se la strada tante volte è stata in salita. In fondo sono contenta di frequentare il liceo e so che un domani le mie conoscenze serviranno. Una cosa, però, ho imparato in cinque anni di liceo: un voto non potrà mai giudicare una persona. Elsa Bornancin, 4BS
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LA PAURA DELL’INTERROGAZIONE Quante persone in questa scuola e in altre scuole; quante persone a questo mondo non sono turbate quando il professore, prima di un’interrogazione, apre il registro di classe e scorre la lista dei nomi? Ahimè! Nel momento in cui quello sguardo scende lentamente sfiorando i nomi di tutti gli allievi della classe, il tempo si ferma. Improvvisamente le voci che mi circondano ammutoliscono e se provassimo ad avvicinare l’orecchio sui petti di ognuno, sentiremmo un violentissimo battito cardiaco; potremmo paragonarlo ad “un tamburo percosso dal diavolo” (citazione da un videogioco). È appunto in momenti come questi, che nella nostra mente fioriscono dubbi: “Avrei potuto studiare di più?”; “Oddio! Non ricordo più niente!”; “Adesso mi chiama, adesso mi chiama…” È ovvio pensare che, senza le interrogazioni, la scuola diventerebbe un luogo più tranquillo, dove poter studiare in pace, senza subire umiliazioni…È infatti proprio per questo motivo che sento il mio corpo in continua agitazione: ogni volta che mi alzo dal letto, ho sempre il timore che il professore, a scuola, mi porrà domande di qualunque argomento alle quali non saprò rispondere… Se ciò dovesse accadere, mi sentirei imbarazzato, forse un fallito; è per questo che cerco di evitare gli sguardi degli insegnanti nel momento in cui vogliono interrogarci, perché so per certo (è provato nel 90% dei casi!) che ogniqualvolta un professore vuole interrogare uno studente ed è indeciso su chi chiamare, non bisogna mai osservarlo negli occhi mentre guarda l’intera classe, altrimenti il suo sguardo, stai pur certo, si posa su di te e ti chiama. Non so perché, ma è così da sempre. Ora come ora penso che se un professore leggesse questa mia riflessione, probabilmente penserebbe: “Hai tanta paura delle interrogazioni perché non ti sei preparato bene a casa; ecco perché ti agiti così!”.
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Forse ha ragione, ma, se la mia vita futura è già decisa, che senso ha che mi arrovelli tra materie che so che non mi serviranno e che non c’entrano nulla con quello che voglio fare? So benissimo che il mio futuro non sarà assolutamente tra i libri di matematica o italiano e credo sia per questo che non riesco ad appassionarmi a queste discipline… Sarà anche vero che dobbiamo avere in ogni caso un bagaglio culturale discreto, ma questo non vuol dire che dobbiamo studiare centinaia di pagine al giorno per dimostrare che sappiamo le cose. Se uno studente è intenzionato a seguire questi studi anche dopo il liceo, allora va bene; però se c’è gente come me, che dopo il “Belli” vuole intraprendere una strada che prevede discipline che questa scuola non ha minimamente trattato è un’altra cosa! Quindi è inutile che gli insegnanti ripetano in continuazione: “Quando sarete all’università sarà così e così e così…”. A me sinceramente non importa… e non è giusto venire bocciati a causa di una materia che sei convinto che non ti servirà a niente in futuro… Per esempio, a meno che uno non voglia fare l’insegnante, la matematica indispensabile per il futuro si baserà semplicemente sui calcoli elementari tipo 1+1. Lo so, perché ho già provato l’esperienza durante un lavoro estivo, in cui non sono mai stato interrogato dal mio datore di lavoro riguardo ad una ‘difficile legge matematica di X’, bensì ho semplicemente dovuto calcolare a mente delle operazioni elementari. Non so perché, ma è da quando ero piccolo che provo queste sensazioni e questa voglia di ribellarmi per le cose che secondo me sono ingiuste. Anonimo
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NIENTE PAURA! “Niente paura, niente paura / Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così / Niente paura, niente paura /niente paura, si vede la luna perfino da qui. / Niente paura, niente paura”. È il ritornello della canzone “Niente paura” di Ligabue. Mi piace ascoltarla quando sono spensierata, quando la mia testa è libera da ogni cosa. Sembra strano, ma non l’ascolto mai quando ho paura: quando ho veramente tanta paura, niente, nessuna canzone, nessuna parola, nessuna persona può frenare o calmare il mio stato d’animo. Devo aspettare che passi da sola. Se sono impaurita, il mio cuore subito lo avverte e si scatena, impazzisce; i battiti aumentano smisuratamente e sono così veloci, così rumorosi e forti, che mi sembra quasi che da un momento all’altro esca dal petto. Poi sento dentro un calore che mi avvolge; il sangue circola veloce e le mani si raffreddano; lo stomaco si chiude, gli occhi si spalancano e un nodo mi stringe la gola. So bene che questo non accade ogni volta che dico di aver paura, ma solo quando sono terrorizzata fuori ogni limite. La paura per me è un'altra cosa. No ho mai tenuto il conto, ma credo, anzi, ne sono quasi certa, che la paura si impossessa di me quasi ogni giorno almeno una volta. È la paura quotidiana quella di cui sto parlando; la paura che si verifica ogni tanto è vero e proprio terrore. Se poi si vuol spiegare in termini scientifici cos’è la paura, in quali e quante forme si presenta, quali sono le reazioni e i gradi della paura, allora si dovrebbe scrivere un libro. Mi limito ad utilizzare i termini e le conoscenze che possiedo. La paura quotidiana è quella che mi fa stare più male, psicologicamente e anche fisicamente. Quella rara (il terrore) velocemente viene e velocemente se ne va. Tanti piccolissimi taglietti sul corpo subiti ogni giorno sono però molto più dolorosi e difficilmente guaribili rispetto ad una pugnalata inflittaci una sola volta.
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Mi accorgo, pensandoci, che vivo le paure in modo sbagliato, ma purtroppo, anche se consapevole di questo, non riesco a far niente per cambiare. Quelle angosce che vivo ogni giorno, faccio di tutto per farmele scivolare addosso, senza rendermi conto che, invece di eliminarle, è come se le richiudessi in un cassetto. Quando poi il cassetto è colmo, scoppia e si svuota. Ecco, allora, che tutte quelle paure che credevo di aver cancellato si riversano su di me, sotterrandomi. La reazione che ho in seguito a questa esplosione solitamente è uno sfogo di rabbia, pianto e nervosismo. Quando il mio animo si placa, inizio a pensare, e penso tantissimo, rifletto, medito su cosa fare, su come risolvere la situazione, su cosa fare per rasserenarmi. Alcune volte riesco a tranquillizzarmi, con più o meno fatica, dipende. Altre volte, invece, non riesco proprio a rimboccarmi le maniche e sistemare le cose; come se niente fosse successo, prendo tutte quelle paure e le rimetto dentro al cassetto, aspettando di nuovo il giorno in cui quel cassetto scoppierà. Ho paura quando credo di non avere abbastanza tempo, quando credo di non aver fatto il mio dovere, quando penso di aver fatto male a qualcuno e ho paura delle conseguenze quando non riesco ad esprimermi e ho paura di essere fraintesa, quando qualcuno litiga e ho paura di cosa potrebbe accadere, quando ho paura di non riuscire a dare il massimo. La cosa che mi fa più paura è…non riuscire a superare queste paure. Mi capita spesso di sussurrare a me stessa tra le lacrime “ho paura” e a volte non so neanche di cosa. Probabilmente ascoltare la canzone di Liga “Niente paura” potrebbe consolarmi; ma non lo faccio, perché è normale aver paura, è normale piangere e star male. Se non avessi mai paura di niente, probabilmente non potrei risolvere tanti enigmi che bombardano la mia testa, non potrei sciogliere i tanti nodi che compongono la matassa della mia vita. Aver paura allora mi porta a crescere, a cambiare, a
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lottare, a credere in qualcosa, a cercare dei valori per cui ‘vale la pena’, a credere in qualcuno. La paura, poi, a volte è un brivido che vola via, ma che mi lascia dentro un’emozione, bella o brutta. Dopo averla vissuta, mi accorgo che la vita ha un profumo diverso. Erica Micalizzi, 4CL LA PAURA È UN TURBAMENTO È difficile definire che cosa sia la paura. Il dizionario afferma che la paura è un forte turbamento d’animo che si prova di fronte a cose ritenute dannose. Secondo me non è sufficiente questa definizione, poiché la paura è qualcosa di molto più grande, che comprende vari aspetti della vita di una persona. La paura è quel sentimento che da sempre accompagna la società nei suoi gesti, nelle sue azioni e nelle sue decisioni. Gli uomini antichi, i nostri avi, veneravano gli déi offrendo sacrifici in cambio della loro protezione, spinti dalla paura di ciò che non si conosce, che è razionalmente inspiegabile ed imprevedibile, come l’eruzione di un vulcano o un’alluvione improvvisa. Anche se le condizioni sono cambiate, ancora oggi la paura rimane un’emozione inspiegabile, legata a qualcosa di inspiegabile, ma esiste e ci accompagna giorno dopo giorno. La mia paura più grande è quella di rimanere completamente sola. Sono circondata di amici che mi vogliono bene, che mi fanno sentire partecipi della loro vita, eppure ho sempre la sensazione che prima o poi tutti mi abbandoneranno, forse perché per qualcuno non sono abbastanza, o forse perché per qualcun altro sono fin troppo e potrei intralciare il suo percorso. Oltre a ciò, mi terrorizza il fatto di restare incompresa. Sono una ragazza molto particolare, con un carattere dalle
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mille sfaccettature, che andrebbero analizzate una per una. Nessuno fino ad ora è stato in grado di capire ciò che voglio e quindi ancora nessuno può dire di conoscermi veramente. Probabilmente è una fortuna, perché ho sempre timore di non piacere, di non essere accettata, di essere esclusa dal gruppo. Questa mia forte insicurezza mi porta molto spesso a voler ricoprire i panni di un altro, così da poter trovare un rifugio sicuro, o ad indossare una maschera, in modo tale da nascondere il mio vero volto che potrebbe piacere ma anche no. Spesso ci capita di pensare al passato, alle persone che abbiamo incontrato e che ci hanno cambiati; a ciò che siamo stati, alle esperienze vissute. Quanto veloce trascorre il tempo! Come fugge la vita, senza arrestarsi un istante! Ho paura di non riuscire ad utilizzare il tempo nel modo giusto, di sprecarlo con cose futili. Per contro, se mi volgo verso il futuro, la paura mi sovrasta ancora di più. È così imprevedibile, così inimmaginabile… Cosa ci riserva il futuro? Nessuno lo sa. Sicuramente ci porrà di fronte a delle scelte importanti, a scelte che saranno determinanti per la nostra vita. Il fatto di essere una persona insicura e di non avere la virtù della fermezza fa nascere in me la paura di decidere la strada da percorrere, perché potrebbe essere quella errata. Ancora non mi è capitato di dover prendere una decisione importante per il mio futuro, ma sono sicura che quando mi troverò di fronte ad un bivio, solo dei buoni consigli da parte di persone fidate potranno, magari non cancellare, ma certamente affievolire il senso di inadeguatezza che provo, la mia esitazione e i miei timori. Cerco sempre di dare il massimo in qualunque lavoro devo svolgere, di tirare fuori il meglio di me stessa, di subordinare la stanchezza alla voglia di fare. Non sempre però riesco nel mio intento. La paura di non farcela, di non riuscire a tenere il ritmo a volte prende il sopravvento e gli obiettivi che mi ero prefissata svaniscono, tanto che ho quasi la sensazione di ‘perdermi’, di non riuscire più a raggiungere chi
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ha proseguito il suo cammino senza intoppi. Così mi sento inferiore agli altri, più debole. La più grande paura che racchiude in sé tutte le paure è la paura di aver paura. Quante volte ci mostriamo diversi da quello che siamo in realtà, più forti e più sicuri di noi stessi e delle nostre capacità, per mascherare le nostre vere paure. Tutto questo perché la paura è catalogata come una ‘debolezza’. In realtà nessun uomo può sfuggirvi, poiché un uomo che non ha paura non è un uomo. La sfida, forse, non sta dunque nel superare la paura, ma nell’atto stesso di affrontarla. Eleonora Gobbo, 4CL IO HO PAURA A tutti è capitato almeno una volta di avere paura. È una reazione del tutto naturale a degli stimoli che il nostro organismo riconosce come pericolosi e non c’è nulla di cui vergognarsi. Anch’io ho paura, soprattutto dei ragni. Ma non sono solo quelli che mi spaventano; ancor di più mi terrorizzano, al momento, gli esami di Stato (se ci arriverò) e il futuro in generale: tutte le decisioni importanti da prendere una dopo l’altra. Sembra basti un singolo errore per mandare alle ortiche anni e anni usati per pensare a un futuro nel quale le massime aspirazioni possono essere trovare un lavoro e arrivare vivi alla pensione. Io non ho mai pensato seriamente al futuro: ‘dentro’ mi pare di essere rimasto come un bambino e di essere cresciuto solo in altezza e in circonferenza, affidando il mio destino nelle mani di chi la sa più lunga di me. Non so se è colpa della società moderna o dei genitori che viziano i figli o ancora di politici che annebbiano e distorcono la visione della realtà, facendo apparire tutto bello e roseo come nelle favole; quello che so per certo è che sono in quinta
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superiore e non ho la minima idea di cosa combinerò nella vita. Nella mia famiglia la concorrenza è mostruosa: tutti i miei parenti più o meno coetanei sembrano dotati di talenti ben definiti e soprattutto hanno le idee molto chiare; c’è chi vuole diventare architetto o geometra, chi pensa di diventare un fumettista, chi desidera lavorare in banca. E poi ci sono io, capace solo di fare lo scemo durante le gite scolastiche, appena passabile nello scrivere testi pseudo-umoristici e grande esperto in tutti i campi che non prevedono alcuno sbocco lavorativo. Una cosa in cui sono insuperabile c’è: riesco a creare dei problemi assurdamente complicati da risolvere (esempio: ripensamenti in terza superiore sulla scuola scelta, con conseguente colloquio di orientamento e risultati pressoché nulli…). Questi pensieri negativi sul mio futuro non sono nati di recente, ma mi accompagnano da tempo ormai immemore; sono sempre stato costretto a confrontarmi con gente molto più brava di me, come mio padre, che non perde occasione di ricordarmi che tutto quello che sa fare non gli è stato insegnato da nessuno; o mio fratello, che non ha mai avuto problemi grossi, scolasticamente parlando, ed è dotato di una capacità verbale degna di un avvocato. Cosa volete che possa fare un ragazzo che a scuola non riesce a combinare granché, per niente incline alla socializzazione, esageratamente timido, il cui solo pregio è quello di riuscire a spolverare i mobili senza usare una scala? E a tutti quelli che dicono che in fondo nella vita basta avere l’amore e l’amicizia rispondo: sono riuscito a conquistare la mia fidanzata facendole pietà e copiando qua e là frasi dai cioccolatini; per quel che riguarda l’amicizia posso solo dire che so per esperienza che tutti quelli che mi conoscono mi dimenticheranno appena finita la scuola, così come hanno fatto tutti quelli prima di loro. A volte, quando mi fermo a riflettere, penso di essere un inetto, all’altezza dei personaggi sveviani; come loro sono privo di qualsivoglia abilità utile nella vita, poiché, per quanto impegno ci metta, la maggior parte delle mie ‘imprese’ si
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conclude con un penoso fallimento. La differenza tra me e molti dei protagonisti dei romanzi di Svevoi è che io ne sono perfettamente conscio e la cosa fa un male enorme. Lorenzo Botter, 5BS
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LA SOLITUDINE LETTERA AD UN AMICO Caro Ale, so che non leggerai mai questa lettera… Probabilmente non saprai mai della sua esistenza: finirà dimenticata in mezzo a cartacce da buttare, in attesa che passi qualcuno a fare pulizia. A volte mi chiedo se davvero sono stata io a sbagliare. Ho fatto qualcosa che non va? Ti ho ferito? Per favore, se è così, dimmelo, perché non ce la faccio più ad andare avanti in queste condizioni. Io non so se anche tu ti senti così. Da come ti comporti, sembra che di me non ti importi proprio niente e che tutto quello che abbiamo passato insieme sia stato cancellato in modo permanente dai tuoi ricordi. È la cosa peggiore che tu potessi mai fare. Penso che ormai tu abbia capito che tipo sono: fragile, piccola, emotiva...una ragazza. Faccio programmi su tutto e, se le cose non vanno come mi aspetto, mi comporto come una bambina capricciosa, che strilla e pesta i piedi finché non le hanno dato quello che voleva. Mi arrabbio spesso per niente. Se qualcuno mi ferisce, spacco tutto quello che ho sottomano e rispondo male alla prima persona che mi parla. Vorrei davvero diventare una ragazza migliore, un'amica migliore, ma questi brutti difetti fanno parte del mio carattere: posso cercare di cambiare, ci ho provato tante volte, ma sono così e chi mi vuole bene deve accettare l'originale, senza versioni rivedute e corrette. Tu sei stato il mio primo vero migliore amico: con te non mi vergognavo di piangere e di sfogarmi se qualcosa mi faceva stare male. Mi hai sempre ascoltato, non mi hai mai preso in giro, nemmeno se ti dicevo la cosa più infantile e stupida di questo mondo. Eri il fratello maggiore che non ho mai avuto. Eri mio amico. Il mio migliore amico. Non so se anche tu ora ti senti come mi sento io; se ogni volta che pensi a me senti un vuoto e un'ondata di nostalgia ti fa sorridere tristemente.
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Non sai quanto fa male vederti da lontano e sperare che tu ti accorga di me e mi saluti. Non hai idea di quello che provo quando vedo il tuo numero sulla rubrica del cellulare e penso che è da un mese che non ci scriviamo più ogni giorno come prima. Non immagini nemmeno la mia reazione quando leggo i messaggi ricevuti sul cellulare e scopro che il mittente non sei tu. Ironia della sorte, mentre sto scrivendo, il lettore mp3 mi sta facendo ascoltare la ‘nostra’ canzone. Una canzone che, dal primo momento in cui l'ho sentita, mi ha fatto pensare a te. Ti avevo anche scritto il testo su un foglio, ma ora sicuramente l'avrai buttato via. La prima strofa e il ritornello, se non ricordi, facevano così: “Non posso giurare che ogni giorno sarò bello, eccezionale, allegro sensibile, fantastico ci saranno dei giorni grigi ma passeranno sai spero che tu mi capirai. Nella buona sorte e nelle avversità nelle gioie e nelle difficoltà se tu ci sarai io ci sarò” Se tu ci sarai, io ci sarò. Pensavo davvero che saresti stato mio amico per sempre, che niente avrebbe mai potuto separarci e che ci saremmo sempre stati l'uno per l'altra. Quanto mi sbagliavo! Adesso, ascoltando la colonna sonora della nostra amicizia, con il cellulare in mano e tanti ricordi per la testa, mi chiedo se davvero ne vale la pena. Prendo il cellulare. Scorro la rubrica fino al tuo numero: sì, ne vale la pena. Sorrido e schiaccio il tasto di chiamata. - Pronto? Giulia Bozza, 1CL
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SOLA...? Ci sono dei momenti in cui mi verrebbe da chiudermi in camera e rimanerci per giorni e giorni, desiderando di scomparire per sempre... In quei giorni sembra che ogni cosa che dico sia sbagliata, ogni cosa che faccio sia un errore. Mi guardo allo specchio e mi riesce troppo difficile accettare la mia immagine: ogni cosa del mio viso, del mio corpo, del mio carattere, mi pare un orrendo sbaglio. Sono sempre stata una ragazza timida, introversa. Mi hanno definita in tanti modi: strana, secchiona, sfigata e, a volte, anche di peggio. Se prendevo un bel voto, mi disprezzavano; se cercavo di esprimere la mia opinione, mi ignoravano. Anno dopo anno, diventavo più consapevole del fatto di essere la vittima di quel gruppo più o meno omogeneo che chiamano ‘classe’: li sentivo chiaramente, sentivo le loro voci parlarmi alle spalle, criticarmi, accusarmi di qualcosa che non avevo fatto. Sopportavo tutto, cercavo di farmi più piccola possibile e nascondermi fra la folla ma, nonostante tutto, cercavo di somigliare a loro: ridevo quando facevano battute, fingevo di essere d'accordo con tutto quel che dicevano e, pur di parlare con loro, ero disposta a ridere anche di me stessa. Poco importava che non ridessero delle mie battute, che non ascoltassero quello che dicevo e che mi prendessero in giro; almeno non li sentivo se sparlavano di me. Poi arrivò lui e io mi innamorai. Ero felicissima: mi pareva di stare sulle nuvole; ero convinta che niente mi avrebbe più fatto paura, che se avessi avuto lui nessuno mi avrebbe più ferita, ma mi sbagliavo. Trovarono qualcosa da ridire anche su di lui: vedevo le loro facce disgustate e ascoltavo i loro gratuiti commenti malevoli e sentivo che il mio piccolo paradiso si stava disfacendo sotto ai miei occhi. Cercavo di evitare che si spezzasse tutto, tentavo di aggrapparmi ad ogni più piccolo appiglio per non cadere. Il mio unico piccolo appiglio era scrivere: quando ero in quarta elementare la mia più grande ambizione era diventare scrittrice. Ora sono più realista: so che mantenersi da vivere
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scrivendo, ai giorni nostri, è molto improbabile e non mi illudo. Però diventare scrittrice rimane uno dei miei sogni più vivi e più forti. Quando si perdono le speranze, i sogni sono l'unica cosa che spinge a continuare ad andare avanti. Nei momenti più tristi scrivevo. Scrivevo quello che mi passava per la testa, scrivevo i miei pensieri, scrivevo per chiudermi nel mio piccolo mondo fatto di parole, parole, parole. Le lacrime, così, sembravano fare meno male. Avevo un amico, l'unico che aveva saputo ascoltarmi, il solo che sembrava capirmi e che ero convinta mi sarebbe stato vicino per sempre. Ora non ho più nemmeno quello: mi ha dimenticata; sembra quasi che stia meglio senza di me. Molto meglio. Può starsene da solo, se questo lo rende felice. Ho dato fiducia a molte persone, credendole mie amiche e loro invece hanno approfittato di me, mi hanno ferito, mi hanno usato e poi abbandonato quando non servivo più. Ho sofferto per amore, ma ho sofferto di più per amicizia, perché perdere un amico è come rinnegare una parte di te stesso e dei tuoi ricordi. Ho sempre subito, sopportato ogni cosa e accolto a braccia aperte quegli amici che mi hanno abbandonato, ma che poi sono tornati. Ora sono cresciuta. Ho trovato degli amici: amici veri, questa volta. Persone che mi aiutano quando sono in difficoltà, che mi ascoltano anche se sto dicendo la cosa più noiosa di questa terra, solo perché sanno che raccontarla mi farà stare bene. Ora non sono più sola. I miei amici mi saranno sempre accanto. Vi voglio bene. Grazie. Giulia Bozza, 1CL
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UNA PAROLA DI SOLITUDINE “Noi parliamo spesso sì, ma è così, siamo soli” (V. Rossi.) Impossibilità di esprimere ciò che si prova: le nostre gioie, i dolori, i colori ed i profumi; di spiegare il perché di alcuni sorrisi, il perché di alcune lacrime, l’amarezza di certe risate e la malinconia di due occhi lucidi di bei ricordi. Essere tra la gente e sentirsi soli per la difficoltà di comunicare emozioni troppo belle per essere spiegate. In un mondo costruito di parole, di dialoghi, di discorsi ed immerso tra la gente ci siamo noi, come al centro di una città frenetica dove tutto scorre e scivola; noi, impotenti, ci blocchiamo. Attoniti. limitandoci ad osservare. Nel centro, ci fermiamo a osservare ciò che accade, ma troppo spesso non vogliamo entrare in relazione con tutto questo. Rimaniamo chiusi nella sfera del nostro corpo, impedendo ed evitando qualsiasi contatto ‘rischioso’ con l’esterno. Questa è la solitudine che ci fa compagnia in momenti particolari, è la malinconia che ci fa ricordare, è la tristezza che mette in luce le felicità un po’ più nascoste. Trovarsi fra tante persone, avere tanti amici, vivere in una famiglia accogliente ma essere soli con sé stessi, abbandonati alle proprie riflessioni segrete, alle proprie gioie inspiegabili, ai ricordi troppo lontani… Vorremmo spiegare, raccontare, descrivere, parlare, far emozionare, ma certe cose sono destinate a rimanere dentro di noi per creare quella mistica pace che funge da scudo contro la frenesia nella quale viviamo. Difficoltà ad essere sinceri completamente con il prossimo, forse perché ciò implica essere sinceri con noi stessi; ciò vorrebbe dire svelarsi; ciò significherebbe ammettere qualcosa che rifiutiamo o, semplicemente, il fatto che nemmeno noi siamo degni della nostra comprensione e fiducia. E così restiamo intrappolati nella nostra sfera trasparente nella piazza della città, osservando come tante persone con la
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ventiquattrore, il cellulare in mano e l’auricolare nelle orecchie si scontrano nella fretta di scappare dalla realtà; come donne senza più la concezione del tempo si avventurano tra un negozio e l’altro, guardando confuse ed incantate le vetrine; come ragazzi nel fiore dell’età si lasciano trasportare da cellulari e dalla musica, dimenticandosi di essere attorniati da altri coetanei, che aspettano solo l’invito di dirsi un ciao o passare un pomeriggio assieme. E allora, forse, ancora chiusi nella nostra sfera, essere da soli non è più sinonimo di solitudine, perché riusciamo a capire e a confidarci cosa pensiamo di tutto quello che ci scorre attorno; ne siamo consapevoli e ci rimane solo lo sforzo più grande: riuscire a trasmettere agli altri le nostre emozioni, per cancellare definitivamente la parola “solitudine” dal nostro vocabolario. Siamo ancora legati al nostro mondo personale ma non siamo più incatenati a noi stessi e siamo pronti alla prova più difficile: quella di riuscire ad esternare le emozioni, anche quelle più personali. Solitudine, quindi, non è solo sentirsi privi d’appoggio, ma anche non essere capaci di esprimere noi stessi e tutto quello che fa da cardine nella nostra vita, tutto ciò che per noi conta davvero. Elisa Petrini, 4CL
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Fuori la scrittura non c’è salvezza Scrivere, come affermava Svevo, è una forma di esplorazione e di ricerca personale. “I paesaggi dell’anima” nascono dal desiderio di favorire la riflessione e l’introspezione; essi non rappresentano il momento dell’esercizio, ma una forma di esplorazione e di narrazione del proprio io. Attraverso l’auto narrazione si può giungere alla consapevolezza di sé, si riesce a dar voce alle proprie emozioni, al proprio sentire e al proprio pensare. Spesso gli studenti considerano lo scrivere un’inutile fatica, un’esperienza lontana dalla propria esistenza; noi abbiamo voluto dare un senso a quel gesto. Far riscoprire loro il valore del silenzio, del sostare, dell’ascoltare e dell’ascoltarsi, per comprendere che l’intensità della vita nasce dall’interiorità. Volevamo che gli studenti potessero dare voce e parole ai loro silenzi, ai loro sogni ed alle loro fatiche e lasciassero un segno, poche parole, una frase od un discorso a testimonianza del loro percorso. La nostra scuola vuole essere uno spazio dove si cresce e s’impara insieme, dove sia garantito il ‘ben-essere’ a tutti coloro che vivono nella nostra comunità; questo non significa mancanza di rigore, ma scommettere su tutti i nostri studenti, credere in loro, nella loro possibilità di superare le sfide quotidiane, nel riconoscere loro il diritto di sbagliare, insomma nel proiettare su di loro aspettative positive. Non s’impara per rabbia o per paura, ma per amore, per curiosità, attraverso la scoperta e l’esperienza: la nostra scuola ambisce ad essere una comunità educativa, in cui tutti abbiano voce e spazio. La creatività, che volevamo valorizzare attraverso quest’esperienza che va oltre le forme codificate e standardizzate del testo, è una risorsa indispensabile per vivere nella società attuale; abbiamo bisogno di giovani in grado di scoprire soluzioni originali ed innovative .
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Volevamo anche insegnare l’accettazione ed il dialogo con l’altro, che spesso è il compagno di classe, di corridoio, con cui non sempre si è capaci o si ha il tempo per confrontarsi: i paesaggi dell’anima sono i paesaggi della propria ed altrui anima, della quale si può scoprire l’esistenza, la natura e l’entità. “I paesaggi dell’anima” rappresentano un’esperienza di scrittura e di comunicazione che permette a tutti noi di crescere ed imparare ad ascoltare le voci spesso silenziose dei ragazzi. Gli studenti hanno risposto alla nostra proposta con entusiasmo, rendendoci depositari di una parte intima e segreta del loro io, aprendoci il libro del loro cuore; hanno voluto insegnarci qualcosa, hanno posto una pietra per edificare una scuola umana, dove c’è lo spazio per depositare un po’ di paura, di noia, di fatica, ma anche di felicità, di gioia, d’abbandono e di solitudine. Aver accettato di narrarsi è stato per noi un grande dono, ma anche una sfida! Come risponderemo alle parole di fatica, a volte di solitudine e di amarezza che emergono dalle pagine dei nostri studenti? Noi non siamo in grado di fornire loro facili soluzioni, ma vogliamo far riscoprire il piacere della parola, del narrare e della lettura, dell’ascoltare e dell’esplorare la propria anima. Queste pagine vogliono rappresentare uno spazio per il dialogo e la costruzione di una comunità, dove vige il buon pensare ed il buon uso del proprio tempo, dove il pensiero e la riflessione divengono gli strumenti per ricomporre le fratture del proprio io ed attraverso l’esplorazione dei “paesaggi dell’anima” si riscopra il piacere della meraviglia e dello stupore! Prof.ssa Anna Maria Zago Docente di Italiano e Storia
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L’AMICIZIA MALINCONIA Sottili particolari vagheggiano nella mia mente... Petali di ricordi con impresso il tuo volto accentuano la mia Malinconia. È la distanza che ci divide... Fuori piove. Le gocce di pioggia cancellano l’ultima traccia di te... Eva Bandiziol, 5CL UN PICCOLO GRANDE CUORE Che cosa succederebbe se le stelle escludessero la luna dall’Universo? Che cosa succederebbe se il blu, l’indaco, il giallo, il verde, il rosso, il violetto escludessero l’arancione dall’arcobaleno? Che cosa succederebbe se il piccolo febbraio venisse escluso dal calendario? Succederebbe che l’infelicità regnerebbe per sempre nel mondo, finché un piccolo cuore si farà avanti e, a braccia aperte, ti accoglierà nel suo mondo. Un mondo dove non importa se si è diversi, dove non esiste la tristezza, dove la paura di rimanere soli non sarebbe più un problema; perché in quel mondo conta solo vivere felici, aiutandosi l’un l’altro, costruendo, mattone dopo mattone, un futuro migliore; dove non esiste la parola “emarginazione”… Elisa Nadalon, 4CS
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GLI AMICI SONO QUELLE PERSONE Gli amici sono quelle persone con cui vuoi passare ogni minuto della tua giornata, sono l’oceano dei tuoi sogni e la strada della tua vita. Viviamo in un mondo fatto di luce e ombra, solcato dal vento e calpestato da migliaia di sguardi. Avvolto dalla nebbia, puntellato di stelle, abbracciato da bambini e soffocato dall’egoismo. Se chiudi gli occhi, vedi le cose per quello che realmente sono; ascoltare il mondo e la vita è solo una canzone. Basta saper camminare nel vuoto. È incredibile pensare come gli esseri umani nella loro intelligenza siano immensamente stupidi. - Credi nell’amore? - Sì, ci credo. - E allora perché sei qui? - Non lo so. Lo sto cercando, penso... È una cosa molto rara da trovare: un diamante, dell’oro, forse... - Gli uomini pensano solo alle cose materiali. Lo trovi ovunque, se lo cerchi: nell’aurora, nei sogni, negli occhi…devi solo saper cogliere il momento giusto. - Da dove vengo io è scomparso. Cosa posso fare? - Non voler insegnare. Con l’amore si nasce e con esso si muore. - Ma io lo insegno... - Evidentemente sei stato licenziato. Camminare tra i ciottoli e la ghiaia della strada bianca ogni mattina per costruire un futuro, passo dopo passo, sotto il sole che ti fa sbandare, arrancando con il peso della cartella sulle spalle. Abbracciati dal volto scarno e freddo della nebbia, avvolti nel cappotto sfuggendo alle spine delle rose, rovinate dall’inverno.
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E poi, entrare in un corridoio dove risuonano voci e si accendono luci. Rientrare tra le mura del presente e sedersi, creare in modo astratto la propria vita. Valentina Trezzi, 1ES MONOLOGO SULL’AMICIZIA Eccomi qui… Davanti ad un foglio bianco sempre la stessa domanda: cosa potrò mai scrivere? Lo sapevo…La mia sicurezza è svanita nel nulla…Scegliere l’amicizia come sentimento per questa riflessione non è stata di certo una buona idea…assolutamente no! Eppure molti scrittori ne hanno parlato, tante storie sono state narrate, ecco citazioni in gran quantità… L’amicizia è presente nella vita di quasi ogni persona, ma di certo non è così facile esprimerla a parole…E cosa mai posso pretendere dai miei pensieri così complicati e insicuri?… Del resto io non sono una scrittrice! Forse una soluzione c’è…ho solo bisogno di silenzio… Sì: di silenzio per riflettere! Chissà cosa troverò in questo silenzio!? Di sicuro tra meno di due minuti mi sarò persa nei meandri dei miei pensieri. Ecco, ecco…riesco a sentire qualcosa…cosa sarà mai? Sembra la voce di uno sconosciuto, di qualcosa che ascolto troppo poco e da cui invece dovrei farmi guidare più spesso…Che sia la voce del mio cuore? Ebbene sì, è proprio lui. Lo ascolto attentamente e mi suggerisce l’idea per iniziare a scrivere. Nel frattempo, una domanda: “Un amico. Che cosa sarà mai?” Un amico è una persona che entra a far parte della vita, il più delle volte in modo inaspettato e so che di certo non ne uscirà per molto, molto tempo. Un amico non è un individuo qualunque, bensì una persona che mi rassicura del fatto che al mondo non sono più sola e che condivide con me i momenti
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più belli: quelli che non dimenticherò mai e che custodirò per sempre nel mio cuore. Ma sono in grado di riconoscere un vero amico? Mi accorgo che non esito a rispondere a questa domanda. Ma per quale arcana ragione ne sono così sicura? Forse corro il rischio di sbagliarmi…Questa volta no, ne sono certa. Perché con i veri amici sono libera di essere me stessa, di ridere, di sorridere, di divertirmi, di piangere e di provare qualsiasi emozione, senza la paura di essere giudicata. Loro sono sempre presenti e mi capiscono con uno sguardo; hanno sempre il consiglio giusto da darmi e sono le uniche persone al mondo in grado di farmi tornare il sorriso, anche dopo la giornata più triste della mia vita. Ho imparato a distinguere i veri amici dai falsi e mi ritengo davvero tanto fortunata ad aver incontrato delle persone così importanti. Ma io sono in grado di essere una vera amica? Di sicuro non con tutti i miei amici mi comporto allo stesso modo, ma per i veri amici, quelli a cui voglio davvero bene, so con certezza che sarei disposta a dare la vita. Anonima, 5CL
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ALTRI PAESAGGI BURRASCA È un cavallo furioso che scalpita, è come un tuono che scoppia nella notte, è una burrasca in mare aperto. Non riesco a placarla, la mia rabbia. È aggressiva, forte e sicura. È un cavallo furioso che scalpita, è una burrasca in mare aperto. Anonima, 5CL PASSIONE Rossa forza, con prepotenza nel mio cuore t'insinui. Doloroso desiderio ti imponi e impotente mi lasci: sono tua schiava. Anonima, 5CL CHE COS’È La pazzia Mamma, hai visto quell'uomo? È pazzo! Perché, my little? È pazzo perché se ne frega degli dei
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cantando a squarciagola? Spiegami cos'è la pazzia, allora! La pazzia è perdere il controllo e trovarne un altro, il controllo di saltare, sudare, gridare in mezzo alla folla acida; il coraggio di aprire al massimo la mente, le sue porte e camminare in aria con passi sventolanti rivestiti di zolfo e protagonismo; coraggio di sentir la vita penetrarti come una spada, coraggio di trovare divertente un cane che abbaia; coraggio di cercare di parlare con lui, come lui. Si ha paura senza un perché, senza una motivazione valida. La pazzia viene spesso chiusa in musei mentali. Lei e un cartello: “Vietato Toccare”. Il mondo va in rovina perché nei musei nessuno tocca, il mondo va in rovina perché la gente sfiora tutto con la punta delle dita, senza mai stringere, senza mai assaporare la luna. La vecchiaia Mamma, hai visto quella vecchia, quant’è brutta, quant’è neve?! Bisogna aver rispetto per i vecchi, la vecchiaia gli ha portato saggezza. Cos’è la vecchiaia, mum? Le donne la temono, la detestano insieme alla cellulite e alle doppie punte, ma non capisco cosa sia!
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Oggi è la giornata delle domande, vedo… La vecchiaia è il limite, l’unico che c'è alla fantasia. La donne la temono perché hanno paura: paura di non riuscire più ad amare, ad offrire la cosa più buona, la cosa più pura. Le donne nascono con l'amore sveglio negli occhi; arrivate alla fine del sentiero, della vita hanno terrore di far assopire l'amore, di farlo diventare vento che scuote gli alberi, sì, ma non fa più lacrimare gli occhi dell’uomo. Quindi vecchiaia è paura? No, Honey, vecchiaia è fotografia di un amore mai celato. Marco Codolo, 4CS LA MIA ANIMA I miei passi i miei pensieri accompagnati dal sole; il mio sguardo si riflette nella natura. Le dune di sabbia come me isolate e disperse. Il mare è lo specchio del cielo, perfetto fondale di un giorno che in me s’inoltra.
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È velato il cielo come il lenzuolo che ti ricopre; tu, mia azzurra acqua. Ma il cielo muta, il cielo è scuro, come la mia anima. Gli alberi sono spogli, come il mio cuore. Anonima, 5CL
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LA GIOIA IL GIORNO IN CUI HO PRESO DIECI… Era il 7 febbraio 2009, un giorno iniziato benissimo: era il giorno del mio compleanno! Già da un mesetto studiavo il primo canto dell’Inferno di Dante e, siccome ormai lo sapevo bene, avevo deciso di farmi sentire dall’insegnante. Ero davvero molto agitata e tremavo per la paura di sbagliare o di andare troppo in fretta nell’esporre. Mentre recitavo a memoria tutte quelle terzine, avvertivo molta tensione non solo in me, ma serpeggiare anche nella classe. La tensione si è sciolta insieme all’applauso delle mie compagne. Ho sbagliato una sola parola in tutto il canto: al posto di “rovinava” ho detto “rompeva”, ma per il resto è stato… perfetto! Alla fine il professore aveva una faccia contenta e mi ha messo 10 con un cuoricino in parte… Il 7 febbraio 2009 è stato uno dei giorni più belli di tutta la mia carriera scolastica! Geudi Marcolin, 3BS AVETE MAI PRESO DIECI AL BAR? IO, A SCUOLA, SÌ! La scuola non è una prigione fatta di pallide bianche celle, con dentro noi prigionieri. È un posto dove ci si può anche distrarre dal solito ambiente familiare con i suoi assordanti litigi; è bello, infatti, provare anche fuori casa emozioni e commozione. La mia esperienza? Prendere un 10 in italiano nella recitazione del ‘primo canto’ dell’Inferno di Dante. È un’esperienza che non ha parole: felicità, fatica e
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soddisfazione scorrono tutte insieme per combinarsi e danno una sensazione che non capita di provare spesso! Quando il prof., quella mattina, ha chiesto: “Care ragazze, le diamo ‘sto dieci?”, loro, le mie compagne di classe, in coro, hanno esclamato decise: “Ovvio, prof.!”. Subito mi sono messa a ridere incredula per ciò che mi era appena successo! In quel momento non capivo più nulla; intorno a me non c'era il vuoto, ma tantissimi dieci che continuavano a lampeggiarmi davanti. Ma a scuola (oltre che ricevere, qualche volta, queste bellissime soddisfazioni) ci si diverte anche; durante le lezioni capita di scherzare assieme a qualche insegnante, di fare battute su quello che stiamo leggendo e ciò a volte mi fa sentire di essere non in una classe ma quasi… al parco con gli amici! Silvia Casonato, 3BS
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L’AMORE LE RELAZIONI A DISTANZA NON SONO IMPOSSIBILI! Ciao Amore, sono qui, nella mia cameretta che ormai conosci bene. Guardando le nostre foto appese al muro, mi è venuta un’immensa nostalgia. Abbassando poi lo sguardo, ho visto, appoggiato sul tavolo, un foglio bianco con accanto una penna. Perché non riempirlo? Sei la prima persona a cui mi è venuto in mente di indirizzare queste parole… parole che probabilmente non leggerai mai… Forse è meglio così o forse no, non lo so. Mi manchi! Faccio fatica ad andare avanti, in questi giorni senza te. Lo so: ormai sono due anni e mezzo che stiamo insieme, che viviamo questa nostra favola contro i pregiudizi di tutti coloro che non credono nelle relazioni a distanza, ma questo a noi non importa, anzi: ci motiva ancora di più, ci dà la forza per affrontare le giornate e per dimostrare a tutti che non è impossibile, perché noi ce l’abbiamo fatta; ce l’abbiamo fatta ad imparare a fidarci l’uno dell’altra anche se a chilometri di distanza; abbiamo imparato cosa vuole dire sincerità, forza, paura, coraggio, dolore, appagamento, voglia, notti a piangere, giorni bui anche se splendeva il sole, sorrisi, lacrime di felicità…. Abbiamo imparato tutto questo e molto di più; abbiamo fatto fatica, tanta fatica, ma siamo ancora qua, siamo cresciuti e stiamo crescendo insieme, ci siamo aiutati, ci siamo presi per mano… A volte le mani erano strette, a volte sudavano, a volte erano solo appoggiate, a volte si intrecciavano, a volte si sfioravano, a volte si toccavano solo le punte delle dita, ma eravamo e siamo sempre e comunque noi. Noi che, con uno sguardo, una mattina d’estate, ci siamo visti riflessi negli occhi dell’altro; sguardi timidi, poche parole,
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abbracci insicuri sotto gli occhi contrari di quelli che erano i miei amici. Ma noi sorridevamo…Eravamo così piccoli e ingenui, senza paure; anzi, forse così tante da non riuscire a rendercene conto. Che fatica andare contro tutto e tutti! Nessuno ci voleva ascoltare; tutti ci sminuivano, dicendo che era una semplice cotta estiva. Nessuno ci voleva credere… Credevamo solo noi a questa storia. Ci siamo trovati soli nella nostra strada verso il futuro e, quando litigavamo, facevamo ancora più fatica a fidarci l’uno dell’altra, perché non avevamo nessuno: o noi stessi o l’altro. E così, giorno dopo giorno, sudando per gli sforzi, piangendo per l’insicurezza, abbiamo cominciato a fidarci ed affidarci all’altro, a mettere la nostra vita in gioco; un gioco bellissimo in cui si è complici, ma a volte anche avversari; un gioco che è…un faticoso divertimento. Valentina Pastorelli, 3CL IERI ERI MIO AMICO 1). Non ci posso credere. No no no no. Deve essere tutto un sogno, qualcosa che non può accadere nella realtà. Mi pare che qualcosa mi stia opprimendo il petto, faccio fatica a respirare. Eri mio amico. Come puoi dimenticare tutto quello che abbiamo passato insieme? Tutte le battute, le prese in giro, le lunghe telefonate in cui ci siamo detti tutti i nostri problemi, tutti i nostri sogni, tutti i nostri incubi… Come puoi averlo fatto? La prima volta che ti ho visto eri un ragazzo insicuro, timido... Io ti ho sorriso e tu mi hai sorriso a tua volta. Io ero una ragazzina timida; non riuscivo nemmeno a capire se ero già una ragazza oppure ero solamente una bambina che si metteva i trucchi della madre per sembrare più grande. Tu volevi un'amica.
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Io avevo bisogno di un amico. Ci siamo trovati e fra noi è nato qualcosa. Dopo un paio di mesi, avevo capito che la nostra era diventata un'amicizia forte e che ormai eravamo l'uno parte dell'altra, o questo, almeno, era ciò che credevo fino a ieri. Ieri eri mio amico. Ora, invece, sembra che di me non ti importi niente! Già ti immagino con quel tuo sorriso sbilenco e l'espressione di un ragazzo che pensa di essere popolare, bello, rispettato; quell'espressione che fino a ieri usavi per gioco e che è diventata una cosa seria. Scommetto che ora ti stai accendendo una sigaretta e, aspirandone la prima boccata, stai pensando che se ci sono l'alcool, il fumo e i tanti ‘amici’ che ti ammirano, avere me è solo una palla al piede. E dire che ti ho sempre considerato un ragazzo buono, gentile, altruista! Ti chiamavo ogni giorno per raccontarti i miei problemi e tu eri sempre pronto ad aiutarmi. Persino quando la mia storia d'amore (che dura tuttora, nonostante tutto) stava per andare in pezzi, tu mi sei stato accanto. 2) Sento le lacrime che mi scendono lungo le guance. Squittisco una risatina fra i singhiozzi. Sembra addirittura comico il fatto che pianga per lui! Se penso a tutte le volte che l'ho chiamato in lacrime, singhiozzando così forte che non riuscivo a fare un discorso coerente… Lui, con una voce pacata e allo stesso tempo preoccupata, una voce che ancora adesso sento continuamente nelle orecchie come un nastro rotto, mi diceva: “Calma... Ora respira bene, così... Calmati… Adesso raccontami tutto...”. Prima avevo lui che mi consolava. Ora ho solo me stessa. Mentre gli occhi mi si appannano, mi guardo allo specchio. Sono orribile. Ho gli occhi rossi come se avessi la congiuntivite e la faccia è diventata violacea nel vano tentativo di sopprimere i singhiozzi. Lacrime calde mi scendono lungo le guance. Sento la bocca impastata. Un altro flash-back: lui che, al telefono, diceva per farmi ridere: “Dai, su, non piangere, che ti si gonfiano gli occhi e
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diventi brutta!”. Rido ancora del fantasma di quella battuta che, per quanto stupida fosse, riusciva sempre a farmi sorridere. Ah. Ah. Ah. I ricordi continuano ad ammassarsi nella mia testa e le lacrime a scendere. Come se bastassero per cancellare questo peso che sento qui, nel petto. Mi scorre tutto davanti come una lenta serie di diapositive: una pizza al sabato sera... le sue infinite fidanzate... i suoi consigli... i pomeriggi passati al bowling... Per ultimo il ricordo che fa più male: un suo sms in cui mi spiega che siamo cresciuti tutti e due e che lui ora ha altri interessi, altre esigenze, altre priorità. Non può più rimanere lo ‘sfigato’ che era prima; ora è popolare, bello, fuma, beve, va in discoteca, ha la ragazza... Niente più a che fare con il ragazzo dolce, gentile e altruista che avevo incontrato un anno fa. L'ho perso per sempre. Mi manca. Tanto. Ho freddo... Stringo a me il cuscino e chiudo gli occhi, augurandomi che quando mi sveglierò sarà lì, a sorridermi, a scherzare, a consolarmi con qualche battuta, a farmi ridere per asciugare le lacrime che scendono sul mio viso. Giulia Bozza, 1CL UNA NOTA CHIAMATA AMORE A come amore. “All you need is love”, ecco cosa dicevano i Beatles. Eh sì, l’amore, appena lo scopri, è una cosa meravigliosa ed è tutto ciò che le persone vorrebbero. Chi non ha mai sognato da giovane di poter trovare l’anima gemella con cui poter condividere le proprie emozioni? Avere qualcuno al proprio fianco è una delle cose più belle che possano capitare perché sai che c’è una persona al tuo fianco, che prova per te dei sentimenti profondi e soprattutto sai che c’è una persona su cui poter contare e di cui ti puoi fidare.
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Il sogno di ogni ragazza è trovare il ‘principe azzurro’ e appena lo trova si sente al settimo cielo perché non c’è niente di meglio che stare con lui. L’amore ti fa vivere in un altro mondo perché non fai altro che pensare a lui e questo ti rende felice; sembra quasi che tutto il resto non esista più. Il telefono squilla ed è lui che ti scrive; il campanello suona ed è lui che è venuto a trovarti; la campanella dell’ultima ora del sabato suona e ciò sta a significare che lui è là, fuori da scuola, ad aspettarti, pronto a darti quel bacio che desideravi da quando hai aperto gli occhi, la mattina. Sono tante le cose che ti portano a pensare a lui. L’amore è come la colonna sonora della tua vita: ogni momento felice passato con lui corrisponde ad una nota, ed ecco che… “Love gets old”: l’amore non invecchia. D come dolore. Chissà a cosa si riferiva Lucio Battisti quando cantava “Nessun dolore”… All’amore forse no, perché nonostante l’amore sia uno dei sentimenti più forti che si possa provare per una persona, è anche il sentimento che causa più dolore. C’è chi dice che avere un compagno accanto è tutto ciò che si può desiderare al mondo, ma non è assolutamente vero che avere un fidanzato risolve tutti i problemi, anzi. Un testo di Celentano può esserne un chiaro esempio: “…la gelosia più la scacci e più l’avrai…”. Ne sono sicura, perché, più cerchi di non essere gelosa, più vieni ripagata con dolore e sofferenza. Vivere per amare o morire per amore? Perché, nonostante sia riuscita a trovare una persona fantastica al mio fianco, riesco a soffrire ancora? Più cerco di capirne il motivo e più mi allontano da lui… Allora l’amore è veramente solo gioia? No, per niente! In una relazione d’amore ci sono anche delle note stonate, dei momenti difficili che però bisogna saper superare assieme, senza che questo spezzi l’incantesimo nato tra due persone. Molte volte penso se sono io che non ‘funziono’, ma questo non è possibile, perché non può essere sempre mia la colpa se succede qualcosa di brutto.
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Devo farmi forza e affrontare tutti i problemi in modo che questi non affrontino me. Cos’è, allora, l’amore? Amore e sofferenza. È forse questa la ricetta del vero amore. Tra due persone non può esserci solo la felicità. L’amore è strano: appena pensi di essere felice, c’è già qualcosa dietro l’angolo che ti impedisce di esserlo. Com’è possibile? Ci sono dei giorni in cui non vorrei proprio conoscere questo sentimento, perché è così bello essere spensierata, senza dover dare spiegazioni per tutto ciò che faccio, senza dover prendere decisioni in base al suo comportamento… Sarebbe bello poter essere innamorati e poter anche decidere il corso del nostro futuro, in modo che nessuno possa soffrire. Qualcuno dovrebbe creare la ricetta dell’amore dove gli ingredienti siano solo felicità, speranze, gioie, sorrisi e via dicendo, perché se c’è una cosa che odio al mondo, questa è la sofferenza. Non voglio più versare lacrime, non voglio più pentirmi di averlo conosciuto, non voglio più provare quelle fitte al cuore quando soffro. Voglio solo essere felice come quando lo ero, alla scoperta di questo nuovo sentimento chiamato amore. Sara Bortolus, 5 BS
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QUANDO HO INIZIATO A LEGGERE. Quando ho iniziato a leggere questi scritti ho provato sorpresa e stupore. Sono stato catapultato in una dimensione emotiva nascosta ai più, confessata, urlata con rabbia. Mi sono chiesto: " Ma chi sono veramente gli studenti che abbiamo in classe, che incrociamo nei corridoi e sulle scale, quelli con cui prendiamo il treno e percorriamo il tragitto casa -scuola, .... che si muovono in gruppo, hanno l'auricolare perennemente all'orecchio, e il cellulare acceso? Chi si cela dietro le chiacchiere tarantiniane origliate qua e là, alle risate improvvise... forse un'anima romantica incompresa, ribollente di emozioni, sentimenti, passioni? E ancora. " Come mai c'è una dose così massiccia di affettività in questi scritti? Cosa ci mandano a dire? Forse: " Io esisto, ti sono davanti e tu non mi vedi e non mi ascolti, anche quando sono triste, stanca/o, arrabbiata/o, inquieta/o, intimorito/a dal futuro?” Il flusso di coscienza in cui mi sono trovato immerso mi fa riflettere su quanto la nostra vita in aula possa inaridirsi ed essere condizionata dai ruoli interpretati in modo asettico e possa essere vissuta senza lasciar esprimere in modo autentico i propri sentimenti positivi (gioia e felicità e negativi da parte di tutti, studenti ed insegnanti. Ammettere di essere di malumore, preoccupati, tristi, affaticati... Se si fosse partecipi alla vita scolaresca a livello emozionale, anche i sentimenti più forti potrebbero essere accettati, compresi, analizzati e utilizzati costruttivamente nell'ambito di una soddisfacente relazione interpersonale e anche nella didattica disciplinare. Queste emozioni non sono solo adolescenziali, ma ci accompagnano sempre e diventano parte (a volte pericolosa) di giochi proiettivi nei rapporti con gli altri, che poi considereremo colpevoli di non capirci. Perché allora, mi domando, non portarle alla luce e diventarne consapevoli? Prof. Francesco Ricci Docente di Filosofia e Scienze Sociali
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BULLISMO E SOFFERENZA BASTA, SONO STANCA! Sono stanca di tutta questa falsità, stanca di tutto questo grande inganno. Sì: sono nauseata da tutta questa menzogna. Ormai da circa due anni reprimo lo sdegno e lo maschero con gesta fittizie. Questo accade perché mi nascondo di fronte ai comportamenti presuntuosi di quella che consideravo un’ottima amica. Sciocca! Mi divertivo, trascorrevo ore liete in sua compagnia, ma a poco a poco quella che credevo la mia migliore amica si è tramutata in un mostro. Lei, con la sua maleducazione ed il suo orgoglio. Spavalda e sgarbata, pretende le si dia rispetto gratuitamente, senza sdebitarsi, senza doversi preoccupare dei sentimenti altrui. Senza credere che potrebbe essere lei stessa, a volte, dalla parte del torto. Senza pensare che esista gente che non apprezza di essere maltrattata e insultata anche solo per banali motivi. L’errore, di sicuro, è di entrambe; forse mio, prima di tutto, perché, pur conoscendo il suo carattere, insisto, continuo a chiudere un occhio di fronte a certi suoi comportamenti, a sperare che qualcosa in lei muti, che si accorga ed ammetta i propri sbagli, che sopraggiunga un po’ di buon senso… Per quanto possa sperare, sono convinta che le mie preghiere saranno vane; per questo non voglio continuare, ingenuamente, ad illudermi. Ora qualcosa è cambiato. Ora ho aperto gli occhi. Sono pronta ad oppormi a questa sua mancanza di tatto, ad esibire disgusto di fronte a tale esagerato egoismo, di fronte al suo ostile modo di maneggiare le persone, di approfittarsi di me. Magari sta solo usurpando la poca pazienza rimastami; pazienza che ormai freme verso un giusto crudele sfogo. La tolleranza si sgretola. Il mio ‘buonismo’ ora retrocede e si leva solo il morboso desiderio di affrontarla, di dirle in faccia ciò che penso realmente: dirle che mi hanno stremata la sua
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indifferenza, il suo qualunquismo, le sue scenate da bambina viziata, le sue beffarde risatine irritanti. Si è mai chiesta cosa possano provare le sue vittime, nel sentirsi sbeffeggiate, usate? Ciò che mi preoccupa è la sua immaturità, il suo atteggiamento; che non capisca il male che provoca alle persone che si trovano, malauguratamente, ‘sotto le sue grinfie. Vorrei fosse al mio posto. Poco importa. Le ho dato troppe possibilità e in ogni caso credo proprio non abbia speranze. Non cambierà mai. Quello che provo nei suoi confronti ora non è altro che disprezzo, aspro disprezzo. Non merita nulla. Non merita la mia amicizia. Donata Vezzato, 2BL NON HO MAI MENTITO SUI MIEI SENTIMENTI “Non ho mai mentito sui miei sentimenti, piccola mia. L’amore che ho provato e che provo proviene dal profondo del mio cuore”. Parole dolci, sentite, emozionanti…parole che riguardano un amore tra adolescenti: quei primi amori che rimangono sempre nel cuore. Leggendo la frase iniziale, si riesce a capire che dietro a tutto ciò c’è stata una storia: anni passati insieme senza la minima preoccupazione di tutto quello che piano piano andava creandosi. Ho ricevuto queste parole attraverso un’inaspettata lettera. Possono forse sembrare frasi fatte, certo, ma so che sono uscite dalle labbra di un ragazzo, l’unico che ho avuto. Ora dentro il mio cuore sento rancore, malinconia, sofferenza, ingiustizia e rabbia, tanta rabbia! E questo per colpa di cosa? Di chi? Di una persona incoerente, caratterialmente stupida, ma intelligente ed educata. Un
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ragazzo d’oro, diverso da tutti (forse dico questo solo perché è stato l’unico che mi ha fatto provare la sensazione di avere… ‘le farfalle nello stomaco’…). Grazie a lui ho aperto gli occhi. Tralasciando il primo anno, durante il quale ci siamo conosciuti e ci siamo anche un po’ presi in giro, quando abbiamo deciso di incominciare un rapporto più serio, lui è stato sempre sincero, anche se molto spesso troppa sincerità creava litigi che si sarebbero potuti evitare. Vederlo libero di esprimersi, libero nei suoi comportamenti, nelle sue parole, libero di essere semplicemente sé stesso mi rendeva felice e mi faceva sentire importante. Andrea: questo è il suo nome, inciso nel mio cuore. Continuerò per tutta la vita a dire e a ripetere che con lui sono cresciuta. Lo conosco ormai da tre anni e questi tre anni sono stati un passo grande, l’inizio della seconda fase della crescita di una persona: l’adolescenza. Da bambina sono diventata un’adolescente, con lui al mio fianco; lui che, da amico, è diventato il mio ragazzo. Qualche giorno fa ho riletto alcuni suoi vecchi messaggi e lettere che risalivano ad un anno fa, quando abbiamo chiuso per la prima volta la nostra storia. Cercava tutti i modi possibili e immaginabili, per dimostrarmi che teneva a me, che ero importante, fondamentale. Mi diceva, vedendo la mia indifferenza, che si sarebbe accontentato di un’amicizia, solo di un’amicizia, che però sarebbe stata per sempre ‘speciale’, pur di non perdermi. Rileggere ciò che mi scriveva e ciò che rispondevo mi fa sentire come un vuoto sordo, una malinconia incolmabile. Potrei paragonare tutto ciò che ho fatto a quando, con un videoregistratore, si torna indietro per vedere le scene preferite o quelle in cui c’è bisogno di un chiarimento. Ecco: io fatto un “rewind”: sono partita dall’inizio di tutta la nostra storia, per poi premere ‘play’ e leggere in ordine cronologico messaggi e lettere fino al presente. Ora mi accorgo che in un anno tutta la mia vita è cambiata e la causa di tutto questo è lui. Ho notato anche, attraverso le risposte che gli davo, che il mio carattere si è
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modificato quasi totalmente: ero forte, decisa, determinata, indifferente alle cose negative; stavo bene con o senza di lui, perché riuscivo ad andare avanti grazie a tutti gli amici che avevo vicino a me. L’anno scorso, infatti, riuscivo a pensare a me stessa, agli amici, alla scuola e al mio tempo libero; poi la sua presenza mi ha fatto capire che ciò che stava accadendo non era nulla di normale, nulla da sottovalutare. Da due notti piango lacrime di dispiacere e di rabbia. Mi manca la sua dolcezza, il suo interesse, il suo modo di stare con me, nonostante si adirasse spesso; mi manca il suo desiderio di me. Ma mi manca soprattutto l’importanza che, nella sua vita, dava a me e alla nostra storia. Era l’unico in grado di farmi sentire al di sopra di tutto e di tutti. Dopo il primo distacco, c’è stato il secondo, quello definitivo. È stato un dolore insostenibile per me, un dolore lancinante. Sono stata davvero male, tanto da rovinare, per sei mesi, il rapporto con la mia famiglia, verso la quale ora mi pento di non essermi comportata bene. Ora ho una bella compagnia di amici, disponibili sia per uscire che per qualche aiuto, ma avevo due persone davvero importanti e avrei fatto qualsiasi cosa per loro: la mia migliore amica ed il mio migliore amico. Eravamo un trio perfetto, ma ho quasi l’impressione che si siano messi d’accordo per scomparire dalla mia vita. Da quel che mi hanno fatto capire, le ragioni di questa rottura sono dovute al fatto che, a loro modo di vedere, li trascuravo, ero fredda nei loro confronti. In effetti lo sono stata per un periodo e giustamente si sono stancati. Relativamente alla scuola, l’unica impressione che ho di me stessa è di essere una grande delusione. La causa di ciò è naturalmente Andrea, ne sono certa; ma non potrò mai rinfacciarglielo, perché sono io che non riesco a smuovere i miei pensieri dal mio unico pensiero fisso: Andrea, Andrea, sempre Andrea. A gennaio dell’anno scorso avevamo ricominciato. Da quel momento la scuola e io non abbiamo più avuto ‘feeling’ e la cosa non può che darmi fastidio, perché il liceo che frequento mi piace davvero tanto; ora mi distraggo, spreco
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tempo prezioso a rimpiangere il passato, quando potrei dedicarmi allo studio, pensando a costruire il futuro dei miei sogni. E invece mi ritrovo qui, per l’ennesima volta, a pensare ad Andrea e a starci male ancora dopo sei mesi. Ora, esattamente ora, ho appena chiuso una conversazione con lui; iniziata e conclusa da lui. Si è interessato a me, alla mia salute, al mio benessere, alla scuola, ai miei amici e alla mia famiglia, alla quale ho presentato solo un ragazzo: lui. Andrea mi starebbe sempre vicino, anche semplicemente come amico, ma è obbligato a non farlo, se vuole mantenere il suo nuovo rapporto (credo abbia trovato una persona egocentrica ed esigente). Mi basterebbe un’amicizia, perché solo lui conosce ogni minimo dettaglio di me, del mio comportamento e di ciò che mi sta intorno, ma più che altro io non voglio perderlo, perché ho il presentimento che dimentichi questi tre anni e mi ‘cancelli’. L’unica cosa positiva è che sono certa che un giorno tornerà da me e mi aiuterà a passare dall’adolescenza all’età adulta, così come ha fatto in passato, aiutandomi a crescere. Ora però è necessario che cerchi di ‘incorniciare’ e lasciare da parte questa straordinaria esperienza, in modo da stabilizzare la mia vita. Sono sicura di aver lasciato un segno profondo e netto nel suo cuore, un segno permanente, che, al momento giusto, tornerà a muovere i suoi sentimenti. A quel punto, nemmeno un intero universo potrà separarci. Jessica Dal Rovere, 2BL ROVISTARE TRA I RICORDI In questo momento, il guazzabuglio del mio cuore può identificarsi in molti stati d’animo: la delusione per la perdita
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di alcune amicizie e l’eccitazione per un evento che tra pochi giorni cambierà la mia vita; la malinconia se penso a ciò che potrei essere ma che non sono e la letizia provocata dal fatto di sentirmi amata da molte persone; la paura e l’indecisione per il futuro ed il rimpianto e la gioia se penso al mio passato. Se si potesse guardare nella mia anima, però, non si vedrebbe solo questo, perché è solamente la parte più superficiale di essa. Se dovessi trovare il vero guazzabuglio del mio cuore, dovrei cercare più in profondità, dentro di me: rovistare tra i ricordi, tentare di sentire anche la più piccola delle sensazioni che io abbia mai provato e che potrebbe riaffiorare da un momento all’altro. Se torno col pensiero a certe emozioni e a certi momenti che ho vissuto, mi commuovo e mi chiedo come abbia fatto, quindicenne, a superare momenti a volte tanto bui e colmi di sofferenza. Se, invece, la mia mente si proietta al futuro, posso dire che le mie emozioni sono positive e ricche di speranza, ma anche di indecisione e di preoccupazioni per l’avvenire. Volendo fare degli esempi, sono preoccupata per la verifica che mi attende domani a scuola, non so che vestiti indossare questa sera e non so nemmeno se parteciperò al viaggio di studio in Inghilterra che la scuola ha programmato per maggio. Negli angoli più remoti del mio cuore, si può poi trovare l’indignazione per ciò che mi è stato fatto e per come sono stata trattata da quelli che credevo fossero i miei migliori amici. Non riesco a capire come persone che conosco da sempre ed alle quali ho sempre voluto bene mi abbiano potuta umiliare ed abbiano avuto il coraggio di prendersi gioco di me. L’ultima emozione che avverto, la più crudele di tutte, è un profondo senso di ingiustizia. Non ho mai osato dirlo a nessuno, ma questo è ciò che, più al mondo, mi dà fastidio e mi crea insoddisfazione, non solo quando chi mi sta accanto non si comporta correttamente con me, ma anche quando scorgo un’ingiustizia nei confronti dei più deboli che troppo spesso vengono presi di mira.
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Una curiosità su di me e sui miei sentimenti consiste nel fatto che, quando penso di essere unica al mondo, poiché nessuno è uguale a me, sento qualcosa nel mio cuore, qualcosa che non riesco ad identificare come un’emozione, un sentimento, ma, piuttosto, come l’insieme da tutte le mie emozioni e di tutti i miei sentimenti. Penso che sia proprio questo il vero guazzabuglio del cuore umano: sapere di essere unici e irripetibili. Anonima, 2BL IL CUORE: UN MISCUGLIO CONFUSO DI SENTIMENTI Il cuore di ognuno di noi ha un miscuglio confuso di sentimenti e di sensazioni diverse e opposte tra loro: amore e odio, amicizia e inimicizia… Sono temi che caratterizzano soprattutto noi giovani e sono così potenti da farci esultare l’attimo prima e piangere quello dopo. In ragazzi giovani come noi, penso che uno dei sentimenti più coinvolgenti sia l’amicizia. Scegliamo noi gli amici, eppure tante volte sbagliamo. È vero: l’apparenza a volte inganna, ma credo sia proprio perché, provando un miscuglio di sentimenti e di sensazioni, molte volte finiamo con il fidarci erroneamente della prima persona che incontriamo. Quando ci accorgiamo che non è la persona più adatta con cui stringere amicizia, spesso è troppo tardi e così soffriamo tantissimo. Ecco quello che ci provoca rabbia: la sofferenza, perché, dopo una litigata in seguito alla quale ti accorgi che l’amica non era poi così ‘amica’, quello che hai dentro corrisponde a delusione, rabbia, a volte odio, sofferenza; e quel briciolo di amore che provavi e che per un periodo non se ne vuole andare ti fa pensare come può essere successo che ci si arrabbi in quel modo. In questo momento, mentre scrivo, mi ritornano alla mente tutte le litigate che ho duramente affrontato con la mia
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migliore amica e mi rendo conto che, nonostante la odi quando fa emergere i suoi difetti, non vorrei mai che la nostra amicizia finisse. Lei ha tanti difetti e ha i difetti peggiori del mondo, credo, ma è dotata anche di moltissimi pregi. Sono proprio i suoi pregi che mi permettono di volerle tutto il bene che le voglio. Lei sostiene che un’amica si possa amare nel vero senso della parola….io non sono d’accordo. Riesco a volerle tutto il bene di questo mondo, ma non riesco ad ‘amarla’, perché sono convinta che si possa amare, nel profondo senso che questa parola esprime, solamente la persona con cui si vuole trascorrere il resto della vita. Mi dispiace dirlo, ma non credo che questa persona possa essere un’amica, neanche se fosse la migliore, perché un’amica vera serve per confidarsi, sfogarsi, divertirsi, aiutarsi, ma non per ‘amarsi’. Le voglio un bene del mondo, certo!, ma non sento di ‘amarla’ dando a questo verbo lo stesso significato che gli attribuisce lei. Non dico di essere perfetta io, per carità, anzi ho i miei mille difetti e questo per lei è uno dei tanti, però, nella mia consapevole imperfezione, credo di aver già cominciato a mettere a posto la confusione del cuore, mentre in lei, che invece si sente più matura di una ragazza qualsiasi e con le idee già chiare, vedo ancora molta confusione. Credo abbia voluto crescere troppo in fretta. Certo potrei benissimo sbagliarmi e capire come veramente sono le cose con il passare del tempo: il cuore è un vero guazzabuglio. Di una cosa, però, sicuramente non mi sbaglio: le voglio molto bene e grazie a lei ho capito che l’amicizia è la cosa più importante. Anonima, 2BL
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BASTA, BASTA DI TUTTO! Sono arrivata al culmine, mi sento esausta; esausta di vivere tutto questo ogni giorno… Non ho più voglia di parlare, di vedere persone, di andare a scuola… Basta! Basta di tutto! Vorrei poter urlare al mondo “aiuto!” per uscire da questa situazione, perché ora anche chi sa non mi tende la mano, non mi fa risalire alla vita normale. Sì, rivoglio la mia vita: tornare a ridere senza pensieri, andare a scuola felice come ho sempre fatto, prima di conoscere le ‘bulle’, e, soprattutto, vorrei riuscire di nuovo a dormire e a sognare come mi piaceva fare, senza avere il terrore di rivivere sempre gli stessi istanti. Dopo i loro insulti quotidiani, gli atteggiamenti provocatori e le loro ‘bullate’, sono riuscite a farmi arrivare all’esaurimento. Venerdì mattina ho toccato il fondo. Quell’attacco di panico forte come un nodo in gola… Quel cuore che, a differenza loro, io possiedo e funziona anche bene, era come volesse uscirmi dal petto. Non ricordo nient’altro dell’accaduto, ma l’attacco di panico è stato il segnale per farmi capire che il mio corpo aveva ceduto: tutte le tensioni, i nervosismi accumulati per non rispondere alle provocazioni erano venuti a galla in un pianto di liberazione. Un pianto che è durato parecchi giorni. Poi, piano piano, col passare del tempo, le lacrime se ne sono andate, anche se in realtà ‘dentro’ continuo a sentirle. I giorni dopo il malore sono stati orribili: di notte non dormivo ed avevo sempre un’emicrania talmente forte che il primo pensiero era ‘farla finita’. Non bastasse ciò, continuavano gli attacchi di panico che mai avevo avuto prima. Nella mia mente c’erano sempre ‘loro’ e i fantasmi di tutte le angherie che mi avevano fatto, come in un film. Presto avevo capito che il mio problema era diventata un’ossessione e così ho trovato il coraggio di farmi aiutare, sperando di poter ricominciare a vivere tranquillamente.
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Certo, loro non cambieranno mai il loro comportamento, perché le persone incivili non cambiano, ma se riuscirò a costruirmi una ‘corazza’, a rendere il mio carattere più forte, le sconfiggerò. Mi hanno insegnato che non si possono cambiare le situazioni, ma si può cambiare il proprio atteggiamento di fronte ad esse. Non ci avevo mai pensato, e invece è proprio vero: dal fondo si può solo risalire. Avevo pensato anche di cambiare scuola, rinunciando così alle mie passioni e al mio sogno di imparare le lingue e diventare un’importante interprete. Questa decisione però mi sono resa conto che non avrebbe risolto i miei problemi: sarebbe state una ‘fuga’ e sono certa che in futuro mi sarei pentita di non aver perseguito i miei sogni. Ho capito che le cose vanno affrontate, perché non ce la faccio più a continuare così. Lo so, è brutto quello che sto per dire, però giuro che in questo periodo capisco le persone che in un momento di pazzia hanno fatto del male a qualcuno, perché gran parte delle volte il colpevole è la vera vittima, che, stanca di subire, si fa giustizia da sola. Certo non sto parlando di me: quello che vorrei è solo tornare a vivere serenamente la mia vita. Non chiedo altro. Non riesco neanche ad odiarle, perché, se si comportano così, vuol dire che si sentono esseri inutili in questo mondo, che sono persone deboli e che per farsi rispettare devono fare del male. Però…Perché proprio a me doveva capitare tutto questo? Tanta gente sa, ma pochi mi stanno aiutando veramente e mi fa male pensare che l’unica persona che mi potrebbe aiutare davvero e farmi uscire da quest’incubo è incerta sulle decisioni da prendere. Non so perché. Bisogna aspettare che scappi il morto o che succeda qualcosa più grave di tutto quello che è già successo, per decidere che è ora di fare qualcosa? Mi piacerebbe far conoscere il mio caso al Ministro dell’Istruzione, perché tra tutte le leggi alle quali sta pensando, ne metta in cantiere una di seria anche contro il fenomeno del bullismo.
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Mi piacerebbe anche che le ‘bulle’ capissero i loro errori e pagassero per questo, ma non con sospensioni o sanzioni di qualche tipo (anche se, da un lato, sarei felice di vedere che qualcuno prende provvedimenti seri), bensì provando lo stesso dolore che provo io. Sono ancora dentro a questo lungo tunnel e spero di uscirne il più presto possibile… Chissà: magari un giorno le ringrazierò di avermi fatto così male, perché significa che sarò diventata una persona forte, che ha imparato a vivere. Per ora, aiutata da qualcuno, spero solo di poter presto rivedere la luce. Intanto guardo la neve scendere leggera e, mentre una lacrima mi riga il volto e penso a tutto questo, so che VOGLIO RICOMINCIARE A VIVERE. Marta Paola Bricchese, 2BL C’È QUALCOSA CHE VOGLIO SCRIVERE Caro diario, sono in camera mia e guardo i colori davanti a me che formano un arcobaleno. Con questi colori vorrei scrivere frasi stupende, disegnare anche l’impossibile, oppure colorare il mondo come piace a me. Però non riesco a pensare. La mia mente è occupata: sta rimuginando e riflettendo sui molti problemi che ci sono nel mondo, nella mia vita, nella mia classe, con i miei compagni. L’anno scorso, quando ho conosciuto queste ragazze, le avevo giudicate bene, ma alla fine si sono rivelate tutt’altro da quel che avevo pensato nei primi incontri: ragazze semplici, di bell’aspetto, con un carattere buono e generoso… Era tutta apparenza: sono delle vipere! Fortunatamente in questa faccenda non c’entro, ma sarebbe bene che il problema venisse a galla, perché una ragazza sta soffrendo troppo per causa loro. Troppe sono state le minacce e troppe sono le falsità dette; cose che si dicono perché qualcuno si
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sente più grande degli altri, ha una mentalità chiusa e perciò crede di poter fare quello che gli pare e piace, mentre gli altri non reagiscono, forse perché non ne hanno il coraggio o non vogliono finire come questa ragazza. Hanno paura. Credo tuttavia che, se queste persone crudeli sono giunte alle minacce, debbano in qualche modo ‘pagare’, almeno per capire gli sbagli che hanno commesso. Non si può minacciare una ragazza di quindici anni, solo perché ci si crede superiori o perché lei si è sentita di dire la verità e non reagisce per non fare il loro gioco. Credo anche che la mia compagna si sia rivelata fino ad ora molto forte nel sopportare questa situazione, ma mi accorgo che dà segni di cedimento, che sta crollando e che non sopporta più anche il solo fatto che nessuno sappia ciò che sta accadendo, ciò che le fa tanto male. Nessuno, però, per ora, ha il coraggio di parlare. Sentirsi presa in giro e minacciata, vivere con il terrore che delle persone potrebbero farti del male, non necessariamente fisico, ma anche solo psicologico, come sta succedendo, è una cosa orribile. Sentirsi dire, per esempio: “Non ti azzardare a parlare di questo, se no poi te la vedi con me!”, oppure: “Non ti mettere contro, perché dopo vedi che ti succede!” è bruttissimo e credo che ciò possa avere conseguenze gravi o portare a gesti sconsiderati. Non posso dire di conoscere tutta la storia per filo e per segno, però ciò che so è sufficiente per capire che, nella mia classe, sta accadendo qualcosa di ‘grave’. Se fossi nella situazione di questa dolce e simpatica ragazza, avrei innanzitutto risposto male a questo gruppo che si può definire un gruppo di ‘oche’ che parlano solo perché hanno la bocca e vogliono farle prendere aria; dopo di che avrei immediatamente chiamato i miei genitori, che sicuramente avrebbero subito sporto denuncia. Se questo non fosse servito a nulla, avrei chiesto di cambiare classe o addirittura il trasferimento in un’altra scuola. È una situazione molto difficile da vivere e non solo per le persone direttamente coinvolte; anche il clima della classe è cambiato e di questo si è accorta perfino una professoressa
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che ci conosce solo da due mesi e mezzo circa e che ci ha consigliato di dire la verità e di far venire a galla il problema, per il bene di tutti. Qui si vive tra tensione e paura. Sinceramente non so più che fare, che pensare e che dire; vorrei solo che avesse fine questa ‘faccenda’ orribile, che sta coinvolgendo proprio la mia classe; si parla tanto di bullismo nelle scuole, si racconta che i ragazzi più ‘forti’ se la prendono con i più deboli talvolta alzando le mani, ma anche ciò che stiamo vivendo noi a scuola è una forma di bullismo, e mi colpisce il fatto che questo gruppo di ragazze un giorno, durante una discussione proprio sul bullismo, abbia detto: “È orribile quello che fanno alcuni ragazzi ai loro coetanei diversamente abili…”. Pensare a ciò provoca in me un dubbio inquietante, perché significa che alcune mie compagne non si rendono minimamente conto di non essere per nulla ‘diverse’ dai ragazzi che si permettono di criticare, ma non spreco neanche un briciolo di energia per capire questa contraddizione, perché persone così non meritano la mia comprensione. Mi fanno pena e basta. Questo è quello che penso, ora, mentre guardo questo arcobaleno di colori che mi trascina con sé. Alice, 2BL PROBLEMI CHE SENTO URGENTI L’argomento che sto per trattare non è un problema urgente, ma qualcosa che sento dentro e chissà che scrivere le mie sensazioni su questo foglio bianco non serva a chiarirmi le idee. Non avrei mai creduto di poter arrivare ad amare così tanto. Troppo, direi. Per poter capire questa mia affermazione, bisogna risalire a ciò che ero qualche anno fa: una ragazza molto sola che non credeva nell’amicizia. Ho vissuto bruttissimi momenti alle scuole medie. Non ho mai capito cosa volesse dire avere un’amica vera e cosa
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significasse volerle bene. Sono uscita da queste scuole con l’idea che la migliore amica non esistesse e nemmeno l’amicizia in generale. Alle scuole superiori ho però trovato una persona che mi ha letteralmente rapito il cuore e che, forse purtroppo per me, amo più della mia stessa vita. Perché dico purtroppo? Dico purtroppo perché questa ragazza, che per convenzione chiamerò Barbara, non ricambia appieno questo mio sentimento. Il nostro rapporto è molto particolare: è morboso, perché siamo in contatto finché non ci addormentiamo; è sincero, perché tra noi due c’è quasi sempre verità, ma non è un rapporto né pacifico, né dolce. Litighiamo spesso per non dire sempre, anche per minime stupidaggini e questo mi fa soffrire molto. Quello che davvero mi spinge a scrivere tutto ciò è un lato del suo carattere che mi ha creato non pochi problemi sentimentali. Io sono una ragazza molto dolce e con Barbara cerco sempre il contatto fisico: un bacino, una carezza, una parola affettuosa, ma lei è fredda, glaciale. È necessario quasi ‘obbligarla’, per strapparle dalla bocca una bella parola. Ed è proprio su questo punto che si fonda il 90% delle nostre discussioni: io ho bisogno, quasi come una necessità indispensabile, sentire sempre che per lei sono importante, però Barbara non è in grado di farmi sentire questo e forse, come dicono certe persone, è il caso che io riveda la mia amicizia con lei, perché questo rapporto si può paragonare ad un’altalena piena che va su e giù, più giù che su, e questo non va bene. Non va bene un rapporto di amicizia, soprattutto se forte come il nostro, così altalenante e instabile, quindi, a rigor di logica, forse hanno proprio ragione le persone che mi dicono che devo provare a chiudere questo rapporto. Ciò che, però, non tutti sono in grado di capire se non lo hanno mai provato, è che “al cuor non si comanda” e che, molto spesso, amore e logica non vanno di pari passo. So come sono fatta io; so che soffrirei tantissimo a interrompere
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questa amicizia così forte, per cui non oso e non voglio nemmeno pensare che potrebbe finire tutto. Se infatti c’è una persona che davvero è riuscita, con la sua semplicità, a farmi capire cos’è la vera amicizia è lei, Barbara. Per questo e per tanti altri motivi non la lascerò mai, almeno fino a quando mi sarà possibile. So che prima o poi lei mi sfuggirà dalle dita, come una piuma che con un semplice soffio di vento vola via, però non riesco nemmeno a pensarci, perché al sol pensiero gli occhi mi si riempiono di lacrime. Abbiamo litigato spesso, anche a causa della mia gelosia, una gelosia cieca che ho verso chiunque le si avvicina e le dimostra troppo affetto; una gelosia che diventa quasi incontrollabile soprattutto nei confronti di quella che era in passato la sua migliore amica. Lo so, ne sono consapevole: prendo troppo sul serio questa nostra amicizia, ma questo sentimento così forte non dipende da me, bensì dal fatto che prima d’ora non ho amato nessuno così. Per il momento io e Barbara continuiamo la nostra amicizia come abbiamo sempre fatto, ora però mi chiedo: “Quanto può durare un rapporto così??” Probabilmente solo il tempo ce lo dirà! Anonima, 2BL UN GUAZZABUGLIO NEL CUORE Vorrei capire perché mi sento così: infelice, con sensazioni in continuo contrasto, che passano da uno sprazzo di allegria, ad una specie di depressione, che sorge ogni sera. Eppure ho tutto quello che una persona possa desiderare: una famiglia che mi vuole bene, una casa perfetta, dei buoni voti a scuola… Qualcosa, però, nell’ultimo periodo si è spezzato. Più di qualcosa, forse! Rapporti che mi facevano stare bene, che mi
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rendevano felice: due amicizie di una vita, una più lunga dell’altra ed entrambe importanti, anche se in modi diversi. Una si è conclusa nel peggiore dei modi, rompendo proprio i rapporti; dall’altra persona mi sono sentita presa in giro, ferita come se qualcuno mi avesse tolto una parte di me, per puro divertimento. Una cosa, però, è comune in entrambe le situazioni: il senso di umiliazione. Mi sento proprio così, umiliata, soprattutto ogni volta che le incontro per strada. I motivi sono ridicoli, ma troppo incisi nel mio cuore per essere dimenticati. Ci sono state troppe falsità in tutto questo, ed è una cosa che odio, essendo una persona che basa i suoi rapporti sulla sincerità. Anche se mi sento presa in giro, quelle due persone però mi mancano da morire, ed anche se so che non si può più tornare indietro nella vita, mi sento come in una campana di vetro: isolata dal mondo e sola con i miei sogni. Ultimamente, per me, esistono solo questi e la scuola. Ho paura a fidarmi ancora delle persone, perché temo che tutto finisca e so che l’unica che ci soffre sempre tanto sono io. Vorrei poter tornare indietro nel tempo. Tornare bambina, quando non avevo pensieri e l’unico dilemma della mia vita era se giocare con le Barbie o con i peluche. Perché fa così male crescere? Nessuno me l’aveva mai detto! Tutti continuano a ripetermi che questa è l’età più bella, ma se è vero, mi viene con terrore da pensare che più avanti sarà anche peggio. Che brutto vivere così! E poi: perché le persone non riescono ad amarmi per quello che sono veramente? Forse sono io che sbaglio i modi, o magari sono solo stanca di essere in questo tunnel senza via di uscita. Ci sono persone che cercano di farmi reagire, ragazze alle quali tengo molto, ma ultimamente anche i loro consigli mi danno fastidio, perché in ognuno di essi c’è sempre la frase: “È successo anche a me!” Continuo a non capire perché la gente, nelle sofferenze altrui, debba sempre immedesimarsi. Di giorno faccio mille cose per non pensare, ma di sera tutto ritorna, come i ricordi.
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Odio questa età, in cui anche i problemi più piccoli sembrano amplificati. L’unica soluzione che vedo è prendermi il mio tempo, reagire da sola, uscire dalla mia ‘campana di vetro’ e conoscere gente nuova, ma riprenderò a fidarmi di un amico solo quando sarò sicura. Intanto l’unica cosa che mi rallegra un po’ è il mio sogno di scrivere un libro, in cui racconterei la ‘vera me’, con la mia vita, e, perché no, riprendendomi anche qualche rivincita su certe persone. Forse solo quando nascerà Beatrice, mia nipote, ricomincerò a vedere le cose dal lato bello della vita. Prima o poi arriverà anche il mio momento, perché, come diceva un mio amico, l’equilibrio della vita porta momenti brutti che vanno a compensare momenti indimenticabili. Sarà per la mia età, o perché non mi sento uguale agli altri, ma diversa, più matura di quello che dovrei essere, però il mio cuore è un vero e proprio guazzabuglio di emozioni. Un misto di sensazioni impossibili da descrivere. Forse per questo mi sento diversa: l’unica che, in mezzo a un caos di sentimenti, alla fine sorride sempre, perché in fondo, nella vita, è meglio ridere che piangersi addosso. Ridere per dimenticare: è questo il mio motto! Magari, dimenticare anche certi momenti così brutti del passato, domani si trasformerà in un grosso sorriso. Marta Paola Bricchese, 2BL
SENTIMENTI SOPRAFFATTI DALLA PAURA Sentimenti: questa parola viene spesso collegata a emozioni che ci fanno sentire bene o, al contrario, che ci fanno stare male. Pochi pensano a quell'emozione che si manifesta in ugual modo in tutti gli esseri umani: la paura. Ognuno di noi, prima o poi, fa i conti con essa, perché ogni persona ha le sue piccole paure.
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Esistono diversi tipi di paura, così come diverse sono le persone che la provano. Quando si è sopraffatti dalla paura, intorno a noi si costruisce una prigione: siamo tutti chiusi in una prigione. È vero, ce la costruiamo da soli, ma non per questo è più facile uscirne. Le paure possono essere più o meno forti e ci sono paure peggiori di altre, ma per quanto dorata, una gabbia è sempre una gabbia, e se ognuno è artefice del proprio destino, ognuno continua a vivere la propria vita o permette che venga distrutta dai propri timori, a seconda della forza che decide d'imporsi o della forza che rifiuta d'imporsi. Nella vita ci sono paure che ti crei e altre che si insinuano in te. Non le hai scelte e nemmeno le vorresti, ma esistono. A quel punto le soluzioni sono due: o ti lasci determinare da esse, pensando di essere troppo debole per sconfiggerle, o le affronti. Qualsiasi soluzione tu scelga, cambierà in qualche modo la tua vita; sta a te decidere se in bene o in male. Spesso si dice che la paura è l'unica cosa che impedisca di farci commettere delle sciocchezze. Se decidiamo di rischiare, senza dare retta alle nostre paure, può darsi che questa scelta ci faccia a pezzi, ma dopo avremo tutto il tempo e la forza per rimettere insieme i pezzi; se invece ci arrendiamo di fronte ai nostri timori, saremo ugualmente in frantumi, ma il rimorso e il dubbio di come sarebbe potuta andare faranno di noi delle persone a pezzi per tutto il tempo che ci resta, e saranno pezzi ogni giorno più piccoli. È buffo pensare che esista qualcosa in grado di sconfiggere l'uomo, che vada al di sopra delle nostre capacità di autocontrollo, noi che ci riteniamo degli esseri tanto perfetti… Ed è proprio dentro di noi, i ‘migliori’, che nasce la paura. Ciò vuol dire che soltanto noi siamo in grado di sconfiggerla: per quanto infatti possa stringerci il cuore, bloccare il corpo e offuscare ogni pensiero, la forza per difenderci si trova in noi, ognuno ne è in possesso. La definizione di paura è: “sensazione che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo vero o immaginario”; nella maggior parte dei casi il “pericolo vero o immaginario” è
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una cosa o una situazione di cui non siamo pienamente a conoscenza, perciò, ciò che ci spaventa così tanto è in realtà l'ignoto, e la nostra è una semplice reazione di fronte ad esso, a qualcosa che non conosciamo. Gli esseri umani hanno una capacità quasi illimitata di farsi del male; siamo capaci di giustificare qualsiasi tristezza e paura, se rientra nella nostra visione della realtà. Fino ad ora la paura è stata catalogata con nomi diversi: preoccupazione, timore, angoscia, fobia, terrore… Diversi nomi, riferiti a diverse esperienze, vissute da diverse persone, ma ancora non si è trovato il nesso comune che possa affermare: “LA PAURA È REALE!”. Non so spiegare cosa sia la paura e non riesco nemmeno a ‘plasmarla’ in alcun modo. Alcune volte credo che, nonostante le capacità di cui disponiamo per darle un senso, sia comunque lei ad avere la meglio su di noi. Fino a quali limiti può spingersi la paura? Cosa siamo in grado di fare in preda al panico? Quale forma dà la paura alle sagome nel buio, quando, la sera, soffiano sulla candela? Anonima SE CERCHIAMO Se cerchiamo sul vocabolario la parola “sentimento”, troviamo: “stato affettivo più durevole dell’emozione e meno intenso della passione”. Molto probabilmente un sentimento è molto più di questo. I sentimenti sono così unici da non poter essere descritti con delle semplici parole. Sono proprio loro, spesso, a guidare le nostre azioni, e sono perciò una forza davvero grande. A volte si compiono delle azioni inaccettabili, ma altre volte, con la forza dei sentimenti, si fanno cose che sembrano possibili solo nei film. Ci sono sensazioni che non immaginavamo neppure esistessero; quando le proviamo le
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parole svaniscono, tanto che non riusciamo a descrivere come ci sentiamo. Credo che i sentimenti provati dagli uomini siano un mistero che rimarrà irrisolto per sempre. Anonima LA PAURA È UN SENTIMENTO… La paura è un sentimento o un’emozione intensa, frequente tra noi adolescenti; essa trova spesso spazio nei miei pensieri. Molte volte provo paura nell’affrontare anche situazioni banali e questo provoca in me incertezza e molti dubbi, soprattutto quando mi trovo davanti a degli ostacoli. Con la conoscenza e l’esperienza si rafforza il carattere e si vince la paura. Essa nasce in me anche a causa della percezione di una realtà ostile, che mi invita a proteggermi e a non espormi. Molte volte l’angoscia finisce con il nascondere la vera personalità degli esseri umani, ma, una volta superata, so che non si commettono più gli stessi sbagli. Ci si sente più sicuri, si cresce e si matura. Anonima SE IL MORALE È A TERRA In questi giorni il mio morale è piuttosto a terra. Non so bene la causa precisa del mio stato d'animo; credo dipenda dal fatto che sono un po' influenzato e che le vacanze natalizie sono passate troppo velocemente. Un'altra ragione per cui mi sento così è probabilmente il fatto che sono una persona apprensiva che prende tutte le cose a cuore. Mi preoccupo molto, perché desidero far bene
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tutto, anche se so che non sempre le cose vanno come desideriamo. Con il tempo e con l'esperienza sto iniziando dunque a capire che bisogna prendere le cose ‘come vengono’ e bisogna vivere alla giornata, altrimenti si rischia di ingigantire anche i problemi facilmente risolvibili. Da un lato sono felice, perché ho trascorso molto bene le feste con i miei parenti e tutte le sere sono uscito con i miei amici con cui ho un bel legame, quindi delle vacanze non mi posso proprio lamentare. Adesso che siamo rientrati, spero che il mio percorso continui sempre nel migliore dei modi, anche perché ci tengo molto ad andare bene a scuola e penso che se si fanno le cose…come vanno fatte, non ci saranno motivi di cui preoccuparsi. Anonimo GUARDANDOMI DENTRO Guardandomi dentro ultimamente, sento di avere molti pensieri e molte preoccupazioni, probabilmente causate dai ritmi frenetici che caratterizzano questi giorni. Forse, se non sono tranquilla, è anche a causa del mio carattere piuttosto apprensivo… Ho notato, però, che, quando sono in compagnia di amici o di familiari, queste preoccupazioni e ansie svaniscono; quando invece sono sola e ho un po’ di tempo per pensare, questi sentimenti mi sommergono. Mi sto comunque sforzando di stare più tranquilla, anche per cercare di affrontare con serenità questo periodo un po’ pesante. In questo momento, per vivere serenamente sento il bisogno di stare assieme a persone a cui tengo, perché rimanere sola un po’ mi impaurisce. Fortunatamente nella mia vita va tutto bene e questo mi dà la forza di superare i piccoli ostacoli che ogni tanto
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inevitabilmente si presentano. È questo ciò che provo in questo momento. Sento che sto crescendo e sto anche cominciando a vedere molti aspetti sia positivi che negativi della vita con una maggiore maturità, cosa che magari un anno fa non mi capitava. Anonima TANTI PUNTI INTERROGATIVI Se mi guardo dentro, vedo tanti punti interrogativi che attendono una risposta che forse non arriverà mai; vedo punti esclamativi: esclamazioni di stupore, di gioia o di dolore, che, per paura, non ho saputo esprimere; vedo sentimenti che nuotano liberamente dentro di me. Sentimenti che mi avvolgono, che occupano ogni mio pensiero, ogni fibra del mio corpo. Se mi guardo dentro, vedo la persona più fragile del mondo, così come vedo la persona più bella del mondo; e quando dico ‘bella’ non intendo ‘bellezza fisica’, ma la bellezza che si genera dal cuore. Come il mare in tempesta, così il mio cuore si dibatte nel turbine di sensazioni, di pensieri e di desideri che offuscano la mia mente e che mi portano a guardare le cose con occhio critico; che mi spingono a cercare e a volere quel ‘qualcosa in più’, pur non sapendo nemmeno io…che cosa sia. Se mi guardo dentro, vedo una persona insicura, che si fa problemi per cose frivole; vedo una persona intrappolata nel dubbio, nell’angoscia della vita quotidiana. Una ragazza che troppe volte, per paura, non dice quello che pensa, non segue quello in cui crede, perché, diciamolo: a chi non importa almeno un po’, una briciola, ciò che gli altri pensano? Non so se sia sbagliato o giusto, ma so come ci si sente quando quelli che si dicono amici ti voltano le spalle; quando, nel momento del bisogno, non trovi nessuno; quando, stanca,
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avresti solo bisogno di una spalla dove appoggiarti e piangere… Ne hai bisogno, ma naturalmente quella spalla non c’è, non la trovi. So come ci si sente quando ti piace un ragazzo, quando, vedendolo, il tuo cuore batte forte, le tue mani tremano e le guance ti diventano sempre più rosse e tutto ciò che vorresti è che lui ti guardasse o magari (wow!) ti salutasse…Tu, tu sei lì che lo aspetti, e non puoi fare altro che sognarlo ogni sera, continuamente. Un pensiero fisso al quale non puoi sottrarti. Se mi guardo dentro, io mi vedo! Vedo una persona nata dall’amore delle due persone alle quali devo tutto e alle quali voglio un bene dell’anima. Una persona che è cresciuta, che sta crescendo e che crescerà, circondata d’amore, in quel luogo caldo che è casa mia e circondata dalle persone che mi vogliono bene, che mi accettano e mi rispettano per quella che sono. Anonima FORSE LE LACRIME I sentimenti sono tanti. Alcuni si possono elencare: la gioia, l’amore, la felicità…Ma anche la tristezza, la rabbia, l’odio… L’uomo non potrà mai dire quanti sono, perché ognuno di noi, in ogni istante della giornata, prova emozioni sempre diverse, che cambiano continuamente. Io sono una persona molto emotiva, anche se non si direbbe, perché cerco di nascondere quest’aspetto sotto una maschera d’indifferenza, forse per paura che i sentimenti prendano il sopravvento ed io non riesca più a controllarli. Osservando le persone, ho notato che qualsiasi emozione porta al pianto; pianto di gioia, di tristezza o di rabbia. È una cosa strana. Forse le lacrime cercano di portare via l’eccesso di dolore o di felicità che proviamo in diverse situazioni. È per questo che ho imparato a non farmi prendere troppo dalle emozioni: per non rischiare di essere troppo superficiale, per non sognare troppo, perdendo il controllo della realtà.
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Riflettendo, mi viene da pensare che l’essere umano sia dotato di sentimenti per fuggire solo per un attimo dalla realtà, ma allo stesso tempo credo che essi gli permettano di vivere una vita unica, diversa da quella di chiunque altro. Se fossimo dei robot, costruiti con lo stesso stampo, tutti uguali, la nostra esistenza sarebbe piatta e non saremmo in grado di distinguere il bello e il brutto, la felicità e la tristezza. Tutti dicono che provare tristezza è un segno di solitudine, di troppa sensibilità, a volte anche di vigliaccheria… Chi dice ciò, forse non ha mai provato queste cicatrici sulla sua pelle e ride di chi invece le ha davvero provate, di chi porta questo pesante fardello al collo: quel sentimento lacerante che al solo pensarci spezza il cuore, lo frantuma in tanti piccoli frammenti e lo fa sembrare una cosa inutile… Quando la tristezza ti avvolge, ti senti sprofondare in un oceano di pensieri, di ricordi, di parole sentite e di altre mai dette, ma desiderose di uscire il prima possibile. Fissando un qualsiasi oggetto che ti sta davanti, ti accorgi in realtà di guardare il vuoto, e intanto continui a pensare, a scavare in tutto ciò che la tua anima conserva, che la tua mente elabora a piccoli passi… Ma cos’è davvero la tristezza? Forse dipende da chi la prova, ma sono certa che fa parte integrante della realtà di ciascuno. Si può mettere fine ad essa? Perché no… Io ho sempre trovato una cura infallibile: l’immaginazione, il poter sognare luoghi ‘altri’, paralleli e vicini alla realtà, anche se fisicamente lontani, semplicemente perché vicini alla realtà che noi vorremmo. È questo il rifugio che ci ripara, quando tentiamo di scappare dalla realtà, quando abbiamo paura di cadere in qualcosa che non conosciamo, che potrebbe assalirci, torturarci e ucciderci… È giusto avere paura? Certo…Ma non di tutto. La realtà non deve farci paura, perché, per quanto ingenui possiamo essere di fronte a lei, noi abbiamo sempre una cosa che lei non ha, che teme particolarmente e che la distrugge… L’immaginazione. Anonima
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TROPPI PROBLEMI Ultimamente mi sento molto confusa. L’idea che mi assale continuamente è cosa fare del mio futuro. Ho paura di ciò che si riserva per me; cosa farò, finito il liceo? Dove andrò a vivere? Che occupazione troverò nel mondo del lavoro? Tutte preoccupazioni che forse non dovrebbero riguardare una ragazza di quasi diciassette anni come me. Forse queste idee continuano a vagare nella mia testa perché sono molto stressata a causa della scuola e di tutti gli impegni che ho, poiché ultimamente passo tutti i pomeriggi a studiare. Nonostante ciò, sembra che i professori non apprezzino il mio impegno e così... la confusione aumenta… Anonima LO SPETTACOLO DEVE CONTINUARE “The show must go on” cantavano i Queen, i miei cantanti preferiti. “Lo spettacolo deve continuare”. Mi rendo conto che quella frase avrei dovuto utilizzarla molte volte, farne il motto della mia vita, perché nei momenti difficili l’unico desiderio è sempre stato quello di sparire, di andarmene per sempre… Lacrime silenziose scendevano dai miei occhi, ogni giorno. Troppe volte era capitato in quei mesi. Troppe volte non avevo avuto la forza di reprimerle; avevo lasciato che irrigassero il mio volto stanco, svogliato, smunto. In momenti come quelli avrei voluto gridare con tutte le forze di cui disponevo, urlare la mia rabbia, distruggere ogni oggetto attorno a me, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era chiudermi in me stessa. Nei rari istanti di svago che mi concedevo, mi chiudevo nella mia stanza ad ascoltare musica. Accendevo l’mp3 e lo sintonizzavo su canzoni ‘spacca-timpani’ che mi aiutavano a
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dimenticare. Molte persone non immaginavano minimamente che dietro ad una studentessa modello si celasse tutto ciò. La mia media scolastica era ottima, me ne rendevo conto, ma volevo fare sempre di più, sempre meglio, per far vedere ‘chi ero’ alle persone che abitualmente si prendevano gioco di me. I miei genitori dicevano di non ascoltare quei ragazzacci e quelle ragazzacce, persone maleducate e superficiali a cui piaceva preoccuparsi solo dell’apparenza e non di tutto il resto. Non ce la facevo. Dentro di me un uragano mi stava devastando, stava distruggendo ogni mia piccola speranza, ogni piccolo successo, ogni sorriso. Mi stava soffocando. Vedevo lo studio come una ‘valvola di sfogo’. Per molta gente è rilassante praticare uno sport, danzare, guardare la televisione. Per me no: solo lo studio mi aiutava a rilassarmi. Però non era ‘normale’ che una persona passasse pomeriggi interi, fino a sera inoltrata, con la testa sopra i libri di scuola! Anch’io me ne rendevo conto, ma non riuscivo a distrarmi in nessun altro modo. Tutto il mondo attorno a me era come se non esistesse e la sensazione era di trovarsi dentro una bolla di sapone. La mattina, sempre lo stesso episodio. Sempre la stessa frase. “Mamma, ho vomitato”. La disperazione era nettamente chiara nei suoi occhi. Mangiare era diventato un sacrificio. Era come portarmi al patibolo. Credevo di avere delle amiche, mi fidavo di loro; eppure, nel periodo più brutto della mia vita mi avevano abbandonato: avevano preferito lasciarmi sola perché mi consideravano una ‘sfigata’, oppure semplicemente fingevano che andasse tutto bene, pur pienamente consapevoli che non era così. Un colpo davvero basso. Il tempo passava. Meno uno. Meno due. Meno tre… Meno otto. Meno nove. Sembra un conto alla rovescia, ma i numeri corrispondono ai chili persi nell’arco di poco tempo. Non volevo fare una brutta fine, ma ero nervosa, non riuscivo a mangiare. Sono stata una sciocca a non ascoltare le parole d’oro dei miei genitori che mi dicevano di lasciare perdere quelle
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persone, mi dicevano che non era necessario prendere ‘ottimo’ dappertutto. Volevano che mi facessi aiutare da qualcuno, ma io rifiutavo aiuti, sia a causa dei tanti pregiudizi che nutrivo, sia per l’ipocrisia delle persone ipoteticamente ‘amiche’ che non si stavano rivelando tali. Poi il miracolo. Il passaggio dalle medie alle superiori è stato l’inizio di una nuova avventura. Nuova città, nuova scuola, nuovi compagni di classe, nuova VITA! Ho trovato tre amiche vere. Amiche con la A maiuscola. Amiche che mi hanno aiutato da subito quando stavo male. Amiche che mi ascoltano, che mi rispettano, che non mi offendono per l’impegno che dedico alla scuola, che mi accettano per come sono. Ho avuto il coraggio di dire “NO” al dolore. Ho ritrovato la gioia di vivere. Mi sento ancora molto vulnerabile… Ci sono dei momenti in cui la ferita, apparentemente chiusa, si riapre e fa colare delle piccole goccioline di sangue come se mi volesse indietro, come se volesse di nuovo impadronirsi di me. Per ora, fortunatamente, la paura di ricadere nel vortice mi aiuta a trovare la forza e la volontà che prima non avevo; ma c’è un’altra cosa che mi sta aiutando moltissimo: ho trovato ‘lui’: la gioia dei miei occhi. Non servono parole per descrivere il nuovo sentimento che provo. Avevo sentito più volte parlare delle "farfalle allo stomaco", ma solo ora ho capito di che cosa si tratta. Lui non sa niente di me e la mia paura più grande è che mi possa considerare una ‘sfigata’. Ho paura che mi possa giudicare solo in base all’età o all’apparenza. Non sa di essere diventato una delle ragioni che mi fanno sorridere alla vita. Spero di poterglielo dire, prima o poi. Lo spettacolo deve continuare… In questo caso lo ‘spettacolo’ è… la mia vita. Valentina Simonella, 1CL
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IL MIO PAESAGGIO DELL’ANIMA! Che cosa c’è dentro di me? Direi che è una bella domanda, per una ragazza piena di emozioni come me. Premetto che sono del Sagittario: un segno che definiscono libero, indipendente, sempre alla ricerca di nuove emozioni; che talvolta vuole scappare senza una meta precisa, pur sapendo che non è la maniera giusta per affrontare i problemi. Questo è ciò che in effetti capita spesso anche a me: non riesco ad agire e ad affrontare i problemi di petto… Forse l’origine di tutto ciò è la mia scarsa autostima; infatti tendo in genere a confrontarmi troppo con gli altri e a farmi condizionare in modo negativo pensando che siano migliori di me. L’inizio del nuovo anno, però, mi ha cambiato profondamente, mandandomi un messaggio chiarissimo: “È ora che alzi la testa, perché tu vali! Non puoi continuare così!” Ora sono sicura di ciò che sono, e di ciò che posso fare. Grazie alla mia famiglia, grazie, soprattutto, al mio ragazzo. Anonima IL TEMPO Il tempo scorre, non si ferma mai per nessuno. Le persone spesso non si rendono conto che ore, giorni, mesi o addirittura anni sono ‘volati’ senza quasi lasciare traccia… Fino al momento in cui non si fermano a riflettere sul passato o qualcun altro non glielo fa notare, probabilmente continueranno a non ‘realizzare’. La vita bisogna viverla giorno per giorno, prestando attenzione a tutto ciò che ci circonda, ai minimi particolari; solo così si potrà apprezzare ogni minimo gesto, la reazione di coloro che ci stanno a fianco. Se si continuano a trascorrere le giornate pensando solo ai problemi, al futuro, prima o poi, quando ci si fermerà per un
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solo istante a riflettere, si capirà che in realtà si è persa una parte della vita, che non si è riusciti a godere tutte le fasi del lungo percorso che ci hanno resi ciò che siamo. È ora di fermarsi, di riflettere. Conosciamo tutto ciò che ci circonda? Anonima
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Paesaggi, 18
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A VOLTE… Descrivere i miei sentimenti non è semplice. A volte mi sento fiera di come sono e sono felice di essere me stessa. Altre volte sono triste e mi sento un peso per le persone che mi stanno vicine. A volte credo che la morte sia la soluzione ai miei problemi, poi però penso che la mia è un’idea egoista, perché le persone che mi stanno accanto mi vogliono bene e perdermi sarebbe un dolore grande. Quello che mi salva è pensare positivo e vedere il lato buono di tutto ciò che mi accade. Anonima CONTRASTI I sentimenti che caratterizzano il mio stato d’animo in questo periodo sono la serenità conferita dalla famiglia e dagli amici e l’amore verso le persone che hanno un peso importante nella mia vita. Questi sentimenti sono in contrasto con l’antipatia e il disprezzo che provo nei riguardi di determinate persone false e superficiali. Col tempo ho imparato a controllare queste emozioni negative e a renderle quasi neutre. Mi risulta impossibile però provare simpatia verso queste genere di persone. Cerco dunque di mantenere un certo equilibrio nella mia vita, facendo attenzione a non lasciarmi sopraffare dall’odio . Anonima
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NOSTALGIA Ogni tanto mi assale la nostalgia… Quando sono da sola spesso mi capita di pensare a tutto ciò che è passato e mi rendo conto che non lo posso più avere… Prendo in mano foto, lettere, biglietti del treno di una giornata a Venezia e i ricordi confusi mi avvolgono e creano un mondo tutto mio, dove solo io so ciò che ho provato in quel momento. A volte fa male, a volte fa ridere, altre volte fa piangere… Anonima RABBIA La rabbia ci fa fare cose che non vogliamo. Condiziona le persone tirando fuori il peggio di loro. Spesso è un sentimento incontrollabile ed è la conseguenza di situazioni che non sappiamo gestire. Anonima/o PAGO FRETTOLOSA E SCAPPO Pago frettolosa e scappo. Cerco di tornare sulle nuvole, ma dovrò aspettare forse domani, o forse dopodomani, o forse devo aspettare una settimana o forse un mese o un anno... Perché quella era felicità, gioia, e la felicità d'altronde non è che un effimero momento passeggero che dura troppo poco per essere gustato al cento per cento: a volte arriva così prepotente che ci stordisce. L'assuefazione è cosi forte che
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diventiamo dipendenti, che passiamo un'intera vita alla sua vana ricerca; un’intera vita e forse più alla ricerca della felicità. Cammino. Cammino e a pieni polmoni respiro. Respiro natura, odore di erba appena tagliata, odore di sole in alto nel cielo. Serenità. Mi circonda una folle serenità... Ma è solo serenità? No, credo che sia mescolata ad un briciolo di felicità! Continuo a camminare volteggiando come un aquilone, inebriata e stordita da questo senso di leggerezza. Quasi troppo inebetita per continuare a camminare, mi sdraio a pancia in su nell'erba. Osservo le nuvole, il sole, le nuvole, le nuvole... le nuvole così scontate nella nostra vita... Solo oggi mi accorgo di quanto sono belle e di quante forme riescono ad assumere: un cuore, un cervo, un cane... Che spettacolo mozzafiato! Resto sdraiata nella stessa scomoda posizione a contemplare le nuvole per non so quanto tempo, sempre con la stessa espressione: un sorriso stampato e due enormi occhi sognanti... Sognanti di vivere, di crescere, di vincere... Oh, Gesù! Mi sto sollevando dal suolo... Sto volando proprio come in Peter Pan… Sto prendendo il volo... Vado a toccare quelle nuvole tanto belle tanto lontane... Le sfioro, le accarezzo... Aiuto... aiuto... sto cadendo, sto precipitando...no no no... aiuto aiuto... “Prego…Avanti il prossimo!”, dice l'uomo allo sportello, seccato per la mia lentezza. Sabrina Pacchin, 4CL MOLTI INSEGNANTI NON LO CAPISCONO… La vita di uno studente non è mai semplice come appare agli occhi degli adulti. Non è facile saper gestire undici o più materie nell’arco di sei giorni alla settimana, come non è semplice comprendere i professori e accontentarli in tutto quello che vogliono. La nostra vita non è fatta solo di scuola e studio!
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Purtroppo molti di noi, quando arrivano a casa, non sempre trovano la tavola apparecchiata e il cibo pronto, mangiano e poi possono stare sui libri fino a sera! Molti di noi (me compresa) devono arrangiarsi in tutto. Ma questo molti insegnanti non lo capiscono: pensano che se un giorno non svolgiamo i compiti per casa è perché siamo pigri o avevamo di meglio da fare! Non si rendono conto che forse abbiamo bisogno pure noi, qualche volta, di staccare la spina, di non essere sempre in tensione per le infinite verifiche o interrogazioni! E così ecco una scusa nuova per farci sentire piccoli e insignificanti, quando fuori da scuola dobbiamo far vedere al mondo che siamo già abbastanza grandi per prenderci le nostre responsabilità. Fanno presto, loro, a dire che l’unico nostro pensiero deve essere la scuola, che dobbiamo sempre essere preparati in tutto! Ma io mi chiedo: voi insegnanti siete consapevoli di quanti problemi può avere una studentessa al di fuori della scuola? Se non lo sapete, vi informo che la vita non per tutti è sempre rose e fiori! No! E allora, sentirti dire da un professore che non fai mai niente, o che ti impegni sempre meno, quando per studiare la sua materia rimani sveglio per ore fino a tarda notte è la cosa più brutta che ti possa succedere. Allora cedi e ti pare inutile continuare a cercare il modo per accontentarli tutti; inutile cercare di farti vedere grande, immagazzinare problemi, ingoiare un rospo che cresce ogni giorno di più, perché prima o poi si esplode! Quando arriva quel momento, sai bene che è inutile parlarne, perché nessuno ti può capire: non si può provare compassione per una ragazza, quando fino al giorno prima l’hai uccisa con le parole, perché tu sei professore, sei grande e ‘studiato’, allora ti si deve portare rispetto… E il rispetto di cui abbiamo lo stesso sacrosanto diritto noi? Quello che calpestate ogni volta che dite che siamo dei buoni a nulla? Il nostro è cosi insignificante che potete dirci sempre quello che volete? Non pensate mai che con le vostre parole potete ferire qualcuno? Non ci pensate a quello che proviamo, dopo che ce la mettiamo tutta e non vediamo i
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risultati sperati? Ovviamente no, perché, secondo voi, noi a casa ci giriamo i pollici tutto il giorno, perché non facciamo nulla, perché dobbiamo capire che voi siete stanchi perché lavorate, noi invece no! Mi dà rabbia questo, e anche tanta, perché siete i primi a dirci di volerci venire incontro, ma allo stesso tempo ci umiliate appena potete! Forse non lo fate nemmeno con cattiveria, anzi: mentre sono certa che molti lo fanno proprio per il gusto personale di veder star male la gente, altri si comportano così senza secondi fini; ma il risultato è sempre quello: noi ci stiamo male! Lo capite?? Lo studente non ha bisogno di sentirsi dire in continuazione che non supererà mai l’anno, che nessuno della classe se non una se lo meriterebbe! C’è chi è davvero stanco di vedersi rinfacciare i propri limiti anche a scuola, come se non bastassero i genitori! Lo sappiamo, credetemi: sappiamo di non essere grandi, di essere ignoranti, di non potercela fare, ma forse, se ci siamo convinti che è la verità, è perché…gli adulti che abbiamo intorno non ci dicono altro che questo. Pare l’unico messaggio chiaro che riescono a trasmetterci. Domanda: noi studenti non saremo perfetti, ma voi credete davvero di esserlo? Deborah Ronchiato, 3BS NON CE LA FACCIO PIÙ! “Non ce la faccio più!” È questa la frase più ripetuta dagli studenti. Il perché è molto semplice: la scuola ormai è diventata un inferno e ogni classe sembra tramutarsi, giorno dopo giorno, in un manicomio. Molti alunni sono isterici, pazzi, a volte anche indomabili e a loro volta un po’ ‘strani’ diventano pure gli insegnanti. Le
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motivazioni spesso sono i troppi compiti e le troppe pagine da studiare. A causa di ciò, gli studenti arrivano a casa, mangiano, poi di corsa vanno a studiare per finire, il più delle volte, solo a sera. Il giorno successivo si ripete la stessa identica cosa: mattina a scuola, pomeriggio sui libri. Lo studente accumula così, dentro di sé, stanchezza, stress e rabbia, che però non può sfogare con coloro che l’hanno causata, ovvero i professori. Ecco il perché di quello stato d’animo ‘pessimo’ con cui gli studenti devono convivere, col rischio dell’esaurimento: patologia contagiosissima, che evidentemente colpisce anche gli insegnanti, i quali iniziano a caricare maggiormente gli studenti di compiti, provocando in loro ancora più rabbia. Dare agli alunni troppi compiti e assegnare loro libri da leggere in poco tempo non fa assolutamente bene: c’è il rischio che odino la cultura, anziché amarla, tanto che molti non riescono nemmeno più a leggere un libro con piacere. A proposito di libri: se i professori caricano gli studenti di compiti e di verifiche, dove trovano il tempo per leggere con piacere due libri in un mese? Fossero libri semplici, poi! Ad esempio, gli studenti che prendono un nove in filosofia o in qualche altra materia, perché non vengono premiati e per una volta ‘lasciati in pace’? No: devono leggersi un mattone di libro che magari non conosce neppure il docente che l’ha assegnato! E così la scuola diventa un manicomio per tutti: per i delusi, per gli arrabbiati, per coloro che sentono di non farcela… E non è per nulla un fatto strano vedere gente che piange, che urla o che sbatte i banchi o la porta, o assistere alla reazione di certi professori, impassibili di fronte a queste scene. Due sono le vie per fare in modo che gli studenti riescano ad andare avanti: o farsi scivolare tutto addosso, o cercare di prenderla sul ridere; in poche parole gli alunni dovrebbero imitare gli atteggiamenti di alcuni professori, ovvero essere indifferenti a tutto e meno umani possibile.
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Oppure devono pensare tutti i giorni che, grazie al cielo, esistono un sabato e una domenica durante i quali possono divertirsi, vocabolo pressoché ignoto durante la settimana! Anonima, 5BS
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ERO DA SOLO, UN GIORNO, SUL CIVETTA… ELOGIO DELLA FATICA
Alcuni anni fa, quando la forma fisica me lo consentiva meglio, riuscivo ad arrampicare bene in montagna. Nessun libro di alpinismo mi ricorderà, per fortuna, ma le cime delle Dolomiti mi hanno fatto compagnia quasi tutte, e da lì sopra ho visto molte albe e molti tramonti. La solitudine e la fatica sono sempre state mie amiche. Non cadit qui non salit. Una volta sono andato, da solo, in cima al Civetta. Ho camminato prima dell’alba al buio, in mezzo ai sassi. Le canne d’organo del Civetta accompagnavano il mio salire con il fiato corto e il vento teso. Qualche corvo lanciava nel silenzio il suo lamento sgraziato, e non avrei mai pensato che l’erba facesse così rumore sotto gli scarponi. I monti, diceva Goethe, sono maestri muti e creano discepoli silenziosi.
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Arrivato sotto alla parete, ho arrampicato a lungo. A mezzogiorno ero su. Me ne sono stato lì, in cima, da solo per un paio d’ore, a guardare. Non c’era anima viva da nessuna parte. Volgevo lo sguardo sulle pietraie, lungo i canaloni. Mi immaginavo di percorrerle in tutti i loro anfratti, di passare su ogni spuntone, di girare attorno ad ogni masso silenzioso. Ho sentito il sole che mi scaldava la pelle, il vento mi era compagno. Ero solo, eppure così in armonia con la grandezza, piccolo, ma guardavo dall’alto, come il viandante sul mare di nebbia di Caspar Friedrich. Quando sono sceso, sempre da solo, ho lasciato un lembo della mia anima lassù. Credo che molti ragazzi abbiano paura della solitudine, perché sentirsi soli invita a scavare nell’anima, e noi a volte temiamo di trovarvi cose che non vogliamo trovare. Ma senza affrontarle non saremmo uomini, e crescere sarebbe solo aumentare di statura. Nelle pagine di questa raccolta, I Paesaggi dell’anima, c’è una parola che sporge dall’anima dei ragazzi che abbiamo la fortuna di avere accanto. Fatica. La solitudine e la fatica la fanno da padrone e, in fondo, a pensarci, noi insegnanti siamo testimoni principalmente della fatica dei ragazzi. Nel prisma multicolore delle loro personalità mancano all’appello le gioie, gli affetti, spesso anche qualche parola di confidenza, salvo le rare volte in cui condividiamo con loro la cena, un panino, una settimana all’estero, o due chiacchiere in cortile. Fare fatica spaventa, perché nell’immediato non se ne vede il senso, anche se essa conduce sempre altrove. Porta con sé questa forma ambigua la parola latina labor, che ad un tempo richiama la cura, la sollecitudine, la fatica spesa per ottenere qualcosa, l’affanno e il lavoro, fino alla malattia che incombe sulla vita (valetudo durescit, accrescit labor, la salute ne va e aumenta la malattia)1, ma anche l’opera compiuta attraverso questo sforzo e l’ingegno e l’operosità per farlo (laboriosus). La forma arcaica di questa parola è labos, che nel mondo latino antico è anche una divinità degli inferi (Labos), la 1
Plauto, Curculio, Atto II, scena I, 4, 219.
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pena eterna per chi scende tra le anime bianche. Il mondo degli uomini è infatti pieno di labores, di fatiche, di patimenti, che sembrano non condurre che alla pena. C’è un episodio bellissimo, nell’Eneide, che vede come protagonista proprio Enea, nell’ultimo libro, il dodicesimo, assieme a suo figlio Ascanio, su cui vorrei farvi riflettere. Si sta consumando l’ultimo duello tra Enea e Turno, re dei Rutuli, dopo una durissima battaglia, e l’eroe troiano vuole lasciare un messaggio in eredità al figlio prima di combattere, sapendo che può non ritornare. L’Eneide è piena di traversie, labores, fatiche appunto: sono tali quelle delle donne troiane costrette a scappare, e dei loro uomini che si sono dati alla fuga. Sono fatiche anche le varie peregrinazioni di Enea nel terzo libro, quando scappa (tantos labores), e l’incessante errare prima di trovare un approdo (fugae labor). Anche gli dei sembrano schiacciati dalla fatica degli uomini quando abbandonano le loro sembianze sacre e ne prendono il corpo. E quando Enea scende agli inferi, gli appare la personificazione di questa fatica umana, Labos, la Pena, il guardiano dell’inferno, che sta davanti alla sua porta assieme agli altri figli dell’Erebo e della Notte. La fatica a cui voi, ragazzi, fate nelle vostre righe riferimento sembra solo questa, la condanna senza appello a penare per qualcosa di cui non si intravede misura. Ma le parole di Enea sono un lampo nel buio per capire. Al piccolo Ascanio, puer, che teme per la vita del suo papà, Enea dice così: Disce, puer, virtutem ex me verumque laborem, fortunam ex aliis.2
Provo a tradurlo lasciando le parole il più vicino possibile alla lettera, perché si capisce meglio, anche a costo di qualche durezza poetica in più: Impara, bambino mio, da me la virtù e la vera fatica la fortuna dagli altri. 2
En., XII, 435-436.
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Ecco, questo è il messaggio della fatica. La fatica è l’ombra della virtù, quella parte meno visibile ma necessaria senza la quale non sapremmo come arrivare e dove arrivare. Qui virtus, virtù, è parola antica: non vuol dire ancora qualcosa di morale (come nel cristianesimo), non indica un atteggiamento dell’animo, ma è più concreta, come concreti erano i popoli di una volta. La virtus antica è un’abilità messa a fuoco mediante un esercizio continuo ed incessante, e ricalca la parola greca da cui trae origine, areté, che vuol dire nel greco arcaico la stessa cosa. Se vuoi diventare uomo capace di fare, la vera fatica conduce alla virtus. “Impara da me, figlio mio, che la vera fatica conduce a diventare esperti delle cose solo con l’esercizio. Lascia agli altri la fortuna.” Capiamo allora l’origine arcaica e saggia della fatica, labor, dalla radice sanscrita rahb-, afferrare, e il suo composto sanscrito a-rahb-, iniziare un combattimento, intraprendere un viaggio. Nel greco la parola che deriva da questa radice ricorda i contratti e i commerci, la radice alph-, che nel suo participio élphon significa guadagnato, nella parola affine àlphema indica la somma guadagnata di un contratto, e nel verbo alphàno o alphàino indica il guadagno alla fine di un percorso o di un commercio (dalla radice sanscrita arghah-, valore). La fatica è la lotta della vita per arrivare dove vogliamo, è il viaggio che la nostra anima intraprende per cogliere con impegno ciò che la vita ci riserva, e ciò che la vita ci riserva vale, è valore. Vivere è valore, e il valore si guadagna con la fatica. Vale la pena vivere, e fare fatica per vivere, per afferrare alla fine il gusto di questo vivere e della fatica per farlo. Enea dice a suo figlio che dietro ad una vita virtuosa c’è il verum labor, la vera fatica: l’uomo, e la donna, che la esercita, lo fa con dedizione e sacrificio. Allora c’è un senso alla fatica, un’ultima meta: alla fine delle nostre peregrinazioni di vita c’è la quies, la quiete. Anche Enea avrà una sua quiete, la città che dovrà fondare, Roma. Lì c’è il riposo dai travagli, requies
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laborum, il riposo dalla fatica3: “Impara, bambino mio, da me la virtù e la vera fatica / la fortuna dagli altri.”4 Sono stato nella mia vita in cima alle cattedrali di pietra, alle cattedrali dello spirito e a quelle delle idee. Ogni volta mi sono fermato ad ascoltare, e ho imparato. Grazie per le vostre pagine, ragazzi, vi devo molto, perché senza qualcuno che ha sete l’acqua perde importanza. Quando sono sceso da ogni altezza e da ogni fatica, sempre da solo, ho lasciato ogni volta un lembo della mia anima lassù, e il riaverla intera mi costringe ogni giorno a rifare la strada. Se ci passate, ragazzi, se passate da quelle parti, tra le idee dei grandi uomini che ci hanno preceduto, le preghiere di chi ha creduto, i versi alti di chi ha scritto, i colori di chi ha visto, la musica di chi ha sentito, e le rocce di chi è salito, tra qualche mese, tra qualche anno, cercatelo, ve ne prego. È ancora lì, in mezzo alle pietre e al vento, a ricordarmi, e a ricordarvi, chi siamo, e dove andiamo. Se cercate con cura, con la fatica che temete e che invece vale, e in silenzio, assieme al mio troverete anche il vostro. Prof. Dario Schioppetto Docente di Filosofia e Scienze Sociali
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[…] is locus urbis erit, requies ea certa laborum, “quella sarà la sede della città, quella la quiete sicura dopo le fatiche” (III 393). 4 Sono debitore di alcuni spunti per questa analisi dei versi al lavoro di Italo Lana, Virgilio e la felicità. Atti del convegno nazionale di studi su Virgilio (Torino 1-2 maggio 1982), a cura di R. Uglione, Torino, AICC, 1984, pp. 3553; Quid de felicitate Vergilius senserit, in “Atene e Roma” n.s. 29, 1984, pp. 56-69.
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Paesaggi, 19
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Indice Note e ringraziamenti ………………………………………………..……. Introduzione ………………………………………………..……………………. Paesaggi, 1 ………………………………………………..………………………. L’inquietudine ……………………………………………..………… Paesaggi, 2 ………………………………………………..………………………. Paesaggi, 3 ………………………………………………..………………………. La fatica ………………………………………………………..………… Paesaggi, 4 ………………………………………………..………………………. Paesaggi, 5 ………………………………………………..………………………. Paesaggi, 6 ………………………………………………..………………………. Paesaggi, 7 ………………………………………………..………………………. Paesaggi, 8 ………………………………………………..………………………. La speranza ………………………………………………….…………. Paesaggi, 9 ………………………………………………..………………………. La paura ……………………………………………..…………………… Paesaggi, 10 ………………………………………………..…………………….. La solitudine ……………………………………………..……………. Paesaggi, 11 ………………………………………………..…………………….. L’amicizia ……………………………………………..…………………. Paesaggi, 12 ………………………………………………..…………………….. Paesaggi, 13 ………………………………………………..…………………….. Altri paesaggi ……………………………………………..………….. Paesaggi, 14 ………………………………………………..…………………….. La gioia ……………………………………………..…………………….. Paesaggi, 15 ………………………………………………..…………………….. L’amore ……………………………………………..…………………… Paesaggi, 16 ………………………………………………..…………………….. Bullismo e sofferenza ………………………………..………….. Paesaggi, 17 ………………………………………………..…………………….. Sentimenti ……………………………………………..………………. Paesaggi, 18 ………………………………………………..…………………….. Elogio della fatica ………………………………………..………… Paesaggi, 19 ………………………………………………..…………………….. Indice ……………………………………………..…………………………………..
p. 7 p. 9 p. 13 p. 19 p. 35 p. 43 p. 44 p. 67 p. 75 p. 91 p. 121 p. 135 p. 137 p. 143 p. 145 p. 157 p. 159 p. 165 p. 168 p. 169 p. 173 p. 175 p. 179 p. 181 p. 183 p. 185 p. 191 p. 194 p. 203 p. 213 p. 227 p. 235 p. 241 p. 242
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Questo volume è stato stampato in proprio dall’Istituto Marco Belli di Portogruaro il 17 giugno 2011, in occasione della cerimonia di intitolazione di un’aula in memoria del prof. Angelo Benvenuto, carissimo amico e collega, maestro di pensieri e riflessioni di tanti allievi, compagno di strada di tutti noi, prematuramente scomparso.
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